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Get up for your rights. In Cina nell’antichità era considerata una pianta medica, una leggenda vedica racconta
che il dio Schiva assaggiandone le foglie la elesse sua pietanza preferita, nelle “Storie” di Erodoto si legge che gli
Sciiti usavano fumarla urlando di gioia, anche Marco Polo nel suo “Milione” ne parlava, Boccaccio nel “Decamerone”
la descrive come “una polvere di maravigliosa vertù”. Alcuni studiosi riconoscono che parte del genio creativo di
Shakespeare sia da attribuire al suo utilizzo. Nel 1840 lo psichiatra Moreau De Tours scrisse un libro in cui ne erano
descritti gli effetti e la sua utilità per la comprensione della pazzia. A Parigi c’era un club frequentato da gente come
Gerard de Nerval, Charles Baudelaire, Honorè de Balzac a lei dedicato. Proprio Baudelaire le ha scritto un intero
poema. Anche Dumas ne parla nel “Conte di Montecristo”, pure Edgar Allan Poe e potremmo continuare fino ai
nostri giorni perdendoci nella beat generation e in tanto altro scritto prima e dopo. Anche il cinema ne è pieno
zeppo. Prima demonizzata, poi gli anni 60, il mitico “Easy Rider” in cui è protagonista assoluta in una scena con Jack
Nicholson, e poi “Taking off”di Milos Forman, oppure, per arrivare al nazional popolare anni 80, il grande Albertone
in “Una botta di vita”. E la sua consacrazione nei 90 con film come “Saving Grace”, “Aprile” di Nanni Moretti, una
serie di comparse in quelli di Salvatores, nel “Grande Lebovski” dei fratelli Cohen, in “Eyes wide shut” del grande
Kubrick, e in tante altre pellicole che ometto per spazio e ignoranza. Se cominciassimo a parlare dei suoi amici nel
mondo della musica e del rock in particolare farei un censimento, solo gli ultimi 40 anni riempirebbero, tra famosi e
meno, un elenco telefonico. Ora, il fatto che in questa zine si parla e si scrive di libri, film e musica non è del tutto
casuale.
Che fa parte della nostra cultura è evidente, che insieme a lei sono state create alcune delle cose più belle fatte
dall’uomo, innegabile, che proibirla è negarci il diritto di scegliere per noi, una tesi interessante, che la politica ne è
piena, lo leggiamo sui giornali, che lo stato bada ai suoi monopoli e non alla salute, evidente, che dipendenza e
tossicità sono parole grosse, palese. Credo che ci sono cose che il tempo e le leggi non potranno cambiare, credo
che esistono dei riti che vanno conservati e protetti, credo che l’ebbrezza è una delle poche cose che ci fanno
sopportare il mondo.
Osvaldo
Belli e brutti da
calendario,
calendari belli e
brutti in questo
dicembre
prenatalizio ci
attirano ammiccanti
dalle vetrine di tutte
le edicole. Il giornale
per sportivi che
spoglia la
pallavolista, il
mensile per amanti
del free crimbling
che spoglia scalatori
e scalatrici mentre si
arrampicano su
cime ardite. E poi i
volti noti del gentil
sesso: la ballerina
nostrana Rossella
Brescia che per non
far crollare i suoi
enormi seni viene
fotografata in pose
arzigogolate che
sfidano la forza di
gravità, le bellissime
cow girls di GQ, e poi
Adriana Volpe, la
Silversted, Randy
Ingerman.
E poi il celebratissimo Pirelli, che quest’anno sceglie una veste psichedelica e situazioni ambigue, e Fox che da
settembre a dicembre ha pubblicato un calendario diverso ogni mese con modelle emergenti. Ma anche gli uomini
non si limitano a guardare e si fanno guardare: e quindi vai con il mister Mondo Walter Nudo reduce dal naufragio
sull’isola deserta popolata da ex famosi, e poi il bel Luca del Grande fratello e persino lui: il nostro “Omino del
cervello” preferito.
Ma fra tutta questa messe di calendari uno mi piace particolarmente: quello dove il nostro giovane e aitante
direttore posa seminudo e seducente mentre gioca ad un ambiguo back gammon con Nabil dei RadioDervish. È
il calendario della Lila, Lega italiana per la lotta contro l’Aids, sezione di Lecce. È un’iniziativa che credo che vada
incoraggiata per l’importanza del tema, sul quale non si scherza, e per la bravura dei ragazzi della Lila di Lecce.
E a questo proposito mi viene in mente che questo dicembre prenatalizio è affollato anche di varie raccolte di fondi
per le cause più diverse. Alcune di queste, inutile dirlo, encomiabili e valide, come la stella di Natale per la lotta
contro il cancro, sul quale non si scherza, le varie iniziative dell’Unicef in favore dei bambini del mondo, come la
Pigotta, regalo sempre bello, e, sono sicuro, sempre bene accetto da chi lo riceve. Ma attenzione, a volte dietro
ad un’apparenza di beneficenza e scopi nobili, si nasconde qualcosa di poco chiaro e poco pulito. Non voglio dire
altro, diffidate soltanto dal troppo parlare di beneficenza su televisioni, radio e giornali. Sono cose che si fanno in
silenzio e non nel casino di una festa di discoteca in una delle piazze principali della città di sabato sera.
dario
A me il Natale non mi piace, o no!
Viaggio nella memoria di un bambino felice
Sin da bambino ho avuto una (tra le varie) malattia seria da voler
debellare a tutti i costi. Essa, con tutto ciò che ne consegue da questo
momento del mio scritto in poi, si chiama Natale.
Il Natale a casa mia arriva il 20 o 22 novembre quando mia madre
ad un certo punto di un normale pranzo domenicale inizia a chiedersi,
ad un mese dalla scadenza, quale possa essere un dignitoso pranzo
di Natale. Si perché, come avviene in molte case del sud e sopratutto
nelle famiglie numerose, il 25 dicembre si trasforma nella festa “più
in” dell’anno con parenti, zii, cugini, nipoti, fratellastri, ragazze e
ragazzi, fidanzatini, futuri sposi. Il giorno di Natale viene però anticipato
da una serie di improrogabili adempimenti che neanche un
matrimonio richiede. Ma la cosa distruttiva è che: il matrimonio
avviene una volta nella vita (se non altro quello in chiesa, Sacra
Rota escludendo) il Natale si ripete con inspiegabile puntualità ogni
dicembre.
Il vero Natale inizia l’8 o il 13 quando si monta il presepe e
l’alberello. Che poi alberello non è mai considerato che in ogni
famiglia ad un certo punto si abbandona il tristissimo esemplare
in plastica per acquistare o rubare (da qualche campagna
oscura dell’hinterland) un pino reale dell’altezza di tre metri, con
la cima che pressa sul soffitto, e la chioma da competizione. Le
palle si appendono insieme a milioni di luci (che poi papà
bestemmia per la bolletta del mese successivo) e stelle filanti
che sembrano pappardelle paglia e fieno. Insomma... una
tragedia biblica: il trasporto dell’albero, delle palle, dei pupazzi
(considerato che San Giuseppe viene annualmente decapitato).
E poi c’è il bambinello che viene nascosto ogni anno per non
perderlo e si perde sempre e in qualche cassetto c’è una colonia
di lattanti con l’aureola. Ma la vera tragedia del Natale io la vivo
ogni anno a tavola. Nelle famiglie dedite alle tradizioni le feste
partono il 24 alle 20.00 e si chiudono il 6 gennaio alle 18.30. Pranzi,
cene, spuntini, cocktail, panettoni, pandori, torroni, purceddruzzi,
ncarteddhate, pasta di mandorla. Il 24 si mangia pesce (perché
è sera e bisogna mantenersi leggeri) e leccornie varie, il 25 pasta
al forno o tortellini al ragù, mille rotoli di carne, patate, rape
‘nfucate, dolci in quantità industriale. Il 26 tortellini in brodo (un
classico) e poi – se va male – gli avanzi del giorno prima. Se
invece si è cambiata casa e sponda familiare si ripete tutto
daccapo con salsicce, lacerti, olive nere, bianche, saporite,
pittule. Una pausa di riflessione sarebbe anche possibile ma è
improponibile. Si cerca di correre per recuperare la linea ma
stinchi di maiale e cotechini ti perseguitano. È il pensiero del
cenone di capodanno. Che poi il 31 si dice che si debba passare
in compagnia. Ma perché privarsi del luculliano cenone casalingo
per spendere centinaia di euro in posti tristi dove sconosciuti si
danno gli auguri augurando la morte prematura di quello che
bacia la ragazza da lui appena conosciuta ma tuo sogno erotico
interrotto da una vita? Si riprende con il pesce (è pur sempre
sera) salmone, aragoste (se va bene), gamberoni (se va così e
così), gamberetti se va male. Ma il dramma dell’ultimo dell’anno
è il tradizionale cotechino accompagnato dalle lenticchie (tante
monete quanti chicchi) e l’indimenticabile purè di patate. A
mezzanotte si brinda, si assiste allo sparo dei fuochi che dalle mie
parti equivale al D-Day con bombardamenti in piena regola.
Dopo i bagordi notturni a base di alcool e carte la sveglia del
primo gennaio è traumatica. Alle 13 ci si sveglia e si pranza. Con
il sugo nel quale si intinge il biscotto (per non perdere le sani
abitudini mattutine) e il vino che fa da surrogato (molto più
gustoso) al latte. Insomma la tragedia perenne e imperitura delle
feste natalizie va in scena con personaggi sempre uguali. Nei
pomeriggi freddi e carichi di noia tra pranzoni e cenoni ad
esempio c’è la solita partita al mercante in fiera, a pupetta, a
mazzetto, a sette e mezzo (con la barella coperta se me piace
me la tegnu) e poi ricordo che da piccolo i miei zii giocavano
sempre a stoppa o a tressette. E a ripensarci ricordo sempre più
cose del mio Natale da piccolo che è tutto diverso da quello di
adesso. Perché c’erano i nonni, i cugini (ancora piccoli) e gli zii
(ancora giovani) e tutto sembrava più bello e tutti sembravamo
felici. E mi ricordo che c’era il tavolo dei piccoli e il tavolo dei
grandi e ogni anno qualcuno aveva la fortuna e la bravura di
passare dall’altra parte e di migrare verso il mondo degli adulti
e io (che ero il più piccolo della famiglia) a quel tavolo non ci
sono mai arrivato se non per essere abbracciato e sbaciucchiato
dalla mamma o dalle zie. E a ripensarci come dimenticare la
tortura della preghierina prima della nascita del bambinello e
poi la processione con il bacio e la consegna dell’infante alla
cupa capanna. E poi i regali che non erano mai quelli sperati.
Una volta i miei mi regalarono Ken (il marito di barbie) e non Big
Jim e le mie certezze sessuali vacillarono. E mi ricordo che a
mezzanotte si scartavano i pacchetti che le cugine più grandi
avevano fatto per tutti. E ancora il rito dei piatti con la macchina
da guerra formata dai più piccoli che asciugavano e i grandi
che lavavano (che una volta in quel lavandino con l’acqua
calda uccisi il capitone ancora vivo). Il Natale forse un tempo
aveva un sapore diverso, più romantico, con i regali di pezza
oppure con i Commodore 64 e gli Atari ma senza plaistesciò. E
a ripensarci ho una grande malinconia per quello che non è più,
sperando che prima o poi sarà di nuovo. Magari con me zio che
vizia i nipotini aizzandoli contro il padre. Che poi il Natale se
mangi e bevi è sempre meglio che star da soli.
Pierpaolo
venerdì 26 dicembre
Dati
sabato 27 dicembre
Istanbul Cafè - Squinzano
IL Dj tarantino che incide per la barese Minus
Habens al secolo Alberto Dati per una serata in
cui i ritmi down beat si alternano all’acid jazz.
Serata all’insegna dell’elettronica raffinata, dj set
e campionatori in cui il producer presenterà il suo
nuovo disco “Tous les soires”. Balla insieme ai
nuovi battiti del sud, un sud che suona e si fa
sentire anche fuori. Atmosfere a metà tra il funk
ed il jazz, intermezzi hip-hop, soul, lounge e dub
sono le strade percorse da Dati, strade che
confluiscono in un unico fiume sonoro in cui è
bello immergersi.
martedì 30 dicembre
Vento di Fronda
Istanbul Cafè - Squinzano
Il grande ritorno di una band che con la
sua musica e la sua ironia fa ballare e
divertire. Sono i grandissimi Vento di Fronda,
la band salentina che ha saputo unire alle
sonorità tipiche dello ska e del rock steady
una vera e propria nuova filosofia del
demenziale. Una miscela esplosiva di
surrealismo e carica live, un’esperienza
musicale ma anche uno strano percorso nei
meandri della pazzia. Se vuoi scoprire come
“ipnotizzare un pollo”, non mancare a questo
grande concerto, se vuoi ballare ridendo a
crepapelle vieni anche tu al concerto dei
Vento di Fronda.
Ska in Town
Istanbul Cafè - Squinzano
domenica 28 dicembre
Lotus
Istanbul Cafè
Lotus è il nome dietro il quale si cela l’ultimo
progetto musicale di Amerigo Verardi, figura
storica dell’underground italiano degli ultimi
quindici anni. I suoi esordi discografici sono legati
ad una band di culto, gli Allison Run. A questo
primo progetto segue un’esperienza da solista
poi i Lula con cui incide due splendidi dischi: “Da
dentro”, “Lula” dopo tante collaborazioni con
gruppi come Sonica, Baustelle, Valentina Gravili
, Virginiana Miller. Di lui e della sua musica, hanno
detto tantissimo, hanno paragonato il suo lavoro
a quello di artisti come Barret, Beatles, Velvet
Underground, Television, Robyn Hitchcock, Julian
Cope, Battisti, Tenco. “Nessuno è innocente” il
suo ultimo album vanta collaborazioni di tutto
rispetto, oltre ai Lotus Claudio Chiari e Silvio Trisciuzzi
ci sono vari zampini interessanti (Manuel Agnelli,
Giovanni Ferrario, Federico Fiumani, Sandro
Palazzo dei Lova e Francesco Bianconi dei
Baustelle). Il live dei Lotus è un misto di pop,
psichedelia, rock and roll e folk. Un concerto da
non perdere.
Ska in Town è la festa ska più seguita, Ska in
Town raccoglie ogni volta un putiferio di gente
pronta a ballare fino allo sfinimento, Ska in
town fa cadere i freni inibitori e fa bene al
corpo e allo spirito.
Un grandissimo momento di aggregazione per
gli amanti della birra e delle serate danzanti,
un classico del divertimento che piace a grandi
e piccini. L’appuntamento che aspetti per
sentirti te stesso, per riconquistare la tua
dimensione naturale e ballare fino a che ti
reggono le gambe. In consolle Sonic the Tonic,
Ska Pepe e Forty Skin.
martedì 30 dicembre
Sud sound sistem
Candle - Lecce
Un evento insieme a una delle band simbolo del
Salento, un gruppo che ha fatto la storia del
reggae e del ragamuffin in Italia, la formazione
salentina che più di tutte rappresenta la terra, le
radici. Una grande dance hall insieme ai Sud
Sound System. Dal 91 sulla scena, da sempre
impegnati in un progetto che arriva oggi al suo
nuovo capitolo. Si chiama “Lontano” il loro nuovo
disco, un album maturo che si avvale di importanti
collaborazioni e che ha permesso ai salentini di
vincere la prestigiosa Targa Tenco 2003 come
miglior album in dialetto. Questa è la dimostrazione
che la musica dei Sud Sound System non è solo
sinonimo di divertimento, di festa, ma anche di
profondo impegno sociale, di denuncia verso
tutte le ingiustizie e i sopprusi che molta gente è
costretta a sopportare. Balla con i Sud Sound
sistem nell’ultima grande dance hall del 2003.
venerdì 2 gennaio
Kiss of death
Istanbul Cafè Squinzano
sabato 3 gennaio
Montecarlo Night
lunedì 5 gennaio
Istanbul Cafè
Tobia Lamare, il Dj più gettonato delle nuove e delle
vecchie generazioni. Tobia Lamare, il Dj che ha fatto
del Soul la colonna sonora della sua vita e del funky
quella di suo fratello sarà all’Istanbul Cafè per un altro
grande appuntamento con Montecarlo night.
Accompagnato da Franco il barman acrobatico,
Tobia Lamare sarà il regista sonoro del film musicale
più bello della vostra vita. Un uomo che ha scavato
nella storia della musica per riportare alla luce quello
che la house voleva seppellire. E quest’anno
Montecarlo Night si evolve: notte a ritmo di Funk Punk,
Rock’n’ roll, Wave, electro, indie.
8-9-10 gennaio
Insintesi
Istanbul Cafè - Squinzano
Insintesi è la scena elettronica salentina. Oltre a
una delle band più sperimentali della scena
Insintesi porta avanti, da tempo ormai, un progetto
parallelo di Dj set. Insintesi è un progetto di
musica elettronica nato nel '98, partendo dal
"drum'n'bass", dal"dub" ed il "trip-hop" ha
rielaborato questi generi dando una propria
chiave di lettura. Le nuove produzioni si muovono
sulle ritmiche del dub elettronico con innesti di
voci e suoni di chitarre dilatati, creando sonorità
sospese ed ipnotiche ed utilizzando testi sia in
italiano che in inglese. INSINTESI si è avvalso di
varie collaborazioni, sia nelle registrazioni che nei
live con circa 100 date all’attivo tra live e dj set.
Emergenza Istanbul Cafè - Squinzano
EMERGENZA è il più grande contest musicale
europeo. Un festival al quale possono partecipare
gruppi di ogni genere e tendenza. Il festival
permette alle bands che non hanno ancora
trovato un canale promozionale di conquistare
uno spazio nel panorama europeo attraverso le
produzioni discografiche e la realizzazione di
concerti dal vivo sui più importanti palchi
internazionali. In 12 PAESI EUROPEI, negli U.S.A ed
in CANADA oltre 4000 BANDS avranno la
possibilità di salire sui palchi dei clubs più famosi
per esibirsi dal vivo. I migliori 24 GRUPPI
parteciperanno alla FINALE EUROPEA DI
ROTHENBURG in Germania. Tre giorni di selezioni
all’Istanbul Cafè per il Salento.
Elettrowave challenge 2004
ogni mercoledì
Cafè Letterario - Lecce
Sound è Vision for the club è l’appuntamento fisso
con la musica dei Dj di Coolclub. Ogni settimana
un dj diverso, ogni settimana una colonna sonora
diversa. E poi il Caffè Letterario ospita ogni mese
concerti acustici, piccole rappresentazioni teatrali
e ogni 15 giorni una nuova mostra.
Scopri le attività che il Caffè organizza per i suoi
soci, scopri il posto a Lecce dove arte, musica e
cultura convivono.
Sono aperte sino al 31 gennaio le iscrizioni per Elettrowave Challenge – Arezzo Wave 2004,
aperto a dj producers e vj Il prestigioso concorso, giunto alla V edizione, si conferma come
grande opportunità di visibilità per i nuovi talenti della scena elettronica nazionale e porterà
alla scoperta di 2 nuovi progetti legati alla musica ed ai video in area elettronica. Tra tutti i
partecipanti verranno selezionati 6 progetti tra i dj ed almeno 4 progetti tra i VJ. Per scaricare
il bando di concorso: www.arezzowawe.com. Info: [email protected]
Serata metal con i Kiss of Death
band leccese sulla scena dal
1994. Le sonorità decisamente
dure e taglienti che essi
propongono incarnano
tipicamente un sound "Thrash",
con influenze che vanno dal
"Death metal" al "Cross over" all
"Hard Core". Numerosi sono i
concerti che il gruppo ha
realizzato in tutta la penisola,
partecipando anche a rassegne
metal di importanza nazionale
come varie edizioni del “PLUVIA
METALLI DAY" Festival, la quinta
edizione dell "AGGLUTINATION
METAL FESTIVAL", la prima
edizione del “THE SOUTHERN
FESTIV-HELL” Festival e la seconda
edizione del “SALENTO SUMMER
FESTIVAL”, suonando anche
come band di supporto a gruppi
di fama internazionale come
SEPULTURA, SAXON, SHELTER,
RAW POWER, LINEA77, EXTREMA,
UNDERTAKERS, NODE, DEATH SS,
NECRODEATH, WHITE SKULL,
SADIST, OPERA XI, STROMLORD,
NATRON.
Arezzo Wave 2004
Iscrizioni al concorso
Per partecipare basta 1 CD contenente 2 e solo
2 brani o canzoni originali (che siano i più
rappresentativi) di durata non superiore ai 4 minuti
(sono escluse cover) con il nome della band, il
titolo dei brani, la durata e il contatto di un
componente del gruppo ben leggibile sul CD; i
testi delle canzoni allegando le traduzioni in
italiano nel caso si tratti di lingua straniera o
dialetto; 1 Biografia di una pagina al massimo; 1
scheda tecnica accompagnata da Stage plan;
rassegna stampa (se esiste); 1 foto del gruppo (in
cui si distinguano bene gli artisti); i dati anagrafici
(nome, cognome, indirizzo, data e luogo di
nascita), i recapiti telefonici di ogni artista o
componente del gruppo e l'indirizzo e-mail della
band. Tutte le band interessate possono spedire
il loro materiale a Coolclub: Via de Jacobis, 42
cap 73100 (Lecce).
a cura di
Giancarlo
Susanna
La stella che brilla il doppio dura la
metà
Faccio lo strano lavoro di “critico musicale” da
quasi trent’anni. Ho amato e amo tanti musicisti.
Alcuni li ho anche incontrati, sia pure per una
breve intervista. Altri ancora sono diventati degli
amici molto cari. Ma il posto che i Beatles
occupano nella mia vita è qualcosa di unico e
speciale. Non ha a che fare con la nostalgia
degli anni '60, è bene chiarirlo subito. Qualcuno
ha detto o scritto che chi rimpiange quegli anni
non li ha vissuti e sono d'accordo. No. I Beatles
non sono “nostalgia”. Sono esattamente il
contrario. Perché oltre alla musica - che dire di
più della loro musica? che dire che non sembri
e non sia banale? - mi hanno (e ci hanno)
regalato una forma mentale, un’attitudine, che
mi (ci) spinge ad andare sempre avanti, a
esplorare, a immaginare, a sognare e se uno è
capace (tanti lo sono), a creare, a comunicare.
Così non c’è quasi bisogno che io ascolti ancora
delle canzoni che so a memoria nota per nota,
che sfogli quei cento dei mille libri che hanno
scritto su di loro e che sono riuscito a comprare
o che riveda “Tutti per uno”, “Help!” e i loro
filmati. I Beatles sono dentro la mia testa. Dentro
il mio cuore. Sono il motore inesauribile che mi
permette di alzarmi al mattino senza essere mai
stanco della musica e del mio strano lavoro.
The solo recordings
Fare i conti con una storia come quella vissuta dai
Beatles metterebbe in crisi chiunque. Una volta
sciolta la gloriosa “ditta”, John, Paul, George e
Ringo si dedicarono con energia ai progetti cui
da tempo pensavano e appena qualche mese
dopo la notizia ufficiale dello scioglimento nei
negozi di dischi di tutto il mondo arrivavano degli
album veramente straordinari, quasi sempre
all’altezza della loro leggenda. La discografia postBeatles è parecchio complicata e ci limitiamo a
segnalare quelli che secondo noi non possono
proprio mancare sugli scaffali di un aspirante
“beatle fan”.
Jonh Lennon
Anche a distanza di più di vent'anni dalla sua scomparsa e con buona pace di chi
non è d’accordo, John Lennon resta il “capo” dei Beatles. Di album di John ne
indichiamo due: “Plastic Ono Band” (dicembre 1970) e “Imagine” (ottobre 1971)
realizzati con il prezioso contributo di Phil Spector, il geniale inventore del “wall of sound”.
Nel primo, inciso da una band essenziale formata dallo stesso John (chitarra, piano),
Ringo Starr (batteria), Klaus Voorman (basso), Billy Preston (piano in "God") e Phil Spector
(piano in "Love"), Lennon si liberava di tutti i suoi fantasmi e di tutto il suo dolore grazie
a canzoni taglienti come “Mother”, “Working Class Hero” o “God”. Nel secondo la sua
impietosa sincerità si stemperava appena in una musica più curata e arrangiata.
Canzoni come “Imagine” o “Jealous Guy” sono ormai parte integrante della storia
della popular music. Sia “Plastic Ono Band” sia “Imagine” sono stati da poco riproposti
in un’edizione su cd rimasterizzata.
Paul McCartney
Sono più di trenta i dischi
pubblicati da Paul come
solista e il loro livello è
generalmente molto alto,
legato a una musicalità fin
troppo facile e “naturale”. Tra
tutti scegliamo “Band On The
Run” (novembre 1973), il suo
primo capolavoro dopo la
fine dei Beatles. Per
l’occasione gli Wings, il gruppo
formato da Paul un paio
d'anni prima era ridotto a un
trio: Paul (voce, chitarra,
basso, batteria, sintetizzatori),
Linda McCartney (tastiere,
percussioni) e Denny Laine
(chitarra). Le session di
registrazione si tennero a
Lagos, in Nigeria, negli studi di
Ginger Baker e furono
completate a Londra con gli
arrangiamenti orchestrali di
Tony Visconti. Tra le canzoni
ricordiamo almeno "Band On
The Run", “Bluebird” e “Let Me
Roll It”. Chi ha qualche
obiezione sul modo di Paul di
usare il basso farebbe bene
ad ascoltare questo disco,
magari nella versione
pubblicata nel '99 per
celebrarne il 25° anniversario.
George Harrison
Per George non possiamo che
riascoltare per la milionesima volta
“All Things Must Pass” (novembre
1970), che non è soltanto il suo
album più completo e riuscito, ma
anche uno dei momenti più alti
della popular music degli ultimi
quarant'anni. Trainato da quel
singolo incredibile che è “My Sweet
Lord” (un altro centro di Phil Spector
come co-produttore), il triplo vinile
“All Things Must Pass” dimostrò che
il talento compositivo di George,
che aveva chiamato accanto a
sé amici come Ringo Starr, Eric
Clapton, Gary Brooker, Dave
Mason e Klaus Voorman, era stato
sempre compresso da quello di
John e Paul. Un capolavoro
assoluto, che George ha fatto in
tempo a riconsegnarci in edizione
“restaurata” nel 2001.
Ringo Starr
Noi l’abbiamo sempre amato
e gli vogliamo ancora un gran
bene, non ce ne vogliano i
suoi detrattori. Ringo era non
solo un eccellente batterista,
ma anche il “collante” dei
Beatles, l’unico che è sempre
rimasto amico degli altri. Di
dischi ne ha fatti anche lui
parecchi - ups & downs, a
seconda dello stato d'animo
e delle circostanze - ma uno
che dovreste proprio ascoltare
è “Ringo” (novembre 1973).
Con un piccolo aiuto dei suoi
amici - John gli scrive su misura
“I’m The Greatest”, George
compone con lui “Photograph”
e Paul gli regala “Six O'Clock” Ringo realizza il suo album
migliore, uno di quei dischi che
metti su al mattino e ti fanno
sembrare tutto più bello. Nella
riedizione della Apple del 1991
c'è anche “It Don't Come Easy”,
il suo singolo più fortunato.
Alberto Dati
Tous les soires
Minus habens records/Disturbance (2003)
Alberto Dati è un producer tarantino di origine albanese,
o meglio di quelle comunità albanesi trapiantate da
secoli in Calabria e che, grazie ai vari passaggi, ha in
sé, verrebbe da pensare, una “anima migrante” (cito
gli Almamegretta). “Tous les soires”, inciso per la storica
etichetta barese Minus habens, è il suo secondo album.
Un disco interessante caratterizzato da sonorità che
ricordano la scena acid jazz della prima metà degli anni
novanta; in particolare brani come “Rovena song” e
“Malinda’s prayer” sembrano ripercorrere atmosfere a
metà tra il funk ed il jazz tipiche di gruppi di quel periodo
come “Galliano” o“UFO”. Le tracce sono intermezzate
da groove di musica hip-hop curate dal dj Fonky T e il
disco nel complesso si muove su una struttura elettronica
essenziale, che solo a tratti è più corposa come nel
brano “Sax-a-dub”, sopra la quale si sovrappongono
suoni percussivi, sax e rhodes. Spesso si notano echi di
musica mediterranea, grazie anche alla collaborazione
con la cantante albanese Rovena Llaperi, soul e lounge
inseriti su ritmiche che variano dal down-beat al dub.
Un cocktail di stili provenienti da luoghi diversi, in linea
con la natura di Dati, ma con in comune la stessa
propensione verso il ritmo. Un disco facile da ascoltare,
in parte strumentale ed in parte cantato - bellissima la
voce di Malinda Smith - che non risulta banale ed
evidenzia ancora una volta lo stato di salute della musica
prodotta nel sud Italia.
Francesco A.
musica
Books
Tomlab
The lemon of pink
Inizia questa nuova collaborazione, con gli amici di CoolClub. Extranet in
realtà era alla ricerca di un contatto locale dove poter esprimere i propri
pensieri e linee guida sulla musica “indipendente”. In realtà quest’ultima
frase non suscita in me un grande senso di rispetto ma credo che sia al
momento l’unica che rappresenti al meglio la filosofia di Extranet. Uno
spazio dove la musica suscita emozioni crea momenti di riflessioni o semplici
attimi di contaminazioni.
Il nostro tempo è farcito di suoni che si miscelano con altri suoni e
confondono sempre di più i generi. Qualche anno di radio mi fa vedere
chiaramente come oggi sia difficile parlare di stili sarebbe meglio soffermarsi
sulla qualità dei prodotti immessi nel mercato.
In questo numero sono davvero tanti i dischi che sarebbe mia intenzione
menzionare, preferisco ripassarvi con ordine quello che a mio avviso c’è
di interessante sul mercato.
I Books si confermano con il secondo album da studio - il debutto “Tought
for food” rimane ancora uno dei prezzi più pregiati del catalogo Tomlab
- i più veritieri menestrelli avant-pop odierni. Mettendo insieme elementi
di folk e country ed inserendoli in contesti atipici, vedi alcune sfumature
easy listening od alcuni montaggi elettronici, un disco di indiscusso valore
musicale, capace di far convivere i fantasmi di John Fahey e Penguin
Cafè Orchestra in un continuo temporale e musicale. “The lemon of pink”
conquista per il suo assortimento tematico, rincorrendo dimensioni di volta
in volta diverse, evidenziando dunque la scrittura classica ed al contempo
'modernista' dei nostri. Uno degli album che non deve assolutamente
mancare nella vostra collezione di dischi.
Patrizio Longo (www.patriziolongo.com)
Kings of Leon
Youth & Young Manhood
Jet
Get Born
Comincio a pensare seriamente che il mio lettore cd si sia incantato e suoni solo ed
esclusivamente musica anni 70. Da bravo amante delle cose cool (ah, ah! ndr) mi lascio
sempre tentare dalle novità discografiche più pompate e alla moda. E questo mese impazzano
su giornali e palchi italiani due band che hanno subito attratto i miei occhi e le mie orecchie
vintage. Si tratta di Kings of Leon e Jet. I primi vengono dal Tennesee, sono tre fratelli e un
cugino e suonano rock and roll. Sono l’ennesimo prodotto che un certo tipo di critica ha
osannato e un altro tipo ha definito derivativo.
Ma sarà perchè sono cresciuto ascoltando i Led Zeppelin, sarà perchè i pantaloni a zampa
mi sono sempre piaciuti, a me i Kings of Leon piacciono. Siamo ben chiaro la loro musica è
ben lontana da quella di Robert Plant e soci. Qui gli anni 70 rivivono con uno stile più vicino
al folk, al garage. Sembra che i quattro siano cresciuti divorando fagioli e Credence Clear
Water, sembra poi che abbiano fatto scorpacciate di Tom Petty , roba country che non
conosco e digerito il tutto con un pizzico di Mc5 e i Clash ( parole loro). È vero, niente di nuovo
penseranno i più, ma a me le cose che sanno di sud mi piacciono, mi piacciono le cose
semplici e questo disco lo è, mi piacciono le cose dirette e questo disco lo è, mi piace il rock
and roll e questo disco ne è pieno. Con i Jet andiamo in Australia ma restiamo più o meno
nello stesso territori musicale. Prendi un disco dei Kinks aumenta la velocità ed ecco i Jet, non
è così semplice ma l’immagine rende. Un po’ power beat, un po’ hard rock i Jet sono energici,
somigliano proprio tanto ai Rolling Stones, in un pezzo addirittura ai Black Crowes e c’è anche
una ballata che sembra rubata ai primi Oasis. Insomma, in due gruppi abbiamo ricostruito
circa trent’anni di storia della musica shakerati e serviti in salsa retrò che tanto piace ai giovani.
Forse l’unica cosa che si può consigliare è di ascoltare questi dischi con la consapevolezza
e il rispetto per quello che li ha preceduti.
Osvaldo
Novel 23
Architectural effects
È dalla fredda Russia che arriva questo disco
anche se distribuito dall’etichetta francese
Bip-Hop. Dietro la sigla Novel 23 c’è Roman
Belousov, musicista elettronico moscovita,
che ha lanciato questo progetto nel 1997 e
che si ripresenta dopo due anni di lavoro con
un nuovo disco “Architectural effects”. Un
titolo davvero ad hoc per questo album che
può essere definito un lavoro di architettura
sonora d’avanguardia. Dieci tracce che
stanno in mezzo tra i suoni dell’elettronica
anni ottanta ed una curiosa sperimentazione.
Roman Belousov ha lavorato oltre che con
le ormai usuali combinazioni di computer e
tecnologie audio, con degli originali
sintetizzatori “soviet”. Difficile stabilire in un
disco come questo le tracce che colpiscono
di più, ma direi che “Portal to cittadella” (la
prima) sia abbastanza di effetto. Belousov,
accanto ad artisti compatrioti come Solar X
o Fizzarum, è uno dei pochi russi conosciuti
al di fuori dei propri confini ed ha avuto varie
richieste di collaborazioni all’estero per remix
e tracce per varie compilation di elettronica.
Augusto Maiorano
Francesco De Gregori
Mix
La musica e la poesia entrano nella nostra testa senza chiedere permesso. Le parole le consumiamo, le ripetiamo,
le rubiamo senza motivi reali o per conquistare la donna amata. Dal 1993, grosso modo, mi rifornisco della mia
unica droga (parole appunto) quasi sempre dallo stesso spacciatore. Si chiama Francesco De Gregori ed è
un cantautore (non un poeta) che molti considerano antipatico. Quando ho bisogno di stonarmi e di dissociarmi
dalla mia stessa vita metto su i vecchi album, quelli ermetici, con canzoni alle quali non daresti una lira ma che
ti incollano alla ricerca di sensi e dei sensi perduti. Di alcuni cantautori (come di alcuni scrittori) non si può dire
che sia più bello questo o che sia più bravo quello. È solo entrato nella nostra vita al momento giusto così senza
fare rumore, come una donna (che magari gli altri non vedono bella) irrompe senza avvisare lasciandoci senza
parole e con molti dubbi (senza sapere bene come comportarsi). Dalle prime cassettine registrate da vecchi
e polverosi lp sono stato vittima costante della musica di DG, delle sue parole e (purtroppo per le mie tasche
bucate) delle sue strategie di marketing. Nel 2003 esce Mix, un doppio cd (anche in Dvd), che racchiude
successi di tutta la carriera tra live e registrazioni originali in studio, con l’aggiunta di alcune nuove canzoni: “A
chi”, pezzo di Fausto Leali, in versione rockettara, la nuova cover di Bob Dylan “Come il giorno” (traduzione di
“I shall be released”) e una non riuscitissima (secondo me) “Io ti leggo nel pensiero” scritta qualche anno fa
per l’amico Ron. Devo ammettere che la prima reazione scartando il cd (26.50 euro il prezzo) è stata di
disapprovazione e forse sdegno. Una nuova antologia, una nuova raccolta a poca distanza di tempo da
“Fuoco Amico”. Dal 1990 la fregola del live e della raccolta ha colpito De Gregori e le sue etichette (quasi dieci
cd). E io come un fesso che ogni volta ci casco e compro tutto. Una droga che non posso debellare, una
mania che non riesco a sconfiggere (ma neanche a combattere) perché anche questa volta dopo aver
imprecato per l’acquisto ho ascoltato il cd a ripetizione, riscoprendo canzoni che magari avevo abbandonato,
oppure quelle che sono state le mie prime esperienze alla chitarra, o versioni live che avevo ascoltato e
apprezzato nei miei dieci concerti (circa). Insomma il solito sciocco fan. Se aggiungiamo che l’anno scorso,
nell’ultimo concerto a Lecce, sono riuscito a parlare con lui il gioco adolescenziale è fatto. È finita torno allo
stereo, alle emozioni, a due cd che ripercorrono forse meglio la mia vita di quella di De Gregori stesso. Ché
tutto sommato lui le ha scritte una sola volta mentre io le riscrivo con la mia mente ogni volta che le ascolto.
Forse sarò patetico ma è proprio così anche perché “il vero amore può nascondersi, confondersi, ma non può
perdersi mai”. Vale per una donna e vale per le parole perché “due buoni compagni di viaggio non dovrebbero
lasciarsi mai. Potranno scegliere imbarchi diversi, saranno sempre due marinai”.
Pierpaolo
Prague
You hear the song and it is long ago
Suiteside
mu
Voce particolare, triste quasi, ritmi lenti, sofferti e melodici, un lavoro in pieno stile slow core, quello che rimanda a Pedro The Lion, e ai
Codeine e ai Bedhead. Lui è Alessandro Viccaro, qui con lo pseudonimo di Prague. Il disco è “You hear the song and it is long ago”.
Secondo lavoro, a due anni dal primo uscito per la Loretta Records, per l’italianissimo Alessandro trapiantato a Londra. E Londra, le
sue vie, il suo freddo, la sua atmosfera, la sua musica, la sua intensità ci sono tutte in queste disco. Ci sono gli ascolti di tanti anni, gli
ascolti indie che hanno influenzato Alessandro e le cui sonorità sono riconoscibili in questo album. Un album che al primo ascolto può
forse apparire lineare, senza sbalzi di tono, ma che al secondo ascolto già ti prende e al terzo ti piace proprio tanto. I testi sono in
inglese, ovviamente, testi semplici, “solo considerazioni o amari riferimenti a fatti accaduti o fittizi - spiega lui - pur non essendovi nulla
di autobiografico”. Eppure nei suoi pezzi sembrano trasparire emozioni per nulla irreali.
Ad affiancare Alessandro in questo lavoro ci sono i suoi amici musicisti che la lontananza non ha portato via - la distanza che separa
le persone non sempre le divide, anzi - ed ecco che alla batteria, preciso e trascinante ritroviamo Giulio Calvino, impeccabile chitarrista
dei Candies, e poi Matteo Casari dei Lo-Fi Sucks e Giulio Corona dei KC Milian. “Ho mandato loro i demo acustici e mi sono fidato.
Una volta in studio abbiamo registrato direttamente senza neanche sentire prima cosa avevano preparato”. E il risultato comunque
non delude affatto. E credo che rispecchi a fondo la personalità di Alessandro, semplice e profonda. Aspettiamo di vederlo sul palco,
magari in Italia.
Valentina
Erykah Badu
World Wide Underground
Cut
Bare Bones
V2/Gammapop
Universal
Erykah Badu è la quintessenza della negritudine afro-americana e su questo non si discute. A vederla
la si potrebbe facilmente scambiare per la figlia di Miriam Makeba; tutta tradizione, almeno
all'apparenza (nel modo di vestire, negli enormi monili; pur essendo sobria e semplice umanamente
parlando). E ascoltando i suoi lavori si direbbe che di esperienza ne ha già tanta. Eppure “World wide
underground” (da lei stessa definito “the struggle on a good day”) è solo il suo terzo album, il secondo
in studio. In questa sua ultima fatica discografica, un EP contenente appena 8 brani (+ Intro e Outro),
sorprende il modo in cui questa giovanissima artista (“a southern girl with an old soul”, parole sue)
rielabora quell'immenso archivio musicale che è la black music nella sua accezione più raffinata.
Erykah rilegge con enorme creatività i registri che hanno fatto grande la musica del suo popolo, dal
r&b al soul, il tutto con una spruzzatina di funky, che costituisce probabilmente il punto di forza
dell’opera intera, il suo centro di energia. Dopo l’Intro (“World keeps turning on and on and on...”,
concetto ribadito nell'Outro), “Bump it” avvolge con sensualità e rilassa i muscoli come un massaggio,
concludendosi con i liberi vocalizzi della Badu che, con Zap Mama e Karon Wheeler, ci offre un
“frullato” impossibile di yodel e gorgheggi orientaleggianti che si rincorrono su percussioni afro e
scintillanti effetti elettronici. “Back in the day (Puff)” vede la collaborazione del “basso osceno” di
Lenny Kravitz (per la cronaca: è il mio pezzo preferito). “Woo” è una specie di hip hop elegante,
sempre molto sexy e fresco; non si può fare a meno di agitare il piedino a tempo... In “Steady on the
grind” la nostra duetta con Dead Prez, che si occupata della parte rap. “Danger” è una rivisitazione
più disperata e passionale di “Otherside of the game”, brano contenuto nel primo album di Erykah,
“Baduizm”. “Think twice” è il remake di un pezzo che Donald Byrd ha scritto nel '75 e ospita lo “scatting”
di Roy Hargrove. “Love of my life worldwide” è il remix di un brano già inciso in collaborazione con
Common (altro nero genietto...), vincitore di un Grammy come miglior canzone inserita in una colonna
sonora (quella di “Brown Sugar”) e premiato come video dell’anno ai BET awards. In questa versione
la Badu incide con la grande Angie Stone, Queen Latifah e Bahamadia.
Frutto di un bus-tour nei club di Stati Uniti ed Europa (Italia inclusa), “World wide underground” dimostra
come un’artista già talentuosa possa attingere enormi quantità di ispirazione e creatività dal pubblico
che accorre alle performance live nell'intimità di un locale notturno. Le collaborazioni sul suo album
rappresentano il tentativo deliberato di circondarsi di artisti controcorrente e l'altrettanto chiaro
proposito di vivere l'underground come scelta.
Emanuele
Non è esattamente il disco che ascolterei giorno e notte, ecco, ma solo perché in genere tendo verso ascolti più “pacati”. Loro, i Cut, sono tecnicamente
ineccepibili. Energici ma non cattivi. A dispetto del titolo scelto per il loro terzo lavoro, uscito nei negozi ad ottobre, “Bare Bones” (ossa scoperte ndr), e a
dispetto di una copertina a dir poco inquietante, che fa molto dark. Nel disco, al contrario, c’è il rock’ n’roll, quello vero, quello bello, e il garage blues,
oltre ad un punk fatto di chitarre elettriche ben in vista. Due chitarre e batteria, per la precisione, e le voci di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu a cui si
aggiunge la occasionale presenza vocale di Cristina - “The kid” dicono loro - Negrini: lead vox in due pezzi del cd. Una presenza scenica eccezionale Cristina viene dal teatro - presenza ormai costante nei concerti live, quasi a renderli ancora più completi, ancora più diretti, ancora più di impatto. Perché
chi ha avuto l’occasione di assistere ad un concerto dei Cut questo lo sa bene. Non si rimane impassibili. Non a caso questi ragazzi sono considerati una
delle migliori live band italiane in circolazione. Nonostante la separazione da Elena Skoko, precedente vocalist della band, il loro ultimo lavoro mostra
una forza compositiva non indifferente, più matura, degna del confronto con i migliori Gang of four di cui Ferruccio & compagni sono da sempre amanti.
Chi è dell’ambiente li stima fortemente e loro non sembrano accontentarsi dell’uscita di “Bare Bones”. Sono già impegnati in un progetto che prevede
il remix di due loro pezzi da parte di Angelo Sindaco, dj e produttore house, e saranno anche a Londra per uno spettacolo multimediale. Dunque, volano
alto i bolognesi. Da parte mia, la promessa che d’ora in poi ascolterò anche album un po’ più duri. Si fanno sempre delle belle scoperte.
Valentina
Gesù pensa che tu sia un coglione
Non è affatto facile divenire un’icona, infrangendo il limite della propria mortalità per incidere a caratteri
indelebili il proprio nome nelle pagine più alte della storia della musica; ed è ancora meno semplice senza
l’aiuto di una morte violenta o per cause misteriose in giovane età, di eccessi di vario tipo, o di un conturbante
aspetto fisico.
Eppure Frank Vincent Zappa, nato il 21 dicembre del 1940 a Baltimora, Maryland, da padre siciliano, ci è
riuscito, nonostante il suo decesso per un cancro sia accaduto ‘solo’ il 4 dicembre 1993, e nonostante
l’incredibilmente prolifica carriera musicale (gli infiniti bootleg e la continua uscita di dischi postumi rendono
difficile censire esattamente la sua sconfinata produzione) sia sempre stata, sin dal debutto del 1966 con “Freak
Out”, totalmente ai margini rispetto all’industria discografica, rispetto alle rigide demarcazioni dei generi musicali
(Zappa ha fatto tutto e il contrario di tutto: nella sua produzione si possono trovare elementi di musica classica
contemporanea – derivanti dal suo amore per Edgar Varese – di canzonette dei gruppi vocali degli anni
cinquanta, di heavy metal o di jazz, tutti quasi irriconoscibili in quanto spontaneamente contenuti nella sua
originale elaborazione sonora), rispetto ai comuni canoni di moralità (i suoi testi altamente dissacranti, con
riferimenti sessuali espliciti e chiare prese di posizione politiche gli causarono anche problemi processuali con
il Parents’ Music Resource Center) e anche rispetto alla figura tipica del ‘personaggio rock’. Difatti a Zappa
non interessava che i suoi concerti fossero il classico rito celebrativo di quanto già edito su supporto discografico,
con la pedissequa riproposizione di brani già esistenti, ma preferiva che ogni suo concerto fosse un evento
unico in cui proporre al pubblico brani composti per l’occasione e mai ascoltati prima; non gli interessava
neanche essere a tutti i costi esecutore vocale e chitarristico delle proprie composizioni, che spesso affidava
ad altri musicisti (suonare con e per conto di Frank Zappa era, data la complessità del materiale affrontato,
una vera e propria palestra e un trampolino di lancio per i musicisti da lui selezionati, tra i quali Steve Vai, Terry
Bozzio e Vinnie Colaiuta, così come in ambito jazzistico è stato per chi ha suonato con Miles Davis), a vere e
proprie orchestre o al proprio Synclavier.
Per questi motivi ed altri ancora si è creato uno strano culto intorno a Zappa, che fa sì che gran parte delle
persone che lo conoscono, lo citano o sostengono di ammirarlo non hanno in realtà mai ascoltato un suo
brano (data anche la scarsa reperibilità dei suoi dischi), a testimonianza del suo essere diventato non solo
un’icona ma anche un vero e proprio aggettivo di descrizione dell’indescrivibile e di quanto sfugge alle
etichette, e in ogni caso si può affermare che si tratti di un cognome che, nonostante abbia quattro lettere
in meno del mio, sopravviverà di certo ancora per svariate decadi.
Marcello
sica
Le altre latitudini di Testa
È uscito “Altre Latitudini”, il nuovo disco di Gianmaria Testa. Il cantautoreferroviere piemontese ha altri quattro album all’attivo Montgolfières,
Extra-Muros, Lampo, Il Valzer di un giorno. È conosciuto più in Francia
che in Italia. Nel 1997 (quando in patria era quasi un signor nessuno) è
stato uno degli ultimi artisti a esibirsi, prima della chiusura per la
ristrutturazione, al mitico Teatro Olympia di Parigi dove è tornato nel
2000. L’abbiamo intervistato per parlare delle sue canzoni ma non solo.
Il tuo successo francese è un caso?
In parte è sicuramente legato al caso, al fatto che i primi dischi li ho
registrati in Francia, quindi era normale che cominciassi prima da lì.
La cosa che io stesso non è che mi spieghi così bene è perchè venga
così tanto pubblico ai concerti, perchè la gente compri i dischi non
capendo le parole. Io mi sono detto col tempo che forse la lingua
italiana comunque aiuta e quindi penso che la gente ami questa
lingua anche se non la capisce.
Nei tuoi dischi c'è una continua contaminazione tra i generi non solo
musicali. Come la vivi?
Diciamo che si possono fare degli scambi. Nel caso di Jean Claude
Izzo lo scambio per primo l'ha fatto lui nel senso che io non lo conoscevo
e nel suo primo romanzo I marinai perduti, i protagonisti ascoltavano
parecchia musica fra cui anche la mia. Poi ha continuato anche nei
romanzi successivi. Per fortuna poi Jean Claude ho anche avuto modo
di incontrarlo, siamo diventati amici ahime, per breve tempo perchè
se ne è andato troppo presto e ho visto quanto l'uomo corrispondesse
a quello che scriveva. Con Erri De Luca il percorso è stato all'inverso.
Sono io che sono un appassionato lettore di Erri così ho avuto voglia di
conoscerlo e anche in questo caso ho visto un uomo che corrisponde
a quello che scrive. Con Pier Mario Giovannone la collaborazione è di
lunghissima data. Io ho scoperto quando già suonavamo insieme che
lui scriveva delle poesie e quindi ci siamo detti quasi come cosa militante
perchè visto che la gente non compra poesie quasi mai, portiamo noi
le poesie alla gente, leggiamo durante i concerti. Credo che i vari
linguaggi siano fatti per incontrarsi e a me va benissimo di condividere
le cose che faccio con altre forme espressive...
Come è nato, Altre Latitudini, il tuo ultimo disco?
Dopo “Il valzer di un giorno” per me non era facile fare un disco, perchè
lì ho cercato l'essenzialità massima. Il partito preso di “Altre Latitudini”
è stato quello di chiamare solo dei solisti. Enrico Rava, Rita Marcotulli,
Mario Brunello fortunatamente ti portano un qualcosa in più del semplice
suonare la melodia: la interpretano, la fanno diventare anche un po'
loro, quindi sono molto contento del risultato.
Anche le parole delle tue canzoni lasciano il segno.
Io credo che la forma canzone sia piena di dignità. Se ne ha persa parecchia
è colpa del fatto che la canzone più di altre forme musicali genera dei soldi
e quindi si tende spesso a dimenticare la dignità della canzone a vantaggio
del mercato. Nella forma canzone ci sono tre elementi fondamentali: un
testo, una melodia e una armonia. Il problema è che non ci aspettiamo
quasi più che una canzone abbia anche un bel testo, ci accontentiamo.
Io non voglio dire con questo di fare delle meraviglie, però non licenzierei
mai un testo che non mi soddisfi pienamente, che io non possa leggere a
prescindere dalla musica, per esempio.
Come vivi il rapporto con il pubblico?
In modo bivalente. Da una parte sono contento e cerco di entrare in
contatto con il pubblico perchè un concerto è una bella possibilità di
scambio. La parte negativa, per me è che mi dispiace sempre di essere
così banale come tutti e aver bisogno dell'applauso. Vorrei utilizzare una
forma di comunicazione che non preveda la mia presenza diretta, però
non so fare altro che canzoni e quindi...è un problema che mi pongo
sempre, quello dei riflettori. Il fatto di essere contento mi rende anche un
po' scontento... è una cosa un po' kafkiana, anche se però, dal vivo ti
rendi più conto di una certa piccola verità che sta dietro le canzoni.
dal nostro inviato da Bologna: Fulvio
L’elettronica del Populous
Salentino
Andrea Mangia è in realtà il nome
di questo piccolo eroe
dell’elettronica made in Salento.
Tanto da essere “rapito” da Thomas
Morr della “Morr records” che lo ha
incluso nel catalogo della sua
etichetta. Complimenti al giovane
Populous che già a 22 anni dimostra
di avere ben chiare le idee.
“Quipo”, il suo ultimo lavoro, si
muove tra beat e basi hip hop che
rappresentano un po’ il cardine
attorno a cui ruota la sua musica.
Più o meno nella stessa direzione si muove quando usa l’alias “Cable Corp”
con cui firma il suo biglietto da visita per Quantize. Kisses, infatti, pur mantendo
le consuete basi, viene avvolta da suoni ipnotici e da indovinate trombe jazz.
Populous non è più una promessa è già una realtà definita!
La prima domanda è quasi d’obbligo: come sei approdato alla Morr?
Nel modo più discreto che si possa immaginare: ho spedito un cd-r con i miei
pezzi a Thomas e lui ne è rimasto colpito. Così mi ha scritto e bla bla bla...
Insomma, da li è nato tutto.
Sei molto giovane, il tuo interesse a produrre musica e in particolare elettronica
è quindi recente?
Bah, non saprei. Ufficialmente si, è da un paio d'anni che sono nel giro (demo,
contatti ecc). Ufficiosamente, però, traffico con la musica da parecchio. È l'unica
cosa che ho perché è l'unica cosa che ho sempre avuto.
Il nome Populous si sta diffondendo sempre di più. Le riviste specializzate iniziano
a citarti spesso (su Blow Up era in prima pagina una tua recensione per il Morr
contest) come una piccola rivelazione dell’elettronica italiana (noi ne siamo più
orgogliosi in quanto salentini). Tutto questo che effetto ti fa?
Se ti dico che non fa effetto, sono un bugiardo. Fa piacere e poi ancora piacere
e poi ancora...
Ti definisci un b-boy e in effetti ci sono influenze hip hop nella tua musica. È questo
un altro genere che ti interessa particolarmente e ti piace trattare?
È da un bel po’ di anni che l'hip hop svolge il ruolo primario nelle mie produzioni
(e nei miei ascolti!). E parlo di tutto l'hip hop, da quello ultra underground fino
al mainstream r'n'b, sai... roba tipo Neptunes e Missy Elliott. Ricchi e poveri
insomma...
Usi l’alias Cable Corp per differenziare la tua produzione musicale da quella di
Populous? Quali sono le differenze?
Non molte, a dire il vero. Credo si senta che dietro ci sia la stessa persona. Però
è divertente usare più moniker. Anche per confondere la gente... ah ah ah
Kisses è stato realizzato appositamente per Quantize? Come mai la scelta di
24.000 baci?
Kisses*index è nata come sonorizzazione alla mostra di fumettisti dell'est Europa
che hanno organizzato i miei amici bolognesi di www.inguine.net. Il nome della
mostra era per l'appunto "24000baci" e nella sigla/jingle da 30 secondi ci avevo
messo anche il samples vocale di Celentano, estrapolato dall’omonima canzone.
Molto divertente!
Tu, Urkuma, Pierpaolo Leo, Noxious Nub, Kidsok Nuit, Roq, Cosmic, Insintesi; la
proposta musicale salentina è variegata e ottima. Credi che si posa parlare di
una vera e propria “scena” elettronica?
Credo proprio di si, me lo auguro. È ora che la gente muova il culo per produrre
materiale serio. Molti qui credono che l’elettronica sia ancora la drum'n'bass e
il loro unico contatto con dei suoni sintetici è quello che hanno ad una dance
hall. peccato... Io la vedo più come una cosa democratica. Pensa, prima per
produrre elettronica ti occorreva come minimo: un multitraccia, un paio di
tastiere, un mixer, degli effetti ecc. Stiamo parlando di milioni su milioni. Potevano
permetterselo solo i ricchi, che nel 90% dei casi voleva dire macchine nelle mani
sbagliate. Adesso, invece, se vuoi della buona techno, puoi ascoltarla facile a
casa del tuo amico che ha un pc e dei programmini. Non è figo tutto questo?
Gianpiero (Sonique)
Il potere di trasformazione della musica
Conversazione di Alessandra Pomarico con Steve Savale, aka
Chandrasonic degli Asian Dub Foundation.
Chandrasonic e Dr Das, membri fondatori degli Asian Dub
Foundation, sono a Venezia per collaborare con il regista Peter
Sellars alla creazione dello spettacolo ‘Il Nuvolo Messaggero’,
cui forniscono un vibrante paesaggio sonoro. Gruppo londinese
cutting-edge, gli ADF hanno aperto la strada alla contaminazione
tra live music ed elettronica, con un sound fatto di contaminazioni
tra musica tradizionale indiana, segno della loro origine, e il reggae,
il dub, la jungle, l’hip hop cui pure culturalmente e
generazionalmente sentono di appartenere. Le loro liriche,
impegnate e a tratti arrabbiate, sono un modo per riflettere sulla
società, parlano di discriminazione e razzismo, di ambiente, di
globalizzazione, prendono posizione contro la guerra in Irak e la
strumentalizzazione dell’11 settembre, attaccano l’informazione
distorta dei media e la censura, di cui il mercato discografico
dicono non essere esente. Lamentano, gli ADF, l’omologazione
artistica, la superficialità dei testi e la povertà musicale del pop
attuale, l’abbandono progressivo della ricerca, e l’incertezza
generata dalle strategie delle grandi case discografiche, sempre
più condizionate dal marketing.
La musica è per voi un’occasione di riflessione pubblica?
“Certamente. Spesso ci chiedono se sia più importante la musica o le parole, è una domanda stupida, non separiamo mai la musica dai testi, è un
tutt’uno. Considero le liriche degli strumenti e gli strumenti, liriche. Se cantiamo un pezzo sulla guerra in Irak avrà il suono della guerra in Irak, è molto
semplice, gli strumenti evocano. La musica consente di lanciare dei messaggi ad un pubblico vastissimo, di fornire un commento a temi importanti
da affrontare. Allo stesso tempo è molto forte per noi l’interesse per tutto quello che ha a che fare col suono, i valori veicolati da diverse sonorità,
l’impatto corretto che si genera combinando tradizioni e strumenti diversi. La musica è connessione, è un mezzo d’inclusione, abbatte le barriere, può
generare il cambiamento. Credo che si debba attingere da tutto quello che esiste”
Per voi è anche questione di riflettere un’identità multipla, per così dire?
“Esatto. Siamo indiani, cresciuti a Londra, il suono delle tabla in scena si incontra con quello prodotto dal computer, con il rap, il drum&bass, la
nostra musica riflette tutto quello che abbiamo ascoltato, con cui siamo cresciuti. Diversa mi sembra la questione della world music, una risposta
a mio avviso al bisogno di esotismo della classe media, che sfortunatamente finisce col manipolare l’innato bisogno di combinare la musica
tradizionale con quella contemporanea. Esiste una sorta di iconicizzazione, che poi è il reverse del razzismo, come dire che tutto quello che
arriva dall’Africa è interessante. All’inizio, dieci anni fa, ci chiedevano perché non usavamo costumi tradizionali o dove fosse il sitar! Per fortuna
non accade più, molto è cambiato. La questione del souvenir, dello stereotipo culturale è ancora rilevante, anche se personalmente non mi
interessa più come un tempo. Trovo più stimolante la questione del potere della musica, la sua forza sociale, l’insita capacità di cambiamento.
Questo è evidente oggi nella musica prodotta in Brasile, nell’Europa dell’Est, lo era nell’hip hop che sta un po’ perdendo questa carica”
Com’è nata la vostra ricerca?
“Ho conosciuto Dr Das nel ‘90, cercava qualcuno con cui esplorare innesti tra la musica nera e
quella asiatica, tra il dub e l’elettronica; erano i tempi della prima house, dell’acid, la scena dei
dj techno inizialmente venne fuori con suoni interessanti, facevamo live set improvvisando con
l’elettronica, suonavamo in concerti contro il razzismo, all’epoca le minoranze asiatiche erano
prese di mira da gruppi di fascisti. Siamo stati i primi ad abbinare il reggae al jungle, a tirarne fuori
un sound per quei tempi molto originale. Questa è la nostra genesi, poi ha preso piede la band
con una struttura più tradizionale. Parte fondamentale della nostra storia dal principio è l’ADF
Education, il programma di promozione e diffusione delle tecnologie musicali all’interno delle
comunità più disagiate. Abbiamo incontrato gli attuali rapper del gruppo in uno di questo workshop,
che hanno sostituito chi ha sentito il bisogno di una militanza più attiva e non solo attraverso la
musica”.
Come ti poni di fronte all’attivismo politico?
“Credo che finalmente in tanti abbiano capito che bisogna occuparsi seriamente del mondo
in cui viviamo. Rispetto i movimenti nella loro diversità, anche se la priorità per me resta quella
di un impegno per l’annullamento del debito dei paesi in via di sviluppo. Come musicista,
cerco di creare uno spazio di comunicazione, mi impegno a metter al servizio degli altri quello
che faccio, come è stato per i workshop di ADFed nelle favelas brasiliane, dove abbiamo
scoperto un mondo musicale sommerso veramente interessante”.
È la prima volta che collaborate ad un progetto teatrale?
“Si, è stato fantastico scoprire la visione di Peter Sellars, le nostre prospettive sono simili, condividiamo l’interesse per la storia contemporanea, la curiosità
per quello che le nuove tecnologie apportano, l’apertura alle altre culture, l’interdisciplinarietá tra arti diverse. Un’altra esperienza molto interessante è
stata musicare dal vivo ‘La Haine’ (L’Odio), il film di Kassovitz. Stiamo pensando ad una versione in DVD del film con la ‘nostra’ colonna sonora”.
Come create i vostri pezzi?
“Per ‘Enemy of the Enemy’ ognuno ha scritto le liriche separatamente, mentre negli altri tre dischi il procedimento era collettivo, cosa che
personalmente preferisco. La parte musicale nasce sempre dall’improvvisazione, che poi fissiamo scrivendo le linee melodiche”.
Divagando, chi ha influenzato la tua visione?
“Ho divorato i libri di Philip Dick, ritrovandovi l’idea che la realtà sia costruita, nei suoi romanzi è fatta di punti di
vista multipli, indaga la natura umana e la possibilità di vita oltre l’uomo. I suoi protagonisti androidi sono quelli
che alla fine hanno i comportamenti più umani. L’idea che i computer possano un giorno, magari fra cento anni,
provare dei sentimenti è plausibile, e sarà la problematica del futuro. Bisognerà iniziare a considerare i loro diritti,
ipotizzare le nostre reazioni rispetto a mondi generati dai circuiti. La cybermetafisica mi affascina molto”
La sola idea mi terrorizza, a te invece cosa fa più paura?
“La cosa che mi spaventa di più è la possibilità di ritrovarmi un giorno a non avere più speranze, né per me né
per il mondo”. Per saperne di più www.asiandubfoundation.com
Il lato sinistro del cuore
Io, lo ammetto con candida trasparenza e con un po’ di vergogna, non
volo. Non ho mai preso l’aereo perché sostengo che nei luoghi chiusi mi
sento male e l’aereo non solo è chiuso e limitato ma è a 10mila metri di
altezza. La mia auto ha sempre il finestrino aperto, non mi piacciono i treni
superveloci perché non hai la possibilità di aprire nulla. È tutto ermeticamente
chiuso. Quindi per me questo libro di Francesco Piccolo è stato un piccolo
vademecum di quello che forse (se la paura non mi passa) non farò mai.
Piccolo ci accompagna attraverso i quattordici capitoli lungo tutto il
mondo nel racconto divertito, compiaciuto (a tratti) e molto ironico dei
suoi viaggi in giro per il mondo (ma anche per l’Italia) come collaboratore
di “Marie Claire” e “Diario della settimana”. Attraverso Sri Lanka, Australia,
Hong Kong, la narrazione dello scrittore campano (vi consiglio anche “E
se c’ero dormivo” un titolo per me azzeccatissimo) mette in risalto
caratteristiche del viaggiatore curioso e sorpreso. Bellissimo il racconto
della filosofia della business class che “consiste nel farti mangiare quando
è ora di mangiare sia in riferimento all’ora della città di partenza sia all’ora
della città di destinazione, e qualche volta prendendo anche alcuni tempi
intermedi”. E mi convince anche il passo dedicato all’Ikea. “Non è un
mobilificio: è una filosofia; qui non immaginano di penetrare nelle case,
ma nelle teste. E sono riusciti a modellare un design utopico che si basa
su un equilibrio di gusto che accontenta tutti facendo sentire non si sa
come (è questo il segreto) a ognuno una sensazione di esclusività”. Un
libro agile da leggere (soprattutto) in viaggio alla scoperta di quello che
vorremmo vedere. Molto curioso anche l’avvio con il cinese a Hong Kong
che scambia Piccolo per il grande attore americano Nicolas Cage, la
faccia cinematografica dell’uomo medio. “Che non è vero soltanto che
per gli occidentali i cinesi sono tutti uguali, ma è vero anche il contrario.
Anche per i cinesi gli occidentali sono tutti uguali”.
Pierpaolo
Un mondo meraviglioso
Thomas vaga per le vie di Vicenza, non ha
nessuna meta, solo va. E nel vagare si racconta:
non ha più un lavoro perché l’ha lasciato, non
ha più una donna perché l’ha abbandonata.
Ha annullato ogni forma di relazione sociale per
concentrarsi sul libro che sta scrivendo. “Nessuno
è in grado di capire che scrivere o non scrivere
è una questione che implica per me anche il
dilemma di vivere o non vivere”. Thomas è
appagato dalla sua solitudine. Ma la sua voce
narrante si frammista a ricordi ossessivi, a sentenze
ruminate in bocca in un disperato tentativo di
dimostrare a se stesso che ce l’ha fatta, ha
finalmente una meravigliosa corazza per
proteggersi da ogni forma di sentimento. “Per
l’amore non ho un lessico, sull’amore sono muto
cieco e sordo, non riesco più nemmeno a sentirlo”.
Non è reale: Thomas butta fuori il suo cinismo per
le vie di Vicenza sperando che qualcuno lo
raccolga e se ne prenda cura: ma la città è
indifferente, muta cieca sorda e…
È un narrare senza argini quello di Vitaliano
Trevisan, pieno, con volute leggere. Scrive
seguendo il ritmo dei pensieri che si accavallano,
fuggono lungo vie di dispersione, si attorcigliano
in spirali, si frammistano alle strade e alle persone
che incontra e non arrivano mai. E intanto il suo
eroe ti scava un solco dentro e ci si insedia a
rosicchiare le ambiziosi deluse, quelle che tutti
abbiamo ma facciamo fatica a raccontarci.
Maurizia
Italiani Cìncali!
Citta del Libro, Campi
con il patrocinio del Ministero degli Italiani nel Mondo
di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
diretto e interpretato da Mario Perrotta
libri d’altri tempi
Vitaliano Trevisan/Einaudi
Rêveries
libri
Allegro Occidentale
Francesco Piccolo/Feltrinelli 2003
Specie di spazi
1984
Carlo Lucarelli/Einaudi stile libero
Per elencare tutti i romanzi pubblicati da questo
talento del noir italiano occorrerebbe troppo
spazio, gli amanti del genere conoscono la
copiosa bibliografia di questo autore. Però
forse non tutti sanno che Lucarelli si è lasciato
alle spalle anche una mole enorme di racconti
e di storie brevi, pubblicati su libri, riviste e
giornali, che, per il numero e la molteplicità
degli argomenti trattati, testimoniano, se
ancora ce ne fosse bisogno, le sue multiformi
caratteristiche di scrittore. Ecco che nasce
questa raccolta, “montata” dallo stesso autore,
in cui troviamo una selezione di più di cinquanta
storie brevi che invitano il lettore al
coinvolgimento emotivo con i personaggi fino
a capire che il mistero e la paura si possono
nascondere anche dietro le situazioni più
semplici.
Il menù che Lucarelli ci mette a disposizione è
molto ricco; possiamo assaporare una grande
quantità di stati d’animo: sensualità, ironia,
paura e inquietudine, che si innestano su
atmosfere che spaziano dal comico all’horror
al thriller, il tutto condito da una eccezionale
capacità narrativa che crea suspense dalla
prima all’ultima pagina: il tocco da maestro
che solo un grande chef può dare. Ecco allora
che un gatto si può innamorare di una ragazza
appena lasciata dal suo ragazzo (Il gatto), la
signora Linina col suo piatto eccezionale fatto
con un ragù molto particolare (Garganelli al
ragù della Linina), Oskar che continua a scrivere
alla moglie pur essendo morto (Carissimo
Oskar), una simpatica rivisitazione dell’invasione
aliena fatta in diretta radiofonica da Orson
Welles negli anni ’50 (Radiopanico), una rapina
in un museo andata male per colpa di un
“custode” molto zelante (Il silenzio dei musei)
e tantissimo altro ancora.
C’è n’è veramente per tutti, i buongustai del
noir sono serviti: buon appetito.
Daniele
George Perec/Bollati Boringhieri,
Perec finì di scrivere questo libro nel 1974, offrendoci, a mio avviso, un piccolo
capolavoro di scrittura. Si tratta di una raccolta di riflessioni sugli spazi e sullo
spazio. Parte dal foglio, luogo minimo e fondamentale per chi è uso, come
direbbe Gadda, “alla palestra dealbata della pagina”, cioè alla scrittura.
Dice Perec: “Scrivo, abito il mio foglio di carta, lo percorro, lo attraverso”. Poi
passa alla stanza da letto, all’appartamento, al palazzo, alla strada, al
quartiere, alla città, allo spazio in generale.
Una galleria mirabile di immagini e pensieri su quello che ci circonda, e
circondandoci ci condiziona, ci trasforma, ci rende quello che siamo. E
all’interno anche una serie di esercizi e di indicazioni personali su come vada
osservata, ad esempio, la strada, oppure il quartiere, insomma la realtà
esterna. Un vero e proprio vademecum dettagliato e approfondito, una
sorta di taccuino personale aperto a tutti. Si ha, netta, la sensazione di entrare
nella bottega dell’artista, di essere di fianco a Perec nel momento in cui
scrive, in cui l’idea gli attraversa la mente e prende forma, piano, prima
nebulosa, poi sempre più chiara, precisa, dettagliata.
Il Perec più calviniano questo di Specie di Spazi, quello che si inserisce nella
corrente Borges-Calvino, che condivide con l’italiano e il sudamericano la
passione per il calcolo, per la combinazione degli elementi, per la costruzione
a incastro. È questo il terreno di prova preferito da Perec, che di lì a poco si
misurerà con La vita: istruzioni per l’uso, gigantesco puzzle sulla vita di un
condominio visto in sezione. Volti, voci, vite che si susseguono e si incrociano
in un normale condominio francese per oltre seicento pagine. E proprio in
Espece d’espace (questo il titolo originale dell’opera) Perec abbozza per la
prima volta l’idea del romanzo che lo consacrerà alla storia della letteratura
mondiale. Ci sono alcune pagine, infatti, dove lo scrittore parigino prende
appunti, segna idee, le pesa, le pondera e ce le offre, in forma di bozza, in
forma di memorandum, in forma di solenne promessa di ciò che poi sarà.
Sicuramente un autore che va letto, amato e riscoperto.
dario
Lo stato ci ha venduto per un sacco di Carbone. Ferma è la
condanna che viene fuori da un eccezionale Mario Perrotta, autore insieme a Nicola Bonazzi, e attore unico dello spettacolo “Italiani Cincali”.
Lo spettatore viene trasportato dalla sua voce narrante sulla tratta ferroviaria Lecce- Milano-Stuttgard-Zurigo, da un Mario bambino che respira i suoi
compagni di viaggio, scruta i volti “sospesi in un'espressione di viaggio perenne” e assorbe la loro cultura di emigranti appartenenti ormai ad una terra
di nessuno, quella dei treni. Ai suoi occhi di bambino fare l'emigrante è un mestiere come tanti. Ai suoi occhi di adulto non più. Mario viaggia per l'Italia
a ricomporre le storie di quanti hanno vissuto la grande epopea dell'emigrazione che ha colpito il sud Italia nell'immediato dopoguerra. E in 2 ore di
monologo serrato sempre compaginato fa rivivere la storia del Salento, le infinite dominazioni, il vivere dei frutti della terra sotto padroni paternalisti e poi
la fame dura, quella senza scampo. Finché un giorno il miracolo: in tutto il sud Italia lacerato e totalmente da ricostruire dopo una Guerra, che tuttora
fa fatica a capire, appare un manifesto che titola “Grande occasione” e promette un lavoro sicuro e una nuova America a solo 18 ore di treno:
destinazione Belgio. Ma la vita nella Belgique, così come in Germania, Svizzera, e poi Svezia è un inferno. E Perrotta come in una giostra ruota tra i
protagonisti della storia di quei tragici 30 anni e gli da voce corposa: il postino del paese di un sud qualunque che reinventa un alta vita per gli amici
lontani, le donne morbide, voluttuose, pieni i seni ma ormai vuoto il grembo, i minatori con i polmoni pieni di polveri, che proseguono la discesa in un
inferno di “crauni” per dimostrare a se stessi e ad un’Italia che li guarda la loro forza, il loro essere uomini. E perché alla fine non c’era altro da fare.
Cincali è il nome con cui gli svizzeri continuano a chiamare gli italiani pellegrini del mondo; forse perche considerati zingari o forse perché i padani lontani
da casa avevano l’abitudine di giocare a morra e di urlare “cinq” cinque. E cincali racchiude il disprezzo con cui quelli che cercavano solo di inventare
un altro futuro in un sud che non ne aveva altri venivano derisi, con sufficienza. Strano come tutte le storie di emigrazioni siano poi uguali. O forse non è
strano, no.
Maurizia
Dogville
Lars Von Trier
con: Nicole Kidman, John Hurt, Ben Gazzarra, Udo Kier
cinema
Che cosa può accadere a una ragazza (una candida e conturbante Nicole Kidman)
che cercando di sfuggire a dei misteriosi inseguitori, ripara in uno sperduto villaggio
americano? Può accadere che i suoi protettori si trasformino in aguzzini, facendo diventare
i piccoli lavori che dapprima fanno svolgere alla vittima per mantenersi nella comunità,
in veri e propri abusi e umiliazioni. Dogville è ancora una volta un viaggio alla ricerca del
male che parte dalle basi della società, soprattutto da quelle piccole comunità (già altre
volte rappresentate dal regista danese, come ne “Le onde del destino”) poco aperte
verso l’esterno che sembrano volersi dare una rigida condotta morale e di vita. Von Trier
ancora una volta racconta una storia ponendosi al di sopra delle parti, guardando
dall’alto i personaggi di cui muove i fili, non mischiandosi con le loro mortali beghe e non
infondendo le proprie emozioni ma lasciando che sia lo spettatore a trarre soggettivamente
quell’emotività data di volta in volta dalle immagini e dalle situazioni. Anzi, Von Trier molto
“generosamente” questa volta allarga la partecipazione dello spettatore, lasciando alla
sua immaginazione tutta la scenografia del film, girando la vicenda interamente in un
teatro di posa dove le case non hanno mura né porte e si può scorgere l’attività domestica
dall’esterno, dove i cespugli o i cani sono disegnati sul pavimento e il paesaggio è dato
da orpelli scenici, per meglio rappresentare il claustrofobico teatrino delle meschinità
umane. Teatrino che esplode nel finale con la sua cattiveria tanto più atroce, quanto
più si considera la cinica freddezza dell’autore nel rappresentarla. Forse questo è l’elemento
di cui più si ha bisogno: finalmente si può dire di aver assistito a un film crudele, spietato,
dove non si ha pietà neanche delle sorti di un neonato, politicamente scorretto, in cui i
“diversamente abili” sono chiamati storpi. Esigenza tanto più urgente se si pensa che la
versione italiana di Dogville è stata accorciata di 40 minuti per adattarsi, a detta del
regista, alle leggi di mercato italiano ormai dominato dalla piattezza delle fiction. Per
questo ora più che mai si sente il bisogno di un Von Trier, nonostante le sue imperfezioni;
e chi si è alzato dalla sala per dirigersi verso l’uscita probabilmente non
se lo merita.
Gianpiero
Renato Polselli
Il ritorno –Vozvraschenie
Andrey Zvyagintsev
Ok lo ammetto, l’ho visto solo perché ha vinto. E adesso pago la mia colpa chiusa in una fitta
rete di perché che non riesco a scrollarmi di dosso. Il copione è quello solito da “L’incompreso”
che ossessiona l’inconscio di molti, solo che stavolta a rimetterci le penne è il caro paparino.
Due ragazzini uno in fase preadolescenziale, l’altro in adolescenza acuta, vanno in gita con il
papà che non vedevano da 14 anni. E inizia il flusso delle domande: perché il padre, con la
moglie “bona” che sembra un’eroina di Tolstoj, una casa accogliente, 2 splendidi figli, è andato
via? Perché ora è tornato? Perché invece di strisciare a terra è li che li tratta come fantocci
che devono muoversi a suo comando? E intanto il senso di tragedia incombe, soffocante. La
prima scena distribuisce con maestria gli elementi su cui si sviluppa il film e ne costruisce la
struttura: tanti bambini (come i cretini?) dall’alto di una torretta a strapiombo sul mare aspettano
il loro turno per buttarsi di sotto. Ce la fanno tutti tranne il piccolo Vanja che soccombe alle
logiche di bullismo e rimane nudo sulla torre finché la mamma da schianto non lo salva. E già
lo sai che Vanja sarà perseguitato dal suo fallimento e che la torre lo ossessionerà fino alla fine.
L’immagine è costruita alla perfezione. Ottime le inquadrature sui passaggi in uno sforzo
perfettamente riuscito di narrare la natura come parte attiva del tessuto emozionale dell’uomo.
Il film è un ottimo esercizio di stile. Ma la vita è altro da un susseguirsi di momenti tragici senza
soluzione. O almeno è quella in cui ho voglia di credere.
Maurizia
Baffetti sottili, grandi occhiali in volto, oltre ottant’anni, laureato in filosofia, pochi ricordano la figura e l’opera bizzarra di Renato Polselli, regista
ciociaro con una personale visione del cinema. Una vita spesa per il grande schermo, rivestendo nel corso degli anni figure professionali diverse
fino ad arrivare, negli anni cinquanta, a firmare le prime regie influenzate dallo stile neorealista (di grana grossa) e negli anni sessanta western,
horror (L’Amante del Vampiro) e commedie con la coppia Franchi e Ingrassia. Ma la vera opera da riscoprire del regista, per ogni amante del
cinema bizzarro, è collocata nel periodo che va dal ’72 al ’73 anni in cui Polselli inizia un suo personale cammino stilistico (!) e di contenuti (!!).
Completamente a digiuno di tecnica cinematografica, il suo stile di ripresa è a dir poco pedestre, ma forse è questo uno dei punti di forza del
suo cinema, sposando completamente la filosofia del so bad, so good. Ora la cinepresa è di una fissità imbarazzante, ora invece gioca con lo
zoom fino a far venire il mal di testa, lanciandosi in riprese ardite e improbabili e facendo uso di colori sempre accesi in linea con il piglio pop del
maestro Mario Bava. Ciò che inoltre lascia basiti nel cinema di Polselli, è la velleitarietà delle sue tematiche, sempre infarcite di tesi personalissime
ai limiti del filosofico (spicciolo) e supportate da dialoghi spericolati come un funambolo e dove il sesso, incentrato soprattutto sulla figura femminile,
è la chiave di lettura. Primo film del periodo d’oro e forse summa della sua cinematografia è La Verità Secondo Satana, (1972) vero e proprio
delirio visivo e dialogico. Una lieve impronta thriller a supportare la trama, dialoghi al limite del credibile che non danno un attimo di tregua, camera
così fissa da sembrare incollata al pavimento e una recitazione alle soglie del dilettantesco (e sì che Rita Calderoni aveva recitato per Rossellini!).
Seguirà Riti, magie nere e segrete orge nel ‘300 un titolo che mantiene tutto quello che promette. “È un film sulla credulità popolare” dice convinto
Polselli volendo così attribuire un valore accusatorio al suo lavoro nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche e religiose che plagiano le coscienze
del popolino rendendolo cieco alla verità. Più verosimilmente si tratta di un horror sui generis, dai colori forti e con una cinepresa questa volta,
lanciata in girandole di riprese da capogiro. Il sesso la fa da padrone in un altro “capolavoro”, ovvero Rivelazioni di uno psichiatra sul perverso
mondo del sesso in cui tenta un discorso didascalico e sociologico, negli intenti, sulle devianze sessuali facendo valere la perizia che, a suo dire,
gli appartiene in campo psicologico. La fantasia di Polselli si sbizzarrisce rappresentando una fauna improbabile che oltre ad annoverare i casi
più “normali”, vede tra gli altri, uomini che amano farsi stirare (si avete letto bene!) dalla propria consorte. Assolutamente fuori di senno! Nello steso
anno Polselli sale sul treno del thriller argentiano a modo suo, confezionando Deliro Caldo raffazzonato esperimento in cui non mancano gli elementi
tipici del genere riletti in maniera personale. Qualcuno potrebbe definire trash lo stupefacente Oscenità (1973), ma la sua eccessività lo rende
così divertente da renderlo un classico imprescindibile per tutti. La trama richiama direttamente quella di Rivelazioni… solo che questa volta gli
astanti discorrono sulla tematica della donna e il suo sfruttamento nei secoli. Colorato, psichedelico, caleidoscopico, delirante, con attori “fantastici”
(oltre Rita Calderoni, Isarco Ravaioli che contende al pallore del muro il primato di chi recita meglio e il “sex symbol” Dino Strano, una specie di
villico d’altri tempi vestito da bullo strapazzafemmine): in una parola In-cre-di-bi-le. Nulla è dato di sapere, invece, di Mania, se non che si tratta
di una sorta di remake o rivisitazione di La verità secondo Satana. Gli ultimi film del maestro ciociaro escono a fine anni settanta e uno dei due,
in particolare, preannuncia il suo abbandono al cinema. Torino Centrale del Vizio, infatti si presenta come una sorta di noir dai toni crepuscolari
e malinconici “quanto un addio” (come ebbe a scrivere Luca Rea), mentre Casa dell’amore: la polizia interviene è solo un lavoro di recupero di
alcuni spezzoni di un film mai uscito dell’amico Bruno Vani. In seguito Polselli abbandonerà il cinema ufficiale e si dedicherà alla post-produzione
di film, e molto più spesso girerà in prima persona alcuni hard sotto falso nome. Come Joe D’Amato, Polselli capisce che in un mondo in cui non
c’è più spazio per il suo cinema dell’eccesso, l’unico modo per portare a casa la pagnotta, è piegarsi alle leggi del mercato che trova una vera
e propria miniera nel porno, avvalorando la sua tesi per cui “col cinema non si può proprio fare arte. Ha troppo peso l’aspetto economico: un
regista non è mai posto nelle condizioni di fare veramente ciò che desidera”.
Gianpiero
A me il Natale non mi piace, o no!
Viaggio nella memoria di un bambino felice
Sin da bambino ho avuto una (tra le varie) malattia seria da voler
debellare a tutti i costi. Essa, con tutto ciò che ne consegue da questo
momento del mio scritto in poi, si chiama Natale.
Il Natale a casa mia arriva il 20 o 22 novembre quando mia madre
ad un certo punto di un normale pranzo domenicale inizia a chiedersi,
ad un mese dalla scadenza, quale possa essere un dignitoso pranzo
di Natale. Si perché, come avviene in molte case del sud e sopratutto
nelle famiglie numerose, il 25 dicembre si trasforma nella festa “più
in” dell’anno con parenti, zii, cugini, nipoti, fratellastri, ragazze e
ragazzi, fidanzatini, futuri sposi. Il giorno di Natale viene però anticipato
da una serie di improrogabili adempimenti che neanche un
matrimonio richiede. Ma la cosa distruttiva è che: il matrimonio
avviene una volta nella vita (se non altro quello in chiesa, Sacra
Rota escludendo) il Natale si ripete con inspiegabile puntualità ogni
dicembre.
Il vero Natale inizia l’8 o il 13 quando si monta il presepe e
l’alberello. Che poi alberello non è mai considerato che in ogni
famiglia ad un certo punto si abbandona il tristissimo esemplare
in plastica per acquistare o rubare (da qualche campagna
oscura dell’hinterland) un pino reale dell’altezza di tre metri, con
la cima che pressa sul soffitto, e la chioma da competizione. Le
palle si appendono insieme a milioni di luci (che poi papà
bestemmia per la bolletta del mese successivo) e stelle filanti
che sembrano pappardelle paglia e fieno. Insomma... una
tragedia biblica: il trasporto dell’albero, delle palle, dei pupazzi
(considerato che San Giuseppe viene annualmente decapitato).
E poi c’è il bambinello che viene nascosto ogni anno per non
perderlo e si perde sempre e in qualche cassetto c’è una colonia
di lattanti con l’aureola. Ma la vera tragedia del Natale io la vivo
ogni anno a tavola. Nelle famiglie dedite alle tradizioni le feste
partono il 24 alle 20.00 e si chiudono il 6 gennaio alle 18.30. Pranzi,
cene, spuntini, cocktail, panettoni, pandori, torroni, purceddruzzi,
ncarteddhate, pasta di mandorla. Il 24 si mangia pesce (perché
è sera e bisogna mantenersi leggeri) e leccornie varie, il 25 pasta
al forno o tortellini al ragù, mille rotoli di carne, patate, rape
‘nfucate, dolci in quantità industriale. Il 26 tortellini in brodo (un
classico) e poi – se va male – gli avanzi del giorno prima. Se
invece si è cambiata casa e sponda familiare si ripete tutto
daccapo con salsicce, lacerti, olive nere, bianche, saporite,
pittule. Una pausa di riflessione sarebbe anche possibile ma è
improponibile. Si cerca di correre per recuperare la linea ma
stinchi di maiale e cotechini ti perseguitano. È il pensiero del
cenone di capodanno. Che poi il 31 si dice che si debba passare
in compagnia. Ma perché privarsi del luculliano cenone casalingo
per spendere centinaia di euro in posti tristi dove sconosciuti si
danno gli auguri augurando la morte prematura di quello che
bacia la ragazza da lui appena conosciuta ma tuo sogno erotico
interrotto da una vita? Si riprende con il pesce (è pur sempre
sera) salmone, aragoste (se va bene), gamberoni (se va così e
così), gamberetti se va male. Ma il dramma dell’ultimo dell’anno
è il tradizionale cotechino accompagnato dalle lenticchie (tante
monete quanti chicchi) e l’indimenticabile purè di patate. A
mezzanotte si brinda, si assiste allo sparo dei fuochi che dalle mie
parti equivale al D-Day con bombardamenti in piena regola.
Dopo i bagordi notturni a base di alcool e carte la sveglia del
primo gennaio è traumatica. Alle 13 ci si sveglia e si pranza. Con
il sugo nel quale si intinge il biscotto (per non perdere le sani
abitudini mattutine) e il vino che fa da surrogato (molto più
gustoso) al latte. Insomma la tragedia perenne e imperitura delle
feste natalizie va in scena con personaggi sempre uguali. Nei
pomeriggi freddi e carichi di noia tra pranzoni e cenoni ad
esempio c’è la solita partita al mercante in fiera, a pupetta, a
mazzetto, a sette e mezzo (con la barella coperta se me piace
me la tegnu) e poi ricordo che da piccolo i miei zii giocavano
sempre a stoppa o a tressette. E a ripensarci ricordo sempre più
cose del mio Natale da piccolo che è tutto diverso da quello di
adesso. Perché c’erano i nonni, i cugini (ancora piccoli) e gli zii
(ancora giovani) e tutto sembrava più bello e tutti sembravamo
felici. E mi ricordo che c’era il tavolo dei piccoli e il tavolo dei
grandi e ogni anno qualcuno aveva la fortuna e la bravura di
passare dall’altra parte e di migrare verso il mondo degli adulti
e io (che ero il più piccolo della famiglia) a quel tavolo non ci
sono mai arrivato se non per essere abbracciato e sbaciucchiato
dalla mamma o dalle zie. E a ripensarci come dimenticare la
tortura della preghierina prima della nascita del bambinello e
poi la processione con il bacio e la consegna dell’infante alla
cupa capanna. E poi i regali che non erano mai quelli sperati.
Una volta i miei mi regalarono Ken (il marito di barbie) e non Big
Jim e le mie certezze sessuali vacillarono. E mi ricordo che a
mezzanotte si scartavano i pacchetti che le cugine più grandi
avevano fatto per tutti. E ancora il rito dei piatti con la macchina
da guerra formata dai più piccoli che asciugavano e i grandi
che lavavano (che una volta in quel lavandino con l’acqua
calda uccisi il capitone ancora vivo). Il Natale forse un tempo
aveva un sapore diverso, più romantico, con i regali di pezza
oppure con i Commodore 64 e gli Atari ma senza plaistesciò. E
a ripensarci ho una grande malinconia per quello che non è più,
sperando che prima o poi sarà di nuovo. Magari con me zio che
vizia i nipotini aizzandoli contro il padre. Che poi il Natale se
mangi e bevi è sempre meglio che star da soli.
Pierpaolo
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Subordinate senza principale.
In tempi in cui, mai abbastanza viene detto, assistiamo al ritorno ormai non più strisciante
del fascismo e di quello che comporta, dalla censura, alla esaltazione di valori come
patria, famiglia e dio, alla condanna delle droghe, tutte uguali, tutte cattive, al culto
divino dell’immagine del capo (leggi primo ministro), al razzismo e al culto della razza
(un tempo gli inferiori erano gli ebrei, oggi sono i musulmani, ma l’importante è che la
religione superiore resti la cattolica).
In tempi in cui il buonismo impera ipocrita da destra a sinistra, il desiderio di
riappacificazione tra le parti resta la sola cosa importante e il volemose bene è la parola
d’ordine che apre tutte le porte dei salotti buoni televisivi e non.
In tempi in cui si parla di conflitto sociale come una piaga, di lotte sindacali come uno
spiacevole contrattempo che rischia di rovinare le festività natalizie, la corsa ai regali
e la prima della Scala.
In tempi in cui chiunque abbia qualcosa da dire viene bollato come pericoloso sovversivo,
ieri anarcoinsurrezionalista, oggi brigatista, o comunque genericamente terrorista.
In tempi in cui le forze armate sono tornate alla ribalta come eroi dello stato, la mafia
dicono che non fa più paura, piuttosto guardiamoci dai terroristi di Bin Laden.
In tempi in cui per sentirsi importanti bisogna dire che si rischia di morire da un giorno
all’altro perché molti e cattivi sono i nemici che ci odiano, e noi siamo un bersaglio di
primissimo piano, grazie alle importanti azioni di pace e di esportazione della democrazia
che stiamo portando avanti nel mondo non evoluto.
In tempi in cui democrazia è una parola che ha perso completamente significato e
dire comunista equivale a dire cane randagio pericoloso e malato, aggressivo e da
eliminare, mentre re e principi rientrano in Italia da vincitori e maltrattati, che meritano
riconoscenza per quanto hanno fatto per il nostro paese.
In tempi in cui si continua a morire sul lavoro da nord a sud, ma se chi muore non è
italiano di origine, ce ne frega ancora meno di quanto ce ne frega di solito e la pietà
dura sì e no il tempo di un servizio di telegiornale su Rai 3. E parlo di pietà.
In tempi in cui la satira viene accettata solo se chi fa satira si veste da pagliaccio,
possibilmente con la gobba e i campanelli in testa, parla con la voce storpiata e alterata
e, per carità di dio, non se la prende con i veri potenti.
In tempi in cui, non capisco bene perché, si riprende a discutere di “meglio gioventù”,
e non si sa bene a quale meglio gioventù ci si riferisce, dato che quella attuale sembra
latitare, almeno nelle rappresentazioni mediatiche che ci vengono offerte, che si limitano
a parlar bene di una gioventù di trent’anni fa, che trent’anni fa era brava e anche oggi
è brava perché è entrata nei palazzi del potere e anche se mantiene una certa etica
e moralità non fa proprie le istanze della storia che bussano urgentemente alla nostra
porta. E così i BR che rapirono Moro in fondo se ne pentirono, e chi fece il ’68 dei
movimenti nati a Seattle non ha neanche sentito parlare e di Berlusconi alla fin fine non
ha nulla da dire. E la televisione in questo dicembre prenatalizio manda in onda un bel
film di Tullio Giordana con il bravo Lo Cascio. Un bel film che non aggiunge niente al
mio livello di comprensione di questi tempi bui in cui vivo, dove la realtà è talmente
rarefatta e surrogata da venirmi a nausea.
In tempi in cui il nipotino di criminali di guerra va a casa di un altro criminale di guerra
e per miracolo tutti e due ne escono lindi e santi e i criminali di guerra diventano quelli
che forse un giorno verranno ricordati come gli eroi della resistenza di un popolo contro
la sua cancellazione.
dario