Venezia Arti Vol. 25 – Dicembre 2016 [online] ISSN 2385-2720 [print] ISSN 0394-4298 L’arte e ciò che ne resta fuori L’esempio di The Store di Claes Oldenburg Michael Lüthy (Bauhaus Universität Weimar, Deutschland) Bernhard Schieder (Freie Universität Berlin, Deutschland) Abstract Critical discourse on visual arts has dealt with art’s economic implications at least since the Fifties. At the same time, it becomes evident that artworks start to reflect on their relationship with consumer culture. This paper argues how the line is drawn in visual arts and sometimes blurred between art and its outer. In order to corroborate this assumption, the paper analyses the institutional, medial and economic pre-conditions of the field of visual arts. For this purpose, the paper will outline today’s trends in the art market, as well as in the museum and exhibition sector. In conclusion, the paper substantiates the tense relationships between art and consumption on the basis of Claes Oldenburg’s The Store. Sommario 1 La prospettiva istituzionale. – 2 La prospettiva mediatica. – 3 La popolarità dell’arte, ovvero: esiste un fattore ‘intrattenimento’ nelle arti visive?. – 4 L’arte e ciò che ne resta fuori. – 5 Un caso concreto: The Store di Claes Oldenburg. – 6 Donare l’anima alle cose. – 7 Il perturbamento della frontiera estetica. Keywords Consumer culture. Art market. Claes Oldenburg. The Store. The store is born in contorted drawings of the female figure and in female underwear and legs, dreams of the proletarian Venus, stifled yearnings which transmute into objects, brilliant colours and grossly sensuous surfaces. (Oldenburg, Notiz, New York, 1961) Al più tardi dagli anni Cinquanta del XX secolo, nel discorso critico sulle arti visive se ne sono tematizzate esplicitamente le implicazioni economiche, e nel contempo è diventata chiara una riflessione estetica delle opere d’arte nel loro rapporto con la cultura consumistica. Così ad esempio si può osservare come le arti visive enfatizzassero la separazione con i beni di consumo e il design, ma dall’altra parte continuassero a inscenare, problematizzare e rivedere l’andamento di questo limite in maniera irritante. Proprio nell’affrontare l’estetica dei beni commerciali l’arte pare farsi un esame di coscienza e cercare in generale una propria collocazione nella società. La trattazione seguente parte dal presupposto che tale sviluppo rappresenti senza dubbio un esempio divergente rispetto alla delimitazione tradizionale fra le forme di musica seria e popolare.1 Invero, un sistema come quello della musica non sembra esistere nel campo delle arti visive, ossia in questo ambito non sembra esserci un sistema suddiviso in specifici settori, con produttori e pubblici diversificati, i cui sotto-sistemi mirano al profitto commerciale e alla rispondenza dei propri prodotti al pubblico di massa oppure a una comunità elitaria di alto livello culturale o subculturale che richiede musica impegnata. La definizione e la sovrapposizione delle frontiere nell’arte si articola diversamente, ossia fra l’arte stessa (Kunst) e ciò che vi è di esterno (Außen) ad essa. Per motivare meglio questa ipotesi, si descriveranno le condizioni istituzionali, mediatiche ed economiche del campo, nel tentativo di differenziarlo da quello della musica.2 1 Per una delimitazione di questo genere si veda il volume Geiger e Hentschel da cui è tratto il saggio di Lüthy e Schieder 2011. 2 Ad eventuali obiezioni di tipo ideologico rispondiamo fin d’ora che il termine ‘intrattenimento’ sarà di seguito adottato unicamente per fenomeni contraddistinti da alta popolarità e carattere commerciale. Si tratta pertanto di un significato dell’intrattenimento quanto più obiettivo ed esente da valutazioni morali, senza cioè attribuirlo a generi o categorie particolari. Supponiamo dunque che anche nel jazz come nella musica classica sia possibile ad esempio eseguire progetti seri al di là degli interessi finanziari, nonché progetti d’intrattenimento con intenzioni commerciali. Fenomeni di sconfinamento DOI 10.14277/2385-2720/VA-25-16-5 Submission 2016-10-08 | © 2016 47 Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 A tale scopo si abbozzeranno alcune delle attuali tendenze del mercato dell’arte, nonché delle attività museali ed espositive, in modo da poter in conclusione restituire concretamente questa tensione nel rapporto tra arte e consumo grazie all’esempio di The Store di Claes Oldenburg. Questo contributo non è strutturato tuttavia in maniera strettamente comparativa, bensì si concentra sulle arti visive. 1 La prospettiva istituzionale Dal punto di vista istituzionale i campi della musica e delle arti visive paiono strutturati decisamente in maniera analoga, poiché entrambi presentano una suddivisione binaria: da un lato esiste il commercio orientato al profitto, il quale è costituito nel caso dell’arte prevalentemente da gallerie, case d’asta, collezionisti e speculatori; dall’altro lato vi è, come per la musica, una cerchia di istituzioni pubbliche orientate da interessi ideali – dunque musei, Kunsthallen, mostre con curatela o biennali – le quali tentano di svolgere i compiti che derivano dalla responsabilità nei confronti dei visitatori, nonché di assolvere alla loro missione di informazione e formazione. In questo modo è già tracciato l’andamento del fronte che negli ultimi anni è stato rimarcato nella critica dall’opinione pubblica – quasi come una reazione allo spostamento di peso avvenuto fra queste due tipologie istituzionali: mentre gli istituti pubblici si lamentano della cronica mancanza di fondi, cresce sempre più il volume del mercato dell’arte privato. Tuttavia si nota comunemente una sovrapposizione fra quegli artisti che ottengono i maggiori profitti sul mercato e quelli che vengono esposti preferibilmente nelle istituzioni pubbliche o che le collezioni pubbliche vorrebbero acquisire. I musei statali o locali riescono sempre meno a tenere il passo del mercato dell’arte, che è ormai scatenato. Di conseguenza avviene un deciso spostamento dell’egemonia ISSN 2385-2720 culturale: in considerazione della minaccia di una privatizzazione della formazione, la lotta per gli oggetti diventa un problema artistico specifico.3 Da questa relazione consegue che istituti come musei, collezioni pubbliche e mostre con curatela non assolvano più unicamente a un compito museale e documentario, bensì moltiplichino anche le proprie funzioni economiche. Così facendo giocano un ruolo problematico: affianco alla loro crescente commercializzazione, la quale dovrebbe contribuire alla crescita di finanziamenti esterni (mostre blockbuster, branding museale e della collezione ecc.), simili istituti diventano spesso uno strumento nel marketing urbano.4 Per di più, le grandi mostre con curatela sono luoghi non soltanto di scoperte artistiche, ma allo stesso tempo di posizionamento di prodotti sul mercato: le opere in mostra aumentano di valore grazie alla loro partecipazione e vengono immediatamente commercializzate dalle gallerie. Da questo punto di vista risultano vulnerabili soprattutto le grandi esposizioni rinomate quali la Biennale di Venezia o la documenta di Kassel. È pur vero che i curatori della documenta del 2007 si schierarono fermamente contro questi meccanismi del mercato, ossia puntando su artisti poco rappresentati – segnatamente sull’arte sperimentale degli anni Sessanta che aveva subito l’oblio del mainstream. Ciononostante, la commercialissima Art Basel aveva recuperato dai magazzini e piazzato negli stand questi artisti ‘lontani dal mercato’ ancor prima che documenta 12 aprisse i battenti. Nei commenti e reportage dalla fiera si faceva ad esempio ripetutamente il nome di Lee Lozano, una artista ‘riesumata’ a Kassel, la quale era conosciuta attorno al 1964 per dipinti che mostravano arnesi con una carica sessuale. Anche alla Biennale di Venezia era possibile notare opere che pochi giorni dopo sarebbe stato possibile acquistare ad Art Basel. Tale procedimento si è ulteriormente semplificato negli ultimi anni: per la prima volta nel 2007 si tenne a Venezia una mostra commerciale intito- possono essere identificati sia nell’incorporazione di determinati specie e generi, sia nella zona sfocata fra strategie commerciali e altre distanti dal mercato. In questo contesto ci si riferisce solamente alle seconde. 3 In genere questa problematica viene affrontata nei media col termine deaccessioning. La parola indica la crescente inaccessibilità di opere canoniche per il pubblico. Anche una delle opere per ora più costosa al mondo appartiene a una persona privata e non è visibile pubblicamente. Si tratta del drip-painting No 5 (1948) di Jackson Pollock, che nell’autunno 2006 ha cambiato proprietario per 140 milioni di dollari (il venditore era David Geffen). 4 Si pensi ad esempio al successo dell’ubicazione della Biennale di Venezia (per la prima volta nel 1895) oppure alla docu- menta di Kassel (per la prima volta nel 1955) in considerazione della stagnazione economica di quei luoghi al tempo. Simili esposizioni si trasformano in importanti fattori turistici ed economici, poiché per la loro durata temporale e per l’accumulo di opere diventano degli autentici mass media. Nel 2007 la Biennale rimase aperta 165 giorni attirando 320.000 visitatori, mentre documenta 12 nello stesso anno fece segnare 750.000 visitatori in 100 giorni. 48 Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori ISSN 2385-2720 late Cornice Art Fair, affianco all’esposizione nei padiglioni nazionali. In questo modo le mostre realizzate con una curatela vengono strumentalizzate dal mercato e le due sfere si intrecciano sempre più. Lo sfasamento dei punti di forza ha come ulteriore conseguenza che i musei si prestano sempre più a fare da vetrina a collezioni private, le quali di converso vengono nobilitate da simili mostre museali e ne ottengono un accrescimento del valore commerciale. Prendendo in considerazione la Friedrich Christian Flick Collection, la quale è andata in prestito per sette anni al museo di arte contemporanea di Berlino Hamburger Bahnhof, si può soltanto ipotizzare la crescita di valore che ne deriverà. Non di rado accade che alcune opere vengano acquistate direttamente da qualche mostra museale, cosi come accaduto per l’esposizione di Paul McCarthy al Haus der Kunst di Monaco nel 2005. Per gli speculatori vige la regola: chi viene a sapere per primo di una grande retrospettiva, può affrettarsi a comprare a prezzi convenienti. All’indomani della mostra e dopo che l’artista è stato nobilitato dal museo, è possibile ottenere profitto dalle vendite.5 La commistione economica delle istituzioni pubbliche nel campo della musica è paragonabile per certi versi a quella nelle arti visive (per es. teatri lirici che fungono da strumenti del marketing urbano oppure un violinista che sfrutta il palcoscenico come spazio pubblicitario per l’ultimo disco), ma va fatta una distinzione: i produttori e le opere dell’arte commerciale come di quella lontana dal mercato sono in realtà gli stessi. Fra loro non esiste alcuna differenza oggettiva, così come sicuramente non ve ne sono fra le sottosfere musicali della musica pop e della musica nuova, qualunque sia l’andamento della loro frontiera. La distinzione fra arte commerciale e arte distante dalle preoccupazioni del mercato rispecchia unicamente le diverse funzioni nell’intreccio istituzionale per opere comparabili fra loro. Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 2 La prospettiva mediatica La constatazione appena fatta ci porta a considerare le caratteristiche mediatiche di arte e musica: nelle arti visive ci si occupa principalmente di oggetti unici (con buona pace dei molti tentativi delle avanguardie di combattere questa circostanza), i quali sono soggetti a rapporti di proprietà univoci. La natura oggettiva dell’opera d’arte conduce non soltanto alla sua specifica forma di bene commerciale, bensì ancor più a una sorta di azione, il cui valore dipende dallo sviluppo e dalla commercializzazione del suo autore. Pure nei casi in cui l’arte si poggia su mezzi di riproduzione di massa come accade per la musica (es. grafica, video, fotografia), in generale si riscontrano edizioni limitate che confermano il carattere di unicità e dunque la qualità ‘auratica’ dell’opera d’arte intesa quale singolarità spaziotemporale.6 Alle fiere più gettonate, come ad esempio Art Basel, le opere più importanti sono riservate ancor prima dell’inizio, mentre poche ore dopo l’apertura molti degli stand hanno già venduto tutto. Sono soprattutto i cosiddetti signature pieces che vengono fortemente contesi, ossia le opere degli artisti del momento. A determinare la situazione è unicamente la possibilità di classificare le opera come di serie A o B, distinte dall’alta o bassa redditività: chi si è già stabilito sul mercato vede prezzi crescenti. Ciò ingenera un effetto di winner takes it all e pertanto una enorme differenziazione di prezzo fra arte poco e molto costosa (Krache e Liebs 2007,13). Il carattere di bene commerciale o di azione finanziaria dell’opera d’arte si rende ancora più evidente nel mercato secondario delle case d’asta. Nel 2007 le aste autunnali a New York hanno visto un giro d’affari di circa 1,3 miliardi di dollari, facendo registrare un notevole incremento dei prezzi. Le opere d’arte diventano oggetto di particolare speculazione, tanto che partecipano alle transazioni perfino gli hedge-funds. Questo potrebbe spiegare per quale motivo il crollo dei mercati azionari causi immediatamente anche quello dei mercati artistici. Esattamente come per la musica, anche il sistema economico delle arti visive risponde a 5 Come artista è possibile sfuggire a questo meccanismo di mercato soltanto uscendo dall’ambito artistico. Infatti, pure gli artisti che regalano le proprie opere non possono essere certi che un domani queste vengano commerciate. Proprio la documenta del 2007 ha presentato sorprendentemente molte opere di artisti che nel frattempo avevano abbandonato l’arte. 6 È possibile riconoscere ciò anche nella Appropriation Art à la Elaine Sturtevant, la quale riproduce opere di altri autori in maniera praticamente indistinguibile per sfuggire al principio di autorialità e originalità – non ultimo per motivi di critica al mercato. Le opere di Sturtevant si attestano al momento attorno ai 50.000 dollari. Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori 49 Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 una logica del valore di scambio, la quale ricomprende sia il valore di status all’interno di una società, sia la bramosia individuale. Tuttavia, la soglia d’accesso sociale al mercato dell’arte visiva è posta assai più alta rispetto alla produzione musicale distribuita a livello di massa, poiché già il dipinto di un artista ignoto può raggiungere importi in Euro a 4 cifre, se passa da una galleria. La proprietà di beni artistici definisce alcune circostanze sociali: chi desidera possedere dell’arte deve versare un’elevata quota di partecipazione, che solo in pochi si possono permettere. Nella produzione musicale la redditività economica dipende dalla distribuzione di massa dei mezzi di riproduzione e dunque è assai più soggetta al consenso del grande pubblico. Il valore di un’opera d’arte, invece, viene contrattato all’interno di un movimento di mercato poco trasparente, paragonabile a quello di altri beni scarsi. Nei musei e alle mostre la tendenza è di glissare sulle implicazioni economiche e sul peso materiale della collezione, così da mantenere apparentemente la separazione fra arte e mercato. Nelle gallerie, al contrario, bisognerebbe essere consapevoli delle motivazioni economiche, tuttavia l’illusione creata dal cubo bianco tenta di reprimere il commercio in un angolo.7 3 La popolarità dell’arte, ovvero: esiste un fattore ‘intrattenimento’ nelle arti visive? Sono all’incirca settanta milioni i visitatori che ogni anno affluiscono nei musei della Germania: cifre che si avvicinano al pubblico allo stadio del campionato di calcio. La penultima documenta ha avuto 750.000 visitatori, mentre 60.000 hanno frequentato la fiera Art Basel Miami nel 2007. Una mostra blockbuster come Das MoMA in Berlin (2004) ha attirato fino a 1,2 milioni di curiosi. Ciononostante il pubblico delle arti visive è ancora oggi assai limitato ed elitario, specie a confronto con i consumatori di musica popolare, se si considerano l’enorme volume di vendite di registrazioni, nonché la proliferazione in internet di banche dati musicali. Un semplice giro in metropolitana fra pendolari con le cuffiette rende evidente la diffusione della musica a differenza dell’arte. Anche rispetto alla televisione le mostre d’arte possiedono una portata relativamente ISSN 2385-2720 bassa. Infatti, i dati di ascolto della prima serie della trasmissione di musica popolare Deutschland sucht den Superstar (2003) hanno raggiunto l’apice di 15,01 milioni di spettatori. In effetti non è possibile affermare che l’arte contemporanea possieda un riconoscimento universale: essa ha significato soltanto per una piccola parte istruita della società. Appena ci si distanzia da questo pubblico informato, scompare anche l’interesse per l’arte contemporanea. Proprio perché oggi essa è svincolata da criteri verificabili di artigianalità, l’arte combatte ancora per il proprio riconoscimento, specie nei confronti delle persone che fanno derivare la qualità artistica dall’artigianato. Per dirlo con Adorno: «La purezza dell’arte borghese, la quale si consustanziava quale regno della libertà in contrapposizione alla prassi materiale, è stata ottenuta fin dal principio a discapito delle classi subalterne». (Adorno e Horkheimer 1989, 143) Per l’esattezza, nemmeno la Pop Art è mai stata realmente popolare, nonostante il suo nome. Popolari erano solamente i suoi riferimenti iconografici al mondo dei beni commerciali. Affatto popolare fu invece il fatto che tematizzasse questo mondo dei consumi che invece pareva per lo più del tutto ovvio. Proprio come la coeva arte concettuale, anche la Pop Art metteva in discussione la cornice culturale, istituzionale e discorsiva entro la quale avvengono la produzione e la ricezione artistica. Essa si pone inframmezzo, sia che si tratti di un effetto voluto oppure involontario. È pur vero che apre l’arte alta al campo della cultura bassa precedentemente esclusa, tuttavia non porta all’integrazione di un’arte diversa – come avviene con la musica fra serietà e intrattenimento – bensì soltanto al diverso in arte, ossia elementi pubblicitari, commerciali, cinematografici ecc. Proprio per questo motivo il tabù rotto dalla Pop Art ha avuto un particolare impatto: essa si rivolgeva a un settore che per la comprensione artistica dell’epoca rappresentava l’assoluto contrario dell’arte. I sostenitori di un’arte elitaria criticavano infatti la banalizzazione dei contenuti artistici, mentre il più vasto pubblico era irritato dal gioco intellettuale degli artisti pop. Questo gioco non era rapportato unicamente agli oggetti artistici e al loro straniamento, ma anche all’idea stessa di opera d’arte e di artista. L’accettazione della Pop Art si basava su presupposti propri soltanto di 7 Il termine White Cube è stato coniato dal critico Brian O’Doherty e mira alla neutralizzazione ideologica nonché economica dell’arte attraverso lo spazio espositivo. Per White Cube O’Doherty (1996) intende specificamente l’ambiente della galleria imbiancato e illuminato a giorno. 50 Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori ISSN 2385-2720 chi era addentro alle regole di perturbazione del limite fra arte alta e cultura bassa. Bisognava dunque essere cultivated, ossia introdotti alla storia e all’estetica dell’arte del XX secolo.8 Cosa dire invece di quei quadri e sculture che adornano molti soggiorni tedeschi? Di certo esiste per simili oggetti un mercato non indifferente, il quale non passa per le gallerie, bensì attraverso la vendita per corrispondenza. Attraverso questi canali è possibile ordinare costosi dipinti decorativi ad olio con cornice oppure sculture in bronzo accuratamente fuse con prezzi per niente bassi. Si tratta in questo caso di ‘arte popolare’? Paragonare tali prodotti con la musica popolare pone due livelli di problemi: in primo luogo, simili opere non vengono prodotte autonomamente e nella maggior parte dei casi non sono nemmeno noti gli autori. Diversamente dalla musica pop non esistono in questo ambito il culto della personalità né tantomeno un pubblico critico. Non vengono scritte recensioni, nessuna conferenza ne parla, non si creano gruppi di fan. In secondo luogo queste forme di espressione visiva non costituiscono un riferimento artistico autonomo, poiché sono soltanto derivati della produzione artistica. Nonostante vengano prezzati come pezzi originali, tali oggetti sono creazioni tardive di una fase artistica giunta al proprio epigono. Essi si orientano alla storia dell’arte, se non sono addirittura riproduzioni dirette di capolavori. Pertanto non hanno alcun potenziale di innovazione intrinseco, bensì si presentano quale variante costosa delle stampe artistiche o dei calendari che hanno reso popolari artisti quali Kandinsky, Klee oppure Matisse. Tuttavia, le loro opere dovettero raggiungere lo status artistico attraverso la nobilitazione museale, prima di poter essere rese popolari.9 Pertanto, anche sotto questa lente, non si ravvisano nelle arti visive due sotto-sezioni comparabili a quelle che dividono la musica in un settore serio e uno d’intrattenimento, ciascuno con le proprie strutture autonome e poetiche. Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 4 L’arte e ciò che ne resta fuori Resta da capire, se il design, la pubblicità e i fumetti corrispondano alla musica d’intrattenimento. Di sicuro alcune istituzioni come il Museum of Modern Art collezionano anche oggetti di design, manifesti e fumetti, affianco a opere di arti visive. Allo stesso modo di un cliente in un negozio di dischi, il quale può scegliere di addentrarsi nella sezione per nuova musica oppure in quella dei tormentoni, anche il visitatore del MoMA può decidere liberamente se ammirare il design automobilistico italiano degli anni Cinquanta, qualora non sentisse il bisogno di vedere dipinti. Tuttavia, questo genere di collezioni non rappresentano una forma di arte d’intrattenimento in opposizione all’arte seria. Le istituzioni e i discorsi in questo campo stabiliscono diversamente il confine: in maniera molto semplice dividono ciò che è arte da quanto non lo è. Ciò non comporta un degradamento dell’oggetto di design, né da un punto di vista materiale che concettuale. Si tratta piuttosto di una categorizzazione innocua, dunque non di una gerarchizzazione degli oggetti. Infatti, i due ambiti – l’arte e il suo esterno – non vengono riassunti da una definizione comune per poi essere suddivisi in sottocategorie, come accade invece nella musica. I diversi comparti del MoMA sono semplicemente tenuti assieme da un concetto molto generalista dell’estetica e da un concetto meno netto delle forme ivi configurate. Ciò che ha sospinto lo sviluppo artistico del XX secolo non furono perciò soltanto gli scambi fra sotto-ambiti culturali, bensì oltre a ciò il campo ben più ampio del visuale e dell’oggettualità al di là dell’arte: ossia ricomprendendo il settore della non arte nelle sue migliaia di sfaccettature, in un certo senso il mondo intero. A esercitare questa funzione per Marcel Duchamp erano gli usuali prodotti industriali quali pala e pettine, per i surrealisti i manichini, per il tardo Piet Mondrian il traffico di New York, per gli artisti pop i fumetti e manifesti, per i Nouveau Réalistes un tavolino da ristorante consumato oppure un’automobile a pezzi. In base all’apertura radicale dell’arte e all’impossibilità di sistematizzare quanto di non-artistico venisse via via integrato in arte, il superamento delle frontiere si svolse non solo fra distinti campi artistici, bensì soprattutto attorno al limite dell’arte stessa. Que- 8 L’opposizione fra high e low così come fra vernacular e cultivated nella tradizione anglosassone equivalgono alla dicotomia fra ‘serietà’ e ‘intrattenimento’. 9 Simili fenomeni sono riconoscibili anche nella musica, ad esempio in relazione a Mozart o Beethoven, i quali come grani maestri di musica seria possiedono ormai qualità d’intrattenimento paragonabili a maestri della pittura come Leonardo e Raffaello. Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori 51 Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 ISSN 2385-2720 Figura 1. Claes Oldenburg, Manifesto per The Store. 1961. Stampa su cartone, 71,8×56,2 cm. Collezione Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen, New York Figura 2. Claes Oldenburg all’interno della manifattura di The Store. Dicembre 1961. 107 East 2nd Street, New York sta differenza fra la musica e le arti visive pare talmente fondamentale da mantenere rilevanza anche volendo criticare il modello della ‘serietà versus intrattenimento’ negli avvenimenti musicali da un punto di vista sintetico o perfino ideologico.10 Vi sono sempre maggiori possibilità di comprendere gli sconfinamenti della arti visive nella direzione della non-arte: in ‘primo’ luogo può essere interpretata dal punto di vista della storia culturale, ossia come nuove direzioni della sensibilità artistica in considerazione di cambiamenti civilizzatori capaci di modificare la generale comprensione del mondo. Essi compaiono quali reazioni a una diversa realtà, con le quali deve modificarsi anche la forma artistica. In ‘secondo’ luogo gli sconfinamenti si lasciano comprendere come marcati rapporti di posizione all’interno del campo artistico, in relazione a posizioni ancora scoperte – campo che assorbe contenuti e materiali in precedenza ritenuti extra-artistici (Bourdieu 2001). In ‘terzo’ luogo gli sconfinamenti posso essere concepiti anche come strategie (neo-)avanguardiste per fondere arte e vita, le quali si rivolgono contro l’estraniazione dell’attività artistica dagli altri processi sociali e pertanto intendono consapevolmente superare i limiti del suo stato autonomo (Bürger 1974). Messi in connessione appaiono come interventi critici sulla realtà dell’ordine sociale o artistico. Tutte queste motivazioni che rendono incerti i confini producono conseguenze sull’esperienza estetica, cosicché l’opera d’arte diventa incerta nel proprio stato e inizia a oscillare. In considerazione di ciò le ragioni di sconfinamento – siano esse strategico-artistiche o relative alla 10 Per esempio sarebbe corretto far notare che anche alcune direzioni musicali – come la musique concrète o l’attuale sound design – provano a giocare sulla frontiera fra arte e non-arte, la quale si ritiene funzioni per le arti visive quale motore propulsore. 52 Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori ISSN 2385-2720 Figura 3. Scatto dell’Interno dello spazio commericale di The Store. Dicembre 1961. 107 East 2nd Street, New York realtà – possono sovrapporsi in molti modi, come dimostrerà in conclusione il caso di The Store di Claes Oldenburg. 5 Un caso concreto: The Store di Claes Oldenburg Nel giugno 1961 Claes Oldenburg trasferì il proprio atelier in un negozio al 107 East Second Street nel lato meridionale di Manhattan (figg. 1-4)11. Nella stanza sul retro installò la cosiddetta manifattura Ray-Gun, la cui produzione fu messa in vendita a partire da dicembre dello stesso anno nelle sale di vendita a fronte negozio. Chi entrava nel negozio si imbatteva in una quantità Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 Figura 4. Vista attraverso la vetrina dello Store sulla strada. Dicembre 1961. 107 East 2nd Street, New York di gessi dipinti che riproducevano proprio quelle merci esposte nelle vetrine dei negozi vicini del Lower East Side: la biancheria a basso costo e i vestitini della Dorchard Street, i cibi dei ristoranti fast-food e dei negozi alimentari della Second Avenue. Lo Store di Oldenburg offriva quindi risposta all’intero spettro del fabbisogno quotidiano. Alla mercificazione dell’opera d’arte Oldenburg sostituì l’inverso procedimento della trasformazione del bene di consumo: l’atto imitativo trasformava prodotti di massa standardizzati in pezzi unici fatti a mano, i quali presentavano caratteristiche individuali. Grazie al fatto che Oldenburg diede seguito alla sua fascinazione per i beni di consumo non attraverso costrizioni consumistiche, bensì attraverso azioni produttive (molto vicine 11 Le Figure 1, 2 e 3 sono tratta da Oldenburg, Claes; Celant, Germano (eds.) (1995). Claes Oldenburg. An Anthology = Exhibition catalog. New York: Guggenheim Museum. La Figura 4 è tratta da Oldenburg, Claes (1967). Store Days, Documents from the Store (1961) and Ray Gun Theatre (1962). New York: Something Else Press. Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori 53 Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 alla professione artistica), questa opera riuscì a sottrarsi sovversivamente alle arti seduttive della pubblicità e dei prodotti: [F]or all these radiant commercial articles in my immediate surroundings I have developed a great affection, which has made me want to imitate them. […] And the effect is: I have made my own Store. (Oldenburg 1967, 26).12 Il mimetismo dello Store non colpì solamente i beni di consumo, altrettanto notevole fu l’imitazione performativa operata da Oldenburg dei differenti campi d’attività ivi connessi: era sia il produttore sia il commerciante delle proprie merci, era il direttore della manifattura Ray-Gun e nel contempo il suo unico impiegato – si trattava di una struttura economica pre-capitalistica, in cui i mezzi produttivi sono auto-controllati. Inoltre, l’ampio assortimento dello Store gli permetteva di giocare allo stesso tempo diversi ruoli produttivi – era pasticciere, sarto, produttore di accessori da sposa, macellaio e calzolaio in una sola persona. Affianco alla produzione artigianale e alla commercializzazione dei suoi prodotti gli competevano anche il marketing, la pianificazione finanziaria, nonché la contabilità dei suoi traffici. Oldenburg stampò addirittura manifesti e biglietti da visita. In questo modo la sua figura oscillava fra il soggetto artistico, il gallerista e il piccolo imprenditore. Oldenburg aveva dunque abbandonato spazialmente il contesto delle gallerie, aveva preso le distanze dal mondo dell’arte e si era stabilito all’interno di un ‘vero’ negozio in un quartiere abbandonato della Downtown. I prodotti che metteva in vendita rimandavano subito alla cultura consumistica del mondo delle merci che li circondava, così da intaccare durevolmente la convinzione borghese diffusa nella nostra società occidentale che l’arte appartenga a una sfera extra-economica. Oldenburg mise in connessione l’opera d’arte e il bene di consumo, l’atelier e la manifattura, la galleria e il negozio. Così facendo rivelò soltanto quanto è comunque già ovvio nel commercio artistico, ma segretamente dissimulato dalla veste ideologica del White Cube: l’opera d’arte è da sempre parte della circolazione delle merci. [T]hings are displayed in galleries, but that is not the place for them. A store would be bet- ISSN 2385-2720 ter», affermò Oldenburg. «Museum in bourgeois concept equals store in mine. (1967, 8) Oldenburg logorò il carattere artistico del proprio progetto attraverso la sua rielaborazione in veste economica, così da richiamare l’attenzione del pubblico borghese sul paradosso delle società capitalistiche, ossia riconoscendo il principio universale della commercializzazione e nel contempo mettendolo fuori uso nella sfera idealistica dell’arte. Camuffando la propria galleria come un banale negozio al dettaglio, Oldenburg negava la sublimazione estetica dell’artefatto e si opponeva al concetto convenzionale dell’arte. Il concetto che trovò la sua formulazione nella ‘autonomia dell’arte’ postulava infatti la libertà della stessa da tutti gli obblighi pratici, etici, politici ed economici, ma così facendo la escludeva da tutti questi ambiti sociali. L’autonomia risultava in una limitazione e relativizzazione in parte autoimposta e in parte coercitiva della proprio campo di validità. Al fine di rendere incerto il concetto artistico del proprio progetto sullo sfondo di questa comprensione conservatrice dell’arte, per disattendere le aspettative e per garantire il carattere oppositivo del proprio lavoro, Oldenburg decise di percorrere la strada apparentemente affermativa verso il reintegro dei collegamenti sociali. In questa maniera non pose fine all’ordine costituito, ma perlomeno riuscì a infiltrarlo. Come affermò lui stesso, agì in maniera ‘celata’: «The artist must practice disguises. When his intentions are best, he must appear the worst» (Rose 1970, 61). 6 Donare l’anima alle cose Tutti gli articoli commerciati nello Store erano formati dallo stesso materiale, che si trattasse di abiti, biancheria, carni o pasticceria. Oldenburg costruiva scheletri di filo metallico sui quali avvolgeva la mussola imbevuta di gesso. Dopo essersi asciugate, le sculture venivano colorate a lacca. Gli oggetti erano caratterizzati da superfici frastagliate e contorni sfaldati; le superfici laccate presentavano una colorazione stridula e quasi oscena. Poiché i bordi dell’oggetto rappresentato coincidevano solo in rari casi con la forma esteriore del supporto, le cose apparivano strappate dalla continuità della realtà, come se la distinzione fra ‘cosa’ e ‘contesto’, ‘figura’ e 12 Il prezzo di vendita degli oggetti variavano da 21,79 dollari (per Oval Photograph) a 899,95 dollari (per Bride Mannikin), con cui Oldenburg imitava ironicamente i prezzi mai tondi dei supermercati discount e dei negozi a basso prezzo. 54 Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori ISSN 2385-2720 ‘fondo’ fosse contingente, tanto che lo spazio circostante mostrava la stessa solidità degli oggetti. Spesso la rappresentazione era frammentata, così da diminuire la riconoscibilità e da liberare qualità astratte. Dato che i frammenti colorati erano inoltre realizzati in un rapporto di dimensioni diverse rispetto all’oggetto effettivamente rappresentato, parevano fare riferimento sia alla distanza vacillante sia al fiume di energie psichiche fra oggetto e soggetto che si sprigionano nell’atto creativo. Imitazione ed estraniamento dell’oggetto della rappresentazione procedevano pertanto mano nella mano. La produzione di Oldenburg abbracciava l’intero contesto commerciale, dunque le vetrine, i cartellini coi prezzi, il bancone della cassa e i manichini. Da una parte le merci si sovrapponevano alla scenografia e il contenuto alla confezione, dall’altra sembrava che ci si focalizzasse su aspetti secondari del commercio quali la pubblicità, tanto da ergersi sopra al prodotto che veniva in realtà promosso. L’obiettivo non era la rappresentazione naturalistica dei beni di consumo, bensì piuttosto la sintesi in un’unica ‘immagine’ delle sue allettanti fattezze esteriori e della sua forma di presentazione, della sua forza d’attrazione e del sua carattere feticista. La magia dell’estetica commerciale doveva essere superata attraverso l’attrattività estetico-sensuale degli artefatti estraniati. L’elemento di contatto fra gli oggetti imitati era messo in relazione al corpo umano: potevano essere resi tutt’uno col corpo, servivano da orpello o da scena, da velo o da scudo. Questa circostanza presenta allo stesso tempo similitudini e differenze rispetto alla tradizione scultorea che si è prevalentemente occupata del corpo umano. È pur vero che nella storia della scultura è stata attribuita una funzione importante alle vesti, alle pieghe e alle decorazioni, così da poter passare da meri attributi a reali supporti della dinamica espressiva. Tuttavia, essi si limitano infine alla messa in scena del corpo umano, mentre è quest’ultima la vera ragione della rappresentazione artistica. Con Oldenburg invece il corpo umano sparì del tutto e al suo posto si manifestarono tutti quegli oggetti che lo circondano, quali vestiti e biancheria intima che sostituiscono il corpo nella misura in cui ci appaiono corpi attraverso il loro ‘respiro’ o la loro erotizzazione. In questo modo emerse l’economia individuale del deside- Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 rio affianco alla logica economica del valore di scambio. Valutazioni simili possono essere fatte sulla trasformazione di alimenti realizzati da Oldenburg. Nell’esperienza scultorea dello Store si sovrapponevano pertanto tre dimensioni: la loro percezione quali oggetti artistici, nonché l’esperienza della loro forza d’attrazione quali merci e come ‘corpi’. Mescolando assieme le energie dell’estetica, dell’economia e della libido, Oldenburg riuscì da un lato a sostituire la struttura del desiderio dovuta al feticismo delle merci con quella dell’osservazione artistica e dall’altro lato a dissolvere la qualità dei soggetti con quella degli oggetti. Oldenbourg affermò «The erotic or the sexual is the root of art, its first impulse». Today sexuality is more directed, or here where I am in Am[erica] at this time, toward substitutes f[or] ex[ample] clothing rather than the person, feti[s]histic stuff, and this gives the object an intensity and this is what I try to project. (1967, 62).13 Nello spazio commerciale dello Store gli oggetti realizzati diventavano un gigantesco ‘rilievo’, si riunivano in una sorta di «super texture supercollage» come affermava Oldenburg (1967, 54). Diversi oggetti presentavano la stessa superficie rugosa che veniva sovrapposta e messa in movimento dalla colorazione fortemente riflettente. Il continuum che emergeva fra gli oggetti trasformava la varianza e i materiali degli stessi in un cosmo fatto della stessa ‘carne’. Entrando nello Store si penetrava quindi dentro a un organismo. Oldenburg sfidava i visitatori con queste parole: «Store: 1. Eros. 2. Stomach. 3. Memory. Enter my Store» (44). 7 Il perturbamento della frontiera estetica «Mi pare naturale», affermò Claes Oldenburg, «di operare condizionato dalla civilizzazione tecnica americana. Conosco i singoli effetti, i vari risultati dei procedimenti di lavoro tecnico e credo di controllarli» (Teja Bach 1975, 13). Nonostante la consapevolezza di questa auto-descrizione, proprio le condizioni della civilizzazione americana erano per Oldenburg responsabili dell’isolamento e straniamento dei soggetti sociali, in 13 Momenti di sospensione della differenza fra soggetto e oggetto sono descritte anche Celant 1995, 15–31. Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori 55 Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 generale, e dell’artista, nello specifico. Tuttavia, sperava di superare queste circostanze avverse e di ottenere l’unione fra arte e vita. Voleva produrre questa fusione attraverso quanto definiva una «arte erotico-politica-mistica»14 capace di riconciliare l’uomo e gli oggetti: This elevation of sensibility above bourgeois values, which is also a simplicity of return to truth and first principles, will (hopefully) destroy the notion of art and give the object back its power. Then the magic inherent in the universe will be restored and people will live in sympathetic religious exchange with the materials and objects surrounding them. They will not feel so different from these objects, and the animate/inanimate schism mended. (Oldenburg 1967, 60) Nonostante Oldenburg nello Store non fosse riuscito ad abolire la divisione lavorativa in cui è frazionata la società, gli riuscì d’infiltrarvisi attraverso la suddivisione nei diversi ruoli. In corrispondenza al suo Io artistico – separato in diverse persone non riconciliabili – anche i suoi oggetti dovevano smantellare le contraddizioni e appianare i contrasti. Un oggetto doveva lasciare traccia su di un altro, così da sovrapporre forme, colori e significati in questo gioco di prestiti reciproci. In questo modo Oldenburg voleva sprigionare una forza che permeasse tutto attraverso il declassamento dell’ordine costituito – e non ultimo l’ordine sociale e la sottesa concezione della produzione artistica. Oldenburg concepì lo Store come uno spazio frontaliero, nel quale si sovrascrivevano momenti di ‘arte’ e momenti di ‘non-arte’. Mise in disordine la chiara relazione fra realtà e finzione estendendo il campo della propria attività a quella del commercio. La categoria del ‘disordine’ che aveva dunque ingenerato non riguardava solamente gli oggetti, ma allo stesso tempo anche il modo della loro presentazione. L’ingresso nell’effettivo spazio commerciale aveva eliminato le precondizioni artistico-istituzionali, intese quali segnalatori per la predisposizione estetica dell’osservatore, poiché non era più presente la contrapposizione fra spazio artistico e mondo esterno. Chi accedeva allo Store non si trovava a una distanza estetica dagli oggetti, al contrario si muoveva sullo stesso piano ISSN 2385-2720 degli artefatti, considerato inoltre che lo spazio vacillava fra quello di un negozio, di un’attività artigianale, di una galleria, di un atelier e di un ambiente (fig. 3). Sul ricettore aveva l’effetto di rendere incerto il rapporto con l’opera: la sua posizione si trovava nel contempo all’interno e all’esterno; era allo stesso momento osservatore dell’opera d’arte, potenziale compratore di un articolo artistico e parte integrante di un ambiente. Chi volgeva lo sguardo dalla vetrina verso la strada poteva domandarsi, se si trovasse sul lato giusto oppure se fosse diventato parte della finzione attraverso l’‘ingresso’ nella ‘immagine’ di Oldenburg (fig. 4). A un tratto la realtà si trovava lì, dove in genere starebbe la finzione, ossia entro la ‘cornice’; la finzione invece si trovava dove starebbe la realtà. Ossia al di fuori della ‘cornice’, dunque al di là della ‘immagine’. Un’ultima incertezza riguardava il quod dell’opera d’arte, ossia i suoi stessi limiti e la sua cornice: cosa andava identificato come l’opera d’arte? I singoli oggetti oppure lo Store nella sua totalità? Si trattava di una galleria che presentava singole opere, oppure invece di un tutt’uno conchiuso? Ci si trovava di fronte a un’opera d’arte che imitava un negozio, o era invece un negozio che vendeva articoli artistici? I manifesti e i biglietti da visita facevano parte dell’opera d’arte o si trattava di meri strumenti di marketing? Per il livello di comprensione dell’epoca lo Store non poteva offrirsi né come semplice ‘negozio’ né come mero spazio per il ‘godimento artistico’. Ciò rispecchiava appieno il desiderio di Oldenburg, il quale non voleva produrre meri beni di consumo né tantomeno puri articoli artistici. Al contrario voleva situarsi in una zona indefinita e non limitabile che era possibile concepire soltanto in negativo. Da una prospettiva artistico-istituzionale l’irritazione che ne derivava era il vero contenuto del progetto, il suo autentico programma estetico. In questo modo Oldenburg si muoveva su una frontiera che doveva fare affidamento sulla differenza fra arte e vita. Fino ad oggi è arduo comprendere lo Store nel suo carattere ibrido fra galleria, ambiente e happening. Originariamente Oldenburg aveva pianificato di limitare la durata dello Store al mese di dicembre 1961, mentre alla fine rimase aperto fino a fine gennaio 1962 a causa dell’alta affluenza di visitatori. Ciononostante riuscì a cedere soltanto una piccola parte delle ‘merci’ e il bilancio conclusivo 14 «I am for an art that is political-erotical-mystical» (Oldenburg 1967, 39). 56 Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori ISSN 2385-2720 riportò un deficit di 285 dollari (Rose 1970, 70).15 I prodotti dovettero passare prima per il contesto artistico, così da fruttare anche un profitto economico, oltre a quello simbolico – oggi raggiungono prezzi elevatissimi sul mercato dell’arte. Bibliografia Adorno, Theodor W.; Horkheimer, Max (1989). Dialektik der Aufklärung. Frankfurt a.M.: Fischer. Bourdieu, Pierre (2001). Die Regeln der Kunst, Genese und Struk- tur des literarischen Feldes. Frankfurt a.M.: Suhrkamp Verlag. Bürger, Peter (1974). Theorie der Avantgarde. Frankfurt a.M.: Suhrkamp Verlag. Celant, Germano (1995). «Claes Oldenburg e il senso delle cose». Guggeheim Museum (Hrsg.), Claes Oldenburg. Eine Anthologie = Exhibition Catalogue (New York, 1995). Ostfildern: Hatje Cantz, 15-31. Venezia Arti, 25, 2016, 47-58 Guggenheim Museum (ed.). Claes Oldenburg. Eine Anthologie = Exhibition Catalogue (New York, 1995). Ostfildern: Hatje Cantz. Kracher, Eva; Liebs, Holger (2007). «Die Jagdsaison ist eröffnet». Süddeutsche Zeitung (15), Mai, 13. Lüthy, Michael; Schieder, Bernhard (2011). «Die Kunst und ihr Außen – Am Beispiel von Claes Oldenburgs‚The Store‘». Geiger, Friedrich; Hentschel, Frank (Hrsg.). Zwischen „U“ und „E“. Grenzüberschreitungen in der Musik nach 1950. Frankfurt am Main: Peter Lang, 173-194. O’Doherty, Brian (1996). In der weißen Zelle / Inside the white cube. Berlin: Kemp. Oldenburg, Claes (1967). Store Days, Documents from the Store (1961) and Ray Gun Theatre (1962). New York. Rose, Barbara (1970). Claes Oldenburg. New York. Teja Bach, Friedrich (1975). «Interview mit Claes Oldenburg». Das Kunstwerk, 28. 15 Il deficit fu coperto dalla Green Gallery che aveva collaborato con Oldenburg nel progetto dello Store. Lüthy. L’arte e ciò che ne resta fuori 57