MILO DE ANGELIS, Quell’andarsene nel buio dei cortili Angelica Riciputi, Laura Paltrinieri (Classe V C) Quando si va nel buio, all’inizio non si vede nulla. Poi gli occhi si abituano all’oscurità … Avviene questo leggendo questo libro: le parole folgoranti squarciano l’oscurità e non si vorrebbe più uscire da questo buio illuminante. Sicuramente infatti, all’inizio l’immagine del titolo suggerisce un’idea di solitudine, forse quel vagare nel buio fa anche paura. Poi però, verso dopo verso, poesia dopo poesia, si avverte chiara la sensazione di trovarsi davanti a un’opera compatta, forte, tanto solida da essere rassicurante; inoltre, tante immagini, tanti oggetti, tanti termini ricorrono, si ripetono, e anche questo ripetersi è rassicurante, anzi avvolgente, perché aiuta ad entrare gradualmente, sempre di più nelle pagine, fino a “vedere” e un po’ anche a capire. Risalta la ripetizione della parola “sillaba”, mezzo minimo di comunicazione: sia quando il poeta mostra di essere riuscito a comunicare, sia quando invece questa comunicazione sembra impossibile e quando le sillabe appaiono solitarie e disperse, è evidente che quelle sillabe comunque vogliono uscire, stringono la gola, sono necessarie e non possono che essere quelle (…ma la sillaba/ che stringeva la gola/ è questa). Altri termini che ricorrono frequentemente sono “citofono” e “portone” (nella IV sezione, dal titolo “Sei perduto”): “Il citofono è acceso”; “Questo citofono brilla/ come una stella fissa”; “Il citofono chiede ancora/ la tua voce”. Sicuramente il citofono rappresenta l’esigenza di parlare e di sentire la voce dell’altra persona e brilla come una stella, attrae, proprio per questa possibilità di comunicare che offre; a volte però i citofoni sono muti e allora la comunicazione sembra una meta irraggiungibile e prevale un senso di sconfitta e di solitudine (“Se non parli,/ tutto si oscura. Solitudine saliente./ Solitudine innata”). Poi c’è il portone che si chiude e diventa un limite alla possibilità di parlare; perciò il poeta lo vorrebbe fermare (“Fermalo. Il portone sta fuggendo”). Altre parole che si ripetono sono “notte” e “buio”, che esprimono silenzio e solitudine, ma anche coraggio, perché sembra che il poeta si tuffi nel buio per cercare qualcosa; e lo fa proprio attraverso la parola poetica, attraverso quelle sillabe che diventano una rivelazione. Prima della sezione “Finale d’assedio”, il poeta ha inserito la frase “l’inizio è stato questo, tra le rovine e la ruota della fortuna”: pensiamo che anche questa frase parli di coraggio, il coraggio di vivere disgrazie e fortune, tutte indispensabili per avere un’ esperienza completa di vita. In questo libro c’è anche l’amore, che spesso però è deludente e genera una solitudine ancora più profonda: “Tutto è stato/ quello che è stato,/ il silenzio sul cuscino è un’eco di questo./ … … …/Ma il niente/ è niente e le spine si conficcano/ sempre più dentro di noi.” Ci sono poi tante presenze apparentemente senza volto e senza nome, più o meno difficili da cogliere e da interpretare, così come ci sono anche tante poesie senza soggetto o che si rivolgono a un “tu” non meglio identificato o, ancora, tanti versi che contengono pronomi e particelle pronominali la cui comprensione è difficile: sono le presenze della città, nelle vie (ci sono riferimenti topografici molto precisi), dentro i bar e i ristoranti, in mezzo all’asfalto (un’altra parola ripetuta spesso); quelle presenze che popolano le stanze, che parlano al citofono, che corrono, sono atleti, acrobati (“Ecco l’acrobata della notte” ); sono viandanti che camminano “tra i muri passeggeri e sgretolati / dove ognuno è solo il suo andarsene”; sono eroi, “corpi che sul quaderno avevano una spina”. All’ultima sezione del libro il poeta ha voluto dare un titolo più giocoso, “Canzoncine”, ed è anche l’unica parte in cui le poesie hanno un titolo e sembrano più serene, più leggere. Dal punto di vista tecnico, il poeta si serve di tutti quegli accorgimenti retorici che fanno parte del linguaggio poetico: anafore, metafore, similitudini (“L’amore era silenzioso come una congiura”), isocoli (“si spezza il tempo, si oscura/ il paesaggio), sinestesie (“ferita più buia”, “bacio senza luce”). Le poesie, tutte abbastanza brevi, senza titolo e raramente divise in strofe, sono molto spesso collegate, quasi si potrebbero leggere attaccate. Un’altra caratteristica formale molto importante è che il poeta ricorre continuamente all’enjambement (spesso anche fra ausiliare e verbo) per dare più risalto alla parola finale e a quella iniziale del verso: in questo modo il ritmo risulta rallentato e le singole parole risaltano, come se fossero sole, uniche in mezzo alle altre. Quell’andarsene nel buio dei cortili è senz’altro un libro difficile; a volte i componimenti sfuggono e appaiono pieni di immagini e situazioni enigmatiche. Eppure a noi è piaciuto molto, proprio grazie alla ricchezza di immagini, di figure, di suoni; ci ha catturato con la bellezza pura dei versi; ci ha trasmesso emozioni e sensazioni che all’inizio, appena entrati nel “buio”, non credevamo di poter provare. Ci ha fatto capire che anche oggi, nonostante tutto, la vita inizia e va avanti tra avversità e fortune (come dice il poeta) e che la poesia ci guida verso squarci di luce, ci conduce a guardare ancora più all’interno e nelle profondità di questa vita.