MARTEDÌ 4 AGOSTO PIAZZA PROVENZANO ORE 21.15 Steve Reich New York 1936 Drumming per quattro coppie di bongos accordati, tre marimbe, tre glockenspiel, soprano, contralto, ottavino e fischio Parte I per quattro coppie di bongos accordati Parte II per tre marimbe, soprano, contralto, ottavino Parte III per tre glockenspiel, soprano, contralto, ottavino Parte IV per quattro coppie di bongos accordati, tre marimbe, tre glockenspiel, soprano, contralto, ottavino, fischio Antonio Caggiano percussioni e direttore Silvia Lee soprano Chiara Tavolieri contralto Pierluigi Tabachin ottavino Chigiana Percussion Ensemble Irene Bianco * Simone Buttà * Federico Ciammaruconi * Giulio Centoni * Fabio Macchia * Luca Paolucci * Matteo Rossi * Filippo Sinibaldi * * del corso di Percussioni di Antonio Caggiano DRUMMING DI STEVE REICH. DAL CORPO ALLA CARTA (E RITORNO?) GIORDANO MONTECCHI Abbiamo tutti ben presente l’intramontabile e controversa questione della ‘incomunicabilità’ fra musica e linguaggio verbale: per gli uni non esistono parole adeguate ad esprimere il senso musicale, mentre per altri la musica è una sorgente inesauribile di immagini e significati disinvoltamente verbalizzabili. In realtà i partiti che si fronteggiano su questo terreno non sono due, ma una miriade. Certamente però, in musica, ci sono parole portatrici di una loro specialissima inadeguatezza, e tali da essere quasi sistematicamente respinte al mittente da parte dei compositori o musicisti che se le vedono assegnare. Sono gli ‘ismi’, parole come impressionismo, neoclassicismo, minimalismo, eccetera. Parole che vengono respinte spessissimo a ragione, poiché quell’etichetta di comodo funziona molte volte come un machete, che riduce momenti, autori, opere straordinariamente ricchi e sfuggenti, proprio per la ricchezza e complessità delle loro intime contraddizioni, a moncherini asettici e insignificanti. È il caso della musica cosiddetta minimalista, di cui Steve Reich viene considerato l’esponente più illustre, e nel cui repertorio il poderoso Drumming spicca come uno dei vertici. Controversa l’etichetta, minimal, applicata a musiche spesso pullulanti di suoni e di esecutori, e spesso abnormi per lunghezza e dimensione. Ma controversa anche la cosa in sé, cioè la musica così definita, impostasi con prepotenza da protagonista sulla scena musicale americana e anglosassone dei tardi anni Sessanta. Il successo della minimal music combacia con l’epoca in cui le avanguardie andavano attrezzandosi per celebrare la propria fine, a fronte di una nuova ondata, dal basso come dall’alto, culturalmente polimorfa e contraddittoria come non mai (Sessantotto, rock music, post-modern e, appunto, minimal, in arte come in musica). E così, nell’opinione corrente, ecco la minimal music di Steve Reich, Philip Glass, Terry Riley eletta a icona stessa della musica postmoderna. Musica che, nonostante l’appellativo, a fatica si riesce a ricondurre nel concetto di ‘minimalismo’. Un concetto che, insieme al carattere postmodern, si addice semmai molto di più alla musica di John Cage che a quella di Reich e compagni. Nato attorno al 1965 dalla penna del filosofo Richard Wollheim, per definire opere in cui l’intervento dell’artista, nonché la distanza dagli oggetti della vita quotidiana, erano ridotti al minimo (al limite fino a scomparire del tutto), in musica il termine ‘minimalismo’ ha acquisito un senso assai diverso per indicare una prassi compositiva incentrata sul trattamento di elementi minimi, cellule sonore di estrema semplicità, sottoposte a un trattamento di elaborazione e variazione per minimi passaggi, molto dilatati nel tempo e immediatamente coglibili all’ascolto. Si tratta di una concezione in origine squisitamente e radicalmente sperimentale – dunque nuovamente d’avanguardia – che in effetti faceva tabula rasa di molti assunti teorici dell’arte compositiva antica e moderna, in modi forse più radicali dello stesso strutturalismo di Darmstadt. Ma rispetto a Darmstadt e dintorni la minimal music aveva una caratteristica assolutamente spiazzante e paradossalmente scandalosa: piaceva a molti, a troppi. Non ultimo per il fatto che in essa si ripristinavano quasi immancabilmente un centro tonale, un diatonismo consonante, una pulsazione regolare, ossia tutto ciò che la neue Musik del Novecento aveva tolto di mezzo come intollerabili detriti passatisti. Da qui le polemiche a non finire, col minimalismo finito sul banco degli imputati con l’accusa di essere musica furbesca, emblema di uno scaltrito disimpegno che secondo molta critica modernista caratterizza il postmodern nel suo complesso. Drumming di Steve Reich offre un magnifico, impo- nente paradigma di tutte queste tematiche. In questa composizione del 1971 la cui durata, a seconda delle scelte degli esecutori, può oscillare fra i 60 e i 90 minuti, confluiscono gran parte dei motivi e degli interessi di Steve Reich che in quegli anni chiarifica concettualmente nei suoi scritti e concretizza nelle sue composizioni molti dei temi chiave della minimal music o, come altri (Ivanka Stoïanova ad esempio in un suo celebre saggio) preferivano denominarla, «musica ripetitiva». Forse – ma il termine era troppo poco friendly perché attecchisse nel linguaggio comune – si sarebbe dovuto chiamarla process music, poiché di questo si trattava essenzialmente. In Music as a Gradual Process (1968) proprio di questo parla Reich: l’idea di una musica che non racchiudesse ‘esotericamente’ complesse procedure costruttive e di sviluppo il più delle volte assai ardue da decifrare, ma che fosse essa stessa un processo assolutamente trasparente, i cui mutamenti, le cui fasi si susseguissero per gradi, in modo del tutto coglibile all’ascolto. La prima delle quattro parti che costituiscono Drumming si apre con una figura che è un’esemplificazione di assoluta, archetipica essenzialità: una singola nota La# eseguita all’unisono da due, tre o quattro percussionisti su un tamburo intonato e ripetuta con pulsazione costante per un certo numero di volte (la partitura lascia agli esecutori la possibilità di scegliere fra un numero minimo e massimo di ripetizioni di questa prima battuta). A un certo punto (batt. 2) uno dei percussionisti introduce una seconda nota, un Si. Gli altri seguono a piacimento, fin quando entra una terza nota, e così via, fino al completamento di una formula ritmico-melodica (batt. 8) che costituisce il pattern fondamentale su cui si basa l’intera composizione. Drumming si snoda infatti con un metro costante e invariabile articolato entro una misura di 12 crome (la partitura pubblicata nel 1971 non reca un’esplicita indicazione metrica, mentre la revisione del 2011 riporta l’indicazione 3/2:6/4). In tema di essenzialità, croma e pausa di croma sono le uniche figure di valore presenti in partitura. Altrettanto scarna e inflessibile è l’organizzazione delle altezze: sei diesis in chiave e sempre quelle sette note dall’inizio alla fine, in un quadro di diatonismo integrale che non ammette nessuna alterazione, se non un Si# introdotto da un glockenspiel nella 3a sezione. Le quattro parti della composizione sono affidate a organici nettamente differenziati, quasi a compensare con una particolare ricchezza coloristica l’uniformità della pulsazione che attraversa tutte e quattro le sezioni. La prima parte è per 4 coppie di bongos intonati, rimpiazzati a tratti da due voci maschili che ne imitano le sonorità; la seconda è per 3 marimbe e, analogamente, due voci femminili. La terza parte è scritta per 3 glockenspiel, fischio e ottavino, mentre la quarta schiera l’organico al completo. Le diverse sezioni si susseguono senza interruzioni e, anzi, si insinuano gradualmente una nell’altra, con una sorta di raffinato Klangfarbenrhythmus, cioè un ritmo timbricamente cangiante, ottenuto mediante un progressivo avvicendarsi degli strumenti in dissolvenza, grazie anche a un’accurata alternanza di bacchette dure e morbide. Il respiro formale della composizione, nella piccola come nella grande dimensione, è la risultante di alcuni procedimenti combinati fra loro, in parte originali, in parte derivati da antiche tradizioni. Il primo elemento è il virtuosistico interlocking degli esecutori: un’incalzante coreografia di braccia e bacchette impegnate a disegnare una vorticosa trama a hoquetus, risultante dall’embricarsi di suoni e silenzi intercalati nelle varie voci (si veda sotto la figurazione di batt. 10). Altro fattore fondamentale è l’alternarsi di fasi di progressivo addensamento, nelle quali le pause vengono gradualmente sostituite da suoni (come in apertura), a fasi di progressiva rarefazione, in cui, al contrario, sono i silenzi a zittire via via i suoni. Agli esecutori è affidato inoltre il compito di far emergere dalla trama formicolante, dei profili caratteristici, dei patterns risultanti che per un certo periodo di tempo possano imporsi all’ascolto, per essere poi via via modificati attraverso procedimenti principali di trasformazione quali l’introduzione di un nuovo pattern in sovrapposizione ad altri, la graduale modifica di un contorno melodico mediante la sostituzione di una nota con una nota diversa, oppure la sostituzione di una nota con una pausa, o viceversa. A ciò si aggiunge quell’originale artificio compositivo denominato da Reich phase-shifting o più semplicemente phasing. In italiano lo si può tradurre come ‘slittamento di fase’ o ‘sfasatura’, ma spesso, con un tecnicismo greve quanto linguisticamente improbabile, viene reso con il termine ‘defasaggio’. Il phasing non è altro che un controllatissimo ‘andare fuori tempo’ in modo da sfasare con precisione millimetrica l’esecuzione di due parti, le quali, ad esempio, dall’unisono si ritrovano per così dire in controfase, dando quindi origine a un nuovo pattern melodico-ritmico. Il primo episodio di phasing ha luogo a battuta 9. Allorché la figura definitasi a battuta 8 (vedi sopra) è divenuta familiare all’ascoltatore attraverso una ripetizione protratta, uno dei due esecutori accelera leggermente il proprio metro, cioè va letteralmente fuori tempo, facendo in modo, nell’arco di 20-30 secondi di spostarsi in avanti di 1/4 esatto. Al termine di questo calibratissimo ‘caos’ temporaneo, a batt. 10, viene ripristinato il sincronismo della pulsazione, ma come si può vedere, il pattern che adesso ne risulta si presenta come un hoquetus di effetto sensibilmente diverso rispetto alla figura di batt. 8. Nel corso del suo svolgimento, Drumming tocca momenti di complessità polifonica e poliritmica ben maggiori rispetto a queste esemplificazioni, specie nei momenti che impegnano tutti e nove i percussionisti previsti. Ma i congegni base che presiedono alle progressive metamorfosi dell’organismo sonoro sono fondamentalmente questi. Il grande interrogativo, ma anche l’aspetto forse più spiazzante di una composizione così organizzata è la sua capacità di coinvolgere o meno l’ascoltatore nell’arco di una lunga durata. La trasparenza, questa glasnost musicale elevata a principio fondamen-tale, secondo alcuni banalizza, distrugge o riduce al minimo (appunto) quel margine, quell’aura di mistero o di ambiguità polisemica connaturata alla dimensione estetica. Ma la questione è assai più complessa. A parte certi preconcetti di ordine estetico-teorico che spesso inquinano i discorsi inerenti questo tipo di musica, in realtà il flusso di informazioni generato da questa sorta di perpetuum mobile deve molto, anzi moltissimo all’intelligenza e alla sensibilità del compositore nel dosare sapientemente la quantità e la qualità dei mutamenti. L’arte del catturare o il rischio dell’annoiare sono separati da un confine molto labile, ma è proprio lì che si gioca tutto. Naturalmente – e anche se lo collochiamo in chiusura non è affatto un argomento secondario – per Reich, come per altri suoi compagni di viaggio, fondamentali nella concezione di brani come questo sono lo studio e l’assimilazione di strutture poliritmiche e polifoniche parzialmente analoghe, tipiche delle musiche tradizionali, in particolare africane e asiatiche: dalle polifonie dei pigmei, al gamelan indonesiano, alle danze delle comunità Ewe del Ghana dove Reich aveva sog-giornato nel 1970, poco prima di mettersi al lavoro su Drumming. Le formule poliritmiche, le strutture a hoquetus, la tecnica delle varianti formulaiche che caratterizzano le danze ewe sono tratti rintracciabili in Drumming come in molte altre composizioni di Reich. Per contro, sarebbe vano cercare in quelle danze qualcosa di simile alla tecnica del phasing. Al di sopra delle affinità, infatti, fra la musica da concerto di un compositore occidentale innamorato delle musiche tradizionali e la loro originaria fonte di ispirazione resta una profonda distanza, non solo geografica o antropologica, ma tecnologica: la distanza che corre fra la cultura dell’oralità e la forma mentis del segno scritto. Là la musica nasce dal corpo, che da generazioni e generazioni plasma e guida la ragnatela dei ritmi, anche i più complessi. Qui la musica nasce invece a tavolino, come progetto, rielaborazione o ricreazione analitica di codici e stilemi estrapolati dal loro contesto d’origine. È una tecnologia legittima, affascinante, rivolta al progresso (e non certo alle nostalgie); ma i cui risultati sono inevitabilmente altro rispetto ai modelli ispiratori. Certo, nella soggiogante iterazione di Drumming, come in molta musica di questo genere, affiorano spesso echi, reminiscenze di una natura sonora remota, forse edenica. E come sempre la risposta a questa musica da parte di chi ascolta si posiziona nello spazio che va dall’abbandono estatico alla consapevolezza straniante. Ci soccorre qui una frase indimenticata di Curt Sachs: «ad ogni progresso corrisponde una perdita». ANTONIO CAGGIANO Formatosi come percussionista al Conservatorio dell’Aquila e come compositore al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, nel 1987 dà vita con Gianluca Ruggeri all’Ensemble Ars Ludi con cui partecipa a importanti festival e rassegne nazionali e internazionali, intrecciando rapporti di collaborazione con alcuni fra i maggiori compositori contemporanei. Attivo per molti anni nelle maggiori istituzioni lirico-sinfoniche italiane, dal 1998 al 2003 è stato timpanista dell’O.C.I. diretta da Salvatore Accardo. Nella sua esperienza di professore d’orchestra ha collaborato con importanti direttori quali Bernstein, Sinopoli, Chailly, Maazel, Gatti, Morricone, Sawallisch, Chung, Mehta, Frühbeck De Burgos, etc. Lavora in qualità di solista con diversi gruppi da camera ed è docente di strumenti a percussione presso il Conservatorio di Frosinone. Si interessa da sempre alla commistione di linguaggi artistici diversi. Scrive musiche per il teatro, la danza e collabora con artisti visivi. Ha tenuto corsi di interpretazione sulla letteratura per strumenti a percussione al Cantiere Internazionale d’arte di Montepulciano, seminari alla Sibelius Academy di Helsinki e stages in varie parti del mondo. SILVIA LEE Il soprano Silvia Lee si è laureata all’Università Nazionale di Seoul e ha proseguito gli studi presso il Conservatorio di Musica Refice di Frosinone con Danilo Serraiocco. Attualmente si sta perfezionando con il mezzosoprano Bruna Baglioni. Debutta giovanissima il ruolo di Bastienne (Bastien und Bastienne, Mozart) a Seoul, dove ha anche interpretato Gilda in Rigoletto di Verdi, Barbarina in Le Nozze di Figaro di Mozart e Despina in Così fan tutte di Mozart, ruolo con cui ha debuttato in Italia. CHIARA TAVOLIERI Inizia gli studi musicali presso il Saint Louis College of Music con Nicky Nicolai, Maria Grazia Fontana, Marco Siniscalco, Emilio Merone, Antonio Solimene, Gianfranco Gullotto, Pierpaolo Principato. In seguito affina la tecnica vocale con Raffaella Misiti, Antonio Juvarra, Tommaso Monaco. Lavora come corista in diversi show televisivi e radiofonici quali: Domenica In, I raccomandati, Il Tappeto Volante, Il ruggito del coniglio. In seguito si dedica al solismo e all’insegnamento, attività già avviata dal 2004. Collabora con gli Ypsos, Primiano De Biase, Susanna Stivali, Manuela Pasqui, DejaVoice e con l’orchestra di percussioni di Antonio Caggiano con il quale mette in scena Drumming di Steve Reich. Incide in studio per Damiano La Rocca (Le Mezze Stagioni 2011), Lello Arena (La festa delle donne, 2005), Roberto Giglio (La Quinta Stagione, 2006), Stefano Scatozza (2013), Elvio Monti (Inno di Mameli, 2006). PIERLUIGI TABACHIN Pierluigi Tabachin si è diplomato al conservatorio di Padova con Marianne Fischer, arricchendo inoltre la sua formazione con, tra gli altri, Raymond Guiot e André Jaunet. Come solista e in diverse formazioni cameristiche ha tenuto concerti per importanti festival e istituzioni di Europa e Stati Uniti. Appassionato di musica antica, da diversi anni si dedica all’esecuzione del repertorio barocco e classico con strumenti originali, collaborando tra gli altri con orchestre quali La Stagione Armonica di Sergio Balestracci e Il Complesso Barocco di Alan Curtis. Compare in diversi cd che vanno dal repertorio con strumenti antichi alle composizioni di autori contemporanei. È titolare della cattedra di flauto al Conservatorio Refice di Frosinone.