RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:30
Pagina 1
QUI SUCCEDE UN 68
Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music
Inverno 2009
PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC
di Romina Ciuffa
Mi sento ribelle anche oggi, mi sento sessantottina ogni qualvolta apro il giornale, mi stendo su
un prato, uso i bagni dell’università e m’innamoro. Il Sessantotto era la margherita in bocca, una
canna rock, la confusione di una generazione
stanca e sesso di gruppo. Oggi come ieri, ma
meno di ieri. Perché muore anche la politica, crepano le ideologie, sesso si fa in chat. Il
Sessantotto rollato, appicciato, tirato, et voilà tutte
le illusioni tossiche son più reali che mai. (...)
CONTINUA NELLA PAGINA MUSICALL
GENIAL
PORNO
YOUTUBE STATE
OF MIND
di Eugenio
Vicedomini
di Flavio Fabbri
Il «Genio» è un
progetto musicale
ideato agli inizi del
2007 da Gianluca
De Rubertis (che
era tastierista degli
Studio Davoli) e
Alessandra Contini
alla voce e al
basso.
Il loro improvviso successo è fatto
di canzoni dal
sapore di zucchero
filato che riportano
in mente la Parigi
al tempo di Brigitte
Bardot e la swinging London di
Marianne Faithfull.
(...)
Come arrivare un
giorno ad esibirsi di
fronte al pubblico del
grandioso Carnegie Hall
di New York? Come
ottenere un’audizione
per provare, finalmente
al mondo intero, il talento di cui siamo forniti?
Chissà quanti aspiranti
musicisti o studenti di
conservatorio si saranno
fatti tali domande.
Eppure la risposta
potrebbe venire da dove
meno te la aspetti e cioè dalla rete. «Practice,
practice and practice, then download your performance video on YouTube», recitano gli ambasciatori del progetto sponsorizzato dal social
network proprietà di Google. Insomma, niente
di più semplice, fare tanta pratica e immortalare
l’esecuzione giusta su un video. (...)
CONTINUA NELLA PAGINA ALTERNATIVE
Ppop&rock
OPCK
OASIS
CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES
FEED
back
GRACE JONES
Direttore
ROMINA CIUFFA
Direttore Responsabile
SALVATORE MASTRUZZI
Redazione
Romina CIUFFA [email protected]
Flavio FABBRI [email protected]
Rossella GAUDENZI [email protected]
Valentina GIOSA [email protected]
Roberta MASTRUZZI [email protected]
Corinna NICOLINI [email protected]
Contributi di rubrica
Nicola CIRILLO [email protected]
Progetto grafico
Romina CIUFFA
Impaginazione
Cristina MILITELLO
Logo Caterina MONTI
Redazione
Via del Boschetto, 106 - 00184 Roma
Tel 06.4544.3086
Fax 06.4544.3184
Mail [email protected]
Marketing e Pubblicità
Mail [email protected]
Tipografia
Ferpenta Editore Srl
Via R.G. di Montevecchio - Roma
Contributi
Elisa Angelini, Lorenzo Bertini
Nicola Cirillo, Giosetta Ciuffa
Stefano Cuzzocrea, Cristina D’Eramo
Alessandra Fabbretti, Clara Galanti
Gianluca Gentile, Eugenio Vicedomini
Livia Zanichelli
Anno III n. 8
Inverno 2009
Registrazione presso il Tribunale di Roma
n. 349 del 20 luglio 2007
STEFANO
MASTRUZZI
EDITORE
BALLET
RICCARDO REIM
BEY&further
OND
HELICOPTER STRING QUARTET
QUELLA D’ARTISTA
Ansa esordisce con «l’indiscutibile signora della musica italiana» riferendosi all’intervento di Mina che, con un tocco
L
’
da Re Mida, dovrebbe far recuperare credibilità e nobiltà al
Festival di Sanremo. Controcorrente, avrei da dubitare sulla
indiscutibilità di chiunque, quindi anche di Mina, che con la
sua impalpabilità è ormai assurta a dea di un Olimpo che, proprio in quanto furbescamente imperscrutabile, sembrerebbe a
prova di critica. La rispettabilità e la longevità della sua carriera
non possono indurci, come pecore, a bere a priori qualunque
cosa faccia o dica; ricordiamoci sempre della Merda d’artista di
Piero Manzoni.
Se Mina rappresenta la vetta del Festival, nelle stalle troviamo
Maria De Filippi e la banale ovvietà delle sue proposte, ora anche in
Rai. L’italiano medio (ma sempre più basso) guarda a queste e alle trasmissioni di Simona Ventura come alla fucina dei nuovi progetti
musicali italiani per un unico motivo: possiede una cultura sottosviluppata. Di questo eviterei di dare la colpa
alla scuola, troppo comodo. Tutt’altro: la colpa è
come la responsabilità penale - personale - ed è legata alle difficoltà crescenti dell’italiano a sviluppare sufficienti sinapsi nelle
proprie cellule encefaliche.
Dal canto loro, Paolo Bonolis e Luca Laurenti fanno ridere e lo fanno
- a differenza di alcuni cantanti - di proposito; se non dissacreranno questo crogiuolo di pseudo-artisti a caccia di diritti Siae e della facile noto-
rietà che permette loro di mangiare a ufo nei ristoranti in cambio della classica foto da esporre, ci penserà Checco Zalone (dal barese «Che cozzalone»),
parodia di un cantante neomelodico napoletano:
fatevi un giro su Youtube, sarà lui il vero protagonista di Sanremo 2009.
Quanta perversione c’è nell’attirare gli spettatori
con colpi bassi? A sufficienza. Pensate a che
affluenza di pubblico ci sarebbe in un seminario su «Il
logaritmo neperiano e il calcolo della massa del
Bosone di Higgs» se solo il relatore fosse introdotto
dalle conigliette di Playboy. Abbiamo però, oggi, una
grande opportunità, che è lo zapping: sintonizzarci su
Raiuno per gli starnazzi delle conigliette, poi tornare in
tempo per il finale di «Dr. House», meno scontato di una
canzone di Al Bano. Il messaggio è chiaro, gli
sponsor comunque contenti, il direttore Del
Noce ancorato alla poltrona. Del resto, il
Bosone di Higgs continuerà pure a non essere visibile a occhio nudo (al giorno d’oggi l’ipotetica particella non è mai
stata osservata, a differenza di questo Festival), ma l’occhio vuole sempre la
sua parte.
Stefano Mastruzzi
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:30
Pagina 2
J AZZ
& blues
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
Music In Inverno 2009
MARCELLO ROSA Amo parlare di
me come di un suonatore di trombone: la
definizione di musicista è troppo gravosa.
PRENDIAMO FIATO Saint Louis
Un’iniziativa che fa prender fiato a tromboni,
clarinetti, sassofoni, trombe, bassotube e flauti
IL JAZZ ROSA «À LA CARTE»
crive Marcello Rosa: «Il jazz ha circa un secolo di vita, ma
rimane ancora sotto molti aspetti una musica misteriosa;
molto del suo fascino dipende probabilmente anche da questo. Il jazz è una musica seria, ma non seriosa; impegnata ed
impegnativa, ma che sa al momento giusto disimpegnarsi; ludica e al tempo stesso profonda, di una semplicità a volte così complicata da sbalordire anche il più attento e preparato musicologo. E tante, tante altre cose…».
Non solo: «Il jazz è però, soprattutto, l’espressione del proprio
stato d’animo (di chi suona e di chi ascolta) ed è questa sua
peculiarità che ne fa una musica sempre nuova e imprevedibile,
coinvolgente, unica. La scelta del repertorio dipende quindi dall’umore del musicista, ma non c’è da meravigliarsi se alcuni celebri temi possano a volte essere serviti a gentile richiesta per soddisfare quei palati affezionati a particolari sapori, sensazioni,
ricordi».
Sarebbe impossibile introdurre più efficacemente l’ultimo progetto musicale ideato e realizzato dal suonatore di trombone, così
ama definirsi, Marcello Rosa («… Amo parlare di me come di un
suonatore di trombone: la definizione di musicista è troppo onerosa, gravosa…»). Eppure il suonatore di trombone in questione,
oltre ad avere un’esperienza di mezzo secolo come arrangiatore
e compositore, ha diffuso la musica jazz nel nostro Paese a partire dal 1963 attraverso indimenticabili programmi radiofonici e
televisivi dei quali è stato autore e conduttore.
Jazz «à la carte». L’idea di inserire brani jazz in un menu è di
vecchia data, risale a circa venti anni fa, ai tempi in cui Marcello
Rosa suonava regolarmente presso un ristorante romano dall’affascinante atmosfera Art Déco di Via Palestro, Il Pavone.
Entrare nel salone blu era come fare un tuffo in pieno stile
Liberty; ebbene, in quel luogo, era nato il proposito di realizzare
S
il «The Blue Room Jazz Club», con tanto di Jazz «à la carte».
All’epoca il progetto incontrò qualche difficoltà e non venne realizzato, così è rimasto a lungo tra i pensieri e i cassetti di
Marcello. Poi l’Alexanderplatz ha aperto le porte, il lunedì sera,
al menu firmato dal celebre trombonista.
«L’idea è in fondo semplice e nasce da una sorta di pigrizia:
fare la scaletta richiede fatica, e presentare al pubblico un repertorio quasi sterminato, comprendente brani originali composti
da me e brani classici, per un totale di ben cento composizioni
da poter scegliere sul menu, è una sorta di uovo di Colombo. In
più, ci sono i ‘piatti del giorno’. Ci ho messo dentro tutto ciò che
so fare, la scelta specifica spetta di sera in sera agli spettatori.
Una pecca è che le richieste prediligano la maggior parte delle
volte i classici, rimangono un po’ in sordina le preferenze per i
brani originali», (tra i quali i pregevoli pezzi tratti dal suo ultimo album, A Child is Born, ndr).
«In una serata quanti brani si riescono ad eseguire, quante
richieste si riescono a soddisfare? Circa 10, 12. Ebbene, talvolta ci si scontra con un pubblico che dimostra una certa mancanza di cultura jazzistica. Il punto è: se suono un classico non lo
suono diversamente da come suonerei un pezzo be-bop o funky.
Sono io. C’è la mia personalità in qualsiasi mia esecuzione
musicale, affronto i temi che mi piacciono».
Il lunedì, cadenza quindicinale, è il giorno dedicato a queste
serate. Sembra essere una scelta azzardata, come giorno della
settimana, eppure il progetto piace, permette una forte interazione tra musicisti e pubblico. Jazz «à la carte» si è rivelato un modo
nuovo di far musica che fa presa, vincente. Merito dello spirito,
della predisposizione e del modo di far jazz di Marcello Rosa.
«Chi mi conosce, mi vede sempre e ovunque. Questo perché la
voglia di ascoltare musica per scoprirla per me è fondamentale.
PRENDIAMO FIATO
Fresca e intrigante iniziativa del Saint Louis College of Music, la più intraprendente scuola di musica moderna che - mentre apre la sua quarta sede, questa volta nella città di Brindisi - dà il via al progetto Prendiamo fiato, rivolto a tutti i suonatori di tromba, trombone, sassofono, clarinetto, flauto e
bassotuba, di tutti i livelli, dai principianti ai professionisti. Da sempre attento ad offrire sbocchi
lavorativi nel tortuoso mondo musicale, il Saint Louis ha «imposto» negli ultimi due anni
sul mercato nazionale oltre 400 concerti con i migliori nuovi talenti fioriti e maturati al suo interno. L’iniziativa oggi mira a dare linfa vitale ad un vivaio di musicisti
specializzati negli strumenti a fiato, offrendo nuove e appassionanti occasioni di lavoro sia con la Saint Louis Big Band diretta da Antonio
Solimene, che si è già esibita su palchi importanti in tutta Italia, da
Atina Jazz a Villa Celimontana, sia con una nuovissima Marching
Band diretta da Michel Audisso, che sfilerà ogni mese per le vie
della capitale. Non solo: i nuovi iscritti potranno partecipare ad
altri gruppi combo e piccole orchestre con il medesimo intento lavorativo, come quello diretto da Stefano Mastruzzi che esegue e riarrangia le colonne sonore di film e telefilm che hanno accompagnato i nostri ultimi trent’anni
- e altre formazioni dirette da Massimo Pirone e
Marcello Rosa. La scuola offre a tutti i fiatisti la
possibilità di partecipare a costo zero o quasi ai propri corsi ed ensemble, cosicché i principianti possano
maturare le prime esperienze di orchestra e i musicisti già
avviati possano trovare nuovi stimoli e reali occasioni di lavoro.
Questa proposta ha tutta l’aria di voler durare nel tempo, proprio per
sostenere una categoria di strumentisti che trova mille difficoltà di
sopravvivenza per la carenze di orchestre e di iniziative a suo sostegno.
a cura di Rossella Gaudenzi
È data da un profondo
affetto che nutro per
essa, sono pronto a mettermi sempre in discussione, filtrando con
esperienze ed ascolti.
Citando Ellington, in
sintesi si potrebbe dire
che la modernità è giorno per giorno, facendo
riferimento al quel suo
concetto che afferma:
‘Noi (l’orchestra) non
lavoriamo per la posterità, va bene che la
nostra musica sia di
gradimento oggi’. Ciò
che conta è dunque essere attuale. Io vengo spesso citato come
musicista Dixieland, perché con questo stile ho iniziato, essendo,
sulle prime, apparentemente più facile. Poi però si va avanti.
Non si deve restare ancorati al passato, per me è stupido sentimentalismo».
«Io suono il Dixieland talmente bene da non suonarlo più. Non
trovo oggi la mentalità giusta per farlo. Ho vissuto sino ad oggi
e vivo grazie alla mia passione. Se nella vita non mi fossi realizzato nel suonare uno strumento, mi sarei dedicato al giornalismo
musicale, così come ho fatto per molti anni, a partire dal 1963».
«Non amo il giornalismo odierno, e proprio per questo mi piacerebbe dire la mia e fornire la mia esperienza per un giornalismo qualitativamente ed eticamente migliore. Di cose da dire ne
avrei un’infinità. Ma questa è un’altra storia».
WIN
TER
IN
JAZ
Z
Il jazz d’inverno
si accende
come legna
di un caminetto:
Umbria, Lamezia,
Piacenza e ovunque
vi sia un fuoco
RITMICA AFRO-SARDA
Quando la Sardegna dialoga con gli Usa e l’Africa, Paolo Angeli suona con Hamid Drake
D
ella tradizione della sua Sardegna Paolo Angeli, grazie al chitarrista
Giovanni Scanu, ha accolto, amato, studiato ed approfondito forme e
moduli del canto a chitarra gallurese e logudorese. Della musica contemporanea e di avanguardia è assetato da sempre: indaga e ricerca dai
tempi dell’università a Bologna con studi di composizione e improvvisazione, che lo hanno portato in giro per i più importanti festival innovativi europei.
Le due anime, quella tradizionalista e quella sperimentale, s’incontrano nella chitarra sarda preparata, strumento articolato a 18 corde - ibrido tra chitarra baritono, violoncello e batteria - dotato di martelletti,
pedaliere, eliche a passo variabile. Il risultato è musica non del tutto
definibile, sospesa tra il free jazz, il folk ed il pop minimale: tra i progetti discografici Linee di Fuga (1997), Bucato (2003) e Tessuti (2007);
tra le collaborazioni importanti quella con Antonello Salis, Pat Metheny,
FOTO DI
Fred Frith. Ci si sposta focalizzando l’attenzione sugli Usa e sulle veloci ritmiche afro-cubane ed orientali per incontrare Hamid Drake, il
musicista chiamato al Dialogo con Paolo Angeli. Batterista e percussionista dalla lunga e prestigiosa carriera, influenzato sin dalla fine degli
anni Settanta da musicisti quali Ed Blackwell e Adam Rudolph, segnato dalla collaborazione con Don Cherry in primis, e a seguire con Herbie
Hancock, Wayne Shorter e molti altri.
Dialogo: la rassegna dell’Auditorium Parco della Musica metterà
faccia a faccia il mondo musicale del giovane Paolo Angeli con i suoni
percussivi ad alte velocità del grande Hamid Drake, per un incontro che
si prospetta altamente suggestivo, ricco di interesse e spunti curiosi. In
programma il 7 febbraio.
ROBERTO CIFARELLI
ANGELI-DRAKE Il Dialogo
Tra la chitarra sarda preparata e
le percussioni afro-cubane
Rossella Gaudenzi
d’
inverno la natura si addormenta; sotto la
morbida neve riposa tranquilla in attesa
che il sole torni a brillare. La buona musica,
invece, scivola sul ghiaccio con pattini di dolci
note ed invita i suoi amanti a seguirla nelle piroette dei concerti. Il jazz si accende come legna
in un caminetto e in questa stagione presenta
ben tre festival di spessore.
Il più prestigioso è l’Umbria Jazz Winter, che
si tiene dal 30 dicembre al 4 gennaio nella splendida cornice di Orvieto. La sedicesima edizione
di questo incontro è dedicata al Brasile e alla
Bossa Nova per i suoi 50 anni, con ospiti del
livello di João Gilberto e Duduka Da Fonseca.
Questi musicisti unici hanno suonato al Teatro
Mancinelli, inaugurato nel 1886, con il suo suggestivo sipario realizzato dal Fracassini che rappresenta Belisario che libera Orvieto dai Goti.
Ci saranno anche le grandi voci gospel del The
Harlem Jubilee Singers, Stefano Bollani con
Martial Solas e Antonello Salis e l’imperdibile
Roberto Gatto Italian All Stars.
Anche il Sud ha la propria fetta di qualità. Il
Lamezia Jazz Festival sfoggia concerti di grande rispetto. Dopo Astor Piazzolla, per febbraio, il Tenor Legacy, quartetto caratterizzato
dall’incontro dei due tenori più interessanti del
panorama jazzistico italiano, Daniele
Scannapieco e Max Ionata con una sezione
ritmica formata dal contrabbassista Reuben
Rogers e dall’incredibile batterista Clarence
Penn.
La stagione invernale sarà chiusa dal
Piacenza Jazz Fest, dal 28 febbraio al 4 aprile.
La sua sesta edizione sarà dedicata al grande
Charles Mingus, scomparso a Cuernavaca il 5
gennaio del 1979.
Non solo grandi concerti: dalle consuete
masterclass, seguitissime dai musicisti in erba,
alle presentazioni di libri e progetti per le scuole con la finestra Jazz & Grande Schermo incentrata sul lavoro del regista Stanley Kubrick.
Piacenza sarà la culla del talento, affermato e
ancora da scoprire. Confermati, infatti, i concorsi Chicco Bettinardi e Note di Donna.
Si abbassano le temperature ma i motivi per
scaldarsi il cuore in questo lungo inverno non
mancano di certo.
Corinna Nicolini
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 3
J AZZ
& blues
Music In Inverno 2009
BLUES Mud Morganfield Il blues nasce quando il negro è triste, quando è lontano da casa, PINO FORASTIERE
lontano dalla madre o dall’innamorata. Allora pensa a un motivo o a un ritmo preferito e su quel Praticamente l’erede di TOLLAK OLLESTAD
Folgorazione armonica
motivo scandaglia le profondità della sua immaginazione. Questo gli fa passare la tristezza: il blues Michael Hedges
QUANDO IL NEGRO È TRISTE
Mud Morganfield passa per Roma e questo ci dà l’occasione per scrivere di blues, di New Orleans e Chicago
«Il blues nasce quando il negro è triste,
quando è lontano da casa, lontano dalla
madre o dall’innamorata. Allora pensa a un
motivo o a un ritmo preferito e prende il
trombone o il violino o il banjo o il clarino o il
tamburo, oppure canta o semplicemente si
mette a ballare. E su quel motivo scandaglia
le profondità della sua immaginazione.
Questo gli fa passare la tristezza: è il blues».
Ernest Ansermet
L’
associazione blues Chicago non perde
mai di fascino per l’immaginario collettivo, sebbene parlare di blues e dei suoi albori
sia impresa ardua, rischiosa, azzardata.
Impossibile risalire con precisione alle sue origini. Non si può prescindere dallo spaesamento
della moltitudine di neri ex-schiavi, delle loro
difficoltà di inserimento e della ricerca esasperante di superamento della condizione di esclusione dalla società americana, tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del XX secolo.
Musicalmente parlando, gli albori del blues e
conseguentemente del jazz traggono origine dai
canti di lavoro, i cosiddetti worksongs, che
hanno accompagnato per secoli le fatiche di
generazioni di africani trapiantati negli Stati
Uniti, pian piano arricchite tanto da generare
forme nuove di argomento religioso o profano
come gli spirituals, inni, litanie o ballads e blues.
Si può così affermare che il blues sia il padre
legittimo del jazz. Nel momento in cui aumentò
il numero di strumenti di derivazione europea
(per lo più ottoni) e più esattamente quando il
negro d’America divenne padrone di tali strumenti, il blues iniziava a cambiare: si era giunti
all’era del jazz, che è dunque una musica originale, sviluppatasi dal blues, concomitante con
esso, che mosse poi su una strada
autonoma.
La città di New Orleans
(Louisiana), situata sul Golfo del
Messico, rappresenta un buon
punto di partenza per risalire alle
origini del jazz: porto di mare,
dunque ottimo centro di incontro
per le varie popolazioni che vi si
avvicendarono, sede dello storico quartiere a luci rosse di
Storyville, luogo di convivenza
di creoli e neri americani.
Dall’incontro di queste differenti realtà nacque lo «stile di
New Orleans», in cui viveva una
solida tradizione bandistica di
impronta europea: i musicisti delle brass
bands suonavano ad orecchio sempre
gli stessi motivi, e quando si
stancavano di
ripetere variavano improvvisando sulle
armonie del
tema prescelto: è questo
l’inizio dell’improvvisazione, caratteristica essenziale del jazz.
Dopo l’ingresso degli Usa in guerra (1917),
con la chiusura di Storyville, i musicisti rimangono senza lavoro ed inizia l’esodo verso le
città del Nord e Nord-Ovest:
Chicago, New York, e in seguito
Kansas City.
Siamo così giunti a Chicago,
capitale dell’Illinois, che durante
gli anni Venti accolse un alto
numero di musicisti provenienti
dal Sud degli Stati Uniti: in anni
di proibizionismo, il proliferare di
locali notturni era garantito dai
gangsters e dalla malavita; il
Southside della città apre le porte
alla seconda fase del jazz.
Chicago accoglie, negli anni 20, i
migliori musicisti jazz venuti dal
Sud: sancisce gli anni d’oro del
jazz e, sull’altro versante, del
blues.
È in questo clima che riesce ad
esprimersi un artista come Muddy
Waters (1915-1983), uno dei più
grandi bluesman di tutti i tempi
nonché uno degli artisti più
influenti del XX secolo, autore
della serie di successi che definiranno il Chicago Sound.
Mud Morganfield, figlio del
grande Muddy Waters, ha seguito
con successo le orme paterne grazie ad una voce potente che fa la
differenza. Dopo aver calcato i
palchi dei più famosi locali di
Chicago e degli States e dopo
l’uscita del primo disco di puro
Chicago Blues risalente allo scorso aprile 2008, dal titolo Fall
Waters Fall, egli sta diffondendo
capillarmente la sua musica con
un tour che ha toccato Europa,
Messico e Russia. In Italia è venuto a fine gennaio, presso Stazione
Birra, accompagnato dalla band
romana Caldonians.
“FOLGORATO”
OLLESTAD
Nasce a Steward, modesto e piccolo centro
dell’Alaska, lo straordinario
armonicista e pianista dalle
origini norvegesi Tollak
Ollestad.
Sarà
però
Seattle, la Big City, ad ispirarlo artisticamente e
musicalmente, ad aprirgli le
porte del soul, dell’R&B e a
legarlo al primo idolo, Stevie Wonder. Arriverà presto la
folgorazione per l’armonica; e dopo la seconda, importante scoperta, la passione per il piano jazz, deciderà di
«esplorare il mondo» facendosi accompagnare dall’eccezionale capacità di padroneggiare i due strumenti.
Oltre a possedere la voce giusta del singer di blues and
soul. Curriculum sorprendente quello di Tollak, poiché
ha accompagnato i grandi: Michael McDonald, Earth
Wind & Fire, Natalie Cole, Andrea Bocelli, Al Jarreau e
molti altri. Il suo album solista Walk the Earth ha confermato le spiccate capacità di song writing.
Egli ama profondamente l’Italia, dove ha conosciuto
recentemente, presso l’Euro Bass Day di Verona, musicisti eccellenti quali Lello Panico, Luca Trolli e Pippo
Matino, nei confronti dei quali sono nati immediatamente una profonda stima, un forte feeling e lo stesso
modo di intendere la musica, all’insegna del soul, del
funk, del blues e del jazz. Il quartetto, di casa al Big
Mama, stavolta con Francesco Puglisi al basso, ha presentato un repertorio spaziando da brani originali a rielaborazioni di classici. Peccato chi se l’è perso, ma
tenerlo d’occhio questo sì.
Rossella Gaudenzi
PINO FORASTIERE
LUCANIA PERCHÉ NO
T
ra il Big Mama, ufficiale home of the blues romana e Pino
Forastiere c’è un legame forte e saldo, fatto di esperienza e di continuità, tale da rendere ogni suo concerto caldo e avvolgente, un vero e
proprio godimento per il suo pubblico di affezionati. Il talento lo ha reso
uno dei migliori chitarristi acustici del nostro tempo, la critica lo definisce
l’erede del grande Michael Hedges, e non è a caso molto amato negli Stati
Uniti e in Canada. Si è fatto conoscere per la dimestichezza con la chitarra a dieci corde (con la quale ha sostenuto l’esame di diploma in chitarra
classica al Conservatorio di Santa Cecilia) per imporsi poi e scavare la sua
nicchia di celebrità con la chitarra acustica.
Dopo Overcrossing (1999), Rag Tap Boom (2003) e Circolare (2005), il
2008 è stato foriero di un nuovo disco da solista, dedicato quasi interamente alla sua terra, la Lucania, dal titolo Why Not? per l’etichetta americana CandyRat Records. Il titolo è legato alla registrazione fatta nel gennaio 2008 del concerto, in prima assoluta, di chitarra elettroacustica e
orchestra d’archi presso il Teatro Palladium. L’anno nuovo gli riserva un
paio di date in Italia (in Lucania e nel Lazio) e sul finire dell’inverno salirà su un volo per gli Stati Uniti, dove lo attende una primavera densa di
appuntamenti musicali. Non va perso di vista, né va perso il suo concerto
del 25 febbraio al Big Mama. La primavera è lunga e l’America lontana.
BIG MAMA - Mercoledì 25 FEBBRAIO 2009 - ore 22:30
Vicolo San Francesco a Ripa, 18 - Tel: 065812551 - www.bigmama.it
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 4
PO
PCK
pop&rock
a cura di CORINNA NICOLINI
Music In Inverno 2009
MICOL BARSANTI
Con Jovanotti e Saturnino
ridendo al cielo
OASIS Come un mitologico Re Mida, trasformano in oro
tutti i pezzi che toccano. Poi ci coprono di gioielli
MEG Psicodelizia partenopea
MICOL UN SOLO SOGNO
I RE MIDA
Quello di fare la cantante. «Solo questo».
M
icol è come le sue canzoni, solare e
sognatrice come i suoi testi, grintosa
come il suo rock, immediata come il suo
pop. Grazie al suo talento e a qualche incontro
fortunato è uscito il suo album d’esordio prodotto dalla Soleluna Music di Lorenzo
Jovanotti. Canta l’amore Micol, amore per la
vita, amore per il mondo, amore per sé, amore
per l’altro, amore per l’amore. Non potevamo
resistere, abbiamo deciso di parlare con lei per
farci contagiare.
Com’è nata la collaborazione con Jovanotti?
Tutto è partito da Cecilia Dazzi (attrice impegnata al momento nella fiction Amiche mie, già
una dei Ragazzi del muretto, ndr). Ci conoscemmo per caso e nacque subito una bellissima amicizia. Iniziò ad ascoltare le mie canzoni e a credere molto in me. Cecilia aveva già alle spalle un
passato di autrice, aveva scritto Capelli e
Lasciarsi un giorno a Roma per Niccolò Fabi e
un giorno mi propose di scrivere qualcosa insieme. Nacque un bel pacchettino di canzoni e ci
mettemmo alla ricerca di un produttore.
Iniziammo a ricevere una serie di porte in faccia.
Poi Cecilia ebbe l’idea di contattare Jovanotti,
tramite delle amicizie in comune. Per me lui era
un mito, lo ascoltavo da sempre. Gli mandammo
una demo e lui ci rispose quasi subito dicendoci
che gli piacevamo e che ci voleva incontrare. Da
lì partì tutto.
Che cosa significa cantare sui bassi di
Saturnino?
Significa stare sul ritmo giusto, non c’è niente
da fare. Abbiamo da poco girato una puntata di
Salotto Live in un appartamento delizioso di
Milano e mi sono divertita un sacco. Con lui
cambia tutto: ti senti più artista. Forse la gavetta più formativa inizia proprio quando esci dal
sottobosco musicale e hai l’onore di lavorare
con dei fuoriclasse. Stando con loro impari per
forza.
Dopo tutte le canzoni che sono state scritte
sull’amore, come si fa a non cadere nella
banalità?
Hai ragione, è davvero difficile. Ma io sono
fatta così, sono troppo romantica e non posso
frenare l’esigenza di scrivere quello che mi scoppia dentro quando sono innamorata. Credo che
il segreto sia questo: essere spontanei, scrivere
di getto quello che si vive. Ma anche osservare
molto per cogliere le emozioni che tradiscono gli
occhi delle persone che ti passano accanto. In
Ridere al cielo dico che quando sono innamorata riesco a prendere la vita con più filosofia.
Penso che quando ti svegli la mattina, se piove o
c’è il sole non ha importanza, la giornata dipenderà da te e da come ti va di viverla. Oh, io
quando sono innamorata sono felice, riesco a
sorridere anche facendo la fila alla posta!
Cosa pensi dei nuovi circuiti attraverso i
quali è oggi possibile far conoscere la propria
musica, MySpace sopra
tutti? E dei canali tradizionali, come Sanremo?
MySpace mi ha aiutato un
sacco. Oggi puoi fare entrare
le tue canzoni nelle case della
gente senza alcun vincolo.
Forse si sono persi un po’ di
filtri: grazie ad internet oggi
la musica la possono fare un
po’ tutti. Ma poi è la risposta
della gente che conta. A
Sanremo sogno di andarci da
quando ero una bambina. Ci
ho provato già diverse volte,
l’anno scorso l’ho sfiorato.
Nonostante le delusioni continuo a tentarlo e anche se il
mio successo dovesse iniziare
da un canale diverso, non lo
snobberei mai e mi presenterei
lo stesso.
Cosa c’è sulla tua scrivania?
Un gran casino. Ma sotto
tutto il disordine non mancano
mai lo stereo, i dischi, il computer e un bel po’ di libri. Mi
piace leggere un po’di tutto. Mi piacciono i classici del ‘900 come Victor Hugo e Dostoevskij, ma
devi essere concentrata per affrontare letture
come queste e allora, quando ho voglia di
distrarmi un po’, mi butto sulle biografie. Ora ne
sto leggendo una bellissima sui Beatles scritta
da Bob Spitz. Poi adoro i libri di poesie, in questo periodo mi sto avvicinando a Pessoa. Per
quanto riguarda i dischi ne ascolto davvero di
tutti i generi. Amo Jeff Buckley ma, per esempio,
ieri sera ho ascoltato un po’ di Caterina Caselli.
E cosa c’è nel tuo cassetto?
Un sogno: quello di fare la cantante.
Solo questo.
Gli Oasis di Noel Gallagher fanno la storia della musica mondiale
tutte le volte che decidono di suonare, e dietro non guardano mai.
O almeno, non con rabbia.
ome un mitologico re Mida, Noel Gallagher ha avuto la facoltà di trasformare in
oro qualunque cosa toccasse. Sin da quando si aggiunge al gruppetto del fratellino Liam e dei suoi amici, a patto soltanto di esserne il leader, unico compositore
e chitarra solista. In poche parole: potere assoluto. Sarà stato il carisma, sarà stato l’innegabile talento, fatto sta che i quattro, Liam compreso, accettano questa condizione.
Siamo nel 1991 e gli Oasis iniziano ad esibirsi nei locali di Manchester. Tre anni dopo
si vedono già i due singoli Supersonic e Shakermaker in top 40 inglese ed è già record
di vendite inglesi per il loro album di debutto, Definitely Maybe. Da qui in poi sarà una
interminabile scalata al successo; un successo che trascende il lato prettamente musicale, che coinvolge i media, la stampa ed il gossip, rendendo i fratelli Gallagher icone di
una nuova moda che stava nascendo negli anni 90 in
Inghilterra, il brit-pop; un successo dovuto all’immagine,
alla celebrazione, ad una vita sotto i riflettori, alla
faccia tosta. Il secondo disco, (What’s the Story)
Morning Glory?, li consacra al successo mondiale e vende più di 20 milioni di copie.
Ma se non ci fossero i litigi tra i due fratelli
Gallagher non staremmo qui a parlare degli
Oasis. La loro vita sregolata attira in quegli
anni sempre più le attenzioni dei media che
arrivano addirittura a creare una vera e propria battaglia del brit-pop tra Blur e Oasis.
Una gara di vendite, tant’è che i due gruppi
per un periodo programmano le uscite dei loro
singoli negli stessi giorni. Noel Gallagher è sempre
stato consapevole della potenza mediatica dei suoi
Oasis e non si stupisce di certo quando, nel 1996, al parco di Knebworth vede 250 mila
spettatori lì per loro. Proclama: «La storia è qui, adesso, stiamo facendo la storia”. Ormai
è scoppiata l’Oasis-mania nel Regno Unito.
Brani come Wonderwall, Don’t Look Back in Anger e Champagne Supernova hanno
scaldato gli animi di milioni e milioni di persone fino ai giorni nostri, entrando di diritto nel
grande librone immaginario della storia della musica. Be Here Now (1997) raggiunge un
nuovo record di vendite nella prima settimana d’uscita e, anche se lo stesso Noel ne
decanterà in seguito i difetti, i quattro singoli D’You Know What I Mean?, Stand by Me,
All Around the World e Don’t Go Away andranno a scrivere un’altra pagina del consistente librone. Essere sempre sulla cresta dell’onda, però, inizia a creare dissapori e malumori all’interno della band e, come in tutte le favole, ogni sogno è destinato a svanire
prima o poi.
Nel 1999, durante le registrazioni di Standing on the Shoulder of Giants i fratelli
Gallagher restano soltanto col batterista Alan White. Il disco non piace alla critica e
vende poco; il nuovo tour mondiale porta all’ennesimo litigio tra i fratelli coltelli che vede
Noel abbandonare la band in pieno tour. Con vari avvicendamenti Liam diviene il nuovo
leader fino al concerto di Wembley del 2000, per il quale Noel rientra all’ovile.
Dopo la tempesta c’è sempre bisogno di un periodo di pausa, per riflettere e riordinare le cose. Le persone cambiano scalfite dal fardello del tempo e degli avvenimenti. Con
Heathen Chemistry (2002) e Don’t believe the truth (2005) si torna alle origini accantonando le sperimentazione del disco precedente. Ritornano le vendite da capogiro e i lunghissimi e affollatissimi tour mondiali.
Ora però gli Oasis sono un gruppo vero e proprio e tutti iniziano a partecipare alla stesura dei testi. Tra gli immancabili cambi di line-up i dinosauri del pop sfornano il nuovo
album Dig out your Soul (2008), che si configura come un ritorno definitivo al passato,
al sound degli anni 60 e 70 che li ha contraddistinti rievocando tutti i giganti del genere,
a partire dagli immancabili Beatles e passando per Who, Rolling Stones e Cream.
Ed ecco un nuovo tour, che toccherà anche l’Italia, per riassaporare le loro ballate
immortali, per osannarli, per rivivere ancora una volta la celebrità e la musica.
C
Gianluca Gentile
20 febbraio - PALALOTTOMATICA
a cura di Corinna Nicolini
MEG L’ORO DI NAPOLI
Uno spiritello dell’aria imprigionato da una strega, dalla teatralità brillante, la voce duttile e malleabile, l’aureo talento partenopeo
ei è l’oro di Napoli. La conturbante personalità di Meg torna ad amplificarsi nella capitale, il 30 gennaio, per un live che promette ritmo e poesia al Circolo degli Artisti di via
Casilina, cui si abbina la transartisticità del personaggio. Maria Di Donna, classe 1972, è
infatti dotata di una teatralità talmente connaturata da averle concesso incursioni nella
recitazione. Dopo l’esordio musicale con i 99 Posse, dà vita al progetto Nous insieme a Marco
Messina, con cui realizza l’album La Tempesta, colonna sonora dello spettacolo Dentro la tempesta, visionario e insolito adattamento del regista Giancarlo Cauteruccio e del suo gruppo Krypton
de La Tempesta shakespeariana, all’interno del quale Meg è Ariel, spiritello dell’aria imprigionato
dalla strega Sycorax. Le tracce la congiungono al più dirompente rock italiano degli anni 80, quello dei Litfiba, che per la stessa compagnia teatrale hanno musicato L’Eneide. Una breve incursione nel cinema è d’obbligo e Meg recita nel progetto Tree’r Us, film prodotto da Spike Lee.
Ma il suo campo è la musica. Il primo singolo solista, Simbiosi, arriva nel 2004. Segue Meg, omonimo album di debutto; canzoni intriganti su cui si incrociano melodie mediterranee e toni glaciali
ammiccanti a Björk, che diviene così cruccio e delizia del percorso intrapreso da Maria.
L’impegno politico degli esordi rimane una costante, tanto che il brano Parole Alate viene incluso nella compilation GE-2001, a sostegno finanziario del Genoa Legal Forum per i processi intentati dopo i fatti del luglio 2001 al G8 di Genova.
Lo scorso aprile l’artista napoletana realizza il suo secondo album solista, Psycodelice. La prima
hit estratta è Distante, motivetto ritmato con movenze lo-fi, che non si priva di un’introspezione di
fondo capace di fondere piglio filosofico e dance, contemporaneità sociologica e musicale.
Dietro le tracce ci sono mani sapienti, come quelle dell’amico Marco Messina; ma il produttore
L
più partecipe all’insieme è il dj Stefano Fontana
aka Stylophonic, che firma la maggior parte
dei brani.
Lo scorso novembre la meritata consacrazione del Mei, dove Psycodelice conquista il premio come miglior album
solista del 2008; mentre attraverso il
sito di Radio Deejay viene data la possibilità agli utenti di Internet di poterne
remixare un pezzo.
Un’inventiva, quella di Meg, che si
evolve ancora di più nelle sue performance dal vivo, in cui c’è spazio per
inedite versioni dei brani incisi con i
99 Posse, per canzoni melodiche
intrise di poesia e per un’idea di dance
intelligente che guarda Oltremanica. Il
tutto condito da una teatralità brillante,
una voce duttile e malleabile e un aureo
talento partenopeo.
Stefano Cuzzocrea
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 5
PO
PCK
pop&rock
Music In Inverno 2009
NEGRITA Che rumore fa la felicità Se il mondo è un
inferno dorato, nel loro c’è il lavoro nero, la politica estera, l’integralismo del Vaticano e una felicità che fa rumore
FRANCESCO GUCCINI Sorridevi e sapevi
sorridere coi tuoi vent’anni portati così come si
porta un maglione sformato su un paio di jeans
PAOLA TURCI E
GIORGIO ROSSI Lei
la voce e lui la danza
CHE RUMORE FANNO I NEGRITA
L’uomo sogna di volare, i Negrita sono già in volo tra il Sud-Africa e Roma assordati dalla felicità di un futuro possibile
he rumore fa la feliciC
tà? Con questo interrogativo tornano i Negrita
con un nuovo album, che
sembra proprio destinato al
successo. Dopo tre anni di
silenzio, la band toscana si
riappropria della scena rock
italiana ed Helldorado, dopo
una sola settimana dall’uscita, conquista il disco d’oro.
Se il mondo è un inferno
dorato, i Negrita lo raccontano con poesia, lo affrontano
con ritmo e lo vivono con
animo libero e vitale.
Alla ricerca di una bellezza offuscata, oltre le apparenze, la band aretina continua a perseguire le ispirazioni sudamericane che si ritrovano nei colori dei testi e
nella ricchezza del sound.
Registrato tra Buenos Aires
e la Toscana, Helldorado
mantiene le promesse di
L’uomo sogna di volare
(2005) sviluppandone, in
modo ancor più profondo e impegnato, tematiche e motivi. Agli esordi, negli anni Novanta,
le ripetute collaborazioni con Ligabue, dapprima negli arrangiamenti e successivamente
come gruppo di supporto, hanno contribuito a diffondere il nome della band tra il grande
pubblico. Una fama consolidata anche grazie al trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo e
alle colonne sonore dei due film Tre uomini e una gamba (1996) e Così è la Vita (1998).
Quest’ultimo permette ai Negrita di lanciare il singolo Mama Maé, anticipazione del fortunato album Reset (1999) che, con 100.000 copie vendute e un sound più elettronico, ottiene il disco di platino.
Se i punti di forza di questo gruppo sono sempre stati la ricerca ritmica e l’inconfondibile timbro
vocale di Pau, con l’ultimo album i Negrita dimostrano una evidente evoluzione e una continua
ricerca musicale sostenute non dalle mode del momento, ma da una serie di significative esperienze personali e artistiche. Nell’aprile del 2004, infatti, il gruppo da il via ad un interessante progetto internazionale: un mini-tour in Sud America in collaborazione con gli Istituti italiani di cultura
del continente. Questo viaggio ispiratore getta le basi per le sonorità di L’Uomo Sogna di Volare
(2005) e per la realizzazione del film-documentario Verso Sud (2006).
Le numerose collaborazioni con artisti sudamericani e il coinvolgimento diretto in alcuni progetti solidali comportano una definizione di stile e di tematiche nelle loro nuove produzioni. I testi di
Helldorado sono ricchi di riflessioni sul mondo contemporaneo, sulla società e sul ruolo che l’uomo ricopre in essa, rafforzate dall’utilizzo di ben cinque lingue differenti, che si mescolano nei
pezzi ampliandone il respiro. Dalla politica estera al lavoro nero, dall’integralismo islamico al
Vaticano e alla decadenza della politica italiana.
I Negrita cantano con disincanto di tutto ciò che sta sotto la superficie, di un sottobosco scomodo che non trova corrispondenze negli ideali, nei valori, o in un futuro possibile. Sono brani che
denunciano, che ricordano, che dipingono con le parole una realtà a tinte
forti. Non si tratta di semplice schieramento politico, come afferma il
gruppo, ma piuttosto di libera espressione del pensiero poiché «spesso,
per vedere le cose, devi allontanarti
da esse». Anche i ritmi si fanno più
caldi e trasversali, con un’anima
rock, tributi al sound dei Clash e ai
ritmi reggae in stile Bob Marley.
Così, la forza creativa della band
«libera, non barricadera» si concretizza nell’entusiasmo del viaggio interiore, geografico e musicale - che
riesce a contagiare l’ascoltatore.
Ottime premesse per l’Helldorado
Tour, che passerà da Roma il 27 febbraio all’Atlantico live.
Clara Galanti
VOX SANA IN CORPORE SANO
Lei la musica, lui la danza. Lei la voce, lui il
corpo. Insieme sono espressione, contaminazione. Paola Turci e Giorgio Rossi si incontrano il 22 gennaio sul prestigioso palcoscenico
dell’Auditorium dopo una tournée che ha toccato molte città italiane negli ultimi mesi.
Cielo. Concerto per un corpo sonoro e una
voce danzante è il nome dello spettacolo ed è
già una poesia. I movimenti fisici dell’uno disegnano linee su cui viaggia la musica dell’altra,
come le nuvole che spostandosi assumono
forme sempre diverse soffiate dal vento che le
trascina con sé, mentre nel Cielo, appunto, si
estende la sua eco. In questa sorta di «recital
mimato» la voce non è mai mera didascalia
della danza e i movimenti non si riducono a
VOI CON IL NASO CORTO
L’unica locomotiva che non ha mai subito ritardi è quella di Francesco Guccini
P
oi vennero gli aeroplani e le astronavi. L’uomo toccò la luna con i piedi e viaggiò da casa grazie al web. Eppure il fascino di una locomotiva, «La locomotiva», è restato invariato. I ragazzi partono ancora all’avventura con l’Inter-rail e gli universitari bruciano ancora di ideali nelle loro
esistenze pendolari e fuori sede. La storia bella e misteriosa del gesto di libertà dell’anarchico Pietro
Rigosi è ancora attuale, è troppo attuale. Questo è quello che succede quando un cantautore cattura la vita nei suoi versi e Francesco Guccini di vita ne ha raccontata molta.
Gli esordi del modenese classe ‘40 risalgono al 1967, quando la CGD gli pubblica l’album Folk beat n. 1. È un’opera
notevole, di spessore, e infatti vende pochissimo. «Appena per
pagarmi gli studi», commenta l’artista. Ma è una fortuna; che
lui studi si nota infatti dai suoi versi e dall’album L’isola non
trovata, che sfoggia canzoni come Un altro giorno è andato.
Il successo arriva nel 1972, con il disco Radici, che racchiude la già citata La locomotiva e la splendida Il vecchio e il
bambino. Sono anni magici in cui gli italiani si svegliano dal
loro torpore mediatico e vanno alla ricerca della poesia. Sono
anni in cui l’interesse comune è orientato a capire cosa sta
spaccando la nazione più di quante donne abbia Mastroianni.
Un bel risveglio dura poco. E così l’orgoglio di Modena si
appanna a favore dei miti anni novanta e i giovani lo riscoprono per caso in un suo cameo come barista-allenatore di calcio
nel film Radio Freccia di Ligabue.
Il 23 gennaio al Palalottomatica un buon motivo per alzarci dal nostro comodo letto mentre la
nazione, o forse il mondo intero, ricominciano a scricchiolare. Un’opportunità per ascoltare chi da
più di quarant’anni ci ricorda che in mezzo alle orecchie c’è una testa pensante.
Corinna Nicolini
semplice illustrazione della parola cantata. Quello che arriva al
pubblico è un mix equilibrato di arte e sentimento. Il repertorio è
quello dei due artisti. Le canzoni di Paola Turci sono quelle a cui
siamo affezionati ormai da tempo, fin da quando, solo una ragazzina, chitarra a tracolla, si mostrava seria e professionale sul
palco dell’Ariston, ormai venti anni fa.
Pezzi come Sarà bellissima, È questione di sguardi, Volo così si
uniscono alla danza di Giorgio Rossi, uno dei più talentuosi coreografi italiani. Già ballerino della Fenice di Venezia e uno dei fondatori della scuola di danza Sosta Palmizi, con la sua arte sta girando il mondo.
Il ricavato dello spettacolo sta aiutando l’Ucodep, un’associazione onlus che opera, tra l’altro, in favore dei bambini del Vietnam.
Perché per chi vive di arte staccare a volte i piedi da terra è
un’esigenza.
Corinna Nicolini
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 6
ALT
ER
NATIVE
a cura di VALENTINA GIOSA
Music In Inverno 2009
ADAM GNUDE Scrittore e cantante. Se dovesse scegliere tra
EVANGELISTA La voce s’insedia, gli
un foglio bianco e una chitarra, non sceglierebbe nessuno dei due: GIANT SAND strumenti rispondono come personaggi di
farebbe il contadino nel Kansas e sarebbe perfettamente felice.
Stato d’animo
uno scenario gotico-nichilista-espressionista
FAI CHE NON TI PRENDA LA PAURA
Il suo nuovo libro uscirà dopo l’Apocalisse e dopo la caduta delle infrastrutture tecnologiche
ato a San Diego, California, Adam
Gnade vive a Portland, nello Stato
americano dell’Oregon. La particolarità di Adam è la forte e imprescindibile connessione fra i suoi romanzi e i suoi dischi che
condividono temi e personaggi, come se i libri
continuassero e arricchissero un discorso
lasciato aperto dalle canzoni. Realizzato nell’autunno del 2008, Hymn California è il suo
primo romanzo. The Darkness to the West
(Punch Drunk Press) e il cd Trailerparks (Try
Harder Records) sono invece le sue ultime realizzazioni. Uno scrittore dal talento innato, in
bilico fra la beat generation e i film di
Cassavetes e pure un musicista che si rifà al
meglio dei folksinger americani. I suoi libri
sono momentaneamente disponibili solo in lingua originale.
N
hat I want to say in Trailerparks is
don’t let fear take you. Be mighty
and live as hard and long as you can. It [the
record] begins very dark but I hope people
can see the light at the end». (Adam Gnade)
«W
Quando hai cominciato a scrivere Hymn
California?
Non ne ho idea. Ho impiegato più o meno due
anni a scrivere il libro ma poi è passato del
tempo prima che venisse pubblicato. Realizzare
il disco è stato più veloce, i libri invece procedono lentamente. Ho appena finito un nuovo
romanzo, probabilmente uscirà fra qualche
anno, forse nel 2023, forse più tardi. Dopo
l’Apocalisse. Dopo la caduta delle infrastrutture
tecnologiche.
Parlando dei tuoi lavori dici: «I libri e i
dischi sono la stessa cosa». Cosa intendi
esattamente?
I libri e i dischi condividono lo stesso cast di
personaggi e fanno da filo conduttore l’uno per
l’altro. Tutto fa parte di una storia unica che io
chiamo «We Live Nowhere and Know No One»
(«Viviamo dovunque e non
conosciamo nessuno»). La storia si estende con un romanzo,
due romanzi e una serie di
dischi. Sarà il film della mia
vita fino a quando morirò.
Ci tieni sempre a specificare
che i tuoi libri non sono poesia o «spoken word» ma
parli di «talking songs».
Perché?
I libri e i dischi non sono poesia perché danno vita ad una
prosa e i dischi sono «talking
songs». Credo che si sia diffusa
la voce fra gli addetti stampa
che non mi piaccia la poesia, e
probabilmente un po’ è colpa
mia. Tanto per chiarire: non
scrivo poesie ma ci sono tanti
poeti che mi piacciono, come
Han Shan’s (scrittore cinese del
IX secolo) o Andrew Mears fra
i contemporanei. Dopo il tour
abbiamo realizzato una lettura
insieme alla Oxford University. Andrew canta
negli Youthmovies. Riguardo alla «spoken
word»... odio quella roba. Le mie canzoni sono
parlate ma il mio non è qualcosa di molto diverso dal cantare. Ci sono ritornelli e strofe e
durante la performance mi accompagno suonando. Le canzoni non devono necessariamente
avere una maniera standard per essere tali.
Guarda per esempio la musica classica, l’hip
hop, il deathmetal, l’hardcore.
Le stagioni sono come personaggi in Hymn
California. Cosa sono le stagioni per te?
Crescere a sud della California significa non
sapere cosa sono le stagioni. C’è solo una grande stagione che varia quasi impercettibilmente.
Così quando finalmente sono andato via da lì,
vedere e avvertire il cambio di stagione è stato
incredibile. Mi girava la testa ogni volta.
Qual’è la tua stagione preferita?
In estate ti direi l’inverno. In inverno ti direi
l’estate.
Sta per uscire «Trailerparks», il tuo primo
disco dopo «Honey Slides». Lo hai paragonato ai film di John Cassavetes, perché?
In realtà non credo ci siano molte connessioni, a
parte la «fiducia nella spontaneità» di
Cassavetes. Di solito passo molto tempo a scrivere le liriche ma Trailerparks è stato quasi del
tutto scritto di getto. Ho bisogno dell’«anima del
momento». Tutti dovrebbero vedere «A Woman
Under the Influence». La pura realtà. Il mio
nuovo romanzo «The Darkness to the West» si
rifà molto a questo film. Davvero molto. Sì,
Cassavetes... colui che ti cambierà la vita.
A parte Cassavetes c’è qualche artista che
senti molto vicino a te?
Adoro i Neutral Milk Hotel. Non credo che i miei
dischi suonino come i loro ma sono senza dubbio
il mio spirito guida.
Da cosa o chi prendi ispirazione?
Dalla gente che non si preoccupa troppo dei
soldi. Dalle cassette di musica country che la
mia grande nonna registrava dalla radio di
Denver decenni fa, qualsiasi buona e vecchia
musica country. E dalle barche.
Se dovessi scegliere fra un foglio bianco o
una chitarra?
Se dovessi scegliere, non sceglierei nessuno dei
due. Non posso fare una cosa senza l’altra. È
una relazione simbiotica. Forse farei il contadino nel Kansas e sarei perfettamente felice.
HELLO
EVANGELISTA
Carla Bozulich torna
ma oggi è un’Evangelista
ex cantante dei Geraldine Fibbers
e fondatrice degli Ethyl Meatplow,
gruppo industrial di Los Angeles, Carla
Bouzulich, ha da poco pubblicato Hello
Voyager (Constellation, 2008), uscito
sotto il nome di Evangelista. Potremmo
considerarlo tanto un debutto quanto
un ulteriore affascinante album solista
della Bozulich che la riconferma musicista in continuo rinnovamento e sperimentazione senza mai cadere nell’incoerenza.
Newyorkese, classe 1965, Carla
Bozulich cresce nel Greenwich Village
e si trasferisce a San Pedro, in
California. A 13 anni lascia i genitori e
inizia a vagabondare dividendosi tra
musica ed eccessi. La sua prima apparizione discografica risale al 1982, su
Zurich 1916 di Gary Kail. Registra i
primi brani in studio con gruppi come
Neon Veins e Invisible Chains.
Ma la vita della Bozulich non è molto
semplice: a vent’anni si procura i soldi
per l’eroina facendo la prostituta. Ma
ecco che arriva un ragazzo, se ne innamora e la salva da quell’inferno portandola in un centro di riabilitazione e
regalandole le sinfonie di Mahler.
Cantante, chitarrista, performer e
videomaker, Carla Bozulich inizia così
la sua carriera con gli Ethyl Meatplow
ma con il tempo collaborerà con diversi artisti come Mike Watt, Hadda
Brooks, Lydia Lunch, Thurston Moore,
Christian Marclay, Okyyung Lee, Carla
Kihlstedt, Wayne Kramer, Wilco e dal
2000 comincerà la sua carriera da
solista.
L’
a cura di Valentina Giosa
TRAVOLGENTE STATO D’ANIMO CANGIANTE
I Giant Sand hanno il sapore di una tempesta di calda polvere del deserto che ti viene tutta in faccia e te la ritrovi in bocca
di Gianluca Gentile
G
iant Sand è uno stato d’animo, come ama affermare il leader
Howe Gelb. È uno stato d’animo che ha subito un continuo e
perenne cambiamento nell’arco degli ultimi
vent’anni,
proponendosi
come una delle realtà più
salde e nello stesso tempo
sottovalutate del panorama
indie. Gelb arriva dall’arida
e deserta Tucson, Arizona.
Inizia ad avvicinarsi alla
musica con in bocca il sapore aspro della polvere del
deserto e la terra che scotta
sotto i piedi. Rumina classici
del blues e del country dalla
fine degli anni 70 e inizio 80,
quando in America spopola
il post-punk.
Nascono così, fortemente
influenzati da David Byrne e
soci,
i
suoi
Giant
Sandworms, nome che
richiama i terrificanti vermi
di Dune, pellicola di fantascienza girata da David
Lynch. I continui cambi di formazione (la line up è diversa all’uscita di
ogni disco) procedono di pari passo con le evoluzioni del sound e gli
umori di Gelb.
Nel 1985 esce il primo disco a nome Giant Sand, Valley of Rain. Sono
già evidenti le influenze che caratterizzeranno la loro musica fino ai giorni nostri: le tradizionali ballate country americane riprese da Neil Young
e Gram Parsons, le sperimentazioni jazzistiche di Thelonious Monk in
primis, il rock n’ roll dei Velvet Underground ma anche Bob Dylan e Roy
Orbison. Del combo Giant
Sand costituiranno la sezione ritmica per lungo tempo
due dei personaggi più
influenti della scena di
Tucson, John Convertino
(batteria) e Joey Burns
(basso), i quali andranno, in
seguito, a formare i
Calexico. Ospiti del calibro
di Victoria Williams, Neko
Case, Juliana Hatfield, PJ
Harvey, Vic Chesnutt, Steve
Wynn, Vicki Peterson e
Rainer Ptacek hanno impreziosito nel tempo le composizioni di Gelb che, ai dischi
dei Giant Sand, alterna
anche i propri lavori solisti.
Nel 2002 i Giant Sand si
reincarnano in una nuova
band di musicisti danesi che,
dopo It’s all over the Map
(2004) tornano con un
nuovo disco, Provisions. Un’opera tetra e pensata con cura che sa unire
allo stesso tempo le suggestioni di Nick Cave, Lou Reed, Tom Waits,
Leonard Cohen e Johnny Cash. Sullo sfondo il solito country-blues, quello che arriva da terre lontane e desolate, in grado di travolgerti come una
tempesta di calda polvere del deserto. Del resto Giant Sand è un sapore
che si può riconoscere soltanto assaggiandolo.
Una vita di eccessi, di droga e prostituzione quella della Bozulich, ma di
un’artista intensa, che riesce a comunicare come pochi direttamente con
l’anima. Impossibile non restare immediatamente colpiti dalla sua voce che
può facilmente riportarci a Lydia
Lunch, Diamanda Galas, Nico o Nick
Cave non solo per il timbro grave e sofferto ma anche per l’ approccio «teatrale» e provocatorio con cui la musicista americana costruisce i suoi labirinti sonori glaciali e ossessivi.
Ma il mondo dell’ ex Geraldine
Fibbers è qualcosa di più, qualcosa di
molto più vicino alla performance art
che alla pura musica. La voce si insedia a volte sussurrata, altre urlata, gli
strumenti rispondono e interagiscono
tra loro come personaggi di uno scenario gotico-nichilista-espressionista
ed ecco che si rimane intrappolati in
un autentico capolavoro estetico.
La necessità espressiva e il bisogno
di supporto da parte di una backing
band che mancava negli album precedenti, ha preso forma proprio in Hello
Voyager.
Il nuovo album include infatti contributi di oltre una dozzina di musicisti
canadesi, fra cui alcuni componenti di
Thee Silver Mt. Zion (archi), Nadia
Moss (organo) e un gruppo di batteristi locali che ha guidato il disco con
grande maestria da Smooth Jazz fino
alla title track conclusiva.
Valentina Giosa
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 7
ALT
ER
NATIVE
Music In Inverno 2009
EUROSONIC Ci rappresentano in Olanda i Mojomatics, i
Baustelle e Jennifer Gentle
OLTRE OGNI SENSO Daniele Stefani e
Sarah Maestri Cantano per i sordi. In LIS
IL GENIO Pop Porno Se ti prendi sul serio allora devi
afferrarti per il collo e sbatterti il cranio sullo stipite di
un adito su cui vi sia scritto: benvenuti i minchioni.
ELLIOT SMITH
CENERI GRUNGE
di Lorenzo Bertini
La sua musica ha la sostanza delle nuvole in volo, la limpidezza dei cieli invernali, la fragilità delle foglie in autunno. Sospesa tra Beatles e Cobain, aleggia su
Paranoid Park, tra i campus scolastici e le piste da skate della periferia di Portland.
Echo Park, Los Angeles, è invece dove l’hanno trovato morto, il 23 ottobre 2003, a
34 anni, in circostanze più che misteriose, sbrigativamente affidate a ipotesi di suicidio, dato lo spleen malinconico-depressivo. Sono trascorsi cinque anni dalla morte di
Elliott Smith, cinque anni in cui la memoria ha fatto il suo corso, proiettandolo nell’empireo maudit, seduto fianco a fianco dei fratelli maggiori, Kurt Cobain e Jeff
Buckley.
Nato dalle ceneri del grunge, Elliott Smith ne raccoglie gli acuminati frammenti
sparsi lungo la strada che da Seattle va a Portland, riassemblando ad arte le increspature vocali di Cobain e il sound minimale dei Fugazi. Minimalismo e attitudine
«nerd» sono le coordinate dei primi due album, Roman Candle (1994) e Elliott Smith
(1995), con partizioni per voce e chitarra acustica, tematiche «addicted» e ballate
terse e vetrose (Condor Ave, The White Lady Loves You More, Needle in the Hay) che
lo collocano idealmente tra Nick Drake e Simon and Garfunkel, mentre virate elettriche e composizioni più sofisticate appaiono a partire dal seguente Either/Or (1997).
Per le strade di Portland gira in quel periodo anche Gus Van Sant, che lo adocchia per
la colonna sonora di Will Hunting. Per Van Sant prepara Miss Misery, con cui calcherà i
palchi degli Academy Awards e degli Oscar ‘98, accanto alla Celine Dion appena fresca di Titanic («È stato divertente camminare sulla luna, almeno per un giorno», dirà poi). Lo adocchiano anche le major, e Elliot Smith passa alla Dreamworks Record.
Nel ‘98 esce XO, con evidenti tributi a Beatles e Beach Boys nell’arrangiamento barocco dei brani, seguito a due anni di distanza da Figure 8, il suo lavoro forse più bello.
Psichedelia fredda, canzoni sussurrate e fiabesche, su tutte l’ipnotico piano di Everything Means Nothing to Me. Si rincorrono le incursioni nel cinema (Needle in the Hay per I Tenenbaum, la cover della beatlesiana Because per American
Beauty), come anche le voci di dipendenze e tentati suicidi, fino all’epilogo californiano, giusto in tempo per lasciarci ancora un pugno di canzoni, raccolte poi postume in From a Basement on a Hill, lunari frammenti disseminati lungo la strada
che da Portland va alla città degli angeli.
L’ITALIA IN OLANDA
S
ono i Mojomatics, la band italiana scelta dall’Italia Wave Love Festival per rappresentare l’Italia
a Eurosonic, festival di musiche europee di Groningen (Olanda) finanziato dalla Comunità
Europea conclusosi il 17 gennaio. The Mojomatics si sono già esibiti lo scorso luglio sullo Psycho
Stage di Italia Wave 2008, a Livorno, approdando poi ad agosto in Sud Africa per un tour di 5 date
organizzato dalla fondazione Arezzo Wave Italia.
Formatosi nel 2003, il duo veneto si è imposto all’attenzione del pubblico europeo dopo soli due anni
di attività, grazie all’album d’esordio A Sweet Mama Gonna Hoodoo Me pubblicato dalla label tedesca
Alien Snatch. La conferma è arrivata nel marzo 2008 con l’uscita di Don’t Pretend That You Know Me,
disco prodotto dalla Ghost Records, presentato con un tour europeo e uscito poi in Usa il 23 settembre.
La band esce protagonista dalla tre-giorni olandese del Noorderslag Weekend, tra gli eventi musicali
europei più importanti degli ultimi tempi. La manifestazione è divisa in due sezioni: Noorderslag Seminar,
la conferenza europea dell’industria discografica per la
musica dal vivo, ed Eurosonic, festival in cui si esibiscono i nuovi talenti europei proposti dai festival di
Yourope e dalle radio pubbliche d’Europa associate in
EBU (European Broadcast Union).
Sullo stesso palco del Deubeurs, Frank Turner
(Gran Bretagna), The Moood (Romania) and The
Kilians (Germania) in una serata sponsorizzata dal
magazine tedesco Visions. L’Italia è stata rappresentata
ad Eurosonic anche dai Baustelle e dai Jennifer
Gentle. Una grande vetrina per la band, se si pensa che
proprio ad Eurosonic anni fa sono stati lanciati i Franz
Ferdinand e l’ennesima conferma per la «fAwi» Fondazione Arezzo Wave che continua a distinguersi
per le numerose iniziative volte a valorizzazione la
musica italiana all’estero. (Valentina Giosa)
IN SORDINA
Daniele Stefani è il protagonista di una singolare iniziativa:
per la prima volta in Italia la traduzione di un intero album - il
tour e il video - in LIS, la lingua
italiana dei segni, che, in un’atmosfera intima e personale, avvicina alla musica le persone con
deficit acustico che utilizzano i
segni per parlare e gli occhi per
sentire. Stefani distribuisce palloncini gonfiati ad aria che permettono di sentire attraverso sensazioni tattili le vibrazioni della
musica.
Oltre ogni senso è il primo singolo estratto dal nuovo album
dell’artista milanese che ha condiviso il proprio palco con le
ragazze sorde dell’Afae di
Catania, interpreti in LIS dei
brani dell’album Punto di partenza
della Cama Records. Oggi esce,
con Sarah Maestri, il duetto
Niente di speciale. Non c’è peggior
sordo di chi non vuol sentire.
Romina Ciuffa
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
P O P IL GENIO P O R N O
Perché Pop e Porno sono parole riconosciute a livello internazionale.
(...)
Con la loro Pop Porno hanno sbancato:
il testo accattivante e la melodia di
immediata percezione rimandano ad illustri
ricordi, da Je T’Aime di Serge Gainsbourg a You
Really Got Me dei Kinks; da Satisfaction degli
Stones a Fade to Grey dei Visage. Eccoli.
MEI: LA SVOLTA DEL PICCOLO
Il
Meeting delle Etichette Indipendenti,
giunto alla dodicesima edizione,
si conferma come l’unico festival
delle produzioni musicali e culturali indipendenti in Italia. Questa
volta incontri dedicati ai nuovi
modelli di distribuzione digitale
della musica, ascolto guidato al
nuovo album di Niccolò Fabi
e la presentazione del libro di
Morgan intitolato In pArte
Morgan; quindi, esibizioni,
quelle
di
Bandabardò,
Daniele Silvestri, Tricarico.
Con oltre 30 mila presenze nei tre
giorni, 300 espositori, 400 concerti, 250 videoclip
in concorso per il PIVI (Premio Italiano Videoclip
Indipendenti), convegni e workshop, la presenza
di centinaia di operatori del settore, artisti, festival e fiere dall’estero e un ritorno economico
valutato intorno ai 3 milioni di euro, il Mei è un
forte punto di riferimento per la piccola discografia indipendente che sembra aver conquistato
un posto d’onore all’interno del complicato e
intricato panorama musicale. Le novità più interessanti degli ultimi anni sono venute fuori proprio dal mercato indipendente: sono i Baustelle,
gli Afterhours, Caparezza, Elisa.
Non più allora l’onnipotenza delle major ma
un mercato creativo e propositivo che dalla piccola discografia esce fuori a testa alta mostrando enormi potenzialità. «Nel 1997, la prima
volta - afferma Giordano Sangiorgi, mente
del Mei - si contavano appena una
trentina di espositori e una dozzina
di band e sbrigammo tutto in un
giorno solo. Ormai è una realtà
troppo grande, un intervento
delle istituzioni è necessario a
trasformarci nella vetrina della
nuova canzone italiana a integrazione del Festival di Sanremo. Così
potrebbe nascere una piattaforma di tutta
la musica italiana».
Grande la svolta di una sincera e seria possibilità di cooperazione fra piccola e grande
impresa: «Invito le etichette presenti al Mei
ad inviare materiale: quest’anno Sanremo
offre una grande opportunità agli indipendenti, una categoria la cui selezione avverrà su
internet, che potrebbe svilupparsi moltissimo
nei prossimi anni», afferma Gianmarco
Mazzi, uno dei direttori artistici del Festival
di Sanremo 2009.
Valentina Giosa
a cura di EUGENIO VICEDOMINI
Come e quando è nato il progetto «Il
Genio»?
Non è un progetto. Nasce nell’immediato,
senza alcuna preparazione. Nell’immediato dei
primi mesi del 2007.
Qual è il vostro background musicale?
Studiodavoli, musica classica, un corso di
bandoneon per Gianluca.
Tanta musica pop, anche giapponese e il
basso per Alessandra.
Come sono nati i brani e che metodo di lavoro avete adottato: lavoro comune o anche
lavoro remoto?
Dipende dai brani. Alcuni sono frutto di un
lavoro comune, altri solo in parte, altri ancora
sono più personali. Ma la composizione di questo disco è filata liscia come l’olio, trascinata
dal divertissement e dalla spensieratezza.
Quali sono i vostri principali gusti musicali?
Siamo di palato buono. Troppa roba per poter
dire tutto: dalla classica al punk.
Il vostro disco d’esordio nasce in un’epoca in
cui la deregolamentazione del download
spinge ad ascolti superficiali ed abusi frammentati di mp3 sparsi a centinaia tra PC,
iPod e chiavette USB. Contrariamente a questa tendenza, il disco è un’opera compiuta e
segue la più bella delle tradizioni dei dischi
di musica rock: un collage composto da deliziose canzoni su cui spicca una intrigante hit
single di rara potenza, Pop Porno.
Pensate che, in altri tempi, Pop Porno sarebbe stato un 45 giri di sicuro successo?
Probabilmente. Ma avrebbe subito la cesura
della censura. Oggi, invece, risulta anche fin
troppo pudico, e nessuno storce il naso.
Tranne quelli, ovviamente, a cui la canzone
non garba per nulla.
Il Genio non è solo Pop Porno: nel disco si
avvertono influenze electro-pop mescolate a
suggestioni retrò del periodo fine Cinquanta
inizio Sessanta, in una linea ideologica che da
Parigi arriva fino a Tokyo. In particolare, si
respira la spensieratezza dei film francesi ed
inglesi dell’era «swinging London» e l’ironia
delle sigle dei cartoon giapponesi: questa
serena attitudine a non prendere le cose troppo sul serio è anche lo spirito con cui state
vivendo il vostro attuale successo?
Se ti prendi sul serio allora devi afferrarti per
il collo e sbatterti il cranio sullo stipite di un
adito su cui vi sia scritto: benvenuti i minchioni.
Siete passati da poco tempo dalla Cramps
Music ad una major come la Universal. «Il
Genio» sembra un disco adatto ad un mercato di stampo nord-europeo: c’è già una strategia della vostra casa di produzione per proiettarvi in una dimensione internazionale?
Sicuramente il singolo sarà inciso anche
all’estero. Pop porno è internazionale, così
come i genitali sono oggetti di comune uso in
tutto il pianeta.
Credo che anche per quanto riguarda il live si
andrà presto al di là delle nostre Alpi.
State pensando già a dare un seguito al
vostro disco d’esordio: se sì, che tipo di suggestioni avrà il nuovo album?
Ci stiamo pensando e ci sono già delle cosine.
Ma sulle suggestioni non sapremmo proprio
darti ragguaglio, non ci siamo ancora lasciati
suggestionare dai nuovi pezzi.
Pensate di tornare a Roma con una band al
completo?
Torneremo senz’altro, Roma è una città che è
poco chiamare meravigliosa. E torneremo con la
band, visto che tra un pò cominceremo a provare con due altri ragazzi.
Infine, concedete anche a me la classica
domanda del «bravo presentatore»: i cinque
dischi da portare in un’isola deserta?
Antology dei Beatles: non è in 5 volumi?
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 8
MUSICALL
a cura di NICOLA CIRILLO
Music In Inverno 2009
SESSANTOTTO Il Musical È questo l’unico vero HAIR I capelloni POVERI MA BELLI NOTREDAME DE
musical, è questo l’unico vero ‘68. Ed è dove Freud del ‘68 e i freak del Un’isola (tiberina) PARIS La storia del
cerca sicurezze in un atto mancato di ribellione.
nuovo millennio
Gobbo raccontata da lui
dei famosi
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
(...)
di ROMINA CIUFFA
QUI SUCCEDE UN
Su una bandiera
multicolore un hippie aveva disegnato speranze
e ucciso John Lennon. Come
quando da un incubo ci si sveglia e si sa che tornerà - freudianamente camuffato in lapsus, in
atto mancato, in un’altra metafora dell’inconscio - così il Sessantotto torna, nelle nostre
delusioni, nella solitudine e nel dolore caroselli
dei nostri mattini, nell’amare Obama, nel maestro unico, nel fumare e nello smettere di fumare, nell’essere precari. E in un musical, ma non
uno qualunque.
C’è chi pensa che in Italia la qualità si ritrovi
solo nelle grandi produzioni. Ma io ho visto
Freud seduto a guardare il Sessantotto del Saint
Louis College of Music e battere il tempo con
la testa, come un tic. Perché è questo l’unico,
vero musical che è oggi in scena e che vale la
pena di vedere, un musical in cui i cantanti diversamente che negli altri - sanno cantare,
muoversi, comunicare. Questo «Sessantotto» nasce al termine del
corso di musical «Andiamo in scena», ideato e diretto da Maria
Grazia Fontana che - con Attilio Fontana, Franco Ventura, Michela
Andreozzi ed il regista Giulio Costa - ha scritto, durante il corso e non
prima, i testi del musical. Accanto a loro, il coreografo Orazio Caiti,
lo scenografo Davide Orlandi Dormino, l’aiuto regia e coreografia
Anna Gargiulo e la costumista Laura Distefano. Ma non è per loro che
Freud continua a battere le ciglia nevroticamente.
È per il Sessantotto che vede negli occhi di 22 sognatori che non
erano nemmeno nati quando le madri ruzzolavano per i prati con i
padri e le zampe d’elefante. Un anno di intensa preparazione in tutti
gli ambiti dello spettacolo (canto, recitazione, coreografia, regia,
backside, storia del musical) è servito a questo cast di giovani artisti
per salire, assieme a una vera band, sul palcoscenico, oggi quello del
Teatro Furio Camillo (dal 17 gennaio al primo febbraio), domani
a
gli altri della tournée. Il
musical nasce proprio con
loro: il soggetto, infatti, è
stato scelto durante il
corso e non fa parte di un progetto preesistente. Per questo c’è qualcosa, qui, che contiene il germe del talento ma anche quello di
un’intuizione.
Innazitutto, le voci. Guardi i protagonisti e
pensi che non li vedresti mai sul palco del
Sistina: non sono parenti di nessuno e li confondi con studenti della Facoltà di
Psicologia. Poi aprono bocca e Freud sussulta: primo tic (ecco, entra dritto al cuore).
Davanti al protagonista - un silenzioso
«Johnny» che rappresenta il rock, la confusione, il non schieramento - e la sua chitarra
(per tutto il musical suonerà e basta, dal vivo,
accompagnando i pezzi), inizia un carosello:
«guarda com’è bello, guarda il Carosello
mentre tuo fratello muore in piazza, Johnny
perde sangue, il padre sta in mutande...».
Le voci, ognuna di esse meriteremmo di ascoltarla per radio tutti
i giorni, perché siamo fatti d’orecchie e di cuore e questi ragazzi ci
sanno fare con entrambi. Sanno di incomprensione, rivoluzione,
amore libero e qualche speranza, «e il pane è questa musica: i fiori
nei cannoni, le donne le scambiamo», Mao Tse Tung e il Che
Guevara, Gesù e gli Intillimani, autostop e yoga, «lentamente squaglia-accendi-scappa-o-prendi ma non dirle di no».
Freud ora i tic ce li ha tutti, perché il Sessantotto è proprio risalito a galla con una constatazione che non va via: «Sei solo un
muro di incertezze che non romperai, sei solo i passi su un pianeta che non cambia mai». Quanti atti mancati per un sogno che non
si avvererà, pensa. Dice «tormenti», ma voleva dire «complimenti», poi si alza e, scosso, esce dalla sala. Bravi, ma voleva dire bravissimi.
PO VERI MA ...
CAPELLONI
distanza di 40 anni dalla
prima rappresentazione a
Broadway, torna nei teatri
italiani «Hair», uno dei musical più innovativi e di successo della
storia della musica. È la storia di un
gruppo di hippies capelloni, che vivono nella magica era dell’Aquario.
Nella loro esistenza, che ruota tra la
rivoluzione sessuale e la nascita del
movimento pacifista, Claude, il protagonista, deve scegliere se rigettare
gli obblighi di leva (come hanno fatto
i suoi amici) o partire per il Vietnam.
La nuova versione del musical, interamente di produzione italiana, presenta elementi di eccellenza e alcuni
punti deboli. Eccelle, ad esempio, la
direzione musicale di Elisa, che pur
preservando le melodie, ha lavorato
sugli arrangiamenti per dare ai brani
suoni più moderni e credibili. È particolarmente efficace anche l’interpretazione di
alcuni attori - tra tutti il protagonista Gianluca
Merolli (Claude), fisicamente ineccepibile e affidabile vocalmente, e Kate Kelly (Crissy), che
potendo concentrasi su una sola canzone da solista (Frank Mills) riesce a restituire in pochi minuti tutta la delicata sensibilità del personaggio. C’è
anche il bravo Attilio Fontana qui.
Eppure, nonostante la colonna
sonora accattivante e trovate intelligenti, il musical non riesce a trasmettere la carica emotiva che è alla base
dell’opera: le incursioni nella contemporaneità, dal punto di vista della
regia, sono molto limitate (e non si
capisce il perché, se si è scelto di
attualizzare la maglia musicale, non
si sia lavorato anche sul senso di trasgressione che nel tempo, ovviamente, si modifica). Anche la scenografia
dinamica, costituita da mega schermi
elettronici, sortisce un effetto «televisivo», e non aiuta a catapultarsi nel
magico mondo della comunità freak.
Così, mentre la tribù di Hair viveva nel cuore della città e pulsava sentimenti di pace, fratellanza e anarchia
nelle vene della società, la rappresentazione che ne fa quest’edizione del
musical è piuttosto favolistica e inefficace.
Persino la scelta di esporre delle nudità viene
autocensurata dal regista (Saverio Marconi) con
un gioco di luci. Una rivoluzione per un pubblico
da salotto. Un ’68 ben temperato.
Nicola Cirillo
a
ndiamo a teatro a vedere Roma perché
a noi romani ‘ce piace’. Perché vogliamo scappare dall’Italia di oggi e tornare
a 50 anni fa, illuderci, essere poveri ma
belli. Era Dino Risi, erano Maurizio Arena e
Renato Salvatori, e poi erano Marisa Allasio,
Lorella De Luca e Alessandra
Panaro, tutti a contrariare i marxisti. Neorealismo rosa del
1956 e una società povera e
immatura, nutrita da paure
ingiustificate e sentimentalismi
romantici.
Ma non c’è scampo: oggi ci
sono reality e cantanti che
fanno i registi, tutto in un calderone. Da una parte, la trasposizione in musical che ne fa il
Teatro Sistina abbandona l’atmosfera incantata degli anni
Cinquanta per restituirci una
Roma più attuale, per ciò semplificando i caratteri dei personaggi. Dall’altra, l’atteso livello dei protagonisti (Antonello Angiolillo, Michele Canfora e
Bianca Guaccero) non frena una disillusione:
innanzitutto, l’allestimento sbagliato, che di
Roma antica non ha nulla. Minimizza lo scenografo Marco Calzavara che se la cava con una
L’AMORE È COME UN ALBERO
Spunta da sé, getta profondamente le radici in tutto il nostro essere, e continua a verdeggiare anche sopra un cuore in rovina.
oon. Doon. Doon.
Questo suono assordante è il mio lavoro; Notre Dame,
con le sue campane, la mia
casa. Sono qui grazie al mio
padrone, Frollo, che mi ha
raccolto dalla strada, quando
i miei genitori mi hanno
abbandonato perché sono un
mostro. La mia bruttezza
spaventerebbe anche te, se
potessi vedermi. Ma non mi
vedrai perché me ne sto qui,
solo, vicino ad Esmeralda;
lascio cadere le mie lacrime
sui suoi occhi per farla, ai
miei, sembrare viva.
Era bella il giorno che è
arrivata: danzava per le vie di Parigi con gli altri
gitani. Anche il mio padrone subiva il suo fascino. Lui era un arcidiacono, non poteva manifestare i suoi sentimenti. Fu per questo che decise di
rapirla, chiedendo aiuto proprio a me, che già
D
l’amavo.
Il
nostro
colpo
venne sventato
dal
capitano
delle guardie di
Parigi, Phoebus
e fui condannato
alla fustigazione. Esmeralda
mi
avrebbe
odiato e avrebbe
amato il suo salvatore.
E invece no.
Lei mi diede da
bere, mi consolò: ora capivo
perché Dio mi
aveva lasciato
nascere, anche se in un corpo così deforme. Per
amare è sufficiente un cuore e per vivere è sufficiente amare. E lei amava Phoebus, perciò Frollo
tentò di ucciderlo. Per amore. Credimi.
Ma le facemmo del male. Tutti pensarono che
fosse stata lei a pugnalarlo, la credettero una strega condannandola all’impiccagione. Folli.
La rapii e le offrii diritto d’asilo alla cattedrale,
ma una folla in delirio ai piedi della cattedrale
chiedeva la sua esecuzione. Frollo, ormai privo di
senno per quell’amore non corrisposto, la consegnò a quella gente e in preda ad un piacere sadico assistette all’esecuzione. Non potevo accettarlo. Non sai cosa significa amare fino a lacerarsi:
lo uccisi. Ora sono qui, vicino al corpo inerme
della mia Esmeralda e mi lascio morire anch’io.
Cercami. Un poeta dei tuoi tempi, Pasquale
Panella, ha riscritto in versi la mia storia; un
musicista che di certo conosci, Riccardo
Cocciante, li ha accesi di musica, ed ora girano
l’Italia.
Fatti raccontare la mia storia dalle luci e dalle
ombre di un palcoscenico, dai movimenti dei ballerini, dalle vibrazioni delle loro voci. Perché
l’amore si canta. Il dolore si urla. La vita si danza.
E almeno tu, ora che mi conosci, non avrai
paura di me.
Corinna Nicolini
di Romina Ciuffa
scala e un baldacchino, e fissa pannelli in cui la
prospettiva non coincide a destra e sinistra.
Possiamo credere nell’intenzionalità, avremmo
preferito l’«anche l’occhio vuole la sua parte».
Torna qui, però, Gianni Togni, che se prima
guardava il mondo da un oblò oggi compone tutta
la colonna sonora di questo
musical con canzoni di facile
presa, suo stile caratteristico, e
salva lo show. Peccato l’audio
del Sistina. Peccato anche la
scelta di alcune voci non uniformi, le sorelle dei protagonisti, ad esempio: destinate a cantare duetti all’interno del musical, non trovano un traitd’union per i loro timbri troppo
differenti, che finiscono per
stridere. Alla regia Massimo
Ranieri: ma non improvvisiamoci eclettici e, soprattutto,
non diamo al teatro la parvenza di uno show televisivo.
Noi volevamo sdraiarci sulle spiagge del
Tevere anni Sessanta e sentirci un po’ Romolo
un po’ Salvatore, tutto qui. Nel Sud Italia, fino
alla Sicilia, porteremo però questa d’immagine,
fino a marzo: un’isola tiberina dei famosi.
di Nicola Cirillo
La
provincia
italiana è
protagonista
a
Hollywood: Rob
Marshall, già premio Oscar per
Chicago, gira ora
l’adattamento
cinematografico
di Nine, il musical
tratto dal racconto
di Arthur Kopit e
Mario Fratti scritto da Maury Yeston, ispirato al film di Federico
Fellini 8 e mezzo. Il musical, messo in scena per
la prima volta nel 1982 nel Richard Rodgers
Theatre di New York, è una delle opere teatrali
più premiate nella storia dei musical e il film è
già il titolo cinematografico più atteso per il
2009. Merito anche del cast - Kate Hudson,
Daniel Day-Lewis, Penélope Cruz, Judi Dench,
Marion Cotillard e Nicole Kidman - ma anche
una rappresentanza di attori italiani, prima tra
tutti Sophia Loren, che interpreta la madre di
Guido Contini (l’io narrante della storia).
Riusciremo a esportare negli USA anche un po’
il mood della genuina provincia italiana, oltre
che l’immagine stereotipata di «Gomorra»?
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 9
BALLET
Music In Inverno 2009
RICCARDO REIM L’intervista
Solitamente seduce, oggi è sedotto.
Da Mozart.
FESTIVAL DELL’EQUILIBRIO Quinta
edizione Sbarcano a Roma i danzatori più
equilibrati e si premiano gli emergenti
LA BELLA ADDORMENTATA
NEL BOSCO Dormendo fa sognare
RICCARDO REIM, SEDUTTORE SEDOTTO
Non si picca se sia ricca, se sia brutta, se sia bella... Don Giovanni oggi seduce anche l’eclettico autore, e lo lascia là
rte a trecentosessanta gradi. Impresa ardua, quella di non perdere la
A
retta via, di non smarrirsi in un labirinto intricato di esperienze e di
racconti e limitarsi all’argomento del giorno, quando ci si trova a dialogare con Riccardo Reim. È egli infatti un uomo affabile dal fascino sfacciato e dalla favella che ammalia. Si parte
da un accenno al suo ultimo romanzo, Il
tango delle Fate, per aprire una finestra
sulla sua opera di curatore della raccolta di
racconti truculenti Il cuore oscuro
dell’Ottocento, per giungere al libretto
scritto per Don Giovanni o il gioco di
Narciso, il balletto con coreografia e regia
di Mauro Astolfi creato per la Biennale di
Venezia 2008 -sebbene riecheggino di
continuo le sue esperienze di attore, regista, sceneggiatore, romanziere, saggista,
traduttore.
È stata un’innovazione illuminante,
quella di ripristinare il rapporto tra coreografo e librettista così come era di norma
nell’Ottocento. Il merito va al coreografo
e al direttore generale del Balletto di
Roma, rispettivamente Mario Piazza e
Luciano Carratoni. Circa tre anni fa ho
condiviso con Mario Piazza un viaggio in
treno, diretti al set di un documentario-fiction per il quale ci siamo trovati a collaborare, e lì per la prima volta al mio compagno di viaggio è balenata l’idea.
Al rientro a Roma ho ricevuto una sua
telefonata. Stava lavorando allo
Schiaccianoci. Stanco della «solita
zuppa», delle versioni tradizionali che
devotamente vengono proposte al pubblico durante le vacanze natalizie, mi ha
fatto la proposta di scriverne il libretto. Si
è trattato di un interessante tentativo per
la produzione, innovazione appoggiata dal
presidente e direttore artistico Walter Zappolini. Per me si è aperta una
sfida eccitante.
Mi sono trovato a contatto con un universo nuovo. Inizialmente ho
avuto la sensazione di essere «orfano»: io vivo di parole e gioco con le
parole; farne a meno, imparare le regole di un linguaggio a me sconosciuto, quello del corpo, ha fatto sì che il mio estro registico si esprimesse al meglio.
Il risultato è stato eccellente: il debutto risale al 2006 presso il Teatro
Quirino, lo scorso anno la replica al Teatro Italia (che conta circa 900
posti a sedere) e tra il 16 dicembre 2008 e il 6 gennaio 2009 è toccato al
Teatro Italia. Ci sono i numeri a parlar chiaro: si è arrivati a contare trentamila spettatori.
Ma l’esperienza per Riccardo Reim è andata avanti. Ha scritto il libretto per Coppelia, sempre per la coreografia di Mario Piazza, e con il Don
Giovanni o il gioco di Narciso di Mauro Astolfi, in scena al Teatro Italia
tra il 4 e il 9 novembre 2008, è arrivato alla terza prova. Ha assistito allo
spettacolo quasi ogni sera. Qui si danza sulle musiche di W. A. Mozart e
V. Caracciolo, musiche originali di Luca Salvadori, scene e costumi di
un’eccezionale Giuseppina Maurizi.
Mauro Astolfi era piuttosto intimidito
dall’idea del libretto. Egli ha colto perfettamente la psicologia di questo personaggio,
Don Giovanni, uno e trino come Dio, che si
scompone e ricompone di continuo, condannato a vivere in una condizione di
perenne maledizione. Gli serviva una chiave di lettura intellettuale, che esaltasse la
sua profonda intuizione. Abbiamo voluto
mettere in scena il dramma del «burlador
de Sevilla» di Tirso de Molina ispirandoci
non tanto alla rilettura di Molière, quanto
alle letture successive di Lorenzo Da Ponte,
Goldoni, Puskin, Zorrilla sino ad arrivare a
Lord Byron che lo trasforma in un «seduttore sedotto».
Potremmo definirlo un personaggio
masturbatorio, non a caso la sua ultima
donna altri non sarà che se stesso; come
Narciso, egli non può che amare se stesso.
Egli è prigioniero entro un giardino recintato, al di fuori del quale non vi è nulla di interessante. È lo specchio della forte incapacità di donare e di donarsi. Non potendosi
dare a chi si ama, si dona a chi si condanna.
La coreografia è straordinaria, di una difficoltà assoluta. I metaforici specchi invadono fisicamente la scena, i ballerini si
librano, rallentano i movimenti fino a sollevamenti millimetrici senza mai cadere nel
ginnico (nella danza sempre in agguato).
Alla Biennale di Venezia, per la quale l’opera è stata realizzata con prima assoluta il 28
e 29 giugno 2008, i giudizi sono stati molto
controversi: alcuni lo hanno trovato troppo carico, troppi i costumi.
Mauro Astolfi ha avuto l’intelligenza ed il coraggio, che pochissimi
avrebbero trovato, di tagliare quindici minuti di balletto.
Sono stati ridimensionati i tempi e i costumi: è il corpo a doversi vedere in ogni suo interstizio, per culminare nella spoliazione finale. C’è in
scena una psicologia. Don Giovanni non è affatto uno sciupafemmine, e
lo dice bene Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart: «…Non si picca
se sia ricca, se sia brutta, se sia bella ...»; in gergo moderno potremmo
definirlo uno «spaghettaro del sesso». Don Giovanni è colui che non
guarda all’altro, al soggetto, non ne è capace, riesce a visualizzare soltanto l’oggetto. Egli non ama nessuno, egli non sa donare.
È tragicamente il dramma della solitudine dell’uomo contemporaneo.
Cupo, funerario, senza scampo.
a cura di Rossella Gaudenzi
PER BALLARE SERVE EQUILIBRIO
È giunto alla quinta edizione il festival di Giorgio Barberio Corsetti e mette Febbraio in punta di piedi
quilibrio è il festival del nuovo che irrompe e avanza nel mondo del balletto contemporaneo mondiale, giunto alla quinta edizione. La fucina delle idee, la mente creatrice, è
quella di Giorgio Barberio Corsetti, infaticabile sperimentatore: regista, autore, attore consacrato a metà degli anni Ottanta dalla Biennale
di Venezia e coronato dal 1999 al 2002 dall’assegnazione della direzione della Sezione Teatro
della stessa Biennale.
Egli ha dato vita ad un appuntamento che sta
delineando ed affermando la propria personalità anno dopo anno; ha deliziato l’esigente pubblico romano e non solo con strepitose coreografie nel 2008 (dalla sperimentazione dell’artista canadese Marie Chouinard, al duo delle
danzatrici Kettly Noël e Neilisiwe Xaba, alla
produzione dei brasiliani Membros, passando
attraverso il fiorentino Sieni, il collettivo belga
Peeping Tom, Les SlovaKs, la danza indiana),
pubblico che attende con curiosità la prossima,
imminente programmazione.
Sarà la performance di ogni singolo artista a
far parlare di sé, tra il 6 e il 24 febbraio 2009.
L’apertura del festival è stata affidata al geniale
E
coreografo sino americano Shen Wei, seguito
dall’artista fiamminga Anne Teresa De
Keersmaeker; di spicco la presenza del belga
Alain Platel, tanto quanto quella dei coreografi di origini israeliane Guy e Roni.
Le aspettative per la danza nostrana sono
alte: i toscani Samuele
Cardini
e
Marina
Giovannini, vincitori del
Premio Equilibrio 2007,
presenteranno in prima
assoluta la loro creazione.
Così dopo il successo della
prima edizione, risalente
allo scorso anno, la
Fondazione Musica per
Roma proporrà nuovamente il Premio Equilibrio
Roma per la danza contemporanea, nell’intento di
sostegno e promozione
degli artisti emergenti italiani. Verranno dapprima
selezionati i dieci migliori
gruppi, per designare poi il
di Rossella Gaudenzi
vincitore finale che, con un contributo di ventimila euro, produrrà il proprio spettacolo e lo
metterà in scena nel 2010. Infine, stage e
masterclass tenute dagli artisti ospitati dalla rassegna per danzatori e coreografi professionisti.
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
LA BELLA
NEL BOSCO
ADDORMENTATO
U
na delle fiabe della tradizione
europea più amate di sempre
ritorna ad essere rappresentata in
forma danzata. E cosa c’è di più appropriato del balletto classico per riproporre l’atmosfera impalpabile e fantastica di un capolavoro che ha segnato
l’infanzia di ben più di tre generazioni?
La Bella Addormentata nel Bosco (o
secondo alcuni La Bella nel Bosco
Addormentato, come sarebbe la giusta
traduzione dal francese La Belle au
bois dormant) viene ricordata soprattutto nella versione di Charles
Perrault (ne I racconti di Mamma Oca,
1697), attraverso il celebre adattamento cinematografico Disney, La
bella addormentata nel bosco (Sleeping
Beauty, 1959) e il balletto di Pëtr Il’iã
âajkovskij (la cui coreografia venne
affidata a Marius Petipa) che ebbe la
sua prima rappresentazione il 3 gennaio 1890 al Teatro Mariinskij di San
Pietroburgo in Russia.
Il successo fu immediato ma bisognerà aspettare il 1896 perché il bal-
letto giunga in italia, al Teatro alla
Scala di Milano (l’allestimento milanese fu anche il primo allestimento ad
essere eseguito al di fuori della scena
pietroburghese).
La prima romana risale al 1954 con
la coreografia di Boris Romanov e gli
interpreti Attilia Radice e Guido Lauri.
Nello stesso anno il teatro ha ospitato
la compagnia del Sadler’s Wells Ballet,
che ha proposto la versione di
Frederick Ashton con Margot Fonteyn
nel ruolo di Aurora (versione che pochi
mesi prima per la Scala aveva rappresentato la prima rappresentazione
integrale). Nel 1965 quel ruolo fu ballato al Teatro dell’Opera da un’affascinante Carla Fracci, che nel 1983
sarebbe tornata accompagnata da
Peter Schaufuss nel ruolo del Principe.
La Belle au bois dormant è la protagonista al Teatro dell’Opera dal 10 al
22 febbraio insieme all’Orchestra e il
Corpo di Ballo del Teatro e la partecipazione degli allievi della Scuola di
Danza del Teatro dell’Opera diretta da
Paola Jorio.
Il balletto, composto di un prologo e
tre atti, vede Paul Chalmer come
coreografo, Marzio Conti alla direzione
ed Aldo Buti alla cura delle scene e dei
costumi.
Valentina Giosa
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 10
CLASSICA
MENTE
a cura di FLAVIO FABBRI
PROTESTA Delia Palmieri e
Mathieu Muglioni L’Italia destina
allo spettacolo solo lo 0,17% del Pil.
Music In Inverno 2009
«PIANO NOTES» di Charles Rosen. Recensione. Josef Hofmann aveva una
mano così piccola che non riusciva a prendere più di un’ottava, Glenn Gould si
sedeva sul pavimento, mentre Arthur Rubinstein lo suonava in piedi il pianoforte.
OPERAI ALL’OPERA (MA NON ALL’OPERÀ)
L’Italia dei tagli alla cultura si confronta con la realtà francese: Delia Palmieri vs Mathieu Muglioni
A
dicembre gli artisti del Maggio Musicale
Fiorentino, una delle Istituzioni musicali
più prestigiose a livello internazionale, hanno protestato contro il taglio del Fus, il Fondo Unico
dello Spettacolo, deciso dall’attuale governo. Tagli
pesantissimi, del 30%. I musicisti si sono esibiti
fuori dal teatro in spettacoli gratuiti e partecipati
(per la Nona sinfonia in Re minore di Beethoven
al Mandela Forum c’erano 8.000 spettatori).
L’Italia destina allo spettacolo solo lo 0,17%
del Prodotto Interno Lordo, e tale cifra va diminuendo, mettendo a repentaglio il lavoro di
migliaia di artisti; il Paese di Giuseppe Verdi,
Giacomo Puccini, Gioachino Rossini, Luciano
Berio e Ennio Morricone, per i finanziamenti
allo spettacolo è dietro alla Grecia e ben lontana dalla Francia (che invece spende l’1%).
Abbiamo parlato con due cantanti d’opera:
Delia Palmieri, 44 anni, apprezzata e infaticabile soprano, corista «aggiunto» presso il
Maggio Musicale Fiorentino e Mathieu
Muglioni, 31 anni, giovane e promettente tenore francese.
A che età hai cominciato a studiare musica?
Delia. A 10 anni frequentando i corsi di solfeggio e pianoforte
Mathieu. A 6 anni ho cominciato violino, mentre il canto molto tardi: avevo 20 anni.
In strutture pubbliche?
Delia. Dopo un primo anno in conservatorio,
ho studiato privatamente: lo studio del canto
richiede il confronto con metodi di insegnamen-
to diversi. Inoltre ho fatto stages all’estero anche
per imparare le lingue.
Mathieu. Da bambino ho studiato violino con
un maestro privato e solfeggio presso un’associazione, ma già a 12 anni mi sono iscritto a una
scuola pubblica. Ho sempre studiato in scuole
pubbliche ma ho seguito anche corsi privati per
approfondire e confrontarmi con altri professori.
Ritieni che siano sufficienti le strutture pubbliche per la formazione musicale?
Delia. In Italia la musica non si studia nelle
scuole dell’obbligo ma solo in scuole apposite, e
queste hanno luoghi inadeguati, pochi strumenti
disponibili, insegnanti non formati. La durata
delle lezioni poi è davvero insufficiente.
Mathieu. In Francia ci sono molte scuole di
musica pubbliche: comunali, provinciali, regionali, nazionali. Alle medie e al liceo abbiamo
anche la fortuna di avere classi con «orari adattati» all’esigenza di chi studia musica
A che età hai affrontato il primo concerto?
Delia. Il primo vero concerto a 25 anni, ma
per il primo ruolo da protagonista sono passati anni.
Mathieu. Il mio debutto è avvenuto nel corso
del primo anno di studi nella classe del mio maestro. Ero Ardimedon in un’operetta di Christiné.
Hai mai debuttato da solista in un teatro di
una certa rilevanza anche internazionale?
Delia. Ho cantato con ruolo da solista
all’Accademia Chigiana di Siena (diretta da
Vlad), al Lingotto di Torino, diretta da Jeffrey
Tate e per le celebrazioni dei 400 anni del
Melodramma. Da corista, invece, in tutto il
mondo, sempre in luoghi prestigiosi.
Mathieu. Ho cantato al Teatro Imperiale di
Compiègne e al Centro lirico di Auvergne. A febbraio 2010 canterò nei Briganti di Jacques
Offenbach, nel Gran Teatro di Limoges.
Ricevi cachet che ritieni equi?
Delia. Come corista è equo: uno stipendio da
impiegato, per un lavoro che comunque è quotidiano e usurante: affrontando stili diversi
rischiamo di vanificare anni di studio e di tecnica vocale. Quando capita e riesco a ottenere
il permesso dal Teatro, mi esibisco anche in
recital personali o con il Trio Mila; allora
dipende: in genere ricevo un compenso, a volte
solo un rimborso spese.
Mathieu. Guadagno più delle spese! Anche se
il cachet non sempre è formidabile.
Hai o hai avuto un contratto stabile con
qualche ente lirico, qualche teatro?
Delia. Stabile mai. Ho avuto invece contratti
di collaborazione col Teatro di Cagliari e ora
con il Maggio, che mi sta confermando come
corista aggiunto, anno dopo anno, da 6 anni (per
i primi tre, ogni anno la conferma era comunque
subordinata al superamento di un’audizione).
Mathieu. Sì, ho cantato 4 anni nel coro
dell’Esercito Francese. Lì, avendo un contratto
di «impiego giovani» (come ce ne sono tanti in
Francia) si può cantare al massimo per 5 anni,
ma l’ultimo anno ho preso un congedo di formazione e l’Esercito mi ha pagato un corso in
Italia.
PIANO MIO, PERCHÉ TI AMO?
Un
libro scritto più sull’esperienza di suonare il pianoforte che sulle caratteristiche tecniche dello strumento: è quello di
Charles Rosen, Piano notes. Non un manuale
da scuola di musica, ma una storia d’amore che
vede l’uomo in perenne conflitto passionale con
l’oggetto del desiderio, il pianoforte, uno tra i
più diffusi, versatili e in quanto amante, incompreso strumento: «Quello che mi ha interessato
più di tutto è il rapporto tra l’atto fisico del suonare e quello degli aspetti della musica generalmente considerati più intellettuali, spirituali
ed emozionali». Charles Rosen, uno dei massimi pianisti e musicologi del mondo, cerca di
spiegare i motivi per i quali alcuni di noi suonano il pianoforte invece che il violino, piuttosto
che la chitarra, per poi cercare di capire come
rapportarsi all’eterno terzo specchio dell’artista: il pubblico.
Attraverso un’analisi lucida e allo stesso
tempo dettata dal bisogno di raccontare questo
sentimento d’amore verso il suo piano, Rosen
affronta uno dopo l’altro i maggiori problemi,
gli aspetti meno noti e i grandi miti da sfatare
della vita e del mestiere di pianista: il rapporto
fisico intensissimo che lega il musicista allo
strumento e quello tra virtuosismo ed espressività, il problema del suono e del timbro, i pregi
e i difetti della meccanica, l’esecuzione in pubblico e i suoi trabocchetti, gli studi in conservatorio, splendori e miserie dei concorsi pianistici, l’avvenire della musica per pianoforte.
Leggero, ricco di aneddoti, citazioni e storie
di una vita vissuta al piano: «Josef Hofmann
aveva una mano così piccola che non riusciva a
prendere più di un’ottava, Glenn Gould si sedeva sul pavimento, mentre Arthur Rubinstein lo
suonava in piedi il pianoforte». Suonare il
piano è avere un rapporto fisico, è fare sport: «Il
modo con cui si sta seduti al pianoforte ha
influenzato la musica scritta dai compositori,
di Nicola Cirillo
di Flavio Fabbri
oltre all’esecuzione», un modo a dir poco originale di rapportarsi a uno strumento, quasi rovesciandone la sostanza nella forma e viceversa,
scambiando i tasti neri con i bianchi, che Rosen
propone gettando un fascio di luce inaspettata
su un territorio in parte inesplorato.
La forza del libro di Rosen non è solo quella
di stimolare nel lettore, musicista o semplice
appassionato che sia, la riflessione critica su
una grandiosa tradizione culturale e musicale,
ma di farlo attraverso una solida passione e un
contagioso buonumore. La musica è fatta di
note e di movimenti, il primo suono dell’umanità è stato sicuramente accompagnato da un
passo di danza e forse da un verso: «La musica
è tanto gestualità quanto suono».
Il rapporto tra l’esecuzione musicale e il
suono è complesso e ambiguo, afferma Rosen,
bisogna allora capire la particolare natura della
produzione della sonorità pianistica, se si vuole
capire la storia della musica in Europa e in
America dal 1750 a oggi: « Se ci saranno ancora pianisti nel XXII secolo ci sarà anche un
pubblico disposto ad ascoltarli, ma è il piacere
fisico del suonare e dell’ascoltare il pianoforte
che custodisce le chiavi del futuro della musica
scritta per questo strumento».
IL PIANO ‘FELIX’
DI ROBERTO
PROSSEDA
cclamato come il più grande interprete
dell’opera di Felix Mendelssohn, tra i
pianisti di più giovane generazione,
Roberto Prosseda ha regalato una serata indimenticabile all’Auditorium Parco della Musica,
per presentare il suo nuovo lavoro: un doppio
cd con la registrazione completa dei ‘Lieder
ohne Worte’ (traducibile come ‘Canzoni senza
parole’) del compositore tedesco, arricchendo
la produzione mendelssohniana con degli inediti assoluti da Prosseda ritrovati in esclusive
biblioteche musicali disseminate tra Europa e
America. Otto volumi scritti dal compositore
tedesco tra il 1830 e il 1845 di sei composizioni
ciascuno. Pianista, compositore, interprete tra i
più amati di Mendelssohn è stato spinto dalla
sua passione per la musicologia alla realizzazione di un lavoro intensissimo che, oltre le 48
romanze già conosciute, comprende otto nuove
incisioni mai eseguite fino ad oggi, completando così il quadro dell’intensa produzione mendelssohniana dedicata a questo genere da camera. La sua fama di ricercatore, oltre che di esecutore, lo ha visto guadagnare una notorietà
a
mondiale di tutto rispetto, conquistando recensioni favorevoli sulle pagine delle più autorevoli riviste di settore, tra cui: American Record
Guide, Fanfare, Diapason, Fono Forum,
Amadeus e molte altre. La serata è stata un
omaggio a Mendelssohn nel bicentenario della
nascita, con un recital monografico alternato ad
altri autori secondo una particolare logica musicale (Mendelssohn-Chopin, MendelssohnHaydn, Mendelssohn e autori del Novecento,
Mendelssohn-Bach). Nel 2010, inoltre,
Prosseda dedicherà un’analoga attenzione ad
altri due grandissimi compositori, Robert
Schumann e Fryderyk Franciszek Chopin, di
cui cadrà il 200mo anniversario della nascita.
Flavio Fabbri
Ricevi un sussidio dallo Stato per la tua inattività?
Delia. Non esiste alcuna forma di sussidio in
campo solistico. Esiste un’indennità (tramite
l’Inps) riguardante i periodi in cui non ho contratto come corista.
Mathieu. Sì. In Francia se un artista lavora
abbastanza durante un periodo, ha diritto a un
sussidio dallo Stato durante il periodo successivo se non è occupato. Il sussidio è mensile e
calcolato sulla base degli stipendi precedenti.
Attualmente vivi del solo lavoro musicale?
Delia. Sì, ma solo da pochi anni. È una situazione molto instabile, perché non so se e quando
lavorerò. Ad alcuni colleghi scade il contratto
proprio questo mese, e non avranno il rinnovo.
A me scade a luglio. Un altro mio collega,
invece, ha fatto un concorso all’Operà di Parigi
e lo hanno preso stabilmente: si trasferirà lì con
tutta la famiglia. Qui concorsi per soprani stabili non ne fanno da anni.
M. Sì, anche se il futuro non è sicuro. Ma
dobbiamo mantenere fiducia nell’arte, sennò a
che serve fare questo «mestier»?
UN PIANO
A BRANDELLI
Esempio di musicista poliglotta è
Antonio Ballista, artista dall’ascolto
vasto e lontano dai cliché dell’ortodossia ‘classica’. Curioso e insofferente verso ogni convenzione e routine, ha rivolto il proprio interesse ai
molti linguaggi della musica: il jazz, la
classica e in questo caso il Ragtime.
L’appuntamento, organizzato dall’Accademia Filarmonica Romana per il
ciclo "Sunday Morning, ha proposto
allo spettatore un ‘piano a brandelli’,
‘Ragtime’, del tutto inconsueto e per
questo da non perdere, con la possibilità di ascoltare dal vivo brani storici di Scott Joplin, James S. Scott e
Robert Hampton.
Una vera e propria rarità nelle sale
da concerto, nonostante la musica
Ragtime sia stata resa famosa
anche dal cinema, in lungometraggi
celeberrimi come La stangata
(1973), Ragtime (1981) e La leggenda del pianista sull’oceano (1999).
Questo genere di musica è da molti
considerato il padre spirituale del
jazz e fu un genere tipicamente pianistico che andò pian piano scomparendo intorno gli anni 20 del
Novecento.
Tempo stracciato, a brandelli,
potrebbe essere tradotto il termine
Ragtime, musica ‘nera’ del profondo
Sud americano, le cui note erano diffusissime già dalla seconda metà del XIX
secolo e tornata poi improvvisamente
in auge dopo cinquant’anni di oblio nel
1970, per un decennio circa. Di Artie
Matthews, Ferdinand Jelly, Roll
Morton, Claude Debussy, Igor
Stravinskij, e Paul Hindemith le altre
musiche proposte dall’originale repertorio di Antonio Ballista.
Flavio Fabbri
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 11
CLASSICA
MENTE
Music In Inverno 2009
YOUTUBE SYMPHONY ORCHESTRAA New York Democraticizzazione della musica? O commercializzazione della classica? Eppur basta mettersi a suonare un brano originale di Tan Dun di fronte a una web-cam, dimostrare capacità e competenze tecniche e inviare il tutto a YouTube per essere in lista per il Carnegie Hall di New York. Ma fuori dal web, siamo tigri o dragoni?
CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA
DI
FLAVIO FABBRI
YOUTUBE STATE OF MIND
Da YouTube al Carnegie Hall, la strada della musica classica a una svolta? Siamo tutti «eroici» come Tan Dun?
(...)
Basta mettersi a suonare di fronte a una videocamera o
meglio ancora (fa molto web 2.0) davanti una web-cam,
dimostrare le proprie capacità e competenze tecniche e inviare il
tutto a YouTube. Si, proprio il popolare sito per la condivisione
di video più utilizzato al mondo, stavolta protagonista della
YouTube Symphony Orchestra. Il materiale spedito permette di
partecipare a questo speciale evento tra web e mondo della musica classica, che per una volta sembra aver davvero deciso di aprire le sue porte all’innovazione e alla sperimentazione.
Seguendo le istruzioni si legge (e si ascolta) che i video devono essere realizzati interpretando un brano originale del celebre
compositore cinese Tan Dun e, in aggiunta, eseguendo una performance più tecnica in cui mettere in risalto le abilità proprie del
candidato. Tali video verranno poi esaminati da una giuria di
esperti provenienti dalle più rinomate orchestre del mondo, tra
cui quelle di Londra, Berlino, Hong Kong, Sydney e New York,
prima delle semifinali dove i materiali saranno giudicati dal pubblico stesso di YouTube.
Democraticizzazione della musica? È questo l’intento dell’esperimento? O più un’operazione di commercializzazione, in
un processo dall’alto verso il basso, dell’elitaria produzione dell’universo classico? Qualcuno penserà che il video, come tante
altre piattaforme tecnologiche o mezzi di comunicazione, non sia
poi così neutrale, riuscendo ad amplificare o a rendere godibili,
in modo finzionale, performance altrimenti mediocri. A guardar
bene, però, non è proprio così.
La tecnologia aiuta, amplifica e diffonde (popolarizzando),
certo, ma è la capacità del singolo, la sua forza comunicativa, la
passione per l’arte e la competenza tecnica a determinare il successo o meno di una performance. Un occhio esperto riesce a
vedere, scrutare, anche in un video e quindi valutare la preparazione e le potenzialità di un allievo. Il web sarà sempre più indispensabile in tal senso, mettendo a disposizione della formazione dell’artista le edizioni originali, nonché tutte le partiture delle
opere di ogni singolo compositore, poiché ci sono opere che non
sono mai state pubblicate e che magari possono far parte del
bagaglio culturale di un musicista.
Opere, questa è la preoccupazione più grande, che al momento, mentre discutiamo sulla qualità o meno di un video o di una
performance, rischiano d’esser dimenticate o peggio perdute. Ma
di una cosa si può star certi: la musica non si fa con Internet. Si
può imparare a leggerla e a scriverla, ma non a suonarla ‘in rete’.
Questo c’è da tenerlo a conto. La cosiddetta pratica, il rapporto
con gli strumenti e con il proprio insegnante, si può fare solo in
un preciso modo, in un preciso momento, con un proprio linguaggio e interpretazione che non sarà mai quella di altri ‘visti
da remoto’. La scuola in questo non è al momento sostituibile.
Tornando on-line, una pagina apposita su YouTube ha presentato l’evento utilizzando un video-comunicato in cui il Maestro
Tan Dun (compositore premiato con l’Oscar per le musiche del
film La tigre e il dragone nel 2001) invita tutti i musicisti della
rete a non lasciarsi scappare questa occasione.
Perché, se pure tanti ‘puristi’ della classica sgraneranno gli
occhi di fronte a tanta sfrontatezza, non si può ignorare la portata mondiale, anzi, globale, che ha avuto tale operazione denominata YouTube Symphony Orchestra, l’orchestra sinfonica di
YouTube. Il Maestro Dun, sostenendo appieno l’idea e la forza
propulsiva di un ‘palco virtuale’ su cui esibirsi, ha scritto appositamente una nuova composizione dal titolo Internet Symphony
N° 1, Eroica (parte di una composizione più grande 21st Century
Sound), già disponibile in versione video on demand, con l’accompagnamento della London Symphony Orchestra, sul network di YouTube.
A prove terminate e scrutini conclusi i vincitori del concorso
voleranno a New York per una tre giorni con il direttore della San
Francisco Symphony, Michael Tilson Thomas, il pianista cine-
se Lang Lang ed altri importanti musicisti, per un concerto che
si terrà il 15 aprile 2009 al Carnegie Hall. Qui, nel teatro di New
York considerato tra i luoghi più sacri della musica classica mondiale, costruito nel 1890 da Andrew Carnegie e che oggi propone più di cento spettacoli a stagione, i fortunati utenti del web si
ritroveranno su un palco reale, a contatto fisico col pubblico. Da
notare inoltre che la Carnegie da diversi anni non ha un’orchestra
stabile e la YouTube Orchestra potrebbe così trovare una sua
straordinaria collocazione ‘off-line’.
L’evento è inserito in un programma che lo stesso M.T.
Thomas ha definito eccezionalmente importante, perché permette a livello planetario di pro-muovere milioni di musicisti e le
loro opere, aprendo la strada a un futuro diverso per questo genere così ‘tradizionale’ e che, in futuro, potrebbe rappresentare
anche una risorsa da non sottovalutare sia per la salvaguardia del
grande repertorio classico, sia per la sperimentazione e la nascita delle nuove avanguardie di giovani musicisti.
Non bisogna dimenticare che oggi è grazie alla rete che molti
allievi e aspiranti tali sparsi per il mondo possono sentire e vedere grandi compositori e interpreti all’esecuzione, riuscendo così
non solo a goderne dei piaceri musicali generati, ma a captarne
anche un minimo di insegnamento tecnico. Per tre giorni i fortunati musicisti emersi dal web lavoreranno inoltre con Thomas in
una grande prova d’orchestra.
Nel frattempo i tecnici di YouTube prepareranno un’esecuzione virtuale dell’Eroica di Tan Dun, (sinfonia, in quattro movimenti, della durata di 5 minuti e 20 secondi) in un mash-up di
contenuti video e audio ottenuto unendo (ma sarebbe più indicato dire montando o combinando) i brani mandati dai vincitori e
le riprese live dalla Carnegie Hall.
Tan Dun ha definito l’operazione The YouTube Symphony
Orchestra, come una «silk road of dream», la via della seta e dei
sogni del XXI secolo, leggendaria strada che già 1600 anni fa
univa come in un sogno la città cinese di Xian a Roma, passando per India, Persia, Arabia e Grecia e che non solo permetteva
importantissimi commerci, ma che concettualmente univa e culturalmente contaminava popoli tra loro lontanissimi, per distanza geografiche, lingue e tradizioni storiche.
Internet, nella fattispecie YouTube, è oggi l’equivalente di una
lunga strada dei sogni che incrocia tante altre vie della seta odierne, con le loro carovane cariche di tesori ancora tutti da scoprire,
e che ad aprile porterà un gruppo di musicisti alla Carnegie Hall
e alla realizzazione di un sogno.
GONFALONE TRA SOGNO E FOLLIA
cicli pittorici che affrescano l’Oratorio del
Gonfalone fanno da sfondo al consueto
appuntamento con il Coro polifonico
romano. Grazie all’ambientazione suggestiva e alla programmazione musicale, la
59a stagione del Gonfalone, rimanendo fedele
al repertorio settecentesco, ci consente di fare
un salto nell’Italia barocca di Giovanni Battista
Pergolesi e Domenico Scarlatti. Dei venti
appuntamenti proposti dal Maestro Angelo
Persichilli, due sono dedicati al compositore
jesino. Dopo La serva padrona (la Serpina del
titolo), che ha aperto la stagione il 20 novembre
scorso, musica di Pergolesi anche a Pasqua, con
l’esecuzione dello Stabat Mater da parte
dell’Orchestra Tartini, composizione sacra
I
che l’aneddotica vuole sia stata conclusa nell’ultimo giorno di vita del compositore ventiseienne nel convento dei Cappuccini di Pozzuoli.
Insolito e originale il concerto del 5 marzo che
metterà in scena momenti e personaggi della
vita spagnola del compositore Domenico
Scarlatti: ne La camera della regina danze e
ritmi spagnoleggianti con un clavicembalista,
un attore e una ballerina di flamenco. Viaggio
nel barocco europeo il 19 febbraio con Il sogno
e la follia. Tra i brani eseguiti dall’Ensemble Il
ricercar continuo, la Sonata per violino e clavicembalo di Johann Sebastian Bach.
L’Ensemble del Gonfalone sarà protagonista dell’appuntamento del 12 marzo: omaggio
al compositore austriaco F. J. Haydn, con i suoi
di Livia Zanichelli
Notturni per lira organizzata dedicati al re di
Napoli Ferdinando IV. Per rimanere in argomento mecenatismo, fu un tema scelto dal re di
Prussia, Federico il Grande, a dare il via alla
composizione dell’Offerta musicale di Bach, le
cui note, eseguite dall’Ensemble Nuovo
Contrappunto, saranno accompagnate il 26
marzo dalla lettura di brani tratti dal Paradiso
dantesco.
Fuori dal repertorio classico gli eventi del 26
febbraio, concerto La canzone romana, eseguito dall’ensemble Alma latina e del 21 maggio,
affidato all’Orchestra Tartini che eseguirà in
chiusura di stagione insieme a Mario Stefano
Pietrodarchi il concerto per bandoneon e
orchestra di Astor Piazzolla.
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 12
SOUND
tracking
a cura di ROBERTA MASTRUZZI
Music In Inverno 2009
PATRICE
LECONTE
L’intervista Voglio alzarmi da
tavola quando ho ancora fame
ANGELO BADALAMENTI E DAVID
LYNCH Il sodalizio Misteriosi, estranianti, estremi. Sono i pini gemelli del cinema.
MEDFILM FESTIVAL Promuove
il multiculturalismo ed il cinema
è bagnato dal Mare Nostrum
LECONTE IL MIO MIGLIOR AMICO
L’amicizia è come l’amore, ma è più difficile da raccontare. Perché l’amore si dichiara, l’amicizia no.
a cura di Roberta Mastruzzi
«L’
attenzione è l’essenza dell’amicizia».
In Italia per partecipare al Festival
Teranova, rassegna multiculturale di cinema,
poesia, fotografia e musica, Patrice Leconte,
regista francese di estrema grazia e sensibilità,
incontra il pubblico italiano e, come in un suo
film, questo incontro si trasforma in un piacevole scambio di idee sui sentimenti e le passioni che animano la vita di ognuno di noi e che
spesso, per pudore o diffidenza, nascondiamo
agli altri. L’atmosfera è calda e rassicurante:
Leconte, aiutato dal suono morbido della lingua
francese e dalla lieve ironia che accompagna il
suo sguardo, sembra assomigliare alle sue
opere, in cui con semplicità e leggerezza cerca
di indagare su quel mistero profondo che caratterizza le relazioni tra esseri umani. A cominciare dall’amicizia, sentimento universale spesso trascurato dal grande schermo, che Leconte
racconta in Il mio migliore amico, il film uscito
nelle sale ormai due anni fa, che ha avuto un
grande successo nei cinema europei.
«Sono sempre stato scettico nei confronti dell’amicizia: il bisogno di mostrare agli altri di
avere molti amici, nasconde in realtà il fatto
che forse non ne abbiamo. Il successo de ‘Il mio
miglior amico’ mi ha dimostrato quanto l’amicizia sia un valore universale a volte difficile da
raggiungere. Da quando è uscito questo film
tutti mi domandano la stessa cosa - cos’è l’amicizia? - come se io fossi un esperto, ma in realtà sono solo un regista. Non sono un professionista dell’amicizia, sono un autodidatta».
Sorride, e chi ha visto e amato i suoi film non
può fare a meno di sorridere con lui, pensando
a quante volte nei suoi racconti la telecamera si
è soffermata su uno sguardo tra due sconosciuti che grazie a un incontro casuale colmano le
loro solitudini, come in L’uomo del treno o
Tandem. A volte l’incontro si è trasformato in
una storia d’amore, come in La ragazza sul
ponte, splendido bianco e nero con Vanessa
Paradis e Daniel Auteuil, o in Confidenze troppo intime, storia di un’intimità che nasce prima
nello spirito che nella carne. Sembra difficile
credergli quando dice di non essere un esperto,
lui che con i suoi film è riuscito a colmare
anche la nostra di solitudine.
Ma si fa perdonare quando dice: «L’amicizia
è come l’amore, ma è più difficile da raccontare perché l’amore si dichiara, l’amicizia no:
non si dice mai ad un’altra persona ‘tu sei mio
amico’. È un sentimento sfuggente, perché difficile da definire: l’esatto contrario del fregarsene. È attenzione. È qualcosa che nasce spontaneo dentro di noi ma che poi deve essere corrisposto, altrimenti non ha senso. Perché un
amore che finisce è devastante, ma il tradimento di un amico è ancora peggio».
Sorride di nuovo, un sorriso più amaro questa
volta. Una piccola pausa e subito arriva la parola di conforto: «Oggi grazie alla tecnologia si
comunica moltissimo, talmente tanto che ci si
dimentica di abbracciare le persone care. Non
sto dicendo che era meglio prima, non ho
nostalgia per il passato. Ma il mio consiglio è
di mettere da parte il computer e fare come me:
abbracciare».
Confida poi che gli piacerebbe scrivere un
film sull’amicizia tra un uomo e una donna perché «sarebbe una storia meravigliosa». E il suo
sorriso ora ha una sfumatura più dolce.
PINI GEMELLI
di Roberta Mastruzzi
no dei più celebri sodalizi artistici nel
mondo cinematografico è quello tra il
regista David Lynch e il compositore
Angelo Badalamenti, una collaborazione talmente solida da non riuscire a distinguere nel
risultato finale il contributo dell’uno o dell’altro.
Dal 1986 ad oggi, da Velluto Blu fino ad Inland
Empire, le opere di Lynch sono state accompagnate dalla musica di Badalamenti - che in alcuni casi è anche comparso in piccoli ruoli, ma
questa è un’altra storia.
U
Al Film Festival di Ghent, cittadina belga che
ogni anno dedica un’interessante manifestazione
alla musica da film in un’atmosfera molto lontana dai riflettori di Cannes o Venezia, è stato consegnato al compositore newyorchese di origini
italiane il Premio alla carriera. Il suo lungo curriculum cinematografico comprende collaborazioni con registi come Jane Campion (Holy Smoke),
Mark Pellington (Arlington Road) e Danny
Boyle (The Beach), ma è sicuramente con le
opere di Lynch che il suo lavoro tocca l’apice
della fusione tra musica e immagini.
L’incontro tra i due avviene sul set di Velluto
Blu, dove il compositore, poco conosciuto, è
chiamato per aiutare la protagonista Isabella
Rossellini ad interpretare un brano. Il risultato è
talmente convincente che Lynch decide di affidare a lui la composizione dell’intera colonna
sonora. Poi, da Cuore selvaggio a Fuoco cammina con me fino a Strade perdute, Badalamenti
coglie alla perfezione il senso di mistero ed estraniamento che avvolge il mondo lynchiano, universo enigmatico e labirinto di storie che s’intrecciano e si moltiplicano senza soluzione finale né un punto d’arrivo. In una struttura complessa, dove ogni dettaglio è un indizio e ogni indizio è ulteriore enigma, nulla è lasciato al caso. Il
controllo del regista su ogni elemento della
scena, ogni parola, ogni suono è totale: la musica
non è sottofondo ma essa stessa sceneggiatura.
Ciò è reso possibile anche dal metodo particolare con cui Lynch e Badalamenti si mettono al
lavoro, quasi una jam session. Lynch comincia a
raccontare una storia, descrivendo il paesaggio e
l’atmosfera delle prime immagini e Badalamenti
improvvisa un tema e sulle note di questo il regista continua ad aggiungere elementi alla scena e
ad immaginare i futuri sviluppi della storia.
È andata così anche per Twin Peaks, il serial
Tv più amato e discusso degli anni Novanta Lynch è così, o si ama o si odia - la cui storia
parte da un omicidio per arrivare a denunciare
l’ipocrisia strisciante di una «tranquilla» cittadina di provincia e scoprire che l’apparenza inganna ma anche la realtà non scherza. Una storia
intrecciata ad altre storie, un senso di inquietudine che cerca una soluzione e una risposta che
non arriverà mai. Tutto questo è suggerito dalla
colonna sonora che intreccia temi che si ripetono
e si confondono l’uno con l’altro. Bella da ascoltare senza immagini - ne sono state vendute più
di tre milioni di copie in tutto il mondo - la musica creata per Laura Palmer è però impossibile da
concepire senza pensare anche al genio artistico
di Lynch che ha saputo creare e far amare al pubblico un prodotto decisamente al di fuori dei
classici standard da telefilm americano.
Anche quando si tratta di scrivere le musiche
per quello che sarà un film totalmente diverso
dai precedenti, Una storia vera - lo stesso Lynch
ironicamente lo definisce il suo film più sperimentale, perché questa volta la trama segue un
percorso lineare -- il compositore riesce ad interpretare fedelmente il mood del film. Una linea
melodica semplice e un suono dal sapore country accompagnano il viaggio attraverso
l’America di Alvin Straight a bordo di un trattore, nella splendida cornice offerta da una natura
selvaggia. Una sosta, una boccata di aria fresca
nell’universo di Lynch che presto ritornerà con
Mulholland Drive ad atmosfere più cupe e misteriose. Anche qui la colonna sonora è parte integrante della sceneggiatura.
E se la prima parte del film sembra prendere
una piega romantica, nel commento sonoro si
intuisce già un senso di inquietudine, un indizio
sul dramma che sta per compiersi: il tragico
risveglio alla cruda realtà. «No hay banda! Non
c’è una banda! Eppure possiamo sentire lo stesso il suono di un clarinetto… o di un trombone…
è tutto un’illusione!»: ancora una volta, non ci
sarà dato sapere dove finisce il sogno e dove
comincia il reale.
Leconte, che ha iniziato a
lavorare nel cinema all’età di
quattordici anni e ha conquistato la popolarità negli anni
novanta grazie a Il marito
della parrucchiera, conferma
la sua volontà di girare altri
tre film. E poi basta, per
lasciare spazio agli altri.
«Voglio alzarmi da tavola
quando ho ancora fame». E
quasi per giustificarsi racconta di una volta in cui un giornalista ha chiesto a
Mario Monicelli, «Lei cosa fa per aiutare i giovani registi?», e lui rispose: «Invecchio!».
Uno dei suoi ultimi tre film è La guerre des
miss, presentato in Francia proprio in questi
giorni. E come ultimo desiderio, confessa di
voler realizzare un film musicale. «Non un
musical ma un film in cui la musica sia la vera
protagonista in tutte le sue forme espressive».
Un esperimento che il regista ha già realizzato con Dogora, documentario musicale ambientato in Cambogia, un film fatto solo di musica e
immagini. Difficile da spiegare ma immediato
da capire. Non c’è bisogno di traduzione e doppiaggio, perché in questo caso è la musica a
parlare e, come è noto, il suo linguaggio è universale e accessibile a tutti. «Un film è fatto
perché piaccia a chi lo vede». Con sincerità
Leconte ammette: «Se il pubblico non lo capisce è colpa mia. E quand’è così mi vergogno di
aver utilizzato soldi, attori e energie».
Altrettanto sinceramente dice che la domanda
più difficile che si possa fare a un regista è chiedergli perché fa cinema. Per spiegarlo racconta
una storia. Una volta Wim Wenders rispose così
a una domanda simile: «Io faccio film per rendere il mondo migliore». Leconte confessa di
essere caduto dalla sedia appena ha sentito la
risposta e di aver pensato: «Ma chi si crede di
essere questo!», poi ha riflettuto tutta la notte e
la mattina dopo ha dovuto ammettere che
Wenders aveva ragione. Non si cambia certo il
mondo con un film, ma lo si può «portare un
po’ più in alto». E da quel giorno ha sempre un
sogno: che le persone diventino migliori guardando i suoi film. «Beh, sicuramente non peggiori, spero!».
E così si congeda e si dilegua in un attimo. È
atteso all’ambasciata di Francia dove riceverà il
premio Teranova per il cinema. Ci saranno ad
attenderlo centinaia di invitati e mani da stringere, complimenti e sorrisi, giornalisti e fotografi. Quanto di più lontano ci possa essere dai
suoi film, fatti di molte parole e gesti appena
accennati, con un punto che li accomuna tutti:
la voglia di raccontare quel piccolo miracolo
che si compie ogni volta che due estranei si
incontrano e si riconoscono.
SBARCA IN TURCHIA
IL MEDFILM FESTIVAL
Bisogna guardare al Mediterraneo e a quella fetta di mondo
che fa crescere il cinema con serenità
di Alessandra Fabbretti
è conclusa la prima edizione del
Si
MedFilm Festival in Turchia, che oltre
ad essere stato il Paese d’onore della rassegna
romana di quest’anno è divenuto anche luogo
d’accoglienza e pretesto per un evento tutto
dedicato al cinema italiano, che si prevede proseguirà negli anni a venire. Il MedFilm Festival
ha aperto i battenti nel 1995 con lo scopo di
riassumere in sé il meglio del cinema bagnato
dal Mare Nostrum e un unico obiettivo: promuovere il multiculturalismo.
«Bisogna guardare al Mediterraneo, il nostro
futuro prossimo, aderendo con serenità al corso
della storia, per mutare profondamente l’approccio con una fetta di mondo oggi partner
imprescindibile dello sviluppo economico-culturale dell’intera area
euro-mediterranea», ha
spiegato Ginella Vacca,
presidente del MedFilm.
Già in Italia avevamo
avuto il piacere di assistere alle proiezioni provenienti da numerose
nazioni europee e non,
tra cui Iran, Algeria,
Palestina,
Marocco,
Israele. Alcune divertenti
e leggere, altre dai temi
forti e impegnati, come
quella del palestinese
Masharawi di Eid Milad
Leyla, vincitore del
Premio «Amore e Psiche», che propone la giornata-tipo di un tassista di Ramallah costretto ad
affrontare svariate peripezie (in cui ritroviamo
Mohammad Bakri, la cui interpretazione meriterebbe un più lungo commento); oppure
Hassan wa Marqos di Ramy Imam, che tratta
con ironia e un pizzico di humour la questione
dell’intolleranza religiosa in Egitto e ci offre un
Omar El Sharif ancora abile e capace davanti
alla macchina da presa.
Forte anche il tema della ricerca di una patria
e della propria identità in Française (coproduzione Francia-Marocco, di Souad El Bouhati) e
nell’iraniano Seh Zan (Tre Donne, di Manijeh
Hekmat), le cui trame sono rese più particolari
dalla forte presenza di donne-protagoniste, le
quali cercano con coraggio di volgere la situazione a loro favore. Le offerte cinematografiche
italiane per la Turchia non sono state da meno:
con una scelta di 35 proiezioni (comprendenti
10 lungometraggi inediti per il Paese, e vari
documentari e corti) realizzate tra il 2007 e il
2008, il pubblico di Istanbul non è certamente
rimasto deluso.
Tutta la vita davanti di Paolo Virzì ha fatto da
apripista all’evento, un abile gioco di luciombre sul precariato in Italia, per proseguire
con Il mio peggior nemico che porta la firma di
Carlo Verdone, commedia esilarante che vuole
anche far riflettere sui conflitti generazionali.
E poi Signorina Effe di Wilma Labate, propone una delle vicende più
importanti del nostro
Paese, quella degli scontri tra un colosso industriale, la Fiat, e la classe operaia che reagirà
con uno sciopero dalle
conseguenze politiche e
sociali considerevoli;
Notturno bus di Davide
Marengo, noir italiano
dal sapore beffardo; La
ragazza del lago, di
Andrea Molaioli, giallo
che vuol descrivere il
disagio esistenziale e
riadatta in versione
«nostrana» il romanzo
della scrittrice norvegese Karin Fossum. L’Italia, con i suoi pregi e le
sue pecche, i suoi volti e la sua storia, è la grande protagonista di questa rassegna. Tuttavia
alcune proposte volgono lo sguardo ad altre
realtà: i bambini di strada di Bucarest di Casa
mia (di Debora Scarpetti) e quelli della periferia di Nairobi che interpretano Pinocchio Nero
(di Angelo Loy), sono documentari brillanti che
puntano i riflettori sull’infanzia rubata in cerca
di riscatto.
Organizzato in sinergia con gli Istituti di
Cultura Italiana ad Istanbul e Ankara, l’iniziativa si ripeterà annualmente con la speranza di
incrementare la distribuzione del cinema italiano all’estero e migliorare l’interscambio di prodotti culturali tra i due Paesi.
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 13
SOUND
tracking
Music In Inverno 2009
Anton
THE MILLIONAIRE Una ‘concept soundtrack’, realizzata con gli CONTROL
Corbijn
Si
impicca
sotto
strumenti classici del maestro indiano: sitar, chitarre, flauti, bassi, santo«Idiot»
di
Iggie
Pop.
or, viole, poi trame elettroniche, fraseggi synth-pop e richiami house
DI MADRE IN FIGLIA Sono le
mondine di Novi, quelle che ricurve hanno cresciuto le loro figlie
THE MILLIONAIRE CONTROL
Lo sguardo di Danny Boyle sulla musica di Allah Rakha Rahman
ragazzo indiano nato e cresciuto nelle
favelas di Bombay si innamora di una
bellissima ragazza del suo slum, ma per coronare il sogno che porterà con sé fino all’età adulta dovrà affrontare situazioni pericolose ed
estreme. Dodici fatiche, dodici momenti di una
vita intera, dodici risposte per diventare ‘millio-
Un
naire’ e ottenere il sogno di un amore eterno.
Struggente film romantico, The millionaire,
speziato di melodramma bollywoodiano, pieno
di azione e ricco di colpi di scena, che solo lo
sguardo ‘visionario’ di Danny Boyle, regista
inglese
già
autore
dei
celeberrimi
Trainspotting, 28 giorni dopo e Sunshine, poteva realizzare con tanta forza emotiva e visuale.
Altrettanto vitale ed esotico è il commento
sonoro al film offerto da Allah Rakha
Rahman, il più grande compositore indiano di
colonne sonore cinematografiche vivente (noto
in Italia per la colonna sonora di The Darjeeling
Limited, 2007). Tredici brani che corrono lungo
l’intero film, tra i sorrisi dei bambini di tutta
l’India, le discariche, le fogne a cielo aperto, i
colori magnifici dei teli stesi nei lavatoi assolati, attraversando gli sguardi affascinati e ammalianti dei figli dimenticati di Bombay. Anche tredici videoclip immersi e confusi nel film, che
danno colore alle domande a cui il protagonista
deve rispondere nello show televisivo più famoso di tutto il paese: Chi vuol esser milionario.
Una ‘concept soundtrack’, realizzata con gli
strumenti classici del maestro indiano, sitar,
chitarre, flauti, bassi, santoor, viole, a cui si
aggiungono trame elettroniche, fraseggi synthpop e richiami house; con i brani in successione strutturale rispetto al film, complementari
allo svolgimento della narrazione non solo per
il tema sonoro, ma anche per i testi e i loro messaggi. Tra le tante splendide track che compongono l’album, due le collaborazioni di rilievo:
O…Saya e la hit mondiale Paper Planes (DFA
REMIX), cantate da M.I.A., Gangasta Blues e
Jai Ho per la collaborazione di BlaaZe & Tanvi
Shah, artisti tra i più in voga della scena dub
indiana. Un mix di sound in classiche tonalità
‘Bollywood’, musica Hip-hop, basi minimaltechno e sorprese dubstep, per una miscela di
suoni che non mancherà di coinvolgere il pubblico nel viaggio di Boyle.
Una colonna sonora perfettamente in linea
con le immagini e i ritmi, a tratti frenetici, dettati dal montaggio, soprattutto per i brani Riots,
Mausama & Escape, Millionaire e Aaj ki Raat,
dove però non mancano momenti romantici e
melodici, come nel caso della sognante Latika’s
theme, per la calda voce di Suzanne.
di Flavio Fabbri
on un lungo ritardo rispetto alla sua
presentazione al Festival di Cannes (17
maggio 2007), lo scorso autunno è
uscito nelle sale italiane Control, primo lungometraggio del famoso «fotografo del rock»
Anton Corbijn, dedicato a Ian Curtis, leader
dei Joy Division, gruppo post punk passato
come una meteora e che ha lasciato un segno
incancellabile nella storia della musica.
«Avevo un debito nei confronti di Ian. Senza
la sua musica non avrei mai avuto il coraggio
di emanciparmi (…). Curtis era un genio assoluto che, però non è riuscito a sopportare il
peso di vivere. Ricordo come se fosse oggi il
primo servizio fotografico con lui sulla banchina della metropolitana a Londra. Era tutto
incredibilmente grigio, la situazione ideale per
fare grandi scatti in bianco e nero».
E così in bianco e nero è la pellicola, per
mantenere intatto lo spirito della band, ma
soprattutto quello di un’epoca di grande fermento musicale.
La trama è tratta liberamente dall’autobiografia di Deborah Curtis, Touching from a distance, e narra la storia struggente e profonda del
cantante, carismatico, epilettico: dal suo incontro con Debbie, al matrimonio e tradimento;
dall’unione con Peter Hook, Bernard Summer e
Stephen Morris per formare i Joy division, al
tragico epilogo della sua morte avvenuta a soli
24 anni.
Con uno sguardo sull’uomo, sui suoi limiti e
drammi, non adagiandosi alla figura del mito e
del personaggio, descrive così un ragazzo che
cerca la «normalità» e che paradossalmente non
può avere a causa della sua malattia.
È il destino che gli gioca un brutto scherzo
perchè Curtis prima di entrare a far parte della
band, aveva lavorato in un ufficio pubblico preposto al recupero e alla collocazione professionale di disabili e malati di epilessia.
Da qui il titolo del film, che fa riferimento
alla canzone dedicata alla vita spezzata di una
conoscente del leader (She’s Lost Control).
Interpretato da Sam Riley (al suo primo ruolo
da protagonista, scelto per la grande somiglianza con Curtis), il film ci mostra un uomo che
non sa controllare il proprio corpo da quelle
forti scosse epilettiche, che rigetta anche sul
palco. ma è anche la storia di uomo che non ha
più il controllo della propria vita sentimentale:
un ragazzo che cade nell’errore di sposarsi trop-
C
di Elisa Angelini
po presto (a soli 19 anni) e che troppo presto
sprofonda nella monotonia di una vita domestica, che lo porterà a tradire la moglie con Annik
Honorè.
Curtis, agli occhi di Corbijn, ci appare come
un adolescente introverso, un «giovane
Holden» dei nostri tempi, tenero e tragico,
esemplificato perfettamente nella copertina del
loro primo disco Unknown Pleasures: la trascrizione dell’urlo di una stella morente, attraverso
lo schema di linee contorte di una spettrografia
di Fourier.
Questa richiesta di aiuto è «urlata» da Curtis
la notte del 18 maggio 1980, quando decide di
riprendere sotto ‘controllo’ la propria vita,
impiccandosi (la leggenda dice che il giradischi
stava suonando Idiot di Iggy Pop), ma anche
qui Corbijn ha la discrezione di spostare l’inquadratura di fronte alla sua morte.
Da tener presente che la colonna sonora del
film è stata cantata e suonata dagli attori stessi,
tranne Shadowplay suonata dai The Killers, e
Love Will Tears Us Apart e Atmosphere proposte nella versione originale.
DI MADRE IN FIGLIA
«Alla mattina appena alzata in risaia mi tocca andar»
di Flavio Fabbri
«A
lla mattina,
appena alzata /
in risaia mi
tocca andar / e
tra gli insetti e le
zanzare
duro
lavoro mi tocca
far / O bella
ciao, bella ciao,
bella ciao… Il
capo in piedi /
col suo bastone /
e noi a curve a
lavorar…».
Così
inizia
una celebre cantata delle mondine di Novi. Donne oggi ottantenni, che a dieci anni di età hanno cominciato
a lavorare nei campi di riso, nelle risaie della
Lombardia e del Piemonte, barattando la veloce
adolescenza con le poche lire di una fatica
immane, peggiorata, se possibile, dal Fascismo
e dalla Seconda Guerra mondiale.
Donne che hanno tirato su famiglie, fatto la
resistenza e che, grazie al film di Andrea
Zambelli Di madre in figlia (prodotto da
Davide Ferrario e in rassegna al 26° Torino
Film Festival), sono tornate a raccontare con i
loro canti una cultura popolare, fatta di grande
dignità, amicizia femminile, rispetto del lavoro
e azione collettiva.
Ma Di madre in figlia non è solo un documentario storico-sociale, perché oltre che ricordare il passato e commuovere nuove generazioni, rappresenta, con la voce, il canto e i suoni
che lo accompagnano, un percorso canoro e
musicale originalissimo frutto del lavoro decennale del Coro delle Mondine di Novi di
Modena, approfondito e sviluppato in chiave
folk dal gruppo musicale dei Fiamma
Fumana. Un esperimento che ha visto unire il
coro, la musica folk-popolare e uno stile elettroethnic-pop, per un risultato tutto da ascoltare.
Un coro che ha ormai trent’anni di attività
sulle spalle, passati in tour tra il nostro Bel
Paese, la Francia, la Bulgaria, l’Argentina e gli
Stati Uniti. Nel film, le belle voci di queste
venti donne sono accompagnate dalla particolarissima miscellanea sonora prodotta dagli strumenti dei Fiamma Fumana: la leggendaria piva
emiliana, flauto, basso, tastiere, chitarra acustica, fisarmonica, organetto, basi elettro-folk e il
supporto del Dj per i live elettronics.
Nel terzo lavoro dei Fiamma Fumana, Onda
del 2006, il Coro delle Mondine aveva già prestato voce in Angiolina e Mariulèina.
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 14
BEY&further
OND
a cura di ROMINA CIUFFA
Music In Inverno 2009
HELICOPTER QUARTET Karlheinz
Stockhausen L’elicottero è uno strumento musicale, e l’inconscio lo dirige.
MATITE DI VINILE CONTEMPORANEA
La mostra Quel sapore Oscar Pizzo C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria
di panca
DE ANDRÈ La
mostra Comunque
sorridere a metà
QUARTETTO D’ELICOTTERI I L D I S C O È U N T A M A G O C H I
È questo l’unico pezzo al mondo composto per elicotteri e violini.
E come tutte le visioni, inizia da un sogno: quello di Karlheinz Stockhausen
di Romina Ciuffa
Q
uesto è un sogno e noi stiamo tutti dormendo. È il sogno di un visionario, il
tedesco Karlheinz Stockhausen, eccentrico, narcisista, pur sempre Stockhausen, padre
dell’elettronica moderna. «Questo brano è
dedicato a tutti gli astronauti del mondo»,
disse, messianico quando lo consegnò al violinista Irvine Arditti, che gli aveva chiesto un
quartetto d’archi, un genere - tipico del XVIII
secolo - che lui non avrebbe
mai scritto. Poi sognò violini e
rotori, un ritmo serrato, le pale
di un elicottero al pari di violini, e disse: Sia.
L’Helicopter String Quartet
divenne la terza scena di
Mercoledì, parte della monumentale opera lirica Licht, esagerata, tra le più voluminose
mai scritte nella storia della
musica e anche esemplare
interesse di Stockhausen per la
cosmologia, le formule matematiche, le proporzioni geometriche e le allegorie. Nelle
sue intenzioni, Mittwoch rappresentava il rapporto tra conflitto e riconciliazione, nel
Quartet è il percorso dalla
terra al cielo, un viaggio dal
terrestre verso l’utopia.
Ciò che è possibile nei sogni
non lo è ad occhi aperti, e il partito ecologista
austriaco si oppose all’esecuzione nell’ambito
del Festival di Salisburgo del 1994 per problemi
ambientali: la prima mondiale dovette attendere
il 1996 quando, nel corso dell’Holland Festival,
volarono sulla città i quattro elicotteri. Oggi, per
la terza esecuzione mondiale, sorvolano Roma e
partono dall’Auditorium, nell’ambito del
Festival delle Scienze 2009, i violinisti del
Quartetto Arditti (con i violini di Irvine Arditti
e Ashot Sarkissjan, la viola di Ralf Ehlers, il violoncello di Lukas Fels), interpreti di un sogno,
che urlano cifre in tedesco esattamente come
indicato nelle partiture. Visionari quanto il loro
creatore. Il cielo è piovoso al pari dell’angoscia
che prorompe dall’inconscio stockhauseniano.
Lui aveva previsto tre microfoni: uno per lo strumento, uno per la voce, il terzo all’esterno,
accanto alle pale - il suono del motore, dell’aria,
del volo. Il suono del terrore inconscio di precipitare. L’esibizione è di 18 minuti e 36 secondi.
Le voci sono indicate negli spartiti in quattro
diversi colori, come le
camicie dei quattro musicisti. La partitura è complessa, nulla di orecchiabile: gli strumenti non hanno
un procedimento melodico
definito e si muovono
attraverso la tecnica del
«glissato» (l’innalzamento
e l’abbassamento costante
e progressivo dell’altezza
di un suono, imitazione da
parte dello strumento del
linguaggio
espressivo
della voce umana).
Un delirio, un incubo. Si
diventa Stockhausen tutte
le volte che si realizza l’irrealizzabile, che si dà
spago a un sogno. Quando
si hanno deliri di onnipoIrvine Arditti
tenza («Sono stato istruito
su Sirio e ci ritornerò
anche se vivo ancora a Kürten»). Questo quartetto d’elicotteri dà atto dell’inafferrabilità di un
suono sordo, di una sviolinata senza armonia,
dell’assordante pesantezza dell’essere, passeggeri a bordo dell’elicottero di un pazzo. Quando
i violinisti toccano terra è come restituire un
silenzio dovuto alle orecchie e all’animo.
Sognare di volare si lega al simbolismo della
salita, della discesa e della caduta; Freud vedeva nel volo onirico l’espressione di un desiderio
fisico non soddisfatto nella realtà. Stockhausen
lo ha avverato, in qualche modo. Che ciò sia di
spunto anche per il più grande dei sonnambuli.
A CURA DI
GIOSETTA CIUFFA
AL RITMO DELLE GALASSIE
Gong, elicotteri, 100 chitarristi e il ritmo delle galassie:
l’intervista a Oscar Pizzo, curatore di «Contemporanea»
La rassegna Contemporanea, curata da Guido Barbieri e Oscar
Pizzo, giunge alla terza edizione e fino a maggio sviluppa temi come il
rapporto con la musica etnica e popolare, il barocco, il cinema, la cultura americana, in un modo molto particolare. La stagione si caratterizza anche per la presenza di due eventi speciali, come la più importante
e utopica opera di Karlheinz Stockhausen e una nuova sinfonia di Rhys
Chathan per 100 chitarristi provenienti dal panorama musicale romano. A Oscar Pizzo chiediamo spiegazioni.
Come nasce la rassegna «Contemporanea», di cui sei curatore?
Nasce in sintonia con l'esigenza di un'apertura verso la musica contemporanea, ma anche come confronto con tutte le arti: un'apertura a
360 gradi sia dal punto di vista degli interpreti, sia degli stili, dalla «contemporanea classica», al rock, al jazz, alle performance, al teatro, alle
arti visive, al cinema, al barocco rivisto.
Cosa avete ricercato per diversificarvi da altri festival analoghi?
L'attenzione: non chiudere alle diverse esigenze del panorama contemporaneo. Non si tratta di un festival «autopunitivo» ma dell’apertura verso tutto ciò che è nuovo, sfruttando anche
eventi come l’Helicopter String Quartet ma anche A secret rose, concerto per 100 chitarre
elettriche, basso elettrico e batteria, con musiche di Rhys Chatham (che l’ha definito «una
jam session immaginaria tra John Cale, Tony Conrad e i Ramones»). La rassegna è anche
rock: l'anno scorso Glenn Branca, quest'anno John Luther Adams, due padri spirituali della
chitarra elettrica. Immaginate cosa può significare ascoltare il suono di 100 chitarre?
Cosa c’è di contemporaneo aldilà del nostro spazio?
Abbiamo curato il rapporto con la musica popolare con Gagaku, spettacolo dell'orchestra
Ichihimegagaku della Corte imperiale giapponese, con musiche di Toru Takemitsu - musicista anche per Kurosawa - e danzatori; a maggio avremo Trance ed Exotica, due incontri per
approfondire il lato musicale del sufismo, il primo dal Pakistan e il secondo dal Marocco, due
modi differenti di interpretarlo. Presto avremo Moondog, il vichingo della Sesta Avenue, spettacolo dedicato a Louis Thomas Hardin, musicista che si esibiva a New York vestito da vichingo: saranno eseguite sue composizioni e verrà proiettata l'intervista inedita a Philip Glass, che
lo ha seguito per un anno. Altro momento intenso sarà Leçons de ténébres: il testo, in comune con le tre religioni cattolica, ebraica e musulmana, verrà recitato dai cantori della Cappella
Sistina, della Moschea e della Sinagoga, durante il momento del terrae motus che simboleggia la morte di Cristo.
Qualche anticipazione sulla stagione 2009-2010?
Durante la Notte delle stelle ascolteremo il ritmo di due galassie, riprese dal vivo da un
osservatorio astronomico; stiamo cercando poi di organizzare il concerto per il gong dal diametro più grande del mondo, tanto da entrare nel Guinness dei primati; ospiteremo City
Life, nuova opera di Philip Glass con Vincenzo Cerami e Steve Reich.
di Romina Ciuffa
antarle, le abbiamo cantate tutte. Ma,
C
senza accorgercene, le abbiamo guardate,
tenute accanto al giradischi, lette, riconosciute.
Non solo orecchie ma occhi, e ti penetrano
velocemente, da tutti i pori, queste copertine
degli album che hanno fatto la nostra storia.
Sono i disegni più celebri quelli che riportano a
un ritornello, un collegamento neuronale immediato tra la vista e la strofa, guardare la matita
di Crepax e canticchiare Massimo Ranieri.
Sulla panca per anni,
sono esposte nella
mostra «Matite di
Vinile», che fino al
27 febbraio, a Roma
nella Sala Santa Rita
(in Via Montanara),
documenta il rapporto tra musica e
fumetto a partire
dagli anni Cinquanta.
Oggi sono cd, ieri
era vinile. Quindi
più grandi, più belli,
collezionabili.
Ritornelli palpabili.
La generazione-vinile è diversa da quella iPod, sono masse
che tengono non
solo alla sostanza,
ma anche alla forma.
Non un pezzo da Limewire: è necessario averlo
lì, con nome e cognome e con la copertina originale, spenderli i soldi. Recarsi al negozio,
ordinarlo, attendere giorni, ritirarlo con un
appagamento estraneo. A che serve tenerlo solo
per ascoltarlo? Evviva il copyright. Un pezzo
va coccolato, tenuto in mano, cresciuto come
un Tamagochi. Va pagato. Un pezzo va nutrito,
letto, pensato, anche ascoltato ma, prima di
tutto, visto, lì, tra gli album, la matita di Crepax
e quella di Andrea Pazienza, tutte lì, copertine
da appendere.
In questo senso, Mina rimane una delle principali ispiratrici della matita, la vera musa si è
fatta contorcere, rigirare, beffeggiare da tutti gli
illustratori, si è storpiata al punto da essere
Paperina accanto ad Adriano Celentano anche
su video. A lei dobbiamo non solo musica ma
arte, a lei dobbiamo riflessioni non solo emotive, ma meramente cognitive: quelle del guardare e pensare, oltre che sentire.
E allora, compiamo un’incursione nelle
nostre fantasie neuronali in cui una papera ci
canta Acqua e Sale. È già dalla metà degli anni
50 che i rapporti tra musica leggera e grafica si
fanno più intensi per la nuova diffusione dei
dischi in vinile, a 33 e a 45 giri. La busta che
contiene il disco cessa di essere un anonimo
contenitore con il centro forato e il logo della
discografica produttrice, com’è fino a quel
momento per i 78 giri. Le nuove buste, per
ambedue i formati, sono chiuse e illustrate, con
fotografie e con disegni. Esigenze di illustrazione di cui le nuove buste si fanno portatrici rendono necessaria la presenza di un progetto: ed
ecco i giovani grafici assumere le vesti degli
illustratori, alcuni intraprendere un percorso
artistico all’interno del fumetto. È il caso di
Guido Crepax, che ha disegnato copertine di
dischi per anni, stile «Valentina», per Massimo
Ranieri ad esempio (il pezzo era Per una
donna, del 1974) o per Alberto Baldan (Io e
Mara, del 1969) o
per il gruppo rock
dei Garybaldi (Nuda
del 1972). Pazienza
illustra molte copertine per i dischi di
Roberto Vecchioni e
indimenticabile è
quella di Milo
Manara per il Tango
dei Miracoli di
David
Riondino
(1987), in cui la
Morte abbraccia con
vigore una bellissima donna con la
coda da diavolo.
La consuetudine
continua per tutti gli
anni Settanta e
Ottanta fino alla
scomparsa
dei
dischi in vinile, ma in alcuni casi sopravvive
fino ad oggi, anche con il formato ridotto del
compact disc. Veri e propri progetti grafici
coinvolgono non solo la busta esterna dei 33
giri ma anche quella interna, in qualche caso
l’etichetta e perfino i poster allegati al disco.
Le copertine esposte a Roma sono tutte italiane e per cantanti italiani, con la sola eccezione
del lavoro di Tanino Liberatore per il disco di
Frank Zappa, The Man from Utopia, del 1983.
In alcuni casi, coincidono cantante e illustratore: Augusto Daolio, uno dei Nomadi, ne disegnò per i dischi del gruppo, e Paolo Conte ha
scarabocchiato dischi propri ed altrui. Non da
meno Lucio Battisti e Francesco De Gregori.
Poi Ferruccio Piludu (autore per Sergio
Endrigo), Mario Convertino, Emanuele
Luzzati.
C’è tutta la storia visiva della musica, l’incontro dei sensi là dove due insiemi percettivi
combaciano e danno, a un ritornello, un vigore
più forte: e non è, questa volta, l’operazione
classica - aggiungere la colonna sonora a
un’immagine - ma dare fattezza alla musica,
restituire bidimensionalità alla percezione e, se
vogliamo - un giochetto tutto nostro - unire
anche l’olfatto. Perché quel sapere di panca che
hanno i vinili se si appoggia il naso, quel sapere di polvere e di vecchio fa sentire, paradossalmente, più giovani e le sinapsi neuronali iniziano a girare come un 45 giri (nel buco al centro,
un vuoto incolmabile).
DE ANDRÉ, QUELLA
SPECIE DI SORRISO
di Romina Ciuffa
È
una «specie» di sorriso quello di Fabrizio
De André. Noi che non riusciamo a non
piangere - dieci anni dopo la sua scomparsa nel pensare alla sua poesia tutta da ballare
lungo il filo della notte sulle pietre del giorno.
E che non riusciamo a non ridere, perché la
nostalgia porta quel senso martoriante di felicità - andata - e non un sorriso, ma una specie.
Appunto. Una mostra di disegni, quella di
Mauro Biani si ispira alle canzoni di questo
«suonatore di mandolino»; vignettista e seguito
blogger, interpreta le canzoni in maniera poetica e romantica. C’è una Bocca di Rosa che precede la vergine in processione (anziché seguirla), un Michè impiccato in un CPT, e poi Piero,
Nina, Marinella, Andrea, Princesa e tanti altri
personaggi che rivivono in nuovi contesti: attraverso le linee morbide e i colori caldi di una
matita, i protagonisti si muovono in scenari
attuali, tra la manifestazione del G8 di Genova,
il dramma dell’emigrazione e del precariato, le
situazioni imbarazzanti del potere e della
Chiesa. 15 tavole a colori, a Roma e nelle librerie Feltrinelli delle principali città. In un’ attualità criminale, se ti tagliassero a pezzetti tu sai
che il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la
luna tesserebbe i capelli e il viso, e questo ti
lascia proprio «una specie» di sorriso.
RIVISTA inverno.QXP
9-02-2009
17:31
Pagina 15
Music In Inverno 2009
TIZIANO FERRO Alla
mia età Sono un falco, un
angelo o un aviatore
VINICIO CAPOSSELA Solo
Strumenti fantastici tra toy piano,
bicchieri, theremin e la sua solitudine
GRACE JONES Hurricane
Quel ponte virtual-sonoro tra
Giamaica e Bristol
JOHN MAYER Continuum
Ferma questo treno. Voglio
scendere e ricominciare.
ROMINA CIUFFA
VINICIO CAPOSSELA - DA SOLO
J AZZ
& blues
Ritrovarsi a un certo punto,
dopo tante traversie, da solo.
Ma non del tutto. Vinicio
Capossela è stavolta in compagnia del suo
amico più intimo, il pianoforte.
Da solo è un disco per piano e strumenti
inconsistenti. I 12 brani del nuovo lavoro spaziano tra i mille cambi di stile ed umori tipici del
cantautore italiano che si destreggia tra suggestioni di waltzer, tip tap, orchestrali, big
band e canzone italiana.
Una serie infinita di strumenti fantastici (tra
cui toy piano, bicchieri, theremin, optigan, mellotron, mighty wurlizer, ottoni, fiati e grancassa) tratteggiano ora con delicatezza, ora con
maestosità, i contorni luccicanti di un disegno
intimo, del nucleo di un animo che riflette a
voce alta nella malinconia delle notti invernali,
accompagnato dalle note che soltanto i tasti
bianchi e neri sanno plasmare.
È la solitudine cantata con spensieratezza
apparente, coperta dal sottile velo della metafora che ci mostra lo sterminato immaginario
dell’artista. La solitudine che ti permette di
mostrare la tua vera natura, la libertà dalla
clandestinità. E ancora l’unione, la guerra, la
distanza, l’importanza delle parole, il cielo, il
silenzio, l’America, la verità.
E soltanto quando soffia forte il vento, quando
il lume sembra spento e si fa scuro tutto
attorno e non c’è niente del gran giorno puoi
pregare di incontrare il gigante e il mago. E
noi preghiamo!
Ritorna
ruggente la
pantera di
Kingston all’età di ben 60
anni. Per Grace Jones è
come se il tempo non
fosse mai passato.
Sembra ancora di vederla, negli anni Ottanta, algida e imponente, beniamina del radical-chic di New
York, icona gay, sintesi
perfetta fra il reggae e la
disco music.
La classe, il talento, l’essenza «animale» e incisiva dell’artista giamaicana sono esattamente
le stesse ma la forza di Grace Mendoza sta nel
fatto che dopo ben 20 anni di assenza (il suo
ultimo disco, Bulletproof Heart, è uscito nel
1989) ha la forza di risultare ancora meravigliosamente attuale e all’avanguardia.
Incredibile l’impatto dell’album al primo ascolto.
Hurricane ha un suono metropolitano, freddo,
tecnologico e soul, tribale, esotico, solare al
tempo stesso. Trip-hop, dub (I’m Crying –
Ennesimo film sulla Seconda
Guerra mondiale e su un
pugno di ebrei che è riuscito
miracolosamente a sfuggire dall’Olocausto,
così si potrebbe riassumere The defiance di
Edward Zwick, ma non basterebbe.
Soprattutto perché, oltre alla bella interpretazione di Daniel Craig, Liev Schreiber e Jamie
Bell, il film gode di una colonna sonora davvero
preziosa.
Le musiche, infatti, sono state composte da
James Newton Howard, uno che di cinema e
di musica se ne intende. Tantissime le nomination agli Oscar per l’artista (tra cui Il fuggitivo,
The village, Michael Clayton) e recentemente,
proprio per The defiance, come miglior colonna sonora ai Golden Globe 2009.
Grande amico e collaboratore di registi del
calibro di M. Night Shyamalan e Peter
Jackson, la sua musica spesso è stata avvicinata a quella di un altro grande compositore di
musiche per film, Jarry Goldsmith (vincitore
nel 1976 dell’Oscar per le musiche de Il presagio-The Omen).
In questo suo ultimo lavoro Howard punta le
note, coadiuvato in studio dal grande violinista
Joshua Bell (che impugna uno Stradivari del
1713), al cielo cupo della guerra, degli inverni
polacchi e bielorussi, nelle tonalità malinconiche del pianoforte e più struggenti se possibile del violino, come in Escaping the ghetto,
Survivors e Winter.
Un
coinvolgimento totale,
come nei profondi assolo di violino in The wedding o Exodus, in
cui le immagini
dai colori scuri si
accompagnano,
emotivamente e
psicologicamente, alle note
basse degli strumenti e alle
miserie
della
storia, fino alla bellissima Nothing is possible
dove anche la musica assieme ai giusti rovescerà il buio nel suo contrario.
Flavio Fabbri
CARMINE CATALDO - CAPRI JAZZ BAR TRIO & FRIENDS
J AZZ
& blues
Un disco che
esce
dall’estate del
Capri Jazz
Bar questo
di Carmine
Cataldo, che
è colonna
sonora
a
una malinconia da nutrire in riva al mare ascoltando l’alternanza tra originali e standards consolidati
come Invitation di B. Kaper o The Shadow of
your Smile di J. Mandel.
Grintosa la terza traccia Hard Pop Engineering,
dichiarato omaggio a B. Powell di ispirazione bop
nello stile di Charlie Parker, dal quale attinge sia
nella scrittura del tema che nell’improvvisazione.
Noti i solisti, fra i quali spicca Daniele
Scannapieco, la cui presenza costituisce di per
sé una certezza per la fluidità dei brani sia nell’esposizione che negli assolo. Tommaso
Scannapieco, Jerry Popolo, Giovanni Amato,
Domenico Basile, Franco Gregorio e Peppe
Plaitano sono gli altri «friends».
Sonorità uniforme che scorre senza guizzo,
Cataldo preferisce la scolasticità a quei fuori riga
che avrebbero dato spunto ad esplorazioni di
solisti e ritmica. Sono scelte. Ne La storia di un
miaù e di un limone il rumore del pedale del
piano riporta allo strumento. L’amore di Tristano
e Isotta, omaggio a Michel Petrucciani, chiude
l’album e una serata al Capri Jazz Bar.
Romina Ciuffa
JOHN MAYER - CONTINUUM
Gianluca Gentile
«Babyface», così lo chiama la
stampa americana. Piace alle
mamme, alle figlie… È il giovane della porta accanto che sta vivendo il
«sogno americano». Potrebbe sembrare uno
dei tanti ragazzini ingaggiati dalle major discografiche per un ennesimo disco pop, per quell’aspetto acqua e sapone, per quella voce così
calda e delicata.
Delicato: il maggior cruccio di John Mayer è
proprio quello di liberarsi da questa immagine
da bravo ragazzo e ci riesce
perfettamente con il suo
terzo disco, Continuum, rilasciato dopo l’esperienza live
con il trio formato assieme
a Pino Palladino e Steve
Jordan.
È il disco della svolta, del
cambiamento, in cui decide
di abbandonare la ballad
acustica che ha caratterizzato i suoi primi due lavori
per abbracciare una matrice più elettrica; ad un primo
GRACE JONES - HURRICANE
ALTNATIVE
ER
a cura di ROMINA CIUFFA
AA.VV. - THE DEFIANCE
TIZIANO FERRO - ALLA MIA ETÀ
«Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene,
quindi se escludi gli aviatori, falchi, nuvole, gli aerei, aquile e angeli, rimani te». Sognavo di pilotare un ultraleggero, volavo sopra i Castelli Romani
e, nell’atmosfera rarefatta dei sogni dove l’Es sprigiona la sua pulsione arcaica, la realtà si alterava ed io non riconoscevo gli strumenti: il mio inconscio si era divertito ad
invertire la manetta e i flaps - guardiano delle mie
più fedeli paure - impedendomi di gestire l’emergenza, così da venir ingoiata nelle termiche di una vallata. Esterno giorno, carrellata sul prato - mi ritrovavo a terra, sapevo di stare sognando e la paura investiva solo quella parte di me che diceva: «Questa è la
metafora di qualcosa di più grande». Si, ma di cosa?
Tiziano Ferro, voce limpida, impeccabile - un arrangiamento chiaro nei termini di una ballata, oltre a
qualche spunto rap a volte commerciale - mi accusa:
«Indietro». Io sono a terra, l’aereo è fermo, cerco un
modo per uscire dall’emergenza, e lui ripete:
«L’amore va veloce e tu sei indietro». Non si tratta
della paura di volare, ma del non sapere dove andare mentre sono in volo: non sono precipitata per l’incoscienza di portare un Sierra senza saper gestire
un’emergenza, ma per non aver guardato oltre mentre pilotavo (perché «il bene più segreto sfugge
all’uomo che non guarda avanti mai»).
Un disco limpido questo, continuità con quelli precedenti ma anche nuovo stimolo per i romantici instancabili, ci stende su un lettino da psicanalista e parla lui, le paure psicosomatiche, gli inferni, una sosta dai concetti e i preconcetti, una sosta dalla prima impressione. Qui con lui Laura Pausini (La paura non esiste), Franco Battiato (Il tempo stesso), Ivano Fossati (Indietro) , Kelly Rowland (Breathe
Gentle); ma anche altri, quelli delle accuse di plagio (il primo, Virginio Simonelli con la sua
Davvero di Sanremo 2006, identica a La mia età; poi Ligabue, la cui Ho messo via si trova
online montata con Ti scatterò una foto; sino ai Green Day di Wake Me Up When
September Ends per ll sole esiste per tutti). Comunque, a me un regalo l’ha fatto: qualcosa di dolce, di raro, non un comune regalo di quelli che hai perso, o mai aperto, o lasciato in treno, o mai accettato. È l’interpretazione di un sogno. Il suo cd sbadatamente lo
lascio sull’aereo mentre cerco aiuto, ma il mio è un caso limite: sono appena precipitata.
FEED
back
Mother’s Tears, Hurricane
e Devil in my Life) e reggae
(Well Well Well, Love To
You Life e Sunset Sunrise)
convivono piacevolmente
creando una sorta di
urban reggae, un ponte virtual-sonoro fra Giamaica e
Bristol, possibile anche
grazie alle numerose e
prestigiose collaborazioni
come quelle di Sly &
Robbie, Brian Eno e Ivor
Guest, Tricky e Tony Allen.
Se non si conoscesse il
titolo del disco l’impressione che si avrebbe sarebbe proprio qualla di un
uragano potente e travolgente che ti rapisce
al primo istante. Proprio come entrare in
un’altra dimensione.
Ma dopotutto, cosa aspettarsi da colei che,
parlando di sé sul sito ufficiale, dice: «I believe
whatever I dream. Whatever I dream, I want
to»?
Valentina Giosa
ascolto l’album si presenta con 12 tracce in
cui predomina la melodia rispetto al virtuosismo chitarristico tanto aspettato, ma dopo un
ascolto più approfondito, i fraseggi emergono
senza disturbare, sottovoce, non vogliono
mostrarsi e impressionare, ma accarezzarci
dolcemente le orecchie con un suono rotondo
e caldo.
Le tracce sono quasi tutte Mid-tempo, ma non
per questo povere di energia; c’è vitalità nel
singolo di apertura Waiting On The World To
Change, spiritualismo in
Gravity, un groove sinuoso
in Vultures e malinconia
acustica e delicata che ha
caratterizzato la sua prima
produzione in Stop this
train. Mayer è il musicista
che conosce le proprie
potenzialità ne è consapevole, ma non le sfoggia per
vivere delicatamente a servizio della musica.
Elisa Angelini
H.E.R. - MAGMA
CLASSICA
MENTE
H.E.R, al secolo Erma Pia
Castriotta, già violinista dei
Nidi d’Arac, di Teresa De Sio
e collaboratrice di numerosi altri artisti, ha deciso di svelare la sua natura più creativa e esce
con un CD molto interessante: «Magma». Non è
facile dare una definizione al lavoro, e già questa
di per sé è una cosa positiva.
È un disco di presentazione (si spiegano così
alcune personalissime cover, testimonianza
della sua formazione: Sweet dreams di Annie
Lennox, Amandoti dei CCCP, Non c’è ragione
di Teresa De Sioe Vita Spericolata di Vasco
Rossi), ma anche un disco sperimentale in cui
voce e violino duettano in maniera inusuale e
quasi morbosa: la voce cristallina, pura (nei
timbro ricorda la voce della sua amica
Rettore) contrasta con l’immagine dark della
musicista, mentre il violino si impone quasi
sempre sulla linea melodica, svelando quasi
un’altra parte dell’anima, più timida, che la
voce non riesce a raccontare.
Gli amici che sono accorsi a sostenere il progetto (Peppe Voltarelli, Momo, Alessandro
Castriota Scanderbeg e Petra Magoni) aiutano ad alternare il ritmo di un percorso in 13
tracce che altrimenti, forse, sarebbe risultato
un po’ ripetitivo .
Nicola Cirillo