PROGRAMMA NAZIONALE DI RICERCA BENI CULTURALI (MIUR) LA CONSERVAZIONE DEI TESSUTI ANTICHI EZIO MARTUSCELLI I COLORANTI NATURALI NELLA TINTURA DELLA LANA ARTE, STORIA, TECNOLOGIA E “ARCHEO-MATERIALS CHEMISTRY” COLLANA DI TRASFERIMENTO E DIFFUSIONE VOLUME SECONDO L’autore ringrazia G ENNARO G ENTILE , S ALVATORE GRANATA, F RANCESCA MANSI FORLANI, che con la loro collaborazione hanno contribuito alla realizzazione del presente volume. INDICE PAG. Introduzione al Secondo Volume ............................................................ I CAPITOLO PRIMO L’ARTE DELLA TINTURA DELLA LANA CON COLORANTI NATURALI: DALLA PREISTORIA ALLA SCOPERTA DEI COLORANTI SINTETICI ........................1 A) Coloranti di origine vegetale usati nella tintura della lana ............ 16 A1) Piante dalle quali si estraevano i “rossi” ............................... 16 A2) Piante dalle quali si estraevano i “blu” ................................. 33 A3) Piante dalle quali si estraevano i neri e i bruni ..................... 44 A4) Piante dalle quali si ricavavano i gialli, verdi, arancio, noce, cannella e altri colori ....................................... 47 B) Materie coloranti naturali di origine animale usate nella tintura della lana ............................................................................. 79 B1) Porpora reale ........................................................................... 79 B2) Rossi ......................................................................................... 83 C) Blended colours .............................................................................. 92 D) L’abbinamento lana-colore in manufatti di interesse storico-culturale ed artistico. L’evoluzione del colore nei tessili attraverso l’analisi dell’iconografia storica .......................... 94 Riferimenti .......................................................................................... 161 CAPITOLO SECONDO CLASSIFICAZIONE DEI COLORANTI NATURALI IMPIEGATI NELLA TINTURA DELLA LANA E RELATIVO RUOLO DEI MORDENTI ........................................ 167 A) Classificazione dei coloranti naturali in base alla tipologia del processo tintorio ................................................................167 A1) Coloranti diretti o sostantivi ...................................................167 A2) Coloranti al mordente o aggettivi ...........................................169 A3) Coloranti al tino ......................................................................178 B) Classificazione dei coloranti sulla base della loro struttura chimica ......................................................................................184 Riferimenti .......................................................................................... 203 CAPITOLO TERZO TECNICHE E METODOLOGIE PER LA IDENTIFICAZIONE DEI COLORANTI E DEI MORDENTI IMPIEGATI NELLA TINTURA DI TESSUTI DI INTERESSE STORICO-ARTISTICO-CULTURALE .......................... 205 A) Metodi di analisi dei coloranti in tessuti di interesse storico-artistico-culturale .................................................................. 207 A1) Metodi Spettroscopici – Analisi spettrochimiche ................... 207 A1,1) Spettroscopia elettronica – Spettrofotometria UV-VIS in soluzione ..................................................... 209 A1,2) Spettroscopia vibrazionale – Spettrofotometria all’infrarosso (IR) e in trasformata di Fourier (FTIR) ........................................................................... 213 A1,3) Spettroscopia Raman .................................................... 217 A1,4) Tecniche di microanalisi: microspettrofotometria in riflessione e in trasmissione e microfluorimetria ................................................................... 218 A1,5) Spettrofluorimetria ai raggi X e microscopia elettronica a scansione combinata con la spettroscopia a dispersione di energia ai raggi X ............. 220 A2) Metodi cromatografici ............................................................ 225 A2,1) Cromatografia su strato sottile (thin-layer chromatography) (TLC) ............................................... 226 A2,2) Cromatografia liquida ad elevate prestazioni (HPLC) ......................................................................... 232 A3) Riconoscimento dei coloranti mediante processi estrattivi selettivi e successive reazioni chimiche .................. 245 Riferimenti 259 INTRODUZIONE AL SECONDO VOLUME DELLA COLLANA DI TRASFERIMENTO E DIFFUSIONE I COLORANTI NATURALI NELLA TINTURA DELLA LANA ARTE, STORIA, TECNOLOGIA E “ARCHEO-MATERIALS CHEMISTRY” Il presente volume, il secondo di una serie, è parte integrante della Collana, edita dal Consorzio CAMPEC, la quale ha come obiettivo il trasferimento e la diffusione delle conoscenze acquisite e dei risultati ottenuti nell’ambito del Progetto “Nuovi Materiali Polimerici e Tecnologie Eco-Sostenibili per Preservare, Conservare e Restaurare Tessili e Pietra”, co-finanziato dal MIUR [Piano Nazionale – Beni Culturali, D.M. 457/Ric., 05.03 (1998)] * Nel Volume Primo della collana, nel descrivere le relazioni tra proprietà e struttura, è stata analizzata, tra l’altro, la dipendenza delle caratteristiche tintoriali dalla particolare natura composita e proteica delle fibre di lana. Nella presente opera l’Autore, avvalendosi anche di una ricca documentazione e di una rara iconografia, delinea l’evoluzione, dalla preistoria fino alla scoperta dei primi coloranti di sintesi, dell’arte della tintura della lana basata sull’utilizzo dei coloranti naturali (di origine vegetale o animale). In particolare vengono messi in risalto, secondo un originale approccio integrato, gli aspetti storici, archeologici, tecnologici, industriali, artistici e socioeconomici con prevalente riferimento alle regioni del Medio Oriente, del Mediterraneo e dell’Europa. I coloranti naturali, impiegati nel corso dei secoli, sono suddivisi in base al tipo di colore che erano capaci di conferire alla lana. Inoltre, per ognuno di essi, viene indicata l’origine, le tecniche estrattive, il processo di tintura e la natura chimica dei mordenti eventualmente utilizzati. Il meccanismo e il chimismo del processo tintorio sono deluci- * Le finalità della collana sono state ampiamente illustrate nell’antefatto al primo volume [E. Martuscelli, Relazioni Proprietà – Struttura nelle Fibre di Lana, CAMPEC – NAPOLI – (2003)]. I dati sulla base dei moderni fondamenti della chimica organica. Partendo da antiche ricette tintorie, recuperate dai pochi testi pubblicati sull’argomento nel corso dei secoli e da studi di letteratura che descrivono le modalità di riconoscimento dei coloranti utilizzati nella tintura di antichi tessuti, l’Autore dimostra come, applicando i principi di quella nuova branca della scienza, denominata “Archeo-Materials Chemistry”, sia stato possibile determinare la natura chimica della materia colorante presente nelle piante o negli animali, identificare le trasformazioni chimiche che portano all’ottenimento delle molecole di colorante e la tipologia dei legami in base ai quali queste ultime si legano alle macromolecole proteiche costituenti le fibre di lana. Nel volume sono illustrate le più moderne metodiche di analisi strumentale e chimiche atte al riconoscimento della struttura chimica dei coloranti naturali e dei mordenti presenti in tessuti antichi di interesse storico-culturale. Esempi di applicazione di queste metodiche per l’individuazione dei principi coloranti usati in antichi reperti tessili ritrovati durante gli scavi di Pompei, Ercolano, Scafati e di Bakchias (Egitto), sono riportati e descritti nei loro dettagli. Lo sviluppo di recenti procedimenti di estrazione dei coloranti vegetali e animali e la messa a punto di processi di tintura, condotti in maniera controllata, ha permesso di verificare i principi chimici che sono alla base delle vecchie procedure tintorie. Attraverso una accurata analisi basata su reperti archeologici e/o su tessuti di grande interesse storico-artistico e culturale e con il supporto di una abbondante iconografia, è stato possibile risalire alla tipologia dei coloranti naturali più ampiamente usati nel corso dei secoli nella realizzazione di tessuti, tappeti, arazzi, drapperie, ecc. L’opera vuole essere un interessante strumento attraverso la cui lettura sia possibile, agli esperti di conservazione dei tessuti antichi, ai docenti e discenti di corsi e di master sui beni culturali, documentarsi sugli aspetti storici, archeologici e tecnologici che riguardano quella che è passata alla storia come Arte della Tintura, attraverso la cui applicazione i maestri tintori hanno contribuito, in maniera determinante, alla creazione di veri e propri capolavori, i “tessuti artistici”, che sono oramai parte integrante del patrimonio culturale in quanto documenti utili e spesso unici a tramandare la storia di popoli e nazioni. II CAPITOLO PRIMO L’ARTE DELLA TINTURA DELLA LANA CON COLORANTI NATURALI: DALLA PREISTORIA ALLA SCOPERTA DEI COLORANTI SINTETICI. La tintura di fibre e tessuti ha rappresentato, fin dai tempi remoti, una delle più interessanti attività creative dell’uomo. L’evoluzione delle tecnologie tintorie, basate sull’impiego di coloranti naturali, rappresenta un affascinante capitolo della storia dell’umanità. I maestri tintori, pur in assenza di una base scientifica, svilupparono, attraverso i secoli, sofisticati processi mediante i quali fu possibile produrre vere e proprie opere d’arte (stoffe, costumi, tappeti, arazzi ecc.). «The primitive coloring process must have simply consisted of boiling the dyestuffs in water and then introducing the textile sample to be dyed or colored. Only some direct knowledge about the deying tools and techniques used by the ancients has survived to the present time. These old techniques were a closely guarded trade secret as they were passed down from father to son over the centuries» [1]. Dalla lettura di testi storici e di antiche documentazioni, e dall’esame dei pochi reperti archeologici, si ricava che, già alcuni millenni prima dell’avvento dell’era cristiana, la tintura dei tessili fosse sviluppata in varie regioni quali: la Cina, l’India, la Persia, la Mesopotamia, la Palestina, l’Egitto e l’America del centro-sud. Erodoto, Strabone e Plinio hanno scritto che in India, non solo si praticava la tintura dei tessuti ma anche la stampa. E’ molto probabile che l’arte del tingere le fibre tessili fosse praticata fin dalla preistoria e che sia nata e progredita con l’evolversi della filatura e della tessitura. «We may never know where the art of dyeing originated or which people were the first to dye their textiles. It is most probable, …, that this craft was discovered in each geographical region independently. Historical evidence indicates that in antiquity China, India, and Persia had established skills for decorating or coloring textiles. Chinese silk-dyeing, Indian cotton-dyeing, Egyptian linen dyeing, and dyeing of wool in Mesopotamia, were all well practiced in antiquity. Traders and merchants, especially the Phoenicians, had undoubtedly helped spread local 1 dyeing techniques, dyestuffs, and dyed cloths from one area to another. Wars and conquests in ancient times, which forced craftsmen to move from one country to another, had also helped disseminate dyeing techniques» [1]. Lo sviluppo della filatura, tessitura e tintura delle fibre e dei tessuti, nei paesi del Mediterraneo, nell’antica Mesopotamia e in particolare nel mondo semitico trova, nella Bibbia, una importante fonte di notizie. In particolare, rilevanti informazioni relativamente ai processi tintori, sono contenute in quelle parti dell’antico testamento, che coprono un periodo storico che va dall’esodo degli Ebrei dall’Egitto (1250 a.C.) alla caduta di Gerusalemme (586 a.C.); evento, quest’ultimo, che segnò la fine della monarchia e dell’indipendenza politica del popolo ebraico. Nella società semitica le donne avevano un ruolo molto attivo nella produzione domestica dei tessuti; a titolo esemplificativo vengono qui di seguito riportati alcuni passi del libro dei Proverbi (XXXI, 13-25): «Essa, (la madre di famiglia-n.d.A.) procuratasi della lana e del lino, li lavora con le sue mani abili … non fa spegnere durante la notte la sua lucerna, mette mano a lavori utili e le sue dita maneggiano il fuso … Si è fatta una veste ricamata e il suo vestito è di bisso e di porpora … Essa fa dei finissimi tessuti e li vende, e delle cinture le dà al Cananeo». Tessuti variamente colorati prodotti nelle Indie sono citati nel libro di Giobbe. In particolare nel Pentateutico è scritto: «Fu fatta una coperta di velli di montone tinti in rosso, sopra la quale ne fu messa un’altra di colore violetto (Esodo cap. XXXVI) … All’ingresso dell’atrio fece una tenda con ricami di giacinto, di porpora, di scarlatto e di bisso ritorto (Esodo cap. XXXVIII)». Inoltre viene citato un certo Achimase, appartenente alla tribù di Dan, che eccelleva per la sua capacità di produrre tessuti, anche ricamati, tinti in giacinto, porpora e scarlatto [2]. Sempre nella Bibbia (Giosuè VII, 21) si racconta che: «durante la conquista della città di Ai, da parte degli Ebrei (c.a. 1400 a.C., n.d.A.), un certo Acan trovò, insieme con altri oggetti di valore, uno splendido mantello scarlatto di Sineor: l’appropriazione indebita di questo mantello costò anzi la vita ad Acan che fu lapidato … e sepolto insieme con il mantello …» [3]. Una serie di scoperte archeologiche hanno evidenziato che in Palestina, in età pre-cristiana, le attività di filatura, tessitura e di tintura erano con2 Fig. 1: Ricostruzione grafica di uno stabilimento tintorio ritrovato a Tell Beit Mirsim (Israele; ca. 700 a.C.) [Rif. 4]. centrate in alcuni centri che si configuravano come dei veri e propri agglomerati di natura proto-industriale. Nella località di Gezer erano presenti molte tintorie a dimostrazione di una fiorente attività tessile che, evidentemente, si avvantaggiava dell’estensivo allevamento di ovini nella regione e anche delle possibilità di potere commerciare i manufatti stante la sua posizione geografica che la vedeva collocata su una delle più importanti vie che collegavano l’Egitto con le regioni a nord della Palestina. La città di Migdal-Gad, vicina al lago di Tiberiade, per la presenza di importanti attività tintorie è passata alla storia con il nome di “Magdala dei tintori”. La località di Luz, presso Sechem era famosa per la produzione di stoffe di lana colorate in blu. I resti di una trentina di officine tintorie (ca. ottavo secolo a.C.), ritrovati a Tell Beit Mirsim, hanno permesso di ricostruire la configurazione di un tipico laboratorio per la tintura di tessuti e fibre in lana (figura 1). Per il bagno di tintura venivano usate delle vasche ricavate da grossi blocchi di pietra a forma cilindrica (figure 2 e 3) [4, 5]. «The dye vats are particularly interesting. Each consists of a large stone cylinder with a flat top, which has a smallish hole in the middle leading 3 down into a “relatively small and roughly spherical basin, between 30 and 45 cm in diameter”. Around the rim of the flat top was chiseled a circular groove, obviously to catch the dye, which ran back into the vat through a connecting hole that could be stopped up by small stone … The top of the vat was designed wide and flat so as to provide a convenient surface on which to press the excess dye out of the yarn, just as it was lifted from the vat; the incised channell with its hole leading back into the pot would make a very efficient salvaging mechanism» [5]. Fig. 2: Ricostruzione grafica delle vasche in pietra ritrovate nei resti di una tintoria dell’antica Israele [Rif. 4]. Fig. 3: Una delle vasche di tintura ritrovate nell’antica città di Tell Beit Mirsim (Israele; ca. 700 a.C.) (per la sua descrizione vedasi testo) [Rif. 5]. 4 L’archeologo inglese W. Flinders Petrie così descrisse un complesso tintorio (figura 4) scoperto durante gli scavi, in Egitto, dell’antica città di Athribis (odierna Shâq): «The two entrances of the dyer’s workshop are the south. One leads to a room with a large well in the middle, and a bench along the west wall. This tiles above the bench, probably to receive the splashing of water. North of the well was a square pit, about three feet. The sides were of very rough brickwork, uncemented; and it seems likely it was with lead as a cistern. There are three vats in the bench on the north, and beyond the cistern the bench passes into the vat room, with sixteen vats in the raised bench along the sides. These vats are lined with cement and deeply stained. Most of them are black blue with indigo, and some are red. In this northern room the roof was carried by two pillars. To the west was a room, probably for business with customers, and giving access by a stairway to the upper storey, now destroyed. The great quantity of weaver’s waste found in the rubbish piled against the temple, shows that much manufacturing was done in the town; hence large dye-houses would be required» [6]. Fig. 4: Pianta dello stabilimento tintorio ritrovato ad Athribis, Antico Egitto [Rif. 5]. 5 Una delle più antiche evidenze di tessuti in lana colorata consiste in un frammento ritrovato nella: «Cave of Treasure at Nahal Mishmar in the Judean desert (Israel). These small cloths date from the Chalcolithic period (4th millennium) and are reported to include red, green (possibly intrusive), black and tan or yellow (probably natural colors)» [1]. Accurate analisi di natura chimica e fisica, effettuate su tessuti ritrovati in scavi archeologici, in Egitto, hanno permesso di concludere che già nel 2500 a.C. gli egiziani fossero a conoscenza delle metodologie relative a processi tintori che essi applicavano principalmente su fibre e tessuti di lino e lana. In alcune tombe egiziane sono stati ritrovati dei gomitoli di lana, risalenti all’incirca al 2000 a.C., colorati in rosso e blu [7]. Il principio colorante, di origine vegetale, più usato sembra che venisse estratto dallo zafferano; mentre la ruggine era impiegata come pigmento minerale-inorganico. E’ ben noto che l’ “arte della lana” si sia sviluppata nell’antica Mesopotamia. Questa regione pianeggiante, che si estendeva tra i due fiumi, di storica importanza, il Tigri e l’Eufrate, era divisa in due distinte aree: al Nord la Mesopotamia propriamente detta; al sud la Babilonia (più tardi chiamata Caldea) meno vasta ma più fertile della prima. Il ritrovamento ad Ur (antica città sul fiume Eufrate) di alcune tavolette di terracotta, risalenti al 2200 a.C. conferma quanto sopra scritto. Infatti queste tavolette, coperte di scritture, con caratteri cuneiformi, rappresentavano una specie di “giornale” dei tessitori di quella città. In esse erano contenute una serie di notizie che si riferivano ad una “manifattura” finalizzata alla confezione di tessuti che venivano indossati principalmente dai sacerdoti del Tempio. Il fatto che l’attività tessile occupasse una grande rilevanza nel sistema socio-economico babilonese si ricava anche dal fatto che, secondo quanto riportato da alcuni storici, i tessitori fossero raggruppati in diverse categorie a seconda che trattassero la lana, il lino oppure i processi tintori. Al contrario di quanto avveniva nell’antico Egitto dove la tessitura del lino rappresentava la principale attività tessile, nella Mesopotamia era fortemente prevalente, sia in termini qualitativi che quantitativi, l’industria laniera e tintoria. «Ciò non è dovuto soltanto alla natura del suolo, particolarmente favorevole all’allevamento dei montoni, ma anche al gusto di queste genti, che ben diverso da quello degli egizi» [3]. 6 Il colore delle lane utilizzate nelle antiche manifatture delle città della Mesopotamia «era senza alcun dubbio molto vario e la ricchezza e la brillantezza delle tinte, veramente notevole. Lo hanno rivelato i resti di maioliche dipinti e gli affreschi scoperti in varie località» [3]. La lana veniva tinta dai Babilonesi allo stato di fiocco, quindi prima della filatura. I colori più diffusi e ricercati erano i rossi (in varie tonalità), il blue-porporino e il violetto oro. Secondo F. Brunello è probabile che le varie tonalità di giallo fossero ottenute da una materia colorante che si estraeva da una pianta denominata “Saba”, per la quale non è stato possibile risalire alla specie vegetale [3]. «La varietà dei colori, unita alla ricercata finezza dei ricami e alla complessità dei motivi di disegno doveva conferire una straordinaria bellezza alle vesti babilonesi. Del resto in epoca romana si parla … con ammirazione degli ornamenti babilonesi. … La progredita tecnica dei tessitori mesopotamici …, ci induce a pensare che l’industria tessile laniera in quella regione dovette raggiungere nell’antichità uno sviluppo ed una diffusione forse superiore a quella che le testimonianze finora pervenuteci ci consentano di provare con certezza» [3]. Le pratiche tintorie, insieme alle materie coloranti impiegate, trovano ampio spazio anche in antichi testi sacri di origina ebraica quale il Talmud di Gerusalemme. Nello “Shabbat” è riportato, infatti, che i tintori portavano dietro l’orecchio, quale elemento di riconoscimento, una banda di lana colorata. Il trattato dello “Shevi’it” contiene addirittura un intero capitolo dedicato ad una sezione botanica dove sono descritte le piante dalla quali venivano ricavati i principi coloranti usati, all’epoca, per la tintura dei tessuti [1]. Fonti storiche ebraiche fanno spesso riferimento ai tre colori “biblici” fondamentali, detti anche “colori sacramentali” (rosso, blu-porpora e rossoporpora) che venivano impiegati per tingere la lana usata nella confezione degli abiti dei sacerdoti e dei tessuti con i quali si usava adornare il tempio. Pare che per conferire alle fibre di lana queste colorazioni si facesse uso dei principi coloranti che si estraevano da un insetto (tola’atha-shanicolore rosso) e da alcuni tipi di molluschi (tekhelet e argaman, rispettivamente per il blu-porpora e per il rosso-porpora) [1]. Uno dei più importanti processi di tintura della lana, caratteristico dell’area mediterranea, era quello basato sull’impiego di una materia colorante, la 7 porpora, che, come sarà descritto in seguito, si estraeva, mediante un complicato processo, da alcuni molluschi marini, quale il Murex Brandaris [8]. Circa la scoperta e la diffusione della porpora, passata alla storia con il nome di “porpora di tiro” o “porpora tarantina”, perché la città di Taranto rappresentò per molti secoli il maggiore centro di produzione e lavorazione del mediterraneo, F. Brunello ha scritto: «La mitologia, la storia e l’archeologia sono concordi nell’attribuirla a Fenici (la scoperta della porpora n.d.A.); secondo Feldhaus invece nel 1600 a.C. si sarebbe estratta la porpora a Creta, mentre i Fenici ne avrebbero iniziato l’impiego solo verso il 1440 a.C.; comunque secondo la tradizione e da testimonianze di antichi scritti si vorrebbe che la scoperta sia stata fatta nella città di Tiro, che proprio dalla tintura delle vesti con la porpora trasse la sua fama e la sua ricchezza» [2]. Il processo della tintura delle stoffe di lana, secondo quanto riportato dallo storico E. Curtius nella sua “Storia Greca”, pare che sia stato introdotto in Grecia dai Fenici, contemporaneamente al culto di Afrodite [2]. Intorno al VI secolo a.C. erano attive botteghe di tintori, dove si praticava la tintura della lana con la porpora di Tiro (o tarantina), a Creta, nella Tessalia, a Melibea e in Beozia e lungo la costa del Golfo di Corinto. Il processo tintorio dei tessuti di lana che utilizzava la porpora, era ben noto ai romani e particolarmente diffuso a Pompei a dimostrazione del fatto che intorno all’inizio dell’era cristiana, questa procedura era praticata in molte regioni del bacino del mediterraneo. I tessuti tinti con la porpora erano molto costosi, «anzitutto perché era necessario un numero enorme di conchiglie per ottenere una piccola quantità di colorante e in secondo luogo perché l’applicazione era alquanto complessa» [2]. Le difficoltà connesse sia la processo estrattivo che a quello applicativo, insieme con l’alto costo favorirono la ricerca e lo sviluppo di processi tintori “imitativi” basati sull’utilizzo di materie coloranti più facilmente reperibili e più facilmente applicabili sulla lana. Tra questi, molto usato a Creta, figurava quello basato sull’impiego del principio colorante che si otteneva da un lichene, che cresceva sulle rocce delle coste marine, noto come Oricello (Roccella tinctoria) [9]. In epoca greco-romana e nel medioevo, nelle regioni del mediterraneo le botteghe tintorie più accorsate sembra che fossero quelle condotte da maestri tintori di origine ebraica e siriana. 8 Studi storico-archeologici hanno dimostrato che a Roma, già in età preimperiale, si erano impiantate importanti stabilimenti tintori dedicati principalmente alla tintura della lana, di cui i romani facevano largo uso per il confezionamento di stoffe ed indumenti (in particolare tuniche e mantelli). «All’epoca dei primi re doveva già essersi sviluppata una considerevole attività nel campo delle tinture, se si considera che quando il pacifico e pio re Numa Pompilio creò le prime corporazioni artigiane, i tintori vennero raggruppati in un Collegium Tinctorium. Questa categoria di lavoratori venne più tardi suddivisa in diversi gruppi secondo il tipo di tintura a cui si dedicavano …… i flammari, tintori in aranciato, i violarii, che producevano le tinte viola, i crocearii, altrove chiamati crocotarii, che usavano il crocus, ossia lo zafferano … gli spadicarii, produttori dei colori bruni ed i carinarii, forse identificabili con i purpuraii, caratterizzati dall’impiego delle conchiglie porporifere, dette in latino anche carnae…» [10]. L’industria tintoria era molto sviluppata in Pompei; in una sala tintoria sono state trovate ben 150 tazze con tracce di materia colorante [8]. Il grande archeologo, Amedeo Maiuri così descriveva la “Bottega del Tintore” scoperta durante gli scavi di Pompei: «.....; ed ho imboccato il vicolo e la bottega del tintore, deserta di operai e di avventori, ma con la porta spalancata come per far meglio respirare al fresco della sera, le mura ancora avvampate di calore. Le caldaie scoperchiate sembravano esalare un’ultima fumata di vapore lento e greve e all’orlo colorarsi di luce giallastra, .… Di contro alle caldaie una batteria di anfore e di anforoni, un paio di dozzine almeno, ..., di creta giallina e di creta rosata: ..., non avevano dovuto contenere altro che polveri, paste e materie coloranti per i bisogni dell’officina, o mordenti per il fissaggio, o di sgrassanti per il lavaggio degli abiti frusti da ritingere, o avevano servito a conservare tinture del bagno già usato. Qualcuno aveva grumi o coaguli incrostati al fondo: una spaccata e aperta a mezzo il corpo, presentava il ventre rosato coperto di un leggero spolvero di giallo oro, forse di Croco, il colore di gran moda delle vesti femminili d’allora. Bacco insomma aveva ceduto le sue masserizie all’industre Minerva protettrice di fulloni e di tintori» (figure 5 e 6) [11-a]. Nei rilievi, di origine romana (età augustea), riprodotti nelle figure 7 e 8 sono raffigurati, rispettivamente, una bottega di stoffe con il negoziante che mostra ad un gruppo di potenziali acquirenti i tessuti in vendita e 9 Fig. 5: La “Bottega del tintore” così come ritrovata durante gli scavi dell’antica Pompei [Rif. 11-a]. Fig. 6: Un’antica scultura raffigurante la Dea Minerva, protettrice dei fulloni e dei tintori (conservata presso il Museo Capitolino di Roma). 10 Fig. 7: Rilievo che rappresenta un negoziante di stoffe che mostra ad alcuni acquirenti la merce in vendita. Età augustea, Firenze, Museo degli Uffizi [Rif. 11-b]. Fig. 8: Rilievo che rappresenta un negozio di cinture e cuscini. In questa ricca bottega il proprietario illustra ad alcuni acquirenti la qualità dei suoi prodotti. Età augustea. Calco originale, Roma, Museo della Civiltà Romana [Rif. 11-b]. 11 un negozio di cinture , cuscini, tende ecc. dove il proprietario illustra ad alcuni clienti la qualità dei suoi prodotti [11-b]. Questi rilievi, nella loro elegante forma rappresentativa, lasciano trasparire quanto, per i romani dell’epoca, fosse importante il settore dell’abbigliamento e del tessile ornamentale e quanta cura essi dedicassero alla scelta di tessuti che, ovviamente si differenziavano oltre che per la tipologia delle fibre costituenti anche e forse soprattutto per le caratteristiche dei colori usati. Si è già scritto che la tintura rappresentava una fase particolarmente importante del procedimento globale di produzione dei tessuti antichi. Dal processo tintorio dipendeva la qualità finale del manufatto, «la varietà della gamma cromatica, l’armonia tra le zone di colore nonché la durata nel tempo dei materiali impiegati nella tessitura» [12]. Molti manufatti di lana, nonostante i vari fattori di degradazione a cui sono stati esposti, hanno spesso conservato, nel tempo, una buona brillantezza ed intensità dei colori. Questo dimostra che le tecniche, usate anticamente erano particolarmente efficaci e che i maestri tintori dovevano essere particolarmente abili nella manipolazione delle sostanze coloranti e profondi conoscitori dalle principali variabili che determinavano la buona riuscita di un processo di tintura, la cui validità si misurava, tra l’altro, dalla capacità di realizzare una colorazione che doveva durare invariata nel tempo. E’ pur vero però che le fibre di lana, rispetto a tutte le altre fibre naturali (seta, lino, cotone e canapa) mostrano una maggiore attitudine tintoriale. «This dyeability is due to its proteinic structure that contains various “docking points” [punti di attracco, n.d.A] for the dyes. In contrast, the cellulosic nature of linen makes it less reactive than wool and its relatively dense fibers prevent most from penetrating well into its structure. Thus, while ancient wool dyeings show a wide range of colors, the main fast dye [colore solido, n.d.A.] for linen discovered in archaeological excavations is blue indigotin pigment which can penetrate into the fibers in its soluble form» [1]. Le difficoltà principali che si incontrano nella comprensione delle tecnologie utilizzate nell’arte tintoria, in epoche precedenti all’avvento dei coloranti sintetici, risiedono nel fatto che le conoscenze e i know-how venivano tramandati oralmente e direttamente dal maestro all’allievo. Infatti sono conosciute solo poche pubblicazioni che trattano in maniera esaustiva e globale le tecniche usate in periodi storici che precedono lo sviluppo dell’industria tintoria basata sui coloranti di sintesi. 12 Fig. 9: Riproduzione del frontespizio del primo trattato sull’arte tintoria pubblicato a Venezia nel 1548 dal veneziano Giovanventura Rosetti [Rif. 12]. Tra queste spicca per la sua organicità il “Plictho de Larte de tentori che insegna tenger pani telle banbasi et sede si per larthe magiore come per la comune” di Giovanventura Rosetti, edito a Venezia nel 1548 (figura 9) [12] e il trattato pubblicato in Francia nel 1672 dal Colbert, dal titolo “L’instruction générale pour la teinture de laines de toute nuances e pour la culture des drogues et ingrédients q’on employé”. 13 Il trasferimento delle conoscenze relative alla tintura dei tessili, da un paese all’altro, spesso fu determinato da grandi eventi (guerre, epidemie, carestie, persecuzioni religiose e/o razziste, ecc.) che videro la migrazione di intere popolazioni. Nell’ambito di questi fenomeni, maestri e lavoranti, si trasferirono in nuove città e paesi dove introdussero e svilupparono l’arte tintoria. «So much of the history of dyeing is unwritten, with secrets being passed from father to son, and kept within community or religious groups such as the Jews, as specialized trade. Dyeing was such an exact craft that the English often left on the dyeing, except the blues, entirely to “foreigners”, this was especially true at Norwich in 1567 where the Huguenots were the expert dyers, under the leadership of master dyer Antonye de Pottier» [7]. Nel procedere all’analisi di un materiale tessile di interesse archeologico-storico-artistico-culturale, la determinazione del tipo di processo di tintura usato, insieme alla conoscenza della natura delle fibre e delle relative tecnologie di lavorazione utilizzate, sono essenziali per: - definire lo stato di conservazione; - provvedere alla datazione; - stabilire la regione di origine; - elaborare un piano mirato e appropriato di restauro conservativo [13]. In particolare la possibilità di potere risalire alle materie coloranti e alle tecniche tintorie che una volta venivano impiegate permette di riprodurle per poterle riapplicare nei processi di recupero e restauro dei tessili. Al giorno d’oggi i coloranti sintetici hanno sostituito i coloranti naturali nella maggior parte delle tecniche tintorie. Bisogna riconoscere però che con il passare degli anni si nota una certa tendenza all’utilizzo di coloranti naturali in particolari e sofisticate nicchie tessili ad alto valore aggiunto. La ragione di questo va ricercata nel fatto che solo attraverso l’impiego di coloranti naturali è possibile realizzare e produrre «the most subtle colour tones, tones that cannot be reproduced by modern dyes; this overrides the disadvantage that natural dyes are not consistent, batch by batch, and that some colours fade quicker than modern synthetic equivalents … as a modern-day craft, using natural dyes recreates the artistry and traditional crafts of the silk-dyers who developed the skill thousands of years ago. This is a challenge to rediscover some of the more complicated methods that the early dyers employed to colour silk and cloths. To a certain extent what was a good for wool was also for silk, though there are some exceptions, and the bulk of world literature on dyeing concern wool. The 14 wool fiber is much thicker and whiskery compared to the silk fibre, however, and is slightly easier to dye» [7]. La delucidazione dei processi tintori, impiegati anticamente nella tintura dei tessili, insieme con la loro origine e storia, fornisce significativi elementi utili alla conoscenza dello sviluppo della cultura e della tecnologia dall’antichità ai giorni nostri, permettendo altresì di tracciare i percorsi e le vie attraverso cui le innovazioni si siano diffuse dall’Oriente all’Occidente, dal Sud al Nord del mondo e viceversa. Nel prossimo paragrafo viene riportata una rassegna dei più importanti principi coloranti naturali usati per la tintura di fibre, filati e tessuti di lana. Tale rassegna comprende anche la descrizione delle procedure di estrazione della materia colorante dagli esemplari del mondo vegetale o animale e delle tecnologie applicative. Il periodo storico preso in esame è quello che va dalla preistoria alla rivoluzione industriale quando, a seguito della scoperta dei coloranti di sintesi si ebbe a verificare il processo di sostituzione dei coloranti naturali con quelli fatti dall’uomo. 15 A) Coloranti di origine vegetale usati nella tintura della lana Il mondo vegetale è ricco di piante dalle quali, da secoli e secoli, l’uomo è stato capace di estrarre, da varie parti (fiori, foglie, radici ecc.), principi coloranti idonei a conferire alle fibre e ai tessuti di lana le più varie tinte. Ancora oggi, specialmente nella manifattura di tappeti orientali si fa largo uso di coloranti naturali di origine vegetale i quali sono punto di riferimento per la realizzazione di pregiati ed artistici prodotti. Alcune delle più comuni sostanze coloranti naturali-vegetali, allo stato naturale e macinate sono mostrate nella figura 10 [13-b]. Le piante dalle quali venivano ricavate le più importanti materie coloranti, raggruppate a seconda del colore dei principi attivi, sono qui di seguito descritte insieme ai relativi procedimenti estrattivi e alle tecniche di applicazione che venivano impiegate nei processi di tintura. Inoltre, laddove note, sono riportate le strutture chimiche dei coloranti estratti mettendone in risalto le funzioni molecolari essenziali all’esplicazione delle loro caratteristiche di interazione con i gruppi reattivi presenti lungo le fibre di lana [9, 14, 15, 16, 17, 18]. A1) Piante dalle quali si estraevano i “rossi” – ALOE Le piante di Aloe (famiglia delle Liliacee) assomigliano alle agavi, ma, a differenza di queste, non muoiono dopo la fioritura; presentano foglie carnose, succulenti, grandi, appuntite, munite ai margini di grosse spine e disposte in modo da formare un grosso ciuffo (tavola I). Dal succo delle foglie, per evaporazione, si ricavava la materia colorante: un solido amorfo di colore bruno. Questo prodotto, usando un appropriata sostanza mordente, veniva usato per colorare la lana in varie tonalità che andavano dal rosso al giallo. – BETULA ALBA (BETULA PENDULA) Alberi con corteccia argentea diffusi nelle regioni temperate ed artiche dell’emisfero boreale (tavola II). Nel XVIII secolo veniva usato il decotto del legno per produrre su lana colorazioni rosso brune. – CALCEOLARIA Pianta erbacea perenne (Scrophulariaceae) originaria dell’America del 16 Fig. 10: Varie tipologie di sostanze coloranti di natura vegetale allo stato naturale e macinate ancora oggi impiegate nella tintura della lana usata a sua volta nella manifattura a mano dei tappeti orientali [Rif. 13-b]. Sud; usata nel Cile per tingere la lana in colore cremisi (tavola III). – CARTHAMUS TINCTORIUS (CARDO DEI TINTORI) Pianta annuale (originaria dell’India, fu coltivata in Europa meridionale e in Italia-Romagna) il cui nome deriva dalla voce araba “qurtom” (dipingere), già nota agli antichi egizi (ne parlano Aristotele, Teopresto e Galeno). I petali dei fiori del cartamo (tavola IV) contengono due diversi principi coloranti; uno giallo e uno rosso. Nei processi tintori veniva usata la materia colorante rossa. Il processo di separazione dei due principi consisteva nel porre i fiori essiccati in un sacco di tela che veniva agitato in acqua fredda fino a completa estrazione della sostanza colorante gialla. Successivamente i petali venivano prima trattati con sostanze alcaline (liscive di ceneri oppure argilla smettica, detta terra da follone) per solubilizzare il colorante rosso-arancio e quindi si aggiungeva del succo di limone. La neutralizzazione della soluzione faceva precipitare il colorante rosso che veniva, dopo opportuni lavaggi, messo in commercio sotto forma di pani oppure 17 in soluzione. Il cartamo più pregiato sembra che fosse quello proveniente dal medio oriente (Egitto e Persia). La sostanza colorante rossa contenuta nei petali dei fiori del cardo dei tintori è la cartamina, la cui struttura chimica è qui di seguito descritta: Cartamina La cartamina è a sua volta un derivato ossidrilato del benzal acetofenone (detto Calcone) la cui formula è sotto riportata: Calcone La cartamina veniva utilizzata per tingere la lana in rosso [1]. – COLCHICUM (COLCHICO, ZAFFERANO BASTARDO) Piante bulbose (famiglia delle Liliacee) che presentano fiori senza fusto che si formano direttamente dai bulbo tuberi. I fiori del colchicum sono molto simili a quelli del Crocus (zafferano), per questa ragione questa pianta viene comunemente denominata zafferano bastardo (tavola V). Il principio colorante si estraeva dai petali dei fiori. – LAWSONIA ALBA LAM (HENNÉ O ENNA) Pianta arbustacea dicolitedone (famiglia delle Litracee), originaria della penisola arabica e coltivata in Egitto, in Persia ed in altre regioni 18 dell’Africa e dell’Asia minore, in India e nella Cina del Sud [tavola VI]. Il principio colorante, detto Hennè o Alcanna vera, estratto dalle foglie (ovali, oblunghe e fragili) essiccate e ridotte in polvere, è una sostanza di colore giallognolo che all’aria assume una colorazione rossastra. Questa materia colorante veniva usata fin da tempi antichissimi come cosmetico e come colorante di fibre tessili. Il principio colorante che si estraeva dalle foglie dell’Henna è un pigmento giallo, il Lawsone, la cui struttura chimica è qui di seguito illustrata: Lawsone: 2-ossi-1,4-naftochinone O OH O – Legno Rosso (Legno Brasile o Verzino) I legni rossi da tinta si ricavavano da alcune leguminose originarie dell’America del Sud, delle Antille e delle Indie, appartenenti al genere “Caesalpina”, dal nome del botanico italiano, Andrea Cesalpino. Il “legno rosso brasile” e il “legno pernambuco”, usati nell’industria tintoria per tingere in rosso, si ricavavano rispettivamente dal Caesalpina Brasiliensis e Caesalpina Crista (figura 11). «… we must mention “brazil wood”, the natural red dye from the wood of caesalpina braziliensis, which is a leuco-compound brazilin forming brazilein, a deep red to brown dye, on exposure to air. It is usually believed to have been introduced since the discovery of the new world but it was used in the middle ages when it was imported from ceylon and it was know as “brazil” centuries before the discovery of that country» [16]. In alcuni testi storici è riportato che Marco Polo, il grande viaggiatore 19 Fig. 11: Antica stampa raffigurante il taglio del legno brasile (da Andrea Thevet, Les Singularitez de la France Antartique, Paris, 1557). veneziano (tredicesimo e inizio secolo quattordicesimo) portò dalla Cina le prime informazioni circa l’impiego della “Caesalpina sappan” quale materia colorante rossa. Da altre documentazioni si ricava che il legno rosso brasile veniva importato dai tintori veneziani da Sumatra, Ceylon ed India, sin dal secolo dodicesimo. La tintura al legno rosso era ben conosciuta e praticata da millenni, dalle popolazioni indigene dell’America latina. I legni rossi provenienti dall’oriente, erano largamente usati in Europa nel processo tintorio della lana, la quale, prima del passaggio al bagno, veniva mordenzata con allume oppure con cremore di tartaro e soluzione di cloruro di stagno. La materia colorante contenuta nel legno rosso delle cisalpine americane e asiatiche è un leuco-composto, la brasilina, liquido incolore, che diventa di un coloro rosso intenso o bruno per esposizione all’aria. La 20 Fig. 12: Struttura molecolare della Brasilina e della Brasileina. brasileina (C16, H12, O4) costituisce il prodotto di ossidazione della brasilina (C16, H14, O5). La struttura molecolare di queste due sostanze è descritta nella figura 12. La brasilina è estratta dal legno rosso attraverso un processo di trattamento con acqua calda; l’estratto, filtrato e concentrato, viene ossidato (ad esempio con iodato sodico) per trasformare la brasilina in brasileina. I processi di tintura che utilizzavano il legno brasile necessitavano l’impiego di mordenti quali: i sali di alluminio, di stagno, di ferro e di sommacco. Come si evince dal confronto delle figure 13-a e 13-b la pre-mordenzatura con allume induce nei filati di lana, tinti con l’estratto del legno brasile, una colorazione rosso-bruna (figura 13-b), notevolmente diversa da quella rosso-violetta che si riscontra in filati non pre-trattati con mordente (figura 13-a) [18-a]. 21 a) b) Fig. 13: Il processo di tintura al legno brasile applicata a tessuti di lana. Influenza del mordente sulla tonalità del colore. a) Tessuto sottoposto a tintura senza l’ausilio del mordente; b) tessuto pre-mordenzato con allume prima della tintura[Rif. 18-a]. La tintura basata sull’impiego del legno della “Caesalpina sappan” era impiegata fin da tempi molto lontani in Giappone. In relazione a quanto sopra, nel riferimento [17] è scritto testualmente: «This tree does not grow in Japan but trunks of it were imported in Japan from India as early as 900 B.C.. The wood of the trunk is used for dye. It is first chopped fine then boiled, but not in a pan made of iron. A variety of colors can be obtained from this extract by using different mordants. For instance, Botan-iro, ashes of roses, is gained with ash extract; Aka-iro, real red, with alum; and wisteria-violet with iron water. Iron water is made as follows: rusted iron is thrown in to a mixture of vinegar and water and is well boiled. It is left for one day and night and then the iron is taken out». Il legno brasile, fino alla scoperta dei coloranti sintetici, insieme ad altri legni rossi, è stato molto usato nella tintura della lana e della seta. La materia colorante che si ricava dai legni rossi viene ancora oggi adoperata, in aggiunta al colore del legno di campeggio, per ottenere dei toni rosso-blu e verde-violetto. – LEGNO SANDALO Questa denominazione comprende legni diversi aventi la caratteristica comune di essere profumati. Il principio colorante, che si estraeva, in particolare dal legno del sandalo rosso fornito dall’albero, denominato “Pteracarpus santalinus”, che cresce a 22 Ceylon, veniva utilizzato per tingere la lana in rosso, dopo un processo di mordenzatura al tannino, al cloruro di stagno, all’allume o al bicromato. – ORIGANO (ORIGANUM VULGARE) Labiata perenne che cresce spontanea nell’Europa meridionale e centrale (tavola VII). I fiori e le parti terminali venivano usate dagli svedesi per tingere la lana in rosso e purpureo. In Russia (medio-Volga) i fiori secchi dell’origano venivano mescolati, in un pestello, con parti eguali di foglie di melo e fatti fermentare aggiungendo del malto e del lievito. La massa così ottenuta, allo stato secco, era utilizzata per ottenere tinte cremisi di varie tonalità. – REBULNIUM Piante appartenenti alla famiglia delle “Rubiacee” che vivono principalmente nell’America del Sud. Il principio colorante veniva estratto dalle radici di queste piante in maniera praticamente simile a quanto si usava fare, nelle regioni del mediterraneo, del medio-oriente e dell’Europa, con la materia colorante derivante dalla Rubia Tintctorium. Le colorazioni ottenute nella tintura della lana variavano, a seconda della specie di pianta utilizzata e della natura chimica del mordente, da una carminio o rosso mattone (su mordente di allume) a un bruno violetto (su mordente di ferro). In assenza di mordente era possibile produrre una tonalità rosso-aranciato. – ROCCELLA TINCTORIA (ORICELLO) La “Roccella tinctoria” (cresce sulle rocce delle coste del Mediterraneo, dell’Africa Occidentale e Orientale, del Madagascar e di altre regioni) appartiene alla famiglia dei Licheni, vegetali risultanti dall’associazione simbiotica di un fungo con un’alga. Nei licheni la funzione dell’alga è quella di provvedere alla formazione delle sostanze nutritive, mentre il fungo fornisce l’acqua e i sali minerali (figura 14). Il colorante rosso che si ricavava dalla Roccella tinctoria, noto come “oricello”, è citato nel “Papyrus Holmiensis”, l’antico ricettario egiziano. Plinio (Nat. Hist. XIII, 136) riporta che la tintura all’oricello veniva, all’epoca, praticata nell’isola di Creta. «The phycos (sea weed) growing on rocks round the Island of Crete is also used for a purple dye; the most approved kind growing on the northern side of the island, as is the case of the sponges» [dal rif. 16]. La tintura all’oricello si sviluppò in Italia a partire dal secolo XIV, sembra ad opera del fiorentino Ferro. Fino alla fine del XIX secolo la tintura 23 Fig. 14: Disegno della Roccella tinctoria (dalla “Historia Muscorum”, (1742) di Dellenius) [Rif.18-b]. della lana basata sull’estratto dell’oricello compariva in tutti i ricettari europei. Il procedimento di tintura prevedeva una prima fase durante la quale l’estratto del vegetale, ancora fresco e con caratteristiche acide, veniva trattato all’aria con una sostanza basica (la potassa, tratta dalle ceneri vegetali, l’acqua di calce oppure l’urina, che decomponendosi sviluppava ammoniaca). Il processo di fermentazione alcalina portava all’ottenimento di una soluzione acquosa di un colore azzurro-violaceo [9]. Trattando questa soluzione con sostanze acide si produceva un precipitato di colore rosso; in presenza di cloruro ferrico o allume si otteneva, invece, un precipitato rosso bruno o rosso ciliegia. A seconda delle modalità di tintura era possibile produrre con l’oricello tessuti di lana colorati in malva, in varie tonalità di rosso e in arancione; con la tintura all’oricello, più economica e semplice, non era comunque possibile realizzare tinte con una brillantezza e bellezza delle tonalità paragonabili a quelle ottenibili con la porpora di tiro. Secondo quanto riportato da alcuni testi di chimica la Roccella tinctoria «non contiene la sostanza colorante già formata, ma alcuni acidi incolori, derivati dell’orcina o affini ad essa, quali l’acido lecanorico o diorsellinico, 24 l’acido orsellinico, l’acido evernico e l’acido ramalico … Tali composti per azioni di alcali si scindono dando luogo ad orcina o ad un suo omologo (orcina) che per azione dell’ammoniaca, in presenza dell’aria, si trasforma in orceina, la sostanza colorante» [19]. Gli aspetti chimici connessi ai processi estrattivi che portano all’orceina sono stati delucidati dal chimico Hans Musso tra il 1956 e il 1965. Da questi studi si ricava che i precursori presenti nei licheni (esteri, depsidi o depsidoni) sono idrolizzati per effetto di trattamento con ammoniaca ad orcinolo. Questa ultima sostanza (vedi schema sotto riportato) in presenza di aria e di ammoniaca dà luogo alla formazione dell’orceina, la quale è di fatto una miscela di diversi fenazoni (idrossi orceina, ammino orceina e ammino-orceina-immina). I principali passaggi chimici, a partire dall’acido lecanorico, sono descritti nella figura 15 [18-b]: Il processo di estrazione dell’oricello viene così descritto nel riferimento [19]: «dopo avere liberato i licheni dalle sostanze estranee, per mezzo di lavaggi con acqua e setacciatura, si riscaldano per tre giorni a 60° in cilindri aperti con una quantità tripla di ammoniaca. La sostanza colorante si separa in forma di una pasta, oricello in pasta, di colore violaceo. Per essiccamento di questo all’aria si ottiene una polvere … ottenuta originariamente dalla Lecanora, di colore azzurro-violetto o rosso-violetto. L’estratto di oricello o di Carminio di oricello si prepara per evaporazione lenta del liquido ottenuto dal trattamento della pasta con acqua, il liquore di oricello estraendo i licheni con acqua bollente, concentrando l’estratto e esponendo questo all’azione dell’aria e ammoniaca; …» [19]. La tintura all’oricello è stata ampiamente impiegata per tingere la lana e la seta in bagno sia neutro che leggermente acido o alcalino. Va sottolineato il fatto che pur essendo i colori ottenuti molto belli, essi risultavano essere poco solidi. Una ricetta di tintura all’oricello che risale all’incirca al 1540, ripresa successivamente nel 1750 da Hellat, è così riportata nel riferimento [18-b]: «Take one pound of the Orselle of the Levant, very clean; moisten it with a little urine add to this sal-ammoniac, sal-gemmae (“sel terrestre et fossile”, des Bruslons), and saltpetre, of each two ounces; pound them well, mix them together, and let them remain so during twelve days, stirring them twice a day; and then to keep the herb constantly moist, add a little urine, and in this situation let it remain eight days longer, continuing to stir it; you afterwards 25 add a pound and a half of pot-ash well pounded, and a pint and a half of stale urine. Let it remain still eight days longer, stirring it as usual after which you add the same quantity of urine, and at the expiration of five or six days, two drachms of arsenic; it will then be fit for use». A seconda della natura o regione di origine dei licheni utilizzati era possibile conferire alla lana colorazioni diverse. Alcune antiche ricette scozzesi contenute nel riferimento [17] sono qui di seguito testualmente riportate: «The lichen known as crotal, or crottle (Parmelia saxatilis) grows on rocks. Gather it on a windless day when it is wet, preferably in March or November. It will keep indefinitely when dry. For orange: Wet the wool. Line a vessel with black lichen, then “ply” in layers of wool and lichen, topping it off with lichen. This is a “contact” dye and the dye is infused into the wool. Fill the pot with water till lichen at top is covered. Boil, on a peat fire if possible, as it gives a slow steady heat, until required depth of color is seen of wool under top layer of lichen. Remove pot from fire and stand it outside for 24 hours to cool. Drain off the water and shake the wool so that the wet lichen drops out, and lay it out on rocks to dry. For deep “Highland cattle” brown: Follow the same method, using gray lichen gathered from the hills. For rosy pink: Use yellow lichen (Xanthora parietina) which grows just above the high tide mark on rocks». – RUBIA TINCTORUM (ROBBIA O GARANZA) E’ una pianta erbacea perenne rizomatosa (famiglia delle Rubiacee), originaria dell’Europa Meridionale, caratterizzata da lunghe e numerose radici di colore rossastro (tavola VIII) [21]. La robbia (già in tempi molto lontani coltivata in Siria, Palestina, Persia, India, Grecia), tra le varie rubiacee impiegate nei processi tintori, è sicuramente la più conosciuta. La tintura, alla robbia, ampiamente citata in documenti antichi di origine araba, indiana, greca, romana, germanica, era molto diffusa sin dal 2000 a.C.. Essa era comunemente usata dagli antichi egiziani come dimostrato dal ritrovamento di tessili colorati risalenti al terzo millennio. Alcuni archeologici riportano che la cintura e altri tessuti ritrovati nella tomba del faraone Tutan Khamon siano stati colorati mediante un processo a base di robbia. Le capacità tintorie delle radici della “rubia tinctorum” sono documen26 a) b) c) Fig. 15: I principali stadi che, a partire dall’acido lecanorico, portano alla formazione della idrossiorceina. 27 tate da Ippocrate, Teofrasto, Dioscoride e Plinio. «Plinio racconta delle piantagioni di garanza esistenti nel 50 d.C. nelle vicinanze di Roma e Dioscoride ricorda la robbia coltivata con molto profitto nei dintorni di Ravenna, ove veniva appositamente piantata tra gli olivi. Le tinte più solide risultavano su materie tessili mordenzate con allume» [10]. Sembra che i costumi militari romani, di colore rosso vivo, venissero tinti utilizzando la robbia, che a partire dal medioevo fu per molti secoli, e cioè, fino alla scoperta dell’alizarina sintetica, una delle più importanti sostanze coloranti naturali. Con lo sviluppo del tessile, a partire dal medioevo, crebbe in Europa la richiesta di questo colorante, pertanto la coltivazione della robbia fu introdotta in vaste aree rurali. L’imperatore di Francia, Carlo Magno, previde, nel suo ordinamento agricolo, la coltivazione di questa pianta in tutte le regioni dell’impero. «La coltivazione (della garanza in Europa) raggiunse il suo massimo sviluppo nel diciottesimo secolo, diminuì durante le guerre della repubblica e del primo impero, per riprendere poi vigorosa, quando Luigi Filippo ordinò che i pantaloni dell’armata francese venissero tinti con la robbia, specialmente nel Sud della Francia e Olanda, meno in Italia (Sicilia, Toscana), AustriaUngheria Slesia, nell’Oriente e in America» [19]. Nel VII secolo d.C. la robbia veniva coltivata a Saint Denis, vicino Parigi; più tardi, nel XIV secolo, si diffuse la coltivazione di un tipo di robbia proveniente dall’Olanda. Nel 1669, dopo le regolamentazione di Colbert, la coltivazione della robbia si sviluppò ulteriormente in Francia, in particolare ad Avignone. Nel XIX secolo, prima della scoperta del primo colorante sintetico, la coltivazione della robbia era praticata in molti paesi europei. Con la sintesi e la industrializzazione dell’alizarina sintetica (1871) il colorante naturale estratto dalla robbia venne, in pochi anni, sostituito sui mercati di tutto il mondo. Nelle radici della robbia sono presenti diversi coloranti in forma di glucosidi. Questi ultimi, molto diffusi nel mondo vegetale, derivano dalla combinazione di idrossicomposti con zuccheri. Se lo zucchero si combina con una sostanza diversa, quest’ultima viene chiamata “aglicone”. I glucosidi sono, in generale, idrolizzati dagli acidi minerali dando luogo alla formazione di un molecola di zucchero ed una di aglicone. Di norma la reazione di idrolisi viene prodotta da un enzima (una proteina) che si trova, anche se in cellule diverse, nella stessa pianta. Quando i tessuti 28 vegetali sono sottoposti a macerazione il glucoside viene a contatto con l’enzima; a questo punto parte la reazione di idrolisi [20]. Nel caso della robbia il principale glucoside è l’acido “ruberitrinico” o “rubiano” che viene scisso dalla “eritrozina” in glucosio e alizarina. Tra le altre sostanze coloranti presenti nella robbia (circa venti) vanno ricordate: la purpurina, la pseudopurpurina, la xantopurpurina, la munistina e la rubiadina [19]. “… The root (della robbia; n.d.A.) contains the dye in the form of glucosids in a red layer between the outer rind and the core of woody particles. Hence the actual dye has to be freed from the colouring materials, the most important of which is ruberytrinic acid, which by moistening the glucosid is split into sugar and alizarin, the actual dye which colours the fibres. It therefore involves a rather complicated treatment and it will be understood that once Graebe and Liebermann synthesized alizarin in 1868, the cultivation of madder practically disappeared” [16]. Le radici della rubia tinctorum (cilindriche, lunghe 20-30 cm, spesse 1,2 cm) presentano una cuticola di colore bruno-rossiccio alla quale segue uno strato di colore giallo. Le radici venivano raccolte nel terzo anno quando la sostanza colorante ha raggiunto una percentuale di circa il 2%. Le radici una volta raccolte venivano messe in commercio disseccate e mondate oppure macinate. Il principio colorante veniva estratto facendo bollire in acqua le radici, essiccate e polverizzate. Esemplari di radici di robbia, insieme alla polvere del principio colorante da esse estratto, e alcuni campioni tinti di lana grezza sono mostrati nelle tavole IX e X e nella figura 16. Impiegando mordenti di natura diversa era possibile conferire alla lana varie tonalità di rosso [1]. Alcune ricette di tintura alla robbia, utili per tingere la lana in rosso granato, descritte nel riferimento [17], sono qui di seguito testualmente riportate. «After three years growth, the long fleshy roots are dug, cleaned and dried, then ground. This is the only red dye for which hard water is recommended. If only soft water is available, add a little slaked lime (calcium hydroxide). Mordants: Different color tones can be achieved with different mordants. For lacquer red, use alum: for garnet red, chrome. To prepare the dye: Soak 8 ounces of powdered madder root overnight. Bring to a boil, then immediately strain through gauze into water for dye. 29 To dye wool lacquer red: Immerse alum-mordanted and wetted wool in luke-warm dye bath. Bring slowly to a boil during 1 1/2 hours. Reduce heat at once to 190 degrees Fahrenheit and simmer 45 minutes. Never let the dye bath boil. Cool to permit rinse water add 1/2 ounce (two tablespoons) of mild soap flakes to each gallon to brighten the color. (Instead of the soap flakes, a handful of bran for each pound of wool in the dye bath itself will also add brightness). To dye wool garnet red: Immediately after mordanting with chrome, immerse the wool in the dye bath and keep it covered. Follow the same dyeing directions as for lacquer red». La tintura alla robbia dava un colore solido rosso intenso (denominato “rosso turco”) se il tessuto veniva previamente mordenzato con allume; successivamente vennero utilizzati sali di ferro e poi nel XVII secolo sali di stagno, con i quali era possibile ottenere tinture rosse, brune e rosa. L’influenza della pre-mordenzatura con allume sulla tinta conferita a tessuti di lana trattati con un processo di tintura alla robbia naturale viene evidenziata nella figura 17 dove sono messe a confronto tessuti in lana tinti in assenza di mordente (figura 17-a) e tessuti pre-trattati, prima della tintura, con allume (figura 17-b) [18-a]. Come già scritto, tra i vari principi coloranti che si estraevano dalle radici della robbia, l’unico ad avere utilizzo pratico nei processi tintori era l’alizarina. La presenza della purpurina viene, oggi, sfruttata per distinguere, attraverso misure di fluorescenza, il colorante naturale dall’alizarina sintetica (la fluorescenza della purpurina è un intenso giallo-rosso, quella dell’alizarina un pallido colore viola). La struttura molecolare dell’alizarina e della purupurina sono illustrate nella figura 18. 30 Fig. 16: In primo piano sono mostrate: a) radici essiccate della robbia; b) radici polverizzate. Sullo sfondo sono visibili matasse di lana di un bel colore rosso ruggine ottenuto mediante tintura alla robbia [Rif. 13-b]. 31 a) b) Fig. 17: Il processo di tintura alla robbia applicata a tessuti di lana: a) Tessuto sottoposto a tintura in assenza di mordente; b) tessuto pre-mordenzato con allume prima del processo tintorio [Rif. 18-a]. Fig. 18: La struttura molecolare dell’alizarina e della purpurina. 32 A2) Piante dalle quali si estraevano i “blu” – INDIGOFERA TINCTORIA (INDACO) Il principio colorante, comunemente noto come Indaco, si estraeva dalle foglie appartenenti alla pianta denominata “Indigofera tinctoria”, una leguminosa originaria dell’India. Il genere è costituito da circa 300 specie; in particolare l’indigofera tinctoria è una pianta tropicale fruticosa, alta all’incirca 1,5 metri, che presenta foglie composte imparipennate e produce fiori riuniti in lunghe infiorescenze a grappoli, le quali dipartono dall’ascella delle foglie (tavola XI) [22]. Il procedimento che veniva impiegato in India per l’ottenimento dell’indaco è così descritto nel riferimento [22]: «The cut plant is tied into bundles, which are then packed into the fermenting vats and covered with clear fresh water. The vats, which are usually made of brick lined with cement, have an area of about 400 square feet and are 3 feet deep, are arranged in two rows, the tops of the bottom or “beating vats” being generally on a level with the bottoms of the fermenting vats. The indigo plant is allowed to steep till the rapid fermentation, which quickly sets in, has almost ceased, the time required being from 10-15 hours. The liquor, which varies from a pale straw colour to a golden-yellow, is then run into the beaters, where it is agitated either by men entering the vats and beating with oars, or by machinery. The colour of the liquid becomes green, then blue, and, finally, the indigo separates out as flakes, and is precipitated to the bottom of the vats. The indigo is allowed to thoroughly settle, when the supernatant liquid is drawn off. The pulpy mass of indigo is then boiled with water for some hours to remove impurities, filtered through woollen or coarse canvas bags, then pressed to remove as much of the moisture as possible, after which it is cut into cubes and finally air-dried». Un’antica fotografia dove sono visibili le attrezzature per l’estrazione dell’indaco nell’isola di Giava, è riportata nella figura 19 [23]. Le fasi operative, attraverso le quali, partendo dalle foglie dell’Indigofera tinctoria, veniva prodotto l’indaco sono raffigurate nell’antica stampa francese del diciottesimo secolo riprodotta nella figura 20 [1]. Un tipico processo di tintura della lana all’indaco viene così descritto nel riferimento [17]: «A stock solution is made up as follows: 4 1/4 ounces powdered indigo 33 3 ounces sodium hydroxide [caustic soda] 2 3/4 ounces sodium hydrosulfite Mix the powdered indigo with the sodium hydroxide which has been dissolved in water. Add water to make one gallon and heat to 120 degrees Fahrenheit. Stir well and add the sodium hydrosulfite slowly. Let stand for 30 minutes. The liquid should be clear and yellow, and a drop running on a sheet of glass should require about 25 seconds to turn blue. Extra stock solution may be kept in a stoppered bottle. The next step: Into a quart jar of water slowly pour one-half ounce of sodium hydrosulfite. Keep the solution tightly stoppered. To dye dark blue. Heat the dye vat to 120 degrees Farehnheit, add one-half cup of hydrosulfite from the quart jar and let stand 30 minutes. Then add 2 1/5 quarts of the indigo-hydrosulfite stock solution. Let stand 20 minutes before entering the wetted wool. For even dyeing, keep the dye bath between 120 and 130 degrees Fahrenheit. Keep the wool submerged, stirring it for 30 minutes. Without squeezing, hang outside for 30 minutes. Many dips will produce darker shades, so continue with the dye vat and airing until the desired color is obtained. When finished, rinse in a light acetic acid bath, then in hot soap suds and clear water. The reason for the extra stock solution and the quart jar of sodium hydrosulfite solution is to restore the dye vat’s contents to proper consistency. If the vat turns blue, add 3 ounces from the jar of sodium hudrosulfite, stir gently and let stand 30 minutes before using. Add more indigo-hydrosulfite stock if needed» [17]. Fig. 19: La produzione dell’indaco nell’isola di Giava (Indonesia Arcipelago della Sonda) [Rif. 23]. 34 Fig. 20: Stampa francese del diciottesimo secolo dove sono raffigurate le varie fasi attraverso le quali, partendo dalle foglie dell’Indigofera tinctoria, si otteneva il principio colorante: a) macerazione delle foglie e/o delle piante in acqua; b) macinazione con ruote di pietra; c) polverizzazione con pestelli; d) essiccazione al sole; e) essiccazione all’ombra e immagazzinamento in canestri [Rif. 1]. La tintura all’indaco sembra che si sia diffusa in Europa, a partire dal XVI secolo; in particolare essa ebbe un grande sviluppo nella repubblica di Venezia. Al contrario l’uso dell’indaco fu contrastato mediante l’emanazione di forti divieti in molti paesi, produttori di guado (altro colorante vegetale blu, più avanti descritto), quali l’Inghilterra, la Francia e la Germania [24]. «In England woad (il guado n.d.A) was introduced at some early time from central and southern Europe and was cultivated in Somerset and East Anglia during the eighteenth century. Woad mills coped with the trade. It was also grown in Ireland as well as in Yorkshire and Hampshire. While woad supported the livehoods of so many people in England there was another plant which eventually took more and more of the market despite a lot of protest and denigration of what was infact a superior product. This was indigo, Indingofera tinctoria, a member of PEA family (leguminosae) native to the Himalayas. England, France and Germany tried to suppress indigo entering their markets by banning its import, but this was unsuccessful and indigo dyes become dominant» [7]. 35 Di fatto a partire dal XVII secolo in poi l’indaco fu sempre più largamente usato, in tutti i paesi europei sostituendo gradualmente il guado (vedasi più avanti) in molti processi di tintura con particolare riguardo al caso della seta e della lana. Nell’Indingofera tinctoria il precursore dell’indaco è un glucoside incolore denominato indicano (indossile--D-glucopiranoside), che viene idrolizzato dagli enzimi a glucosio e indossile. Quest’ultima sostanza all’aria si ossida dando luogo alla formazione della molecola del colorante azzurro e cioè l’indaco. Le varie fasi di questo processo, insieme alla struttura molecolare delle Fig. 21: Le varie fasi del processo chimico che, a partire dall’indicano, portano alla formazione dell’indossile e quindi dell’indaco. 36 Fig. 22: Schema delle reazioni chimiche che partendo dal glucoside contenuto nelle foglie dell’Isatis tinctoria, porta al colorante (l’Indaco). sostanze coinvolte, sono illustrate nella figura 21. – ISATIS TINCTORIA (GUADO) Il guado è un’erba biennale molto comune (famiglia delle Crocifere) che cresce spontaneamente nelle regioni temperate dell’Europa, nell’Asia Settentrionale e in Oriente. Alta fino ad un metro, presenta fusti eretti e fiori di colore giallo (tavola XII) [25]. Il principio colorante dell’Isatis tinctoria è lo stesso di quello dell’Indigofera tinctoria e cioè la molecola dell’indossile che per ossidazione si trasforma nell’indaco. Nelle foglie della pianta del guado l’indossile è presente principalmente come componente di un glucoside denominato “Isatoside” oppure “Isatano”. Questo glucoside, che ha una struttura molecolare diversa dall’indicano, il glucoside dell’Indigofera tinctoria, per effetto dell’azione dell’enzima “Isatasi”, contenuta nelle cellule dello stesso guado, viene scisso in zucchero e indossile (una sostanza gialla solubile in acqua). Lo schema delle reazioni chimiche che sono alla base della tintura al guado è mostrato nella figura 22 [22]. Le fasi del processo di trasformazione, attraverso cui era possibile, dalle foglie del guado estrarre e mettere in commercio il principio colorante e quindi procedere alle operazione di tintura sono così riportate nel riferimento [26]: 37 «The woad was grown as a field crop and the leaves were picked in the first year. These were then chopped up into a paste by a horse-driven mill, then made into balls by hand. Each the size of a “ferthing luv” (a farthing loaf). These were laid out to dry in the sun for about four weeks till they became hard like wood. The dried woad balls were broken up into a powder, sprinkled with water and allowed to ferment – this was know as couching. When the couched woad was dry, it was packed into barrels ready for the dyer. The dyer poured hot water onto the couched woad in a vat and the water went black with the indigo from the woad. Indigo, however, is not soluble in water... The dyer had to add bran, together with lime, wood ash or other alkali in order to achieve an alkalinity of 8.5pH to 9pH. After three days fermentation and constant stirring the indigo was reduced to its soluble form of leuco-indigo. The dyer wetted the cloth and lowered it into the vat. After soaking for sometime, as the cloth was lifted out, it slowly turned blue as the air oxidised the soluble indigo. This was done by experienced dyers long before the pH scale or chemistry itself was devised. The dyer himself could not have explained the process and to a by-stander it was pure magic» [26]. Ulteriori dettagli circa i procedimenti che venivano impiegati per l’estrazione della materia colorante dalle foglie del guado e per la tintura delle fibre tessili possono ricavarsi dal già citato articolo di Zvi Koren [1]: «The leaves are round and allowed to ferment in water with the subsequent addition of an alkaline substance. This alkaline substance could have been vegetable ashes, decomposed urine (a source of ammonia) and/or limewater. The impurities contained in the dyebaths as a result of the plants used and the high temperatures of the tropics necessarily imply a rapid and spontaneous fermentation sufficient to reduce the dyestuff to a soluble form. This dye solution is able to penetrate the immersed fibers. Subsequently, the textile is removed from the solution and the air-oxidized insoluble indigotin is formed. The blue dye was also extracted as a powder by striking the surface of the reduced yellow-green solution with sticks to hasten the air-oxidation of the substance and its consequent precipitation. The dried residue is then mostly indigotin powder and it can then be pressed into cakes» [1]. La tintura al guado era ben nota presso le antiche civiltà pre-elleniche. Nel medioevo rappresentò una voce importante nell’economia di molti paesi europei. Di fatto fino al secolo diciassettesimo il guado rappresentò, per l’indu38 stria tessile europea, l’unica fonte di blu. Quando i commerci con l’estremo oriente e con l’India divennero più rapidi e facili; specialmente a seguito delle aperture delle rotte che portavano grosse navi inglesi, olandesi e portoghesi a fare la spola tra i porti europei e quelli asiatici, l’indaco divenne economicamente più accessibile. Pertanto a cavallo dei secoli XVII e XVIII esso sostituì, anche per le sue tinte più brillanti, sui mercati tintori europei, il guado; e questo in particolare nella tintura delle stoffe di seta. Va sottolineato il fatto che il principio colorante dell’Indigofera tinctoria e dell’Isatis tinctoria è la molecola dell’indaco, anche se la concentrazione della materia colorante nell’Indigofera tinctoria è di circa 10 volte maggiore. Una ricetta per tingere la lana in blu e turchino, basata sull’utilizzo del guado (Isatis tinctoria), detto anche pastello, è contenuta nel più antico documento di arte tintoria, rappresentato dal papiro “Holmiensis”, che risale al III secolo d.C., attualmente conservato nel Museo Victoria di Upsala. F. Brunello ha così trascritto questa complicatissima ricetta: «Taglia le piante di pastello (guado n.d.A) e mettile all’ombra dentro ceste. Taglia gli steli a pezzi e lasciali all’aria per un giorno intero. Il mattino seguente pestali e quindi diponili nelle ceste; dopo questa operazione le piante vengono chiamate “antrace”. In un tino esposto al sole in 15 metrete (=600 litri) poni un talento (=26 chili circa) di pastello. Versavi dell’urina fino a coprire il contenuto e lascia al sole. Al giorno seguente pesta le piante nell’urina e continua a far ciò per tre giorni. Per la cottura del pastello: dividi il pastello e ciò che resta dell’urina in tre parti, tritura una delle parti e introducila in un recipiente e riscalda col fuoco. Ecco come vedrai se il pastello è cotto: all’ebollizione mescola accuratamente perché non si formino depositi al fondo. Quando la miscela comincia a fendersi al centro vuol dire che il pastello è pronto. Togli il tino dal fuoco che mantenga la miscela tiepida in modo da non lasciarla né raffreddare né riscaldare eccessivamente. Lascia tutto così per tre giorni. Nel frattempo, fa bollire in altro tino urina e saponaria:togli la schiuma e aggiungi la lana precedentemente trattata con mordenti. Dopo che si è imbevuta, strizzala e immergila nel tino contenente il colorante. Quando ti sembrerà opportuno, ritira la lana, copri il tino e riscalda nuovamente. Metti nel liquido due mine (=gr. 85 circa) di oricello previamente bollito e privato di schiuma. Immergivi la lana tinta. Sciacqua in acqua salata e lascia raffreddare. Tingerai in turchino due volte al giorno, al mattino e alla sera, fintanto che il liquido colorante potrà agire» [2]. La tintura della lana in turchino, allo stato di fiocco o filato, attraverso 39 l’utilizzo del guado, era molto comune, in epoca rinascimentale, nelle contrade della Toscana e in particolare a Firenze e Prato. «Tale operazione sul fiocco si effettuava nel tino dove si disponeva una bagno di tintura caldissimo con polvere di “guado”. Ogni tino conteneva libbre 25 di lana, e la stessa veniva lasciata per la durata di 1/8 di ora, dopo di che, la lana veniva tolta, lavata, messa in una caldaia di acqua bollente per 1/8 di ora e poi nuovamente messa in un tino da tinta, diverso, (per uniformare la tintura), lasciata per 1/8 di ora. Infine si passava all’ultima lavatura» [3]. La tintura basata sull’impiego dell’indaco (sia esso ottenuto dall’Indigofera tinctoria che dall’Isatis tinctoria) era un classico processo al tino; pertanto nel preparare il bagno di tintura era di fatto necessario: a) sciogliere il colorante in acqua aggiustando opportunamente il pH della soluzione; b) allontanare l’ossigeno dal bagno e attraverso una reazione di riduzione trasformare l’indaco (insolubile) in indossile (leuco-derivato, solubile in acqua). Anticamente la reazione di riduzione avveniva principalmente ad opera di batteri che si sviluppavano nel tino contenente l’indigotina, urina invecchiata, crusca di frumento e varie altre sostanze. L’urina, fermentando, sviluppava ammoniaca, la soluzione diventava alcalina, raggiungendo valori del pH utili per avviare il processo di tintura, che prevedeva l’immersione delle fibre di lana nel bagno, dopo che era stata fatta avvenire la reazione di riduzione dell’indaco al suo leuco-derivato. L’indossile si legava fortemente e permanentemente alle fibre. Successivamente le fibre venivano estratte dalla soluzione ed esposte all’aria. In queste condizioni l’indossile si riossidava ad indaco e le fibre assumevano una colorazione blu (vedasi figura 23) [27-a]. Reiterando il procedimento era possibile conferire alle fibre un colore sempre più intenso e profondo. I passi salienti di una recente ricetta, in base alla quale, partendo dall’indaco (naturale) in polvere, è possibile tingere la lana in blu, sono qui di seguito riportati: «Materials Needed • 8 oz. of white wool yarn • 2 gallons water 40 • 1-2 Tablespoons powdered indigotin • Clear, non-sudsy ammonia • RIT Color Remover- 1 pkg. • Litmus Paper or other pH test system that can read 9 or higher Directions 1. Heat water to a little more than lukewarm (100 degrees F. or so). The hotter the water, the more likely you are to damage the wool, so be careful. 2. Add ammonia by the tablespoon until a pH reading of 9 appears. Do not make the dyebath too alkaline or damage to the wool fibers can result. 3. Sprinkle 1-2 tablespoons powdered indigotin depending on how deep a blue you desire and stir thoroughly. From this point on all stirring of the dyebath should be done slowly and carefully to prevent extra oxygen from getting mixed into the solution. 4. Sprinkle in one teaspoon of RIT Color Remover and stir, wait five minutes and look for signs of a reduction reaction. These signs include a change in the color of the dyebath, especially a lightening in color, or the appearance of a coppery scum on the top of the bath. If this does not occur, repeat this step. 2 gallons of dyebath should not require more than one package of color remover. 5. Thoroughly wet the yarn in water before dipping. This presoaking will “open” the fibers of the yarn to more readily accept the dye, make for a more even color and keep small bubbles of air out of the dyebath. The water should be as close to the temperature of the dyebath as possible and try to support the yarn in several places so that the water weighted wool does not get stretched and loose its natural elasticity. 6. Carefully dip the yarn into the bath and slowly agitate, without making bubbles or stirring in air for about 30 seconds. Then gently lift the yarn from the bath, and let it air for five to ten minutes to re-oxidize and turn blue. This can happen very quickly and is fascinating to watch. Be careful where the yarn drips as drops of dyebath will leave a stain wherever they land. After ten minutes, successive quick dips can deepen the color, if desired. 7. When done, wash in a soap designed for hand-washable items and rinse yarn carefully and repeatedly until the rinse water runs clear and let dry» [27-b]. Nella tavola XIII è riprodotta una antica stampa nella quale sono raffigurate le varie fasi di lavorazione necessarie alla produzione (ci si riferisce alla città di Ypres, periodo medioevale) di panni lana di colore azzurro-blu. Dall’esame di questa raffigurazione si ricava che la lana veniva tinta al guado, prima della tessitura e della filatura, allo stato di fiocco [28-a]. 41 42 Fig. 23: Ancora oggi, nella fabbricazione di tappeti orientali, la lana viene tinta in blu turchino utilizzando i coloranti naturali vegetali contenuti nel guado e nell’indigofera tinctoria, mediante un processo al tino che prevede quale ultimo stadio l’ossidazione all’aria del leuco-composto a colorante. Fig. 24: Filari di aceri nella campagna vicino a Woodstock, Vermont (USA) [Rif. 28-b]. 43 A3) Piante dalle quali si estraevano i neri e i bruni – ACER RUBRUM (ACERO ROSSO) Appartiene alla famiglia delle “Aceracee”; la corteccia rossa del tronco veniva usata dalle popolazioni indigene della Florida e della Luisiana (USA) per estrarre una materia colorante di colore porporina che in presenza di solfato di ferro, tingeva la lana in nero (figura 24) [28-b]. – EMPETRUM NIGRUM (EMPETRO) Pianta appartenente alla famiglia delle Empetracee. Il nome deriva dal greco En (dentro) e Petros (pietra) a significare che essa cresce dentro le fenditure delle rocce. L’empetro è diffusa nelle zone alpino-boreali, nelle tundre e foreste della zona circumpolare, sulle Alpi e Appennini settentrionali e centrali. Questa pianta vegeta bene in terreni acidi e ricchi di torba (figura 25) [14]. Dalla polpa del frutto, costituito da una drupa sferica che a maturazione assume una colorazione nero bluastra, si estraeva un liquido avente caratteristiche acide. Questo succo era impiegato per colorare in nero la lana, mordenzata con allume. – JUSSIAEA CAPOROSA CAMB. (IUSSEA) Usata, specialmente nel Brasile, per tingere in nero i tessuti di lana. – PUNICA GRANATUM (MELOGRANO) Questa pianta (famiglia delle Punicacee) è originaria dell’Asia Occidentale (tavola XIV). Plinio la ricorda come “Malum Punicum”. Il frutto è una bacca particolare chiamata “baulastio” con un pericarpo (buccia) coriaceo, suddiviso in logge con numerosi semi rossi. La buccia Fig. 25: Il disegno mostra le foglie e i frutti dell’Empetrum nigrum. Il frutto è costituito da una drupa globosa dalla cui polpa si estraeva una materia colorante di colore rosso impiegata per tingere la lana in nero. 44 dei frutti è molto ricca di tannini. Dalla corteccia si estraeva una materia colorante capace di tingere la lana in nero in presenza di solfato ferroso; questo processo era utilizzato anche in Italia. Secondo i maestri tintori il nero rappresentava la tinta più difficile da realizzare. R. Wizingher riporta, in una sua pubblicazione, una ricetta ripresa dal volume “Ars Tintoria Fundamentalis” apparso a Francoforte sul Meno nel 1683, nella quale viene illustrato un processo tintorio al tannino capace di tingere la lana in nero. «… è menzionato un colore nero “ottenuto con corteccia d’ontano e limatura di ferro, come si trova presso gli arrotini e coltellinai”. Cuocendo si formava il sale ferroso dell’acido tannico contenuto nella corteccia d’ontano; si immergeva a più riprese la lana in un tale bagno, poi si stendeva all’aria» [29-a]. Il procedimento rientrava quindi in una metodica basata sulla preparazione di un bagno contenente il tannato ferroso (sale solubile), nel quale veniva immerso ripetutamente il tessuto di lana che successivamente era disteso all’aria dove avveniva, per effetto dell’azione dell’ossigeno, la ossidazione del sale ferroso a sale ferrico (insolubile). «Ovviamente non si poteva evitare che della polvere di ferro penetrasse poi la lana. La stessa (polvere di ferro n.d.A) non poteva poi essere eliminata completamente, nemmeno dopo intensi lavaggi. Il tessuto presentava perciò una mano dura e veniva in poco tempo deteriorato dalle particelle di ferro» [29-a]. Il processo, passato alla storia come “Nero al tannino” che sfruttava la combinazione del ferro con l’acido tannico è la più antica metodologia che sia stata utilizzata dall’uomo per tingere in nero fibre e tessuti. Per la tintura in nero della lana si usavano spesso procedimenti molto complessi. Alcuni, ad esempio, prevedevano la “sovrammissione di tre colori fondamentali partendo da una base di guado (blu) e tingendo successivamente con robbia e reseda (rosso e giallo)” [24]. Quest’ultima procedura spesso comportava un indurimento e dei danni alle fibre di lana. Nel secolo XVI e XVII, in Italia, i maestri tintori per tingere in nero i tessuti e le fibre usavano eseguire una prima tintura di fondo con guado (blu) e robbia (rosso) alla quale seguiva un processo di sovratintura con campeggio [29-a]. 45 a) b) Fig. 26: a) Antica fotografia di donne calabresi di San Giovanni in fiore (Cs) che indossano tipici costumi in nero. b) Caratteristica calza di lana, confezionata tra le mura domestiche, tinta in nero utilizzando un estratto dalla corteccia di olmo [Rif. 29-b]. In provincia di Cosenza (Calabria) e in particolare a San Giovanni in Fiore, le donne usavano confezionare nelle loro case le «”Cozette” ‘ccu taccaglie’, calze di lana di pecora fermate al ginocchio con fili di lana attorcigliati o con ritagli di stoffa e sostituiti in seguito da elastici. Esse venivano lavorate ai ferri dalle donne, dopo che avevano spelazzata, pettinata (cardata) la lana e ridotta in batuffoli per essere filata al fuso. Il filo così ottenuto si tingeva, in casa, di nero, di blu, di grigio, oppure si tingevano direttamente le calze. La tinta nera si estraeva dalla corteccia degli olmi» (figura 26) [29-b]. 46 A4) Piante dalle quali si ricavavano i gialli, verdi, arancio, noce, cannella e altri colori – ACER CAMPESTRE (LOPPO, ACERO CAMPESTRE) Albero (altezza 5-6 m, diametro chioma 3-4 m) che cresce in Europa e in Italia; presenta una chioma tondeggiante con foglie pendenti. Alcuni ricettari tintori del XVIII secolo riportano che facendo bollire la lana in presenza di pezzetti del legno fresco di questa pianta, appartenente alla specie di Acero, era possibile conferire alla fibre un colore nocecannella. La scorza veniva usata raramente per tingere in giallastro, usando dei bagni acidi. – ACER PLATANOIDES (ACERO RICCIO) Albero (altezza 8-10 m, diametro della chioma 4-6 m) a portamento eretto con foglie a 5 lobi, più spesse di quelle dell’Acer pseudoplatanus a cui somiglia, che diventano gialle in autunno (tavola XV). Le foglie di questo albero venivano utilizzate nei paesi del nord Europa per tingere i tessuti di lana in un giallo-limone. – AGRIMONIA EUPATORIA (AGRIMONIA) E’ una pianta appartenente alla famiglia delle Rosacee. Il processo tintorio consisteva nel preparare un decotto con le foglie e gli steli raccolti all’inizio della fioritura. Si otteneva una soluzione di colore giallo-oro vivace e solida. Con foglie e steli raccolti nel periodo di maturità era possibile tingere la lana in colore castoro. Una ricetta per tingere la lana in giallo fine, utilizzando le foglie di Agrimonia, descritta nel riferimento [17], prevede le seguenti operazioni: «Mordant: Alum or chrome. To prepare the dye: Boil one peck of chopped leaves and stalks one hour. Strain liquid into bath for dye. To dye: When dye bath is lukewarm, enter mordanted and wetted wool. Slowly bring to a boil and simmer one hour. Rinse well. Dry in shade». – AILANTHUS GLANDULOSA DESF. (AILANTO, SOMMACCO PERSIANO) Albero appartenente alla famiglia delle Simarubacee (altezza 10-20 m, diametro della chioma 7-10 m); presenta foglie composte, imparipennate lunghe 40-60 cm, formate da foglioline verde chiaro, ovali, lanceolate troncate alla base (tavola XVI). Questa specie (A. glandulosa), originaria della Cina e delle Molucche, fu introdotta in Italia intorno al 1760. Con le foglie di questa pianta, si preparava un decotto contenente un 47 principio colorante giallo per la tintura della lana. – ALLIUM CEPA (CIPOLLA) La cipolla (Liliacee) è una pianta erbacea, biennale da orto (largamente coltivata in Italia, originaria delle regioni dell’Asia occidentale), il cui bulbo è costituito da una parte centrale, il girello, dal quale hanno origine le tuniche cioè foglie metamorfosate sovrapposte le une alle altre. Le tuniche interne sono carnose e ricche di sostanze di riserva mentre quelle esterne sono sottili e membranose (tavola XVII). Le tuniche più esterne della comune cipolla da cucina venivano utilizzate per tingere la lana in varie tonalità che, a seconda della procedura, andavano dall’arancio-bruciato a quello dell’ottone. Una ricetta tintoria è qui di seguito riportata: «Mordant: For burnt orange, alum; for brass color, chrome. To prepare the dye: Boil one pound of skins 30 minutes. Strain liquid into bath for dye. To dye burnt orange: Steep alum-mordanted, wetted wool one hour in hot dye bath. Rinse and dry. To make the color more durable, dip the wool two or three times more in the dye bath, drying it after each dipping. To dye brass-color: Immediately after mordanting with chrome, enter the still wet wool in the warm dye bath and steep until the desired tone appears. Rinse and dry» [Rif. 17]. – ANTHEMIS Sono piante erbacee rustiche (famiglia delle Compositae) annuali, biennali e perenni, con foglie a lamina profondamente divisa e infiorescenze a capolino, simili alla margherite. a) ANTHEMIS COTULA (CAMOMILLA FETIDA) Un processo di tintura basato sull’utilizzo delle foglie e dei ramoscelli di questa pianta (citato nel trattato sulla tintura pubblicato dal Talier nel 1793) veniva usato per tingere in giallo verdastro la lana, sia per tintura diretta che dopo mordenzatura con cremore di tartaro. b) ANTHEMIS TINCTORIA (CAMOMILLA DEI TINTORI) I fiori di questa pianta perenne (tavola XVIII) venivano usati per tingere la lana in giallo. A seconda delle sostanze mordenti impiegate era possibile conferire alla lana una colorazione gialla, cachi oppure oro. Le procedure sono così descritte nel riferimento [17]: “Mordant: For yellow, alum; for khaki, alum plus a second dye bath; for gold-color, chrome. 48 To prepare the dye: Chop one peck of flower-heads and boil 30 minutes. Strain liquid into bath for dye. To dye yellow: Enter wetted alum-mordanted wool in cold dye bath; heat slowly and simmer one hour. Rinse well and dry in shade. To dye khaki-color: After 30 minutes of simmering, as for yellow, enter alum-mordanted wool, without rinsing, in a second boiling bath, this one containing 1/6 ounce potassium dichromate and 1/6 ounce acetic acid. Simmer 10 to 15 minutes. Rinse in soapy water. To dye gold color: Dye soon after mordanting with chrome, while wool is still wet but after it has cooled. Enter in a cold dye bath, bring to a slow boil, and simmer 30 minutes. Rinse in several clear waters of gradually reduced temperatures”. – BERBERIS VULGARIS (BERBERO, CRESPINO, SPINA SANTA, ECC.) Il Berberis vulgaris, nome comune Crespino, è un arbusto sempreverde, rustico (famiglia delle Berberidacee) a foglia caduca, indigena dell’Italia, Europa, Asia e Africa Settentrionale (altezza 2-3 m, diametro della chioma 1,5-2 m). I fiori sono riuniti in racemi lunghi, le foglie sono ovali, mentre le bacche appaiono rosse a forma ovoidale-cilindrica (tavola XIX). Dalla corteccia delle radici di questo arbusto si estraeva un principio colorante giallo, noto con il nome di “berberina”, che veniva usato per tingere la lana in giallo per tintura diretta. La berberina (una base debole, otticamente inattiva, solubile a caldo in acqua) è un alcaloide giallo, molto diffuso nel mondo vegetale, la cui struttura molecolare è riportata nella figura 27. La berberina cristallizza in aghi gialli, contenenti acqua di cristallizzazione; anidra fonde tra i 145-150 °C, una volta sciolta in acqua si trasforma in idrossido di berberinio. – BETONICA O STACHIS OFFICINALIS (BETONICA, VETTONICA) Pianta (famiglia delle Labiate) che cresce nei boschi e nei prati dell’Europa centrale e meridionale. Presenta foglie ovato-oblunghe, a margini crenati, verde scuro (figura 28). Nel secolo diciottesimo veniva usato il decotto delle sue foglie per tingere la lana in colore muschio-carico. – BIGNONIA CHICA HUMB. (VERMIGLIONE AMERICANO, CHICA) Pianta originaria dell’America Latina (famiglia della Bignonia); il nome le venne dato in onore dell’Abate Jean Paul Bignon (1662-1743) bibliotecario alla Corte di Luigi XIV. Facendo fermentare le foglie secche in acqua si ottiene una sostanza 49 Fig. 27: Struttura chimica della berberina; principio colorante giallo che si estrae dalla corteccia delle radici del “berberis vulgaris”. Fig. 28: Il disegno mostra la pianta della Stachys officinalis, denominata Betonica, dalle cui foglie si estraeva un colorante usato per colorare la lana in giallo. 50 rossa che veniva usata dalle popolazioni indigene per tingere la lana in arancio. – BIXA ORELLANA (ORIANA, URUCÙ ECC.) Albero di piccole dimensioni (famiglia delle Bixacee) originario dell’America del Sud e delle Antille. Il principio colorante si ricavava triturando i piccoli semi di colore rosso cupo, insieme alla polpa rossa, vischiosa, che li circonda. Questi semi sono contenuti all’interno dei frutti consistenti in capsule bivalve di colore rosso porpora (tavola XX) [30]. La pasta veniva mescolata con acqua e fatta fermentare per 10-15 giorni; dopo filtrazione rimaneva un liquido torbido dal quale per evaporazione si ricavava un residuo che si lasciava seccare all’ombra. Il prodotto, così ottenuto, era impiegato in un bagno di soda o di sapone per tingere la lana in rosso arancio. Di solito la pasta colorante di “Oriana” si importava dalla Guiana Francese. Il relativo processo di tintura fu molto usato, in Europa, fino alla scoperta dei coloranti di sintesi. Il principio colorante della Bixa orellana è la Bixina (estere monometilico della Norbixina, l’acido bicarbossilico omologo della Crocetina) la cui costituzione chimica è descritta nella figura 29. La bixina, rispetto alla crocetina, il colorante dello zafferano, conferiva alla lana un colore rosso arancio più cupo. – CARPINUS BETULUS (CARPINO BIANCO) Il nome carpino (Betulacee) deriva dalla fusione delle due parole celtiche “car” (legno) e “pin” (testa) in riferimento al fatto che il suo legno veniva usato per costruire i gioghi per i buoi. Dalla corteccia del Carpinus betulus, detto carpino comune (diffuso in Europa, Italia, Asia Minore e Persia, altezza fino a 20 m, diametro della chioma 4-8 m, (tavola XXI)), si estraeva una materia colorante che in alcuni paesi veniva utilizzata per tingere la lana in giallo. Fig. 29: Struttura molecolare della bixina, il principio colorante rosso arancio contenuto nei semi e nella polpa dei frutti della Bixa orellana. 51 – CERCIS SILIQUASTRUM (ALBERO DI GIUDA) Il Cercis siliquastrum, una leguminosa, il cui nome deriva dal greco “kerkis” (Cercide), è un albero che può raggiungere i 6-7 m di altezza con una circonferenza di 2 m (tavola XXII). Questa pianta è chiamata comunemente anche “albero di Giuda”, poiché, secondo la leggenda popolare Giuda, uno dei discepoli di Gesù Cristo, si impiccò ad un ramo di uno di questi alberi dopo essere stato assalito dai rimorsi per il suo tradimento. I ramoscelli di questa pianta arborea, caratteristica della flora mediterranea, tagliuzzati, venivano fatti bollire in acqua e la soluzione usata per tingere la lana in giallo ruggine, sia direttamente che mordenzata con cremore di tartaro. – CHLOROPHORA TINCTORIA (LEGNO GIALLO, LEGNO DI CUBA) Albero di grande dimensione, appartenente alla famiglia delle Moracee, originario delle Antille e dell’America del Sud. Dal suo legno si estraeva una materia colorante usata fino alla grande guerra per tingere la lana in giallo, se mordenzata con allume, sali di stagno o cremore di tartaro, e in verde se veniva usato come mordente il solfato di ferro. Combinando la materia colorante del legno giallo con quella del campeggio era possibile conferire alla lana un colore nero. Un processo di tintura della lana, basato sull’utilizzo del principio colorante estratto dal legno della Chlorophora tinctoria, è qui di seguito descritto: «Mordant: For gold-color on wool, chrome; for yellowish tan on wool, alum; … To prepare the dye: Dissolve 1/2 ounce fustic (chlorophora tinctoria, n.d.A.) extract in enough water for the dye bath (4 to 4 1/2 gallons for one pound of wool). To dye wool gold-color: Immediately after mordanting with chrome, rinse the wool, squeeze out the water, and immerse in dye bath. Bring to a boil, and simmer half an hour. Rinse thoroughly in several waters and dry in shade. To dye wool or cotton yellowish tan: Wet the mordanted material, immerse in dye bath, and bring to a boil. After half an hour of simmering, remove the material, and without rinsing, immerse it in a boiling water bath containing 1/6 ounce acetic potassium dichromate and 1/6 ounce acid. Boil ten minutes in this, then rinse well and dry in shade» [17]. – CROCUS SATIVUS (ZAFFERANO, CROCO) Il genere Crocus comprende più di 70 specie di piante bulbose, rustiche che fioriscono dall’autunno alla primavera. Il Crocus sativus, comune52 mente detto zafferano, presenta fiori alti circa 10 cm lilla-porpora, con grandi stimmi e antere rispettivamente di colore rosso-arancio e arancio (tavola XXIII). Questa piccola pianta erbacea, appartenente alla famiglia delle Iridacee, era conosciuta per le sue proprietà tintorie dagli antichi popoli della Mesopotamia, dagli Egizi e successivamente dai Greci e dai Romani. Plinio la citava per le sue buone qualità tintorie; essa venne coltivata in Toscana, fin dal secolo tredicesimo. Il principio colorante si estraeva dagli stimmi dei fiori che venivano messi a digerire in acqua. La soluzione così ottenuta, colorata intensamente in giallo carico, era impiegata, in particolare, per la tintura delle lane da usare nella manifattura dei tappeti. R. J. Forbes relativamente al Crocus sativus scriveva: «… saffron, a beautiful orange-yellow dye extracted from the dried stigmas of the crocus flower, particularly Crocus sativus. L. Pliny tells us something about this “crocus” or “crocum”: “Wild saffron is better than any other. To grow it in Italy is most unprofitable … The prime favourite is that of Cilicia, and in particular of Mount Corycus, than that of Mount Olympus in Lycia, and then that of Centuripa in Sicily. Some have given second place to the saffron (crocum) of Thera. Nothing is adulterated as much as saffron. A test of purity is whether under the pressure of the hand it crackles as though brittle; for moist saffron, as saffron is when adulterated, makes no noise. Another test is whether it stings slightly the face and eyes if after the above test you bring the hand back to the face”… …… Its dye was well-known to the ancient inhabitants of Crete of Middle Mioan II date, the flower grew there and its picking is shown on a famous wall-painting. It … grew in Syria and Egypt. The Phoenicians dyed stuffs with saffron and gave them to the Assyrian king Assurnasirpal as part of their tribute. Its production in classical times seems to have been localised in the regions mentioned by Pliny» [16]. Il principio colorante del Crocus sativus è la crocetina (C20 H24 O4) presente in questa pianta come diestere del gentiobioso (Crocina). I residui zuccherini si eliminano facilmente per saponificazione in mezzo alcalino; la crocetina, così ottenuta, cristallizza dalla piridina, come sale piridico, dando luogo alla formazione di cristalli regolari di colore arancio scuro. 53 Fig. 30: Struttura molecolare della crocetina, il principio colorante giallo del crocus sativus. La struttura molecolare della crocetina, un acido bicarbossilico contenente lungo la sua catena 4 gruppi metilici laterali e 7 doppi legami C=C, è riportata nella figura 30. La raccolta dello zafferano, che prevedeva particolari attenzioni, è descritta con tratti magistrali dalla scrittrice israeliana Shifra Horn nel suo libro dal titolo “La più bella tra le donne”. In particolare questa descrizione viene riportata in quelle parti dell’opera che si riferiscono a quando la madre ricordava alla figlia la sua fanciullezza trascorsa nel piccolo villaggio di Zafferana che sorgeva vicino a Tripoli, la capitale della Libia, dove il padre Yaaqov Chenach (di religione ebraica) possedeva dei campi coltivati a Crocus sativus. Alcuni passi relativi alla raccolta dello zafferano sono qui di seguito riportati: «Pochi mesi prima della stagione della raccolta … Chenach era invece calmo e tranquillo. In quel periodo se ne andava in giro per i paesi … chiedendo che gli portassero le fanciulle più piacenti. Gli venivano presentate decine di ragazze in tenera età e lui chiedeva loro di mostrargli i palmi delle mani. Con grande concentrazione e precisione Chenach osservava le mani tese, le rigirava fra le sue mani grandi fissandole con attenzione come se cercasse di penetrare nei misteri delle loro linee e svelare il destino delle loro proprietarie. Quando i suoi occhi erano infine sazi, Chenach accarezzava con grazia la pelle morbida come la seta …. Misurava poi lo spessore della mano, esaminava il tipo di unghie …. Chenach sceglieva in tal modo le giovani più dolci e carine dalle mani bianche e delicate, le dita lunghe e agili. Il suo zafferano … veniva raccolto dalle mani migliori. Nei mesi autunnali, durante la raccolta … Come eteree farfalle, le ragazze volteggiavano fra i fiori color lillà e li coglievano delicatamente. Dopo che i fiori viola erano stati separati dagli steli verdi, le raccoglitrici tagliavano con l’estremità delle dita e in gran fretta lo stigma del fiore stando bene attente a contare tre stigmi a corolla. … Quando le mani di tutte le ragazze 54 erano infine diventate arancioni, Chenach raccoglieva da loro gli stigmi, li seccava su setacci morbidi fatti di crini posti sopra tizzoni ardenti, fino a che il giusto profumo penetrava nelle sue narici. Raccoglieva poi l’oro arancione in piccoli sacchetti di stoffa, che già contenevano fili di zafferano e che tuttavia pesavano appena un grammo. Nei giorni successivi alla raccolta, Chenach si vantava che da centomila fiori piantati molto fitti fosse riuscito ad ottenere un chilogrammo di zafferano che costava come l’oro» [32]. Qui di seguito viene descritto un procedimento per tingere la lana in giallo, usando la materia colorante estratta dallo zafferano: «Mordant: Alum. To prepare dye: Gently boil four ounces of dried saffron half an hour. Strain liquid into bath for dye. To dye: Immerse mordanted, wetted wool or silk in lukewarm dye bath. Simmer wool gently; steep silk at lower temperature (about 160 degrees Fahrenheit) until desired shade is obtained. Rinse carefully and dry in shade» [17]. – CYNARA SCOLYMUS (CARCIOFO) Il carciofo è una pianta erbacea, perenne, rizomatosa che cresce spontanea nei paesi dell’area mediterranea. Il Cynara scolimus presenta foglie grandi e pelose (spinose in alcune varietà) di colore verde-grigio sulla parte superiore e bianco-grigiastra in quella inferiore (tavola XXIV). Le foglie del carciofo, seccate e triturate, venivano utilizzate per conferire alla lana, mordenzata con tartrato di potassio, un colore giallo caratterizzato da una buona persistenza. – FUMARIA OFFICINALIS (ERBA FUMARIA) Questa pianta appartiene alla famiglia della Papaveracee. Nel diciottesimo secolo veniva usato il decotto della pianta secca o fresca, colta prima della fioritura, per tingere la lana in giallo solido. – GARDENIA FLORIDA (GARDENIA) Il nome di questi arbusti, dai fiori sempreverdi (famiglia delle Rubiacee), deriva da Alexander Garden, medico naturalista vissuto nel secolo XVIII, originario della Carolina del Sud (USA). Dai bellissimi e profumati fiori bianchi di questo arbusto (tavola XXV), opportunamente essiccati, si estraeva una materia colorante, molto apprezzata e costosa, che veniva usata in Cina e in Europa (intorno alla metà del secolo diciannovesimo) per tingere stoffe di lana in giallo. 55 – GENISTA TINCTORIA (GINESTRA DEI TINTORI) Il nome genista deriva dal celtico “gen” (cespuglio). Le ginestre (famiglia delle Leguminose) comprendono specie con foglie molto piccole e fiori pupilianacei dall’aspetto molto vario. La genista tinctoria, nota anche come ginestrella è frequente nei boschi e nei pascoli di tutta la penisola italiana. Ha aspetto polimorfo e si presenta sia come arbusto che come suffrutice prostrato (tavola XXVI). I fiori, di colore giallo oro, sono riuniti in racemi terminali dai quali si estraeva una materia colorante usata in molte regioni europee per conferire alla lana una bella tonalità di giallo [33]. I principi coloranti contenuti nella ginestra, la “luteolina” e la “genisteina” sono delle sostanze basiche derivate dal flavone. Le strutture molecolari del flavone e della genisteina sono illustrate nella figura 31. Il processo di tintura alla ginestra prevedeva un pretrattamento delle fibre di lana con mordenti (allume o sali di cromo). Una procedura per tingere la lana, utilizzando i principi coloranti della ginestra è sotto riportata. «Mordant: Alum or chrome. To prepare the dye: Boil one pound of flowering tops (della ginestra; n.d.A.) one hour, then strain liquid into dye bath. If tops are dried, use more than a pound. To dye: Enter the mordanted, wetted wool when dye bath is lukewarm. Increase heat slowly and simmer one hour. Rinse well and dry in shade» [17]. Sovrapponendo la tintura con la ginestra con quella del guado era possibile conferire alla lana una colorazione verde [16]. Flavone Genisteina Fig. 31: Struttura molecolare della genisteina (a destra), principio colorante giallo contenuto nei fiori della ginestra. La genisteina è un derivato del flavone la cui struttura molecolare è mostrata in figura (a sinistra). 56 – HUMULUS LUPULUS (LUPPOLO) Il nome di questa pianta deriva dal greco “humela” e probabilmente dal latino “humus” a indicare il suo portamento strisciante. L’Humulus lupulus, comunemente moto come luppolo, cresce spontaneamente in tutte le regioni europee. Nel medioevo il luppolo cominciò ad essere impiegato come aromatizzante della birra. Questa pianta, dioica, perenne, rizomatosa, presenta delle infiorescenze maschili di colore giallo a forma di pannocchia con fiori molto piccoli. Le infiorescenze femminili sono amenti penduli ovoidali con i fiori protetti da brattee verdi giallastre (tavola XXVII). Nel diciottesimo secolo il decotto dei gambi fioriti e delle foglie era impiegato nell’industria tintoria per conferire alla lana una colorazione cannella. – JUGLANS (NOCE) Il nome Juglans deriva da “Jovisglans” (noce di Giove). Il genere comprende all’incirca quindici specie diffuse in America, Europa ed Asia. Le Juglans sono alberi decidui i cui frutti sono costituiti da una drupa con un epicarpo ricco di tannino, comunemente detto mallo. Il seme, che è edulo, è racchiuso in un endocarpo legnoso (tavola XXVIII). a) JUGLANS CINEREA (NOCE BIANCO) E’ una pianta alta fino a 10 m, originaria delle regioni nord-orientali degli Stati Uniti di America, presenta foglie grandi con rametti appiccicosi. Il mallo dei frutti del noce bianco veniva utilizzato per conferire alla lana un colore marrone-rossiccio. Uno dei possibili processi tintori è così descritto nel riferimento [17]: «Butternuts should be gathered from the trees while the hulls are still green. To prepare the dye: Remove the hulls by pounding them with a hammer against a flat stone .… When a peck has been amassed, soak the hulls overnight, then boil one hour and strain liquid into bath for dye. To dye light tan: Wet wool and immerse it when the dye bath is lukewarm. Continue heating slowly to a boil and simmer one hour. Rinse and dry. To dye dark tan: After 30 minutes of simmering, remove wool and, without rinsing, put it in a boiling water bath containing 1/6 ounce ferrous sulfate. Simmer 15 minutes. Rinse well and dry in shade». b) – JUGLANS NIGRA (NOCE NERO) Albero di grande dimensioni (la cui altezza supera anche i 30 m) originario degli Stati Uniti d’America. In Europa viene allevato per motivi 57 ornamentali ma anche per il legname. Il mallo dei frutti del noce nero veniva usato in Nord America per tingere la lana in un colore marrone-scuro e nero. Il processo tintorio basato sull’impiego del noce nero è stato anche usato, dopo la scoperta delle Americhe, in molti paesi europei. «The nuts are collected while the hulls are still green. Remove the hulls, cover them with water, and store them away from the light until ready for use. Or, dry them at once and store for future dyeing. Best used on coarse wools. Mordant: None required, but a richer color obtained if one is used. To prepare the dye: Soak 6 quarts of hulls overnight and boil two hours before straining liquid into bath for dye. To dye: Immerse wetted wool when dye bath is lukewarm. Heat to boiling point and simmer one hour. To darken the color: Add a few sumac berries and a pinch of copperas (ferrous sulfate). The dye bath can be used several times over, each time giving a slightly lighter tone. To obtain black: Dye wool first with indigo to get a deep blue. Rinse wool thoroughly, then enter into dye bath of black walnut as for dark brown. Add a handful of sumac berries. Simmer one hour. Leave overnight in dye bath. If not dark enough, next day add more black walnut dye and a pinch of copperas. Heat again to boiling point and simmer until color is right. Rinse thoroughly and dry in shade» [17]. – LYSIMACHIA VULGARIS (LUSIMACHIA) La lusimachia detta anche “mazza d’oro”, è una specie perenne diffusa in Europa e in Italia. I fiori gialli sono riuniti in pannocchie terminali. Fu usata, anche se raramente, per tingere di giallo la lana. – MEDICAGO SATIVA (ERBA MEDICA) Il noma deriva da “Media” la regione dell’Asia Minore dove iniziò la coltivazione di questa pianta (famiglia delle Leguminosae) il cui genere comprende molte specie, alcune delle quali crescono spontanee in Italia. L’erba medica veniva ampiamente coltivata già in età romanica come foraggio per gli animali. La Medicago sativa era denominata “regina delle foraggere” a causa dell’alto contenuto proteico. Dal fieno secco dell’erba medica, per ebollizione con acqua, veniva estratta una materia colorante di colore giallo usata per tingere la lana in colore camoscio. 58 Fig. 32: Un magnifico esemplare di “Morus alba” (Mont Vernon - Virginia) [Rif. 7]. a) b) Fig. 33: a) un bellissimo esemplare di “Morus nigra” (Windsor Castle, England); b) infiorescenze e frutti del “Morus nigra”. I frutti, edibili, prima della maturazione, assumono una colorazione rossa; a maturazione diventano di colore nero, da cui il nome Gelso nero dato all’albero [Rif. 7]. 59 – MORUS ALBA (GELSO BIANCO) In generale i gelsi (famiglia delle Moracee) sono alberi molto rustici a foglie decidue originarie dell’Asia. Il Morus alba veniva, e lo è tutt’ora in alcune regioni, coltivato principalmente per produrre le foglie che rappresentano l’unico nutrimento per il baco da seta. E’ un albero che può raggiungere anche i 15 metri di altezza; presenta frutti bianchi e leggermente violacei (figura 32). Nel secolo XIX il decotto, ottenuto utilizzando le foglie del Morus alba, addizionato con cloruro tannico e acido cloridrico, veniva utilizzato nell’industria tintoria per conferire alla lana un bellissimo colore giallo vivace, resistente alle intemperie e ai lavaggi. Fig. 34: Struttura molecolare dei principi coloranti (morina e maclurina) contenuti nel legno del Morus nigra (gelso nero). 60 – MORUS NIGRA (GELSO NERO, MORO) Albero, a chioma molto folta (altezza fino a 12 m) originario dell’Armenia e della Persia, coltivato in alcune regioni per i suoi frutti commestibili (figura 33). Alcuni ricettari riportano che nel secolo diciottesimo il decotto, ottenuto impiegando pezzetti sminuzzati del legno secco del gelso nero, aveva la capacità di tingere la lana in giallo opaco o giallo oliva. Le tinture effettuate su lana mordenzata con cremore di tartaro e nitrato di bismuto risultavano essere particolarmente solide. Le sostanze coloranti contenute nel gelso dei tintori sono la morina (un derivato del -pirone) e la maclurina (un ossichetone) le cui strutture molecolari sono delineate nella figura 34. Il colorante più efficace è comunque la morina; infatti la maclurina presenta proprietà tintorie insufficienti e poco stabili. – PASSERINA TINCTORIA (PASSERINA) Il nome deriva dal latino “Passer” (passero), per la particolare forma dei semi che ricordano la testa di questo uccello. Sono piccoli arbusti (famiglia delle Thymelaceae) simili a quelle dell’erica. Dalla corteccia di questa pianta, che cresce nel sud della Francia, in Spagna e in Portogallo, si estraeva una materia colorante che veniva usata per tingere la lana in giallo. – PINUS MARITIMA (PINO MARITTIMO) Albero rustico con tronco retto, altezza anche oltre i 30 m, con un diametro della chioma che può superare i 6 m. Presenta delle pigne lunghe 8 cm allargate alla base e appuntinte all’apice con squame dure e appiattite (tavola XXIX). Dalle pigne, una volta estratti i pinoli, era possibile ricavare un decotto capace di tingere la lana in colore noce. – POLYGONUM FAGOPYRUM (GRANO SARACENO) E’ una pianta erbacea annuale dicotiledone, originaria dell’Asia, ma diffusa nell’Europa del Nord, appartenente alla famiglia delle “Poligonacee” e al gruppo dei cereali. Dai suoi semi si ottiene una farina per uso alimentare. La pianta del grano saraceno venne usata nel secolo diciottesimo nell’industria tintoria. Dagli steli freschi si ricavava una materia colorante che era capace di tingere la lana in colore tabacco. Il decotto della paglia, usato su lana mordenzata con sale di stagno, conferiva alla stessa un colore aranciato-vivace chiamato dai sarti dell’epoca “Caca-Dauphin”. – POLYGONUM HIDROPIPER (PEPE D’ACQUA) Il termine Polygonum deriva dal greco polys (molto) e gónu (ginocchio) 61 a indicare il fatto che lungo gli steli di queste piante (polygonaceae) sono presenti una serie di nodi (tavola XXX). Il genere è costituito da circa 300 specie. La specie che risulta più utile come colorante di tessili è la Polygonum hydropiper pianta che presenta un fusto di circa 60 cm di altezza, con foglie lanceolate contenenti delle ghiandole visibili per trasparenza, il cui secreto ha un sapore che ricorda quello del pepe (donde il nome comune di pepe d’acqua). La pianta contiene un glucoside che anticamente veniva usato come emostatico. La specie Polygonum bistorta veniva usata anche in farmacologia per l’alto contenuto di tannino e di acido gallico nel rizoma [15]. Secondo quanto riportato da J. e R. Bronson, i quali scrissero all’inizio del secolo diciottesimo un importante testo sui coloranti per il settore tessile, la tintura basata sull’utilizzo della materia colorante contenuta nel Polygonum hydropiper, conferiva alla lana una colorazione gialla che risultava essere tra le più durevoli [17]. Nei processi tintori venivano usate tutte le parti della pianta, eccetto le radici. Un tipico procedimento di tintura prevede i seguenti passaggi: «Mordant: For yellow, alum; for gold-color, chrome. To prepare the dye: Soak one peck of the chopped plant for three or four days, then bring to a boil. Reduce temperature to about 200 degrees Fahrenheit and steep 30 minutes. Strain liquid into bath for dye. To dye: Enter wetted, mordanted wool, bring to a boil and steep the material one hour in the dye bath. Rinse and dry. With chrome, dye immediately after mordanting. For cotton, use alum-tannic acid-alum mordant» [17]. – POPULUS (PIOPPO) Il nome sembra che derivi dal latino “Arbor Populi” (albero del popolo). I pioppi (famiglia delle Salicacee) sono piante arboree rustiche con foglie caduche, alterne, semplici, palminervie e dotate di un lungo picciuolo. Sono caratterizzate da una crescita rapida anche in terreni umidi e salmastri (tavola XXXI). La corteccia e il legno interno del tronco, di piante appartenenti a varie specie di pioppo, venivano utilizzate per tingere la lana, con metodo diretto oppure mordenzata con cremore di tartaro o sali di alluminio. A seconda del processo era possibile ottenere varie tonalità di colore che andavano dal giallo-verde, al giallo-noce e alla cannella. Nelle gemme del pioppo è contenuto un colorante, la “Crisina”, un derivato del -pirone, la cui struttura molecolare è rappresentata nella figura 35-a. 62 a) b) Fig. 35: Struttura molecolare della crisina, principio colorante contenuto nelle gemme del pioppo, e della galangina, presente nelle radici della galanga. Un derivato della crisina, la “galangina” (figura 35-b), contenuto nelle radici di galanga, veniva impiegato per tingere in giallo la lana, opportunamente mordenzata. In alcuni paesi nelle pratiche tintorie veniva usata la materia colorante contenuta nelle foglie del Populus nigra (pioppo nero). Questa pianta diffusa in Europa, Italia (Lombardia) e Asia occidentale (altezza fino a 30 m), presenta una chioma piramidale con foglie ovato-triangolari. Particolarmente ricercate erano le foglie della varietà Populus nigra italica, originaria del nostro paese (tavola XXXII). Questa pianta ha una 63 chioma colonnare e foglie grandi romboidali (figura 36); è spesso utilizzata come frangivento specialmente nella pianura Padana (per questa ragione in Inghilterra è denominata “Lombardy poplar”) [16]. La lana, sottoposta ad un processo di tintura a base di foglie di Populus nigra italica acquisiva colorazioni diverse a seconda del tipo di mordente impiegato. Tipiche procedure tintorie sono così riportate nel riferimento [17]: «Mordant: For lime yellow, alum; for golden brown, chrome. To prepare the dye: Chop 1 1/2 pecks of leaves and soak overnight. Heat gradually and boil 45 minutes to an hour. Strain liquid into bath for dye. To dye lime yellow: Enter alum-mordanted, wetted wool into lukewarm dye bath. Heat to boiling point and simmer until color is right. Rinse; dry in shade. To dye golden brown: Soon after mordanting with chrome, enter wet wool into dye bath. Continue heating and simmer until the desired color is obtained. Rinse well and dry in shade». – PRUNUS ARMENIACA (ALBICOCCO) Il Prunus armeniaca, detto comunemente albicocco, è un albero (famiglia delle Risacee) di media grandezza, originario della Cina. L’albicocco era noto e diffuso in Italia e in Europa, già al tempo dell’antica Grecia. Il nome “Armeniaca” lascia supporre che esso sia stato introdotto in Italia dall’antica Armenia. Lo scrittore latino del secolo IV d.C. Palladio Rutilio Tauro Emiliano, nel suo manuale sull’agricoltura (Opus Fig. 36 Disegno di una foglia del Populus nigra (pioppo nero). Le foglie di questa pianta venivano usate per tingere la lana. A seconda dei mordenti usati, era possibile conferire alle fibre tonalità che andavano dal giallo al marrone. 64 Agriculturae), menziona la coltivazione, nei territori vesuviani, delle “Armenie” (tavola XXXIII). L’albicocco presenta un tronco robusto con una ramificazione disordinata. Il Prunus armeniaca è il progenitore degli attuali albicocchi, coltivati come alberi da frutta. Nel ricettario del Talier (1763) è riportata una ricetta che descrive il processo di tintura della lana in colore cannella utilizzando il decotto di giovani rami di albicocco finemente tagliuzzati. – PSYCHOTRIA TINCTORIA (PSICOTRIA) Il genere è costituito da circa 700 specie diffuse principalmente nelle regioni tropicali. Le foglie della Psychotria tinctoria, un piccolo albero (famiglia delle Rubiacee), originario del Perù, rappresentavano la materia di partenza per tingere i tessuti di lana in colore giallo-oro. – PTERIDIUM AQUILINUM (FELCI) Le piante di Pteridium aquilinum, appartenenti ad una delle 250 specie del genere Pteridium (famiglia delle Pteridacee), sono diffuse in Europa, Asia, Oceania e America e presenti generalmente nel sottobosco delle foreste. Queste felci (crittogame) si caratterizzano per un rizoma allungato, spesso e di colore bruno; le fronde, molto lunghe, hanno forma triangolare, in autunno assumono un colore rossastro (tavola XXXIV) [34]. I termini Pteridium e aquilinum derivano rispettivamente dal greco (Pteris= felce) e dal latino (aquilinum= come l’aquila). Ai fini tintori si utilizzavano i giovani germogli (tavola XXXIV-c) che venivano raccolti in primavera. Il processo tintorio prevede le seguenti operazioni: «Best used for dyeing at the “fiddlehead” stage in spring when the young shoots are still coiled at the tip. Mordant: Alum or chrome. To prepare the dye: Steep one pound of young shoots in hot water for two hours. Strain liquid into bath for dye. To dye yellowish green: Enter mordanted, wetted material into lukewarm dye bath. If wool, simmer one hour. If silk, heat only slightly and hold at about 160 degrees Fahrenheit for one hour. Rinse and dry» [17]. – PUNICA GRANATUM (MELOGRANO, POMOGRANATO) Dalla buccia dei frutti di questa pianta i tintori dei paesi arabi che si affacciano sul mediterraneo, e specialmente quelli tunisini, usavano tingere la lana in giallo. 65 “In Mesopotamia the yellow dye was extracted as early as 2000 b.C. frome pomegranate by grinding the rinds and extracting them with water. In Egypt it was in use from 1500 b.C. onwards as finds in tombs proved; in Palestine it was used in dyes and inks” [16]. Il principio colorante del Punica granatum è la molecola della granatonina la quale è presente nella sua corteccia sottoforma di un alcaloide: la N-metil-granatonina la cui struttura molecolare, caratterizzata dalla presenza di due anelli piperidinici condensati, è qui di seguito illustrata: CH 2 CH CH 2 N CH 3 C=O CH 2 CH CH 2 CH 2 – PYRUS COMMUNIS (PERO) E’ una pianta da frutto arborea, a foglie caduche (famiglia delle Rosacee) largamente coltivata in molte regioni della penisola italiana. Alcuni ritengono che il pero sia originario dell’Asia centro-occidentale (tavola XXXV). Il legno e la scorza dei rami, opportunamente tagliuzzati, venivano impiegati per tingere la lana in colore noce. – QUERCUS TINCTORIA (QUERCITRONE) La corteccia di questa pianta, originaria del Nord-America, contiene un principio colorante giallo, da cui si ricavava la sostanza colorante denominata “Quercetina”, un derivato del flavone, la cui struttura chimica è rappresentata nella figura 37. L’uso di questo colorante fu introdotto in Europa nel diciottesimo secolo dal tintore americano Bancroft. Il processo tintorio permetteva di tingere la lana in un solido colore giallo. In presenza di mordenti diversi si ottenevano tinte che andavano dall’aranciato al giallo-verde, molto resistenti alla follatura e dotate di una buona solidità. Alcuni elementi botanici della Quercus tinctoria sono riprodotti nella figura 38 [35]. Una ricetta tintoria per la lana, che utilizzava l’estratto della parte interna della corteccia della quercia nera (Quercus velutina) veniva così ripor66 Fig. 37: Struttura molecolare della quercetina, principio colorante giallo contenuto nella corteccia della Quercus tinctoria. Fig. 38: Elementi botanici della Quercus tinctoria, dalla cui corteccia si ricava una sostanza colorante che veniva usata per tingere lana in un solido colore giallo [Rif. 35]. tata nel riferimento [17]: «Mordant: For buff (colore camoscio; n.d.A.), alum; for gold color, chrome; … To dye buff: Dissolve 1/2 ounce extract in the dye bath. Enter alum-mordanted wetted wool; heat slowly, and simmer 30 minutes. Remove wool and, without rinsing, immerse it in a water bath containing 1/6 ounce potassium 67 dichromate and 1/6 ounce acetic acid. Simmer 15 minutes. Rinse well and dry. To dye gold color: Dissolve 1/2 ounce extract in the dye bath. Enter wet wool which has just been mordanted with chrome. Heat slowly and simmer one hour. Rinse well and dry». – RESEDA LUTEOLA (ERBA GUADA, GUADERELLA LUTEOLA, RESEDA DEI TINTORI ecc.) Piante rustiche (famiglia delle Resedacee) annuali, biennali e perenni molto diffuse nelle regioni del Mediterrenao. Il nome, che deriva dal latino “Resecare” (calmare, guarire), fu introdotto da Plinio per evidenziare le particolari proprietà medicantose della reseda. Le piante presentano foglie interne alterne con fiori, zigomorfi, caratterizzati da petali lobati, riuniti in infiorescenze che emanano un gradevole profumo (tavola XXXVI) [33, 36]. Il principio colorante giallo, che si estraeva anticamente da questa pianta, particolarmente dalle sommità fiorite, era molto usato presso i tintori della lana e della seta. Il processo tintorio, che prevedeva l’uso di sostanze mordenzanti quali l’allume, permetteva di ottenere lane, molto soffici, colorate in tinte gialle, belle e stabili. La reseda veniva utilizzata come colorante fin da tempi remoti. Essa era nota a Virgilio come “herba lutea”, a Venezia era conosciuta e citata in alcune documentazioni del XIII secolo come “herba de Pulea”. In Toscana veniva chiamata “erba guada”. La materia colorante estratta dalla reseda fu molto usata in Europa fino al secolo XVIII, quando fu gradualmente sostituita con il quercitrone. Anticamente sembra che la tintura alla reseda fosse effettuata esclusivamente dagli ebrei, mentre i cristiani usavano altre tinture. Per queste ragioni la reseda veniva anche denominata “erba degli Ebrei”. Alcuni processi tintori della lana basati sull’impiego della Reseda luteola sono qui di seguito descritti: «The plant should be gathered when in full flower but before the blossoms fall. If used at once the color will be brighter, but the plant instead may be dried for future dyeing. Mordants: For lemon yellow on wool, alum; for golden yellow, chrome; for orange, alum and tin; … To prepare the dye: Put one pound of plant material in cold water, bring to 68 a boil and simmer two hours. Strain into bath for dye. For deeper shades of yellow, use more plant material. To dye wool lemon yellow: Immerse alum-mordanted, wetted wool in dye bath. Let it simmer 1 1/2 hours. For a richer color, add one ounce of powdered chalk (calcium carbonate) near the end of the period. To dye wool golden yellow or old gold: Mordant wool with chrome and dye immediately, placing wet wool in warm dye bath and keeping it submerged. Bring to a boil, and simmer for 1 1/2 hours…» [17]. Il principio colorante contenuto nella reseda è la molecola della “Luteolina”, un derivato del flavone, la cui struttura molecolare è descritta nella figura 39. – RHAMNUS Arbusti (famiglia delle Ramnacee), il cui nome deriva dal greco “Rhamnos”, diffusi allo stato spontaneo nell’emisfero boreale, in Brasile e nell’Africa meridionale. Sono caratterizzati da fiori verdi o verde-giallastro, e frutti che, a maturazione, assumono un bel colore porpora scuro o nero (tavola XXXVII). Il principio colorante più importante del Rhamnus è la “Ramnetina”, un derivato del flavone, la cui formula strutturale è riportata nella figura 40. Fig. 39: Struttura molecolare della luteolina, il colorante giallo che si estraeva dalle estremità fiorite della reseda luteola (reseda dei tintori). 69 Fig. 40: Struttura molecolare della ramnetina, il principio colorante contenuto in alcune parti del rhamnus. a) RHAMNUS FRANGULA (FRANGOLA) Una ricetta tintoria riportata nel libro delle tinture del Talier (1973) descrive un processo per tingere la lana, mordenzata con cremore di tartaro e nitrato di bismuto, in colore viola. La materia colorante si ricavava dal succo delle bacche mature. La tinta era comunemente denominata “Prugna di Monsieur o Prugna D’Oissel” b) RHAMNUS UTILIS (VERDE DELLA CINA) Dalla corteccia di questo arbusto, originario della Cina, si estraeva un principio colorante, denominato “Lo-Kao o Verde della Cina”, capace di dare delle belle tinte verdi, solidi e vivaci, alla seta e alla lana. – ROBINIA PSEUDO ACACIA (GAGGIA) Il nome deriva da J. Robin, famoso erborista del Re di Francia Enrico IV. I semi di questi alberi o arbusti rustici (famiglia delle Leguminose) furono introdotti in Europa nel 1601. La Robinia pseudo acacia (detta anche falsa acacia) originaria delle regioni orientali degli Stati Uniti di America, si è naturalizzata e diffusa anche in Italia. La pianta raggiunge anche i 20 m di altezza con un diametro della chioma che va dai 4 agli 8 m (tavola XXXVIII). Intorno alla fine del diciottesimo secolo il legno della robinia pseudo acacia veniva usato per tingere la lana, mordenzata al cremore di tartaro e nitrato di bismuto, in giallo-oro. Con la tintura diretta si otteneva una tinta giallo-limone. 70 – RUBUS FRUTICOSUS (ROVO DELLE SIEPI, PIANTA DELLE MORE, MORA SELVATICA) E’ un arbusto sarmentoso (famiglia delle Rosacee), spontaneo in Italia. I rami, i picciuoli e le foglie sono spinosi. I fiori, riuniti in rami o pannocchie, sono formati da tante piccole drupe, di colore nerastro al momento della maturazione (tavola XXXIX). Nel “Plichto” di Rosetti viene riportato l’utilizzo delle foglie del rovo, ricche di tannino, per mordenzare le fibre. Nel diciottesimo secolo i decotti delle radici e delle more venivano impiegati per tingere la lana, mordenzata, in giallo sporco o in giallo rossastro, se trattata con sali di stagno. Un processo utilizzato per tingere la lana in grigio chiaro, impiegando il principio colorante della pianta delle more, viene così descritto nel riferimento [17]: «Young shoot of the common brambles of roadsides and waste places can be gathered in the spring for dyeing. Mordant: Alum To prepare the dye: Boil one pound of young blackberry shoot 45 minutes. Strain liquid into bath for dye. To dye wool: Immerse wool when dye bath is lukewarm, bring to a boil and simmer one hour. If a darker gray is wanted, lift wool out and add 1/2 ounce iron (ferrous sulfate) to the dye bath. Mix in well; return wool and continue simmering until the shade desired is obtained. Rinse and dry». – RUTA GRAVEOLENS (RUTA) E’ una pianta perenne (originaria dell’Europa meridionale, spontanea in Italia) appartenente alle Rutacee. Presenta fusti ramificati, foglie divise con segmenti oblunghi o lineari e piccoli fiori di colore giallo, riuniti in corimbi (tavola XL). Le foglie e i gambi della ruta, opportunamente pestati in un mortaio e successivamente fatti bollire in acqua, fornivano un bagno di colore verdastro che veniva utilizzato, fin dal Medio-Evo, per tingere la lana in giallo solido. Il principio colorante è presente nella ruta, sotto forma di un glucoside denominato Rutina, (il 3-Rutinoside della Quercitina),la cui composizione chimica è illustrata nella figura 41. – SAMBUCUS NIGRA (SAMBUCO) E’ un arbusto tipico del paesaggio campestre di molte regioni 71 Fig. 41: La struttura chimica della rutina (un glucoside), il principio colorante giallo presente nelle foglie e nei gambi della ruta graveolens. Fig. 42: Struttura molecolare della cianidina (forma cationica), il principio colorante, grigioazzurro, contenuto come glucoside (crisantemina) nelle bacche del sambuco. dell’Europa (famiglia delle Caprifoliacee). I frutti sono piccole drupe lucide di colore nero (tavola XLI). Dalle bacche succose di questo albero si ricavava un liquido di colore nero-violaceo che veniva utilizzato per tingere la lana, mordenzata con cremore di tartaro, in grigio-azzurro. Le bacche del sambuco contengono la Crisantemina, un monoglucoside che per ebollizione con acidi o sotto l’azione di enzimi si scinde in zucchero e l’aglicone, noto come cianidina (figura 42). 72 Nella crisantemina il residuo dello zucchero è legato in posizione 3. – SENECIO PALUDOSUS (SENECIONE) Gli steli fioriti, appartenenti a questa pianta erbacea (famiglia delle Compositae), vennero usati, anche se raramente, per tingere la lana in giallo. – SOLIDAGO (VERGA D’ORO) A questo genere appartengono 100 specie erbacee perenni, rustiche. Le piante sono caratterizzate da piccole infiorescenze a capolino gialle riunite in pannocchie. La “Solidago canadiensis”, che cresce nelle regioni nord-orientali dell’America settentrionale (altezza 1-2 m, diametro della chioma 0.8-1 m), presenta foglie lanceolate finemente dentate e capolini gialli, riuniti in pannocchie che appaiono in estate (tavola XLII). Una tecnica tintoria, basata sull’impiego del solidago canadiensis, è così riportata nel riferimento [17]: «Flowering heads of Solidago canadiensis or almost any of the related species common to roadsides and fields can be used; pick when coming into bloom. Mordant: For yellowish tan, alum; for old gold, chrome. To prepare the dye: Place 1 to 1 1/2 pecks of goldenrod flowers in enough cold water to cover; bring to a boil and boil for one hour or longer to extract their color. Strain liquid into bath for dye. To dye yellowish tan: Enter alum mordanted, wetted wool in lukewarm dye bath. Continue heating; simmer one hour. Without rinsing, enter wool into a second bath, this one containing 1/6 ounce potassium dichromate and 1/6 ounce acetic acid. Keep wool moving while simmering for 15 minutes. Rinse and dry. To dye old gold: Enter wet wool in lukewarm dye bath as soon as the chrome mordanting is finished. Simmer one hour after boiling point is reached. Rinse well; dry in shade». – TAGETES (PUZZOLA) Piante annuali (famiglia delle Compositae) di origine messicana afferenti a 50 specie diverse caratterizzate da fiori di colore arancio, rosso o giallo (tavola XLIII). Come descritto nelle ricette qui di seguito riportate nei processi tintori della lana venivano impiegati, in particolare, i fiori delle tagetes: «Mordant: Alum. To prepare the dye: Cover one peck of fresh flower-heads with cold water. Bring to a boil and boil one hour. A few black walnut hulls boiled with the flowers will deepen the tone of yellow. If dried flower-heads are used, only 73 3/4 peck will be needed. Strain liquid into bath for dye. To dye wool yellow: Enter the mordanted, wetted wool in a lukewarm dye bath. Heat to the boiling point and simmer 45 minutes to one hour. Rinse, then dry in shade» [17]. – THALICTRUM FLAVUM (RUTA DEI PRATI) Pianta rustica che cresce in Europa e in Italia (famiglia delle Ranuncolaceae), presenta fiori lanuginosi di colore giallo chiaro riuniti in infiorescenze compatte. Nel secolo diciottesimo le radici e le foglie della Ruta dei prati vennero utilizzate per conferire alla lana un colore giallo. – THAPSIA VILLOSA (TAPSIA, TURBITO FALSO) Fin dall’antichità la corteccia di questa ombrellifera, spontanea dell’area mediterranea, veniva utilizzata per la tintura in giallo della lana. Nel diciottesimo secolo i tintori spagnoli misero a punto un processo basato sull’impiego delle infiorescenze. – TRIFOLIUM PRATENSE (TRIFOGLIO) Il nome deriva dal latino “Tres” (tre) e “Folium” (foglia); chiaro riferimento alle foglie composte da tre foglioline della stessa forma e dimensione. Dai fiori di queste leguminose, che si presentano riuniti in infiorescenze a spiga (tavola XLIV), si estraeva una materia colorante che veniva usata in Svezia, sicuramente fino al diciottesimo secolo, per tingere in verde le stoffe di lana. Dall’infuso del fieno di trifoglio si ricavava una tintura capace di tingere la lana, mordenzata con tartrato potassico, in un colore giallo sporco che tendeva all’olivastro. L’aggiunta di una piccola quantità di robbia produceva una tinta nota come “Carmelite”. – ULEX EUROPAEOUS Arbusto provvisto di spine (famiglia delle Leguminose), noto come “Ginestrone”. Cresce nelle regioni dell’Europa Occidentale e dell’Africa del Nord. In primavera i rami si ricoprono di numerosissimi fiori gialli (tavola XLV). Secondo una ricetta riportata dal Talier (1793) il decotto, ottenuto con i fiori freschi del Ginestrone, poteva essere utilizzato per tingere in giallo giunchiglia la lana mordenzata con cremore di tartaro. Una esemplificazione delle varie tonalità di giallo che possono essere realizzate, sottoponendo filati di lana a processi tintori che utilizzano vari coloranti naturali, con o senza mordente (allume), è illustrata nella figura 43 [18-a]. 74 Fig. 43: Filati di lana tinti con coloranti naturali gialli; in questa figura sono riportate le tonalità ottenute tingendo la lana con coloranti naturali senza mordente (prima colonna) e premordenzando la lana con allume (seconda colonna) [Rif. 18-a]. 75 Frank Ames, nel suo libro dal titolo “The Kashmir Shawl” (lo scialle del Kashmir) descrive una tecnica, impiegata nella regione del Kashmir (famosa per la manifattura di preziosi e variamente colorati scialli in lana) per conferire una tinta gialla sfruttando l’azione dei vapori di zolfo. «The fine pale yellow colour of a new shawl is given by means of sulphur fumes. A hole is made in the floor about a foot [30 cm] in diameter and six inches [15 cm] in depth. Over is placed a small square chimney of poplar wood (legno di pioppo; n.d.A.), open of course above. Some lighted charcoal is put in the hole and over is sprinkled a small handful of bruised sulphur. Around the chimney and about two feet [60 cm] distant from it is placed a horse of framework about five feet six inches [168 cm] in height upon which four shawls are suspended and the external air is further excluded by another drawn over the top. When the sulphur is consumed the shawls are withdrawn and others are subjected the fumes of fresh sulphur. They are kept until the next day, then washed again in water, dried and pressed several together between two boards» [37-a]. Due bellissimi esemplari di scialli del kashmir sono magnificamente raffigurati nei due dipinti mostrati nelle figure 44 e 45 [37-b]. 76 Fig. 44: Ingres, Madame Riviere, 1805. Olio su tela cm 116 x 81, Parigi, Musée du Louvre. Scialle lungo tessuto nel Kashmir [Rif. 37-b]. 77 Fig. 45: Ingres, Madame Panckoucke, 1811. Olio su tela cm 93 x 68, Parigi, Museo del Louvre. Scialle a righe tessuto nel Kashmir [Rif. 37-b]. 78 B) Materie coloranti naturali di origine animale usate nella tintura della lana B1) Porpora reale La porpora reale è una sostanza colorante il cui precursore si estraeva dalla ghiandola ipobranchiale di alcuni molluschi gasteropodi; in particolare da quelli appartenenti alle specie Murex brandaris, Phyllonotus trunculus, Stramonita haemastoma (tavola XLVI) [38]. La porpora reale, detta anche porpora di Tiro, era capace di conferire tinte solidissime alle fibre proteiche quali la lana e la seta. P.E. Mac Govern e R.H.Michel nel loro interessante articolo dal titolo “Royal purple dye: its identification by complementary physicochemical techniques” scrivono di una legenda greca dove la scoperta della porpora reale era attribuita ad Ercole. «According to Greek legend (Julius Pollux, Onomasticon I, 45-49, edition of Bekker-1846), Royal purple was first discovered by Melkarth (Hercules), king and deity of Tyre, when he and the nymph Tyros were strolling along the shores of ancient Phoenicia (modern-day Lebanon) with their dog. Biting into a large mollusk, the dog stained its mouth purple, where upon Melkarth dyed a gown with a newfound substance and presented it to his consort» [39]. La legenda ha in sé elementi di verità se si pensa che i molluschi, molto diffusi nel bacino del mediterraneo, in primavera, per accoppiarsi e riprodursi, si spostano in acque poco profonde molto vicine alle spiagge rocciose quali sono appunto quelle del Libano. La porpora, veniva anche utilizzata, come colorante tessile, in paesi molto lontani dal mediterraneo: Cina, Giappone, Perù ecc.. Questo dimostra che la tecnologia della tintura alla porpora si è sviluppata indipendentemente e in tempi diversi in popoli che non avevano alcuna possibilità di essere in contatto tra loro per un eventuale processo di trasferimento. Da fonti storiche si ricava che i Re Assiri e Babilonesi, i Minoici di Creta, il Re Salomone, gli alti prelati israeliti e gli Imperatori romani Nerone, Diocleziano, Costantino il Grande e Giustiniano indossassero abiti tinti in porpora nelle grandi occasioni e cerimonie ufficiali. E’ per queste ragioni che il colorante è passato alla storia con il nome di “Porpora Reale”. Il rango sociale, politico ed economico di chi vestiva abiti tinti con la porpora era da mettere in relazione soprattutto con il suo elevatissimo 79 costo che in peso superava quello dell’oro. Abiti di porpora, secondo quanto riportato nel Vangelo secondo Marco, furono fatti indossare a Gesù prima di incoronarlo, per dileggio, Re dei Giudei, con una corona di spine. «Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio e convocarono tutta la corte. Lo rivestirono di porpora e, dopo avere intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciarono poi a salutarlo: “Salve re dei Giudei” … Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo» [Vangelo secondo Marco, V, 15]. E’ ormai un dato acquisito che nel mediterraneo l’antica città di Tiro situata sulla costa Fenicia è stata per lungo tempo il centro più importante dell’industria della porpora. Con la caduta dell’Impero Romano d’Oriente, che venne a coincidere, dopo anni di decadenza, con la conquista, nel 1453, di Costantinopoli da parte dei turchi, l’industria della porpora in tutte le città del mediterraneo subì un drammatico declino anche se, specialmente da parte del Vaticano, sussisteva ancora una certa domanda. Infatti da alcuni documenti si ricava che Papa Paolo II nel 1464 emise un decreto in base al quale imponeva ai cardinali di indossare vesti di colore porpora. Le botteghe tintorie in Italia ed in Europa che tingevano con la porpora, intorno al sedicesimo secolo, sembra non fossero più in grado di riprodurre, tessuti in lana e in seta aventi la classica colorazione violetto-bluastro che caratterizzava gli indumenti tinti in base agli antichi processi messi a punto dai fenici. Questo fenomeno viene documentato attraverso la tavola XLVII che riporta il ritratto di un cardinale (probabilmente il ’ di Guevara, 1541-1609), effettuato dal Cardinale Don Fernando Nino grande pittore El Greco (Domenikos Theoto Kopoulos 1541-1614). Dall’esame del dipinto si evince che il colore degli abiti indossati dal cardinale aveva una tonalità che virava verso il rosso brillante, molto vicina a quella usata oggigiorno [38]. Lo stesso dicasi del colore dei paramenti cardinalizi di Papa Giulio II così come appare nel ritratto del grande pittore veneziano Tiziano Vecellio (1490-1576) (tavola XLVIII) [40]. Il confronto tra il moderno rosso cardinalizio imposto dal Vaticano, e la colorazione blù-violetta che acquisisce un campione di lana tinto con porpora reale, ad alto grado di purificazione, è mostrato nella tavola XLIX [41]. Importanti testimonianze circa la caratteristica tonalità blù-violetta 80 degli abiti, tinti con porpora, si ricavano analizzando i mosaici della Chiesa di San Vitale in Ravenna, riprodotti nelle tavole L e LI, dove sono rispettivamente rappresentati l’Imperatore Giustiniano I (482-565 d.C.) e l’Imperatrice Teodora (sesto secolo d.C.) con il loro seguito di cortigiani. Gli abiti indossati sia dall’Imperatore che dall’Imperatrice sono chiaramente di colore violetto, «and, because inorganic mosaic stones hardly bleache or change color even after 1500 years, we can assume that this was indeed the purple hue used when the Phoenician industry was still active. In another mosaic in San Vitale Jesus Christ also wears a gown of the same color» [38]. Durante gli scavi archeologici condotti nel sito libanese di “Sarafand”, località che si trova a mezza strada tra le antiche città di Tiro e Sidone (situate lungo la costa del mare mediterraneo), e in quello di Tel Akko (Israele) sono stati ritrovati cocci di giare del tredicesimo secolo a.C. contenenti residui che recentemente Mac Govern e Michel hanno dimostrato essere depositi di porpora reale (tavola LII). Il processo di ottenimento della porpora reale dai molluschi marini, insieme alle operazioni di tintura sono stati riportati nella loro interezza e con dovizia di particolari, da Plinio il vecchio nella sua famosa Historia Naturalis (libro IX, sezioni 60-65, capitoli XXXVI e XLI) pubblicata intorno alla metà del primo secolo d.C., cioè circa 1500 anni dopo la nascita nel Mediterraneo dei primi siti di estrazione e di produzione della porpora [42, 43]. Sul metodo usato per recuperare il liquido contenuto nelle ghiandole ipobronchiali dei molluschi marini, J.T. Baker ha scritto: «The source of the dye, at least, is not in doubt. It is described as a small whitish “vein” situated transversely under, but in immediate contact with, the shell. The best results were obtained working with live animals. The glands of the larger shell-fish were separated from the rest of the animal, but smaller varieties were crushed whole, shell and all. There is evidence that where the gland was removed intact, special instruments were used. Neither Pliny the Elder nor Pliny the Younger described a method for the removal of the gland but they did report that only the gland was used for the dyeing process» [44]. A partire dall’inizio del ventesimo secolo furono sviluppati una serie di studi tendenti a delucidare gli aspetti chimici connessi a processi di trasformazione di interesse archeologico. Nacque la “Chimica Archeologica” di cui uno dei primi capitoli fu rappresentato proprio dalla 81 porpora reale. L’obiettivo era quello di interpretare in chiave scientifica i passaggi e le fasi, anticamente descritti, che portavano all’ottenimento del più famoso colorante dell’antichità. Nel 1909 Friedländer dimostrò che il principio colorante della porpora reale ottenuta a partire da molluschi marini del bacino del Mediterraneo (il Murex brandaris, il Murex trunculus, e la Purpura haemastoma) e da specie caratteristiche di altre regioni (Purpura aperta e Nucella (Purpura) lapillus originarie rispettivamente del Golfo Persico e dell’Oceano Atlantico) era il 6-6'-dibromoindigotina, la cui struttura molecolare è riportata nella figura 46: Fig. 46: Struttura molecolare del principio colorante della porpora di Tiro (6,6I – dibromo indigotina). Per i suoi studi Friedländer ha utilizzato circa 1,4 gr di composto puro, ricavati da circa 120.000 molluschi. Nel 1955 Bouchilloux e Roche isolarono per la prima volta i precursori della porpora reale delucidandone anche la struttura chimica. Questi studi furono successivamente integrati da una più completa analisi strutturale condotta dai ricercatori Baker e Sutherland (1968) e Fouquet e Bielig (1971). I precursori, sulla base degli studi citati, risultarono essere gli esteri solfati dell’indossile e del bromo-indossile. Nel liquido ipobronchiale di alcune specie di molluschi è stata riscontrata anche la presenza di altre molecole precursori, derivati dell’indossile e del bromo-indossile, contenenti, in posizione 2, gruppi metiltio (-CH3S) o metilsolfonici (-SO2CH3) (figura 47). Questi studi, insieme ai risultati di molti altri autori non citati, hanno 82 permesso di determinare i passaggi chimici che dai precursori, portano alla formazione della porpora reale e quindi a delucidare il chimismo del processo di tintura. Lo schema delle possibili reazioni è illustrato, nella sua completezza, nella figura 47 [39, 43]. Da questo schema si ricava che la presenza di un enzima, la “Purpurase”, provoca l’idrolisi degli esteri solfati dell’indossile e del bromo indossile (processi (I) e (1a)). Successivamente l’indossile sostituito nella posizione 2 (molecola (VI)) subisce un processo ossidativo che porta alla formazione del composto (VII). Quest’ultima molecola, attraverso un processo di natura fotochimica, passando attraverso un prodotto intermedio, molecola (VIII), viene convertito nella molecola della porpora reale, 6,6'-dibromoindigotina (composto (III). La molecola dell’indossile non sostituito in posizione 2, composto (II) viene direttamente trasformato, per ossidazione, nella molecola della porpora reale attraverso il percorso (2). Il primo stadio delle procedure di tintura alla porpora consisteva nella preparazione di un “tino” contenente un bagno composto da una soluzione acquosa del leucoderivato (solubile ed incolore) ottenuto quest’ultimo attraverso una reazione di riduzione dell’indaco (stadio (3) in figura 47). Le fibre di lana immerse in questo bagno assorbivano e legavano, con forti legami, le molecole del leucoderivato. Quindi il materiale tessile veniva esposto all’aria dove per effetto dell’azione ossidante dell’ossigeno atmosferico il leucoderivato (incolore) si trasformava nel colorante (la porpora reale) (stadio (3) e composto III in figura 47) producendo una tintura «that is wash-fast and resistant to rubbing» [43]. B2) Rossi – CHERMES (GRANA DI CHERMES, KERMES) Il Chermes è un colorante rosso il cui principio si ricava dai corpi essiccati degli insetti femmina del Kermococcuss vermilio o Coccus ilicis. Le prime testimonianze circa l’impiego del Kermes nel tessile risalgono alla preistoria; infatti in una caverna neolitica francese, sono stati ritrovati esemplari di fibre tessili tinte con questo colorante. Il Kermococcus vermilio è un insetto la cui femmina, priva di ali, vive sui rami di alcuni alberi, in particolare su quelli di un piccolo leccio [noto con il nome di quercia di chermes (Quercus coccifera)], che cresce spontaneo nell’Europa del sud. L’insetto che esce dall’uovo verso la fine di maggio si sviluppa, attac83 Fig. 47: I vari stadi e processi chimici attraverso i quali i precursori, contenuti nelle ghiandole ipobronchiali dei molluschi marini dai quali si otteneva la porpora reale, venivano trasformati nella molecola del colorante (composto III) e nella sua forma ridotta e solubile: il leuco-derivato (composto IV) [Riff. 39, 43]. 84 cato ai rami, fino a raggiungere, verso il mese di marzo dell’anno seguente la forma di un grano rosso avente le dimensioni di un pisello (tavola LIII) [45]. La procedura, anticamente seguita, per ottenere la materia colorante, nota anche come rosso di grana e scarlatto veneziano, era basata sulle seguenti fasi: a) raccolta delle femmine del Kermes vermilio dai rami della Quercus coccifera durante il periodo della riproduzione; b) uccisione degli insetti mediante immersione in aceto; c) essiccazione dei corpi, che si presentano sottoforma di grani di colore rosso-marrone e frantumazione allo stato di polvere; d) estrazione del colorante usando come solvente acqua e alcool [16]. Il chermes è un colorante al mordente; lana e seta venivano tinte dopo essere state mordenzante con allume. Alcune procedure di tintura utilizzavano un bagno costituito da chermes, sali di arsenico e fungo commestibile [43]. A partire dal secolo sedicesimo il chermes subì una forte concorrenza da parte della cocciniglia (vedasi avanti). In effetti la tintura alla cocciniglia, che si caratterizzava per un maggiore potere ricoprente, conferiva alle fibre di lana una colorazione più intensa e vivace. Va sottolineato il fatto, però, che con la tintura al chermes, con mordenti a base di sali di stagno o alluminio, si realizzavano colori più solidi e duraturi di quelli che si ottenevano con i processi a base di cocciniglia. A partire dal diciannovesimo secolo il chermes è stato quasi totalmente sostituito dalla robbia. La soluzione acquosa del chermes, in presenza di acidi, acquisisce un colore giallo, mentre assume un colore purpureo qualora alla soluzione vengano aggiunte delle basi. Il principio colorante del rosso di grana è l’acido chermesico, un antrachinone la cui struttura molecolare è descritta nella figura 48. Nel Kermes è presente, anche se in concentrazione molto bassa (~0.06%), l’acido flavochermesico. A Venezia erano particolarmente apprezzati i tessuti tinti con il “rosso grano”. Qui di seguito viene trascritta integralmente la ricetta, riportata nel già 85 Fig. 48: Struttura molecolare dell’acido chermesico, il principio colorante rosso che si estraeva dal Kermococcus vermilio. citato “Plictho de Larte de tintori …” di Giovanventura Rossetti, che descrive le varie operazioni, gli ingredienti e le proporzioni relative al processo di tintura che veniva effettuato nel secolo XVI a Venezia per tingere la lana con il Kermes. Il brano è scritto in lingua italiana (Toscana) ma permeato da molte parole in dialetto veneto. «A volere fare lana de scarlato de colpo de grana. Quando serai per alluminar (mordenzare) la tua lana torrai lire 4 de lume (allume) per ogni dozena (dozina) de lire de lana a peso e lire una e meza de grana (kermes) e falla boglir do ore e lassela stare nel bagno per spacio de tre hore, e quando le per far di grana e tu la farai molto bene lavare e torrai lire 6 de grana provenzale e lire 4 de grana de Certi o de Corintho, per ogni dozena de lire de peso e doi bigoncioli (doppia misura di liquidi: Concio= misura equivale a sei sestari= 3,283 litri) de acqua forte (probabilmente una miscela di ceneri e calcina) e metti nella caldara quando lacqua e uno poco piu che tivida (tiepida) messeda (mescola) bene poi metti dentro la lana e falla ben retellare e falla boglir cosi dentro per spacio de un ottavo de hora e poi cavala e falla ben lavar nelle corbe (grandi cesti ottenuti dall’intreccio di grossi vimini o rami di castagno, con due manici) come si solita e poi dalli un bagno chiaro che sia sul boglir e quando metti lana falla levar il boglio e poi cavala e haverai bella lana» [24]. La tintura al chermes, effettuata sulle fibre mordenzate con allume, conferiva alla lana una colorazione rosso-arancio. La tintura alla grana, come si evince dalla storiografia dell’industria tessile, ha avuto una grande rilevanza in Europa a partire dal basso 86 medioevo. La grana rappresentava una materia colorante particolarmente importante per la produzione di panni pregiati. «L’elevatissimo prezzo di alcuni panni di lusso medievali, come gli “scarlatti di grana” dipese proprio dal costo della grana come materia tintoria, mentre il costo del lavoro per la tintura e per la rifinizione rappresentò un elemento assai minore» [Munru, the Medieval Scarlet, in Rif. 46]. Da alcuni documenti relativi all’arte di Calimala in Firenze, che raggruppava i mercanti dediti alla tintura e alla rifinitura di panni lana grezzi importati principalmente dalle Fiandre (città di Dovai e Gand) e dal Brabante (città di Molines e Bruxelles), si ricava che nel 1301 fu emesso dall’Arte di Calimala un provvedimento legislativo che: «stabilì che i panni “scarlatti” dovevano essere tinti soltanto con la grana, vietando la miscela con altre materie tintorie… Nello statuto della stessa corporazione, compilato nel 1339, il concetto merceologico dei panni “scarlatti” divenne più chiaro: i panni chiamati “scarlatti di grana” dovevano essere denominati da quel momento in poi, “scarlatti di colpo” per distinguerli dai panni che venivano tinti con la mistura di grana e di robbia … chiamati “scarlattini” o “infiammati” o panni di “mezza grana”» [46]. Successivamente nel 1369 una deliberazione dei Consoli dell’Arte vietava di mettere il vespino o l’oricello nella tintura di panni con grana e nel 1372 la Corporazione istituì una speciale marchiatura da applicare ai panni tinti con grana. La quantità e il valore della grana impiegata nella tintura di scarlatti si ricava analizzando i dati riportati nella tabella 1 che si riferiscono in particolare a due panni lana bianchi importati a Firenze dai Calimali intorno ai primi decenni del secolo quattordicesimo. Dall’analisi di questi dati emerge che il valore della materia colorante (la grana) usata per la tintura rappresentava il 35-36% dei costi totali [46]. Secondo quanto riportato da G. Gargiolli, nel XV secolo la grana veniva importata a Firenze principalmente dalla Spagna oppure dal Portogallo, in particolare da Cintri un piccolo centro dell’Estremadura [47]. Firenze acquisì nel medioevo il primato in Italia dei tessuti in seta e in lana tinti alla grana i quali venivano esportati anche in altri paesi europei. A. Cirillo Mastrocinque, circa la penetrazione delle stoffe fiorentine nel mercato della città di Napoli, relativamente alla seconda metà del XV secolo, scrisse: 87 «… i fiorentini sono gli indispensabili fornitori del prodotto di lusso, che vanti oltre ad una perfetta lavorazione, un gusto raffinato e preciso nella tintura e nell’ornamentazione. Le botteghe di Por Santa Maria forniscono i corredi reali di tutta Europa e non ultimi quelli di Casa d’Aragona … le porte della capitale si spalancarono alle loro abilità di artefici e di mercanti, la merce fiorentina entra a Napoli da padrona. E non si tratta solo di sete, broccati, velluti, damaschi, ma anche di panni lana, poiché non vi sono lavoranti, ma soprattutto apparecchiatori di lane più abili dei fiorentini» [48]. – COCCINIGLIA DEL FICO D’INDIA (GRANA MESSICANA) Il nome cocciniglia viene dato alle femmine di alcuni insetti (succhiatori di linfa), diffusi nell’America centrale e del sud, il più noto dei quali è il Dactylopius Coccus o Coccus Cacti che vive sul Cactus Opunzia [tavola LIV]. La materia colorante della cocciniglia, già usata in era pre-colombiana Tabella 1 Costi delle varie operazioni per la produzione di panni lana scarlatti, cioè tinti alla grana relativamente a due distinti panni bianchi importati dalla città Dovai dai Calimali Fiorentini (~1320). Costo dei panni grezzi (fiorini x libbra) Quantità di grana usata (libbre) Costo della grana (fiorini x libbra) Quantità di allume impiegato (libbre) Costo dell'allume (fiorini x libbra) Costo delle operazioni di tintura e affettatura (fiorini x libbra) Totale costi (fiorini x libbra) Incidenza del costo della grana sul totale (%) 88 Panno A Panno B 70,27 76,04 52 61 41,6 48,8 50 50 3,63 3,63 3,4 4,2 118,9 132,67 35 36,8 Cocciniglia (Coccus cacti) a) b) Fig. 49: Filati di lana sottoposti a processo di tintura alla Cocciniglia (Coccus Cacti). a) senza mordente; b) dopo mordenzatura con allume [Rif. 18-a]. dalle antiche popolazioni americane per colorare la lana in rosso carminio, veniva ricavata attraverso una procedura che prevedeva i seguenti passaggi: i) raccolta delle cocciniglie, dopo l’accoppiamento e comunque prima della deposizione delle uova, mediante raschiatura dai cladodi delle opunzie e loro uccisione; ii) essiccazione al sole o in forni e successiva polverizzazione; iii) estrazione mediante acqua bollente (da 1 Kg di cocciniglia si ricavavano in media circa 50 g di colorante). La cocciniglia, fu importata in Europa dagli spagnoli, a partire dal 1512, data della scoperta del Messico, i quali ne mantennero il monopolio per secoli. La tintura alla cocciniglia, come già precedentemente scritto, anche se gradualmente, per il suo elevatissimo potere tintorio, che non si esauriva in un solo bagno e per la brillantezza dei suoi colori, sostituì, in molti paesi la tintura al chermes. La tintura della lana, basata sull’uso della cocciniglia è stata una pratica tintoria molto utilizzata fino alla metà del secolo diciannovesimo, quando cioè furono introdotte nel mercato i coloranti di sintesi. Mordenzando la lana con allume si otteneva una tintura rosso-bluastra tendente al violetto (figura 49) [18-a]. Nel medioevo prima la tintura al chermes e quindi quella alla cocciniglia sostituì, in Europa e nel Mediterraneo, quella, molto più costosa, alla 89 Fig. 50: Struttura chimica dell’acido carminico, il principio colorante rosso che si estraeva dalla Cocciniglia (Coccus cacti). porpora. Per ottenere una tonalità di violetto più simile a quella indotta dalla porpora si usava tingere usando sali mordenti e applicando bagni successivi contenenti anche della robbia. Il principio colorante contenuto nelle cocciniglie è costituito dall’acido carminico (per cristallizzazione forma aghi regolari di colore rosso vivo) la cui struttura molecolare è descritta nella figura 50 [49, 50]. – LADDIA E’ una lacca colorata che si ricavava, con opportuni trattamenti, dalla gomma lacca. Quest’ultima sostanza deriva dalla secrezione cereo-resinosa di un insetto “Tachardia Lacca Kerr” che vive sui rami di alberi di origine orientale (Ficus religiosa, Ficus indica, Butea frondosa ecc.) [16]. Il principio colorante si otteneva attraverso un procedimento di estrazione con una soluzione acquosa diluita di soda alla quale si addizionava successivamente dell’allume. Colorava in rosso scarlatto la lana. L’analisi di vesti e stoffe, ritrovati in sepolcri di antiche necropoli, ha dimostrato che la pratica tintoria, basata sull’impiego di materie coloranti di origine animale estratte da insetti quali la cocciniglia e da molluschi marini era ben nota presso le civiltà precolombiane dell’America del Sud. Il tessuto con decorazioni a scacchi; che appare nella tavola LV è stato ritrovato nella necropoli di Ancòn [(Perù, periodo Intermedio Recente Orizzonte Recente (900-1476 d.C.)]. I fili di lana rossa che lo compongono sono stati tinti con un principio colorante che all’esame è risultato 90 essere stato estratto dalla cocciniglia [51], mentre il colorante usato per tingere in rosso la lana di lama del tessuto appartenente alla cultura dei Paracas (costa meridoniale del Perù), mostrato nella tavola LVI, era stato estratto da una chiocciola di mare [52]. Il fatto di avere ritrovato stoffe colorate praticamente intatte, nelle tombe di antiche popolazioni (Inca e Nazca) che abitavano nelle vallate desertiche e lungo le Coste dell’antico Perù e di altre regioni dell’America Centrale e del Sud dipende dalle particolari condizioni di conservazione caratterizzate da un bassissimo grado di umidità e da assenza di ossigeno. 91 C) Blended colours Dal contenuto dei paragrafi precedenti è possibile concludere, che nei processi tintori la realizzazione di una “buona” tinta dipende dalla combinazione appropriata e compatibile tra tecnologia utilizzata e natura e stato delle fibre o dei tessuti impiegati. L’impiego di una unica materia colorante, in alcuni casi, non permette di ottenere, in relazione alla tipologia di fibra che si intende tingere, particolari e non comuni tonalità. In queste circostanze spesso si ricorre al concetto del “blended colours” basato sul fatto che una determinata tinta può essere conferita al tessuto e/o alle matasse di fibre mediante una procedura complessa che vede la sovrapposizione di almeno due differenti processi tintori, che impiegano coloranti diversi, attraverso la cui combinazione è possibile produrre il colore desiderato. Il triangolo dei colori riportato nella figura 51 può essere di grande aiuto nell’individuare i colori complementari attraverso la cui combinazione è possibile produrre tonalità diverse. Il principio della combinazione di più colori è stato ampiamente usato dai maestri tintori nei secoli passati per realizzare tinte non comuni, oppure per sostituire un colorante troppo costoso o difficile da reperire sul mercato. A titolo di esemplificazione sono qui di seguito ricordati alcuni processi basati sulle considerazioni di cui sopra. i) L’indigotina veniva spesso utilizzata insieme alla robbia per produrre varie tonalità di porpora e insieme a coloranti gialli per realizzare tonalità di verde. ii) Particolari tonalità rosso-violetto erano ottenuti attraverso la combinazione della tintura alla robbia e ai licheni. iii) Tinte bruno scuro tendenti al nero venivano conferite a fibre e a tessuti utilizzando gusci di noce e limatura di ferro. iv) Lane tinte in nero venivano ottenute attraverso un procedimento che prevedeva prima la tintura con indaco (che conferiva alle fibre un colore blu) e successivamente l’immersione in un bagno di tintura contenente malli di noce nero (Junglans nigra). 92 Una ricetta utile a tingere la lana in arancio e che prevede la combinazione di processi di tintura basati sull’impiego della reseda e quindi della robbia o della cocciniglia è così riportata nel riferimento [17]: «Weld, or dyer’s mignonette, is a tall annual herb that is native throughout the Mediterranean region. It is considered to be of greater antiquity than any other yellow dye. The color derived from the plant is of great permanence. On wool this dye imparts softness to the texture. The flowers in themselves inconspicuous, are borne in long, very slender, erect spikes. … Mordant: … for orange, alum and tin. To prepare the dye: put one pound of plant material in cold water, bring to a boil and simmer two hours. Strain into bath for dye … To dye wool orange: Madder or cochineal is added to the final dye bath. Mordant wool with alum. Wet it well before immersing it in dye bath of weld. Simmer one hour. Remove wool in order in add tin (one teaspoon of stannous chloride) to the dye bath. Stir in well; return wool and simmer one half hour longer. Remove wool again and place it in a separate bath containing 1/2 ounce of prepared madder or cochineal. Simmer 30 to 15 minutes longer for the desired color. Rinse well and dry in shade» [17]. Fig. 51: Triangolo dei colori spesso utilizzato dai tintori per individuare la coppia di colori complementari attraverso la cui combinazione produrre sfumature e tonalità diverse. 93 D) L’abbinamento lana-colore in manufatti di interesse storicoculturale ed artistico. L’evoluzione del colore nei tessili attraverso l’analisi dell’ iconografia storica Esempi di utilizzo del colore in manufatti di interesse storico-culturale e artistico, che testimoniano di quanto profonda fosse la conoscenza delle tecnologie della tintura della lana in paesi molto lontani tra loro ed in epoche diverse, sono illustrati nella sequenza delle tavole LVII – LXI. In particolare nella tavola LVII sono riprodotti una serie di tessili rappresentativi di quella che è passata alla storia come “arte copta” [53]. «Coptic textiles … provide a source of information about the social classes, daily life, beliefes and customs of the people by whom and for whom they were woven … The mayor fibres used … were linen and wool …. Dyes were derived for plants animal and mineral sources, the principal dyes being alkanet (red); woad, indigo, kermes and sunt berry (blue); saffron, pomegranate and weld (yellow); leaves of the iris plant, berries of the buckthorn plant (green); and minerals such as iron (black). Purple dye was obtained from shellfish» [53]. Nelle tavole LVIII, LIX e LX sono riportati esempi di utilizzo del colore in arazzi prodotti tra il XIV e il XVII secolo in alcune delle più famose arazzerie dell’Europa nord-occidentale (Francia e Fiandre) [54, 55]. Tappeti di origine Medio Orientali, risalenti ai secoli XVI, XVII e XIX, sono riprodotti rispettivamente nelle tavole LXI, LXII, LXIII e LXIV [54, 56]. Stupisce la grande maestria relativa all’accostamento di colori diversi e anche le varie tonalità che i maestri tintori riuscivano a conferire alle fibre sfruttando processi di sovratintura e anche di un attento e mirato utilizzo dei mordenti. Uno studio sistematico circa l’utilizzo dei colori nella manifattura di stoffe, tessuti e vestiti e l’evoluzione nel tempo delle tecniche tintorie nel settore del tessile riesce molto difficile a farsi a causa del fatto che i pochi tessuti antichi pervenuteci e conservati nei musei pubblici e privati sono rari ed estremamente fragili; «gli abiti risalenti a prima della fine del XVII sono ben pochi» [57]. Informazioni di grande rilevanza, circa l’evoluzione della moda e dell’uso dei coloranti impiegati nella tintura dei vestiti, possono essere ricavate, in via indiretta, attraverso le fonti iconografiche (dipinti, disegni, 94 incisioni, miniature, ecc.). In particolare: «i dipinti offrono anche l’occasione per affrontare la storia dell’abbigliamento dal punto di vista dei colori. “Il panno e il colore fanno l’uomo d’onore”. Il lavoro degli artisti consente di studiare il gioco tra i coloranti, l’evoluzione dei processi di lavorazione, il rapporto con le forme e le situazione di impiego, le figure simboliche. I colori dei vestiti offrono una nuova griglia di lettura … il colore dei vestiti è uno dei fattori d’interpretazione della scena sociale: designa funzioni, posizioni, ranghi. Fuori del palazzo di giustizia … il giudice … può vestire la toga nera ma quando …, egli pronuncia la sentenza deve vestire solamente la toga rossa» [57]. Interessanti indicazioni circa la tipologia dei colori dei vestiti indossati in epoca romana, anche se in forma frammentaria, si ottengono esaminando le decorazioni pittoriche parietali delle case sepolte dall’eruzioni del Vesuvio (79 d.C.) e recuperate durante gli scavi di Pompei ed Ercolano. Alcune scene pittoriche sono riprodotte nella tavola LXV [58]. Dagli affreschi emerge come i vestiti delle donne, in generale molto leggeri, appaiono tinti in varie tonalità che vanno dal verde chiaro, al giallo, al marrone, al rosso, al violetto chiaro, all’azzurro al rosso-scuro (porporino) e al nero. Queste osservazioni, assumendo che i decoratori abbiano riportato fedelmente i colori dei tessuti di moda, portano alla conclusione che all’epoca, a Pompei e nelle regioni dell’Impero Romano, l’industria tintoria avesse già raggiunto un alto contenuto tecnologico. Il fatto che imperatori a alti dignitari di corte indossassero, specialmente nelle grandi occasioni, vestiti di colore porpora di diverse tonalità (violetto-blu, rosso scuro e rosso vivo) ottenute impiegando processi tintori che utilizzavano prima la porpora reale, poi la robbia, il chermes e quindi la cocciniglia, trova conferma dalla miniatura mostrata nella tavola LXVI dove è raffigurato l’Imperatore Ottone III in trono, circondato dalla sua corte (c.a. 1000 d.C.) [59, 60, 61]. Nelle tavole LXVII e LXVIII sono riprodotte due miniature del XIII secolo. In quella riportata nella tavola LXVII, parte integrante del Codice “Constitutum camerarii et quattuor provisorum comunis senarum” (Siena archivio di Stato), sono raffigurati sei funzionari comunali che indossano abiti i cui colori vanno dal blu, al porpora, al rosso-arancio, al nero, al verde e al giallo [62-a]. La miniatura della tavola LXVIII, tratta dagli “Statuta magistrorum liquaminis civitatis bononiae”, mostra due uomini che osservano la qualità di una pezza di lana di colore rosso. I colori dei loro vestiti vanno dal 95 rosso-arancio e al blu indaco; l’ambiente è abbellito da tappeti e arazzi, appesi alle pareti finemente decorati che appaiono essere di pregiata fattura [62-b]. Mercanti senesi del quindicesimo secolo, elegantemente vestiti, e la bottega di un sarto, dove sono esposte stoffe variamente colorate, sono rappresentati rispettivamente nella miniatura e nel disegno riportati nelle tavole LXIX e LXX [62-b]. La bellissima miniatura del quindicesimo secolo (intitolata Il mese di aprile), mostrata nella figura 52 è parte integrante di un’opera commissionata dal duca Jean de Berry, figlio del re di Francia Giovanni il buono (1340-1416) ad illustri miniaturisti (Jaquemart de Hesdin et.al.). In questa miniatura sono raffigurati signori e dame dell’aristocrazia con eleganti e sontuosi costumi i quali spiccano per la brillantezza e la varietà dei colori. Le splendide tonalità di rossi, azzurri, neri, grigi, gialli ecc. insieme ad un raffinato “design” indicano che già all’epoca si fosse sviluppato un concetto di “moda del vestire” caratterizzato da un elevato tasso di ricercatezza e di eleganza [62-c]. L’ampia gamma dei tessuti che venivano utilizzati, insieme alla varietà dei colori delle vesti indossate dimostrano come l’arte del colorare e del tessere fosse una attività altamente diversificata e di grande rilevanza sociale ed economica. Il magnifico ritratto di Cosimo dei Medici, opera di Jacopo Carrucci, detto il Pontormo (c.a. metà del quindicesimo secolo) riportato nella tavola LXXI, conferma che i grandi “Signori” fiorentini usavano indossare vestiti di colore rosso impreziositi attraverso la tintura alla grana. La varietà e la bellezza dei colori impiegati nella confezioni di abiti femminili e maschili traspare, con grande veemenza, dai due dipinti riprodotti nelle tavole LXXII e LXXIII dove sono raffigurati rispettivamente, la “Deposizione della Croce” (1435) del grande pittore fiammingo Roger Van Der Weyden e l’ “Adorazione dei Magi” (1630 circa) di Giovanni Battista Maino [64]. La fama acquisita nel mondo dalle botteghe tintorie veneziane viene documentata, tra l’altro, attraverso il magnifico dipinto di Pietro Longhi, La cioccolata del mattino (XVIII secolo), nel quale sono raffigurati alcuni gentiluomini e una dama, elegantemente vestiti, mentre gustano una cioccolata in un ambiente adornato da preziosi drappeggi [Tavola LXXIV] [65-a]. Il ritratto del cardinale Luis Marìa de Borbòn y Vallabriga, opera del 96 Fig. 52: Miniatura tratta dal volume Le trés riches heures del Duca de Berry (quindicesimo secolo) dal titolo Il mese di aprile [Rif. 62-c]. 97 Fig. 53: Francisco Goya, ritratto del cardinale Luis Marìa de Borbòn y Vallabriga, 1789-1800 circa. Olio su tela, cm 200 x 106, São Paulo, Museu de Arte [Rif. 65-b]. 98 grande pittore spagnolo Francisco Goya (1789-1800 circa) (São Paulo, Museu de Arte) rappresenta una ulteriore conferma dell’impiego di coloranti naturali rossi (chermes, cocciniglia o robbia) e di costose e complesse tecnologie tintorie finalizzate all’ottenimento di quello che passerà alla storia di “rosso cardinalizio” che per causa di forza maggiore ebbe a sostituire il “porpora cardinalizio” (figura 53) [65-b]. Le tintorie più affermate, spesso usavano propagandare la loro capacità di tingere stoffe, tessuti e fibre naturali, mediante cataloghi che illustravano, con campioni materiali, le varie tinte e tonalità che attraverso le loro procedure erano in grado di realizzare. Le riproduzioni fotografiche di un manuale di tintura risalente al 1875, con campioni materiali di lana, e di un antico campionario realizzato da tintori del kashmir sono riportate rispettivamente nelle tavole LXXV [66] e LXXVI [37]. Particolarmente interessante è l’antico campionario prodotto dai tintori del kashmir, specializzati nella tintura dei preziosi e tipici scialli, per la varietà delle tinte e tonalità che erano capaci di conferire alle fibre di lana a dimostrazione di un alto grado di conoscenze delle tecnologie tintorie. I tessitori di scialli del kashmir utilizzavano, nel confezionare i loro pregiatissimi prodotti, la lana che si ricavava dai velli di capre domestiche. Le ragioni di ciò sono così spiegate da F. Ames: «Traditionally, Kashmir shawl weaving employed a fleece derived from a Central Asian mountain goat. “This type of goat, probably the most beautiful of all wool producing goats”, wrote S. Turner, England ambassador to Tibet in 1783. “I find it superior in beauty to the Angora goat. The colour of these animals varies. They have straight horns and are not as tall as the smallest sheep from England. The wool which serves to makes the shawl is extremely fine and short. It is covered by other long and hard hairs which envelop the animals and conceive the delicateness of her first dress … In addition to being known for the exquisite lustre of the goat’s wool, the Kashmir is famous for its beautiful colours. Pashm (vello di capra n.d.A) and natural dyes are two inseparable entities which, when properly prepared and combined, radiate remarkably brilliant colours, The whiter and finer the fibre of the wool, and finer the yarn into which it is made, the more easily it receives a bright colour. This is one of the main reasons why the goat’s fine white wool is preferable to that of sheep» [37]. 99 Un bellissimo esemplare di capra domestica del kashmir dell’est, originaria della regione montuosa, denominata Ladakh, la cui capitale è la città di Leh, è mostrato nella tavola LXXVII [37]. La tintura delle fibre naturali è ancora oggi praticata in molte regioni asiatiche, medio-orientali e del sud del mediterraneo con procedimenti, che utilizzano coloranti naturali. I processi tintori e di finitura seguiti, specialmente nella produzione di tappeti a mano, sono praticamente rimasti inalterati da secoli e secoli [67]. Ciò viene evidenziato confrontando le due miniature mostrate nelle tavole LXXVIII e LXXIX con le più recenti riproduzioni fotografiche riportate nelle tavole LXXX e LXXXI. In particolare nelle tavole LXXVIII e LXXIX sono mostrate rispettivamente, un’antica miniatura dell’inizio del XII secolo (conservata presso la biblioteca di Digione, Francia), tratta dal “Moral Gregorio Magno”, con lavoranti addetti alla tintura in verde e alla rifinitura dei panni lana [68] e una miniatura, di scuola fiamminga del 1400, dove viene raffigurata una bottega tintoria con artigiani attenti alla tintura in rosso di un panno lana, Altri panni già tinti in marrone e blu sono anche evidenziati a dimostrazione del fatto che ci si trova di fronte ad una bottega altamente diversificata nella tipologia delle tinte da applicare ai tessuti [69]. Le attività illustrate nelle due tavole sopra citate non sembrano essere, nella loro essenza molto dissimili da quelle rappresentate nelle tavole LXXX e LXXXI che mostrano rispettivamente operai di un paese della Persia addetti alle operazioni di tintura, utilizzando grandi orci (molto antichi come dimostrato dalle incrostazioni sulla parte interna ed esterna) e filati di lana tinti in rosso, posti ad asciugare all’aria. 100