L’INSETTO Di Benjamin Breeg Era una notte d'estate come tante altre. L'afa invisibile e pesante si appiccicava addosso e il sudore bagnava la maglia e il collo e i polsi. Il sibilo elettrico e infinito, monotono e continuo del frigorifero scandiva il tempo e un cane abbaiava da lontano e l'abbaiare arrivava sottovoce dal balcone aperto. Neanche un filo di vento. Nel televisore acceso scivolavano immagini dirette a nessuno che non avevano nessuna importanza se non lo scopo inascoltato di riempire gli spazi vuoti della notte, ma a me non interessava. Non mi interessava niente. Ad un tratto il canto di un gallo da una campagna vicina annunciava che la notte era quasi finita, e che forse era arrivato il momento di andare a letto, di dormire qualche ora o almeno di provare a dormire qualche ora, magari trovando il coraggio supremo di chiudere gli occhi e non aver paura di dormire. Ma chiudere gli occhi era uno di quei gesti che non riuscivo mai a fare. Mi gettava nel panico. Cosa succede al mondo quando io chiudo gli occhi? Cosa si muove nella notte quando io non guardo? Non potevo andare a dormire. E ad un tratto, lo vidi. Sembrava essere arrivato dal nulla, signore dell'apocalisse nel giorno del giudizio, brutto, viscido e nero. Un essere abominevole. Uno scarafaggio. Lo vidi materializzarsi accanto al piano cottura della cucina, scorrazzare veloce sul tavolo dove a volte mangiavo. Uno scarafaggio in casa mia alle quattro del mattino. La vista di un essere vivente così ripugnante mi fece considerare un errore l'intera esistenza della vita, nonostante intuissi che forse ce n'erano di peggiori. Parla, scarafaggio. Dimmi cosa si prova ad essere disgustosi. Cosa pensi di te stesso? Chi mai potrebbe trovare sensati i tuoi comportamenti? Dove stai andando? Cosa stai facendo? Quali sono i tuoi scopi? Certo non possono essere così importanti se basta un niente per mettere fine alla tua vita. E quanti, come te, pensano di essere importanti? Mentre pensavo a queste cose, lui stava scendendo lungo il muro. Il problema con queste bestie disgustose è che appena ne vedi una inizi a sentirtele addosso. La loro presenza ontologica si annida in ogni spazio vuoto della mente e non ti lascia più; senti il bisogno di guardarti intorno, senti il bisogno di guardare sotto il tavolo, di tastare i vestiti, di assicurarti che non ti stiano camminando addosso. Una volta arrivato sul pavimento, cambiò direzione un paio di volte. Poi si fermò. Dovevo prendere una decisione. Dovevo ucciderlo. La sua vita in cambio della mia sicurezza. Schiacciarlo sarebbe stato troppo disgustoso. Dargli fuoco, invece, troppo complicato. Come si uccide uno scarafaggio? Non c'era tempo per pensare, dovevo farlo e basta. Sarebbe stata un'esperienza spiacevole, macchie di materiale organico sul pavimento, le antenne che si sarebbero mosse in un ultimo e disperato rantolo di vita. Il solo immaginarmi queste cose mi dava la nausea. Trovai così un metodo alternativo: cacciarlo di casa con la scopa. E così feci. Colpo dopo colpo, lo allontanai fino a scaraventarlo vicino alla porta d'entrata. Dopo averla aperta, lo spinsi fuori con un calcio. Infine, un ultimo e violentissimo colpo di scopa fece precipitare l'abominio giù dalle scale. Rientrai e chiusi la porta. Sembrava fatta, ma il peggio doveva ancora arrivare. Stanco e con gli occhi affaticati, decisi di coricarmi sul letto per riposare. E fu in quel momento che il soffitto si aprì come una voragine e miliardi di scarafaggi precipitarono nella stanza. Un rumore a malapena percettibile di corpi viscosi che si muovevano. Zampe agili sui muri e sul pavimento. Sommerso dagli scarafaggi, ad ogni boccata d’aria me ne entravano decine in bocca. Le mie mani non riuscivano a liberarsene e le braccia non si incontravano tanta era la forza esercitata da quegli insetti. Consumato in pochi secondi dall’orrore e dal disgusto, non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile tutto questo, ed un pensiero mi affiorò alla mente. Il pensiero che si sarebbero cibati di me e che di me sarebbero rimaste solo le ossa nel giro di pochi minuti. Fu allora che, completamente sudato e con il respiro affannoso, mi risvegliai. Le prime luci dell’alba che filtravano da sotto la finestra e il canto del gallo lontano mi riportarono alla realtà. Era stato solo un sogno. Era stato davvero solo un sogno? 2. Misi a fuoco l’immagine dell’orologio sul comodino accanto al letto. Erano quasi le sei del mattino. Ero rimasto vestito tutta la notte e avevo dormito non più di un paio d’ore. Mi recai nell’altra stanza, verso il frigorifero. Lo aprii, e mentre cercavo del succo di frutta all’arancia avanzato dal giorno prima notai un rumore assai strano, come di un ronzio insistente e sempre più vicino. La luce del primo mattino che filtrava dalla finestra semichiusa fu improvvisamente oscurata, come se un’ombra gigante si frapponesse fra me e il sole. Mi avvicinai al balcone e spalancai la finestra. Fui investito da una folata di vento innaturale. Non ebbi neanche il tempo di inorridire per quello che avevo visto. Una creatura volante, gigantesca, uguale ad una vespa e con il corpo a striature gialle e nere, si abbatté sulla casa. Era così grande che sfondò l’entrata del balcone e scaraventò contro il muro il tavolo dove ero solito fare colazione. Istintivamente cercai riparo dietro il tavolo capovolto. Il ronzio infernale di quell’abominio raggiungeva frequenze che non avrei mai potuto immaginare, le sue ali sbattevano contro il muro e le sue enormi antenne si muovevano in maniera frenetica colpendo il tavolo, il soffitto e le mura laterali. La vespa gigante si spingeva ripetutamente contro il tavolo, cercando di entrare all’interno della casa e credo che non esistano termini adeguati nelle lingue umane per descrivere l’orrore di quel ronzio e il rumore ruvido e gracidante delle ali contro il muro. Da dove era arrivato quell’abominio? Da quando esistevano insetti di tali dimensioni? Non mi sembrava vero. Pensai che fosse un sogno, ma questa volta non era così. Temetti per la mia vita perché dalla mia posizione, dietro al tavolo capovolto e premuto contro il muro dove avevo trovato un momentaneo riparo, mi era possibile vedere le antenne della vespa che si sporgevano oltre le estremità del tavolo di legno come se stessero cercando incessantemente qualcosa. Sapevo che era me che stavano cercando. Mi voltai rapidamente verso la porta d’uscita. Capii subito che dovevo precipitarmi fuori da quella casa il prima possibile. Ma la porta era chiusa, e sapevo che se avessi cercato di aprirla quell’animale mi avrebbe afferrato e tuttora non oso immaginare a quale fine orrenda sarei andato incontro. Tuttavia non mi restava molto tempo per agire, perché quella vespa immonda venuta da chissà quali innominabili abissi, figlia di chissà quali blasfeme alterazioni della natura, continuava a spingere il tavolo contro il muro ed era ormai quasi completamente all’interno della casa. Mi tastai i vestiti e notai che avevo fortunatamente dimenticato in tasca le chiavi di casa dalla sera prima. Pensai che se mi fossi mosso in fretta sarei riuscito ad aprire la porta e a precipitarmi fuori, ma l’idea che quell’insetto venuto dall’inferno avrebbe potuto afferrarmi mi paralizzava. Ciononostante, dovevo agire se volevo mettermi in salvo. Calcolai la distanza che mi separava dall’uscita, afferrai saldamente le chiavi e ad un tratto, scrollandomi di dosso ogni pensiero, balzai fuori dal lato destro del tavolo e corsi verso la porta. Fu questione di un secondo o forse due. Mentre immettevo la chiave nella serratura, percepii l’enorme e disgustosa presenza alle mie spalle, compresi istintivamente che stava preparandosi ad afferrarmi, e in quel preciso istante la porta si aprì e io mi ritrovai fuori. Ricordo ancora gli occhi enormi e neri come l’oblio, che intravidi alla mia sinistra, in un lampo, durante quegli istanti concitati in cui uscivo da quel maledetto edificio. È una cosa che la mia mente si rifiuta di dimenticare. Scesi di corsa le scale e raggiunsi l’automobile parcheggiata sotto casa, al limitare della campagna. Mi misi in fretta e furia al posto di guida e partii di corsa per allontanarmi il più velocemente possibile da quel luogo. Ero in uno stato d’animo difficile da descrivere. Da un lato mi sentivo agitato e ancora sconvolto per quello che avevo visto. Dall’altro, provavo un’immensa gioia per essere ancora vivo. 3. La luce del mattino e l’aria della campagna mi sembravano così normali, così consuete, che più di una volta temetti di essere stato preda di un’allucinazione. Ma non poteva essere così. La mia mente scacciava con forza quel pensiero; il pensiero di essere stato vittima di una suggestione e che niente di quello che avevo visto fosse reale. Quel ronzio acuto e insistente, quello sbattere di ali contro il muro, la finestra sbattuta per aria, il tavolo scaraventato contro la parete, erano stati una sequenza di avvenimenti così reali che niente mi avrebbe fatto cambiare idea a riguardo. E infatti, non so dire se purtroppo o per fortuna, non mi sbagliavo. E quello che vidi dopo, assurdo e irrazionale, fu una conferma del fatto che la mia mente non aveva inventato alcunché e che esistevano davvero degli insetti di dimensioni titaniche che si aggiravano per quei luoghi. Accadde che mentre percorrevo la strada statale 641, desolata e silenziosa come sempre, vidi venire fuori dalla sterpaglia uno scarafaggio grande esattamente, se non di più, quanto la mia auto. Attraversò la strada velocemente, proprio davanti a me, con l’irrazionalità e l’imprevedibilità tipica degli insetti, per andare a raggiungere l’altro lato della carreggiata che sporgeva su una campagna sconfinata. Dovetti frenare e poi sterzare rapidamente per evitare l’impatto. Gli pneumatici stridettero sull’asfalto e per un istante temetti di finire fuori strada, ma quando la vettura si riassestò riuscii ad osservare per un attimo, dallo specchietto retrovisore, la sagoma di quello scarafaggio innaturale che si dileguava tra l’erba alta. Le mie mani stringevano con forza il volante e, sebbene dicessi a me stesso di mantenere i nervi saldi, una marea di pensieri angosciosi si facevano strada nella mia testa. Era come se da un momento all’altro un insetto di eccezionali dimensioni potesse uscire dalla campagna circostante e venire a sbattere contro l’automobile. Decisi di agire in modo razionale e di allontanarmi da lì. Vivevo in quella zona da quasi due anni, l’avevo scelta per la sua lontananza dai centri urbani, per la bassa densità di popolazione e per la tranquillità che pervadeva le campagne in tutte e quattro le stagioni dell’anno. Una mia zia viveva a circa diciassette chilometri di distanza da me, ed essendo la mia parente più prossima fu a casa sua che pensai di andare in quel momento. Avevo ancora circa tre chilometri da percorrere sulla statale 641, prima di imboccare a destra la strada provinciale. In quel momento notai un altro particolare inquietante: la strada era completamente deserta. Non solo non avevo incontrato altre automobili, ma anche nei cortili delle pur poche case che si incontravano lungo quel tragitto non vi era segno di anima viva. A ben vedere, sembrava che le case stesse, e anche la strada, fossero in stato di abbandono. Mentre pensavo a tutte queste cose, indugiai con lo sguardo sopra una di queste case alla mia destra poiché mi era parso di intravedere le figure di quegli scarafaggi giganti aggirarsi sul retro del cortile, e quell’istante di distrazione mi fu fatale. Un’altra di quelle bestie, infatti, aveva attraversato la strada dal lato sinistro della carreggiata e io me ne accorsi solo all’ultimo momento. Non riuscii ad evitare l’impatto. L’enorme scarafaggio si schiantò contro la mia auto, la quale terminò la sua corsa contro un grosso albero. L’abominio finì invece capovolto con le zampe all’aria e, sebbene ferito, si dimenava in modo furioso nel tentativo di girarsi. La mia auto era finita invece circa trenta metri più avanti, e nell’impatto con l’albero l’air-bag si era aperto. Mi ripresi rapidamente dallo shock, ma quando provai a ripartire mi accorsi che le due ruote di destra non avevano aderenza poiché la vettura si era leggermente inclinata. Scesi dalla macchina e andai a constatare di persona. Non c’era modo di ripartire in quelle condizioni. Cercai di spingere l’auto per riportarla sulla strada, ma inutilmente. Dietro di me, quell’insetto di dimensioni ciclopiche continuava a dimenarsi nel tentativo di rimettersi dritto. Capii subito che sarebbe stata solo questione di tempo prima che fosse riuscito nel suo scopo, per cui decisi di scappare immediatamente da lì, pur sapendo a quale rischio andavo incontro. Iniziai a correre con tutte le mie forze, ma dentro di me percepivo che oltre i margini della strada si addensavano pericoli innominabili. Sentivo su di me gli occhi di creature che non avrebbero mai dovuto esistere se non, forse, in epoche preistoriche così antiche che neanche il più primordiale degli antenati dell’uomo aveva fatto la sua comparsa. Corsi per almeno quindici minuti senza mai fermarmi, e non vidi esseri umani né scarafaggi giganti. Mi fermai in una zona dove la campagna era più folta e dove, oltre il ciglio della strada, c’era una piccola e antica fontana pubblica. Bevvi a lungo per recuperare le forze che avevo speso e un rigagnolo d’acqua si perse nel terreno arido intorno alla fontana. Il sole era già alto nel cielo e si prospettava un’altra giornata afosa e con temperature molto elevate. Siccome non vedevo pericoli immediati decisi di fermarmi qualche minuto lì per riprendere fiato. Mi guardai intorno e non notai niente di strano: il bosco rigoglioso alla mia sinistra, la strada vecchia, ai cui margini l’asfalto consumato si confondeva con il terreno indurito dal sole incessante, il cielo limpido e azzurro, persino l’assenza totale di altri esseri umani, tutto sembrava nella norma. Eppure dentro di me avevo l’incrollabile consapevolezza che non fosse così. Prima che mi rimettessi in cammino, avvistai una schiera di quegli scarafaggi che scendevano giù per la strada, muovendosi rapidamente verso la mia posizione. Per alcuni secondi non riuscii a distogliere lo sguardo da quello spettacolo raccapricciante, ma poi il mio istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. La via che stavo percorrendo era completamente invasa da quegli esseri, per cui dovevo trovare un percorso alternativo. Ero sicuro che la campagna alla mia sinistra fosse invasa dagli insetti giganti e che se fossi andato in quella direzione avrei avuto vita breve. Sapevo poi che la strada dalla quale stavo venendo era anch’essa poco sicura, per cui non mi restava che tentare la sorte andando verso destra. Una volta attraversata la strada, mi ritrovai sulla soglia di un terreno incolto e scosceso, che scendeva ripidamente dando l’accesso su un’area abbandonata. Con cautela, iniziai a scendere da quel lungo declivio, intenzionato a tagliare per l’entroterra ed aggirare l’intero tratto della statale 641 per arrivare finalmente sulla provinciale. Quando giunsi in fondo al pendio, guardai in alto alle mie spalle, verso la strada, per assicurarmi di non essere seguito, e vidi una moltitudine di quegli esseri abominevoli muoversi rapidamente verso sud. Mi sentii rianimato nel rendermi conto che non mi avevano notato e che non mi stavano seguendo, quindi ripresi il mio cammino. 4. Non passò molto tempo prima che il paesaggio iniziasse a mutare gradualmente: man mano che proseguivo, il suolo si faceva sempre più arido e compatto, e notai la presenza di strani buchi nel terreno; incavi di almeno un metro di diametro che davano l’accesso al sottosuolo. Non c’erano case nelle vicinanze, ad eccezione di una vecchia stamberga fatiscente e abbandonata da tempo immemore che sorgeva nel bel mezzo di quel luogo desolato. Nonostante la calma apparente, mi guardavo intorno con circospezione, e ad un tratto delle leggere vibrazioni scossero la superficie. Pensai ad un terremoto, ma non lo era. Mi accorsi che il terreno stava cedendo intorno ad alcuni di quei buchi, come se qualcuno, o qualcosa, stesse scavando dal sottosuolo per allargarli. Non feci neanche in tempo a formulare dei pensieri coerenti con quello che vedevo che subito arrivò la risposta alle mie domande. Formiche gigantesche, lunghe almeno tre metri e grosse abbastanza da sovrastare un essere umano, vennero fuori dal terreno. Compresi subito di essere in pericolo, e istintivamente iniziai a correre verso quella casa abbandonata, perché era l’unico luogo dove potessi trovare riparo. Una volta arrivato lì fuori, salii su una vecchia sedia di ferro che si trovava nel cortile, arrugginita ma abbastanza resistente da sopportare il mio peso, e mi issai tenendomi alla grondaia per raggiungere il tetto. Una volta arrivato lì sopra, osservai quei mostri aggirarsi nelle vicinanze e mi resi conto di essere intrappolato su quel tetto, sotto un sole rovente, senza cibo né acqua. E in ogni caso avrei preferito morire disidratato piuttosto che finire nel formicaio di quelle creature oscene. Con il fare tipico delle formiche, si avvicinarono alla casa abbandonata non appena notarono la mia presenza. Mi riusciva difficile accettare l’idea di essere considerato una preda da una formica, e capii che l’unica cosa che avrebbe potuto tirarmi fuori da quella situazione era il mio cervello. Dovevo pensare ad un modo per mettermi in salvo, e dovevo anche farlo in fretta. Accovacciato sul tetto, mi sporgevo quel tanto che bastava per tenere d’occhio le formiche giganti che vagavano intorno a quel tugurio abbandonato nel bel mezzo di un terreno incolto e disabitato. Non riesco ad esprimere a parole il disgusto che mi trasmettevano quegli esseri: aberrazioni innaturali per le quali non avrebbe mai dovuto esserci posto al mondo, e che invece si trovavano lì, tra quelle campagne desolate, e sembravano avere tutta l’intenzione di cibarsi di me. Ad un tratto mi venne in mente che le formiche erano insetti sociali dotati di una certa intelligenza ed in grado di cooperare efficacemente tra loro. Iniziai a pensare che avrebbero potuto arrampicarsi fin lì. Mi guardai intorno per cercare qualcosa che potesse servire come arma, ma non trovai niente. Proprio quando stavo per cadere preda dell’angoscia, vidi un altro insetto gigante venire verso la mia posizione. Quando fu abbastanza vicino, lo riconobbi. Era uno scarafaggio, era ferito e avanzava a fatica, trascinandosi nel terreno. Doveva essere quello che avevo investito accidentalmente poco prima, con l’auto. Quando le formiche capirono che quella era una preda molto più facile da catturare, distolsero la loro attenzione da me e si mossero per accerchiare l’altro insetto, il quale si rese conto troppo tardi in che guaio era andato a cacciarsi. Sei formiche lo circondarono e durante lo scontro lo scarafaggio finì col capovolgersi di nuovo, agitandosi disperatamente mentre veniva fatto a pezzi ancora in vita. Lo spettacolo cruento al quale assistetti mi diede un tale voltastomaco che finii col vomitare. Mi ripresi immediatamente e capii che quello era l’unico momento in cui avrei potuto tentare di mettermi in salvo. Mi calai giù per la grondaia e iniziai a correre senza voltarmi indietro. Proseguii dritto per diversi minuti, fino a quando fui ragionevolmente sicuro, a giudicare dall’assenza di buche nel terreno, di non essere più nel territorio di quelle formiche. Il mio obiettivo era di arrivare sulla strada provinciale dove, per qualche ragione, ero convinto che non ci sarebbero stati pericoli e che forse avrei anche incontrato qualcuno a cui chiedere aiuto. Il terreno arido aveva lasciato il posto ad una specie di prateria i cui fili d’erba erano così alti da arrivare ben oltre le mie ginocchia. Stavo calcolando la distanza approssimativa che mi separava dal ponte della strada provinciale, quando ad un tratto istintivamente mi fermai, paralizzato e incapace di muovere un solo passo. Quello che vidi mi fece raggelare il sangue nelle vene e fui avvolto da una sensazione di terrore ben più grande di quelle che avevo sperimentato fino a quel momento. Seminascosta tra i fili d’erba, immobile e posizionata trasversalmente rispetto a me, c’era una bestia immonda, spaventosa, dall’aspetto così terrificante che ancora oggi, quando ci ripenso, le mie mani non possono fare a meno di sudare. Dal mio punto di vista, aveva le dimensioni di un autoarticolato. Si trattava di una cavalletta. Intravedevo le antenne, che per quanto corte in relazione a quelle di altri insetti a me sembravano lunghe almeno un metro e mezzo (e forse lo erano), e non riuscivo a distogliere lo sguardo dai dettagli che caratterizzavano il torace e l’addome di quell’animale; dettagli che già in condizioni normali causano moti di disgusto in un essere umano, ma che ora potevo vedere chiaramente e distintamente: lo scudo dorsale ruvido e duro, il capo di una grandezza spropositata, le zampe esili, seghettate e ben piantate a terra... I lunghissimi arti posteriori, dotati di femori ipersviluppati, erano quelli che consentivano all’animale di compiere salti enormi e sono rimasti impressi nella mia memoria in modo indelebile. Mi domandai quanto lontano potesse arrivare con un salto. Mi ero ormai abituato all’idea di incontrare per quelle campagne insetti anormali e dalle dimensioni enormi, ma non riuscivo a spiegarmi il perché e tutto mi sembrava irreale e innaturale. Per qualche motivo il pensiero razionale che la cavalletta, essendo un insetto erbivoro, non avrebbe mai cacciato un essere umano, non riuscì a tranquillizzarmi. Molto lentamente mi guardai intorno per assicurarmi che non ce ne fossero altre, e per fortuna quello era l’unico esemplare lì presente. Come uscire da quella situazione? Cosa sarebbe successo se mi fossi mosso e quell’insetto si fosse accorto della mia presenza? Questa volta non riuscivo a pensare a niente che potesse consentirmi di salvarmi. 5. Paralizzato, non tanto dalla paura quanto dal mio istinto di sopravvivenza che mi suggeriva che restare immobile senza far rumore era l’unico modo per non attirare l’attenzione di quel mostro aberrante, attendevo con ansia nella speranza che una qualche idea geniale mi tirasse fuori da quel guaio. All’improvviso però il silenzio della campagna fu interrotto da una specie di stridore, grottesco eppure in qualche modo familiare, che proveniva dalla campagna vicina. Istintivamente mi coprii le orecchie con le mani. Doveva essere il canto di una cicala. Una cicala di dimensioni gigantesche, neanche a dirlo, nascosta forse nei fili d’erba o su un albero. Il canto si ripeté una seconda e una terza volta ad intervalli di circa mezzo minuto, e sembrò per qualche ragione infastidire la cavalletta. Uno dei momenti più agghiaccianti, non solo di quella giornata surreale ma di tutta la mia vita, fu quando quella cavalletta lunga quanto il vagone di un treno si spostò tra i fili d’erba muovendosi in avanti tramite le due paia di zampe anteriori, quelle più corte e utilizzate per la locomozione. Molto cautamente mi abbassai cercando di nascondermi nell’erba, ma oggi credo che sia valso a poco e che se quell’animale si fosse accorto della mia presenza il racconto di queste esperienze terribili non sarebbe mai stato scritto. La cavalletta si fermò e ad un tratto iniziò a piegare le due zampe posteriori come per spiccare un salto. Con la stessa velocità di una freccia, sparì davanti ai miei occhi e atterrò probabilmente diverse centinaia di metri più in là, alla mia destra. Motivo per cui, appena mi fui ripreso dallo spavento, mi rimisi in cammino verso sinistra. Ormai una certa rabbia aveva preso il posto della paura, il mio sistema nervoso era messo a dura prova e una parte di me era addirittura pronta ad affrontare uno di quegli insetti in uno scontro se si fosse presentata la possibilità. Ma il mio lato razionale mi suggeriva che era meglio evitare di trovarsi faccia a faccia con una di quelle cose. Nonostante fossi affamato e stanco, affrettai il passo e arrivai in pochi minuti al limitare di quel prato. Vidi finalmente, al di sopra di un pendio abbastanza ripido, il ponte che collegava due tratti della tanto agognata strada provinciale. Fu come la manna dal cielo per me e mi sentii improvvisamente rinato, come se la vaga speranza di sopravvivenza diventasse finalmente realtà. Senza perdere altro tempo iniziai a scalare quel pendio scivoloso e dopo un po’ arrivai sul ciglio della strada, al di qua del guard-rail. A giudicare dalla posizione del sole, doveva essere ormai mezzogiorno inoltrato, eppure quella strada era completamente deserta. Mi guardai intorno più e più volte senza scorgere neanche una sola automobile né la presenza di altri esseri umani. Almeno, però, non c’erano tracce neanche degli insetti. Nella peggiore delle ipotesi, pensai, potevo comunque percorrere a piedi la strada fino a raggiungere la cittadina limitrofa e chiedere aiuto alle autorità. Eppure qualcosa mi diceva che non sarebbe stato così facile. Mi misi nuovamente in cammino e, sotto il torrido sole, passo dopo passo, con gli occhi fissi sulla linea bianca e sull’asfalto consumato, percorsi diversi chilometri senza incontrare anima viva. Quando finalmente arrivai all’uscita che avrei dovuto prendere, notai con un certo stupore che questa era chiusa. Era stata sbarrata con dei pilastri di cemento e mi era praticamente impossibile scavalcarli. È incredibile quali assurdi pensieri la mente riesca a concepire in una situazione del genere. Iniziai a temere di essere al centro di una qualche cospirazione, di essere stato drogato e che magari tutto questo non fosse altro che una vivida allucinazione, o addirittura che qualcuno mi volesse morto per ragioni a me oscure. Ma niente di tutto questo poteva essere assurdo quanto la realtà che stavo per scoprire. 6. Affamato, assetato e irrequieto, ripresi la mia marcia sperando che l’uscita successiva, a circa cinque chilometri di distanza, fosse aperta. La strada sembrava non finire mai. Nel cielo non c’era una sola nuvola ed ero costretto a camminare tutto il tempo sotto il sole battente, per cui iniziai a temere anche di poter essere vittima di un’insolazione. Non avevo acqua con me, né vi erano posti dove potessi ripararmi, ma per fortuna, mentre camminavo, vidi una stazione di rifornimento a poche centinaia di metri da me. Nuovamente mi sentii rinascere. Non mi feci illusioni sul fatto che potessi trovare degli esseri umani, ma almeno avrei trovato acqua, cibo e un riparo dal sole. Corsi in direzione della stazione di rifornimento e una volta arrivato constatai che, come avevo immaginato, anche lì non c’era anima viva. Tutto era in stato di abbandono e anche il bar e il distributore di benzina erano chiusi. Io però non avevo intenzione di morire di fame lì fuori, per cui cercai subito una mazza di ferro o un qualche oggetto con il quale potessi scassinare la porta del bar ed entrare. Trovai sul retro un lungo bastone di metallo e lo usai per rompere il vetro della porta d’entrata e aprirla quindi infilando la mano dall’esterno. Nessun allarme suonò. Una volta dentro, cercai subito delle bottiglie d’acqua e le utilizzai per bagnarmi la faccia e i capelli. Dopo, riuscii finalmente a mangiare qualcosa. Trovai dei sandwich, e a giudicare dalla data di scadenza non dovevano essere lì da molto. Dopo aver mangiato e bevuto ed essermi riposato per alcuni minuti, andai dietro la cassa, dove sperai di trovare carte, documenti e ricevute di consegna della merce scaricata per provare a capire da quanto tempo quel luogo fosse in stato di abbandono. Riuscii nel mio intento e trovai in un cassetto un documento che si riferiva all’ultima consegna effettuata. Recava la data del 2 agosto 2039. Appena tre giorni prima! Significava che soltanto tre giorni prima del mio arrivo lì dovevano esserci stati degli esseri umani. Mi guardai intorno, nella penombra, e mi resi conto che quel luogo doveva essere stato abbandonato in fretta e furia. C’era ancora un orologio perfettamente funzionante appeso al muro. La faccenda si faceva sempre più strana. Rinvigorito da quella sosta, decisi di rimettermi in cammino e uscire il prima possibile da quell’incubo. Volevo vederci chiaro e scoprire cosa stesse succedendo intorno a me. Quando fui di nuovo in strada, il sole stava ormai calando e nel giro di poche ore sarebbe arrivata la notte. Avevo comunque abbastanza tempo per arrivare all’uscita successiva. Eppure, quando finalmente giunsi lì, notai con amarezza che anche questa uscita era chiusa e sbarrata con pilastri di cemento. E dal punto in cui mi trovavo non potevo uscire in nessun modo dalla strada provinciale, poiché questa strada era per lo più costruita su una serie di ponti a diverse decine di metri d’altezza, e il punto dal quale ero entrato era uno dei pochi in cui si poteva accedere scalando il pendio che dava sulla campagna. Ora dovevo decidere in fretta cosa fare: tornare alla stazione di rifornimento e passare lì la notte, oppure continuare a percorrere la provinciale e arrivare all’uscita successiva, lontana circa sette chilometri da dove mi trovavo. Decisi di tentare la sorte e ripresi il cammino. Nessuno potrà mai immaginare, a meno che non lo abbia provato di persona, lo stupore che provai quando, dopo circa quattro chilometri, mi accorsi che la strada si interrompeva di colpo, come se il ponte sulla quale era stata costruita fosse saltato in aria. Arrivai fino al limite, dove la strada finiva, tagliata di netto come il ramo di un albero, e guardai verso il basso. Un precipizio del quale a stento riuscivo a vedere il fondo mi fece girare la testa. Una sensazione di inquietudine e di angoscia si impossessò di me. Non poteva essere vero, doveva trattarsi per forza di un incubo, poiché tutto quello che mi era capitato era assolutamente irrazionale. Mi sentivo come se qualcuno, dall’alto, stesse giocando con me mettendo sulla mia strada pericoli e prove da superare. Ma proprio in quel momento qualcosa attirò la mia attenzione. 7. Un cartello posto alla mia sinistra, grande abbastanza da farsi notare e che pure, in preda all’ansia, inizialmente non avevo scorto, era rivolto verso il senso di marcia opposto a quello dal quale arrivavo io e recava alcune scritte. Mi avvicinai per leggere. Si trattava di una specie di segnale stradale digitale che indicava l’accesso vietato, e sotto alcune scritte dicevano: “Zona militarizzata. Vietato l’accesso ai civili. Esperimento militare in corso. Alto pericolo di morte. Abbandonare immediatamente l’area.” Il sole era ormai tramontato lasciando il posto alla sera, ma la temperatura restava ugualmente alta e non c’era neanche un filo di vento. Sempre più irrequieto e nervoso tornai indietro verso la stazione di rifornimento, deciso a trascorrere la notte lì, ma un’infinità di domande si facevano strada nella mia mente. Era possibile che l’esercito stesse sperimentando un nuovo tipo di arma? Insetti giganti? A quale scopo? E se gli insetti fossero sfuggiti al loro controllo e ora l’intera zona era stata evacuata? Questo poteva spiegare come mai non avessi incontrato nessun essere umano durante il mio tragitto e perché la strada principale che collegava quelle cittadine di provincia fosse interrotta così bruscamente. Ma per quale motivo io non avevo saputo niente di questa evacuazione? Perché nessuno mi aveva avvisato? E soprattutto, chi era il responsabile della presenza di quegli insetti giganti? Queste, purtroppo, sono domande alle quali non posso rispondere con certezza. Né ora, né mai. Tutto quello che posso fare è dire quale idea io mi sia fatto di tutta questa assurda storia. Credo che il governo, in gran segreto, abbia creato degli insetti geneticamente modificati nei laboratori sotterranei che si troverebbero al di sotto della cittadina di campagna nella quale abitavo; laboratori segreti di cui si vociferava di tanto in tanto e la cui notizia dell’esistenza era stata sempre bollata come una leggenda metropolitana. Credo anche che gli scienziati e i responsabili di tali, presunti laboratori, abbiano perso il controllo delle gabbie che contenevano questi insetti e che prima che la situazione precipitasse l’intera zona sia stata evacuata e poi messa in quarantena. Come abbiano fatto gli scienziati a creare degli insetti di dimensioni gigantesche resta per me un mistero. Così come non saprò mai per quale motivo io non sia stato avvisato ma, credo, potrebbe essere perché trascorsi gli ultimi dieci o dodici giorni in casa, da solo, senza avere contatti con l’esterno né con altri esseri umani. Il disturbo schizotipico di personalità di cui ero affetto da tempo, e che mi portava sovente ad evitare i rapporti umani, mi è stato fatale. Quello che posso dire è che quella sera di pochi giorni fa, quando tutto questo ha avuto inizio, tornai di corsa alla stazione di rifornimento, nella quale mi barricai, per passare lì la notte. Ed è stato qui che ho vissuto finora. Quest’oggi, dopo quattro giorni, alle prime luci dell’alba mi sono svegliato di soprassalto a causa di rumori provenienti dall’esterno. Sono andato a controllare e ho notato che l’intero edificio era stato circondato da quelle formiche giganti che avevo visto pochi giorni prima durante il mio tragitto. Ho provato a rifugiarmi al piano superiore, ma non ha funzionato. Le formiche hanno iniziato a distruggere la porta d’entrata e sarà solo questione di tempo prima che riescano ad arrivare all’interno della struttura. Ho trovato questi quaderni all’interno di alcuni cassetti e ho scritto questo breve resoconto nella speranza che sopravviva a me e che un giorno sia trovato da qualcuno che possa fare luce sull’intera vicenda. Ma adesso non c’è più tempo. Sento che stanno per arrivare. Non mi resta che sigillare questi fogli in una busta di plastica e nasconderli all’interno di uno di questi cassetti, in una stanza adiacente a quella dove sarò io fra poco. Ho deciso che quei mostri non mi avranno mai vivo. Ho preparato un cappio con una corda trovata nel magazzino e l’ho legato ad una trave di ferro. Stanno arrivando. Non mi resta molto tempo. Presto, il cappio!