Ascolta una storia che viene da lontano “ una storia lontana narrata da un oggetto” Concorso nazionale di scrittura per ragazzi VINCITORE DELLA SEZIONE SCUOLA PRIMARIA Scuola primaria Bianca Maria Visconti, Cremona I miei orecchini Ciao! Noi siamo Love, il paio di orecchini di una bambina di nome Cristina. Veniamo da un piccolo negozietto all’interno di un grande centro commerciale. Vorremmo raccontarvi la nostra storia. Era il 9 dicembre e, come ogni giorno, ce ne stavamo nella vetrina vicino alla cassa a luccicare. Era da un po’ che aspettavamo di essere acquistati, cominciavamo ad annoiarci nel vedere sempre e solo facce di passaggio che ci indicavano sorridenti o dubbiose. Noi volevamo essere comprati da una bambina intelligente, bella, magra e possibilmente alta perché la luce del sole ci illuminasse il più possibile. Eravamo un po’ tristi e cominciavamo a dubitare della nostra lucentezza quando una ragazzina, con aria seria e determinata ci fissò e ci indicò. Era perfetta per noi. Era proprio come volevamo che fosse. Quando guardò sul cartellino il nostro prezzo, la ragazzina rimase a bocca aperta. Ecco perché nessuno ci comprava: eravamo belli ma molto costosi. La ragazzina ci acquistò comunque. La cassiera ci infilò in una bustina colorata e per questo non vedemmo il tragitto per la nuova casa. Non sapevamo ancora il nome della ragazza. Venne la sera ed improvvisamente udimmo una voce:- Elena! E’ pronta la cena!- . Così scoprimmo il suo nome. Prima di andare a dormire, Elena aprì il sacchettino, ci prese e ci posò delicatamente sul suo comodino e ci rimirò sorridente, sembrava soddisfatta di averci scelto. Una voce chiese:- Come darai il regalo a Cristina?- ed Elena rispose che non ne aveva idea. La mattina dopo ci rimise nella bustina colorata e ci ripose in un cassetto e da lì non ci prese più. Finalmente, dopo due lunghi giorni di buio, una mattina presto, Elena ci trasferì in una borsa gigante che si mise sulle spalle. Viaggiammo di nuovo in auto, senza sapere verso dove. Il trillo improvviso di una campanella ci fece sobbalzare, poi una gran confusione e infine una voce distinta sopra le altre, poi il silenzio. Noi, confusi, ci addormentammo. All’improvviso una mano ci venne a cercare, Elena ci prese e senza dire una parola ci consegnò ad un’altra bambina: era intelligente, bella, alta come Elena, ma non più magra di lei, si chiamava Cristina. Quando ci vide rimase a bocca aperta, le eravamo piaciuti! Ricominciammo a dormire tranquilli perché Cristina sembrava brava e affettuosa, sicuramente ci avrebbe trattati bene e così fu. Ecco la storia di come siamo arrivati sulle orecchie di Cristina, che mai ci abbandona. Chissà se da Cristina arriveremo ad un’altra bambina7 di certo ve lo racconteremo. Di Cristina Sandu, 10 anni. VINCITORE DELLA SEZIONE SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO Istituto comprensivo di Vezzano Ligure (SP) La musica del deserto Quando oggi Anwar è entrato in classe abbiamo subito capito che non sarebbe stato un giorno qualunque. Lentamente ha estratto da una borsa alcuni oggetti ed ha cominciato a raccontare. Un vassoio, una teiera, due bicchieri, un tegame con coperchio, una presina, un centrino ed un flauto hanno evocato un mondo lontano, le parole sono diventate suoni ed immagini. “Kalid il beduino aveva viaggiato tutto il giorno sotto il sole cocente, sferzato dal ghibli, cercando di ripararsi con il suo tagelmust, il velo che copre anche la bocca e gran parte del volto, lasciando liberi solo gli occhi. Finalmente aveva raggiunto l’oasi, aveva messo il suo cammello all’ombra delle palme, poi aveva acceso il fuoco. Hakima, sua moglie, si era avvicinata portando il tajine, un bel tegame di terracotta smaltata, dove erano stati cucinati la carne e le verdure. I profumi della curcuma e dello zenzero, diffusi nell’aria avevano richiamato Fatima, la figlia più grande e Hasan, il piccolo di famiglia. Kalid, come è consuetudine del capo famiglia, preparava la bevanda nella brik, la teiera; metteva un pizzico di tè verde, aggiungeva l’acqua bollente e una manciata di foglie di menta. Con gesti lenti e precisi versava poi il liquido profumato in due bicchieri di vetro con fondo colorato verde e fucsia, decorati nella parte superiore con foglie, fiori e piccoli uccelli. Poi appoggiava la teiera su un vassoio finemente inciso. Ricordava ancora quando al mercato di Agadir aveva acquistato quel vassoio d’argento lucido, i trafori dalle forme geometriche lo avevano subito attirato. Nel souk della vecchia Fes, dopo aver percorso le tortuose vie traboccanti di suoni, odori e rumori, aveva invece comprato quella teiera con quattro piedini, incisioni simili a cornicette e un beccuccio lezioso per la fuoriuscita della bevanda. Terminato il pasto, la vecchia Myriam, madre di Kalid, lo sollecitò a prendere il flauto. Nella notte limpida, il suono prodotto dallo strumento si innalzava verso il cielo punteggiato di stelle e si spandeva nel silenzioso deserto. Nessuno nelle vicinanze. Nell’accampamento rischiarato dalla scoppiettante luce del falò, si scorgevano solo le esili sagome di due palme illuminate dal riverbero argenteo di una pozza d’acqua dove un cammello solitario si stava abbeverando. L’immobile cielo notturno fu scosso da una saettante stella cadente che lo attraversò per intero prima di scomparire dalla vista del beduino. Egli, immobile, seduto sul suo tappeto rosso, i cui disegni geometrici nascondono una storia segreta, con un codice tramandato di generazione in generazione dalle donne di casa, muoveva le sue dita sui fori praticati nel bambù; la melodia, un mix di musica araba e berbera che affondava le sue radici nel Sahara, era un modo per raccontare e tramandare la tradizione. Le storie di Le mille e una notte, i valori del mondo arabo, il rispetto delle credenze religiose, la solennità dei giuramenti, la clemenza, il senso dell’espiazione, rivivevano anche quella notte44. Il vecchio Mohammed era disperato, sua figlia, la bellissima Fatima, aveva rifiutato tutti i pretendenti ed era sempre triste. Solo chi avesse saputo conquistarla con la sua musica avrebbe avuto il suo cuore, così aveva detto il saggio di corte. Mille messaggeri erano partiti alla ricerca di esperti suonatori. Molti si presentarono sino a che un giorno un giovane incantò la fanciulla con un semplice flauto. Le nozze stavano per essere celebrate quando un mendicante si presentò reclamando il possesso dello strumento: a nulla valsero le proteste dei due futuri sposi. Alì, il giovane, aveva promesso che non avrebbe mai usato il flauto per ottenere vantaggi, perciò il mendicante, che in realtà era Allah, lo condannò a vivere nel deserto. Dopo molte lacrime che si trasformarono in rose del deserto, egli imparò a sopravvivere in quell’ambiente ostile: sapeva ritrovare la sua tenda osservando la forma delle dune e la posizione del sole, preparava il tè, pregava e suonava un flauto che aveva intagliato. Allora Allah ebbe pietà di lui e gli permise di portare con sé la fanciulla e vivere come nomadi. Da allora i viaggiatori che attraversano il deserto quando sentono il suono del vento che evoca musiche struggenti, ripensano alla storia di Alì e Fatima. Improvvisamente Kalid smise di suonare ed ecco, nel deserto infinito, calare il silenzio.” Di Agnese Buratti, Mattia Calzetta, Filippo Chinca, Eva Dell’agnello, Chiara Di Vittorio, Francesca Gardoni, Martina Gilardi, Anwar Lakdim, Dario Losi, Sabrina Maggiani, Martina Marchi, Luca Pavani, Sara Perin, Antonio Polizza, Nicola Spinosa, 11 anni. VINCITORE DELLA SEZIONE SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO Istituto Tecnico Commerciale G. Mazzocchi, Ascoli Piceno Who am I L'essenza della vita, l'energia che scorre in ogni essere vivente, ciò che viene descritto come qualcosa di indescrivibile, è qualcosa di unico e straordinario. La morte contraddistingue quest'essenza da qualsiasi altra cosa materiale ed inanimata. Un punto di arrivo. Una fine. Ma se questa fine non fosse presente, potresti definirti davvero "vivo"? Io non ho fine e non ho inizio. Non ricordo chi sono. Non sono né vivo, né morto, ed, allo stesso tempo, sono vivo e morto. Come potresti definire un qualcosa che non è definibile, un essere che non dovrebbe essere, un morto che non è mai nato? Un miracolo od un errore? Io preferisco definirmi diverso. Non ricordo il momento in cui venni al mondo, anche perché allora il tempo non era stato ancora inventato. Non credo nel tempo, un'invenzione creata da delle stolte creature che sentirono il bisogno di misurare l'immisurabile. L'unica cosa che ricordo è che sono sempre esistito, che sono sempre stato solo. Un qualcosa mi distingueva dai miei confratelli, un dono ed una pena allo stesso tempo: il pensiero. Mentre i miei simili si limitavano a non essere, io iniziavo a pormi domande, a cercare risposte ed a non trovarne affatto. Il tempo non mi mancava, esistevo. Credevo di essere un privilegiato, ma mi sbagliavo. Per l'universo passavano anni, decenni, secoli, millenni e così via, per me passavano attimi. Mentre tutto intorno a me era fermo, io mutavo. Tante domande e zero risposte. Durante quest'esistenza, se così si poteva definire, feci parte di tanti mondi, tanti oggetti e tante creature. Un attimo ero una stella, un attimo dopo ero un sasso, un attimo dopo ancora ero un uomo, ed ancora un albero, una casa, un asteroide. Nonostante passassi dal freddo vuoto dell'universo, al caldo intenso del magma, restavo sempre solo. Diverse erano le esistenze di cui avevo fatto parte, ma vuota era ancora la mia. Chi sono? Il pensiero fa davvero di me un qualcosa? Perso nel nulla, l'unica cosa che percepivo era un senso di smarrimento ed incomprensione. Solitudine, così mi piaceva chiamarla. Una sensazione, un'emozione che uccide ogni giorno, una tortura che non poteva essere placata. Al passare di ogni attimo ero sempre più solo, sempre più morto. E proprio con la morte avrei potuto trovare la pace, una finta soluzione. Basta domande, non mi interessavano le risposte. Voglio solo cessare di esistere. Volevo solo metter fine a questa tortura che mi distruggeva e mi ricomponeva continuamente. Passavo la mia esistenza provando a non pensare, fissando il vuoto con invidia. Mi sentivo come un'onda dell'oceano che cerca di raggiungere il cielo.. Poi mi arresi. Persi tutta l'energia e mi fermai. Il non riuscire ad accettarmi per quel che ero mi faceva sentire lontano dal tutto, quando in realtà ne facevo parte da sempre. E mentre percepivo l'essenza fluire via dal mio essere, dedicai un ultimo pensiero all'immaginazione, a come sarebbe stato se fossi nato umano, se fossi cresciuto, se fossi diventato qualcuno. Immaginai le sensazioni, le emozioni, cosa avrei provato nel vedere i miei figli crescere, nel sentire mia madre piangere e nel toccare la morte con mano. Avrei vissuto una vita da individuo ed avrei aspettato la fine senza paura, con il pensiero che sarei tornato ad essere parte del tutto nuovamente.. Ora è giunto di nuovo il mio tempo, niente più domande, tornerò a “non essere”, lasciandomi trascinare di nuovo dal flusso dell'universo senza cercare di alterarlo: strana la vita di un Atomo. Di Martin Joe Nespeca, 17 anni.