Amelie Posse Brázdová Interludio di Sardegna Tema, Cagliari 1998 Da dove vivevamo noi, sugli antichi bastioni, si vedeva solo il mare e, in fondo alla baia, alcuni squarci lontani del litorale. Non distante c’era il porto, sempre pieno di vita, con i pescatori seduti lungo la banchina a intrecciare nasse o a stendere reti marron e azzurre ad asciugare. Di mattina c’era il mercato del pesce, e si poteva comprare direttamente dalle barche o, tra un incredibile vociare e interminabili mercanteggiamenti, da chioschi sgangherati. In nessun altro luogo, neppure a Capri o in Sicilia, ho mai visto pesci così sorprendenti, belli o brutti che fossero. Grandi pesci rossi e dorati con dei ciuffi sul dorso, altri color lilla o verdazzurri, parecchi dalle forme estremamente curiose e repellenti. I sardi li chiamano con nomi espressivi che fanno esplicito riferimento alle forme o ad altre circostanze. Un giorno ho visto tre uomini che trasportavano una grossa creatura simile a un’anguilla. Si trattava di una murena, lunga più di quattro metri: il genere al quale i Romani davano in pasto gli schiavi ribelli. Le barche, a uno o a due alberi, issavano vele latine. A volte arrivavano da lontano dei brigantini o dei bastimenti a caricare aragoste. Per il porto era un grande evento. Ma ancora più eccitante era quando una nave da guerra gettava l’àncora vicina al molo e gli ufficiali scendevano a terra con le lance. (pagg. 64-65) *** Quando arrivammo nei pressi di Alghero era già buio e stava sorgendo la luna. Era stato tutto così bello che non riuscimmo ad andarcene a letto e a porre fine a quella indimenticabile giornata. Cantammo tutti e quattro [...] dopo di che Tomaso propose di andare a pesca di totani con la lampara. La lampada a carburo era appesa a un bastone attaccato all’albero di poppa. Con le vele abbassate ci muovemmo dolcemente portati dalla corrente. Ognuno di noi era armato di una fiocina a tre denti, ci sentivamo come divinità marine mentre ci sporgevamo dal bordo guardando giù negli abissi oscuri. Ogni tanto brillava un’ombra pallida. Quindi, veloce come un lampo, si muoveva qualcosa e d’improvviso una cosa bianco-verdastra senza forma saliva vibrando in superficie. C’era solo da colpire rapidamente. All’inizio non ci riuscivamo affatto, ma la cosa era estremamente eccitante. E anche poco piacevole (tutto era così morbido e molliccio e privo di resistenza, dall’acqua a quelle viscide creature senza ossa), come la sensazione che si prova quando in sogno ti senti le braccia intorpidite e tutto sembra fluido e inconsistente. Quando finalmente, dopo interminabili tentativi a vuoto, riuscii a infilzare uno di quegli sfuggenti calamaretti, ne fui terribilmente orgogliosa. Ma mi fece anche star male, perché dalle ferite schizzò un denso liquido nero e tutti i verrucosi tentacoli si avvinghiarono al manico del mio tridente in violente convulsioni mortali, come odiosi serpenti. Scagliai la fiocina lontana sul fondo della barca e mi rifiutati di continuare quella dannata pesca. Ma gli uomini erano al massimo dell’eccitazione e proseguirono a lungo, finché il fondo della barca non fu una massa vibrante di polpa bianco-grigiastra. Maddalena era in sollucchero, ed elencava tutti i deliziosi risotti e fritti che ci avrebbe preparato e tutto ciò che avrebbe potuto comprare col ricavato della vendita del resto. Francesca si era addormentata. Io ero distesa su una pila di sacchi e in procinto di seguire il suo esempio. Avevo girato le spalle alla lampara e tutto ciò che riuscivo a vedere erano i suoi tremuli riflessi sulla coffa, in alto, da qualche parte tra le stelle. Di tanto in tanto arrivavano dalla terraferma svolazzando, attirati dalla luce, falene e pipistrelli. L’acqua sciabordava e gorgogliava sotto la chiglia, e da una barca lontana giunse il suono di una canzone. La leggera brezza notturna mi batteva sulle guance. La realtà lentamente svanì. Il cielo e il mare si confusero. Per molto tempo dopo che la lampara fu spenta ebbi la sensazione che brillasse ancora una luce chiara. Era qualcosa che nessun sogno era in grado di distruggere, una sensazione troppo forte per essere obliterata dal sonno, un grande incredibile fatto: la nostra libertà. 22. Aquile sul deserto [...] Portammo Chytil a fare un ultimo giro in barca, e questa volta andammo ancora più al largo che mai. Adesso, grazie al cielo, non avevamo più restrizioni. [...] Salpammo la mattina presto che era ancora fresco, col mare increspato da graffi di vento, e non tornammo se non dopo mezzanotte. La meta era una spiaggia lontanissima che avevamo visto luccicare nella luce pomeridiana sotto il profilo di montagne azzurre proprio dall’altra parte del golfo; a volte sembrava una striscia bianchissima, altre una vera e propria nuvola di oro rosato. Aveva risvegliato tutti i nostri desideri repressi. Proprio perché era lontana e proibita costituiva una tentazione doppia. Adesso finalmente potevamo esaudire le nostre brame ed esplorare quel territorio sconosciuto e misterioso. Si stendeva, totalmente deserto, a chilometri e chilometri da qualsiasi abitazione umana, ma c’era un vecchio rudere che dava il nome alla località: il Lazzaretto. Durante alcune epidemie, in passato, era stato usato come ospedale per malati di colera e come stazione di quarantena. Ora il tetto era crollato. Le erbacce avevano spaccato le pareti e stavano coprendo quell’unica traccia di presenza umana. Tutt’intorno, a perdita d’occhio, non c’era niente tranne che natura selvaggia, vergine e intatta come l’avevano lasciata le mani del Creatore. Mai avevo provato una simile sensazione di primordialità. Qualsiasi altro paesaggio sembra banale e piatto, adulterato e sfruttato, quando lo paragono alla natura della Sardegna e alla sua prospettiva di eternità. E in nessun’altra parte era così conturbante come qua. Ci sentivamo come pigmei, come pulci, come microbi mentre correvamo su quella interminabile spiaggia candida. [...] All’improvviso sentimmo dall’alto delle strida acute, e soltanto allora le piccole creature apparvero davvero impaurite. E ne avevano ben donde, perché si trattava di un’intera famiglia di aquile: gli enormi maestosi genitori e tre piccoli ancora goffi ed incerti sulle ali. Andarono avanti con le loro esercitazioni di volo per tutto il giorno, palesemente interessate ai nostri movimenti. Quando ci muovevamo lungo la spiaggia ci accompagnavano dall’alto, e durante le ore di mezzogiorno le loro ombre ci ruotarono intorno sulla sabbia candida. Se ne stavano tra noi e il sole, ora volando basso, ora ad altezza vertiginosa. Ai loro insistenti gridi simili a lamenti rispondeva un coro di gabbiani impauriti, e negli intervalli sentivamo più acuti che mai il silenzio e la solitudine. Eravamo completamente presi e senza parole: le parole erano diventate improvvisamente superflue, davanti a quella sensazione di eternità. Gridando e cantando a squarciagola tentammo di dominare il brivido di panico che ci correva lungo la schiena. La solitudine era tale che ci sembrava di essere i primi esseri viventi su una terra nuova, o gli unici sopravvissuti di una civiltà scomparsa. Lungo il bordo del mare, e più lontano dove le onde arrivavano solo durante le alte maree equinoziali, c’erano file di conchiglie di ogni immaginabile forma e colore: conchiglie porpora e azzurre, altre delicate ovali rosa pallido, altre più piccole giallo zafferano e arancione. C’erano anche dei sassi belli e inusitati, alcuni con dentro dei fossili. Ma la cosa più bella di tutte erano i coralli, di ogni forma e dimensione. Non sapevamo che farcene ma non resistemmo alla tentazione di raccoglierne quanti più possibile, facendo a gara a chi trovava il più bello. Eravamo come bambini, o come selvaggi, alle prese con tutti quegli scintillanti tesori, quei giocattoli multicolori. [...] Mentre sguazzavamo nell’acqua, su un fuoco che avevamo acceso con dei legnetti già cuocevano le patate novelle, e sul coperchio della pentola riscaldavano delle zucchine ripiene. C’erano anche prosciutto, fichi, formaggio e un cesto di ciliegie bianche grandi come susine. Nonostante la forte calura di maggio l’appetito era enorme: avevamo necessità di qualcosa di caldo dentro, dopo essere stati a mollo per ore. Dopo di che ce ne stemmo distesi, mezzo addormentati, all’ombra di una grande roccia, sputando semi di ciliegia sul bordo dell’acqua, finché venne l’ora in cui non era più pericoloso ributtarsi in mare. Malgrado il calore dell’aria l’acqua era fresca e corroborante e meravigliosamente trasparente. Come il pomeriggio avanzava, la cosa diventava sempre più inebriante. La superficie color smeraldo cominciò a muoversi e a lambire la spiaggia con piccoli brevi allegri sospiri. Era un tale incanto che all’improvviso ci fermammo, tutti e tre colpiti dallo stesso pensiero: perché mai avevamo mosso mari e monti allo scopo di lasciare tutto ciò? (pagg. 221-226) *** Appoggiata al bordo guardavo giù nelle profondità. Pensavo al nuovo periodo della vita in cui stavamo per imbarcarci e mi sembrava che non solo il nostro futuro, ma anche quello di tutta l’umanità, fossero scuri come il mare sotto di me, altretranto misteriosi e insondabili. Guardavo nell’abisso tentando inutilmente di discernere cosa vi si celasse. Di tanto in tanto vi si rifletteva una stella, tremolante e ingigantita, ma non faceva a tempo a comparire che un’onda la spazzava via. Comparivano altre stelle, ma solo per essere spazzate via da altre onde. Non c’era niente su cui fissare lo sguardo, niente eccetto il mutamento. Niente restava fermo. Era questa la risposta ai miei interrogativi inespressi, una risposta che saliva dalle profondità del mare notturno? Forse non esisteva una meta, era tutto un correre e rincorrersi? (pag. 228) *** Un giorno, nell’aria rinfrescata dalla brezza del pomeriggio, camminai a lungo con la signora Adele, Maddalena e i loro due bambini oltre i monti, fino a una piccola baia nascosta con una spiaggia di sabbia finissima; e là facemmo il bagno. Nuotai fino al largo, e sulle rocce sotto di me vidi grandi anemoni rossi e porpora, che si aprivano e si chiudevano come meduse. C’erano anche delle strane cose lucenti a forma di stella: non so se fossero animali o piante, so solo che avevano un aspetto fantastico e brillante in quell’acqua cristallina. Su in alto, tra le fessure della scogliera, le agavi sporgevano le loro bizzarre estremità fiorite come ciuffi di alberi. Passando, non seppi resistere alla tentazione di dare a quelle foglie spinose un buffetto nascosto. Ero piena di compassione, pensando che dovevano morire proprio adesso che, dopo anni di preparazione, avevano appena raggiunto la perfezione. Ma loro non avevano l’aria di nutrire cattivi presentimenti, appese com’erano a cascate rigogliose ed esotizzanti sul bordo della scogliera. (pag. 230)