L’ultima lotta contro la Balena Bianca: Bartleby lo scrivano di Andrea Panzavolta «Ancora adesso posso rivedere quella figura, così sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine. Era Bartleby». Con queste parole irrompe nella letteratura uno dei personaggi più grandi di sempre. Bartleby è una stella nera che annuncia una verità implacabile; alla sua luce, fredda e livida, ci si sente come bambini smarriti nel bosco. Bartleby è uno scrivener; anzi, egli è ‘the’ scrivener, lo scrivano per antonomasia, l’ultimo scriba ad estrarre «de thesauro suo nova et vetera». È l’ultimo degli scribi perché dopo di lui sarà impossibile non solo scrivere, ma anche proferire parola alcuna. Vetera è la scrittura a cui per un po’ di tempo anche Bartleby si dedica: la copiatura di rogiti, di testimonianze e di contratti offre ancora la parvenza di un kosmos, o quanto meno di un mondo la cui spinta centrifuga è possibile tenere sotto controllo attraverso parole vergate in ordine e in bella grafia. Ma novum è ciò che Bartleby scorge tra le righe, nel candore, davvero abbagliante, della pagina: è, quella bianchezza, la stessa della Grande Balena, un «incolore onnicolore d’ateismo», che con la sua «indefinitezza adombra i vuoti e le immensità disumane dell’universo». Moby Dick sferra l’ultima, definitiva battaglia sulle pagine bianche che Bartleby dovrebbe riempire di segni e di cifre, a riprova che intere odissee si possono consumare anche sulla superficie di un foglio di carta. Penultimo scriba è stato Achab: questi ancora si illudeva di decifrare i geroglifici che i colpi di arpione avevano inciso sulla fronte del Leviatano. Ma l’ultimo scriba è Bartleby, che dice l’impossibilità di leggere e di capire quell’antica scrittura crudele. Un male «eccessivo e radicale» dinanzi a cui si prova «un certo senso di impotenza»: è questa la sensazione che prova l’avvocato quando guarda Bartleby. Ma l’avvocato, per usare le parole di Hölderlin, è pur sempre un fiammeggiante figlio della Terra, a cui il linguaggio degli dei è offerto tramite il poeta. Bartleby, invece, è colui che, «a capo scoperto» e con «nude mani», tocca il fuoco degli dèi, fino a rimanerne incenerito. Il riferimento a Hölderlin è tutt’altro che peregrino. Del sommo poeta tedesco, Bartleby ripercorre la stessa, annientante esperienza: a poco a poco le parole si alterano, si corrompono, si sfaldano e il linguaggio diventa incomprensibile. «Demenza», è definito sbrigativamente dall’avvocato lo stato mentale di Bartleby, ma quegli non si accorge che la demenza del suo scrivano riflette quella del mondo; o meglio: non si avvede che la demenza è la sola e ultima arma che ancora resta all’uomo contro il cannibalismo della creazione. «Per il momento preferirei non comportarmi in modo ragionevole»: forse sono le parole più alte che un uomo possa pronunciare contro l’assurdo della creazione. Il mutismo in cui si racchiude lo scrivano – non a caso lo stesso della Grande Balena – è in realtà una nobile rivolta metafisica, tanto più nobile perché destinata al fallimento. In Bartleby, annota ancora l’avvocato, non vi era nulla di «comprensibile» né di «umano». Ma vi è qualcosa di comprensibile e di umano nella vita degli uomini? Non solo: per la sua immobilità the scrivener è paragonato a uno degli infissi dell’ufficio: «Continuò, come prima, a essere un infisso […]. Se possibile, divenne ancora più infisso». Inizia, qui, la metamorfosi di Bartleby che si concluderà nel cortile della prigione. Né il sole né la morte si possono guardare fissamente, recita una celebre massima di Rochefoucauld; Bartleby, invece, lo ha fatto. Anch’egli ha abitato la terra dichterisch, ma a differenza di Hölderlin non può dire che «ciò che resta è dono degli dei». Bartleby, insomma, come Gregor Samsa e prima di Gregor Samsa, si metamorfizza in ciò che è da sempre, raggiunge pienamente lo statuto dell’umano, che consiste nell’essere nient’altro che un infisso, una pagina bianca, un muro annerito (o un ripugnante scarafaggio). Die Verwandlung si conclude, come si accennava, nel più silenzioso cortile delle ‘Tombe’, il carcere di New York. È qui che l’avvocato ritrova lo scrivano. «So chi siete, e non ho nulla da dirvi», risponde questi al saluto dell’avvocato, e poi aggiunge: «So dove mi trovo». Bartleby, dunque, ‘sa’, conosce le due sole cose che davvero contano: che cosa sia l’uomo e dove esso si trovi. Dopo queste due affermazioni, il silenzio: del resto, sarebbe stato possibile aggiungere altro? Dopo aver compreso che l’uomo è un nulla che soffre, Bartleby si trasforma in questo nulla: «Stranamente raggomitolato alla base del muro, le ginocchia contratte, disteso sul fianco e con la testa poggiata sulle fredde pietre, vidi allora il consunto Bartleby. Mi fermai, […] mi curvai su di lui e vidi che gli occhi opachi erano aperti. Non fosse stato per quello, avrei detto che era immerso in un sonno profondo. Qualcosa mi spinse a toccarlo. Tastai la mano e un freddo brivido mi salì per il braccio, mi corse dalla testa ai piedi». La pagina che conclude il racconto forse rivela la suprema visione da cui prende l’avvio la metamorfosi di Bartleby. Pare che prima di essere assunto dall’avvocato, lo Scrivano ricoprisse il ruolo di impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrire a Washington. La traduzione «lettere smarrite», tuttavia, non coglie minimamente le oscure suggestioni del testo inglese, che suona «dead letters», «lettere morte», così chiamate perché destinate a non essere mai recapitate. Magari, riflette l’avvocato, una di quelle conteneva un assegno per alleviare l’indigenza di un povero, il quale, non ricevendolo, è morto tra gli stenti; o parole di perdono che avrebbero potuto consolare chi, invece, si è spento tra i rimorsi: «Messaggere di vita, queste lettere precipitano nella morte». (Anche il messaggio dell’imperatore di cui scrive Kafka è una ‘lettera morta’?) Ecco cosa vide Bartleby, l’ultimo scriba. La verità sull’uomo può esplodere anche in un anonimo ufficio postale, mentre si aprono lettere destinate al macero, perché come quelle lettere, così la vita degli uomini. Consummatum est. La metamorfosi si è compiuta: Bartleby è divenuto alla fine ciò che era sempre stato, vale a dire una dead letter. Dobbiamo immaginarlo disperato mentre i suoi occhi si fanno sempre più opachi e l’alito gelido della morte irrigidisce le sue membra? Forse no. Forse per lui valgono le ultime parole pronunciate da Mersault, il protagonista dello Straniero di Camus, insieme a Gregor Samsa il personaggio che più si avvicina a Bartleby: «[…] davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la priva volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora».