La banda di Shanghai, 2010 (foto di Mariano Beltrame). Anno X - marzo / aprile 2013 - n. 51 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 2 In copertina: Il caso Makropulos di Leóš Janáček secondo Robert Carsen (foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu). VeneziaMusica e dintorni Anno x – n. 51 – marzo / aprile 2013 testata in corso di nuova registrazione Direttore editoriale: Giuliano Segre Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano Direttore responsabile: Leonardo Mello Caporedattore: Ilaria Pellanda Art director: Luca Colferai Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano, Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin, Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti VeneziaMusica e dintorni è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004 Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore), Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis, Ignazio Musu, Giampaolo Vianello Stampa: Tipografia Crivellari 1918 Via Trieste 1, Silea (Tv) Tiratura: 3000 copie Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione di Giorgio Mastinu, Maria Rita Cerilli, Alexia Boro, Camilla Mozzato, Erika Bonelli, Adriana Vianello, Andrea De Marchi, Livia Sartori, Elena Casadoro, Elena Tosi, Andrea Benesso La storia continua di Cristiano Chiarot e Giuliano Segre 7 Editoriale di Leonardo Mello 8-17 sommario 6 3 focus on 8 Arriva sempre il momento in cui anche una bella donna deve confessare la sua età… di Franco Pulcini 10 Karel Čapek, ovvero: sui rimedi alla stupidità umana di Massimo Tria 12 Ferro dirige il «Caso Makropulos» a cura di Mirko Schipilliti 14 Janáček secondo Robert Carsen a cura di Vitale Fano 16 La dolcezza della morte di Mario Messinis «Il caso Makropulos» di Janáček/ Čapek: ne parlano, tra gli altri, Franco Pulcini, Robert Carsen e Gabriele Ferro opera 18 «La cambiale di matrimonio» vista da Enzo Dara Continua il progetto «Atelier della Fenice al Teatro Malibran» a cura di Arianna Silvestrini 19 Stefano Montanari sul podio per Rossini a cura di Vitale Fano 21 Un 2013 ricco di eventi per l’Associazione Richard Wagner Venezia di Leonardo Mello 22 Wagner e i suoi soggiorni in Italia di Renzo Cresti 22-26 classica 27 Beethoven con il quartetto Belcea di Mario Messinis 28 Claudio Scimone dirige l’Orchestra della Fenice a cura di Andrea Oddone Martin 30 Gabriele Ferro: da Janáček a Stravinskij a cura di Mirko Schipilliti 31 Mikhail Pletnëv e la Kremerata Baltica alla Fenice Continua la stagione della Società Veneziana di Concerti di Ilaria Pellanda 32 Conversazioni angeliche: il femminismo tra sacro e inconscio nella musica del xviii secolo Due concerti degli Amici della Musica di Venezia di Paolo Cattelan 34 La nuova stagione dell’Agimus di Venezia tra musica e filosofia di Ilaria Pellanda 27 contemporanea 35 Concerto con musiche di Leone Sinigaglia di Annalisa Lo Piccolo 32 sommario 4 36 I primi vent’anni dell’Archivio Luigi Nono di Venezia a cura di Letizia Michielon 38 Luigi Nono di Veniero Rizzardi 40 Sulla Biennale Musica Una lettera di Luigi Abbate 36-39 l’altra musica 42 Francesco De Gregori: storie senza fine Il cantautore romano presenta «Sulla strada» di John Vignola 43 Sinead O’Connor sbarca in Fenice di Giuliano Gargano 44 Un «Fantasma» per esorcizzare i propri demoni I Baustelle in concerto a Padova di Gianni Sibilla 45 Gli anni ottanta dei Litfiba rivivono in concerto di Guido Michelone 46 In un disco di cover ecco le radici rock di Anastacia di Tommaso Gastaldi 47 Max Gazzè canta «Sotto casa» di Guido Michelone 49 Al Fondamenta Nuove tre inediti concerti di Ilaria Pellanda 50 Se tu prenderai marito Cantare al femminile di Gualtiero Bertelli 52 Il corpo sonoro di Ravenna Nasce il progetto «Buco bianco» di Luigi De Angelis e Sergio Policicchio I vent’anni dell’Archivio Luigi Nono 44 50-51 prosa 53 Roberto Herlitzka e il genio di Glenn Gould «Il soccombente» di Bernhard approda al Goldoni a cura di Ilaria Pellanda 54 A voce alta Sul «Soccombente» di Thomas Bernhard di Eugenio Bernardi 56 Le verità si scontrano nell’«Orazio» di Heiner Müller di Peter Kammerer 58 Lo splendido «Panico» di Luca Ronconi E ancora Spregelburd con «Todo» di Alessio Nardin di Leonardo Mello 53-55 Al Goldoni «Il soccombente» di Bernhard sommario 5 prosa – commenti 59 I premi Ubu: proposte di modifica di Oliviero Ponte Di Pino arte 62 «Postwar. Protagonisti italiani» secondo Luca Massimo Barbero di Ilaria Pellanda 63 Tiepolo torna a Villa Manin di Eva Rico fotografia 64 63 Giambattista Tiepolo ritorna a Villa Manin La parola a Gianni Berengo Gardin di Denis Curti in vetrina 66 Fondazione Levi: dieci anni di concerti per le Sacre Ceneri di Giorgio Busetto in vetrina – Mario Bortolotto 68 Il provetto stregone Mario Bortolotto e le vie della musicologia (6) un progetto a cura di Jacopo Pellegrini 69 Mario Bortolotto organizzatore musicale di Ennio Speranza 64-65 carta canta – libri 73 Le recensioni di Giuseppina La Face Bianconi 74 «Forma divina», gli scritti di Fedele d’Amico di Jacopo Pellegrini 77 L’opera dei libertini di Lorenzo Bianconi 78 Il Wagner colossale di Quirino Principe di Leonardo Mello 79 Una bambina, la sua guerra di Leonardo Mello 79 Relazioni e osmosi tra cinema e teatro di Leonardo Mello In mostra la fotografia/documento di Gianni Berengo Gardin 66-67 77 Lorenzo Bianconi racconta «L’opera dei libertini» 6 La storia continua D di Cristiano Chiarot e Giuliano Segre opo aver oltrepassato l’importante traguardo delle cinquanta uscite, con il numero 51 VeneziaMusica e dintorni conclude in un certo senso il suo primo ciclo di attività, dopo nove anni di ininterrotta e vigile presenza negli ambienti culturali cittadini e regionali. Con la cessione, da parte della Fondazione di Venezia, della sua società strumentale Euterpe Venezia alla Fondazione Teatro La Fenice anche la rivista infatti entra a far parte dei progetti editoriali del Teatro. Questo però non comporta affatto una sua diminuzione, quanto invece una crescita della sua importanza come strumento efficace e ormai universalmente riconosciuto di informazione e approfondimento, rivolto ai moltissimi appassionati di quella che da qualche tempo viene definita «arte dal vivo», intendendo con questa espressione il variegato mondo dello spettacolo, a cominciare ovviamente dalla musica in tutte le sue sfaccettature e proseguendo per i limitrofi settori del teatro, della danza e di tutto quanto prevede la compresenza di un attore e di (almeno) uno spettatore. In questo senso la pubblicazione, nelle sue prossime uscite, continuerà nella sua indagine capillare, anche se in parte verrà rimodulata per rispondere ancora maggiormente alle esigenze comunicative del Teatro che la edita. Esigenze che come è ovvio non si limitano all’esame dettagliato del suo cartellone e di tutte le iniziative che vi si riferiscono (e che sin dalla nascita, del resto, VeneziaMusica e dintorni ha sempre «coperto» giornalisticamente) ma investono invece a largo raggio le attività musicali e più estesamente culturali dell’intera città metropolitana, di cui la Fenice e la Fondazione di Venezia intendono essere interlocutori attenti e privilegiati. La rivista dunque, come annunciato inequivocabilmente nei festeggiamenti per il numero 50, continua il suo percorso, anche se potrebbe cambiare la sua periodicità e in parte anche il suo profilo «estetico», adeguandola in termini d’immagine, e anche economici, alla situazione contemporanea. Ma al di là delle piccole trasformazioni che la toccheranno resta salda l’impostazione risultata vincente nel corso di quasi un decennio, che ha nell’attenzione al territorio uno dei suoi fondamenti essenziali. E in linea con il passaggio al Teatro La Fenice, arricchendo la già folta produzione editoriale di questa istituzione, sarà anche uno degli ingranaggi fondamentali della collaborazione tra le due Fondazioni, collaborazione da sempre molto attiva e ancora più stretta e concreta ora, quando l’orizzonte metropolitano della città lagunare sta finalmente divenendo realtà. È doveroso, prima di concludere, ringraziare i moltissimi collaboratori, provenienti dal mondo accademico e della critica militante, che in questi lunghi anni hanno decretato il successo della testata, dandole – anche attraverso i molti dossier corali sulle questioni più urgenti e spinose relative alla musica, al teatro e all’arte dal vivo in generale – una visibilità e una notorietà che travalicano i confini locali. Ci auguriamo di cuore che tutti continuino a supportare, con il loro prezioso contributo intellettuale, il proseguimento di questa avventura. ◼ A sinistra, la Fondazione di Venezia. A destra , il Teatro La Fenice. Editoriale C di Leonardo Mello ome avrete letto nella pagina a fianco, e come già annunciato nel numero 50, la nostra rivista sta vivendo una fase di ristrutturazione, conseguente al passaggio in forze della stessa al Teatro La Fenice. Dopo nove anni sotto le insegne di Euterpe Venezia la testata dunque cambia ora editore, entrando a far parte della frastagliata attività pubblicistica della Fondazione lirica cittadina, che del resto è stata sin dalle origini il nostro principale e irrinunciabile referente. È evidente, in questo contesto, che alcune trasformazioni saranno inevitabili, coinvolgendo sia la periodicità che, in parte, la linea culturale sin qui seguita e costruita nel corso del tempo, sulla base delle esigenze e delle volontà che la Fondazione di Venezia, attraverso la sua società strumentale Euterpe, ci aveva chiesto di interpretare al momento della nascita del bimestrale, nel novembre del 2004. Viene quindi spontaneo, in questo momento di passaggio, esprimere un ringraziamento retrospettivo all’istituzione che ci ha permesso, in questo lungo percorso, di muoverci in grande autonomia e indipendenza nel cercare di analizzare, sviscerare e in parte anche prevenire – per così dire – le tendenze che caratterizzano l’arte dal vivo nelle sue infinite possibili declinazioni. Nel continuo e costante esame dei cartelloni, nella disamina dei cosiddetti even- ti, nell’individuazione di filoni tematici, abbiamo tentato di sviluppare dei fili, di comprendere (e comunicare) delle intersezioni, di dare impulso, pur essendo uno strumento «territoriale», a inedite e a volte imprevedibili connessioni. Il lavoro di redazione, suddiviso tra ideazione e coordinamento, ha sempre avuto come orizzonte progettuale la mescolanza e il meticciato, due concetti che – a nostro parere – si inseriscono perfettamente nell’immagine dello spettatore (ma anche dell’artista) contemporaneo. I settori legati alla «performatività», che hanno avuto una fioritura inesausta e conflittuale durante tutto il xx secolo e continuano a essere indicatori preziosi della realtà nel suo incessante mutamento – assecondato anche dalla corsa sfrenata al ricambio propria della tecnologia – puntano, per la loro stessa essenza di arti composite e miste, a sviluppare e favorire la commistione e la tessitura, intesa quest’ultima nella sua più stretta valenza etimologica. E questo processo, pur talvolta ostacolato dalle impostazioni legislative e dalle burocrazie, sempre arretrate rispetto alla fluidità dell’esistente, ci sembra senza possibilità di ritorno. Nel documento singolo, nel dossier articolato o nell’inchiesta corale, grazie al sostegno di un’insperatamente ampia e generosa rete di collaborazioni, abbiamo sempre perseguito – ora in termini «scientifici», ora sotto l’aspetto formativo e divulgativo – l’obiettivo di essere, più che una vetrina estetizzante del reale, una piattaforma aperta alla discussione e alla verifica progressiva. Del resto a un approccio del genere Venezia, sia per il suo fertile retroterra storico (qui nasce il melodramma, qui si riforma il teatro comico, qui l’idea moderna di fruizione scenica acquista il suo primato nella moltiplicazione e sovrapposizione dell’offerta), sia per il suo attuale assetto metropolitano è il terreno di coltura ideale. Tutto questo portiamo ora in dote e mettiamo a disposizione dei nostri nuovi committenti, mantenendo un legame profondo con la Fondazione di Venezia e le sue molteplici attività e considerando ovviamente la Fenice, principale centro propulsore della cultura cittadina, come nostro naturale porto d’arrivo. ◼ Pina Bausch (foto di Wilfried Krüger-pina-bausch.de). 7 focus on 8 Arriva sempre il momento in cui anche una bella donna deve confessare la sua età… L’ di Franco Pulcini affare Makropulos, opera rappresentata nel 1926, è il penultimo titolo di Leoš Janáček, e quello in cui il compositore cèco ha più radicalmente applicato i suoi studi sulle «melodie parlate». È pezzo di teatro musicale dalla vocalità saettante che accende una partitura rapidissima, in cui non è per niente facile cogliere tutti gli «indizi» di cui è disseminata. La ben congegnata trama ha infatti gli ingredienti del giallo macabro, del poliziesco fantastico, della causa ereditaria e del racconto alchemico: quanto di meno operistico ci possiamo immaginare; un capolavoro originale e un’opera fra le meno eseguite e più affascinanti dell’autore. Il titolo originale della commedia di Karel Čapek, da cui il musicista ha tratto il libretto tagliando semplicemente il testo in prosa, è Věc (pronuncia: viez) Makropùlos. Věc in ceco significa «cosa». E quando nel terzo atto si parla del «Věc Makropùlos», ci si riferisce a un preciso oggetto: la busta gialla in cui è contenuta la formula dell’elisir di lunga vita, l’innominabile «cosa» segreta ideata dal dottor Hieronymus Makropulos, greco di Creta, medico personale dell’imperatore Rodolfo II alla fine del Cinquecento, nella Praga incapricciata di magia. La protagonista è Elina Makropulos, figlia dello sperimentatore, che nel 1922 ritorna trecentotrentasettenne in quella Praga dove aveva avuto inizio la sua lunga avventura esistenziale. Ora si chiama Emilia Marty, ma nei secoli è stata la spagnola Eugenia Montez, la russa Ekaterina Myškin, la scozzese Ellian MacGregor, la tedesca Elsa Müller – unico legame con il passato le iniziali, E. M.; la Marty è ancora una donna sofisticata e bellissima, che dimostra una trentina d’anni, anche se a guardarla bene porta con sé l’inquietante aspetto fisico di una vecchia ringiovanita. È una dark lady dal passato bollente, una ricca e celebre cantante lirica, una primadonna dal temperamento accentratore e autoritario, un misto fra Maria Callas e Marlene Dietrich. Giunge a Praga per cantare, ma anche per ritrovare la formula smarrita dell’elisir bevuto un tempo, e che sta ormai perdendo il suo effetto: certi suoi atteggiamenti isterici sono da assimilare ai comportamenti dei tossicodipendenti in carenza, alla spasmodica ricerca di una nuova dose. La malía ipnotizzatrice e l’innaturalezza orrida del magnetico e mostruoso personaggio viene esercitata in luoghi pubblici – uno studio legale, il retroscena di un teatro, la stanza di un albergo – in cui si consuma una certa villana sbrigatività di rapporti. E l’opera è quasi interamente costituita di dialoghi in cui i personaggi si parlano spesso addosso. Tuttavia, al di là delle parole, la musica dissemina insinuazioni, cenni, sfumature, allusioni, grazie alle quali si svela lentamente il segreto della donna. Nello stridulo spezzone di vita moderna, fanno inaspettatamente capolino brividi metafisici e fascinazioni di un passato oscuro. La musica e il canto funzionano, a livello percettivo, proprio con gli ingredienti di un «giallo»: accenni, involontarie allusioni, interrogati- vi, dubbi, silenzi, perplessità, dialoghi interrotti, riflessioni, riemersioni e, alla fine, rivelazioni choc. Un piccolo ricciolo melodico, una quasi impercettibile curvatura del canto possono comunicare, in questo saggio della psicologica vocalità janáčekiana, imbarazzo, stupore, indifferenza, angoscia. In un ambiente freddo e nichilista, dominato dagli imperiosi sbalzi vocali della Marty, o dai flessuosi e semiparlati racIl caso Makropulos secondo Robert Carsen (foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu). e la straordinaria emotività di un vecchio decrepito di fronte alla riemersione del ricordo. Il finale è il culmine dell’opera. I brividi che emana la musica di Janáček negli attimi del crollo fisico e nervoso della protagonista sono indimenticabili, quando la Marty ritrova, al capolinea della vita, un po’ di umanità nel descrivere la noia esasperante di un’esistenza protratta oltre misura. ◼ focus on conti giuridici di Kolenatý, che possiede l’inespressività della carta bollata, fanno riscontro gli accenti disperati di Prus, appresa la morte del figlio, la tenera sensualità della fanciulla Kristina (immagine della femminilità allo stato nascente, anziché deteriorato) o i nostalgici lamenti amorosi di HaukŠendorf. Di quest’ultimo la musica mima in modo straordinario la decadenza fisico-psichica senile, il disturbo mentale 9 focus on 10 Karel Čapek, ovvero: sui rimedi alla stupidità umana K di Massimo Tria arel Čapek ha viaggiato molto, anche in Italia. Qui di seguito alcune sue parole su Venezia, estratte da uno dei suoi libri di viaggio, I fogli italiani. Le cose che gli piacquero in particolar modo sono: «I gendarmi italiani, subito, già alla frontiera. Camminano sempre in coppia... mi ricordano i fratelli Čapek... Quelle stradine di Venezia dove non vi sono né canali né palazzi. Sono così contorte che finora non sono ancora riusciti ad esaminarle tutte; forse in alcune di esse non ha mai messo piede un essere umano. Le più belle sono quelle larghe un metro e lunghe tanto da farci entrare giusto un gatto con la sua coda. È un labirinto, nel quale vaga perfino il passato e non riesce a trovare una strada per uscire... Piacevole in particolar modo è poi che qui non c’è neanche un’auto, neanche una bici, neanche una carrozza o un carretto... però c’è un sacco di gatti, e sono più dei piccioni di Piazza San Marco: gatti enormi, misteriosi e dagli occhi chiari, che guardano con ironia i turisti dai marciapiedi». Poi ci sono delle altre cose che non gli piacquero molto, ma per ora le lasceremo stare... Il destino di Karel Čapek è quanto meno bizzarro, e il rischio di sottovalutare la sua grandezza è sempre in agguato: dal punto di vista letterario è costretto in quella camicia di forza quasi obbligata che ci costringe spesso (anche noi boemisti) ad indicarlo per comodità come «l’inventore dei robot». Come se avesse scritto solo il dramma R.U.R. (1920), in cui la parola robot viene usata per la prima volta, e non decine di opere dalla più varia e profonda gamma umana e poetica. Dal punto di vista esistenziale, proprio lui che tanto aveva scritto e riflettuto sull’avanzata del potere totalitario ne è stato segnato direttamente: è morto infatti nel Natale del 1938, mentre osservava sgomento la Germania di Hitler prendersi pezzo dopo pezzo il territorio e la libertà della sua Cecoslovacchia libera, pluralista e democratica, laddove poi suo fratello Josef, insigne artista poliedrico di non minore valore, sarebbe morto qualche anno dopo proprio in un campo di concentramento. E almeno per i primi anni della sua attività letteraria il nome di Karel è inscindibile da quello del fratello, con il quale si consulta, collabora e scrive opere a quattro mani: fra queste alcuni racconti che affrontano già in nuce i temi catastrofici ed antiutopici del Čapek maturo; si veda il racconto Abis- si splendenti, ispirato al disastro del Titanic, o la commedia «animale» Dalla vita degli insetti, nella quale i tre atti sono dedicati ai vizi di vanità ed eccessiva avidità di farfalle, coleotteri e formiche, dietro i quali si legge facilmente una sferzante parodia dei più classici processi distruttivi per cui si distingue il genere umano, stupido e vanesio. Ma è proprio con la pièce R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) che si inaugura ufficialmente una delle vene ispirative più forti di Karel Čapek come autore indipendente: in un’isola lontana seguiamo le fasi finali dell’estinzione dell’umanità, accompagnata dalla rivolta dei robot, esseri antropomorfi (e non metallici, come nella successiva tradizione filmica e figurativa) che si ribellano contro gli uomini-sfruttatori. Le posizioni democratiche e dichiaratamente anti-comuniste dell’autore lo portavano a guardare sempre con occhio sospetto le grandi ideologie massimaliste: sia in R.U.R. sia nel romanzo successivo La guerra del- le salamandre egli commenta o prevede addirittura i procedimenti di sconvolgimento umanitario che hanno accompagnato i totalitarismi del xx secolo: nel primo caso c’è una sorta di parallelo della Rivoluzione proletario-bolscevica, nel secondo l’inarrestabile ascesa di mostri disumani e militareschi può richiamare i vari movimenti nazi-fascisti degli anni venti e trenta. Ugualmente critici verso i regimi dittatoriali sono i drammi teatrali dei suoi ultimi anni di vita, Il morbo bianco e La madre. Čapek fu spesso criticato dagli ambienti della sinistra e soprattutto dall’avanguardia impegnata politicamente, come uomo mediocre, difensore dello status quo e amante conservatore della quiete borghese della allora neonata Repubblica parlamentare cecoslovacca (1918-1938). A offrire il fianco a questa critica alcune prose più domestiche, ironiche o intimiste del Čapek novelliere: si vedano i cicli di racconti di ispirazione poliziesca Racconti dall’una e dall’altra tasca, o i suoi vari bozzetti autobiografici dedicati agli animali doA sinistra: Karel Čapek. A destra: Josef Čapek. Leoš Janáček. altà la stavano conducendo alla rovina e all’infelicità totale. Il fatto che l’Affare Makropulos sia ambientato negli anni venti, e ripercorra i tre secoli precedenti, in cui la sua protagonista ha vissuto la sua meccanica vita di immortale, non sminuisce il valore attuale dell’opera. Al contrario, essa è sovratemporale, e raccoglie in un unico testo i miti cinquecenteschi della Praga alchemica di Rodolfo ii, l’Ottocento delle lotte di autodeterminazione dei popoli centro-europei (compreso quello ceco e la sua classe borghese) e l’atmosfera ricca ma incerta della Cecoslovacchia fra le due guerre, dubbiosa circa il suo ruolo sullo scacchiere europeo e presto minacciata dai totalitarismi. Come scrive Sergio Corduas, proprio il Golem dell’epoca Rudolfina, il Robot di Čapek e il contemporaneo Josef Švejk (il protagonista del capolavoro di Jaroslav Hašek) sono uniti da tratti di automatismo, di attività incontrollata e da una certa tendenza a distruggere l’opera dell’uomo. Il problema del doppio, del sosia o del falso essere umano era ben presente anche a Čapek: si vedano gli automi, le salamandre-antropoidi, la protagonista di Makropulos, finta giovane, il finto compositore del suo romanzo incompiuto Foltýn. E a ben pensarci il Potere totalitario è il falso doppione, l’imitazione disumana di Dio in terra. La stessa idea di sostituirsi a Dio, la supposizione imperdonabile che l’uomo possa anche solo provare a fingersi più grande di quel piccolo insetto che in fondo è, doveva essere per il nostro autore una delle più odiose e pericolose offese all’intelligenza. Sarebbe però riduttivo vedere in lui «solo» una personalità anti-utopica o anti-fascista: egli è anche, positivamente, aperto, democratico, possibilista, pluralista. Lo confermano le sue opere che indagano sulla verità: la cosiddetta trilogia noetica (i tre romanzi Hordubal, La meteora e Una vita ordinaria), i suoi racconti che sono una parodia dei gialli più che gialli autentici, in cui non domina l’interesse a risolvere lo specifico caso delittuoso, bensì il paradosso dell’irraggiungibilità della Verità, per la quale ognuno ha una sua (quasi sempre erronea) interpretazione soggettiva; Il libro degli apocrifi, dove vengono presentati personaggi celebri sotto un’ottica imprevedibile e dissacrante (un esempio su tutti: Don Giovanni sarebbe stato… impotente). O ancora il suo ultimo romanzo, rimasto incompiuto, La vita e le opere del compositore Foltýn, dove vengono svelati i mezzucci e le falsità con cui i sedicenti geni si spacciano per tali. In questi ed in altri scritti egli ci pone davanti l’enigma della Verità, irraggiungibile, perché non ne esiste mai una unica e sola. Essa in Čapek non è imposta e affermativa, bensì interrogativa e potenziale, come dimostrano le sue vicende narrate da più punti di vista e angolazioni, nessuno dei quali potrà mai prevalere, perché la Verità non è un punto fermo, ma è più simile a un fascio di linee parallele che si avvicinano asintoticamente all’infinito. Questa è la democrazia letteraria assoluta: quando l’autore non ci impone un’unica via d’uscita, e anzi si interroga insieme al lettore, suo compagno di stupore e di avventura, su quali siano le trappole della rappresentazione letteraria e poetica del mondo. Karel Čapek rimane uno dei fondamentali difensori dell’umanità, dei suoi valori più alti e universali, seppur inquadrati all’interno di precisi confini. Per lui questi confini non sono imposti da leggi sovrannaturali o ideali, ma dalla semplice e naturale constatazione dei limiti a noi dettati dalla natura, dalla nostra conformazione fisica e psichica. Qualcuno può interpretare questa sua visione (e molti lo hanno fatto) come conservatorismo antropologico. Ma se il conservatorismo antropologico, se la chiara coscienza della propria finitezza, se la lunga e preoccupata serie di avvertimenti čapkiani ci avessero potuto evitare i totalitarismi del xx secolo, forse non sarebbe stata una cosa poi così negativa. ◼ focus on mestici della sua casa, come ad esempio il delizioso Dášenka. La vita di un cucciolo. O ancora le prose dedicate alla pacifica arte del giardinaggio, in cui con gusto e zelo egli si cimentò. Ma Čapek non era semplicemente un conservatore, bensì un animo profondamente ferito dal caos della guerra, della malattia e dell’idiozia umana. Se proprio volessimo, potremmo chiamarlo allora «conservatore di umanità» (e non di valori passatisti o di posizioni di potere). Rubando alcune riflessioni a Sylvie Richterová, ricordiamo che l’etimologia di paradiso è «giardino» e che nelle visioni edeniche classiche l’uomo vive in pace con tutti gli animali del creato in una dimensione casalinga e naturale priva di conflittualità, dove nessun essere vivente cerca di occupare posti che non gli competono. Riusciamo dunque ad inquadrare anche questi suoi interessi «casalinghi» all’interno della sua ricerca della ricomposizione del Cosmo originario, perseguita grazie ad un’opera quotidiana di riedificazione certosina. Il lavoro dovrebbe per lui venire riscattato dal peso della originaria punizione divina, e non essere manipolato al fine della sottomissione delle energie e forze produttive altrui. Ed è in questo tentativo di ricomposizione dell’Uomo e della sua Unità (tentativo non utopistico e romantico, bensì basato sull’onesto lavoro quotidiano) che si inquadrano le piccole prose čapkiane da un lato, e dall’altro la sua produzione antiutopica (si leggano anche La fabbrica dell’Assoluto e Krakatit), destinata ad evitare la catastrofe dell’essere umano, travolto dalla propria hybris e capace di far saltare in aria l’equilibrio del Creato. Sia nell’Affare Makropulos, che viene ora presentato al Teatro La Fenice nella riscrittura operistica di Leoš Janáček, sia nell’epopea catastrofica dei suoi Robot, due donne sono protagoniste loro malgrado, vittime del delirio di onnipotenza maschile. In Makropulos il sogno dell’eterna giovinezza si trasforma nella maledizione di Elina Makropulos, bella fuori ma marcia dentro, impossibilitata a morire a causa degli egoistici esperimenti paterni e perseguitata dal tedio secolare delle vuotezze umane. Nei Robot l’unica donna umana, Helena, è circondata da maschi che hanno perso di vista i limiti insuperabili del proprio orgoglio terreno. Solo il fuoco potrà bruciare le formule magiche e maledette che da un lato dovevano assicurare all’umanità il Paradiso in Terra (l’eterna giovinezza e la liberazione dal lavoro fisico), ma che in re- 11 focus on 12 Ferro dirige il «Caso Makropulos» successive. Consideri che negli anni cinquanta a Darmstadt i compositori hanno analizzato tutti i parametri della musica, compreso lo studio delle altezze dei suoni nello spazio. Con questa attenzione particolare, se si analizza una partitura di Mozart è possibile trovare alcuni atteggiamenti simili, sepa cura di Mirko Schipilliti pure più o meno coscienti e visibili, ovvero quella logica con cui sono stati disposti i suoni nell’armonia. Si tratta di metom’è difficile questa musica!», commentere in risalto queste peculiarità. ta Gabriele Ferro sfogliando la partitura del Si tratta quindi di comprendere un ordine prestabilito? Caso Makropulos, opera della maturità di Persino la grafia ci aiuta, perché la musica che ci è giunta fiLeoš Janáček, affrontata per la prima volta no a oggi non è altro che, appunto, un segno grafico. Tornannel percorso di una carriera che sembra non avere limiti quanto do agli anni cinquanta, i compositori erano arrivati a realiza repertorio. Nel 2008 Ferro aveva diretto Janáček nel suo ulzare pezzi per orchestra pensando solo alla «scrittura». Diftimo lavoro teatrale, Da una casa di morti, al Teatro Massimo ferentemente, in Brahms si vedono disegni che hanno condi Palermo. Alla Fenice, dove l’abbiamo incontrato fra prove dizionato la strumentazione. Se non lo sai, non te ne accord’orchestra e di regia, ci mostra con calma autorevole la partigi. Persino in un autore come Rossini ciò che rimane non è il tura e le sue complessità d’intreccio, le difficoltà per il direttore, fatto «teatrale» ma quello che ha scritto musicalmente in sé. sciolte con un atteggiamento sotTutto sta nel comprendere le tile e profondo, che tiene conto di strutture? tutta la storia della musica. Non si può dirigere se non c’è Venezia Maestro, lei dirige veramenquesto atteggiamento verso la Teatro La Fenice te tutto! Ma qual è il tipo di apmusica, che influenza in modo 15, 19, 21 marzo, ore 19.00 proccio che assume verso un autototale le scelte sul fraseggio. 17 e 23 marzo, ore 15.30 re complesso, e per certi versi mistePreferenze? rioso, come Janáček? Qual è il suo No, non se la tua cultura musiVĕc Makropulos mondo di interprete? Dobbiamo cale è basata sul concetto di suo(Il caso Makropulos) Opera in tre atti partire da lontano… no. Sono un musicista a cui malibretto e musica di Leoš Janáček Sì. Pensi che in un programgari interessa dirigere Jeaux di dalla commedia omonima di Karel Čapek ma con l’Orchestre de Paris agli Debussy solo perché è un capolapersonaggi e interpreti Champs-Élysées avevo diretto la voro, ma è difficilissimo e nessuEmilia Marty Ángeles Blancas Gulín Messe de Notre-Dame di Guilno lo vuole affrontare». Jaroslav Prus Martin Bárta laume de Machault, del 1364, Come concilia questa visione Janek Enrico Casari insieme alla Holidays Symphocol«sangue tzigano» di Mann? Albert Gregor Ladislav Elgr ny di Charles Ives, del 1913, due Non sono un interprete oggetHauk-Šendorf Andreas Jäggi L’avvocato dr. Kolenatý Enric Martínez-Castignani compositori con personalità foltivo, ho solo cercato di togliere il L’archivista Vítek Leonardo Cortellazzi li. Nella versione della Messa di lato esibizionistico. Non è posKrista Judita Nagyová Machault dietro a ogni gruppo sibile dirigere e andare in estasi, Una cameriera / Una donna delle pulizie Leona Pelešková vocale facevo suonare uno struperché ci si perdi nel particolare. Un macchinista William Corró mento della famiglia dei tromBisogna sempre conoscere il primaestro concertatore e direttore Gabriele Ferro boni, cosicchè quando finiva la ma, il durante e il dopo di quello regia Robert Carsen linea del coro proseguiva quella che si sta dirigendo in quel preciscene Radu Boruzescu strumentale. In altri programmi so momento. Molto interessancostumi Miruna Boruzescu Orchestra e Coro del Teatro La Fenice ho abbinato, per esempio, musite è il trattato di Diderot Il paramaestro del Coro Claudio Marino Moretti che di Verdi all’Adagio dalla dedosso sull’attore che si può appliallestimento Fondazione Teatro La Fenice cima sinfonia di Mahler. care anche alla musica. Racconin coproduzione Il suo approccio al repertorio suta che il vero attore che finge di con l’Opéra National du Rhin di Strasburgo pera ogni limitazione temporale... essere in punto dimorte percepie lo Staatstheater di Norimberga La mia formazione è quella di sce la reazione del pubblico rimaprima rappresentazione a Venezia compositore e penso quindi alla nendo distaccato: non è freddo, musica in maniera diversa dall’ee più è cosciente di star per mosecutore che scegli i pezzi per fare numeri o scena, anche se rire all’interno di una finzione, più riesce a essere reale. Chi – come diceva Thomas Mann – nell’interprete c’è sempre si «immedesima» non sente la reazione del pubblico. Se sei un po’ di «sangue tzigano». Ciò che conta per me, ed è fontroppo immerso nel ruolo perdi il controllo. Si potrebbe andamentale, è la valenza e la conoscenza della musica in sé. che aggiungere che non è possibile ottenere il sublime se non Mi spiego: la musica ha una sua oggettività, e come la pittusi conosce l’orrido. ra si serve del colore così la musica si serve del suono. Non si Ma il musicista non vive «nella» musica invece che «con» può dire propriamente che «l’arte progredisce» ma un’evola musica? luzione in tal senso c’è stata. Se l’approccio avviene con queCertamente, perché quella del musicista è l’unica professiosto tipo di conoscenza è possibile vedere la musica in modo ne che si occupa dei sentimenti umani, e lo fa giorno e notte. diverso. Per me la prima cosa è l’amore, e poi ci sono la musica e l’arte. Quindi si tratta di leggerla in senso oggettivo, distaccato? Distacco e immedesimazione, sublime, orrido, amore, arte… Non proprio. Per esempio un’altra cosa fondamentale nelun cocktail perfetto per l’opera di Janáček? Lei mi fa venire in la mia visione dell’interprete è il conoscere che cosa è accamente la complessità della protagonista del Caso Makropulos. duto nel periodo compreso tra il brano che si dirige e la proCome tradurla in musica? pria vita. Emilia è tremenda, ma alla fine sceglie di morire perché Ma anche prima, no? comprende la solitudine della sua vita e preferisce essere Sì, certo, ma faccio soprattutto riferimento alle evoluzioni umana. C « In alto, Gabriele Ferro. Sotto, Il caso Makropulos, bozzetto di Roudi Barth per lo spettacolo di Walter Pohl, Teatro Statale di Wiesbaden, 1961. alcuni motivi conduttori ma non sono veri e propri leitmotiv. Come affrontare il problema della lingua? La particolarità sta nel fatto che, come nella Casa di morti, vocalmente sembra tutto un declamato, tanto che le scene scorrono così velocemente rispetto alla musica che la difficoltà sta nel calibrare bene i tempi affinché si riesca a esegui- re tutto. In generale la voce è completamente indipendente, raramente raddoppiata da strumenti, forse quattro o cinque volte in tutto. Non ci sono arie, è un divenire in modo quasi rapsodico, con scambi di battute rapide, nulla di prevedibile o squadrato. È tutto in continuo movimento. ◼ focus on Il testo teatrale di Čapek, fonte del libretto, è molto filosofico, verbalmente complesso. Come ha potuto metterlo in musica Janáček? Creando un’instabilità, un percorso di note molto frammentario, dove non c’è un appoggio ritmico, fra temi enunciati sempre con strumenti diversi. Dal punto di vista ritmico, soprattutto, c’è una continua diversità tra l’orchestra e l’uso della voce, che canta figure musicali differenti. L’ instabilità emotiva si traduce con un’instabilità strutturale in partitura? Oltre a quella tra voce e orchestra troviamo l’instabilità del rapporto metrico tra una misura e le successive. Per esempio, metri ternari che passano da 3/4 a 3/2 mantenendo lo stesso tactus, oppure misure binarie scritte in metri ternari, che hanno come risultato lo stesso effetto uditivo nonostante una realizzazione grafica diversa. Ne risulta un continuo cambiamento, un senso di assenza di quadratura. Il fatto grafico conta molto per chi lo deve poi realizzare. Come dicevo prima, negli anni cinquanta si scrivevano cose «ineseguibili», fatte appositamente per creare un disagio. Per raggiungere l’esattezza esecutiva bisogna quasi sdoppiarsi in un meccanismo cerebralmente complicato. Quindi siamo davvero in pieno Novecento? Sì, in Janáček si traduce in un’angoscia di base, esistenziale. Vi troviamo elementi espressionisti? Sì, ma in modo diverso da quel filone che venne da Wagner e che passò per Schoenberg. Non dimentichiamo che in quegli anni c’erano anche Debussy con la scala esatonale, opposta al cromatismo, e Stravinskij. Ma è una questione più ampia e se penso a Blake o a Füssli, già allora si era intravisto l’espressionismo! Janáček ha una personalità fortissima, con un suo mondo teatrale, totalmente indipendente. Ci si muove anche in mezzo a un certo erotismo emanato dalla protagonista. Tutto il ii atto si concentra sulla sua bellezza e sulla sua sensualità, confermando al tempo stesso la sensazione di angoscia. Come trova la strumentazione del Caso Makropulos? Spesso c’è una disposizione per ottave, raramente l’orchestra suona tutta insieme, ci sono timbri molto separati (mentre nelle partiture propriamente espressioniste c’è un suono con maggiore massa). La partitura è in fondo molto scarna, non c’è una complessità contrappuntistica, c’è soprattutto quella instabilità ritmica e di sovrapposizioni; ci sono anche 13 focus on 14 Janáček secondo Robert Carsen R a cura di Vitale Fano obert Carsen è fra i più originali registi d’opera del momento. Nato in Canada cinquantotto anni fa, non ama essere definito, come verrebbe spontaneo, «regista canadese», perché circa trent’anni fa ha lasciato il suo Paese per venire in Europa e risiede ormai stabilmente fra Parigi e Londra. Inoltre la sua attività lo porta a spostarsi continuamente in città e paesi diversi, per cui la sua nazionalità è un fattore alquanto indeterminato. Gli ultimi tempi sono stati particolarmente laboriosi, con allestimenti al ritmo frenetico di un’opera al mese: a novembre 2012 ha messo in scena L’amore delle tre melarance di Prokofiev alla Deutsche Oper di Berlino, lo scorso gennaio Falstaff alla Scala di Milano per l’inaugurazione del bice nte na r io verdiano, a febbraio La piccola volpe astuta di Janáček a Strasburgo, a marzo Il flauto magico al Festspielhaus di Baden Baden. Il 15 marzo sarà ancora in scena alla Fenice con un nuovo allestimento del Caso Makropulos. Lo raggiungiamo a Baden Baden, dove si trova per le prove del suo prossimo spettacolo. Sono le nove di mattina, probabilmente l’unico momento libero della sua giornata, quando ci concede un’intervista telefonica nel suo ottimo italiano venato di un elegante accento «medioatlantico». Fra qualche settimana sarà nuovamente in scena alla Fenice, che è ormai diventato uno dei suoi appuntamenti ricorrenti. Lavoro da molti anni e con grande piacere al Teatro La Fenice di Venezia, al quale mi sento decisamente legato soprattutto da quando ho avuto l’onore, nel 2004 con Traviata, di mettere in scena l’opera di riapertura del teatro, ricostruito dopo l’incendio del 1996. In seguito ho curato gli allestimenti della Tosca di Puccini e di tre quarti della Tetralogia di Wagner − Walkiria, Sigfrido e Crepuscolo degli Dei − mentre L’oro del Reno è stato realizzato in forma di concerto. Adesso La Fenice la chiama per Il caso Makropulos di Janáček. Qual è il suo rapporto con questo grande compositore ceco? Lo amo moltissimo e da qualche anno sto curando un imponente «ciclo Janáček» all’Opera National du Rhin di Strasburgo, un progetto che comprende le sue cinque opere maggiori. Abbiamo già messo in scena, dal 2010, Jenufa, Il caso Makropulos, Katia Kabanova, e poche settimane fa La piccola volpe astuta. L’anno prossimo, a conclusione del ciclo, è in programma La casa dei morti. Quindi Il caso Makropulos è una coproduzione con Strasburgo? Sì, una coproduzione con Strasburgo e con Norimberga, dov’è andato in scena rispettivamente nel 2011 e nel 2012. Il caso Makropulos è un capolavoro che non è noto quanto merita, con una vicenda fantastica che mira a penetrare alcune questioni della vita. Lei come la vede? È un’opera assolutamente straordinaria e inusuale che parla di una donna, Emilia Marty, che ha più di trecento anni. Suo padre era il medico personale dell’imperatore Rodolfo ii d’Asburgo, vissuto nella seconda metà del Cinquecento. Quando Emilia aveva sedici anni, il padre fu incaricato di preparare una pozione che avrebbe dovuto dare la longevità all’imperatore, ma poiché Rodolfo ii non si fidava, lei fu costretta a bere l’elisir per prova e cadde subito in catalessi. Allora l’imperatore pensò che la pozione non funzionasse e imprigionò il padre; ma accadde poi che Emilia si riprendesse e iniziasse la propria carriera di cantante, che portò avanti per tre secoli. Ogni volta che qualcuno cominciava a insospettirsi per la sua eterna giovinezza, lei doveva cambiare città e nome, tenendo ferme solo la sua carriera di successo e le iniziali: E. M. Questa situazione le ha suggerito qualche idea teatrale particolare? Sì, la situazione è molto strana e stimolante: questa donna deve fingere nella vita perché non può dire a nessuno ciò che le succede, e deve fingere anche nella professione perché come cantante lirica si trova a interpretare personaggi sempre diversi. C’è dunque un misto di ambienti, costumi ed epoche, perché non solo Emilia è vissuta nei secoli xvi, xvii, xviii, ecc. ma ha anche interpretato molti ruoli di quelle stesse epoche. Tutto ciò è molto affascinante. Anche nella musica ci sono indizi di un passato misterioso (ad esempio le fanfare) che fanno capolino come intersezioni dell’irreale nel reale. C’è una corrispondenza di questo aspetto nella messinscena? ta un mostro, e che dopo tutto questo tempo si ritrova a essere molto cinica, a non credere più in niente, men che meno nell’amore: Emilia non ama e non può amare, e questo rende l’opera espressione della durezza della vita, che se non ha fine può diventare qualcosa di terribile. Quindi vi è anche una riflessione sulla longevità? Direi sul ciclo naturale della vita: in anni in cui facciamo di tutto per vivere più a lungo e per rimanere giovani (penso ad esempio alla chirurgia estetica), l’opera ci dice che dobbiamo accettare le leggi naturali e che non dobbiamo invece provare a controllare la natura. È un inno alle cose che non possiamo capire ma che dobbiamo accettare, perché comunque arriverà prima o poi il momento in cui la vita si concluderà. La stessa protagonista all’inizio dello spettacolo cerca ansiosamente la ricetta che ha perduto e che le servirà per vivere altri trecento anni, ma alla fine capisce che non potrà più continuare a vivere. I personaggi maschili disegnano una costellazione di varia umanità: l’aristocratico Prus, il pragmatico Koletatý, il colto e ottimista Vitek, il fragile Janek, l’avido Gregor, il vecchio e rincitrullito Hauk. Come li inquadra? Ruotano tutti attorno a Emilia Marty e sono tutti innamoIl caso Makropulos secondo Robert Carsen (foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu). rati di lei, che non ne può più di questi uomini che per secoli cadono uno dopo l’altro ai suoi piedi. Dopo essere sopravvissuta a tutti i suoi amanti, l’amore non significa più nulla per lei, perché ha vissuto troppo e ha visto troppe volte le stesse cose. Solo con il vecchio Hauk-Sendorf, che sembra riconoscerla, ricorda divertita la relazione vissuta cinquant’anni prima. Tra l’altro il vecchio personaggio impersona lo stesso Janáček, che a settantadue anni era innamorato di una giovane trentenne che fu la musa ispiratrice delle sue ultime opere: Kamila Stösslová. Nel libretto dell’opera il primo atto si svolge nello studio di un notaio, il secondo nella scena vuota di un grande teatro, il terzo in una stanza d’albergo. Qual è l’ambientazione del suo allestimento? Tutto comincia e termina a teatro. Nel secondo atto la scena dovrebbe essere ambientata dietro le quinte ma io voglio che avvenga sul palcoscenico subito dopo una rappresentazione, con il pubblico plaudente ancora in sala che grida quanto lei è stata brava, divina, la migliore di tutte. Poiché nessuno ha mai detto che cosa avesse cantato, mi è parso interessante supporre che avesse appena interpretato il personaggio di Turandot alla sua prima rappresentazione, in una teatrale Cina favolistica. Questo innanzitutto perché il debutto di Turandot è avvenuto nello stesso anno in cui Janáček ha composto il Caso Makropulos, il 1926; in secondo luogo perché Turandot, come Emilia Marty, è una donna che non può amare e che, anzi, odia gli uomini. Dunque i cambiamenti di ruolo sono nodali nella sua visione dell’opera. Assolutamente sì, perché ritengo di fondamentale importanza che Emilia Marty non sia un solo personaggio ma molti. Grazie agli splendidi costumi di Miruna Boruzescu, i cambiamenti avvengono con rapidissime trasformazioni della protagonista in scena. Quando Emilia Marty sveste il costume di Turandot, ad esempio, diviene un altro mito di quest’epoca: Lulù. I dialoghi serrati, i temi brevi e incisivi, le ripetizioni ossessive rendono la musica frenetica e inquietante. La musica è effettivamente molto strana, frammentata e segmentata, un po’ come la vita di Marty. Ma alla fine c’è una scena decisiva, in cui Emilia può finalmente raccontare tutto quello che è successo e rivelare di essere Elina Makropulos. Quando la protagonista dice finalmente la verità, c’è un’esplosione di lirismo che chiude l’opera e completa il ritratto affascinante di una situazione impossibile. ◼ focus on Sì, fin dal Preludio, che è un brano straordinario che io sfrutto per far scorrere visivamente tutte le epoche vissute dalla protagonista, da quando beve l’elisir nel Cinquecento fino agli anni venti del Novecento. E questo passando attraverso opere e ruoli teatrali successivi: Francesca da Rimini, Don Carlos, Rosenkavalier, Traviata, Tosca e così via, andando avanti nel tempo con i protagonisti più in voga delle varie epoche. Che opinione ha di questa donna al tempo stesso bellissima e mostruosa? Innanzitutto non voglio giudicarla, perché si tratta di una vittima: non ha scelto lei di vivere trecento anni ma è stata forzata, a rischio della sua stessa vita, quando era una ragazzina totalmente inconsapevole. Una vittima che è divenu- 15 focus on 16 La dolcezza della morte I n attesa che arrivi in laguna Il caso Makropulos secondo Robert Carsen, ripubblichiamo qui una recensione di Mario Messinis che risale a vent’anni fa, quando a firmare la regia dell’opera di Janáček era Luca Ronconi, in uno spettacolo allestito per il Regio di Torino. Per un paio di settimane Torino è la capitale del teatro in Italia. Luca Ronconi mette in scena contemporaneamente L’affare Makropulos del drammaturgo ceco Karel Čapek al Teatro Carignano e al Regio l’opera omonima di Leoš Janáček, che utilizza abbastanza fedelmente la commedia con qualche taglio e un nuovo epilogo. Bellissima l’idea di allestire negli stessi giorni il testo drammatico e quello musicale, considerate le relazioni che sussistono tra Čapek e Janáček. Il musicista ceco infatti era stato fortemente impressionato nel 1922 dalla commedia, che subito dopo musicò ultimando la stesura nel 1925. Vi si racconta la storia di una di Mario Messinis cantante di trecentotrentasette anni, dall’aspetto però giovanile, cui il padre aveva somministrato un elisir di lunga vita, e che ritorna nella nativa Praga alla ricerca del documento con la formula per rinnovare la propria longevità. La pièce è costruita come un giallo, tra cause giudiziarie, freddi erotismi, cinismo e aggressività: intorno a Emilia Marty, che altri non è che Elina Makropulos, nata oltre tre secoli prima, ruotano personaggi vari e caratteristici, ammaliati dalla sua bellezza e dalla sua spregiudicatezza. Ma nel momento in cui Emilia rintraccia la formula desiderata assapora anche la dolcezza della morte e L’affare Makropulos si conclude con un epilogo consolatorio. Campeggia dunque la figura femminile di Elina Makropulos / Emilia Marty, tratteggiata da Ronconi e dalla Kabaivanska con gelida eleganza, in cui la giovinezza è a tratti come artificiale, incrinata da barbagli di decrepitezza. Luca Ronconi si muove perfettamente a suo agio nella cultura mitteleuropea del primo dopoguerra, nella Praga magica ove l’evidenza realistica si confonde con un mondo allucinatorio. L’impianto scenografico sghembo vale a creare un clima di lucido delirio. Sono architetture un poco surreali: una pista attraverso il palcoscenico con librerie oblique e aggettanti, linee spezzate e geometriche tra espressionismo e Bauhaus. Ne esce uno spettacolo magistrale, in cui Il caso Makropulos secondo Luca Ronconi, Torino, Teatro Regio (foto di Marcello Norberth). Immagini tratte da Ronconi. Gli spettacoli di Torino, a cura di Ave Fontana e Alessandro Allemandi, Umberto Allemandi & C., Torino 2006. getto sembrerebbe respingerle. Ma Janáček aveva sempre bisogno di sentire le suggestioni dell’aria aperta, della pittura di paesaggio. Solo nella grande scena conclusiva, in cui Emilia Marty rinuncia all’immortalità, Janáček ricorre ad un flusso melodico continuo, liberatorio e persino struggente. Ci si chiede come mai, sotto il profilo drammaturgico, la trasformazione psicologica della protagonista sia così repentina. Come si concilia questa straordinaria scena lirica con la caratterizzazione tagliente e crudele delle pagine precedenti? Raina Kabaivanska è stata una protagonista d’eccezione anche per le risorse di attrice (si pensi al suo ingresso da «femme fatale», con un sontuoso cappotto nero, molto anni venti). Eccellente tutta la fitta compagnia di cui ci limitiamo a ricordare il bravissimo tenore José Cura. La bella traduzione è di Sergio Sablich. Direzione autorevole e ben coordinata di Pinchas Steinberg alla testa dell’orchestra del Regio. ◼ (da «Il Gazzettino», 18 dicembre 1993) focus on Ronconi mette a fuoco anche una recitazione analitica (la scenografia è di Margherita Palli, i costumi di Carlo Diappi). L’affare Makropulos è tra i lavori teatrali più affascinanti di Janáček, momento paradigmatico dell’ultima stagione creativa di un musicista sempre più attratto dalle tentazioni delle avanguardie. Non c’è più la violenta temperatura passionale della sua prima maturità né un esplicito richiamo folclorico. Il discorso è rotto, fratturato, caleidoscopico. Il linguaggio vocale privilegia uno stile di conversazione asciutto, strettamente legato al ritmo della parola. Per altro le insorgenze e le allusioni cantabili sono continue: l’orchestra è tutto un pullulare di melodie brevi e cangianti, in una scrittura cameristica segmentata e sottile. Si colgono qua e là le predilette voci della natura, anche se il carattere del sog- 17 opera 18 «La cambiale di matrimonio» vista da Enzo Dara nella Cenerentola di Rossini, vestendo i panni di Don Magnifico, e ho indossato le vesti di Don Pasquale nell’omonima opera donizettiana (specializzato nei ruoli di “basso buffo”, è dagli anni novanta che Dara si dedica prevalentemente alla regia, ndr.). I ragazzi dell’Accademia di Belle Arti – con i quali si è da subito instaurato un ottimo rapporto, professionale e umano – si stanno occupando della costruzione delle scene seguendo il progetto di Stefano Crivellari. All’inizio dei lavori, ciascuno studente aveva elaborato e presentato il proprio disegno scenografico e non è stato facile scegliere. Alla fine ho voluto il progetto di Stefano, sul quale sono intervenuto solo con qualche piccolo accorgimento. Per a cura di Arianna Silvestrini quanto riguarda la regia, la mia Cambiale di matrimonio – opera che ho affrontato per la prima volta nelle vesti di interl prossimo 16 marzo al Malibran di Venezia andrà prete nel 1991 al Rossini Opera Festival (allora la regia era in scena La cambiale di matrimonio di Gioacchino Rosdel grande Luigi Squarzina) – è decisamente tradizionale, sini. L’opera – farsa comica in un atto su libretto di Gaema non per una scelta di parte o per principio. In realtà amo tano Rossi – rientra nel progetto «Atelier della Fenice al molto anche le messinscene moderne e credo che la questioTeatro Malibran», che prevede la collabone non riguardi la distinzione tra trarazione con importanti istituzioni cittadidizione e modernità. Penso piuttosto ne quali l’Accademia di Belle Arti, il Conche esistano belle e brutte regie: queservatorio di Musica «Benedetto Marcelsta è l’unica differenza possibile. SpesVenezia lo» e l’Università Ca’ Foscari al fine di reso gli allestimenti moderni corrono il Teatro Malibran alizzare l’incontro e la collaborazione tra rischio di voler essere a tutti i costi di 16, 20, 28 marzo e 12 aprile, ore 19.00 le potenzialità creative e produttive del forte impatto, quasi scioccanti, men22 marzo, ore 17.00 Teatro e quelle formative di centri di stutre le regie più tradizionali risentono 24 marzo e 14 aprile, ore 15.30 di altamente qualificati. Da questa uniodi un approccio oramai stanco e fini16, 17 aprile, ore 10.30 (riservate alle scuole) ne è nato un polo di produzione che pur avscono con l’annoiare le platee». valendosi delle capacità organizzative delChe ruolo ha la sua esperienza di inla Fenice mantiene però la propria fisionomia di cantiere speriterprete nelle regie che realizza? mentale. Il progetto, coordinato dal direttore della produzioIl pericolo più insidioso per un cantante che si cimenta con ne artistica Bepi Morassi, ha visto il suo la regia è quello di riciclare alcuni piccoli accorgimenti tecdebutto nel gennaio del 2012 con la nici degli allestimenti a cui ha preso parte nelle vesti di intermessinscena dell’Inganno feprete. In passato ho cantato al Covent Garden di Londra, allice (cfr. vmed n. 44, p. 19), la Scala di Milano, all’Opéra di Parigi, e in vent’anni di carla prima delle cinque farriera ho potuto lavorare con Claudio Abbado, Luca Roncose di Gioachino Rossini, Luigi Squarzina – come dissi poc’anzi – e molti altri. Nel ni che saranno via ’90, infine, ho debuttato alla regia allestendo Il barbiere di via proposte Siviglia al Teatro Filarmonico di Verona ed è così cominciaal Malita questa bella avventura. bran. In Per quel che riguarda l’allestimento della Cambiale di maoccasione trimonio, quali novità ci saranno? dell’alleDue saranno le novità principali, una delle quali desidero st i m e nrimanga una sorpresa per il pubblico che verrà in sala. Posto della so solo dire che il negoziante americano Slook non viaggerà Cambiadal Canada a Londra ma giungerà invece a Venezia, dove inle di macontrerà la Commedia dell’Arte. Ogni carattere, nell’assotrimoluto rispetto del testo musicale e senza scadere nella gag, sarà nio – con rappresentato da una delle maschere della Commedia. Nelrepliche la vita di tutti i giorni ciascuno di noi è circondato da tanti fino al 17 personaggi – il garzone, l’ortolano, il droghiere, ecc. –, tutaprile – ti in qualche maniera maschere che partecipano alla narraabbiamo zione della nostra vita. Così in questa messinscena rossiniaincont rana ho cercato di rappresentare la complessità e la ricchezza to Enzo Dara, dell’esistenza, senza però mai alterare i personaggi nella loche ci ha raccontaro essenza: in punta di penna, diciamo così. Spero di far dito la propria idea di revertire il pubblico con una rappresentazione in parte realistigia e i rapporti di collaboca e in parte surreale di un’opera che, pur svolgendosi in un razione tra la Fenice e l’Acatto unico, è decisamente articolata. Tutti i personaggi delcademia di Belle Arti. la Cambiale sono molto colorati: Fanny e Edoardo, gli innamorati, Tobia Mill, il padre di Fanny… Nell’opera che ve«Per me è una vera gioia ladrete al Malibran, Tobia Mill sarà il titolare di una pelliccevorare a Venezia, dove in ria che arriva a Venezia per commerciare le proprie pelli. Ma passato – prima di ininon voglio dirvi di più e… vi aspetto a teatro. ◼ ziare il mio percorso come regista – ho cantato Gioachino Rossini (commons.wikimedia.org). Continua il progetto «Atelier della Fenice al Teatro Malibran» I S a cura di Vitale Fano tefano Montanari, direttore d’orchestra e violinista romagnolo, dirigerà al Teatro Malibran, a partire dal 16 marzo, La cambiale di matrimonio di Rossini, tappa 2013 del progetto «Atelier Malibran» (cfr. pagina accanto) dedicato alla scoperta di giovani interpreti attraverso le farse rossiniane. Gli chiediamo di raccontarci questa sua esperienza. «Sono molto felice di dirigere le farse rossiniane a Venezia: ho cominciato l’anno scorso con L’inganno felice, che è stata la mia prima esperienza con Rossini, che mi ha molto stupito per gli spunti musicali quasi preromantici, se non romantici, che contiene. Intendo dei momenti fortemente patetici, che nella Cambiale di matrimonio non ci sono perché si tratta di un’opera più leggera, che deve perciò assumere una veste brillante». L’opera anticipa alcuni elementi che torneranno nel Barbiere di Siviglia e in altri lavori rossiniani. Sì, Rossini c’è già tutto, anche se aveva solo diciott’anni quanto scrisse La cambiale di matriomonio. Penso che all’epoca fosse molto dedito alla ricerca perché nell’opera sono presenti stilemi mozartiani, altri che poi troviamo in Donizetti ed elementi che rimangono per sempre nel Rossini che conosciamo. Per esempio, con L’inganno felice Rossini guarda indietro fino a prima di Mozart e poi si spinge avanti, alla ricerca di soluzioni originali. C’è nella Cambiale di matrimonio una dialettica interessante fra la parte buffa e quella sentimentale. L’opera oscilla fra momenti di grande dinamismo e momenti cantabili in cui emerge il lato sentimentale. Quello che cercherò di fare è di non rendere i cantabili troppo «sonnolenti», evitando tempi troppo lenti, altrimenti le parti diventano difficili per i cantanti e pesanti per gli ascoltatori. La regia è affidata a Enzo Dara (cfr. intervista pagina accanto), un celebre basso buffo che ha grande esperienza di palcoscenico. Ha già avuto occasione di lavorare con lui? No, mai; questa è la prima volta. In ogni caso amo lavorare a stretto contatto con chi si occupa della regia: quello a cui ambisco è che non ci sia mai scollamento fra quanto facciamo in buca e quello che accade sul palcoscenico. Da questo punto di vista è molto importante il rapporto con il testo. Il mio lavoro di concertazione mira a far emergere le paroStefano Montanari (foto di Dan Codazzi). le, sia nelle arie che nei recitativi. Dovremo rendere le sonorità dei cantabili molto leggere, cercando di rendere al massimo il fraseggio e tutti gli accenti musicali, che sono sempre simmetrici agli accenti del testo. Quanto ai recitativi, che sono piuttosto lunghi, dovranno essere interpretati in maniera molto teatrale ed essere accompagnati con gusto e varietà . L’edizione di quest’anno si arricchisce della collaborazione tra la Fenice e il Conservatorio «Benedetto Marcello» di Venezia, la cui orchestra eseguirà le ultime tre recite al posto dell’Orchestra del Teatro. È una cosa splendida che dovrebbe essere messa in atto anche in altri teatri e molto più spesso, mentre invece si realizza quasi solo a Venezia. Purtroppo, per miei precedenti impegni, non potrò dirigere le tre recite di aprile con l’Orchestra del Conservatorio (che credo sarà diretta in quelle occasioni da Giovanni Battista Rigon), ma mi prenderò cura di tutta la preparazione e della concertazione con gli studenti. Sarà un’operazione impegnativa! La partitura non è facile. In effetti la partitura è difficile, non solo dal punto di vista tecnico ma anche per quanto riguarda lo stile. Il problema è che ci sono tante cose che rimangono «dietro», cioè non sono scritte ma che sappiamo che vanno eseguite, soprattutto nelle legature e nei fraseggi. Io vengo dalla filologia e dallo studio della prassi antica, che purtroppo nei Conservatori si insegnano ancora troppo poco. L’anno scorso al Malibran ha proposto al pubblico veneziano una lettura molto enfatizzata delle Quattro stagioni di Vivaldi. Ci sono anche in Rossini margini di libertà esecutiva? Non molti. La scrittura di Rossini ha molti più segni d’espressione e quindi siamo più vincolati. I margini ci sono in relazione al fraseggio, agli accenti, agli appoggi, al legato e allo staccato, questo sì. L’Ouverture è innovativa perché comincia con un tempo lento, che tra l’altro ha un bell’assolo di corno. A mio parere questo deriva dalla tradizione antica, in cui molte arie sono affidate a strumenti come il corno, la tromba o il fagotto, che non erano certo relegati a meri strumenti d’armonia (basti pensare a Haendel). La melodia del corno nell’Ouverture è molto dolce e ha subito l’effetto di creare un ambiente magico. ◼ opera Stefano Montanari sul podio per Rossini 19 03 SKYClassica_Stagione_out_v 26/10/12 11:23 Pagina 1 Un 2013 ricco di eventi per l’Associazione Richard Wagner Venezia U di Leonardo Mello n febbraio particolarmente intenso ha caratterizzato le attività dell’Associazione Richard Wagner Venezia presieduta da Alessandra Althoff Pugliese. In una giornata importante come quella del 13 – ricorrenza dei centrotrent’anni dalla morte del Genio di Bayreuth, e data simbolica di fondazione dell’Associazione, nata appunto il 13 febbraio 1992 per volontà e su impulso di Giuseppe Pugliese – si sono visti alternare due appuntamenti di grande rilevanza. Alle 17, in collaborazione con la Fondazione Cini, presso la magnifica sala degli Arazzi dell’isola di San Giorgio Uri Caine si è esibito in un concerto dedicato a Wagner e a Verdi, eseguendo nella prima parte improvvisazioni e variazioni da Tristan und Isolde, dal Tannhäuser e dai Lieder. Passando al repertorio del compositore di Busseto ha poi proposto, alla sua maniera, estratti dall’Otello, richiamando alla memoria la fortunata Othello Syndrome da lui presentata al Piccolo Arsenale il 13 febbraio 2003, quand’era direttore del settore Musica della Biennale. Alle 20 e 45 poi, trasferendosi alla Chiesa della Pietà, si è poi potuta gustare – all’interno del Concerto delle Ceneri organizzato dalla Fondazione Levi (cfr. pp. 66-67) – un’altra primizia, lo Stabat Mater di Palestrina nella versione messa a punto da Wagner nel 1848. Ma in cosa consiste, esattamente, quest’operazione wagneriana? Lo spiega esaurientemente Marco Manzardo nel programma di sala: «L’intervento di Wagner consisté, innanzitutto, nel ripartire l’intero mottetto in una serie di azioni dialogiche affidate di volta in volta a compagini differenti, alternando per ognuno dei due cori il quartetto di solisti, il semi-coro e il coro pieno, a loro volta con aggiunta o meno dei soli. Un ragioUri Caine (foto di Simon Miele – wikimedia.org). Giovanni Pierluigi da Palestrina. namento per addizione o sottrazione che ricorda la logica dei resgistri d’organo, la cui somma o combinazione determina dinamica e colore del suono, oppure la pratica del concerto barocco italiano, in cui l’alternanza tra concertino dei solisti e concerto grosso dei “tutti” costituiscono uno dei principali elementi di originalità e ricerca timbrica. Questo espediente, unito a numerose e puntigliose indicazioni di nuances dinamiche, rende la lettura wagneriana del mottetto fortemente espressiva e ricca di colori, con esiti talvolta quasi madrigalistici, in cui la musica ritrae fedelmente l’immagine evocata dalle parole». Tra i prossimi appuntamenti, si segnala, il 15 marzo, nell’ambito dell’iniziativa intitolata «Wagner e il cinema», la proiezione, alla Querini Stampalia, di Richard Wagner, pellicola muta di Carl Froelich, accompagnata dalle improvvisazioni pianistiche di Orazio Sciortino (già borsista dell’arwv a Bayreuth nel 2009). Il 18 aprile, poi, presso l’Ateneo Veneto, sarà presentata la seconda edizione del monumentale volume Richard Wagner. Diario veneziano, a cura di Giuseppe Pugliese (Corbo e Fiore Editori, 2012), di cui in chiusura si cita un breve estratto della splendida introduzione: «Questa è la storia dell’incontro di un artista con una città: Wagner e Venezia. Un incontro – per gli eventi che ne hanno tracciato l’itinerario e scandito il ritmo – destinato a fare di Venezia una protagonista della vita e dell’arte del musicista. Sei i soggiorni veneziani di Wagner, dal 1858 al 1883. All’origine di ciascuno di essi – simile ad un Leitmotiv – due condizioni: il bisogno di fuggire da qualcuno e da qualcosa, quasi ossessivo pedale psicologico di una esistenza tormentata, irrequieta, eternamente insoddisfatta. Fuga dal mondo esterno, sempre ostile, dagli affanni, dai problemi pratici, dalle tempeste sentimentali, dalle fatiche quotidiane. Il bisogno, sempre più acuto, doloroso, di un rifugio (il foscoliano “porto” ove trovare quiete) in una città amica, discreta, capace di accoglierne e capirne le contraddittorie, tumultuose aspirazioni, placarne l’animo, avvolgerlo in quell’isolamento e in quel silenzio tanto a lungo vagheggiati. Questa città – Wagner non ha dubbi – è Venezia». ◼ 21 opera 1813 - 2013 opera 22 1813 - 2013 Wagner e i suoi soggiorni in Italia L di Renzo Cresti a prima volta che comparve il nome di Richard Wagner in Italia fu sul quinto numero della rivista fondata da Giulio Ricordi, «La Gazzetta Musicale di Milano», dove si pubblicarono, il 30 gennaio 1842, tre lettere di un «dotto critico musicale tedesco il sig. R. Wagner» sotto il titolo La musica in Germania, nel quale si descrivono le qualità della musica strumentale tedesca, proponendo una sorta di equazione musica sinfonica e ricerca armonica = musica tedesca: sarà il malinteso che dominerà il mondo musicale italiano non solo ottocentesco ma che perdurerà fino alla metà del Novecento. Nell’ambiente musicale italiano, a torto o a ragione, si pensava che la musica tedesca fosse troppo intellettuale e che il predominio della musica orchestrale avrebbe nuociuto all’espressività lirica. Lo stesso Wagner si era reso conto dell’eccesso di cerebralismo dei compositori tedeschi, ma non riuscirà a liberarsene, rimarrà egli stesso un alto esponente proprio di questa tendenza che parte dai compositori fiamminghi, prosegue con gli organisti barocchi, viene portata avanti nell’epoca di Bach e arriva fino a Beethoven, in una linea non certo retta ma comunque assai visibile. Tutti i musicisti e i critici italiani dell’epoca partirono da questa equazione e tutti, anche quelli wagneriani, ne accettarono le conseguenze. Il critico musicale Filippo Filippi, che pure amava Wagner, scrisse che il maestro tedesco «è grande quando si abbandona alla spontaneità della fantasia, altrettanto sia contorto e minuzioso e pesante quando si avvolge di progetto nelle tortuosità del sistema, e quando troppo rigorosamente lo vuole applicare»1. Filippi fu l’unico critico italiano che assistette alle rappresentazioni di Weimar nel 1870 dell’Olandese volante, Tannhäuser, Lohengrin, I Maestri cantori di Norimberga, e queste esecuzioni le recensì sul giornale «La perseveranza» sotto il titolo Viaggio nelle regioni dell’avvenire. Pur apprezzando lo spessore culturale e la resa teatrale delle opere di Wagner, Filippi rimase ancora legato al mondo musicale italiano secondo lo stereotipo dell’equazione musica italiana = canto. Egli apprezzò infatti l’abbondanza di melodia dei Maestri cantori e, per la stessa ragione, Lohengrin sarà l’opera più seguita, amata e rappresentata in Italia. Wagner ebbe una relazione controversa con la cultura italiana, della quale ben poco conosceva, apprezzava il solo Leopardi, i cui scritti aveva conosciuto a Zurigo grazie al De Sanctis2 , precettore di Mathilde Wesendonck, mentre di musica italiana e in specie di opere ne conosceva parecchie, tanto da avere chiara la situazione della nostra musica teatrale fino agli anni qua- ranta. Il rapporto che Wagner ebbe con l’Italia, intesa quale territorio geografico ma anche come luogo d’arte, di bellezze naturalistiche e soprattutto come spazio mentale, fu intenso e complesso, dagli anni cinquanta in avanti. La musica italiana fu detestata, con un’ammirazione espressa solo nel caso di Bellini (di cui Wagner diresse molte opere e più volte) e, in parte, di Rossini (Verdi fu totalmente ignorato), mentre i luoghi italiani lo attrassero, come posti in cui ritirarsi e concentrarsi (Venezia) o nei quali ricaricarsi e rifornirsi interiormente di energia positiva (Ravello e Palermo). I momenti trascorsi nel nostro Paese furono nel complesso felici e ricchi di prospettive, alcune località furono foriere di ispirazioni, come La Spezia quando ebbe l’intuizione del pedale che apre L’oro del Reno; a Venezia concluse il secondo atto del Tristan, a Siena il duomo gli ispirò il santuario del Graal. Inoltre non è da trascurare il fatto che Cosima nacque a Como e che Liszt, soprattutto dopo aver preso gli ordini minori, trascorse molto tempo in Italia. La morte a Venezia non fu un caso, il silenzio che tanto amò della città lagunare, lo avvolse nel suo ultimo viaggio come un sudario di suoni velati3. Wagner fu un ottimo camminatore e anche alpinista, nei suoi soggiorni in Svizzera scalò diverse volte le Prealpi svizzere. A parte uno sconfinamento a Formazza, durante le gite in montagna, il primo viaggio in Italia venne realizzato nell’estate 1853, quando lasciò Zurigo per delle cure a Sankt Moritz e da qui proseguì per Torino, dove arrivò il 29 agosto, ma la città non gli piacque, proseguì allora per Genova e ne ebbe una «magnifica impressione», come racconta nella Mia vita. Il 4 settembre, con un battello, raggiunse La Spezia, lo colpì la dissenteria ed ebbe bisogno di riposare, cadde in un dormiveglia in cui ebbe l’intuizione del lungo pedale di mib che apre L’oro del Reno, ricordò questo sogno sonoro, oltre che nella sua autobiografia, anche nella lettera che, il 7 novembre 1871, indirizzò a Boito, dopo la première di Lohengrin a Bologna (che poi fosse proprio così è tutto da dimostrare, come tanti altri racconti della Mia vita). Un secondo soggiorno italiano avvenne cinque anni più tardi, dopo che la moglie Minna aveva scoperto la relazione di Richard con Mathilde Wesendonck. Wagner fu costretto a lasciare Zurigo, cercò rifugio a Ginevra, quindi, il 29 agosto 1858, fu a Venezia, dove lo raggiunse Karl Ritter. La città dipendeva dall’amministrazione austriaca e questo lo avrebbe tenuto lontano dalle grane con la polizia tedesca. Prese alloggio all’hotel Danieli, poi abitò nel mezzanino di Palazzo Giustiniani, dai grandi e spogli saloni, con muri ammuffiti e ricoperti di velluti sbiaditi; qui, dal suo arrivo fino alla partenza, avvenuta il 24 marzo dell’anno seguente, lavorò con regolarità e con sublime ispirazione al Tristan, in solitudine. L’autunno e l’inverno veneziano, con le sue brume ben si addicevano allo stato d’animo. Solo Ritter, il pianista Winterberger, allievo di Liszt, l’altro pianista Tessarin e il principe russo Dolgoruki riuscirono a frequentarlo. I canti dei gondolieri gli crearono forti suggestioni e gli suggerirono la melodia del pastore nel Tristan. Era circondato dall’acqua, come i suoi eroi, dal silenzio rotto solo da vibrazioni che traducevano la linRichard Wagner. gua in suono. Fu atterrito dalla vista delle gondole nere, quasi come se avesse avuto un presagio che una di quelle avrebbe trasportato la sua salma. I canti dei gondolieri però lo affascinavano e gli suggerirono il lamento del corno pastore all’inizio del terzo atto di Tristan. Il tempo sospeso della città sull’acqua lo faceva sentire beato, è lo stesso tempo spazializzato che avvolge gli amanti del dramma. Nel silenzio veneziano riuscì a comunicare al mondo il più sublime lamento d’amore. Immergendosi nei meandri sonori del Tristan4 la sua mente fu portata in luoghi lontani che evocano il già accaduto e prefigurano il cosa potrebbe accadere; sono le zone del mito ma pure quelle dell’inconscio, legato alla vita corrente ma contemporaneamente lontano dal presente, luoghi dove la cronologia è oscillante come il rapporto con la realtà. Una successione di istanti irrelati è ciò che succede anche nell’esperienza amorosa, dove tutto si concentra sull’oggetto amato che sospende ogni ordine temporale e ogni spazio concreto. Certamente la relazione con Mathilde contribuì alla creazione della particolare temporalità spazializzata del Tristan, come fu determinante il soggiorno a Venezia, luogo sostanzialmente u-topico, fermo nel tempo e sospeso nello spazio. Venezia non ha un centro, come non ce l’aveva Wagner nel momento in cui compose i Wesendonck-Lieder e Tristan o meglio il suo centro era quello di un essere instabile, di un amore sfuggente, di una meta irraggiungibile. Oltre a questo del 1858-1859 vi furono altri cinque soggiorni veneziani (novembre 1861, settembre 1876, ottobre 1880, aprile 1882 e dal 14 settembre dello stesso anno alla morte) e ognuno di essi fu causato dall’esigenza di ritirarsi lontano dall’affaristica volgarità delle città industrializzate (come più volte ebbe a dire). Di questo primo soggiorno e del secondo, avvenuto due anni e mezzo dopo, Wagner ne parla nella Mia vita, nel Diario veneziano e nelle lettere a Mathilde Wesendonk, mentre degli altri quattro abbiamo notizie dagli appunti che Cosima prese, nel suo diario quotidiano, dal 1869 al 18835. Dunque sei furono i soggiorni veneziani di Wagner, dal 1858 al 1883, e «all’origine di ciascuno di essi il bisogno – simile ad un “leit-motiv” psicologico, con “variazioni” – di fuggire da qualcuno o da qualcosa, costante “pedale” di una esistenza tormentata, irrequieta, eternamente insoddisfatta. […] Il bisogno sempre più acuto, doloroso, di un rifugio spiritualmente sicuro (il foscoliano “porto” dove trovare quiete) in una città amica, discreta, capace di accogliere e di comprendere le sue tumultuose aspirazioni, e avvolgerlo in quel silenzio e in quella solitudine tanto a lungo vagheggiata»6. Il silenzio dell’inverno veneziano lo avvolse, come ben dice Pugliese, non era tanto un’assenza di rumori quanto una quiete interiore che lo sollecitò alla creatività, che dall’interiorità assolutamente concentrata su se stessa si alzava alle vette più alte. Riusciva ad avere qualche notizia di Mathilde da Frau Wille, la quale aveva detto alla signora Wesendonck che Wagner non possedeva un pianoforte nel suo soggiorno veneziano: fu così che Mathilde gliene procurò uno che fece la felicità di Richard. Riuscì ad avere notizie anche da A sinistra, Mathilde Wesendonck. A destra, Cosima Wagner. Minna, la cui salute stava peggiorando, fu Liszt a mandargli qualche denaro per le cure necessarie alla moglie. A Venezia ascoltò le sue prime musiche in territorio italiano, realizzate dalle Bande militari dei due reggimenti austriaci in sede, si trattò delle ouverture dal Rienzi e dal Tannhäuser. Il periodo veneziano fu tormentato: nell’ottobre, Otto Wesendonck lo informò della morte del loro figlio Guido; fu per Wagner un colpo assai duro e scrisse ai Wesendonck per le condoglianze. Furono mesi difficili, trascorsi in solitudine e con una forte gastrite, il pessimismo lo avvolgeva tanto da fargli presagire una fine imminente. Il governo di Sassonia aveva informato quello austriaco della residenza su suolo veneziano di un suo ricercato, e fu così che il 6 febbraio 1859 gli venne notificato di essere stato bandito da Venezia. Del resto, dopo avergli suggerito il grande duetto d’amore, la città aveva terminato il suo compito; il 24 marzo 1859 lasciò la laguna, con in valigia il secondo atto concluso del Tristan. Partì per Lucerna, via Milano dove si recò alla Scala e dove si rese conto del lusso esteriore e del degrado del gusto artistico italiano (forse aveva anche pensato di fermarsi a Milano, ma la prima impressione negativa cancellò questo pensiero). L’umore era nero e si sentiva un uomo distrutto e un musicista da far pietà! Come ci dicono le lettere di questo periodo. Il 26 marzo lasciò Milano e tornò in Svizzera. Nel 1861 Wagner scrisse ai Wesendonck della situazione difficile a Vienna, dove era prevista la rappresentazione del Tristan ma che trovava molte difficoltà. Forse per rasserenarlo o forse per inconscio masochismo, i coniugi gli fissarono un appuntamento a Venezia, dove, nel novembre Wagner si recò, attraversando il Semmering, facendo tappa a Trieste e giungendo in battello nella città lagunare. Qui trascorse quattro giorni, dall’8 all’11 novembre, nei quali si rese conto che il suo rapporto con Mathilde doveva considerarsi concluso. Otto e sua moglie dimostrarono di aver rinsaldato il loro rapporto, e per di più lei era incinta. L’unica esperienza estetica veneziana fu la vista dell’Assunzione di Tiziano che gli causò una forte emozione, talmente forte da spingerlo – come lui stesso dichiara nella Mia vita – a riprendere il progetto dei Maestri cantori. Cosa c’entri l’Assunta con I Maestri è cosa difficile da capire, probabilmente Wagner si riferiva all’euforia tipica dei momenti in cui si sente crescere l’energia creativa, una forte spinta al lavoro, ma anche al fatto che della sua opera aveva parlato con Mathilde, probabilmente il giorno prima o il giorno stesso della visita al capolavoro del Tiziano, chiedendole la restituzione dell’abbozzo che aveva steso nel 1845 e che le aveva regalato (lei glielo restituì quale dono nell’imminente Natale). Wagner non aspettò di 23 opera 1813 - 2013 opera 24 1813 - 2013 riavere l’originaria bozza, e stese un nuovo copione, pressoché uguale a quello originario, che evidentemente era rimasto bene impresso nella sua memoria, e lo spedì all’editore7. Il 14 settembre 1868 ebbe inizio il quarto viaggio di Wagner in Italia, scese con Cosima attraverso il Gottardo e fece la prima tappa sul lago Maggiore, poi proseguì per Genova, dove, per la seconda volta, trascorse giorni felici. Quindi si recò a Milano per incontrare l’editore Giovannina Lucca che rilevò i diritti per le sue opere in Italia. La coppia ritornò in Svizzera passando da Como (la città nativa di Cosima). Passarono alcuni anni prima che Wagner tornasse in terra italiana. Fu quando, per riposarsi dalle fatiche dell’allestimento del Ring a Bayreuth, i Wagner, il 14 settembre 1876, partirono per l’Italia. Passando da Verona, raggiunsero Venezia, e qui fu recapitata a Wagner una lettera dell’amministratore del festival, Feustel, che informava il maestro del debito di centoventimila marchi, una cifra enorme che Wagner dubitò di poter reperire. Gli fu prospettato di trasferire il festival a Monaco, ma ovviamente non accettò. Acconsentì però che La Walkyria fosse staccata dal ciclo e rappresentata da sola a Vienna (progressivamente dette l’autorizzazione alla messinscena di questa singola giornata, che fu la più richiesta, anche in altri teatri). All’arrivo dell’autunno i Wagner scesero a Napoli, poi proseguirono per Sorrento, dove ritrovarono Nietzsche, che era là per curarsi in compagnia di Paul Rée; i vecchi amici s’incontrarono solo due volte, oramai il loro dialogo si era interrotto. Quindi i Wagner risalirono verso Roma, dove si trattennero per quattro settimane, durante le quali Richard fu festeggiato dall’ambasciatore tedesco von Keudell, che dette una serata in suo onore, e dalla Reale Accademia di Santa Cecilia, che lo nominò «socio onorario». Dall’ambasciatore conobbe Giovanni Sgambati, fu colpito dal suo Quintetto per pianoforte e lo presentò alle edizioni Schott (che poi pubblicò molte composizioni di Sgambati), fu uno dei pochi compositori a cui Wagner degnò attenzione. A Roma Cosima incontrò la principessa Sayn-Wittgenstein e Wagner conobbe Gobineau. Il 3 dicembre Wagner fu a Firenze e il giorno dopo a Bologna, per la rappresentazione di Rienzi, quindi fece ritorno nel capoluogo toscano, soggiornando nel bel palazzo Ricasoli, affacciato sull’Arno; si trattenne quattordici giorni, durante i quali si recò più volte agli Uffizi, accompagnato dal barone Liphardt (rimase affascinato soprattutto dalla Primavera di Botticelli, nella quale vide trasfigurata Freia). Visitò anche san Miniato, Fiesole e Pisa. Ebbe modo di rivedere Jenny Laussot e di conoscere il compositore fiorentino Giuseppe Buonamici, che era stato allievo di Hans von Bülow al Conservatorio di Monaco8. La composizione di Parsifal procedeva fra euforie e depressioni, addirittura alla fine del 1878 rilesse alcune partiture di Liszt, soprattutto La campana di Strasburgo, per paura di aver inconsapevolmente ripreso qualcosa. In ogni caGiovanni Sgambati. so, ha la fortuna di poter lavorare senza interruzioni. Il 31 dicembre del 1879, i Wagner, con i bambini, partirono per Napoli, dove arrivarono il 4 gennaio installandosi a Villa d’Angri, stupefacente dimora dalla quale si gode un panorama mozzafiato che va dal golfo di Napoli a Posillipo. Con loro era anche Heinrich von Stein, giovane ma reazionario studioso, precettore del piccolo Siegfried. Alla Villa andò a trovarli il pittore russo Paul von Joukowsky, futuro scenografo di Parsifal. I Wagner si recarono a Napoli più volte, andarono al San Carlo per assistere a una rappresentazione dell’Ebrea di Halévy e si recarono pure in visita al Conservatorio di San Pietro a Maiella, ricevuti da un Francesco Florido esultante. I coniugi si recarono inoltre in visita ad Amalfi e a Ravello dove, nel parco di Villa Rufolo, Wagner ebbe l’ispirazione per la messinscena del magico giardino di Klingsor, nel quale ammiccavano sensuali, fra rosai profumati, le Fanciulle fiore9. Giunta l’estate, il caldo diventò troppo forte e si formò il desiderio di un posto che fosse «meno Africa e più Italia»; Cosima riuscì a trovare un luogo adatto e la famiglia, in agosto, si trasferì a villa Torre Fiorentina, alle porte di Siena. Risalendo dalla Costa amalfitana si fermarono a Roma e, prima di giungere a Siena, rividero Firenze e, per la prima volta, Pistoia e Perugia; il 22 agosto10 arrivarono a Siena, dove Wagner fu affascinato dal duomo e fu proprio dalla cattedrale della bella città toscana che Joukowsky prese ispirazione per il tempio del Graal. Liszt trascorse dieci giorni con loro e insieme al genero Wagner suonò tutto il terzo atto di Parsifal. Nel frattempo Ludwig aveva acconsentito che Parsifal venisse rappresentato esclusivamente a Bayreuth. Il 1 ottobre i Wagner partirono da Siena e, dopo una nuova sosta a Firenze, arrivarono a Venezia. Dal 4 al 30 ottobre i Wagner furono all’hotel Danieli e poi a palazzo Contarini delle Figure a Venezia. Nel novembre la famiglia si recò a Palermo, alloggiando prima nel lussuoso Hôtel des Palmes e successivamente a villa Gangi ai Porrazzi. Qui Wagner riprese un frammento che aveva abbozzato per il Tristan ma mai concluso, si tratta di tredici battute in lab che vogliono simboleggiare il collegamento fra Tristan e Parsifal, il rapporto fra due epoche della propria vita, ma forse anche la relazione fra i caratteri dei due protagonisti. Queste battute sono note come il Tema di Porrazzi e furono regalate a Cosima, la quaPaul von Joukowsky. le ebbe anche, per il suo compleanno, il dono dell’esecuzione dell’ouverture Polonia composta da un giovane Richard nel 1836. Nella città, dove, tanti anni or sono, senza conoscerla, aveva ambientato Il divieto d’amare, ora Wagner progettava anche di scrivere musica orchestrale e di riprendere, come desiderava e sollecitava Ludwig, I Vincitori, ma l’abbozzo non era più utilizzabile perché molte idee erano passate a Parsifal. Gli si presentò Auguste Renoir, che stava facendo un viaggio in Italia e che avrebbe voluto portare ai fan wagneriani a Parigi un ritratto del maestro, cosa che avvenne effettivamente; Wagner disse che nel ritratto di Renoir gli sembrava di essere un pastore protestante e il pittore, da parte sua, dichiarò che la testa di Wagner era meravigliosa!11 Il 20 marzo i Wagner si trasferirono ad Acireale, insieme a loro il conte siciliano Gravina, fidanzato di Blandine. Furono testimoni del passaggio di Garibaldi ferito e ne furono commossi. Ad Acireale Wagner fu colto da uno spasmo cardiaco, prima avvisaglia di ciò che lo condurrà alla morte. La famiglia visitò Catania, Giarre, Riposto e Taormina che, con la sua stupenda posizione, colpì profondamente Wagner. Ai primi di aprile partirono per Venezia, dove giunsero il 15, trattenendosi per due settimane, prima di ripartire per Monaco. Nietzsche ascoltò per la prima volta Carmen. Il 13 gennaio Richard 1882 terminò Parsifal a Palermo, anche grazie all’aiuto di Engelbert Humperdink, il giovane compositore che mise in bella copia la partitura (divenuto poi famoso per il gustoso lavoro Hänsel und Gretel). Nell’aprile i Wagner intrapresero il viaggio di ritorno, passando da Acireale, Napoli e Venezia, dove si fermarono all’hotel Europa. Curiosa coincidenza il fatto che Wagner scrisse in quel mese a Venezia il saggio Sul maschile e il femminile nella cultura e nell’arte: su un argomento analogo scriverà anche il suo ultimo saggio, ancora a Venezia, Del femminino nell’umano. Il 26 luglio, dopo sei anni, il Festspielhaus riaprì per la prima rappresentazione di Parsifal 12 . Fra gli spettatori ne mancavano tre illustri: Ludwig, Nietzsche13 e Bülow. Il festival si protrasse fino al 29 agosto14, e a rassegna terminata, per rilassarsi dalla tensione e dalle fatiche, i Wagner vollero tornare in Italia. Giunsero a Venezia il 16 settembre, sistemandosi per alcuni giorni all’Hotel Europa poi a Palazzo Vendramin Calergi, dove Wagner aveva affittato le stanze del mezzanino da Maria Carolina duchessa di Berry (che aveva acquistato il palazzo da Nicolò e Gasparo Vendramin Galergi e lo aveva restaurato con un buon impianto di stufe: sembra che Wagner, assai freddoloso, scegliesse questo palazzo, oltre che per la bella posizione sul Canal Grande, per l’eccellente impianto di riscaldamento)15. La città ci piace. […] Andiamo sulla Riva dove passeggiamo a lungo. […] Poi ci rechiamo al giardino pubblico, dove Richard vuole informarsi se Siegfried possa imparare là a cavalcare. […] Al giardino Papadopoli, i pappagalli e le belle aiuole piacciono molto a Richard. […] La vista del Canal Grande, da sotto il ponte di Rialto, gli procura sempre una grandissima gioia; il ponte stesso con gli ampi gradini, gli dà un senso di sicurezza. E resta dell’opinione che nessuna città possa competere con Venezia.16 La salute di Wagner si dimostrò malferma, nel novembre ebbe un attacco cardiaco, in piazza san Marco. Poco dopo Cosima festeggiò il suo quarantacinquesimo compleanno e per l’occasione Richard rielaborò la sua giovanile Sinfonia in do, che fu eseguita al teatro La Fenice il 24 dicembre, dai docenti e dagli allievi del Conservatorio. In una lettera del 31 Friedrich Nietzsche. dicembre, indirizzata all’editore del «Musikalischen Wochenblatt», Wagner descrisse con dovizia di particolari la preparazione del concerto e l’esecuzione, ricordando quando la partitura venne eseguita la prima volta: allora aveva solo diciannove anni e il consigliere della Gewandhaus-Konzert, Rochlitz, fu sorpreso dalla giovane età; Wagner scrisse anche che lui stesso s’era meravigliato della bontà del suo lavoro e questo lo convinse che per fare l’artista la dote naturale è decisiva, infatti, lui aveva seguito i suoi modelli formali, Mozart e Beethoven, ma il lavoro giovanile si reggeva in piedi non per l’abilità tecnica ma per il talento. Era giunto, il 19 novembre, anche Liszt per trascorrere qualche settimana con i Wagner, per porgere gli auguri di buon compleanno alla figlia e quelli di Natale a Wagner. Liszt rimase fino al 13 gennaio dell’anno successivo, quando ripartì per Budapest. La struggente e melanconica atmosfera invernale di Venezia, ispirò all’abbé, forse in preda a un presentimento, una delle pagine più belle del suo ultimo periodo creativo, La gondola funebre, brano che sembra presagire l’imminente fine di Wagner. In questi mesi Wagner ebbe un contrasto con Giovannina Lucca, la quale, a ragione, affermava di avere i diritti anche su Parsifal, in virtù del contratto stipulato nel 1868. Vi furono due lettere della Lucca17 a Wagner, e fu soltanto grazie ai buoni uffici del dottor Strecker che la questione si appianò, non andando a intaccare l’esclusiva che Wagner aveva concesso a Schott. Le donne, così tanto bramate e che tanta parte ebbero nell’ispirazione del maestro, furono la causa dell’accelerazione della fine. All’inizio del 1883, Cosima seppe che sarebbe giunta a Venezia Carrie Pringle, un soprano che aveva interpretato una Fanciulla fiore alla premiére di Parsifal. Il 12 febbraio vi fu un violento litigio ed è possibile che questo alterco, come pare sostenne il medico che fu chiamato dopo il malore di Wagner, sia stato la causa dell’infarto mortale; il cuore del maestro cessò di battere il giorno dopo, 13 febbraio 1883. Beniamino Dal Fabbro, nel 1949, raccolse la testimonianza di Piero figlio di Papete, che fu l’ultimo gondoliere di Wagner, il quale accompagnò il critico nell’appartamento in cui Wagner morì e lasciò questa dichiarazione: Il giorno che gli venne male, Wagner era appena tornato con mio padre dal solito giro in gondola. Lui era qui, sopra il divano da una persona e mezza, davanti al tavolino degli scacchi. Appoggiò la testa sul tavolino e gli scacchi rotolarono sul pavimento; era rimasta in piedi soltanto, tra i suoi capelli, la regina nera. Corse mio padre, chiamò subito la Cosima, che si trovava dall’altra parte della casa. In due lo trasportarono a braccia sul letto, là nella camera; ma lui era ormai morto18. Wagner stava lavorando al saggio Del femminino nell’umano. Nietzsche, che stava scrivendo Zarathustra, de- 25 opera 1813 - 2013 opera 26 1813 - 2013 finirà poi, in Ecce home, «sacra» l’ora della morte di Wagner. Il giorno dopo, 14 febbraio, Verdi scrisse a Ricordi: «Triste! Triste! Triste! Vagner è morto! Leggendone il dispaccio ne fui atterrito». Bruckner, l’unico compositore insieme a Sgambati che Wagner apprezzò al di fuori di quelli che formavano la Cancelleria di Bayreuth, stava componendo la Settima sinfonia, la Coda fu intitolata Musica funebre per il maestro defunto. Il giovane D’Annunzio, che nella sua prima fase subì fortemente l’influenza wagneriana, fu fra coloro che sostennero il feretro che da palazzo Vendramin fu portato alla gondola nera che lo condusse alla stazione. La reazione di Nietzsche fu dura: «Ora comincio a riprendermi, e credo proprio che la morte di Wagner sia il sollievo maggiore che mi poFranz Listz. 1. Filippo Filippi, Secondo viaggio nelle regioni dell’avvenire, in G. M. Lleonardt, Riccardo Wagner, Milano, Dumolard 1881, p. 161. tesse capitare»19. Durante il viaggio di ritorno verso Bayreuth20 la salma di Wagner fu onorata da una gran folla, specialmente a Monaco, dove erano giunte molte corone di fiori, fra cui quella di Ludwig, il quale avrebbe preteso di seppellire lui il corpo dell’amatissimo amico, cosa che non sarebbe stata certo sconveniente. Due mesi esatti dopo la morte di Wagner, la compagnia di Neumann rappresentò l’intero ciclo nibelungico al teatro La Fenice, era il 14 aprile; il 19 si tenne al Conservatorio un concerto solenne in memoria del maestro e una maestosa cerimonia si svolse sul Canal Grande. L’anno successivo, con l’ode barbara carducciana, Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley, conclusa il 13 dicembre 1884, ebbe inizio la consacrazione di Wagner nella letteratura italiana21. ◼ po aver ricevuto i consigli di Rheinberger). 3. Cfr. Renzo Cresti, Wagner in Italia, “Feeria” n. 42, Panzano in Chianti settembre 2012. 9. A seguito della marcia celebrativa del centenario della fondazione della città di Philadelphia, che aveva composto quattro anni prima, pervennero a Wagner delle proposte di lavoro dagli Stati Uniti e fu quasi per accettarle, come dimostra il fatto che regalò al figlioletto Siegfried un libro che illustrava la vita americana. Fra gli altri, lo stesso Ludwig cercò di distrarlo dal proposito di recarsi in America, dicendogli che nella terra del denaro la sua arte non sarebbe mai fiorita, promettendogli inoltre ancora aiuti economici per Bayreuth. 4. Il Tristan und Isolde è un dramma diverso dagli altri fin dal titolo, poiché in quasi tutte le altre opere la titolazione indica il protagonista, in solitudine (Rienzi, l’Olandese, Tannhäuser, Lohengrin, Siegfried, Parsifal), mentre qui è l’unione indissolubile ad annunciarsi: «Il nostro amore, / non si chiama Tristan / e Isolde?» ma anche la congiunzione infine verrà tolta, Isolde vuol diventare Tristan e lui vuol divenire lei. È un’opera che ha l’ambizione di avvicinarsi all’ontologia. 10. Due giorni prima, da Marienbad, Nietzsche scrisse a Peter Gast: «Niente può compensare per me il fatto di aver perduto negli ultimi anni la simpatia di Wagner. Quante volte sogno di lui, e sempre nello stile dei nostri rapporti confidenziali di un tempo. Tra noi non è mai corsa una parola cattiva, neppure nei miei sogni, molte invece incoraggianti e liete, e con nessuno forse ho mai riso tanto. Ma ormai è finita», in Carteggio NietzscheWagner, p. 164. 5. Il periodo in cui Wagner periodicamente frequentò Venezia è lungo venticinque anni e alla città lagunare egli confidò «i suoi malumori, la tristezza di un amore finito, la malinconia del tempo che passa, il suo lavoro, il piacere della compagnia dei figli, la profondità del rapporto con la moglie e, talvolta, in modo inaspettato, il suo umoristico sarcasmo», la città esprimeva quel «desolato senso di abbandono che tanto aveva colpito Wagner la prima volta che la visitò, ma pur sempre scrigno di sogni e desideri, di bellezze e meraviglie» da Itinerari veneziani di Richard Wagner, immagini d’epoca e foto di Mario Vindor, a cura dell’Associazione Richard Wagner di Venezia, Punto Marte, Venezia 2008, p. 123. 11. Dallo schizzo che Renoir fece a Palermo ricavò poi il ritratto, esposto alla biblioteca dell’Opéra. 2. Cosima pensò anche di far tradurre diversi scritti e poesie di Leopardi. In casa Wagner era conosciuta anche l’attività di Mazzini i cui scritti degli anni trenta sono, per molti aspetti, vicini a quelli wagneriani degli anni quaranta-cinquanta. 6. Giuseppe Pugliese, Wagner e Venezia: un viaggio attraverso le immagini, in Itinerari veneziani di Richard Wagner, cit., p. 7. 7. Durante il viaggio di ritorno a Vienna ebbe la prima ispirazione musicale dei Maestri cantori e concepì subito, con la massima precisione, come racconta nella Mia vita, la parte principale del Vorspiel in do maggiore. Nell’autunno del 1865 Wagner riprese la partitura di Siegfried, un miracolo dopo così tanto tempo, dato che era stata interrotta al secondo atto nel luglio del 1857. 8. Buonamici (Firenze, 1846-1914) fu pianista assai stimato da Liszt, tanto che questi lo invitò a Weimar nel 1879. Fu presente alla première di Parsifal a Bayreuth. Il giorno della partenza di Wagner da Firenze per Bayreuth, il 17 dicembre, in occasione di un rinfresco per salutare il maestro, venne eseguito un quartetto di Buonamici (che aveva composto a Monaco do- 12. La sala, come già nelle rappresentazioni del Ring, fu al buio e gli spettatori furono invitati a seguire la musica in silenzio; s’inaugurò la tradizione di applaudire solo alla conclusione del secondo e del terzo atto. 13. Nell’estate del 1882, da Tautenburg, Nietzsche scrisse a Lou Salomé: «Le ultime parole che Wagner ebbe per me sono la dedica di un bell’esemplare di Parsifal, “Al caro amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner membro del Concistoro”. Quasi allo stesso tempo gli giungeva, inviato da me, il mio volume Umano, troppo umano e così tutto era chiarito. Ma anche tutto finito», in Friedrich Nietzsche, Epistolario, Einaudi, Torino 1977, p. 169. 14. Durante quell’ultima rappresentazione Wagner diresse il terzo atto, e sono interessanti le testimonianze che ci raccontano come i tempi della sua direzione fossero molto più lenti di quelli di Levi. 15. Due mesi dopo la morte di Wagner, venne pubblicato ad Augusta il libro di Henry Perl, Richard Wagner in Venedig, nel quale viene descritta la vita della famiglia Wagner a Palazzo Vendramin Calergi: «Nella stanza da letto di Wagner tutto contribuiva a creare un’atmosfera magica, come in un sogno. La luce singolare, come se fosse giorno eppure così piacevolmente soffusa, le pareti ricoperte di raso rosa pallido e verde acqua. […] Il centro della stanza-salone era occupato da un letto, le cui dimensioni erano decisamente esagerate. Questo letto, a guisa di letto antico, si sollevava dal pavimento di appena un piede ed era foderato con un pesante raso color tè ghiacciato. […] Un maestoso pianoforte a coda era ricoperto pure con una lucida seta sulla quale brillavano delle rose. Le finestre erano mascherate da tende in sei strati, dal blu scuro a sfumature più chiare fino al rosa e verde, con le quali la luce esterna era trattenuta totalmente. Perfino il giorno, con i suoi umori mutevoli e con i diversi effetti di luce, non doveva disturbare la vivificante armonia in questo Eden ricreato artificiosamente!» Cit. in Sale Richard Wagner, a cura dell’Associazione Richard Wagner di Venezia. 16. Itinerari veneziani di Richard Wagner, cit., pp. 51, 52, 73, 57. Questi appunti di Cosima sono tutti volti ad annotare i (f)atti e le reazioni di Richard, quasi come se le sue e quelle delle altre persone non esistessero. L’acqua, i giardini, i cavalli, i pappagalli, le bellezze di una natura silenziosa attiravano Richard più dei monumenti e dei musei. 17. Dopo la morte di Wagner, la Lucca si accordò con Cosima per riconoscere la compartecipazione agli utili delle rappresentazioni dei drammi wagneriani in Italia a Siegfried e a Eva. Dal 1888 la casa editrice passò alle edizioni Ricordi, le quali si erano assai più industrializzate, abbandonando quella dimensione artigianale che ancora era conservata dalle edizioni Lucca. Guarda caso, dopo l’acquisizione dei diritti sui drammi di Wagner, Giulio Ricordi cambiò idea sul maestro tedesco, prima bistrattato, in nome della bella melodia italiana, ora riconosciuto quale genio musicale! 18. Beniamino Dal Fabbro, I bidelli del Walhalla, Parenti, Firenze 1954, p. 66. La semplice testimonianza del figlio del gondoliere di Wagner è verosimile; dice anche, a dimostrazione di quanto Wagner fosse attratto dal silenzio sonoro dell’acqua veneziana, che «negli ultimi mesi, quando ormai non stava più bene, voleva uscire lo stesso e mio padre lo portava in gondola, sempre per lo stesso giro di canali», pp. 65-66. 19. Da Rapallo, lettera a Peter Gast, datata 19 febbraio 1883, in Friedrich Nietzsche, Epistolario, p. 189. 20. Cosima resse le sorti del festival fino al 1906, quando si ritirò e passò la direzione a Siegfried, musicista preparato e uomo di vasta cultura ma assai conservatore, anche se nei festival che allestì dal 1924 al 1930 tentò qualche prudente innovazione. Cosima morirà nel 1930, poco dopo morirà anche Siegfried. 21. Cfr. Renzo Cresti, Richard Wagner, la poetica del puro umano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2012, anche in edizione inglese Richard Wagner, The Poetics of the Pure Human. A dell’interpretazione è evidente anche nella singolare analisi contrappuntistica, al di là dei consueti «tre stili» attribuiti a Beethoven. È quanto si coglie nella corrispondenza e nella sottigliezza subcutanea dei decorsi polifonici, sia nella di Mario Messinis San Giovanni Evangelista tutto Beethoven con il Quartetto Belcea, di formazione inglese, ma guidato da una splendida violinista rumena che dà il nome al complesso. Per la Società veneziana di Concerti il 3 febbraio scorso si è ascoltata una interpretazione moderna, di impianto antiromantico, molto formalizzata. Il Quartetto Belcea approfondisce il valore strutturale della dinamica, come fondamentale caratterizzazione del pensiero beethoveniano. Ciò è evidente sin dal brano di esordio, il Quartetto op.18 n. 4. L’impostazione è apparentemente settecentesca, ma la differenza delle gradazioni di intensità, dal pianissimo alla incisività tagliente, determina il lucido distacco dell’opera dal precedente haydniano, chiarificando la novità espressiva. Il forte carattere oggettivo e intellettuale Sopra, la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista. In alto a destra, il Quartetto Belcea. Al centro, Ludwig van Beethoven. giovanile op.18, come nell’ultimo capolavoro quartettistico, l’op. 135. Beethoven è classico o romantico? Il Quartetto Belcea crede nel classicismo, ma con punte di asciuttezza strumentale quasi novecentesca. È quanto si è notato anche nella mirabile esecuzione dell’op. 59 n. 1, resa con tempi più mossi del consueto e con tensioni interne di una scarnificata drammaticità. ◼ classica Beethoven con il quartetto Belcea 27 classica 28 Claudio Scimone dirige l’Orchestra della Fenice la qualità del colore. Da questo punto di vista, possiamo certamente ravvisare un parallellismo tra i due compositori, entrambi dominati dal culto del suono, del suono comunicativo, ricco. Una considerazione a sostegno del mio pensiero, che si distingue da alcune prese di posizione particolarmente settarie: il fatto che uno strumento potesse essere un limite e non una condizione viene provato dall’evoluzione nel tema cura di Andrea Oddone Martin po degli strumenti musicali. Un altro esempio: Tartini cercò continuamente di modificare lo strumento in virtù della capolavori di Wolfgang Amadeus Mozart occupano propria idea sonora. Devo il mio approfondimento della muuno spazio importante nella ricca programmazione stasica di Mozart anche alla personale amicizia con Bernhard gionale del Gran Teatro La Fenice di Venezia. PrincipalPaumgartner, conosciuto al Mozarteum, dove studiavo con mente il trittico dapontiano: Don Giovanni, Nozze di un altro specialista mozartiano, Carlo Zecchi. In quel luoFigaro e Così fan tutte, meravigliose opere nate dal Genio sago conobbi uno dei miei riferimenti fondamentali per la dilisburghese di innata vocazione teatrale. A incornirezione d’orchestra, Dmitri Mitropulos. Studiai ciare la gloriosa triade, una serie di quattro concerti con lui a Salisburgo e a Vienna, e anche alla Scatenuti dall’Orchestra del Teatro veneziano dedicala di Milano. Apriremo il concerto che si terrà al Venezia ti alla musica di Mozart. Il primo appuntamento, Malibran con la Sinfonia «Praga» e lo chiudereTeatro Malibran previsto il 26 aprile al Malibran, avrà in programmo con il finale della «Haffner»; tra le due sin26 aprile, ore 20.00 ma la Sinfonia n. 38 kv 504 «Praga», il Concerfonie eseguiremo una composizione giovanile di 28 aprile, ore 17.00 to per fagotto e orchestra kv 191 e la Sinfonia n. 35 Mozart: il Concerto in si bemolle maggiore per kv 385 «Haffner». Sul podio a dirigere l’orchestra fagotto e orchestra kv 191, avvalendoci dell’eccesalirà Claudio Scimone al quale abbiamo chiesto quali sono zionale fagottista Roberto Giaccaglia». gli aspetti salienti della sua lettura del repertorio mozartiano. I Solisti Veneti da lei fondati e diretti sono nel tempo divenuti celebri per le esecuzioni di musica barocca: si tratta di una «Ho diretto spesso la musica di Mozart, sia il repertorio specializzazione? operistico – ad esempio Il flauto magico e Don Giovanni – In realtà, avendo studiato direzione con Franco Ferrara e che quello sinfonico. Molte delle numerose partecipazioni con Dmitri Mitropulos non posso che sentirmi un «direttodei Solisti Veneti al Festival di Salisburgo, più di una trentire romantico». Ma provenendo da una piccola città ho dovuna, hanno avuto in programma il repertorio mozartiano, per to creare la mia orchestra, che, per esigenze d’organico, si riil quale è fondamentale la ricerca della giusta sonorità, che, soprattutto per quel che riguarda le Sinfonie, non deve essere “secca” perché proviene dall’intenzione di un compositore di opere teatrali. Un compositore d’opera che si cimenti nella stesura di una Sinfonia non azzera la sua propensione alla comunicatività, all’ampiezza e alla varietà dei suoni di carattere teatrale, sontuoso. È all’opposto dell’arcata sospesa, lieve, astratta, quella che un tempo si diceva “in stile” e che in sostanza significava “suonata senza carattere”. Ritengo che la musica di Mozart sia “teatrale” persino nei quartetti. D’alvolse forzatamente al repertorio barocco al quale mi dedicai tra parte, egli è vissuto tra i cantanti e infatti oltre alle opecon studi e ricerche, conseguendo, lo posso dire a posteriori, re c’è tutta la letteratura straordinaria delle Cantate. Possiadegli ottimi risultati. Ad esempio fu un successo internaziomo prendere come esempio anche Vivaldi: non si può pensanale l’esecuzione dell’opera vivaldiana Orlando Furioso – sia re che fossero compositori diversi il Vivaldi che scriveva l’Eal Filarmonico di Verona che al Théâtre du Chatelet di Paristro Armonico – e quindi il concerto solistico, certamente nagi – con Marilyn Horne e la regia di Pier Luigi Pizzi. Il seconto da un’esperienza operistica – e il Vivaldi che scriveva per il do concerto dei Solisti Veneti aveva in programma Verklärteatro. V’è una teatralità profonda nella musica strumentate Nacht di Arnold Schoenberg; quindi fin già dall’inizio le di Vivaldi, basti pensare alle grandi introduzioni degli archi in ottava. È tutta musica che viene suonata pensando alClaudio Scimone. I Claudio Scimone con i Solisti Veneti. me capita sempre quando posso eseguirlo. Il mio sogno è di lavorare ancora nei miei luoghi d’elezione: prediligo dirigere a Venezia oppure a Verona, insomma in Veneto, vicino al- la mia casa, che a New York, ad esempio. Ciò non è dovuto a snobismo ma al fatto che il pubblico a me più vicino, quello col quale nel tempo si sono stabiliti dei legami forti, è anche quello che mi permette di esprimermi meglio. ◼ classica le nostre ambizioni avevano un repertorio di vasti orizzonti. A tutt’oggi i Solisti Veneti spaziano da Giovanni Gabrieli a composizioni scritte nell’anno in corso, coprendo tutto l’arco del repertorio cameristico esistente. Un’orchestra piuttosto longeva la nostra, se si pensa che prossimamente eseguiremo il nostro seimillesimo concerto e il prossimo anno celebreremo il cinquantacinquesimo anno di attività. Nel corso del tempo la compagine ha elevato costantemente il suo profilo qualitativo. Paradossalmente, mi pare che la cultura in genere, e in particolare la cultura musicale in Italia, sia considerata sempre più, mi permetta il termine, «accessoria». È una vergogna del «sistema Italia», il quale non capisce (ma spesso non sa, non conosce) che soprattutto la musica non è solo spettacolo, non è riducibile esclusivamente alla sua esteriorità: la musica è il mezzo educativo più potente che esista, come ci insegna il Venezuela con il grande esperimento del mio amico Antonio Abreu. Purtroppo l’Italia rimane monca nonostante gli innumerevoli esempi mondiali. Ormai nelle campagne elettorali la parola «cultura» non si pronuncia quasi più se non svilendola; la parola «musica» è scomparsa completamente. Il tutto mentre perfino la medicina specializzata, la neurologia, ne riconosce le qualità, gli effetti tonici diretti. Per non parlare degli effetti sociali indiretti: è sufficiente come esempio l’attività della West Eastern Divan Orchestra di Daniel Barenboim. La sua laboriosa carriera è costellata di numerosi riconoscimenti. Quali partiture vorrebbe ancora interpretare? Mi vengono in mente le Grandi Sinfonie di Muzio Clementi, le opere di Boito e Puccini, come ad esempio il Capriccio Sinfonico: un repertorio comunemente non frequentato e tuttavia accolto con successo dal pubblico, co- 29 classica 30 Gabriele Ferro: da Janáček a Stravinskij vinskij faceva creare a freddo questi schemi ritmici, rimescolando metro ternario e binario ma mantenendo alcuni incisi sempre identici, che lungo il pezzo dovevano permanere immutati. Per questo non ha senso, come qualcuno ha detto, affermare che, a dispetto delle complicazioni ritmiche, la Sagra della primavera potrebbe essere ridotta ritmicamente «in quattro». a cura di Mirko Schipilliti Vale anche per il neoclassicismo di Pulcinella? Personalmente detesto qualsiasi neo-classicismo e neo-roJanáček (cfr. pp. 12-13) Gabriele Ferro accosta, manticisimo. Nel primo Novecento si era fatto molto in Itaall’interno della stagione sinfonica della Fenice, un lia (si pensi a Scarlattiana di Casella o a certe pagine di Reprogramma con due capolavori sempre di area slaspighi), ma un po’ «deformando» armonicamente una muva ma con riferimenti al Settecento più europeo: la sica del Settecento. L’unico che riuscì a creare un capolavosuite dal balletto Pulcinella di Stravinskij (diretro totale facendo neoclassicismo è stato Stratamente basato su musiche del Settecento italiano, vinskij. Ho diretto a Parigi un programma con in particolare di Pergolesi) e la Sinfonia n. 1 Clasle arie originali di Pergolesi seguite dalla versiosica di Prokof’ev. Un percorso suggestivo se si penne completa di Pulcinella ed è stato incredibile: Venezia sa all’enorme successo che i compositori italiani di musiche, le prime, che con pochissime modifiTeatro La Fenice quel periodo (Traetta, Cimarosa, Paisiello) ebbeche sono diventate il Pulcinella. Stravinskij ha 22 marzo, ore 20.00 ro proprio in Russia. talmente assimilato quelle armonie da ricom24 marzo, ore 17.00 Maestro, abbiamo parlato di Janáček e del perporle in un modo totalmente nuovo. corso che sta intorno alla messa in opera di una parE anche ironico, potremmo dire. titura così complessa. La considera un’opera rivoluzionaria? Apparentemente ironico, sembra qualcosa di allegro. Io lo Ho diretto più di duecento titoli operistici diversi, toccansento invece come un pezzo drammatico, un fossile, qualdo anche Traetta o addirittura Schreker. Janáček è personacosa di pietrificato. Non vuole «imitare» ma ci fa rivivere lissimo, perché non ha precedenti a cui si è rifatto. È davla sensazione di qualcosa che è stato e che non c’è più. Crea vero originale ma se si guarda all’evoluzione della musica, un senso di straniamento, anche per l’uso speciale del ritmo. la dissoluzione dell’armonia era già avvenuta. Tuttavia, Un mondo completamente diverso da quello del Prokof ’ev cominciavano a delinearsi principi compositidella sinfonia Classica, composta tre anni prima. vi per cui ogni autore elaborava una proCerto. Stravinskij rielabora, destabilizza e, più che strapria cellula – un nucleo fortemente divolgere, ricompone. In Prokof’ev traspare invece un verso da compositore a compositore – classicismo delizioso, più da salotto se vogliamo. intorno a cui costruire il brano. Fu ArQualcosa che si tinge di olimpica trasparenza? nold Schoenberg l’unico che veramenNon solo purezza, piuttosto un’idea di fanciullezza, te analizzò sé stesso per arrivare all’edi finta, voluta, ingenuità. laborazione di nuove regole attraverso la Rimane costante l’idea, forte, di modernità, e per lei dodecafonia. affrontare il Novecento è sempre imprescindibile, coCosa la colpisce invece della mome lo testimonia la sua lunga esperienza nella musica dernità di Stravinskij? contemporanea. In lui c’è l’elemento ritNon credo molto negli interpreti che non hanno mico, particolari accenmai diretto musica contemporanea, dove ogni compositi, come all’inizio di tore ha una propria scrittura; persino la musica aleatoria, doPetruška, dove inve, praticamente, si crea il pezzo fra varie possibilità di scelta, troduce all’imti dà una libertà dal tempo prestabilito, provviso un insvincolandoti completamente. ciso che sbalJanáček è molto complesso. La musila tutto. L’ecca, è difficile? cezionaMolto. I Greci pensavano che le e geniale fosse l’unica vera arte. ◼ buon gusto di StraHilda Wiener (1877-1940), A Igor Stravinsky suona il Capriccio per Piano e Orchestra (matita su carta 16.8 x 22.8 cm; con autografo: «Igor Strawinsky, Palais de Beaux-Arts in Brussels, 14 December 1930» commons.wikimedia.org). la Russia, che sotto la direzione di Pletnëv – che la considera una delle sue gioie più grandi e per la quale, ancora oggi, ricopre la carica di direttore artistico e direttore principale – raggiunge in pochi anni una posizione prestigiosa tra le orchestre più importanti di tutto il mondo. Membro del Consiglio culturale russo, nel 2007 Pletnëv riceve un Premio presidenziale per i suoi contributi alla vita artistica della nazione. In qualità di direttore ospite sale regolarmente sul podio con orchestre quali la Philharmonia di Londra, la Mahler Chamber Orchestra, la Filarmonica di Tokyo, l’Ordi Ilaria Pellanda chestra del Concertgebouw, la London Symphony Orchestra, la Filarmonica di Los Angeles e l’Orchestra Sinfonica ra il 1997 quando al festival di musica da camedi Birmingham. Nel 2008 viene nominato direttore ospite ra di Lockenhaus si assistette a una piccola rivoluprincipale dell’Orchestra della Svizzera Italiana a Lugano. zione: il violinista Gidon Kremer preNelle vesti di pianista solista e interprete appasentò infatti, oltre a tanti famosi musire regolarmente nelle capitali musicali di tutto il cisti, una nuova orchestra, la Kremerata Baltica, mondo. Le sue registrazioni e le esecuzione dal vicomposta da ventitré giovani talenti provenienvo lo mettono in luce come interprete eccezionaVenezia ti da Lettonia, Lituania ed Estonia. L’orchestra le, che si muove in un repertorio d’ampio respiro. Teatro La Fenice conquistò immediatamente il pubblico presenIl «London Telegraph» sottolinea che «Pletnëv 20 marzo, ore 20.00 te alla manifestazione, donando nuova linfa al feriesce, attraverso la sua mente e le sue dita, a dare stival. La Kremerata Baltica, progetto fondato in vita alla musica, riempiendola di freschezza e di una prospettiva a lungo termine, è stata il regalo che Kremer spirito». Il «Times», dal canto suo, afferma che il suo modo ha voluto farsi in occasione del suo cinquantesimo compledi suonare è «di una bellezza incredibile e di una virtuosità anno: un modo per trasmettere la propria esperienza ai gioimmaginativa prodigiosa». vani colleghi provenienti dall’area baltica, regione in cui è Le registrazioni effettuate per Deutsche Grammophon stato promotore e ispiratore della cultura musicale, senza accettare compromessi sui livelli qualitativi. Elemento essenziale del profilo artistico dell’ensemble è il suo approccio creativo alla programmazione, che spesso guarda oltre le tendenze dominanti per dare spazio a numerose prime esecuzioni di opere composte da autori come Kancheli, Vasks, Desyatnikov e Raskatov. La Kremerata sarà ospite quest’anno della stagione di musica da camera della Società Veneziana di Concerti – «Aere perennius, anno ii» –, che il prossimo 20 marzo proporrà sul palcoscenico del Teatro La Fenice la creatura di Kremer in un programma che spazierà dal Concerto per pianoforte in re minore bwv 1052 di Johann Sebastian Bach a quello in re maggiore op. 21 di Joseph Haydn, dal Viatore per orchestra d’archi di Pēteris Vasks al Concerto per pianoforte in do maggiore kv 246 di Wolfgang Amadeus Mozart. Nella doppia veste di direttore e solista al pianoforte, a calcare le tavole del Teatro veneziano sarà Mikhail Pletnëv, uno dei più raffinati artisti del nostro tempo. Figlio di musicisti, si dedica hanno ricevuto negli anni numerosi premi, tra i quali un alle sette note sin da bambino e, giovanissimo, si diploma al Grammy Award nel 2005 per il cd che contiene l’arrangiaConservatorio di Mosca. A soli ventuno anni vince il Conmento per due pianoforti della Cenerentola di Prokofiev, esecorso Medaglie d’Oro e il primo premio al Concorso interguito con Martha Argerich. Per la stessa casa, nel 2007 reginazionale Čajkovskij. Nel 1990 fonda la Russian National stra tutti i Concerti per pianoforte di Beethoven, e il disco Orchestra, prima compagine indipendente della storia delcontenente i Concerti n. 2 e n. 4 viene nominato come «Miglior registrazione di concerto del 2007» dalla Tokyo ReKremerata Baltica (kremerata-baltica.com). cord Academy. ◼ Continua la stagione della Società Veneziana di Concerti E classica Mikhail Pletnëv e la Kremerata Baltica alla Fenice 31 classica 32 Conversazioni angeliche: il femminino tra sacro e inconscio nella musica del xviii secolo Due concerti degli Amici della Musica di Venezia U di Paolo Cattelan* no dei capitoli più misteriosi ed affascinanti della storia dello musica classica è quello dello «strumento di vetro» che comincia a riaffiorare anche in Italia dopo una rimozione durata secoli. Lo «strumento di vetro», come lo chiama Leopold Mozart, ebbe in realtà molti nomi: verso la metà del Settecento prese piede in Inghilterra l’Organo Angelico, un set di bicchieri di varia dimensione disposto su di un tavolo suonato passandovi sopra delicatamente le mani inumidite. Nel 1762 veniva stampato un trattato dedicato all’arte dei Musical glasses, scritto dall’attrice e musicista Anne Ford, una donna anticonformista che incise profondamente sul costume inglese. Poi Benjamin Franklin pensò di rivoluzionare le caratteristiche organologiche del nuovo strumento per renderlo più affidabile, trasportabile e sicuro per l’esecutore. I bicchieri vennero così sostituiti da coppe di grandezza digradante, impilate fino a comporre una figura conica disposta in orizzontale attorno ad un perno rotante azionato dal suonatore grazie ad una pedaliera posta al di sotto dello strumento. Girando, le coppe attraversavano per il lungo una vasca d’acqua e, dal lato opposto all’immersione, venivano strofinate dalle dita dello strumentista producendo il suono. Franklin diede un nuovo nome alla sua creatura, Armonica, ma per farlo conoscere sul continente si affidò principalmente alla prodigiosa simbiosi musicale di due donne, due sorelle inglesi: Marianne e Cecilia Davies. Quest’ultima, che cantava da soprano, divenne quasi l’alter ego vocale dello strumento di vetro suonato dall’altra. Si inaugurò così una nuova e duratura associazione simbolica (ampiamente studiata dalla musicologa statunitense Heather Hadlock) tra l’Armonica e la voce femminile, lo strumento di vetro e il femminino. Con una nuova cantata scritta da Johann Adolf Hasse e Metastasio appositamente per loro e intitolata L’Armonica le Davies giunsero a Parma in occasione del matrimonio di Maria Amalia di Asburgo con il duca Ferdinando di Borbone nel 1769 e fecero in seguito diversi altri viaggi in italia soggiornandovi per lunghi periodi. Incrociarono certamente i Mozart a Milano nel 1770 e a Venezia nel febbraio 1771. In una nota inedita del Codice Gradenigo rilevata da Pier Giuseppe Gillio resta una confusa memoria delle loro performace: «19 febbraio 1771 / Femmina forastiera, e sino dalla tenera età fu istruita a maneggiare uno strumento vitreo inventato da maestro di Matematica […] oggi a Venezia si è tanto sublimata in più Accademie filarmoniche rese attonite, e stupefatte stante la soavità di note canore […]». Frattanto a Vienna l’Armonica cominciò ad essere richiesta anche da altri musicisti e competenti dilettanti tra cui il dottor Franz Anton Mesmer propugnatore della teoria del «magnetismo animale» e buon amico dei Mozart. Racconta Leopold Mozart che Mesmer possedeva un esemplare di Armonica «molto più bello di quello che aveva Ms. Davis. Anche Wolfgang – aggiungeva Leopold – sarebbe in grado di suonarlo, se solo ne avessimo uno anche noi». Mesmer cominciò ad impiegare l’Armonica come coadiuvante nelle proprie terapie «magnetiche» e lo strumento fu perciò destinato a caricarsi di ulteriori significati: simbolo del mesmerismo e delle patologie nervose che Mesmer curava, nonché delle «crisi» che induceva con le sue meto- diche sui pazienti, pazienti che erano soprattutto donne. Fu nell’entourage di Mesmer che si scoprì l’ipnosi e il sonnanbulismo provocato o artificiale, ma poi Mesmer venne messo sotto accusa ed anche il suono dell’Armonica cominciò ad essere considerato nocivo tanto per coloro che lo udivano quanto per coloro che lo suonavano. L’invalidante malattia nervosa che colpì Marianne Davies (forse dovuta al piombo contenuto nei bicchieri) peggiorò a tal punto la fama dello strumento che in alcune città della Germania venne addirittura proibito. Mozart tuttavia fece in tempo, nel 1791 poco prima di morire, a regalare due capolavori al repertorio dello «strumento di vetro»: l’Adagio e Rondò Kv 617 per Armonica («Glasharmonika») e strumenti e l’Adagio Kv617a per Armonica sola. Entrambi questi pezzi furono scritti per Marianne Kirchgässner, una virtuosa cieca che li portò con sé in numerose tournée: sono le ultime ispiratissime composizioni della produzione cameristica mozartiana. È opinione corrente che l’unico italiano a cimentarsi con «L’armonico a bicchieri», associandolo non a caso alla rappresentazione di Le mani di Christa Schoenfeldinger. classica stati alterati della coscienza femminile, sia stato, dopo il giro luoghi di attività di artiste ispirate, in grado di figurare credidel secolo, Gaetano Donizetti nella Scena della pazzia della bilmente le storie dell’antico testamento in un clima di proLucia di Lammermoor e, come ha dimostrato Emilio Sala, fetica esaltazione, quel clima che Jacopo Guarana catturò in nel Castello di Kenilworth, opere scritte entrambi per il Teaqualche modo negli affreschi che ancor oggi adornano la Satro San Carlo di Napoli. Si conserva tuttavia, nella bibliotela della Musica dell’Ospedaletto arrivando a porre in mano, ca del Conservatorio San Pietro a Majellla, anche un singonel ritratto in primo piano di una delle Figlie, la citazione di lare autografo di Domenico Cimarosa, datato 12 luglo 1780 un’aria metastasiana «Contro il destin che freme combattee intitolato «Aria con Angelico e altri strumenti obbligati» remo insieme». Sono dunque le Figlie veneziane le destinain cui lo strano strumento e la voce del soprano, che intona tarie dell’angelica conversazione di Cimarosa? Lo storico un testo latino vagamente Gerardo Tocchini ci ricorda mottettistico, si impegnano, che in Francia, collegando un po’ come Donizetti mezgli esperimenti di Mesmer zo secolo dopo, in una lunga alle teorie di Swedenborg, si cadenza congiunta. In nescominciò a propugnare il vasun caso la scrittura che Cilore mistico della trance mamarosa riserva all’Angelico gnetica, la credenza che giopuò far pensare ad uno struvani donne-medium potesmento a pizzico con cui è stasero sviluppare una particoto erroneamente identificato lare chiaroveggenza fino a alla fine dell’Ottocento. Il comunicare con gli angeli, testo, poi, con alcune immama la questione è ancora gini molto precise, ci instraaperta. Sull’altro versante da alla giusta identificaziodella storia invece, quello ne. È la metafora di una guadella parodia comica, un alrigione interiore («l’anima tro veneziano, molto legato oppressa dal peso delle pasalla massoneria, si distingue. sioni, è come un uccello che Questi è Caterino Mazzolà, spicca il volo dall’amica terra il «maestro» di Lorenzo Da verso un alto monte mosso Ponte, il poeta che ridusse dal desiderio di curarsi con le «a vera opera» la Clemenza limpide acque di una fonte pura»), di Tito di Mozart aggiustando per lui il vecun’immagine fin troppo significativa e chio libretto del Metastasio. A Mazzolà si Venezia allusiva. Il movimento di Mesmer nel devono poi diversi libretti del Turco in IitaTeatro La Fenice 1780 si era oramai nuovamente radicato lia, da cui deriverà il capolavoro di Rossini. 9 marzo, ore 20.15 a Parigi con l’appoggio di Maria AntoIl prototipo della protagonista di quest’oConversazioni angeliche. nietta e di una vasta rete di Societés de pera è Fiorilla, una giovane moglie che riIl femminino e l’inconscio l’Harmonie connessa con le Logge masvuole la propria libertà dal marito che le è nella musica del xviii secolo soniche. Mesmer, ricordiamo, faceva ristato imposto e, paragonandosi allo strumusiche di Mozart, Hasse, suonare l’Armonica in un momento premento di vetro dice di sé: «Sentiste mai Cimarosa, F.X. Süßmayr ciso del rituale di guarigione, allorché i l’Armonica? / se i cavi arguti vetri / esperte Padova suoi pazienti si immergevano in particodita premono, / l’udite or lieta or flebile / il Sala della Carità lari vasche, dette baquets, di acqua masuono modular. / Ma è muta affatto o stri29 marzo, ore 21.00 gnetizzata. Ma chi poteva essere il destidula /se non si sa suonar». Come piuma sul respiro di Dio. natario di quest’Aria di Cimarosa? Forse Figure femminili dell’Antico Testamento Napoli? Qui Carolina d’Asburgo aveva Si inaugura con due appuntamenti a VeMusiche di A. Sacchini, F.Bertoni, liberalizzato l’attività massonica e certanezia e a Padova la terza edizione del proJ.Schuster, D. Cimarosa mente seguiva da vicino le vicende del getto di ricerca «Di suoni, di luoghi» promedico tedesco nei rapporti con la regina mosso dagli Amici della Musica di Venezia Interpreti Susanna Armani soprano di Francia sua sorella, ma non è il solo incon il sostegno della Regione Veneto e del Andrea Crosara violino dizio: una suggestiva stampa ritrae la pitComune di Padova, nell’ambito della rasSimone Tieppo violoncello trice Angelica Kaufmann, notoriamente segna «SacreArmonie» e la collaborazioVolpato clavicembalo protetta a Napoli dalla regina Carolina, ChristaBruno ne del Comune di Venezia nell’ambito di Schoenfeldinger armonica di vetro nel suo studio dove tra tavolozze, cavalDoVe (Donne a Venezia). (Wiener Glass Duo) letti e calchi di gesso compare anche Il primo concerto è dedicato alla riscoun’Armonica. Tuttavia potrebbe c’enperta del repertorio dell’Armonica di vetro trare anche Venezia, dove Cimarosa doe presenterà diversi inediti per la prima volveva debuttare come operista proprio nell’autunno del 1780. ta eseguiti in tempi moderni. Il secondo a Padova nella splenI legami di Cimarosa con i circoli intellettuali veneziani non dida cornice della Sala della Carità, affrescata da Dario Varosono per nullla trascurabili ed in gran parte ancora da indatari con le storie di Maria tratte dai Vangeli apocrifi, presengare: Venezia lo accolse bandito e condannato a morte dopo terà invece musiche tratte dalle azioni sacre scritte per le Fil’esperienza della Repubblica partenopea; Venezia, fin dal glie degli Ospedali veneziani dei Mendicanti e dei Derelitti. 1782, gli offrì lavoro nel particolarissimo luogo dell’OspePer informazioni e prenotazioni: www.amicimusicavedale dei Derelitti detto «l’Ospedaletto». E per le Figlie nezia.it; [email protected]; tel. 3387372286; dell’Ospedaletto Cimarosa scriverà in quell’anno ben due 0415462514. ◼ oratori latini, Judith e Absalom alimentandone il repertorio e il mito: in tutta Europa si guardava infatti agli Ospedali ve*Presidente Amici della Musica di Venezia neziani, in particolare ai Mendicanti e ai Derelitti, come ai 33 classica 34 La nuova stagione dell’Agimus di Venezia tra musica e filosofia torio wagneriano affidate agli studenti della classe di canto del Conservatorio «Giuseppe Tartini» di Trieste; il 23 aprile Elio Matassi (Università Roma Tre) e Giorgio Appolonia (Radio della Svizzera Italiana) si incontreranno per discutere l’idea di musica assoluta, accompagnati successivamente dalle note di Schumann e Brahms eseguite per l’occasione dal duo violoncello-pianoforte Luca Provenzani-Fabiana Barbidi Ilaria Pellanda ni; il 30 aprile, infine, protagonisti del nuovo colloquio, che analizzerà il rapporto tra Mallarmé e la musica del xx e xxi l prossimo 10 aprile, alle 17.30 presso l’Ateneo Vesecolo, saranno Enzo Restagno (direttore artistico del festineto, l’Agimus di Venezia inaugura la sua nuova stagioval MiTo) e Daniele Martino («Il Giornale della Musica»), ne concertistica con un inedito ciclo di incontri filoai quali seguirà l’esecuzione di alcuni brani di Debussy, Messofico-musicali realizzato in collaboraziosiaen e Boulez interpretati ancora una volta da ne con lo stesso Ateneo e sostenuto dal ConsorLetizia Michielon. zio Venezia Nuova, dal Festival Suona Francese La stagione dell’Agimus – che si avvale del paVenezia (Fondazione Nuovi Mecenati) e dall’Hotel Ca’ trocinio dei Ministeri dei Beni Culturali e delAteneo Veneto Sagredo. la Pubblica Istruzione e della collaborazione con (e Sale Apollinee Dedicati al rapporto «Musica e lógos», i quatil Teatro la Fenice, il Conservatorio «Benedetdel Teatro La Fenice) tro dialoghi si apriranno con un omaggio a Luito Marcello» e l’Associazione italo-tedesca di dal 10 aprile al 6 giugno gi Nono in occasione del ventennale della fondaVenezia – proseguirà il proprio cartellone con zione dell’Archivio veneziano a lui dedicato (cfr. una serie di appuntamenti dedicati al rapporto pp. 36-37 e pp. 38-39). Dopo l’introduzione del presidentra musica e sogno, ispirati nell’anno del bicentenario wate dell’Ateneo Michele Gottardi, Nuria Schoenberg Nono gneriano all’interpretazione che il compositore elaborò del(presidente dell’Archivio), Guido Barbieri (Rai Radio Tre), la teoria del sogno di Schopenhauer. Il duo flauto-pianoforte Stefano Maffizzoni-Valter Favaro rileggerà (il 2 maggio, ancora una volta in Ateneo) opere di Franck e Poulenc; a proposito dell’influenza esercitata da Wagner sul simbolismo francese e del rapporto tra poesia e mondo onirico, rifletteranno l’8 maggio Renzo Cresti e Letizia Michielon in occasione della presentazione della recente monografia di Cresti Wagner e il puramente umano (lim 2012); seguiranno esecuzioni di brani di Liszt, Debussy, Fauré e Ravel affidate a Marina Feruglio, Rosanna Guadagno e Biancamaria Targa, studentesse del «Tartini» che partecipano al progetto formativo del Plurimo Ensemble dedicato ai giovani talenti emergenti. Il duo Plurimo Alessandra Trentin (arpa) e Cecilia Vendrasco (flauto) chiuderà il 6 giugno la prima parte della stagione alle Sale Apollinee della Fenice Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele di Micon otto partiture appartenenti ai primi cinquant’anni del lano) e Alvise Vidolin (storico collaboratore alla regia del suoxx secolo, composte sullo sfondo di un ambiente musicale no del maestro veneziano e di tanti illustri protagonisti del francese pulviscolare, caleidoscopico ma al tempo stesso sexx secolo) dialogheranno sul tema «L’infinito sorriso delle manticamente connotato e attratto dalla ricerca di sfumatuonde. Nono, maestro di suoni e silenzi», traendo spunto dal re timbriche delicate e soffuse: partiture ispirate dalle immabrano pianistico … sofferte onde serene…, che verrà poi eseguigini di un paesaggio notturno («Chanson dans la nuit» di to da Letizia Michielon – accanto a opere di Chopin e MesSalzedo) o di un luogo geografico reso evanescente dalla mesiaen –; sarà inoltre affrontato quel percorso di ricerca sul suomoria imprecisa del suono («Deux impressions» di Bozza), no e sulla parola che da quest’opera introspettiva dedicata a o, ancora, brani che rifuggono le regole sintattiche di una narMaurizio Pollini condurrà alla più stretta collaborazione con razione musicale per librarsi in fascinose nuance coloristiche la filosofia di Massimo Cacciari e alla creazione del Prometeo. («Cinq nuances» di Berthomieu). ◼ Il 16 aprile si potrà partecipare al dialogo tra Lucio Cortella (Università di Venezia) e Oreste Bossini (Rai Radio Tre) Luigi Nono, Studi per Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1984) dal titolo «Tra nichilismo e mitologia: Adorno interprete di Archivio Luigi Nono, Venezia © Eredi Luigi Nono, Wagner», al quale seguiranno alcune esecuzioni del reperper gentile concessione. I U di Annalisa Lo Piccolo na figura da riscoprire quella di Leone Sinigaglia, compositore nato a Torino nel 1868 e vittima, con altri illustri colleghi, della censura nazifascista per le sue origini ebraiche. Solo in tempi assai recenti la musicologia italiana si è impegnata nella riscoperta della personalità artistica e umana di Sinigaglia, che seppe trarre dalla propria formazione internazionale esiti di grande interesse sia dal punto di vista della musica d’arte, sia sul fronte di una metodica indagine sul canto popolare della sua terra, il Piemonte. Leone Sinigaglia nasce da una famiglia dell’alta borghesia torinese; le frequentazioni familiari lo mettono in contatto, fin dalla giovane età, con illustri esponenti del pensie- ro, delle arti e delle scienze allora residenti in città: Antonio Fogazzaro, Leonardo Bistolfi, Cesare Lombroso e Galileo Ferraris. A Torino la prima formazione musicale, sotto la guida di Giovanni Bolzoni, avviene in un clima ricco di stimoli e proficui contatti, dominato dalla figura di Arturo Toscanini; con Toscanini nascerà un rapporto di stima e amicizia che tanta importanza avrà nella diffusione dell’opera di Sinigaglia. Affianca alla passione per la musica quella per l’alpinismo, che lo rende protagonista di importanti ascensioni sulle Alpi occidentali e della scoperta di nuove vie sulle Dolomiti d’Ampezzo. Spinto dal desiderio di studiare sotto la guida di Johannes Brahms, nel 1894 Sinigaglia si trasferisce a Vienna; Brahms non si dedica all’insegnamento, ma, in nome della fiducia ispiratagli dal giovane torinese, lo indirizza presso l’amico Eusebius Mandyczewski. Con Mandyczewski Sinigaglia studia cinque anni, durante i quali nasce lo splendido Concerto per violino e orchestra in La maggiore, dedicato al violinista bolognese Arrigo Serato. L’amicizia con Oskar Nedbal e Joseph Suk, membri del Quartetto Boemo, consente a Sinigaglia di entrare in contatto con Antonin Dvořák; nel 1900 l’esperienza di studio con il compositore boemo lo porta a scoprire il fascino e il valore storico del canto di tradizione orale. Rientrato in patria nel 1901, Sinigaglia si dedica alSopra, un momento del concerto di Ferrara. Al centro, Leone Sinigaglia. la raccolta e all’indagine sistematica del patrimonio popolare della collina di Cavoretto, vicino a Torino. Trascrive un’enorme quantità di melodie e varianti, raccolte dalla viva voce degli informatori; celebri pagine di Sinigaglia recano traccia del grande amore per la musica popolare, come le Danze Piemontesi e la Suite per orchestra «Piemonte», lavori legati alla personalità di Toscanini, che di frequente li eseguirà in Italia e negli Stati Uniti; i primi anni del Novecento vedono la nascita inoltre dell’Ouverture «Le baruffe chiozzotte», lavoro di grande brio e freschezza melodica. Nei decenni successivi la produzione di Sinigaglia diminuisce notevolmente, impermeabile alle avanguardie emergenti nel panorama musicale del Novecento (dodecafonia, serialità, neoclassicismo); sono anni comunque assai ricchi di contatti e relazioni con interpreti e impresari, che vedono la sua musica conquistare numerose platee italiane e internazionali. La svolta antisemita del regime fascista condanna l’opera di Sinigaglia all’oblio: la sua musica è bandita da qualsiasi esecuzione pubblica e quanto edito a stampa viene ritirato dalla circolazione. Il compositore si spegne il 16 maggio 1944 a causa di una sincope cardiaca, nel momento in cui le guardie della milizia nazifascista, per arrestarlo, irrompono nella camera dell’Ospedale Mauriziano, ove si era rifugiato grazie all’aiuto dell’amico Luigi Rognoni. Il Comitato per i Grandi Maestri, in collaborazione con l’Università di Ferrara, ha voluto ricordare Leone Sinigaglia con un concerto monografico tenutosi lo scorso 15 gennaio presso il Teatro Comunale, nell’ambito delle celebrazioni per il Giorno della Memoria 2013. La serata si è aperta con Regenlied, da Zwei Charachterstücke für Streichorchester op. 35, composizione degli anni viennesi. Assai convincente l’esecuzione dell’Orchestra Città di Ferrara, diretta da Marco Zuccarini, attenta all’intima cantabilità, alle atmosfere traslucide e idilliache di questa deliziosa miniatura. A seguire Romanza e Umoresca per violoncello e orchestra op. 16, pagine giocate su una ricca varietà di contrasti tematici. Il violoncellista italo-argentino Fernando Caida Greco ha saputo coglierne le diverse atmosfere emotive, sicuro negli episodi di virtuosismo e capace di grande espressività nei momenti più lirici e melodici. In conclusione il Concerto per violino e orchestra in La maggiore op. 20, affidato all’ìarco della giovane bolognese Laura Marzadori, in grado di affrontare con maestria e disinvoltura l’ampia gamma di difficoltà tecniche presentate da questa pagina, in un dialogo sempre equilibrato tra orchestra e solista. La serata è stata anche l’occasione per presentare il volume Leone Sinigaglia. La musica delle alte vette, scritto da Gianluca La Villa e Annalisa Lo Piccolo e pubblicato da Gabrielli editori. ◼ contemporanea Un concerto (e un volume) per Leone Sinigaglia 35 contemporanea 36 I primi vent’anni dell’Archivio Luigi Nono di Venezia M a cura di Letizia Michielon inuta, con due grandi occhi azzurri che vibrano di luce, Nuria Schoenberg Nono emana una energia alacre e silenziosa, sempre profondamente entusiasta. Con creatività ha dedicato la propria vita a custodire il lascito culturale e umano di due compositori cruciali del xx secolo: il padre Arnold, il cui spirito innovatore e sperimentatore continua a vivere nel cuore di Vienna, al Centro Schoenberg, e il marito Luigi Nono, che, a quasi venticinque anni della morte, ispira studiosi e musicisti di tutto il mondo grazie a un Archivio unico nel suo genere, fondato a Venezia vent’anni fa, oggi operante nella Sala delle Colonne dell’ex Convento dei Santi Cosma e Damiano alla Giudecca. Due istituzioni volute con forza da questa preziosa figura di archivista, nata a Vienna, cresciuta in California e da cinquant’anni residente a Venezia: un esempio mirabile di come la storia possa dialogare con il presente, nutrendolo e intrecciandosi con il futuro. Ideali, d’altronde, che animavano sia Nono che Arnold Schoenberg. L’Archivio Luigi Nono (aln), per esempio, si profila come spazio di conservazione ma anche di creazione e formazione. Consente agli studiosi di consultare liberamente l’ampio lascito del compositore, comprendente manoscritti, lettere, nastri, libri e partiture, fotografie, programmi di sala, manifesti, recensioni e saggi critici; ma, come ha sottolineato Massimo Cacciari, questo luogo rappresenta anche l’«immagine di quel laboratorio, di quell’inesausto “sperimentare”, di quel “cammino” che è l’opera di Nono, della sua generosità, della sua “curiosità” mai vana, dell’apertura del suo ascolto». Secondo il filosofo veneziano «sarà impossibile comprendere l’opera di Nono senza conoscere quest’Archivio. Così come è impossibile conoscere la musica contemporanea senza ascoltare Nono». Abbiamo incontrato Nuria Nono nella sua casa della Giudecca per chiederle di illustrarci alcuni dei numerosi progetti in programma quest’anno. Quali iniziative avete ideato per festeggiare il ventennale? Nel 2013 abbiamo in programma molti eventi volti a celebrare in modo nuovo la musica e il pensiero di mio marito, attraverso una stretta collaborazione con altre istituzioni. Per valorizzare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, stiamo preparando alcuni progetti multimediali, tra cui la realizzazione di una mappa di Venezia che consenta un tour virtuale nei luoghi della biografia umana e artistica di Gigi. Il lavoro informatico e grafico sarà realizzato grazie alla collaborazione con due Istituti del territorio veneto: il dei (Dipartimento di Ingegneria Informatica dell’Università di Padova) e l’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Entro la fine del 2013 si intende creare un prototipo che sarà implementato e raffinato informaticamente nel 2014, e presentato ufficialmente nel 2015 in occasione dei venticinque anni della morte di mio marito. Stiamo poi elaborando un documentario sui vent’anni di attività dell’aln, comprendente videointerviste, commento di documenti e montaggio di video finora consultabili solo in Archivio. Da sempre dedicate molta attenzione alle giovani generazioni di artisti. Certo, abbiamo per esempio in programma una collaborazione tra l’aln e l’Accademia di Belle Arti di Venezia (Corso di Arti e Musiche Contemporanee). Il progetto prevede un ciclo di cinque incontri sulla musica e il pensiero di Nono; la proiezione di un documentario a lui dedicato, Archipel Luigi, una esposizione-installazione delle opere realizzate dagli studenti dell’Accademia veneziana ai Magazzini del Sale, e infine un seminario didattico, a cura di Veniero Rizzardi, che preluderà all’audizione di A floresta é jovem e cheja de vida (1966) – nella versione a otto canali – e alla visione del filmato di Theo Gallehr (1966) sull’opera, accompagnata da una selezione di fonti documentarie che illustrano Nuria Schoenberg Nono con una classe del Liceo musicale «Pigafetta» di Vicenza che ha fatto visita all’Archivio nella primavera-estate del 2012 (per gentile concessione dell’Archivio Luigi Nono). L’Archivio Luigi Nono di Venezia. ne lavorando a una tavola rotonda tra soci fondatori e membri dei nostri organi, in programma a fine 2013, ove sarà tracciato un bilancio dell’“impact factor” della faln sugli studi e sulle esecuzioni della musica di Nono in Italia e all’estero. Quali nuove pubblicazioni sono attese per quest’anno? Segnalo in particolare quella relativa al carteggio Luigi Nono-Giuseppe Ungaretti, a cura di Maria Carla Papini e Paolo Dal Molin per i tipi del Saggiatore. Sono testi di notevole interesse per argomenti, durata (1950-1969) e «aperture». Quale futuro immagina per l’Archivio Nono? Nel corso di questi anni il lavoro svolto è stato molto intenso, abbiamo potuto garantire agli studiosi di tutto il mondo un servizio di alto profilo che ci ha procurato una stima riconosciuta a livello internazionale. Ci auguriamo di poter mantenere anche in futuro questa qualità, grazie anche al generoso sostegno di enti privati, oltre che di quelli pubblici, provati dalla crisi economica. A cosa ci invita oggi Luigi Nono? Ha sempre meditato sul tema della sofferenza umana: quella personale, quella di chi vive con durezza la realtà della fabbrica, la povertà in paesi lontani, o la mancanza di libertà nei governi repressivi, desiderando che tutti conoscessero que- sti fatti; c’è un messaggio di speranza, un messaggio che implica un impegno di cambiamento, rinnovamento, così come lui ha sempre sperimentato. Era un uomo concreto, il suo modo di fare non metteva in soggezione le persone, amava ascoltarle. Come incide la sua esperienza estetica e creativa sulle nuove generazioni di musicisti? Mi sembra che i giovani compositori siano influenzati dalle sue opere elettroniche, dalla sua ricerca sullo spazio e sul tempo e che in loro stia rinascendo un’attenzione all’aspetto espressivo e conoscitivo della musica, anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Mio padre disse una volta a un critico che lo stile è come un vestito: passata la moda decade, mentre ciò che resta è il contenuto dell’idea. ◼ contemporanea la genesi della composizione. A floresta venne concepita negli anni sessanta insieme allo scrittore Giovanni Pirelli come ipotesi di nuovo teatro musicale basato su testi documentari (lettere, dichiarazioni, discorsi) che dovevano riflettere l’esperienza soggettiva della partecipazione alla lotta politica. Essa divenne il modello per quasi tutti i lavori composti nei dieci anni successivi e fu l’opera che, come direttore e regista del suono, accompagnò in varie tournée più a lungo di ogni altra. Non venne però mai fissata in una partitura: soltanto nel 1998 l’editore Ricordi affidò a Maurizio Pisati e Veniero Rizzardi il compito di ricostruire un testo eseguibile basato sui numerosi documenti cartacei, sonori, visivi depositati presso l’Archivio Nono. Nella versione discografica del 1966 fu operato un montaggio di materiali che sono tuttora conservati: è così possibile oggi sincronizzare le parti isolate dei solisti originali (voci, clarinetto, percussioni) alle otto tracce del nastro base e diffondere l’insieme secondo la disposizione spaziale prevista da Gigi. Questa nuova realizzazione sperimentale permette un ascolto dell’opera in condizioni molto vicine a quelle del concerto, con il vantaggio di disporre dell’interpretazione delle voci originali. Per valorizzare l’attività non solo compositiva ma anche analitica di suo marito, presenterete poi il cofanetto Arnold Schoenberg, Variationen für Orchester op. 31 (Colophon, Belluno, 2011). Si tratta di una pubblicazione della faln realizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini, Istituto per la Musica, che verrà proposta al pubblico alla Cini da Daniel Baremboim. Alla sua lectio magistralis seguiranno due sedute dedicate alle analisi dei compositori e alla storia dell’interpretazione musicale. Per quanto riguarda i progetti esterni? In occasione dei cinquant’anni della morte di Karl Amadeus Hartmann, parteciperò alla tavola rotonda «Projektinsel Hartmann-Nono» che si terrà allo Stadtmuseum di Monaco i prossimi 20 e 21 marzo. L’Archivio presenterà una selezione di lettere tra Nono e Hartmann, che saranno anche pubblicate nella Festschrift. Quali sono le novità relative ai progetti di ricerca e formazione? Presso la Zürcher Hochschule der Künste si svolge un seminario sulla «Prassi esecutiva della musica elettronica. Gli anni dello Studio di Fonologia», mentre in collaborazione con l’Università di Pavia è in programma un ciclo di seminari sulle questioni editoriali di Intolleranza 1960. Stiamo infi- 37 contemporanea 38 Luigi Nono F di Veniero Rizzardi orse è una domanda futile, ma a qualcosa può magari servire chiedersi che cosa sarebbe stato della fortuna postuma di Luigi Nono se non esistesse da vent’anni un Archivio (cfr. pp. 36-37, ndr.) che, ad appena tre anni dalla morte (1990), ne raccoglieva e ne ordinava tutto il lascito, e cominciava a promuovere un’attività di studio molto intensa, che aveva da subito visibili effetti sulla ricezione e la diffusione della sua musica. Forse era soltanto una coincidenza, ma una coincidenza storica: Nono veniva a mancare a un’età non avanzata, meno di settant’anni, in un momento molto particolare non soltanto della sua carriera e della sua stessa fortuna di compositore, ma anche della vicenda della musica del Novecento, sullo sfondo della fine del «secolo breve». Proviamo a rileggerla rapidamente, questa carriera, riprendendo qualche luogo comune, naturalmente per ribaltarlo. A chi abbia qualche familiarità con le storie della musica recente, senza per questo esserne esperto o appassionato, la figura di Nono evoca quasi sempre l’immagine, magari non esclusiva ma certo caratterizzante, del musicista politico, dell’artista che subordina la soggettività al credo collettivo, la ricerca di un’espressione convincente alla finalità agitatoria. Si tratta di un pregiudizio formatosi davvero in un’altra epoca, ma occorre anche dire che Nono stesso, per qualche tempo, non ha scoraggiato questa semplificazione. Lo stesso carattere della persona, un affascinante intreccio di mitezza e di irruenza, corrispondeva bene al suo stile di artista impegnato, che sul finire degli anni cinquanta aveva fatto sue le tesi di Jean Paul Sartre sulla letteratura come strumento di testimonianza e lotta politica, rendendo del tutto esplicita una tendenza latente fin dalle primissime opere. Come negli Epitaffi per Federico Garcìa Lorca del 1952-53, dedicati ai combattenti della guerra civile di Spagna – pezzo d’Europa allora saldamente in mano a una dittatura fascista – ma già l’opera prima, le Variazioni Canoniche sulla serie dell’op. 41 di Arnold Schoenberg erano costruite appunto a partire dall’O- de a Napoleone Buonaparte, invettiva di Byron contro i tiranni, intonata dal padre della dodecafonia nella sua vena più brillante e sarcastica. E così il giovane Nono scriveva il suo manifesto, dichiarando di avere scelto il suo modello: modello di artista progressivo, che compone con acuta coscienza di ciò che la storia ha consegnato nelle sue mani e altrettanta responsabilità verso ciò che essa gli richiede. Fin dall’inizio dunque la poetica di Nono è orientata in direzione opposta al perfezionamento di una maniera, ma piuttosto alla ricerca di soluzioni tecnicamente più avanzate, che sappiano stimolare l’ascolto dei contemporanei, e la partecipazione alla civiltà della musica – che per Nono diventa a un certo punto funzione esplicitamente politica. La posizione di questo giovane artista, nell’Europa e ancor più nell’Italia degli anni cinquanta, era molto singolare. Destinato dal talento e da una costellazione culturale originale, orientata, anche per tradizione familiare, alla cultura nordeuropea, Nono, insieme al suo «fratello maggiore» Bruno Maderna, si era trovato a rappresentare la nuova musica italiana in un giovane e dinamico consesso internazionale, quello che si ritrovava ogni anno per pochi densissimi giorni nella piccola città tedesca di Darmstadt. Sostenuto dal prestigio di un grande direttore d’orchestra e apostolo della musica nuova, Hermann Scherchen, e poi da una solida rete di rapporti intessuti da un influente gruppo di critici militanti, produttori radiofonici e direttori artistici, Nono aveva esordito in Germania, salutato come giovane radicale tra i più dotati e interessanti, ma per diversi anni sarebbe stato pressoché ignorato in patria. Nel 1956 compone Il canto sospeso, su lettere di condannati a morte della resistenza europea (si badi, non solo italiana), una composizione che dovrà attendere diversi anni per essere ascoltata fuori dalla Germania, e per moltissimo tempo più chiacchierata che veramente ascoltata. Il canto sospeso, composizione sempre citata come esempio di opera in perfetto equilibrio tra impegno civile e impegno tecnico-compositivo, in cui Nono condensa la sua caratteristica, efficacissima «drammaturgia dell’ascolto», viene pubblicata, come registrazione, per la prima volta negli anni novanta, così come sarà solo nel 2000 che verranno raccolti in italiano i suoi numerosi scritti, a dieci anni dalla sua scomparsa. Prima di allora, del pensiero e delle idee mese nero su bianco da Nono nel suo Paese non si è discusso come si sarebbe altrimenti potuto. L’Italia si accorge di questo maestro in un momento che per lui stesso è di svolta; ed è un autentico choc. L’azione scenica Intolleranza 1960, la prima sua realizzazione teatrale, va in scena alla Fenice nell’aprile del 1961, una delle «prime» Luigi Nono, 1969 (Archivio Luigi Nono, Venezia; © Eredi Luigi Nono, per gentile concessione). Alcuni schizzi allestiti nello studio di Venezia, 1983 (foto di Luigi Nono; Archivio Luigi Nono, Venezia © Eredi Luigi Nono, per gentile concessione). Nono, tra l’altro, il favore unanime della critica, prima divisa dallo spartiacque politico. Gli anni ottanta erano quelli in cui la musica contemporanea si stava polarizzando tra «nuova complessità» e «nuova semplicità», tra scrittura utopica e banalità postmoderne. Nono andava in controtendenza rispetto ad ambedue, ma attorno a questa sua singolarità si stava creando anche una certa mitologia, non tanto diversa da quella che veniva allora costruita attorno a un enigmatico e controverso compositore «esoterico», Giacinto Scelsi. Ecco: se non altro, l’avvio, promosso dall’Archivio Luigi Nono, di uno studio basato sulla documentazione del processo creativo ha permesso di mitigare molto presto questa sorta di «canonizzazione», riconducendo l’opera di Nono alle sue premesse tecniche, materiali (incluso il lavoro sulle fonti poetiche, beninteso), mettendo in evidenza i forti motivi di continuità attraverso le differenti fasi e «rotture» della sua produzione, ricostruendo un’immagine unitaria che ha potuto recuperare all’ascolto dei contemporanei tutti quei lavori che si ritenevano, a torto, consegnati alle circo- stanze dell’epoca: le composizioni ad alto tasso di impegno tecnico degli anni cinquanta, quelle «politiche» degli anni sessanta e settanta. Nono non ha avuto allievi, e la sua influenza non si è fatta sentire come avrebbe potuto, soprattutto presso le generazioni più giovani: moltissimi ormai sono i compositori fuggiti da un Paese che da anni non offre alcuna opportunità di carriera, e di necessità rifugiatisi presso lidi più accoglienti, come la Francia, dove però le istituzioni di formazione e ricerca imprimono un marchio «di scuola», tradizionalmente piuttosto tecnicistico. Rispetto a questa realtà, il lavoro condotto dall’Archivio può svolgere una funzione di raccordo molto importante. Nei suoi vent’anni ha infatti promosso ricerca, analisi, edizioni, seminari d’interpretazione, ricostruzioni esecutive, attività di documentazione di ogni genere. Si tratta di un lavoro a tutto campo che può mantenere in vita, rinnovandola secondo i mutamenti delle prospettive scientifiche, l’opera del compositore in modo tale da mantenerne alta la possibilità di una reale trasmissibilità. ◼ contemporanea più tumultuose del secolo. È un’irruzione di espressionismo tecnicamente aggiornato e potenziato, con parti registrate su nastro e diffuse da un sistema di altoparlanti che avvolge la platea, e una componente scenica nuovissima, dominata dal segno di Emilio Vedova. È un teatro totale in cui accanto all’allegoria c’è l’attualità del lavoro in miniera dei lavoratori emigrati, le torture poliziesche, i disastri naturali colposi. Nono sta svoltando verso un’ancora maggiore sperimentazione tecnica, la scoperta della musica elettroacustica, un approfondito scavo dell’espressione vocale. L’intento politico è ormai esplicito tuttavia, e nella sua speciale drammaturgia prende sempre la forma di ritratti esistenziali di singole figure la cui dimensione politica scaturisce, o è posta in evidenza, quasi sempre da un lutto. Ma non c’è mai nulla di celebrativo o di oleografico nella musica che Nono scrive – si dovrebbe dire «fa», perché a un certo punto la scrittura è solo uno tra i momenti della creazione e della performance, a cui Nono partecipa direttamente – come direttore e regista del suono – e soprattutto questa musica è accompagnata da una forte determinazione da parte del suo autore a cercare modi nuovi e diversi di farla ascoltare, fuori dai festival di musica contemporanea, soprattutto fuori dall’«avanguardia», verso un pubblico non specializzato, politicamente amico. Non sarà facile questa quadratura del cerchio, e il problema rimarrà irrisolto, sospeso, fino a quando la rivoluzione dell’ascolto postulata da Nono si compie più tardi, al volgere degli anni ottanta, in un’ultima fase che in apparenza abbandona l’ispirazione politica. Nell’Italia della metà degli anni settanta, mentre il Partito Comunista Italiano raggiunge il massimo della sua presenza sociale e del suo peso politico, Nono, che ne teme l’istituzionalizzazione, compie una delle sue caratteristiche «rotture»: si rivolge ora ai temi del mito, dell’esperienza mistica, e la sovversione auspicata è semmai quella «insospettata» della poesia di Jabès. Svolta poetica che si accompagna ancora una volta a una svolta tecnica, con la scoperta dell’elaborazione del suono interattiva, in tempo reale, che muta completamente il rapporto con l’interprete. Nono esplora la natura del suono, la sua materia, mentre lo trasforma e lo proietta nello spazio come mai prima: è un tratto di sperimentazione che si ricollega però alla pratica degli amati maestri del Cinquecento veneziano nella cappella di San Marco. Nel corso degli anni ottanta fioriscono così opere straordinariamente delicate e imponenti al tempo stesso, fatte di soffi, sussurri, voci remote e improvvise esplosioni. Le ultime opere, con Prometeo che in qualche modo le compendia, sono vere e proprie meditazioni sonore che riguadagnano a 39 contemporanea 40 Sulla Biennale Musica Una lettera C di Luigi Abbate aro Direttore, ho apprezzato l’attenzione riservata da VeneziaMusica e dintorni all’ultima edizione della Biennale Musica. Certo, sarebbe stato curioso che un periodico con un titolo come quello che dirigi non avesse dedicato particolare riguardo all’importante manifestazione italiana di musica d’oggi che da decenni a Venezia si tiene. Cionondimeno, destinare ben cinque pezzi sull’argomento non è cosa da poco, specie se si considera la pressoché totale nullità degli spazi offerti alla critica musicale dalla stampa nazionale. Non sono stato presente all’ultimo festival, quindi l’ampio spazio è stato utile strumento d’informazione e opportunità dialettica. In particolare le perplessità espresse da Mario Gamba e Giordano Montecchi mi spingono a qualche riflessione di rilancio. Gamba si chiede perché in Biennale Musica è ammesso ciò che non lo è nella sezione arte o cinema, ossia porre al centro del programma autori ormai storicizzati. E, sempre Gamba, rammaricandosi dell’esclusività della presenza di musica contemporanea «colta», lamenta l’assenza di musiche «altre». Ovviamente molte sono le ragioni di questo oggettivo stato di cose, da quelle più prosaicamente economiche a quelle «alte» dell’estetica e degli studi sulla ricezione. Rimaniamo solo su queste ultime. Se ci riferiamo alla Biennale, è inevitabile notare il fatto che sia arte che cinema considerano nel proprio dna, ben più della musica, l’integrazione con il «diverso», sia esso inteso come semplice materiale, concreto o linguistico, sia nelle sue derive concettuali, sia ancora per la prerogativa (sempre di arte e cinema) di abbracciare con forza emotiva gli ambiti più distanti del cosiddetto «sociale». La musica, arte «ineffabile» per eccellenza, cede facilmente alle lusinghe dell’autoreferenzialità e pone acerrime resistenze a tali attitudini. Per esempio la fisicità, a volte cruenta (si pensi alla Body Art nelle manifestazioni ormai storicizzate del Leone d’oro Marina Abramovich o, prima di lei, di Gina Pane), dell’esperienza artistica non trova uno spazio paritetico nella musica, a meno che non si vogliano considerare «body music» i giochi percussivi del corpo di un Bobby Mc Ferrin. Maurizio Mochetti dice che il suono non è prerogativa del musicista. Pensiero disarmante per chi musicista è, e quindi considera anche concettualmente il suono e tutto ciò che a esso afferisce un appannaggio, viceversa ritenendo che altre vocazioni e competenze ne facciano uso come di un’arma impropria. In realtà sarà il caso di valutare anche qui, come altrove, pariteticità delle vocazioni-competenze altrui. Vi sono artisti – e qui sarebbe lunga la lista – che usano il suono, sia come fenomeno assoluto che nel suo articolarsi con l’immagine, la forma plastica, in modo ben interessante, non solo presentandolo nel ruolo consueto di «esperienza-d’ascolto», ma anche facendolo interagire con la componente simbolicoconcettuale che tanto si ritrova nelle arti visive degli ultimi anni. Un esempio per tutti: l’installazione di Arcangelo Sassolino vista di recente nell’omaggio a Bacon offerto dal fiorentino Palazzo Strozzi, dove protagonista è appunto il suono prodotto da un gioco di corde pericolosamente tese all’inverosimile, proposto a intervalli più o meno regolari. Saggio fra mille possibili di idee e relative realizzazioni che pongono sotto luce nuova la poetica cageana del rapporto suono-silenzio, e alle quali anche i compositori potrebbero (ri)fare un pensiero di riflesso. Se non altro – detto scherzosamente – per fare in modo che proprio il collega artista, con le sue sempre più frequenti incursioni sonoro-musicali, non finisca per espropriare anche i (poveri) ambiti di competenza del compositore, e quindi i sempre più risicati spazi di sopravvivenza di quest’ultimo. E, tanto per restare nel gioco dei paragoni fra discipline storicamente care alla Biennale veneziana, vien da dire che fra i critici, gli studiosi, gli esperti, alla musica son mancate quelle figure-chiave che viceversa non sono certo mancate alle arti visuali. Figure che la Biennale ben conosce, ispiratori di movimenti che loro stessi hanno definito e storicizzato: un Germano Celant, esegeta dell’Arte Povera, un Achille Bonito Oliva, archimandrita della Transavanguardia. La pratica artistica, e in particolare quella della Performing Art, suggerisce un possibile ritorno di fiamma della convivenza fra autore, in particolare, virtuoso, ed esecutore. Convivenza, ovvio, non solo relegata al jazz e non solo nel jazz capace di risultati di indubbio interesse sul fronte dell’equidistanza fra bravura e qualità. Esperienze meno stimolanti si incontrano laddove a una notevole maestria performativa si accompagna una sostanziale povertà di stimoli ed esiti compositivi. Peggio ancora quando la povertà accomuna sia l’aspetto compositivo che quello esecutivo. Anche qui gli esempi non mancano, e con loro certi atteggiamenti che paiono veri cavalli di Troia per far passare come «alto» un tipo di approccio alla composizione che strizza l’occhietto all’easy listening commercialmente potabile. Interessante poi notare come un genere abitualmente associato all’improvvisazione nel tempo si sia cristallizzato in formule ormai manieristiche. La performance di Braxton intinta nell’accademismo che ha deluso Gamba mi ha ricordato un concerto seguito alcuni anni fa alla Casa da Música di Porto, la cui mirabile acustica concorreva a esaltare la prova dell’eccellente Dave Holland e del suo gruppo; la quale, per precisione esecutiva pareva più vicina allo standard di un Arturo Benedetti Michelangeli che quello della vecchia, fumosa cantina. Ma è l’intervento di Giordano Montecchi a mettere il dito nella piaga. Spinto a Venezia dai concerti con le musiche dei più giovani, e – dice – diviso a metà fra speranza e timore di delusione, scoprendo prevalere alla fine la seconda attitudine, Giordano esordisce con la domandina sorniona: «Sono io o è lei? È la sclerosi dell’ascoltatore divenuto incapace di sorprendersi? O è lei, la musica, quella musica che via via si è fatta più anemica e replicante?» Chi, come me, si ritrova a cavalcare entrambe le tigri, coltivando con la composizione l’orticello di un narcisismo creativo, ma anche testimoniando con la scrittura un disagio della creatività e della critica alla creatività medesima, queste domande se le pone due volte. E subito gli Anthony Braxton. Tracy Chapman. zioni di carriera. E a mio avviso è qui, per noi musicisti, il vero «morbo – riprendo ancora le parole di Montecchi – che consuma: un’insufficienza culturale che è la madre di tutte le corruzioni e degenerazioni della politica come della cittadinanza». Allora, giusto per rincarare la dose, spostandoci dalla formazione alla produzione e diffusione, completiamo il quadro mettendoci dentro altre idiosincrasie, altri malcostumi tutti italici, e facciamolo con una «domandina» alla Montecchi: ma l’Italia della musica è forse migliore di quella della politica, dell’economia, della finanza o del sindacalismo? Sarà che anche in musica legami e amicizie personali, lassismo di editori e direttori artistici, una declinazione «postmoderna» del gramsciano intellettuale organico non fiacchino la serenità di giudizio, il gusto – diciamolo con semplicità – per il bello, e financo la forza dell’invenzione, il faticoso – perché tale è – impegno del comporre? Se poi parlassimo dell’eterna incompetenza dei responsabili culturali non addetti ai lavori? E vogliamo tirare in ballo un altro baraccone tutto italico: la siae? Ma no, meglio di no. «Restiamo – sempre per citare il nostro Giordano – al pessimismo della musica». Vorrei aggiungere ancora un ricordo. Proprio Montecchi ha ben presente una bella masterclass di Uri Caine, organizzata dal neonato (e troppo presto abortito) Dipartimento di Nuove Pratiche Musicali, iniziativa della quale Giordano, insieme ad altri colleghi tra cui il sottoscritto, fu promotore presso il Conservatorio di Parma. Giusto per dire che tra i cascami di una vetusta istituzione cose buone si potevano, e ancora oggi si possono continuare a fare. Era il 2001. Fu un momento importante, specie per giovani strumentisti e compositori poco avvezzi all’esperienza dell’improvvisazione; tutti impegnati in una rilettura di Caine, allora inedita e battezzata per l’occasione, delle Variazioni Diabelli. Due anni dopo il simpatico Uri fu chiamato a Venezia per dirigere la Biennale Musica. Un’edizione, quella del 2003, frizzante, che pareva innovativa, ma messa in piedi frettolosamente, e non solo ma forse anche per questo ridotta a una vetrina di musica jazzisticoebraico-newyorkese o poco più. Alla fine, gira e rigira, dalla morsa «anemica e replicante» non se ne esce vivi. Ma forse un giorno, Giordano Montecchi, magari nominato a sua volta alla direzione della Biennale Musica, saprà smentire l’infausta tradizione. Dei contributi, caro Direttore, che hai pubblicato sull’argomento, e specie dei due che ho citato, ho apprezzato l’onestà intellettuale. Mi auguro che VeneziaMusica e dintorni altri di questo tenore ne faccia seguire. Con stima, Luigi Abbate contemporanea vien da porsi la domanda sotto la seguente forma: comporre come urgenza e denuncia, oppure no? Ebbene, lo confesso: io – ma forse come me anche altri colleghi autori – amerei lasciare un segno come lo ha lasciato la Tracy Chapman di Behind the Wall, la cui melopea a cappella canta con forza degna di epos omerico della violenza perpetrata entro le mura domestiche, o il Chico Buarque di A Construção, le cui ciniche sostituzioni di parole nel testo su gesti di ballata fan rabbrividire chi è sensibile alla tragedia delle morti bianche. Amerei farlo, e ci provo usando strumenti appropriati a disegnare una forma meno autoreferenziale, una forma nuova di impegno, magari rivissuta nella poesia declinata al femminile, quella delle martiri (nel senso antico di testimoni) della modernità: Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi… Ci proviamo, a lasciare un segno, e a fare in modo che questo segno arrivi a un pubblico. Ben venga quello della Biennale Musica, meglio ancora se giovane. Se poi prevale la «sclerosi dell’ascoltatore (e del critico, benché sensibile e avveduto) incapace di sorprendersi», forse c’è anche un problema, come si diceva una volta, «di contesto». In fondo il Brahms che invidiava a Johann Strauss il motivo di An der schönen blauen Donau a pensarci bene ci ha lasciato tempi di Ländler che non son da meno per purezza formale e forza evocativa. E non sono meno «semplici (einfach)»: sono solo meno «popolari». La reiterata assenza delle musiche altre denunciata sia da Gamba che da Montecchi è un problema vero, e al tempo stesso un falso problema. L’urgenza stringente, improrogabile nei desiderata musicali del mondo giovanile spinge all’allarme. Ormai anche in Italia rap e hip hop han superato per interesse pop e rock. Ma soprattutto il download, a norma o illegale che sia, i contatti in YouTube, e il grande equivoco generato dall’immediatezza di accesso a un presunto comporre nell’epoca del sampler e dei software virtuali autocompositivi. E ancora, l’inclinazione di alcune star dell’esecuzione «classica» verso più o meno personali letture dell’altra musica, rock-popjazz-ethno-ecc. Insomma, tutti temi da mettere in conto per tentare una risposta alla «domandina». Montecchi auspica l’invenzione di nuovi spazi per la produzione. E quali potrebbero essere, per esempio in Italia, gli spazi deputati per la produzione del nuovo in musica? Ma i Conservatori di musica, naturalmente! Infatti non lo sono per niente. Lo sono invece, e tanto, avvinghiati nella morsa letale di una riforma che, basandosi su un approccio ancora tristemente neoidealistico, produce, nei suoi migliori saggi, asfittici esercizi di stile (qualcosa del genere ci racconta Gamba, citando una collaborazione fra Biennale e Conservatorio veneziano). Ma nella realtà dei fatti che cos’è diventato il Conservatorio di musica? Delle originarie «Arti e Mestieri», grazie a surrettizie manipolazioni degli intellettualismi e della burocrazia s’è trasformato in una aberratio institutionalis. Le cause: una riforma avviata dall’alto, per giunta priva del completamento del cursus accademico con la mancata istituzione dei livelli superiori, una balorda promiscuità di competenze e velleità scientifico-didattiche. Pianisti, tubisti, violinisti, bassisti e fisarmonicisti: tutti insieme appassionatamente preoccupati di congedare tesi di laurea elegantemente rilegate e titolate, ma che stringi stringi si riducono a compilazioni a volte costellate di refusi se non di errori di ortografia. Già, la chimera delle lauree triennali e biennali, garbata sintesi di un arrampicarsi sugli specchi verso il riconoscimento professionale prima ancora che artistico del ruolo del musicista. E il compositore, l’allievo di composizione, dico, caso estremo di una situazione del genere? Quando arriva a terminare il corso va alla ricerca della griffe accademica, giustamente meglio se lontano dall’Italia, da annotare sul curriculum, e da cercare di monetizzare nelle proprie aspira- 41 l’altra musica 42 Francesco De Gregori: storie senza fine to di più in passato, magari, anche se ci sarebbe da aprire una discussione sulla faccenda: oggi le canzoni che sta portando in giro per l’Italia hanno la freschezza dell’ispirazione. La sua è una storia in cui musica popolare, rock, poesia, inquietudine e splendida presunzione continuano a deflagrare fra di loro. Nessuna scorciatoia nei testi, che inanellano figure sfumate, dolenti, perentorie, dalla parte degli ultimi e qualche volta intonate dai primi, ben consapevoli di avere la di John Vignola dote dell’ispirazione. La «Belle epoque» che fu, mai così vicina, nei suoi risvolti ncora sulla strada, Francesco De Gregodrammatici, il «Passo d’uomo» che è l’unico da percorrere, ri. Un disco uscito da poco, su cui vale la pena di la gazzarra disumana di un «Omero al Cantagiro» (con la soffermarci, un tour che imita da vicino quello di voce di Malika Ayane, che fa capolino anche nella «Ragazuno dei suoi miti, Bob Dylan, nel cambiare direza del ’95»), folclore tipicamente italiano un po’ da rimpianzione, stile, musicisti, e addirittura un audiolibro in cui la sua gere e un po’ da dimenticare, l’ironia che si sposa col senso voce legge nientemeno che Cuore di tenebra, pubdi tragedia: tasselli di un viaggio di quarantadue blicato da Emons. minuti e di nove canzoni in cui la musica è comLa verità, ammesso che ce ne sia una sola, è che il pagna fedele. Gli arrangiamenti di Nicola Piovani Principe è uscito da un esilio puramente artistico, («Guarda che non sono io»), l’immancabile maPadova qualche anno fa, che lo aveva reso quasi inavvicinano di Guido Guglielminetti e la scelta di danzare Gran Teatro Geox bile ai cronisti musicali. Era il 2005, l’epoca di Pezsul falsopiano della nostra tradizione, quella per13 aprile, ore 21.30 zi, e De Gregori aveva ricominciato a parlare, era corsa da festival strapaesani e solcata da una abbasceso in mezzo alla gente, una figura un po’ papacinante strada da macinare: un disco libero, dove le, ma del resto appropriata, per colmare la distanza, sempre i ricordi del passato, inevitabili, («Showtime») rifuggono più ampia, fra se stesso e la percezione del pubblico. Il decenogni stucchevolezza. nio precedente era stato segnato da qualche grande canzone, Non che tutto sia oro lucentissimo: quelli che hanno amama soprattutto da una serie di dischi dal vivo affastellati, tirati via senza troppo riguardo per la voce né attenzione per gli arrangiamenti. Come il suo punto costante di riferimento d’Oltreoceano, si limitava a salutare, quasi apostrofandola, la platea, per poi inanellare una serie di brani in successione rapida e velocissima, con una voce incrinata, più che dal tempo, dal tentativo di essere in leggero ritardo con la trama sonora. Da Amore nel pomeriggio, del 2001, ma soprattutto da Il fischio del vapore, dell’anno successivo, pensato assieme a Giovanna Marini, il percorso del cantautore romano ha ripreso una sua forza poetica importante, mescolando sempre di più il folk, la tradizione, con la sua passione per il rock’n’roll. Poi, è arrivato il resto: tante interviste e altrettante partecipazioni radiofoniche, qualche comparsata televisiva, addirittura un film quasi autobiografico, Finestre rotte, girato da Stefano Pistolini e presentato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, la collaborazione sui palchi di mezza Italia con Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana. Infine, è arrivato Sulla strada, sorta di corrimano in studio per i suoi nuovi concerti. Evitiamo, anche qui, a fatica, la tentazione piuttosto stucto il recente Pezzi (uno dei suoi album migliori, per dire) lachevole di accostare Sulla strada a Tempest di Bob Dylan, menteranno magari la mancanza di grinta, qua e là, e di un anche se una linea di contatto esiste: la vivacità. Così come pezzo davvero memorabile. Chi scrive, sobriamente, applauil più grande cantautore americano continua a sorprendede la bravura di un Francesco De Gregori ancora in stato di re per l’uso della voce e per la libertà dell’ispirazione, così grazia, capace di farsi riconoscere fra tutti e di non strafare. il Principe non si adagia né si ripiega su se stesso. Lo ha fatNon possiamo, per ora almeno, volere di più. ◼ Il cantautore romano presenta «Sulla strada» A me solcano il viso della cantante. Il successo è planetario: il singolo raggiunge il primo posto in classifica in Australia, Austria, Germania, Irlanda, Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti. Il video vince anche l’Mtv Video Music Awards nel 1990, e si tratta della prima volta per di Giuliano Gargano una donna. Sulla scia dello strepitoso successo di quella canzone – diiciamoci la verità. Lo sforzo è apprezzabile, ventata ormai un classico – la O’Connor piazza un altro pala caparbietà pure. Il rimettersi in gioco è imporio di singoli, «The Emperor’s New Cloche» e «Three Batante. Ma anche la più buona vobies», tutti inclusi nell’album I Do Not Want lontà – se non accompagnata da What I Haven’t Got. una produzione che sia anche lontanamente E poi… e poi bisognerebbe stendere un veconfrontabile con l’exploit che ti ha cambialo sugli anni successivi. La O’Connor resta al Venezia to la vita – è insufficiente per tornare appuncentro delle cronache, ma mai per motivi muTeatro La Fenice to a quei livelli. Ed ecco allora che per parlasicali. Tra i momenti più controversi, quello 2 aprile, ore 21.00 re di Sinead O’Connor, per la prima volta a in cui strappa – durante un concerto – la foVenezia in aprile, bisogna tornare indietro al to di papa Giovanni Paolo ii. E poi gli scontri 1990. La giovane cantante irlandese incide la con i colleghi (Frank Sinatra voleva prendercover di un brano che Prince, il folletto la a pedate nel fondoschiena), il flirt con il cantante di Minneapolis, aveva scritto a medei Red Hot Chili Peppers Anthony Kiedis. Setà degli anni ottanta per il gruppo guono anni bui, con un tentato suicidio, la musicale The Family. La canzoscoperta di soffrire di un disturbo bipone è «Nothing Compares lare, l’ordinazione all’interno di un 2 U». Una ballata strugmovimento cattolico irlandese… gente e malinconica, A quasi un quarto di secolo da accompagnata da un quei momenti di gloria, Sinevideo – girato a Pariad O’Connor è di nuovo sul gi – tanto essenziapalco. Martedì 2 aprile sarà le quanto intenso: a dunque alla Fenice con una lunghi primi piani tappa del suo «The Crazy del volto di SineBaldhead Tour»: ad acad si sovrapponcompagnarla ci saranno gono riprese nelGraham Henderson (tala capitale franstiere), Robert McIncese. Per certi tosh (chitarra), John versi, sembra Reynolds (batteria), l’antenato di Clare Kenny (basso), un’altra belBrooke Supple (chila e triste cantarra). Al centro del zone, «Somesuo concerto l’ultimo one Like You» cd, How About I Be Me di Adele, il cui (And You Be You)?, uscivideo è girato to nel 2012: è addirittura all’ombra della il nono album della cantorre Eiffel. tante irlandese, prodotto Verso la fine del da John Reynolds e distribrano – subito dobuito dall’etichetta inglepo la frase «All se One Little Indian. Dieci the f lowers that brani (salutati in modo non you planted, Maproprio entusiastico da parte ma, in the backyard della critica, e con zero com/ All died when you menti su iTunes), ai quali, giowent away» (Tutti co forza, verranno intervallai fiori che hai pianti i successi di venticinque antato nel giardino di ni fa. Ma se è lo scotto da padietro, mamma / sogare per riascoltare «Nothing no morti quando sei Compares 2 U»… ◼ andata via) – due lacri- D Sinead O’Connor (foto di BarryMcCall). l’altra musica Sinead O’Connor sbarca in Fenice 43 l’altra musica 44 Un «Fantasma» per esorcizzare i propri demoni tolo a parte – è fieramente «pop». Fantasma è un disco orgogliosamente inattuale, un piccolo trattato sulla canzone italiana e sugli arrangiamenti orchestrali, che però non ha la pretenziosità (e la noia) che un saggio accademico può avere e che una raccolta di canzoni non ha. «Ma, credimi, non c’è alcuna differenza tra fare un disco così e fare un disco di Jovanotti»: ho letto questa frase nei meandri di Facebook, in risposta a qualche recensione podi Gianni Sibilla stata e discussa vigorosamente. Siamo un Paese di allenatori della nazionale di calcio e di critici musicali... Il «critichia morte esiste ancora, eccome. Solo che un no» aveva ragione: questa frase è vera, ma nel senso opposto consolidato luogo comune dei media e dell’indua quello scherno e a quel disprezzo che il suo anonimo autostria culturale vuole che non se ne parli. La si celere intendeva esprimere. bra, perché è un evento che genera indotPerché Fantasma è un disco frutto di una ricerto – in fin dei conti, alla fine delle classifiche di ca molto diversa da quella che Lorenzo Cherubiogni anno ci sono i dischi di cantanti scomparsi ni fa nei suoi dischi, ma altrettanto profonda: ci prematuramente. sarebbe da scrivere un saggio solo sui suoni, sugli Padova È un luogo comune soprattutto nazionale, perstrumenti e sugli arrangiamenti di questo nuovo Gran Teatro Geox ché ci sono band anglosassoni come i Grateful album, inciso con un’orchestra, la FilmHarmo29 marzo, ore 21.00 Dead che sulla morte hanno costruito un immany Orchestra di Wroclaw/Breslavia, arrangiata da ginario, visivo e musicale, anche scherzandoci, Enrico Gabrielli. esorcizzandola, elaborando. Ma cantarla, da vivi, no, non in Viene in mente un’altra parola, desueta e inattuale pure Italia. Quello non è tollerato da noi: genera sorrisini, scherquella: «concept album» – una parola che gli stessi Baustelle no, battutine. C’è il rischio, concretissimo e amplificato dal ostentano nel comunicato stampa di presentazione del disco. chiacchiericcio libero sul tazebao globale dei social network, Nell’immaginario degli ascoltatori questa definizione evodi passare per pesanti, presuntuosi intellettualoidi. ca tentativi – goffi o, peggio, pretenziosi – di usare le canzoni come capitoli di libro, di narrare con un linguaggio che non è quello del pop. Invece Fantasma è proprio questo: un «song cycle» sia lirico che musicale, con una sua organicità. Fate una prova: prendete il libretto (questo è un disco da avere nel caro, vecchio, formato fisico), leggete i testi, che peraltro sono giustificati, senza gli «a capo» delle strofe. Leggeteli dal primo all’ultimo. Tutto fila come un unico racconto. Le parole non andrebbero mai separate dalla musica, dall’interpretazione. Ma il gioco in Fantasma funziona, eccome. Poi ascoltate le canzoni: trovate voi qualcuno che sappia mettere assieme De André (la voce di Bianconi ricorda quella del Maestro, Tradotto: ci vuole un gran coraggio a sparire completaa tratti), Morricone e la musica per film, quella sinfonica, la mente per quasi tre anni e scegliere una canzone come «La musica concreta, il pop «remmiano» cantato in romanesco morte (non esiste più)» come primo singolo del ritorno. Og(«Contà l’inverni») e la canzone melodica italiana. Trovagi gli artisti non staccano mai: twittano, postano, bloggano. te qualcuno che sappia mettere assieme tutto questo senza Non i Baustelle: da I mistici dell’occidente (2010) a oggi erasembrare «retromaniaco», come direbbe Simon Reynolds. no praticamente scomparsi, senza quell’ossessione al presenSarà interessante vedere come il Fantasma si materializzezialismo digitale odierno. rà sul palco, spogliato in larga parte della presenza dell’orNon c’è alterità, non c’è snobismo, non c’è provocazione. chestra (che sarà in scena solo nelle prime date del tour). Un C’è solo la scelta di un proprio percorso: Francesco BiancoFantasma senza veli è ancora più evocativo, pauroso, inquieni, Rachele Bastreghi, Claudio Brasini di coraggio ne hanno tante. E forse è proprio questo l’effetto che vogliono otteneda vendere, da tempi non sospetti. E la scelta di una canzone re i Baustelle: costringervi ad affrontare i vostri demoni. Sacosì stupisce solo chi li conosce superficialmente. Una gran rete in grado di esorcizzarli? ◼ canzone, melodica e retrò al punto giusto, ottima introduzione a un disco ancora più coraggioso di quel brano che – tiBaustelle (foto di Gianluca Moroso). I Baustelle in concerto a Padova L la ricerca sonora, teatrale, letteraria, visiva, eccetera. I Litfiba anzitutto scelgono il nome dall’indirizzo telex della sala prove utilizzata presso la via De’ Bardi al numero civico 32: quindi L (prefisso telex) + IT (Italia) + FI (Firenze) + BA (via De’ Bardi); oltre Pelù e Renzulli ci sono Antonio Aiazzi alle tastiere, Francesco Calamai alla batteria e soprattutto di Guido Michelone Gianni Maroccolo al basso (destinato poi a un’importante sodalizio con i gruppi emiliani cccp e csi). Ben presto l’acono tornati. I Litfiba da qualche mese sono di coglienza riservata al quintetto da un pubblico generazionanuovo assieme dopo che la brusca separazione tra i le sempre più allargato, porta i Litfiba a compiere un salto di due leader: Piero Pelù, il cantante, e Ghigo Renzulli, qualità – caso più unico che raro nella scelta indie nostrana la chitarra solista. Nella storia del rock succe–, diventando la sola band tricolore a fregiarsi del tide infatti anche questo: basti pensare a quando, dutolo di rock star attraverso album memorabili – Derante gli anni novanta, Mick Jagger e Keith Richard, saparecido, 17 re, Litfiba 3, El diablo, Terremoto, Spiovvero i Rolling Stones, comunicavano tra loro solo rito, Mondi sommersi, Infinito –, una band che, pur Padova attraverso i rispettivi avvocati, per capire la tortuo- Gran Teatro Geox concedono via via larghi spazi a una comunicativa sità delle dinamiche di gruppo in un ambito – la po- 6 aprile, ore 21.30 poppeggiante, mantiene integerrima l’essenza – di pular music – dove industria e showbiz comandaPelù e compagnia – di musici, cantastorie toscanacno su arte e creatività col pugno di ferro. Del resto il ci, personaggi ribelli, fuorilegge e contestatori. nocciolo della questione che vede, nel 1999, Pelù abbandoA emergere sia dai dischi recenti (Insidia, Essere o sembrare, nare Renzulli (o viceversa) riguarda proprio il valore da atGrande nazione) che sul palco – anche oggi i Litfiba danno tribuire all’identità poetica del duo dopo diciannove anni di il meglio di sé dal vivo, con i nuovi ingressi di Daniele Bagni, S onorata attività, al contempo popolare e trasgressiva, canzonettistica e rockettara: dunque, per il nuovo millennio, ritorno all’originaria funzione alternativa o svolta verso un ancor più tranquillo successo commerciale? Come si sa, Pelù intraprende la carriera solista con alti e bassi, mentre Renzulli prosegue con il gruppo assumendo un nuovo cantante senza però bissare l’exploit precedente. Ma i Litfiba, in quanto tali, necessitano di una front line PelùRenzulli, due figure complementari, due musicisti simbiotici, due immagini piratesche del rock italiano, due corpi in scena, due menti artisticamente inscindibili l’una dall’altra. E dire che la band si costituisce un’identità faticosamente, cominciando dall’underground fiorentino che già alla fine degli anni settanta, sulle ceneri del punk tricolore, può vantare una scena giovanile di tutto rispetto negli ambiti delLitfiba (foto di Alexandra Morris, litfiba.net). Federico Sagona, Cosimo Zannelli, Luca Martelli – ci sono la voce e il volto di Pelù tra l’ironico sberleffo, la recita animalesca, la selvaggeria gaglioffa, e l’aplomb del Renzulli chitarrista, al contempo compositore e intellettuale del gruppo. Se ne sentiranno delle belle, insomma, in questo nuovo tour battezzato «Trilogia 1983-1989» – con l’esclusiva partecipazione di altri due componenti fondatori della band, Gianni Maroccolo e Antonio Aiazzi – che, partito il 26 gennaio dall’Arena di Mendrisio, sta percorrendo l’Italia intera con tappe a Milano, Bologna, Fontaneto d’Agogna, Cortemaggiore, Napoli, Roma e Padova. Concludono idealmente i Litfiba: «Ci piace molto spaziare tra i generi, anche perché in trent’anni, trentadue oramai, che suoniamo insieme è cambiato il mondo intorno a noi ed è cambiata anche la musica, quindi giustamente essere al passo con i tempi, anche se può sembrare una formula un po’ “paracula”, in realtà non lo è». ◼ l’altra musica Gli anni ottanta dei Litfiba rivivono in concerto 45 l’altra musica 46 In un disco di cover ecco le radici rock di Anastacia ca, suo paese natale: nata a Chicago, Anastacia è poi cresciuta a New York assieme alla madre attrice di Broadway, vivendo quindi a stretto contatto con il mondo dello spettacolo. Sviluppa in questi anni la sua attitudine musicale, spinta dall’ambiente in cui vive e dalla passione di sua mamma per Barbra Streisand ed Elton John, che rimane ancora oggi l’artista preferito da Anastacia. Con il secondo album, pubblicadi Tommaso Gastaldi to alla fine del 2001, arriva in poco tempo a vendere dieci di milioni di copie: Freak of Nature, scherzo della natura, come l contrario non esiste. Quantomeno come complila definivano, madre compresa, tutti quelli che si stupivano mento detto nei confronti di una voce. Non esistono di una voce così forte in quella «strana» figura femminile. «neri con la voce da bianco» e di certo se a qualche diQuando le cose sembrano finalmente girare per il verso giuscografico saltasse in mente di lanciare un artista con sto viene sottoposta a un intervento chirurgico per rimuovequesta caratteristica, la cosa non farebbe vendere più dischi. re un cancro al seno, con la conseguente pausa dal lavoro. La La definizione «bianco con la voce da nero», inmalattia però non riesce a scalfire il suo carattere vece, riguarda una precisa qualità vocale volta a forte, che già in passato l’aveva aiutata a superare indicare una particolare timbrica tipica dei cantale difficoltà dovute al morbo di Crohn. In greco ti afroamericani particolarmente adatta al canto, il suo nome significa «colei che nascerà ancora» Padova emessa però dalle corde vocali di un corpo umae nel suo caso nessun nome avrebbe potuto esseGran Teatro Geox no di origine caucasica. Oggi, in tempi di politire migliore: lasciata alle spalle la malattia, ritor8 aprile, ore 21.30 cally corrected, è più probabile che si parli di voce na sulle vette delle classifiche mondiali nel 2004 soul, ma di fatto il risultato non cambia. Anastacon l’omonimo album Anastacia. Un’analisi sincia appartiene senza alcun dubbio a questa categoria di cancera della malattia e del difficile rapporto col padre sono i tetanti. La sua è una voce molto potente, che ha estensione e tomi portanti del disco, supportato nelle vendite da hit come no unici, il tutto incastonato in un corpo di notevole bellez«Left Outside Alone» e «Sick and Tired». Negli anni a za. Paradossalmente all’inizio della sua carriera tutte queseguire intraprende una lunga e fortunata tournée, il «Live ste virtù non giocaroat Last Tour», duetta no a suo favore, visto con Eros Ramazzotche nessun produttoti nel brano «I Bere si sentiva di accollong to You», pubblilarsi il rischio di lanca il best of Pieces of a ciare un’artista che Dream (2005) e lannon aveva una collocia un suo profumo cazione discografica e una propria linea di precisa. Tocca allora moda. Cambiata cainventarselo questo sa discografica e supnuovo genere, meportata da un team di scolando pop soul e produttori di primo rock, ovvero lo sprock, livello, nel 2008 esce come lei stessa l’ha il disco Heavy Rotabattezzato. La svolta tion, che però non riavviene alla fine degli esce a raggiungere gli anni novanta, quanstessi volumi di vendo Anastacia vince dita dei lavori preceun programma per la denti. Benché il sucricerca di nuovi talencessivo tour ottenga ti musicali, The Cut, un numero di spettain pratica l’antesignatori importante, neno degli attuali talent gli ultimi anni è inishow. Ottiene immeziato un periodo di diatamente un conriflessione per la cartratto discografico e riera di Anastacia, un ampio riscontro in cerca di ritrovadi pubblico e di elore l’ennesima resurgi anche da parte di rezione artistica. In illustri colleghi come quest’ottica la recente Elton John e Michael uscita di It’s a Man’s Jackson. Il suo primo World è una produalbum, I’m Not that zione di buona fattuKind, viene pubblicato nell’estate del 2000 anticipato a febra in attesa di un disco di inediti già in lavorazione. Si tratta braio dal singolo «I’m Outta Love»: proprio questa canzoinfatti di un disco di cover di brani di gruppi rock che lei stesne ottiene subito un enorme successo mondiale e, anche grasa ha amato e comprende brani tra gli altri di Aerosmith, Oazie ai successivi singoli estratti, il disco vende ben cinque misis, U2, Guns n’ Roses e Rolling Stones. Nel frattempo non lioni di copie solo nel primo anno d’uscita. La sua fama ragci resta che goderci dal vivo tutta la bravura di questo bellisgiunge molti paesi, compresa l’Italia, dove Luciano Pavarotsimo «scherzo della natura». ◼ ti la chiama a duettare con lui nell’edizione del Pavarotti & Friends del 2001. Purtroppo non riesce a sfondare in AmeriAnastacia. I soli, Niccolò Fabi (cfr. vmed n. 50, pp. 32-33), Samuele Bersani – che a metà degli anni novanta rinnova il pop italiano, avvicinandosi più alla musica leggera raffinata piuttosto che guardare al mito alternativo del folksinger impegnato. Nato a Roma nel 1967, Gazzè trascorre infanzia e giovinezza in Belgio, dove a sei anni inizia a studiare pianoforte, a quattordici strimpellare il basso elettrico, a sedici a suonadi Guido Michelone re con gruppi diversi nei localini di Bruxelles. Per cinque anni, a Londra, fa parte dei 4 Play 4, band inglese in stile norme piace la musica che abbia una melothern-soul, dal pionieristico acid-jazz. Con la band si trasfedia, una complessità anche armonica – dirisce nel sud della Francia, dove lavora anche come produttoce Max Gazzè in una recente intervista –. In re artistico; il rientro in Italia, nel 1991, è dedicato invece alpassato ho fatto dei testi in cui c’era da dela sperimentazione: in piccolo studio si dedica alla composicodificare un significato, in cui si doveva andare un po’ oltre zione di colonne sonore, iniziando altresì collaborazioni imquella che era l’espressione superficiale del testo. portanti con Frankie hi-nrg mc e i citati Britti, Però credo che le canzoni debbano avere una loro Fabi, Silvestri. condizione al di là della necessità di dover tradurIl primo album a nome Max Gazzè, Contro re un linguaggio». Le canzoni, in tal senso, devoun’onda del mare, esce nel gennaio 1996: presenRoncade (Tv) no narrare qualcosa: «Come un amore primortato in versione acustica nel tour di Franco BatNew Age Club diale, qualcosa che non ha bisogno di essere detiato, inaugura il sodalizio con la Virgin Records, 15 marzo, ore 21.00 codificato e che arriva così com’è. Invece, nei tela celebre etichetta britannica, che lo promuove sti più complicati, a volte è più importante l’assoper via di un talento originale in grado manifenanza, la musicalità stessa delle parole, al di là del loro signistare, in ogni disco, una notevole diversità di climi musicali ficato letterario». che s’abbina alla scioltezza nella stesura dei testi, e che porta Gazzè a un ottimo successo di pubblico e di critica. Per il secondo album, La favola di Adamo ed Eva (1998), le liriche vengono scritte insieme al fratello Francesco Gazzè, in un anno che vede Max protagonista di due mosse autoriali: una canzone, «O Caroline», per l’album di tributo a Robert Wyatt (The Different You-Robert Wyatt e noi), e l’invito al Premio Tenco, ossia il festival della canzone d’autore che si tiene a Sanremo. Da allora però risultano più frequenti le apparizioni all’altra rassegna – quella più commerciale – della città dei fiori, in cui presenta brani efficaci ma alquanto mainstream per forma e contenuto; sono del resto queste le peculiarità di un artista che dal 2000 a oggi firma altri sette cd: Max Gazzè (Gadzilla), Antecedentemente inediMa c’è pure, nell’arte di questo singolare cantautore, una to, Ognuno fa quello che gli pare?, Un giorno, Tra l’aratro e velata ironia, che «è un po’ una mia caratteristica, un mio la radio, Sotto casa; e due raccolte: Raduni 1995-2005 e The stile, un modo di proporre dei temi che, raccontati o espressi Best of Platinum. in maniera drammatica, rischierebbero di diventare pesanti. Un messaggio comune a tutte le sue canzoni? La filosofia di L’ironia è un modo di far arrivare dei concetti senza renderMax Gazzè forse può essere riassunta in un’altra sua riflessioli drammatici. Si tratta comunque di uno stile: il sarcasmo ne molto attuale: «Forse la formula sarebbe semplicemene una forma di cinismo fanno parte non solo del mio mote pensare che essere sintonizzati su una sola frequenza non do di fare musica ma anche di quello con il quale mi espriescluda l’esistenza di tutte le altre, e forse arrendersi di fronmo nei testi». te al fatto che molte convenzioni e regole che ci siamo creaRomano di nascita con origini siciliane, cantautore, ma anti non hanno fatto altro che sostituire una nostra “tecnoloche valido strumentista alla chitarra e al contrabbasso, Max gia interna” con una tecnologia esterna che ci ha allontanaGazzè, fa parte di quella schiera non foltissima – assieme ad ti dal capire tantissime cose, che per esempio antiche e rigoAlex Britti, Cristina Donà, Daniele Silvestri, Carmen Congliose civiltà, come quella degli Egizi o dei Sumeri, avevano intuito profondamente. Da questo punto di vista, il progresso non ci ha aiutato». ◼ Max Gazzè (foto di Barbara Oizmud, maxgazze.it). A « l’altra musica Max Gazzè canta «Sotto casa» 47 C di Ilaria Pellanda ominciata lo scorso novembre, continua la stagione musicale del Teatro Fondamenta Nuove. Il prossimo 14 marzo approda in laguna il sassofonista Colin Stetson per un concerto da solista. Nato ad Ann Arbor e oggi residente a Montreal, città molto vivace dal punto di vista musicale, Stetson – che è attualmente negli Arcade Fire accanto al talentuoso Bon Iver, e che ha suonato anche con Tom Waits e David Byrne, con congiuntamente all’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Giorgio Cini, invita a una riflessione sulla musica africana. Come già messo in luce nell’evento dello scorso anno, «Re:African:Mix», la scena creativa del continente offre molti spunti che permettono di confrontarsi con la sostanziale transculturalità dei fenomeni musicali contemporanei, della quale i Konono n. 1 sono un esito tra i migliori. Proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo, si tratta di un gruppo di musicisti d’ispirazione tradizionale: stabilitisi a Kinshasa, la città che negli anni sessanta era stata centro propulsore della nuova musica urbana congolese, hanno elettrificato i propri strumenti utilizzando materiale di recupero. Ne è derivato un mutamento radicale della timbrica, vicina all’estetica del rock e della musica elettronica più estrema e rumorista. Il gruppo fa uso di tre likembe (lamellofoni i Tv On the Radio e con Anthony Braxton, con Lou Reed, con risuonatore a scatola) elettrificati (medio, acuto e basJolie Holland, Sinead O’Connor e altri ancora – ha conquiso) ed equipaggiati con microfoni costruiti artigianalmenstato e incantato con i suoi dischi, in particolare New Histote usando vecchi magneti d’automobili, di grandi megafory Warfare Vol. 2: Judges, pubblico e critini risalenti all’epoca coloniale e comprenca per la capacità di trarre da uno strumende inoltre una sezione ritmica che mescoto timbricamente estremo come il sax basla percussioni tradizionali ad altre ricavate so sonorità di notevole impatto emozionale. da materiale di recupero. Ne risulta un efVenezia Con l’uso della respirazione circolare, della fetto distorsivo e ipnotico delle sonorità in Teatro Fondamenta Nuove voce, di microfoni e di tecniche non convenuna non facile unione tra tradizione e teczionali, Stetson – che, oltre ai sassofoni, suonologia, tra ritmi centro-africani, modali14 marzo, ore 21.00 Colin Stetson (sassofoni) na anche il clarinetto, la cornetta, il corno e tà sonore proprie del punk-rock e il sound il flauto – inventa spazi sonori in cui trova«duro» della dance music elettronica. 9 aprile, ore 21.00 no buon agio minimalismo e free, post-rock L’11 aprile, sempre alle 21.00, sarà la volta Konono n. 1 e avanguardia. del duo formato da Peter Brötzmann (sasA seguire, il 9 aprile alle 18.00, in occasiosofoni, clarinetto, tarogato) e Paal Nilssen11 aprile, ore 21.00 ne del concerto dei Konono n. 1 (ore 21.00), Peter Brötzmann & Paal Nilssen-Love Love (batteria), nomi di culto del jazz creasi terrà una tavola rotonda che vedrà protativo degli anni sessanta e settanta in grado gonisti Vincent Kenis (direttore di Cramdi forgiare una musica urgente, contempomed Disc e primo promotore del gruppo sulla scena musiranea ed energica nell’improvvisazione. Brötzmann e Nilscale europea) e Serena Facci (etnomusicologa – Università di sen-Love si incontrano musicalmente nel 1998, collaborano Roma «Tor Vergata»). L’appuntamento, che viene proposto in molti gruppi – dagli Hairy Bones all’Ada Trio, passando per l’esperienza del Chicago Tentet di Brötzmann – e, come duo, incidono per l’etichetta norvegese Smalltown SuA sinistra, Konono n. 1. persound i dischi SweetSweat e Woodcuts. ◼ A destra, Colin Stetson. l’altra musica Al Fondamenta Nuove tre inediti concerti 49 l’altra musica 50 Se tu prenderai marito l me moroso m’à mandato a dire / che me proveda ch’el me vol lassare / e mi g’ò mandà a dir che so modista / e de morosi ghe n’ò sento in lista». «… le vilote che ancor sopravvivono vengono ora cantate a semplice sollazzo dalle nostre donne del popolo, massime nelle corti e ne’ campieli (piccolo piazze tra case) ove vivono in più comunanza e libertà. Le accompagnano al suono del cembalo a sonagli, intessendovi anco un ballo, che al pari del canto e del suono vilota si chiama. Per solito la più attempata donna della brigata è quella che canta le vilote e dà nel cembalo, mentre le altre più giovani ballano» (Angelo Dalmedico, Canti del popolo veneziano, 1848). Angelo Dalmedico pubblica questi suoi Canti del popolo veneziano in una città appena liberata e trasformata in repub- le sedi sindacali. C’è tutto un clima intorno che spinge alla solidarietà non solo di classe, ma espressamente di genere. Le vilote, le ninnananne, i lamenti e persino i canti d’amore e le «canzonette» precedenti e successivi a quel periodo ci narrano, senza alcuna intenzione propagandistica, di questa lunga marcia che va dal disagio all’individuazione esplicita di bisogni e diritti. Alla figlia di vent’anni che vuol prendere marito, un tema molto frequentato dal canto popolare di ogni parte d’Italia, la madre toscana documentata dal Giannini nella seconda metà dell’Ottocento risponde: «Se tu prenderai marito / qualche cosa hai da sofrì /… / il marito all’osteria / sempre a bevere e a mangià / e io in casa coi figlioli / sempre a piange e sospirà». Le fa eco la Malcontenta, una ninnananna che viene ancora dalla Toscana: «Babbo va all’osteria / mamma tribola tuttavia / Babbo mangia il baccalà / mamma tribola a tutt’andà». Un’altra ninnananna, questa volta trentina, predice: «Dormi mia bella dormi / sul tuo letto di rosa / che quando sarai sposa / non dormirai così /... / che quando sarai mamma / non dormirai così. / … / che quando avrai dei figli / non dor- blica mazziniana. Sull’onda dell’entusiasmo dedica la prima edizione della sua raccolta al Cittadino Daniele Manin. Le note vicende storiche lo inducono a non insistere su questa dedica nella sua seconda edizione del 1857. Le parole della villotta e l’introduzione dell’autore ci restituiscono uno spaccato di vita femminile veneziana estremamente vivace e «moderno». Che le donne di Venezia e dintorni fossero non proprio «remissive» ce l’aveva già detto Goldoni con le femmine emancipate ed astute delle sue commedie «borghesi». Ma le strofette improvvisate e poi ripetute ci dicono anche come si è sviluppata questa indipendenza: «so modista». Lavoro, esco di casa, posso trovarmi con altre donne e ballare, parlare, creare complicità. Più tardi, all’inizio del secolo scorso, compariranno anche canti di tenore rivendicativo che, per il linguaggio con cui sono espressi, attestano lo sviluppo dell’organizzazione sindacale delle donne veneziane. Le filandine in sciopero contro il caposala tiranno: «…E anca el caposala / che no xe bon da niente / ghe vegna un assidente / su la punta del cuor». Le impiraresse «tuto fogo ne le vene» pronte a scendere in lotta, ancora una volta, contro «le mistre che vorave tuto quanto a magnar lore…» e a «desfarghe el cocon», quello che oggi, con il nostro polimorfismo linguistico, chiameremmo «chignon». Siamo nell’immediato primo dopoguerra, il «biennio rosso» sta infiammando l’Italia, si canta «Via, via la borghesia, l’agrario e il pipì» e si occupano le fabbriche mentre i fascisti assaltano le Case del Popolo, le redazioni dell’«Avanti», mirai così». Insomma una vita dannata dalla povertà e dalla dipendenza dal marito nelle diverse previsioni materne. Purtroppo il più delle volte vere, e non solo ieri. Progressivamente, seppur lentamente, il lamento si riveste di consapevolezza, la rivendicazione da privata diviene pubblica, la speranza diritto, la protesta lotta esplicita. «Questa xe la cale de le alte mura / dove che gera inamorà ‘na volta – canta il moroso (forse) pentito – so vegnù a veder se ti xe risolta / che amor vecio torna un’altra volta». Idealmente la risposta potrebbe essere questa: «Vorave che piovesse macaroni / che la tera fusse tuta informa giada / che i corni del mio ben fusse pironi / che gusto de magnar ‘sti macaroni». Scherzi, lazzi di una serata in compagnia rimasti impressi nella memoria collettiva? Probabilmente sì. Nulla però s’imprime per caso, ma resta perché stupisce, colpisce, in qualche modo fa clamore o prurito. E un po’ alla volta cambia anche il comune sentire. I drammi della storia incalzano e funzionano da acceleratore di processi sociali altrimenti lenti e controversi. «Son maritata giovane / l’età di quindici anni / Mio marito è morto, / è morto militar. / E son rimasta vedova / con due figli al cuor. / …. / Tutte le ore che passano / mi sento di morir, / E devo andare in ‘Merica, /‘Merica a lavorar». Due tragedie che hanno cambiato l’Italia e il mondo, la grande guerra e l’emigrazione, si saldano e ciò ci restituisce la drammaticità di mille immagini di distruzione, miseria, abbandoni. Cantare al femminile E di Gualtiero Bertelli « ran mai più». Le donne a casa, nei paesi sparsi lungo il fronte si fanno carico di vecchi e bambini, lavorano in quel che resta dei loro campi, spesso incalzate dai nostri soldati che fuggono, da quelli nemici che arrivano, invadono, violentano e rubano quel poco che c’è da rubare. «Veder le nostre mame / coi lor cari bambini / corevano spaventate / spaventate da la paura / perchè tiravan giusto /giù in pianura. / Veder le nostre case / che andavano giù per tera / alora ci siamo acorti / di questa guera / Veder ste signorine / con le sotane strete / che andavano gridand o/ con la forsa del municipio /voliamo la bandiera / de l’armistizio». Il fascismo tenta di arrestare il processo di sviluppo della coscienza e dell’autonomia femminile: inneggia alla massaia madre di tanti figli da donare alla patria e cerca di contenere le gonne che si accorciano, i vitini da vespa, le signorine grandi firme, l’avanzata della modernità. «Non è tollerabile che, specialmente i giornali di moda, pubblichino fotografie di donne magrissime» sentenzia una delle innumerevoli «veline» quotidianamente inviate ai giornali. Le donne di città, le magrissime da contrapporre ai robusti e prolifici fianchi della madre italiana, sono dipinte come piccoloborghesi viziate e dispotiche: «La ragazza che è impiegata / come sta sacrificata / Va in ufficio strapazzata / perché s’ha da maritar. / Maritata sai che fa / dice a lui:”Voglio pranzar / o ti adatti a cucinar / o mi porti al restaurant”». E, naturalmente, il nemico si annida altrove. La canzone infatti continua: «Il bolscevismo / la donna l’applica / ma vuol mangiar, vestir, goder / e lavo- rar non ne vuol saper / Il bacio che ti dà / ben caro fa pagar / Tutto per essa e niente a te / questo è l’effetto che fa il soviet». Paradossalmente però proprio il fascismo, con le sue adunate e esercitazioni, le sue iniziative sportive e ricreative, contende il diritto/dovere di educare le signorine alle famiglie e alla Chiesa. Entra in sotterranea rotta di collisione con organizzazioni potenti come l’Azione Cattolica, convoglia in organizzazioni di genere provenienze sociali diverse facendo convivere ragazze bassamente scolarizzate con figlie della buona borghesia destinate a studi ben più ambiziosi, riducendo, con le divise, anche le evidenti differenze di censo. È certamente un effetto collaterale imprevisto e forse sottovalutato dagli alti strateghi dell’educazione fascista, ma di fatto la suddivisione in organizzazioni distinte per età e genere funziona anche da catalizzatore del processo modernista specialmente nelle zone urbane del settentrione. E si creano persino occasioni di rapporto tra i generi: «Con le Piccole Italiane / Il Balilla è cavalier: / dell’Italica dimane / è l’ardito messagger! / Il Balilla è un buon fratello, / all’appello è pronto ognor: / come il sasso di Perasso / per l’Italia ci lancia il cor! / Balilla cuor d’oro… /. La partecipazione significativa di donne alla lotta di liberazione dal nazismo e dal fasci smo dette certamente un buon rilievo alla questione femminile, ma la cultura di un Paese ottenebrato da un ventennio di propaganda, di isolazionismo e di conseguente ignoranza non si cambia in un momento, neppure con il mutamento di regime istituzionale, con l’allargamento del diritto di voto a tutti i cittadini della repubblica, con la promulgazione di un documento straordinario qual è la nostra Costituzione. Nella maggioranza dei casi i rapporti tra i generi, dentro e fuori della famiglia, resteranno per lungo tempo immutati. Lo testimonia questa canzone di Virgilio Savona e Age incisa nel 1944 da Lucia Mannucci, sposatasi proprio in quell’anno con Savona, ma non ancora voce femminile del Quartetto Cetra (lo diventerà tre anni dopo): «Mi rimproveri sempre / mi stai sempre a sgridar / Dici: non vuoi far mai niente / solo guai sai combinar / Che vuoi di più che devo far / per non sentirmi più sgridar / farò la brava e tu vedrai / che d’ora in poi non faccio più guai /… / saprò camicie stirar / lavar vestiti saprò / invece di riposar / tutta la casa ti luciderò… /». La fine ironia di Savona si coniuga in questo brano con la sua attenzione ai problemi sociali che nel tempo ci lascerà canzoni, registrazioni e libri (spesso in collaborazione con Michele L. Straniero) molto importanti. Dai giorni dell’Italia liberata la questione femminile ha assunto e continua ad assumere un’importanza sempre più determinante per lo sviluppo della democrazia; i canti delle donne accompagnano ancora tutti i passi del movimento femminile e femminista. In un mondo in cui ancora le donne vengono stuprate e uccise, soprattutto tra le mura domestiche, cantare al femminile significa non cedere alla paura e alla sopraffazione, rivendicare per tutti il diritto alla dignità e alla vita. ◼ l’altra musica «Chi ama la guerra sono òmini tristi, / privi di scienza e di cuore cattivo; / fossero stati invece i socialisti, / il mio figlio sarebbe ancora vivo. / La guerra è bella pe’ capitalisti, / perché ritrovan sempre il loro attivo: / dalle imposte che tengono impiegate / dicono sempre: Armiamoci ed andate» conclude la plebea nel suo contrasto con l’aristocratica a proposito della guerra di Tripoli. La moglie toscana con quattro figli grida: «E anche al mi’ marito tocca andare / a fa’ barriera contro l’invasore, /… / E avevano ragione i socialisti: / ne more tanti e ‘un semo ancora lesti; / ma s’anco ‘r prete dice che dovresti, / a morì te ‘un ci vai, ‘un ci hanno cristi. / E a te, Cadorna, ‘un mancan l’accidenti, / ché a Caporetto n’hai ammazzati tanti; / … / E ‘un me ne ‘mporta della tu’ vittoria ,/ perché ci sputo sopra alla bandiera; / sputo sopra l’Italia tutta ‘ntera / e vado ‘n culo al re con la su’ boria». La rabbia è forte, si accumula, esplode, esploderà ancora più forte: «Maledetto sia Cadorna / prepotente come d’un cane / vuol tenere la terra degli altri / che i tedeschi sono i padron». La disperazione accomuna i responsabili, Cadorna e i signori: «Ma quei vigliacchi di quei signori / che hanno gridato viva la guerra / e ne avesse un figlio morto in guerra / viva la guerra non gride- 51 l’altra musica 52 Il corpo sonoro di Ravenna n buco bianco, nella teoria della relatività generale, è una regione ipotetica di spaziotempo nella quale non si può entrare dall’esterno, ma dalla quale la materia e la luce possono solamente fuoriuscire. In questo senso è l’opposto di un buco nero, nel quale si può entrare dall’esterno, ma dal quale nulla, inclusa la luce, ha la possibilità di fuoriuscire. Alcuni pensano pertanto che i buchi bianchi possano essere l’altra estremità di un tunnel spazio-temporale che collega un buco nero con regioni molto lontane dell’universo o addirittura con altri universi». le sue porte, i suoi passaggi, i suoi guardiani, le sue geometrie archetipiche e fondative? È possibile restituire la testimonianza dello stupore di uno sguardo straniero a contatto per la prima volta con il territorio di Ravenna? Editare un dizionario sonoro percettivo del suo paesaggio? Così come, nell’ipotesi della teoria della relatività, la materia e la luce attraversano un tunnel spaziotemporale mettendo in connessione due universi lontani nel tempo tramite due buchi o coni, uno detto «nero» e uno detto «bianco», uno attrattivo e l’altro irradiante, uno appartenente all’orizzonte del passato e l’altro all’orizzonte del futuro, mettersi in ascolto del corpo sonoro di una città significa porsi all’incrocio dei due orizzonti, al centro del tunnel spaziotemporale, farsi membrana del timpano e duplice cono: da un lato attrarre i materiali sonori dell’universo grossolano e dall’altra irradiarli in quello sottile, immaginale, restituendoli alla città. Per tanto, come due antenne all’erta in costante movimento, dal gennaio 2012 stiamo raccogliendo un materiale sonoro molto ampio, da rielaborare e articolare in varie declinazioni: 1) un ascolto pubblico/concerto da realizzare in uno spa- Il progetto si propone di indagare, attraverso un’ampia mappatura, il corpo sonoro del territorio di una città. Ravenna è una realtà geograficamente unica che si presenta agli occhi dello straniero come un corpo inafferrabile, irriducibile, incommensurabile, labirintico. Già immerso nelle acque a partire dal suo nome originario (Ravenna, «fluire di acque»), il corpo sonoro di Ravenna è da sempre in continua metamorfosi, si proietta verso il mare e allo stesso tempo sprofonda in se stesso. Inseguendo le traiettorie degli animali, sostando a lungo nei loro regni, per lo più nascosti e paralleli al fluire della vita contemporanea, il progetto tenta di comporre, mediante la tecnica lenticolare del micromosaico, un corpo sonoro sottile di origine antichissima, che travalica i confini fisici e temporali della città, le sue torri, i suoi muri, le sue barriere. Un corpo immaginale e sonoro sospeso, a metà dell’andirivieni perpetuo di acque tra le paludi e il mare, un corpo mantice, attraversato da forze opposte, aperto, tramite la sua porta sul mare, verso il lontano. È possibile individuare il suono originario e fondativo di una città? Questo suono è lo stesso che gli animali che oggi ne popolano il territorio ascoltavano anticamente? Ne sono essi stessi parte, corpo? È possibile isolarlo dai suoni generati dall’umano o si è definitivamente compromesso? È possibile l’epifania genuina di uno, due, cento organi sonori pulsanti autentici in un territorio così stratificato? Quali sono le linee di attrito tra il mondo sonoro animale e quello umano? C’è una guerra sonora in corso tra essi? Quali sono le architetture/timpano che risuonano e permettono di entrare in contatto profondo con questo corpo sonoro? Quali sono zio vasto, all’aperto, che restituisca la sensazione di orizzontalità estesa, con il supporto di un sistema di diffusione sonoro adeguato a un sound design per spazi di grandi dimensioni; una sinfonia fondativa, che ripercorra l’architettura emozionale del nostro viaggio, dove l’ascoltatore sia posto al centro di un micromosaico sonoro vibrante, fluido. A Ravenna abbiamo individuato come luogo ideale l’ippodromo della città, con il posizionamento degli ascoltatori al centro del prato all’interno dell’anello delle corse e a partire da un mimetismo sonoro con la vitalità ambientale dell’ippodromo stesso, come porta all’origine del viaggio. Immaginiamo al centro dello spazio di ascolto un buco rettangolare di grandi dimensioni, un «mundus» (fossa fondativa), catalizzatore degli sguardi e degli ascolti, una presenza/assenza cui affacciarsi e tramite la quale discendere verso il corpo sonoro della città. 2) un portale internet o catalogo sonoro pubblico, una mappa interattiva del corpo sonoro della città, che contenga un dizionario del paesaggio: un glossario di voci straniere, un’indicizzazione emotiva, testimonianza in lingua straniera dello stupore di chi si trova per la prima volta di fronte al paesaggio ravennate. Si prevedono per questo una serie parallela di registrazioni con ospiti stranieri, immigrati e non, nei cuori pulsanti del corpo sonoro cittadino, da realizzare entro il 2013. Contestualmente alle presentazioni del portale alcuni incontri pubblici con filosofi o pensatori che si siano posti la questione dell’estraneità in tempo di deterritorializzazione. Tra questi Jean Luc Nancy e Paul Virilio. 3) una pubblicazione sonora, sintesi di tutto il progetto. ◼ Nasce il progetto «Buco bianco» U di Luigi De Angelis e Sergio Policicchio « Si ritira quasi subito dalle proprie aspirazioni musicali, convincendosi o riconoscendo di non essere un artista dell’interpretazione pianistica e rifugiandosi nell’intenzione di dedicarsi alla filosofia, che, dice lui stesso, nemmeno sa bene cosa sia; piuttosto, egli si adombra in una sorta di disinteresse, di restringimento in se stesso che rappresenta quasi una metafora, un’immagine con cui Thomas Bernhard vuole forse significare il suo modo di vivere e di vedere il mondo. Cosa emerge dalla riduzione curata da Cappuccio, quali temi cari all’autore? a cura di Ilaria Pellanda Uno di questi è lo sguardo negativo nei confronti del mondo, che Bernhard esprime senza mai cadere nel banale grazie ndrà in scena nel mese di aprile al Goldoni di alla sua grande capacità di ironia. Dal testo emerge la storia Venezia Il soccombente di Thomas Bernhard neldella disfatta di una persona, che soccombe a causa del suo la riduzione che dall’omonimo romanzo ha curato essere dotata di una sensibilità e di una raffinatezza mentaRuggero Cappuccio. L’opera tratta del fittizio raple eccessive; se ne potrebbe dedurre che colui che ha troppe porto tra il famoso pianista canadese Glenn Gould qualità e che non presenta una qualche forma di e due suoi giovani compagni di studio al Mozarottusità nei confronti del mondo, alla fine socteum di Salisburgo negli anni cinquanta. Sotto la comberà. Difatti il personaggio di Gould, che è Venezia guida di Vladimir Horowitz il trio studia musiguardato con grande ammirazione e amore anTeatro Goldoni ca e al tempo stesso sviluppa un rapporto di amiche dall’autore stesso, si rivela una persona quasi 10 aprile, ore 20.30 cizia che si rivelerà drammatico per tutti e fatapriva di sensibilità tranne che nei confronti del11 aprile, ore 16.00 le per uno dei tre, il soccombente appunto. Il narla propria arte: una sorta di «specializzato» che ratore e il suo amico Wertheimer ha rinunciato, anche per natura, a abbandonano gli studi di pianotutto il resto. Invece Wertheimer forte appena si rendono conto del non rinuncia a nulla e sarà progenio superiore di Gould quando prio il suo eccesso di immedesilo sentono suonare le Variazioni mazione nelle cose e negli eventi a Goldberg di Bach. Protagonista portarlo alla propria distruzione. della pièce diretta da Nadia BalChe tipo di lavoro ha affrontato di – una produzione del Teatro Secon la regista Nadia Baldi? greto di Roma che ha debuttato nel Abbiamo voluto cercare un monovembre 2012 al Teatro Comudo nel recitare che riuscisse a innale di Formello – è Roberto Hertrigare il pubblico, l’ascoltatore, litzka, che ci ha presentato il perpensando quindi a una possibisonaggio che incarna sulla scena. le varietà di toni. Ricordandomi della materia musicale, che poi è «Si tratta dell’autore del libro, fondamentale e alla base di queche finge – o immagina, o ricorsto testo, ho pensato di trovare da – di essere stato compagno di dei tipi di variazione al mio linstudi di Glenn Gould e di un alguaggio che in qualche maniera tro pianista o aspirante tale, e di potessero ricordare proprio una aver assistito alla distruzione di partitura. Il libro stesso è scritto questo terzo collega, Wertheiin questo modo, perché lo stile di mer, che soccomberà alla genialiBernhard, per la ripetitività, per i tà di Gould: non sopportando di temi che ricorrono, per i cambianon essere in grado di eguagliarmenti di ritmo e di velocità, ricorlo, o comunque di emularlo, finida proprio l’andamento delle Varà infatti per suicidarsi. In scena riazioni di Bach. Nadia ha inoltre con me c’è Marina Sorrenti, che sposato alle azioni mie e di Mariscandisce alcune parole ricorrenna alcune immagini, che duranti nel testo e che incarna un pate la messinscena vengono proietio di personaggi femminili. Uno tate alle nostre spalle e che sono di questi è la sorella di Wertheimolto funzionali allo spettacolo. mer, che ha un ruolo fondamenChe ruolo ha il gesto (penso anche tale nella vicenda: la donna assial gesto musicale) in questa pièce? ste e subisce il fratello per anni, riAnche se alcuni movimenti uscendo a liberarsi dalla sua morevocano degli stati d’animo – sosa solo una volta dopo essersi sposata e trasferita a vivere alprattutto quelli di Wertheimer –, in realtà non vanno moltrove. Per Wertheimer sarà proprio questo abbandono il colto al di là del sedersi o del camminare in un certo modo: sulpo fatale che lo spingerà al suicidio». la scena passo da un leggio a un altro (uno più basso e uno Il personaggio narrante, l’autore, che modalità di sconfitta più alto), oppure mi siedo su una grande poltrona situata nel vive? mezzo del palco che diventa una specie di centro delle azioni: queste comprendono anche gli interventi della Sorrenti, che a volte incarna la sorella di Wertheimer e altre diventa un conRoberto Herlitzka e Marina Sorrenti trappunto musicale mentre ripete alcune parole, quasi una nel Soccombente di Thomas Bernhard specie di colpi di tamburo o di bordone. ◼ secondo Nadia Baldi (foto di Gabriele Gelsi). «Il soccombente» di Bernhard approda al Goldoni A prosa Roberto Herlizka e il genio di Glenn Gould 53 prosa 54 A voce alta di quella prima esplosione del talento bernhardiano in Italia. Sul «Soccombente» di Thomas Bernhard A di Eugenio Bernardi nni fa, quando Adelphi pubblicò Perturbamento (1981), un attore-regista italiano ne fu fulminato e pensò subito di ricavarne uno spettacolo. Gli occorreva il permesso dell’autore, per cui andò in Austria, scovò la casa di Bernhard in mezzo alla campagna e si appollaiò nel boschetto circostante finché l’autore impietosito non lo fece entrare in casa. L’attore-regista gli parlò con entusiasmo del progetto che voleva assolutamente re- alizzare andando in scena lui stesso, ma trascinandovi anche la moglie malaticcia e perfino la figlioletta renitente. Bernhard, a quanto pare, lo ascoltò con sorprendente benevolenza, ma non disse né sì né no. Qualche tempo dopo, l’attoreregista si rivolse a me in quanto traduttore, e mi chiese di collaborare al progetto, per cui aveva già definito tutto, non solo la scena, ma perfino gli abiti che i personaggi avrebbero indossato, fra cui ricordo un certo tipo di loden, quello autentico, una specie di pastrano. Da parte mia, prima di mettermi al lavoro, volevo avere l’autorizzazione dell’autore e gli telefonai. Lasciava a me la decisione, disse, ma non capiva perché l’attore-regista volesse adattare per il teatro un testo in prosa, quando c’era una commedia bell’e pronta, in cui un attore-regista metteva in scena un proprio testo facendo recitare la moglie malaticcia e anche la figlioletta renitente. Il testo in questione si chiamava Der Theatermacher (Il teatrante) che Franco Branciaroli sta portando in tournée proprio in questi mesi. C’era davvero da chiedersi se Bernhard non fosse stato ispirato proprio da quell’incontro con l’attore-regista italiano e dai racconti di costui sulla moglie malaticcia e la figlioletta renitente. Le date lo fanno supporre e anche (o soprattutto) la capacità di Bernhard di trarre profitto anche dal minimo evento della sua solitaria vita quotidiana. Il progetto non ebbe seguito anche perché a Perturbamento seguirono altre traduzioni dello stesso autore, testi meno complicati Con il suo progetto quell’attore-regista toccava comunque un punto sostanziale della poetica dell’autore austriaco che per esitazioni editoriali arrivava tardi in Italia, e nei Paesi di lingua tedesca, oltre che per la provocazione delle sue tematiche, aveva suscitato quello stesso tipo di reazione: già i suoi primi lettori avevano intuito che quelle pagine andavano lette a voce alta, erano una specie di partitura, reclamavano una partecipazione fisica che era anche una specie di solidarietà. Ma di cosa parlava quella voce così suasiva, anzi ossessiva? Parlava per lo più di quanto fosse difficile scrivere un’opera, non un’opera qualunque, s’intende, ma un’opera che inglobasse scienza, letteratura e filosofia in modo tanto esausti- A sinistra, Glenn Gould. A destra, Thomas Bernhard nel 1987 (commons.wikimedia.org). Sopra, Franco Branciaroli nel Teatrante (foto di Umberto Favretto). perfezione inattingibile dell’arte , risulta disumana. Di questi sforzi ogni volta la narrazione non fa che percorrere il tracciato che è nello stesso tempo la testimonianza di una «volontà di arte» come la intendevano Nietzsche e Worringer, e la rappresentazione di un’impossibilità, di un fallimento. Proprio perché in una cultura al tramonto, imprese di questo tipo si rivelano iperboliche, sempre ai bordi della follia, incalzate nella loro ossessività dal pensiero della morte, esse possono collocarsi solo su uno sfondo altrettanto eccessivo tramite la rappresentazione drastica, ossessiva, radicale dell’ambiente in cui esse sorgono e con cui ogni conciliazione è esclusa, ogni compromesso impossibile in quanto esse ne rappresentano la massima opposizione. In questo senso va letto il Bernhard denigratore dell’Austria di oggi con tutti i cliché diffusi dalle mode letterarie e dalle aziende turistiche, l’Austria indegna del suo grande passato e della esplosione di creatività che caratterizzò la sua cultura alla svolta del secolo. Il soccombente ripropone queste tematiche con nuove varianti, ma anche con maggior forza di persuasione. Grossolanamente riassumendo, si tratta della storia di tre pianisti, di cui uno è il narratore,il secondo un suo amico di nome Wertheimer e il terzo Glenn Gould. I tre s’incontrano a Salisburgo a un corso di perfezionamento tenuto da Horowitz. Gould si rivela subito un genio e provoca una crisi radicale negli altri due. Ma mentre il narratore abbandona definitivamente il pianoforte e le proprie ambizioni, Wertheimer continua a scervellarsi su quell’esperienza, a dipendere da quello smacco al punto da togliersi la vita pochi giorni dopo la morte del pianista americano. Chi sopravvive è il narratore che, a differenza di Wertheimer, tenta di razionalizzare quell’esperienza traumatica scrivendo un saggio sul pianista famoso e su quello fallito, sul progetto culminato nel successo e su quello finito nella sconfitta. Si è notato che per la prima volta in Bernhard qui compare un artista che riesce a realizzare un ideale di perfezione. Eppure il titolo non allude a costui, ma a Wertheimer che è appunto il fallito. Ad attirare il narratore infatti non è solo lo splendore inattingibile di Gould, ma anche o soprattutto la vita disperata di Wertheimer, quell’andare a tentoni nell’oscurità peraltro tanto simile al procedere di questo testo che oscilla tra ciarle e sentenze, comicità e disperazione, fra l’attrazione della catastrofe e un’accanita urgenza di razionalità. Tutto questo mima d’altro canto anche l’atteggiamento del lettore stesso, trascinato di pagina in pagina da una voce suasiva che gli racconta i suoi stessi pensieri. E l‘esito della seduzione è proprio qui: nel coinvolgere il lettore trasportandolo in un gorgo in cui tutto viene rimesso in gioco, tutto appare incerto e provvisorio e dove l’umanità di un fallito è altrettanto attraente quanto la gloria dell’interprete perfetto. ◼ In alto, Robert Musil (commons.wikimedia.org). Qui sopra, Hermann Broch. 1. Di questa bellezza, nel Soccombente vi è un ricordo legato a Venezia, ossia una rappresentazione alla Fenice del Tancredi di Rossini, molto probabilmente quella memorabile con Marilyn Horne e Lella Cuberli (1982). prosa vo da imporsi come una visione del mondo, fosse una vera riproduzione sulla carta di quel complesso e sfuggente meccanismo che è il pensiero, e alla fine si presentasse, per dirla con uno di questi personaggi, come una «giacca da mettere definitivamente addosso al mondo». Imprese folli, degne del presidente Schreber, ma non del tutto estranee a tentativi dello stesso tipo che la letteraura moderna, e in particolare quella asburgica, aveva intrapreso, si pensi a Musil, a Broch. Nel caso di Bernhard però nella furia intellettuale-creativa dei personaggi vi è sempre la coscienza dell’impossibilità dell’obiettivo, della vanità dello sforzo, della sua assurdità: per alcuni già scrivere la prima frase dell’opus che hanno in mente è impossibile, anche perché il linguaggio si ribella alle costrizioni imposte dalla grammatica e alla fine ognuna di queste avventure intellettuali, sul cui orizzonte splende la 55 1 prosa 56 Le verità si scontrano nell’«Orazio» di Heiner Müller la indivisibilità / della persona che aveva compiuto / azioni così diverse». La soluzione che Müller propone seguendo le fonti antiche (il primo libro della storia di Roma di Livio) è un compromesso solo in apparenza salomonico. L’Orazio-vincitore viene incoronato con l’alloro e portato sugli scudi dalla truppa. Poi l’Orazio-assassino, persona indivisibile, viene giustiziato con la scure e gettato ai cani. «E chi nominerà la sua colpa / e non nominerà il suo merito / se ne stia come un cane tra i cani». Perché le parole devono rimanere pure, «non posdi Peter Kammerer sono essere spezzate / nell’ingranaggio del mondo». Altriome nessun altro autore di teatro Heiner Mülmenti «l’inconoscibilità delle cose è mortale» e distruggeler rifiuta le soluzioni. Il sipario si chiude, le ferirà la società. Ma si tratta di una soluzione «provvisoria», di te si aprono. Müller ama metuna verità «impura». Il dilemma morale tere lo spettatore davanti all’anon può trovare altra soluzione finché c’è poria, alla situazione insolubile. È lo spetguerra, finché regna la violenza. Marghera tatore che deve fare la sua scelta tra errori Lo stesso tema dell’uccidere con necesTeatro Aurora 13 aprile 2013, ore 21.00 impossibili da evitare. Così Müller spinge sità e dell’uccidere senza necessità viene L’Orazio di Heiner Müller il teatro didattico di Brecht alle sue estretrattato da Müller in Mauser (1970). Ma ideazione Simone Laggia me conseguenze. chi riesce ancora a distinguere? È la pistointerpreti Ilaria Cecchinato, Nel suo L’Orazio, scritto nel 1968 cola, la Mauser, che sviluppa una sua dinaCamilla Grandi, Ilaria Penzo, me commento agli eventi praghesi dello mica propria. «Parla, compagno MauEnrico Silvestri, Ilaria Squarise stesso anno, accade questo: Roma e Al- diretto da Elena Casalin, Simone Laggia ser», cantava Majakowski. Nella dinamiba, città nemiche, devono difendersi conca delle uccisioni di massa un rivoluziona- C tro gli etruschi, un nemico esterno che minaccia ambedue rio inizia a uccidere per abitudine. Ora anche lui deve essele città. Di fronte a questa contraddizione principale le due re eliminato nel nome della rivoluzione. Il verso «anche l’ercittà compongono il loro dissidio minore con un duello tra ba dobbiamo strappare, perché rimanga verde» diventa un due campioni risparmiando così «gli alritornello del dramma. La storia non protri (per la lotta) contro il nemico comucede verso un progresso glorioso, ma si rine». La sorte sceglie per Roma un Oravela essere una macelleria assurda. Solo la zio, per Alba un Curiazio, fidanzato con purezza della parola rimane come ultima All’Aurora la versione la sorella dell’Orazio. Quest’ultimo vin- della Vanguardia Nonsensista, speranza. C’è una immagine teatrale, cara ce. Il Curiazio chiede pietà, il vincitore peMüller sin dal 1956, quando Chruščëv giovane formazione mestrina adenunciava rò «cacciò la sua spada in gola al Curiai crimini di Stalin: «I monuzio». Roma esulta, ma la sorella davanti menti cominciano a sanguinare. Questo è alla tunica insanguinata del suo sposo griil momento della verità». da: «Roma, restituiscimi quello che stava dentro questa tuNel testo di L’Orazio manca qualsiasi indicazione delle nica». Il fratello vincitore, infastidito per il pianto della soparti. Non si sa chi dice che cosa. È un testo corale. Gli eroi rella, l’ammazza. «E questo accada a ogni donna romana / che pianga il nemico». Il giubilo ammutolisce. Poi gli uni A sinistra, La Vanguardia Nonsensista, gridano: «Onorate il vincitore» e gli altri: «Processate l’asL’Orazio di Heiner Müller. sassino». Il popolo deve decidere se il merito cancelli la colA destra, Cavalier d’Arpino, Combattimento pa o se la colpa cancelli il merito. «E il popolo rifletteva suldegli Orazi e Curiazi, 1612-1613 (Roma, Musei Capitolini). Un estratto da «L’Orazio» «Questo spettacolo è infame! Perfino gli albani Non potrebbero reggerlo senza vergogna. Gli etruschi sono schierati in armi attorno alla nostra città, e Roma spezza la sua spada migliore. Pensate a una cosa sola, pensate a Roma». Ma un romano lo rimbecca: «Roma ha molte spade; nessun romano vale meno di Roma, altrimenti Roma non vale niente». E un altro romano grida, indicando con il dito il luogo dove sta accampato il nemico: «L’etrusco raddoppia la sua potenza se Roma si dimezza per un contrasto di pareri in un processo intempestivo». Sopra, La locandina di Mauser secondo la compagine brasiliana Grupo Caos e Acaso de Teatro. A destra, Heiner Müller. E il primo insiste: «Un discorso non detto appesantisce il braccio che regge la spada; una discordia dissimulata dirada le schiere nella battaglia. Allora, per la seconda volta, i littori sciolgono l’abbraccio degli Orazi, e i romani si armano, ognuno con la sua spada: e anche chi teneva l’alloro, o la scure, si arma con la sua spada, così che adesso la sinistra tiene l’alloro, o la scure, e la destra la spada. Per un attimo, gli stessi littori, devono deporre le insegne della loro carica per rimettere a ognuno la spada nella cintola, e poi riprendono in mano fascio e bipenne. Ma l’Orazio si piega per prendere la sua spada, quella insanguinata, che stava nella polvere. E i littori, con fascio e bipenne, glielo impediscono. Allora il padre dell’Orazio prende anche lui la sua spada e va ad alzare con la sinistra quella, insanguinata, del vincitore, che era un assassino. E i littori glielo impediscono. Alle quattro porte venne rinforzata la guardia, e si andò avanti con il processo, mentre si aspettava il nemico. Quello dell’alloro dice: «Il suo merito estingue la colpa». Ma quello della scure ribatte: «La sua colpa estingue il merito». Quello dell’alloro chiede: «Si può processare un vincitore?» Ma quello della scure chiede: «Si può acclamare un assassino?» Allora, quello dell’alloro: «Chi processa l’assassino processa il vincitore». E quello della scure: «Chi acclama il vincitore acclama l’assassino». Il popolo rifletteva sulla indivisibilità della persona che aveva compiuto azioni così diverse. E taceva. Ma quello dell’alloro e quello della scure continuavano a chiedere se una cosa potesse essere fatta senza l’altra, che l’avrebbe disfatta. Da: Heiner Müller, Teatro I (Filottete, L’Orazio, Mauser, La missione, Quartetto), Ubulibri, Milano 1991. prosa non ci sono più. Con questa soluzione Müller offre l’occasione per una drammaturgia innovativa. Tutti possono/devono parlare e chi parla ha ragione. Le verità si scontrano. Il dramma didattico di Brecht è ridotto a un «modello». Il teatro di Müller porta in scena il confronto tra modelli vari o l’inserimento di un modello in un altro testo. Müller stesso mettendo in scena nel 1988 a Berlino Est Lo stakanovista ha voluto interrompere, o meglio, rompere quel testo inserendo L`Orazio in modo che un testo illuminasse l’altro. Lo scontro tra i testi, lo scontro tra situazioni e logiche diverse ci fa capire, nel teatro di Müller, il progresso e il fallimento della storia. Anche il suo teatro rappresenta, come sosteneva Schiller, poco amato da Müller, il vero tribunale della storia. Ma non è l’autore e non è nemmeno il coro a pronunciare una sentenza riservata unicamente a quell’altro coro, costituito dagli spettatori. ◼ 57 prosa 58 Lo splendido «Panico» di Luca Ronconi E ancora Spregelburd con «Todo» di Alessio Nardin È di Leonardo Mello un diavolo di commedia, che si presenta in un modo e poi man mano che la conosci cambia continuamente aspetto. Si capisce immediatamente, anche alla lettura, che è una specie di puzzle ironicamente filosofico, però ti dà l’impressione che questo sia solo un aspetto superficiale, di immagine. Poi, lavorandoci, ti accorgi che è tutto profondamente strutturato, che le battute si incatenano l’una all’altra secondo un principio preciso, e non secondo i canoni della commedia d’intrattenimento. Imbocchi una strada perché ti « sembra l’unica possile, necessaria e sufficiente, ma poi ti rendi conto che la strada non è mai dritta, che è un percorso accidentato e pieno di trappole. [...] Gli attori tendono per loro natura ad affezionarsi al personaggio, e pensano che sia quest’ultimo a determinare le situazioni. Invece nel Panico l’autore si diverte a mettere i personaggi in condizioni particolari per vedere come reagiscono. E capita spesso che un personaggio venga spossessato delle proprie battute, che vengono dette anche da qualcun altro. È una commedia piena di trabocchetti». Così Luca Ronconi, nell’intervista di Oliviero Ponte di Pino per il programma di sala, descrive Il panico di Rafael Spregelburd, che segue la messinscena, altrettanto splendida, della Modestia. E da queste parole è facile comprendere perché il maestro romano, da sempre incline alle sfide drammaturgiche e ai testi sfaccettati e complessi, rivolga così tanta attenzione al giovane autore dell’Eptalogia di Hieronymus Bosch (scelto, insieme a Gombrowicz, Pirandello e Scabia, anche per il decimo anno di attività del Centro Teatrale Santacristina, in cui è stata analizzata L’inappetenza, cfr. vmed n. 49, pp. 50-51). Difficile riassumere in poche parole la «trama» della pièce: come sempre infatti il drammaturgo argentino moltiplica i livelli, interseca le storie, offre esche spesso ingannevoli agli spettatori, costruendo un collage di grande potenza teatrale. Così, si incontrano una madre e i suoi due figli all’af- fannosa ricerca della chiave di una cassetta di sicurezza dove è contenuta l’eredità del padre/marito appena morto. Ma presto si scopre che questi aveva un’amante, cui aveva destinato una casa che ora una zelante quanto pasticciona agente immobiliare tenta disperatamente di allocare. Un altro quadro è poi quella della coreografa di fama che striglia i propri danzatori, tra i quali la figlia del famoso padre defunto. E così via in un incastro le cui tessere si dipanano e combaciano del tutto soltanto alla fine. Ma – al di là della mobilità delle situazioni, cui contribuisce efficacemente la scena «sghemba» di Marco Rossi – due sono i piani che si incontrano nello spettacolo: il primo è quello dei vivi, ritratti come sempre da Spregelburd in una dimensione grottesca di quotidianità, che ne mette spietatamente in luce le meschinità e i limiti; il secondo appartiene ai morti, e in particolare a quell’uomo appena scomparso, che nessuno ormai vede e sente più e intorno al quale però ruota tutta la vicenda. Qui l’affanno, l’ansia e la vertiginosità nevrotica dell’esistenza contemporanea sembrano finalmente trovare una pacificazione. Luca Ronconi, al solito, allestisce uno spettacolo strepitoso, che – nella sua coesione – mette in risalto anche l’aspetto meno ludico e più graffiante del teatrista porteño, in molte rappresentazioni oscurato dalla valorizzazione del conge- gno comico. In un’ambientazione neutra, che ricorda forse le astratte geometrie della mente o del sogno, il regista colloca magistralmente un cast stellare di attori. Essendo impossibile citarli tutti si ricordano almeno Francesca Ciocchetti e Maria Paiato, ormai espertissime interpreti spregelburdiane dopo il successo della citata Modestia, la pungente figura della coregorafa incarnata da Manuela Mandracchia, la sciatta, esilarante agente immobiliare di Iaia Forte e le giovani e bravissime Lucrezia Guidone e Clio Cipolletta. Sempre sul versante Spregelburd, una fresca, avvincente prova è poi stata quella della giovane compagnia trentina Evoè!Teatro, che ha allestito Todo (Tutto), un testo che nella sua tripartizione affronta i binomi cruciali Stato/burocrazia, arte/commercio, religione/superstizione. La semplice e indovinata regia di Alessio Nardin lascia campo libero agli attori – Silvio Barberio, Emanuele Cerra, Martina Galletta, Gabriella Italiano, Matteo Spiazzi, tutti molto convincenti – e permette loro, nella moltiplicazione dei ruoli, di esprimersi al meglio dando luogo a uno spettacolo teso e appassionante. ◼ A sinistra, Todo di Evoè!Teatro. A destra, una scena del Panico di Rafael Spregelburd secondo Luca Ronconi (foto di Luigi Laselva). C di Oliviero Ponte di Pino* ontinua il dibattito intorno ai Premi Ubu, il più importante riconoscimento del teatro italiano. Oliviero Ponte di Pino, membro del direttivo dell’Associazione Ubu per Franco Quadri – organismo promotore della manifestazione dopo la scomparsa del grande critico che l’ha istituita – esprime alcune considerazioni e pone alcuni interrogativi, anche sulla base di precedenti interventi di artisti e critici. Sono ormai due le edizioni dei Premi Ubu senza Franco Quadri, assegnati in due emozionanti serate al Piccolo Teatro «Paolo Grassi». Il bilancio è senz’altro positivo. Dopo la scomparsa del suo fondatore e animatore, non era affatto scontato che l’iniziativa potesse avere un seguito e mantenere la sua autorevolezza. La vitalità del Premio Ubu, con il successo di pubblico e di stampa delle due serate, è una conferma della bontà dell’idea originaria e dell’utilità di un riconoscimento che ormai fa stabilmente parte del panorama teatrale italiano. Una ulteriore riprova viene dal fatto che i premiati segnalino con enfasi il riconoscimento ricevuto nella documentazione che producono, nei loro curricula e nelle inserzioni pubblicitarie degli spettacoli. Va subito aggiunto che dare continuità all’iniziativa non è stato facile, in primo luogo per l’esiguità delle risorse. Nel 2011 è stato possibile organizzare la serata grazie al contributo una tantum (purtroppo!) di Unicredit, nel 2012 grazie al sostegno del Comune di Milano – Assessorato Cultura, Moda e Design, e alle quote d’iscrizione all’Associazione Ubu per Franco Quadri. Anche per questo assumono grande valore la fiducia e l’ospitalità del Piccolo Teatro di Milano, che ha accolto le serate al Teatro Grassi, sostenendo anche tutti i costi «tecnici». Il merito del successo va condiviso anche con i più di sessanta critici e studiosi (di tutte le tendenze) che hanno partecipato alle votazioni, e che hanno così contribuito anche a rafforzare l’identità e la credibilità del premio. Un altro risultato positivo è la realizzazione dell’elenco degli spettacoli della stagione, uno strumento ritenuto indispensabile dai votanti, visto che contiene gli spettacoli che hanno debuttato nella «finestra temporale» presa in considerazione in ciascuna votazione (1 luglio-30 giugno), con funzione di promemoria, sia per gli spettacoli inclusi sia per quelli esclusi dalle candidature. Una quota rilevante del budget delle edizioni 2011 e 2012 del Premio Ubu è stata destinata proprio ai redattori che hanno inserito le produzioni nel database (che è a disposizione di tutti, indicizzato e ricercabile alla pagina www.ateatro.org/premioubu2012.asp). L’iniziativa è ancora più significativa perché si pone in continuità con il Patalogo e con l’elenco degli spettacoli della stagione che apriva ogni edizione dell’Annuario del teatro curato da Franco Quadri: questo censimento, che procede ormai dal 1978, è un prezioso patrimonio di tutto il teatro italiano. In questi due anni, il Premio Ubu è dunque riuscito a darsi continuità, cercando di mantenere le proprie caratteristiche e la propria unicità, tra mille altri premi teatrali attivi oggi nel nostro Paese. Tuttavia non può restare immobile, uguale a se stesso. Deve evolvere. O meglio, deve continuare a evolvere, così come ha fatto con la guida di Franco Quadri per più di trent’anni: come ha detto Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro, «lo spirito originario va mantenuto, ma con il coraggio di una nuova interpretazione, di nuovi metodi e strumenti» («la Repubblica», 11 dicembre 2012). Proprio per questo sono particolarmente utili le sollecitazioni arrivate ai curatori del premio, sia da altri autorevoli uomini di teatro, sia dalla stampa, sia dagli stessi giurati, su differenti versanti. La composizione della giuria Per l’edizione 2011 si era deciso di mantenere stabile la composizione della giuria, ma già nell’edizione successiva è stato deciso di cambiarne leggermente la composizione. Sono infatti stati chiamati a partecipare tre nuovi criticistudiosi; mentre alcuni giurati «storici» non hanno partecipato alla votazione, perché assurti a ruoli direttivi in importanti realtà teatrali italiane, oppure perché spettatori non sufficientemente «assidui» nella stagione di riferimento. Insomma, la composizione della giuria continua inevitabilmente a cambiare, cercando di restare fedele ai criteri seguiti da Franco Quadri: serietà e indipendenza dei giurati, una base sufficientemente ampia per rappresentare una realtà variegata e dispersa sul territorio e dunque di intercettare il «nuovo», ovunque si presenti. Da questo punto di vista, l’evoluzione della giuria riflette la necessità di un ricambio generazionale. Una seconda criticità riguarda la provenienza geografica dei giurati. L’aveva segnalata nel 2011, con la consueta franchezza, Simone Nebbia su «Teatro & Critica» (http:// www.teatroecritica.net/2011/12/atlante-xii-da-utopiaal-premio-ubu-bene-comune/): «Abbiamo rintracciato una tendenza nord-centrica che marginalizza il centro-sud Italia e lanciato un nuovo capitolo del discorso attorno alla credibilità di un premio che troppo poggia sulla capacità di giro, sia degli spettacoli che dei giurati votanti»; la «tendenza territoriale si dimostra evidente dalla provenienza (stanziale, dunque) dei giurati: su 53 soltanto 17 sono sotto Firenze che ne ha 4, con 14 romani e 3 miseri sotto Roma». Questa “tendenza padana” era stata rimarcata anche da Camilla Tagliabue: «Si ha la sensazione, più che in passate edizioni, che gli Ubu 2011 siano stati assegnati con il manuale Cencelli (...): l’alloro più ambito (...) è andato a Dopo la battaglia (...) e The History Boys (...), prodotti rispettivamente da Emilia Romagna/Roma e Milano, i tre centri del potere teatrale. Eppure la geopolitica sta cambiando (...). Nord, comunque, straccia Sud: Napoli non pervenuta e il leccese Mario Perrotta si aggiudica un riconoscimento speciale» («Il Fatto Quotidiano»,16 dicembre 2011). Per quanto riguarda il «manuale Cencelli», una giuria abbastanza numerosa e che non prevede riunioni plenarie o assemblee operando in una dinamica di referendum, ne rende praticamente impossibile l’applicazione: caso mai a spingere verso la concentrazione dei voti è il meccanismo del ballottaggio. Del resto, la risposta più efficace alla «perplessità geopolitica» è arrivata dalla stessa Camilla Tagliabue, nel pezzo che ha dedicato all’edizione 2012: «Luca Ronconi (…) è rimasto a bocca asciutta, e con lui il Piccolo Teatro di Milano. Ma è tutta la città a uscire sconfitta a favore del Sud», e segue l’elenco dei «sudisti» trionfatori nel 2012, da Antonio Latella a Lino Fiorito, da Saverio La Ruina a Daria Deflorian, prosa - commenti I Premi Ubu: proposte di modifica 59 prosa - commenti 60 da Lucia Calamaro a Punta Corsara... («Il Fatto Quotidiano», 11 dicembre 2012). Sempre sul versante della composizione della giuria, Elio De Capitani, pluripremiato Ubu, suggerisce un cambiamento radicale: «Propongo che nella giuria entrino anche gli artisti premiati e con i critici vadano a formare una patafisica antiaccademia teatrale. Perché mantengano autorevolezza devono creare adesione, partecipazione, coinvolgimento. Devono essere una festa di tutti» («la Repubblica», 11 dicembre 2012). Al di là del fatto che le due serate al Piccolo Teatro sono state senz’altro caratterizzate da grande «adesione, partecipazione, coinvolgimento» del mondo teatrale, il suggerimento di De Capitani porta senz’altro molto lontano dall’ispirazione iniziale di Franco Quadri e dalla sua valorizzazione del ruolo specifico dei critici e degli studiosi di teatro. Del resto non mancano in Italia esempi di riconoscimenti nati con le migliori intenzioni e progressivamente risucchiati da logiche corporative e autocelebrative. Il lavoro dei giurati Un secondo livello di criticità viene rilevato da un altro membro di «Teatro & Critica», il direttore della rivista Andrea Pocosgnich, uno dei nuovi membri della giuria del Premio Ubu: «Neanche nel migliore dei mondi possibili ogni criti- co/giurato riuscirebbe ad assistere a tutti gli spettacoli prodotti nel Paese, ma il fatto che questo non avvenga neppure per gli spettacoli finalisti mette decisamente in crisi l’intero metodo di valutazione» (http://www.teatroecritica. net/2012/12/lettera-aperta-all’associazione-ubu-per-franco-quadri/). Pocosgnich propone un’ambiziosa soluzione: «Progettare una festa del teatro, un momento di trasparente dibattito. Che si apra un tavolo progettuale per trovare le risorse economiche, i partner e gli spazi con i quali creare, in una tempistica di 2/3 anni, un modello chiaro e funzionale. Una strada percorribile potrebbe essere quella di relazionarsi con più soggetti produttivi nell’ottica di istituire delle giornate nelle quali spettatori e giurati possano assistere a tutte le opere finaliste, sarebbe una festa del teatro e un importante momento di riflessione per critici, studiosi e appassionati». La proposta riprende quella già lanciata una anno prima, sempre su «Teatro & Critica», da Simone Nebbia, quando chiedeva «una vera e propria rassegna» dove «si portino in scena gli spettacoli, tutti i giurati li vedano, una vera settima- na della critica con tanto di concorso». A Pocosgnich ha risposto su questa rivista Roberta Ferraresi (un’altra neo-giurata, assai attiva sul piano editoriale e online sul Tamburo di Kattrin): «Senza valutarne la realizzabilità in senso economico e organizzativo – posto che, nel momento in cui l’iniziativa passasse di mano alle strutture produttive, si concretizzerebbe un orizzonte di conflitto difficilmente gestibile –, questa stimolante idea sul modello del tedesco Theatertreffen rischia di restare un’interessante utopia» (cfr. vmed n. 50, p. 56). Insomma, al di là delle difficoltà pratiche pressoché insormontabili, nota la Ferraresi, una proposta di questo genere rischia di riportare il premio all’interno delle logiche del teatro italiano, rischiando di comprometterne l’indipendenza e alla lunga l’autorevolezza. Per quanto riguarda la composizione della giuria, si è già accennato all’inevitabile ricambio, che è già in corso. Il direttivo della Associazione Ubu per Franco Quadri ha ricevuto alcune candidature (e autocandidature), e altre presumibilmente ne riceverà in futuro: verranno tutte vagliate con la massima cura. Le categorie Un secondo versante di criticità viene rilevato da Claudia Cannella, in una e-mail all’Associazione Ubu: «Forse anche le categorie del premio andrebbero adeguate ai tempi...». Renato Pa la zzi, nell’accompagnare le sue candidature al primo turno, scriveva: «Urge, forse, individuare nuove categorie che consentano di diversificare meglio, di distinguere tra creazioni fortemente innovative, come Reality, per fare un esempio, e spettacoli di grande respiro produttivo come The Coast of Utopia, che chiaramente non possono essere valutati con lo stesso metro». Alla prova dei fatti, i due spettacoli indicati da Palazzi hanno vinto entrambi premi «maggiori». Di fatto, all’interno del meccanismo del Premio Ubu esiste da sempre la possibilità di valorizzare produzioni e realtà «anomale» e «fortemente innovative», grazie alla categoria delle «segnalazioni». La storia di questi decenni dimostra che molte realtà scoperte e lanciate da un riconoscimento in questa categoria sono poi approdate ai premi maggiori. Sono poi arrivate alcune proposte specifiche sulle diverse categorie in cui è articolata la scheda di votazione. Andrea Pocosgnich esprime i suoi dubbi su diverse denominazioni. In primo luogo la «Regia»: «Possiamo pensare ancora alla regia come quell’attività che ha il compito di far confluire insieme tutte le pratiche e le professionalità del teatro dirigendole come si dirige un’orchestra? Che fine fanno le regie collettive oppure, al contrario, gli artisti che lavorano solo su se stessi? Perplessità da parte di Pocosgnich anche sulla categoria «Attore» («Reputiamo sia utile sostituirlo o affiancarlo con to» non ufficiali emerse dai risultati di questi anni: «Basti pensare alla consistente presenza di alcune strutture che si distinguono per particolari slanci produttivi, (…) realtà che propongono progettualità culturali di ampio respiro, (…) il versante pedagogico-formativo»; del resto è propria questa una delle caratteristiche del Premio Ubu: «Non si limita al livello estetico», ma «lascia emergere le pressioni produttive e il lavoro dei tanti spazi che costellano la penisola, così come il lavoro dei numerosi maestri che si muovono oggi dentro e – soprattutto – fuori il teatro». sultati significativi: proprio per questo era stata coniata una nuova «categoria-ombrello», «Risultati tecnici da segnalare» (dal Patalogo quattro), diventata poi – attraverso varie denominazioni – il più generico «Segnalazioni» (a partire dal Patalogo nove). Commenta la stessa Roberta Ferraresi, sul versante della precisione nomenclatoria e delle categorizzazioni: «L’elasticità di tali divisioni [tra categorie, ndr.] è stabilita innanzitutto dai referendari che le votano: un indizio, per quanto riguarda la categoria «Attore», è la presenza (peraltro non inedita) di uno dei più affermati prototipi dell’attore-autore italiano, Saverio La Ruina. Oppure, basti pensare al recente predominio di una generazione tutta nuova di registi che – proprio in questi anni in cui la categoria sembra in crisi, guadagnando un proprio prefisso “post-“, e proprio in un Paese dove, a differenza della scena internazionale, non l’ha mai fatta veramente da padrona – da qualche tempo sta scuotendo i palcoscenici nostrani: quest’anno presente con Antonio Latella e Marco Tullio Giordana, ma anche, negli anni scorsi, con il coreografo Virgilio Sieni. Definizioni più precise – come è stato proposto – volte a introdurre la cosiddetta “ricerca”, la danza o la performance, oltre a contraddire in parte il piglio transdisciplinare che distingue i Premi fin dall’origine, rischierebbero forse di valorizzare ulteriormente divisioni e promuovere addirittura ghettizzazioni». Roberta Ferraresi identifica poi alcune «categorie di fat- Attualmente l’unico partner istituzionale del Premio Ubu (attraverso l’Associazione Ubu per Franco Quadri che lo cura) è – tramite l’Assessorato Cultura Moda e Design – il Comune di Milano (che si può dire da sempre partner del Premio, con piccole interruzioni). Il Premio Ubu si celebra dalle sue origini a Milano, a Milano ha sempre avuto sede la Ubulibri. Anche in considerazione della «milanesità» di Franco Quadri, l’archivio della Ubulibri-Franco Quadri è affidato a un’istituzione cittadina come la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. Negli scorsi mesi, sono stati presi (o richiesti) contatti con realtà che operano in altre città italiane, e che potrebbero proporsi di ospitare la manifestazione. Rapporti con le istituzioni Un ultimo fronte riguarda il ruolo e i rapporti istituzionali del Premio Ubu. Scrive, sempre nella sua e-mail, Claudia Cannella: «Forse bisognerebbe convincere un’istituzione (...) a farsi patron del Premio, che poi gestirebbe in accordo con l’Associazione...». Di tutto questo, ne discuteremo a Milano Quelli qui raccolti sono alcuni dei suggerimenti ricevuti, in via privata o pubblicamente, sull’evoluzione del Premio Ubu. Sono tutte proposte che meritano di essere discusse nel dettaglio, anche a partire dal dibattito che si è già aperto, fuori e dentro l’Associazione, e che può arricchirsi di ulteriori contributi. Alla prossima Assemblea dell’Associazione Ubu per Franco Quadri (in programma a Milano il 23 marzo), i soci potranno approfondire i diversi punti. ◼ *Membro del direttivo Associazione Ubu per Franco Quadri prosa - commenti il termine performer») e su quella «Attore/Attrice protagonista e non protagonista» («Risultano estremamente limitanti perché riferite a un modello di teatro che è uno e uno solo dei tanti, legato a certe forme codificate, cui non tutti i lavori contemplati nella valutazione fanno riferimento»). Elio De Capitani propone invece di inserire un’ulteriore categoria, «Costumi»: «Assurdo che non ci sia»; Roberta Ferraresi suggerisce di inserire le «Musiche». Nell’insieme, i suggerimenti rientrano in due tipologie. Da un lato si propone una diversa dicitura per alcune categorie già presenti. Dall’altro si suggerisce l’inserimento di nuove categorie. O meglio, in diversi casi, il loro reinserimento: nelle prime edizioni del premio erano infatti previsti riconoscimenti sia per i «Costumi» (a partire dal Patalogo uno) sia per il «Miglior spettacolo con musiche» (a partire dal Patalogo due). Ben presto era stato ritenuto opportuno far cadere queste categorie, perché difficilmente si approdava a ri- 61 arte 62 «Postwar Protagonisti italiani» secondo Luca Massimo Barbero alcune tele emblematiche del suo percorso – si guardi a Concetto spaziale del 1951 e Concetto spaziale del 1957, opere che, da poco donate alla Peggy Guggenheim, incarnano rispettivamente l’invenzione monocroma del concetto spaziale «buchi» e la sua opera più propriamente materica, realizzata con pietre interpretabili come chiaro «residuo» dell’Informale –, nella sala a lui dediacata è presente Quanta (1960), magistrale lavoro proveniente dalla Fondazione Lucio Fontana di Milano: si tratta di nove elementi rossi tridimensionali, una sorta di costellazione con buchi e tagli che anticipadi Ilaria Pellanda no le shaped canvases, tele sagomate tipiche dell’arte americapoco più di dieci giorni dalla na di quegli anni. Nella sua essenzialità conchiusura della bellissima – è procettuale questo lavoro dialoga in contrappunprio il caso di dirlo – mostra dedito con le ceramiche degli anni cinquanta, fra Venezia cata a Capogrossi (cfr. vmed n. 48, Collezione Peggy Guggenheim le quali emergono tre piatti la cui creatività è pp. 52-53), lo scorso 23 febbraio la Collezione in bilico tra il Barocco e la grande deflagraziofino al 15 aprile Peggy Guggenheim ha inaugurato il proprio ne dell’Informale. 2013 con «Postwar. Protagonisti italiani». Si incontrano quindi cinque opere di Piero Affidata ancora una volta alla cura di Luca Massimo BarbeDorazio, tra i fondatori della pittura astratta italiana, i cui rero, la nuova esposizione affianca cinque capisaldi del nostro ticoli ottici e strutturali si espandono sulla tela – ad esempio secondo dopoguerra: Lucio Fontana (1899-1968), Piero Doin Antelucano del 1962 – a illustrare una luminosità e un percorso rigoroso del segno, che si articola in incroci ma soprattutto in colore. La ricerca astratta dell’artista emerge con vigore nel dipinto Mar maraviglia, sempre del ’62, e in Unitas del 1965, opera perno di questa seconda sala insieme alla monumentale tela Durante l’incertezza (’65). Superficie, sintesi e grande oggettivazione della ricerca sono il risultato della sala dedicata a Enrico Castellani, che catalizza lo sguardo dell’osservatore sull’ipnotica Superficie angolare rossa del 1961, esposta accanto a Superficie bianca del 1967 e a Superficie bianca del 1974, qui presentata al pubblico per la prima volta. La sala di Paolo Scheggi riporta all’attenzione le innovative ricerche visive dell’artista toscano: su una parete scorrono le tre Intersuperfici bianche a cui fanno da contraltare le tre Intersuperfici della cromia nera. Ai due estremi opposti della sala, Intersuperficie curva arancio (1969) e Intersuperficie curva rossa vanno a creare un notevole effetto cromatico. Il nome di queste tele rimanda al percorso che lo sguardo compie attraverso i diversi piani che le compongono e allude all’interazione dello spettatore con esse. L’esposizione si chiude con l’approfondimento dedicato a Rodolfo Aricò in due sale che presentano quelle opere che, realizzate tra il 1966 e il 1970, vedono la definizione della sua particolarissima pittura oggettuale: quelle shaped canvases che l’artista matura confrontandosi con le indagini internazionali sulla riduzione espressiva, dall’astrazione post-pittorica di Morris Lourazio (1927-2005), Enrico Castellani (n. 1930), Paolo Schegis e Kenneth Noland alle volumetrie strutturali e primarie gi (1940-1971) e Rodolfo Aricò (1930-2002) sono infatti gli del Minimalismo di Donald Judd e Sol LeWitt. L’origine ospiti d’onore di un percorso che si snoda in sale monografidelle forme di Aricò è una sorta di grande nuova meditazioche e che «rilegge» l’idea di arte italiana a partire dal supene contemporanea della cultura visiva europea: un percorso ramento dell’Informale. a ritroso che parte dalle avanguardie storiche d’inizio NoveL’allestimento, che si sviluppa cronologicamente stanza per cento per approdare alla relazione attiva con la pittura prostanza, presenta la sperimentazione di ciascun autore e dispettica rinascimentale di Paolo Uccello, espressa dall’opemostra come, proprio a partire da Fontana, le generazioni ra del 1970 che porta proprio il nome dell’artista fiorentino, successive abbiano raggiunto pienamente un linguaggio pitStudio 2. Paolo Uccello. ◼ torico personale in un momento ben specifico della loro produzione, tra gli anni sessanta e settanta del xx secolo. Paolo Scheggi (1940-1971) In veste di padre ideale delle ricerche artistiche contemIntersuperficie curva dal giallo, 1969 poranee del secondo dopoguerra italiano e internazionale, (acrilico su tele sovrapposte, cm 120x120; Collezione Franca e Cosima Scheggi). è dunque Lucio Fontana ad aprire l’esposizione. Insieme ad A rità creativa, e ci permettono, appunto, di apprezzare la sua evoluzione stilistica e l’inesauribile inventiva. Per quanto riguarda le opere restaurate, a Villa Manin possiamo ammirare il ciclo tiepolesco di soprarchi e pennacchi della chiesa veneziana dell’Ospedaletto, con il Sacrificio di di Eva Rico Isacco e la serie di Profeti, Evangelisti e Dottori della Chiesa. Questo lavoro, portato a termine da un giovanissimo Tiepoel 1971, in occasione del secondo centenario lo, può oggi essere osservato da vicino, dopo l’opera di pulidella morte di Tiepolo padre, ebbe luogo a Viltura e restauro necessaria a causa dell’incendio sofferto dalla la Manin una mostra che permise al grande pubchiesa il 4 maggio 2010, che rovinò irrimediabilmente il soblico di conoscere uno dei più prarco con i Santi Girolamo e Agostino. Coimportanti artisti veneziani del Settecento sì l’occasione è doppia: non solo contemplia(se non addirittura il più importante di tutmo queste opere quasi come fossero appena ti). Dopo più di quarant’anni, si ripropone state create dai pennelli dell’allora ventenne Villa Manin ora nello stesso luogo una nuova esposizione Giambattista, ma abbiamo anche la probaPassariano di Codroipo (Ud) monografica a lui dedicata. Tante cose sono bilmente irripetibile opportunità di veder«Giambattista Tiepolo» cambiate in tutto questo tempo: per cominle da vicino, giacché a breve torneranno al fino al 7 aprile ciare, la grandiosa villa dell’ultimo doge di posto per cui furono create e che loro corriVenezia è divenuta referente culturale a livelsponde, a un’altezza di tredici metri e mezlo non solo locale ma anche nazionale. Poi, gli studi sul pittozo da terra! re sono immensamente progrediti, in gran parte grazie al laEcco poi la grandiosa tela tratta dal Duomo di Este, Sanvoro di restauro di diverse sue opere, alcune delle quali abbiata Tecla intercede per la liberazione della città di Este dalla pestilenza, un capolavoro della maturità dell’artista dove egli mette in pratica la sua famosa dichiarazione secondo la quale «li pittori devono procurare riuscire nelle opere grandi (...), quindi la mente del pittore deve sempre tendere al Sublime, all’Eroico, alla Perfezione». Il dipinto, di grandi dimensioni (675 x 390), fa riferimento alla terribile epidemia di peste del 1630, la stessa di cui parla ampiamente Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, e per la quale, fra molti altri edifici votivi, si costruì a Venezia la chiesa della Salute. Più di un secolo dopo (1758), la città di Este volle ricordare la sconfitta dell’epidemia grazie all’intervento di Santa Tecla, e si rivolse a Giambattista Tiepolo, che allora godeva già di grande fama. In mostra si può vedere anche un interessantissimo video che illustra passo a passo lo stupefacente lavoro di restauro. E per documentare l’evoluzione stilistica del Tiepolo fra questi due capolavori restaurati si inserisce un gran numero di opere di piccole dimensioni e di disegni, che comprendono tutta la produzione del maestro. Troviamo deliziosi bozzetti per dipinti di grande formato che ricordano le note parole di Sebastiano Ricci, senza dubbio messe in pratica da Giambattista: «Perché questo non è modello ma quadro terminato (...). Questo piccolo è l’originale, e la pala d’altare è la copia». Ai quadri di soggetto religioso si affiancano dipinti profani, che non solo danno conto della grande cultura di Tiepolo, ma ricordano pure le sue feconde frequentazioni, come quella con i Zanetti, con Scipione Maffei e, in particolare, con Francesco Algarotti, al quale lo stesso Tiepolo, mentre lavorava in Villa Cordellina a Montecchio, infastidito per la lontananza da Venezia e per le continue occasioni mondane, scrisse: «Giuro che mi sarebbe più caro stare un giorno in compagnia sua e di parlare di pittura che tutti li divertimenti di questa villa, che mi creda non è pochi». In cambio, il pittore ottenne i più entusiastici elogi dal letterato, che lo considerava «il miglior pittore di Venezia, l’uomo più amabile che si possa desiderare», e con il quale dichiarava di aver stretto «l’amicizia più pura immaginabile». mo oggi la possibilità di ammirare esposte. Insieme a queste, Insieme a queste pitture, negli ampi spazi espositivi si inè raccolta un’accurata selezione di disegni e dipinti di divercontra una considerevole raccolta di disegni preparatori, so formato e tematica, che abbracciano tutta la vita «produtschizzi, appunti fatti a penna, inchiostro o acquarello, pativa» di Giambattista, dalle sue prime esperienze alla matuesaggi più o meno fantastici, bizzarri pulcinella, studi anatomici e ritratti, come quello bellissimo del figlio Lorenzo. Tanto la mostra come il catalogo sono stati curati da GiuGiambattista Tiepolo, Il Tempo scopre la Verità, Pinacoteca di Vicenza. seppe Bergamini, Alberto Craievich e Filippo Pedrocco. ◼ N arte Tiepolo torna a Villa Manin 63 fotografia 64 La parola a Gianni Berengo Gardin In questo mezzo secolo qual è stato l’evento o l’anno che maggiormente hanno caratterizzato la storia contemporanea? Senza dubbio il Sessantotto, sia per i movimenti politici sia per l’inchiesta che feci con Carla Cerati nei manicomi per Franco Basaglia e che prese il nome di «morire di classe». Nea cura di Denis Curti gli anni settanta, invece, mi ha segnato il reportage fatto con Cesare Zavattini su Luzzara. Più recentemente, la ricerca conentotrenta fotografie rigorosamente in dotta sugli zingari che mi ha portato a vivere in tre campi nobianco e nero, questa è la tua «cifra» stilistica. madi. Esempi di questi reportage sono esposti nella mostra e Da sempre prediligo il bianco e nel libro Storie di un fotografo ai Tre Oci. Ho nero, i miei maestri (Henri Carscelto poche immagini. Quelle più significatitier Bresson e Willy Ronis fra tutti) mi hanve, per lasciare spazio a una mostra più ampia, Venezia no fatto conoscere una poetica fotografica che con una narrazione visiva più aperta e più conCasa dei Tre Oci era tutta in bianco e nero. Ma non si tratta socentrata sulla figura umana. Gianni Berengo Gardin lo di una questione generazionale, penso che il Da qui la tua continua attenzione agli occhi e «Storie di un fotografo» colore distragga il fotografo e chi guarda le imai volti della gente, ai luoghi del lavoro. fino al 12 maggio magini. Penso che il colore sia per il paesaggio, Il mio lavoro non è assolutamente artistico. E il bianco e nero è per il reportage: gli eventi, la non ci tengo a passare per un artista. L’impestoria. Comunque, detto per inciso, nel bianco e nero esistogno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sono tutte le sfumature di bianco e dei grigi. C’è la ricchezza dei ciale e civile. Oggi, purtroppo, non va più così: è un’esperiensentimenti di una narrazione lineare e coerente. za diversa, un lavoro portato avanti con le gallerie. Per me, in- C 1. Il tuo lavoro di reporter dura da oltre cinquant’anni e tu hai spaziato nel tempo e nei luoghi. Come ci si sente di fronte a tante storie vissute? Ho cominciato nel 1954 a lavorare seriamente con la macchina fotografica. Anzi, a me piace dire che è più di mezzo secolo, perché fa più impressione. Finché ci sarà la salute continuerò a fare questo mestiere. Anche in questo periodo lavoro parecchio e a oggi ho realizato più di duecento fotolibri. Dagli esordi come reporter alla realizzazione di progetti sociali ho archiviato oltre 1.500.000 di negativi. Ho girato il mondo con la macchina fotografica al collo e ho sempre usato la pellicola. 2. vece, è inconcepibile fare una copia in tiratura di pochi esemplari: la fotografia deve andare o sulle riviste o sui libri. D’altra parte, la macchina fotografica non nasce per fare della pittura. Nonostante la lunga carriera senti ancora la voglia di fotografare, da dove ti arriva tutta questa energia? Dal bisogno di raccontare, soprattutto di documentare. Sono tuttora coinvolto di quello che faccio, non è routine, e vivo come testimone del nostro tempo. La fotografia diventa la testimonianza. Quello che ci fa ricordare come eravamo e come è cambiata la nostra vita, non solo il paesaggio . Parlando di reportage, ma soprattutto di narrazione, la foto- © Gianni Berengo Gardin/Contrasto 1. Lido di Venezia 1958. 2. Venezia 1959 (piazza San Marco). 3. Venezia 1958. 4. Yugoslavia 1979. immagini hanno di suscitare emozioni e possibilmente delle reazioni che possono generare certi scatti. Cosa ti resta di questa, oserei dire, inestimabile collezione di immagini: ricordi, consapevolezza, nostalgia? Naturalmente tanti ricordi, ma una cosa mi è molto cara: la consapevolezza di essere riuscito a raccontare storie senza pregiudizi. Credo che questo sia un modo per rendere più leggibile la complessità del mondo Qual è il ruolo del fotografo? Sono tanti i ruoli, o meglio i tipi di fotografi: chi fa architettura, paesaggio, ritratto… Io sono un narratore, voglio raccontare delle storie, fotografo la gente di tutti i giorni, quelli che non vengono notati, cerco di fare foto serie e non dei gossip. A chi devi il tuo successo? Devo tutto alle mie macchine fotografiche, soprattutto la mie Leica, vere e fedeli compagne di vita, usare la macchina fotografica ancora oggi mi fa andare avanti e guardare al futuro. ◼ fotografia grafia resta ancora un fatto culturale? Per quanto mi riguarda ho sempre raccontato il nostro tempo. La vita politica, i cambiamenti sociali, gli eventi che hanno marcato la storia del nostro Paese. Le fotografie sanno cogliere uno spaccato del nostro tempo e questo è certamente un fatto culturale. Con questa grande mostra, cosa vuoi raccontare che non è ancora stato detto? Credo che in questa retrospettiva ci sia tanto mondo, un racconto per immagini. Credo che non esca solo il mio punto di vista ma un insieme di visioni passate, ma che ci riguardano ancora oggi. Ci sono storie con tanta quantità umana che ci permette di ragionare, ma anche di guardare avanti con maggiore consapevolezza. In cosa queste immagini raccontano il nostro Paese? La vita per le strade, la gente che si incontra per caso, gli abbracci sorprendenti e spontanei, in ogni foto, ciascuno di noi ritrova un po’ di se stesso, della sua storia, dei suoi ricordi. Le folle, l’infanzia e il tempo, il lavoro. Tutto questo ci por3. ta a ricordare, a pensare, a ragionare. A proposito del reportage sugli zingari, cosa hai imparato ad apprezzare di questo popolo? La generosità, la poesia e la musica. Per me è stato difficile entrare in quel mondo. Gli zingari sono sempre prevenuti nei confronti della macchina fotografica proprio perché, solitamente, si fotografa il lato negativo della realtà. Ho scoperto, poi, che durante la guerra nella ex Yugoslavia fuggivano molti delinquenti che, giunti in Italia, si andavano a «nascondere» all’interno dei campi nomadi grazie al fatto che parlavano la stessa lingua. In una scala ipotetica di va4. lori qual è il segno distintivo della tua carriera, intendo dire: qual è la spinta che ti permette di scattare una determinata foto? Curiosità, umanità, ricerca della verità? Credo nella convinzione e nell’importanza di essere testimoni della storia. Credo nella persuasione e nel potere che le 65 in vetrina 66 Fondazione Levi: dieci anni di concerti per le Sacre Ceneri N di Giorgio Busetto el 2003, con l’avvento alla presidenza di Davide Croff, la Fondazione Ugo e Olga Levi si propose di contribuire all’offerta culturale di Venezia successiva al Carnevale con un concerto di musica sacra quaresimale da tenere il mercoledì delle Ceneri. Si trattava di corrispondere ad una richiesta che da più parti si era levata in rapporto all’annosa questione della cattiva distribuzione dei programmi di maggiore attrattiva turistica, vale a dire mostre e spettacoli, che si condensavano e spesso sovrapponevano in determinati periodi dell’anno, lasciandone piuttosto vuoti certi altri. Passata la sbornia del Carnevale bisognava attendere la Pasqua per vedere rimettersi in moto la macchina dell’offerta culturale. A quel tempo si chiedeva, o almeno lo chiedevano le categorie economiche interessate, di incentivare il turismo, che pur continuava a crescere, con il consueto strascico di polemiche, sicché tanto il Promove quanto l’apt aderirono all’iniziativa nella prima edizione del 2004. La direzione scientifica della Fondazione era all’epoca retta da Giulio Cattin, per decenni docente di storia della musica a Padova, oggi presidente onorario della Levi, mentre tra gli studiosi a lui più vicini operavano Giovanni Morelli, che professava musica contemporanea nell’ateneo veneziano di Ca’ Foscari, e Antonio Lovato, allievo di Cattin, lui pure docente a Padova e suo successore alla guida del Comitato scientifico della Levi dal 2006. Cattin apriva il primo libretto di sala di quella che sarebbe poi divenuta una serie che ha ora toccato le dieci unità, con una sorta di brevissimo editoriale, che introduceva e motivava la manifestazione dettando la linea che sarebbe poi stata sempre seguita: «Quest’anno, per la prima volta, la Fondazione Ugo e Olga Levi ha pensato d’inaugurare il tempo della Quaresima con un concerto di musica sacra che segni nettamente l’avvenuta conclusione del Carnevale. La liturgia, con il rito delle Ceneri, costituisce di per sé un segnale inequivoco e forte, ma è forse possibile offrire un messaggio che, altrettanto chiaramente indichi la realtà di un cambiamento e lo faccia in una forma più facilmente comprensibile all’uomo d’oggi.[…] L’esecuzione, pur proponendosi come momento di seria riflessione, con la bellezza dei suoi brani non rinuncia ad essere occasione di godimento spirituale». Sono concetti che più avanti saranno ripresi da Lovato con riferimento alla teologia della croce: «L’iniziativa […] intende contribuire alla riscoperta di questo patrimonio di profondo significato religioso e culturale, realizzando con cadenza annuale l’ascolto di composizioni originali attraverso l’esecuzione di complessi specializzati». Nonostante queste dichiarate intenzioni e l’attiva partecipazione di Chorus, Associazione di numerose chiese di Venezia, non mancò qualche polemica di fonte ecclesiastica, che vedeva nella circostanza più apprezzato l’aspetto ludico spettacolare che non quello meditativo proprio della preghiera in musica, che caratterizza il canto sacro come colloquio col divino. Per le prime due edizioni del concerto Cattin scelse di avvalersi del Coro Athestis diretto da Filippo Maria Bressan, con un programma inaugurale di testi di Palestrina, Monteverdi e Scarlatti, disposti secondo lo schema di una liturgia eucaristica in «una sorta di escursione fra vetta e vetta della più sofisticata ricerca di innovazioni stilistiche dell’arte polifonica» e nel secondo anno «un arduo confronto fra le espressioni della ispirazione mistica del sentimento penitenziale fra età barocca e immediata contemporaneità» (Morelli) con Desprez, Palestrina e Allegri alternati a Urmas Sisask. Per la terza edizione del 2006 Morelli propose a Cattin di virare su un programma etnomusicologico, segnalando per l’esecuzione tre gruppi popolari di grande tradizione storica: «I Cantor ed Monc» di Monchio delle Corti (Parma); la «Compagnia Sacco» di Ceriana Ligure (Imperia) e il gruppo siciliano de «I Lamentatori di Montedoro» (Caltaniset- ta). L’iniziativa, rafforzata dall’adesione, che non sarebbe più venuta meno, della Fenice e della Cassa di Risparmio di Venezia, riscosse un grande successo di pubblico e così si stabilizzò la ricorrenza, celebrata sempre, sino alla nona edizione del 2012, nella chiesa di Santa Maria Formosa. Dalla quarta edizione del 2007, attesa la maturità dell’evento, Lovato introdusse una formulazione a carattere seriale, dedicando ogni anno ad un secolo, presentando il concerto con un dotto libretto di sala, videoregistrando le esecuzioni, in modo da disporre di materiali documentari relativi alla prassi esecutiva e da poterli anche tradurre in cd o dvd. L’avvio con l’Ensemble Oktoechos – Schola Gregoriana di Venezia, direttore Lanfranco Menga, è proposto come «un invito a ripartire dalle radici della nostra civiltà con un programma di testi e canti del periodo medievale, in cui intonazioni monodiche […] si alternano a composizioni della prima polifonia d’arte e con testimonianze prossime alla sensibilità popolare». Da questo concerto la Fondazione Levi ha pubblicato con l’editore Tactus di Bologna il cd Crucem tuam adoramus, in cui è presente anche una delle prime polifonie, le Lamentationes a due voci di Johannes de Quadris, musicus in San Marco agli inizi del sec. xv: Il passo successivo (2008) programma una serie di Laude, «cantasi come» e intonazioni «a modo proprio» dei secoli xiii-xvi nell’esecuzione dell’Ensemble Micrologus diretto da Patrizia Bovi, che mantiene il carattere religioso e popolare come aspetto caratteristico dei canti, pur se elevati ad Le edizioni 2012 (sopra) e 2009 (a fronte) del concerto delle Ceneri. celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di istituzione della Levi ed è stato perciò preceduto da una tavola rotonda che è stata anche un’occasione di presentazione del restauro di Palazzo Giustinian Lolin, dove si è svolta, nel salone di rappresentanza del primo piano nobile. Il tema era «Musica e musicologia: prospettive della Fondazione Levi a 50 anni dalla nascita» e sono intervenuti il vicepresidente della Fenice Giorgio Brunetti, il presidente della federazione nazionale delle corali Sante Fornasier, il direttore della rivista «Amadeus» Gaetano Santangelo e Lovato, mentre la manifestazione è stata presieduta da Croff. Nel frattempo è cambiato il parroco di Santa Maria Formosa e col nuovo curato le esigenze liturgiche hanno impedito lo svolgimento del concerto all’ora consueta e dunque si è dovuta scegliere una nuova sede: grazie alla collaborazione dell’Istituto di Santa Maria della Pietà che ha messo a disposizione la famosa chiesa di Vivaldi affacciata sul bacino di San Marco qui si è tenuta l’edizione 2013, Canti della Passione e di lode tra spirito romantico e culto dell’antico, musiche dell’Ottocento eseguite dall’ensemble Reale Corte Armonica «Caterina Cornaro» (soli e coro da camera) con l’Orchestra da camera «Lorenzo Da Ponte», con la direzione di Roberto Zarpellon. Marco Manzardo, che ha curato l’iniziativa, ha recuperato nella Biblioteca della Fondazione Levi un inedito Miserere di Antonio Buzzolla conservato nel fondo musicale della Procuratoria di San Marco lì depositato. Nel programma figuravano poi un canto funebre rinascimentale di Michael Weisse musicato da Johannes Brahms; uno Stabat Mater di Pierluigi da Palestrina nella revisione di Richard Wagner, proposto come omaggio al sommo compositore tedesco nella ricorrenza del secondo centenario della nascita; e un Te Deum di Felix Mendelssohn-Bartholdy, fiorito di echi di Giovanni Gabrieli, Monteverdi e Bach: due opere giovanili di due dei massimi esponenti del romanticismo tedesco a fronte di due canti della Passione di scuola italiana. Nell’insieme dunque la serie dei concerti delle Ceneri disegna un percorso coerente, persino didattico, che risente nella formazione dei programmi del rigoroso lavoro musicologico che sta loro alle spalle e che ben corrisponde alle scelte che da decenni hanno caratterizzato l’attività della Fondazione Levi e che negli ultimi anni si son venute precisando ulteriormente nelle direzioni della divulgazione quale corollario necessario della ricerca, come pure dell’esecuzione altrettanto corrispondente al lavoro musicologico. La lunga durata nel tempo consente di trarre un bilancio dell’esperienza di questi dieci concerti. Va sottolineato che la ritualità dell’appuntamento consente da un lato la crescita del pubblico, sempre più numeroso e preparato, dall’altro l’affinamento di numerosi aspetti organizzativi, mentre appare quasi come una rassegna di belle competenze musicali, per lo più venete, affermate o da valorizzare. Va anche sottolineato come il concerto delle Ceneri si collochi nei programmi della Levi come tappa particolarmente espressiva di un assai vasto lavoro sulla musica sacra, quasi di ideale ricongiungimento col sostegno dato nei primi anni del Novecento da Ugo Levi all’opera di Lorenzo Perosi. Il concerto delle Ceneri si intreccia così con altre ricerche, dalla musica di San Marco alla diffusione intercontinentale della policoralità, dal movimento ceciliano all’etnomusicologia, dalla pratica di comporre ed eseguire nelle chiese antiche di Venezia, alla storia musicale e organologica degli organi. Appaiono ormai maturi i tempi per lanciare nuovi progetti di ricerca ed esecuzione, su cui dovrebbe la comunità veneziana, nell’insieme delle sue organizzazioni musicali o con componenti musicali, motivarsi. Le tradizioni della musica sacra; l’esigenza da più parti manifestata di ripensarne la presenza anche nell’ambito delle forme attuali della liturgia; la possibilità di connetterla con la possente rilevanza delle arti sacre figurative e architettoniche; e altresì con l’offerta culturale della città: tutto questo induce a pensare che si potrebbe ben dare vita ad un festival di musica sacra capace di mettere in evidenza aspetti più sobri ed elevati della possibile fruizione del patrimonio storico di Venezia di quanto attualmente non avvenga. ◼ in vetrina un rango letterario superiore, marcato infine dall’autorialità di un Leonardo Giustinian, il cui vasto repertorio è stato fissato nelle edizioni della Fondazione Levi da Francesco Luisi (1983). Nel 2009 l’Ensemble Orologio diretto da Davide De Lucia programma Polifonie, cori spezzati e concerti policorali a San Marco nel Cinquecento: è il trionfo del rinascimento veneziano, con Willaert, Cipriano de Rore, Merulo, Gioseffo Guami, Croce, Usper, Grillo e soprattutto i Gabrieli. Nel 2010, in coerenza coll’andamento a suo tempo annunciato, tocca alla musica del Seicento e poiché ricorrono i trecentocinquant’anni dalla nascita di Alessandro Scarlatti, il concerto Musica policorale. Musica per la Settimana Santa è interamente dedicato a questo autore, ed è eseguito dall’Orchestra Barocca e dal Coro della Mitteleuropa, con la direzione di Romano Vettori e trasmesso in diretta da 3 Channel tv – Canale SKY Italia 872. Il concerto viene per l’occasione presentato con una tavola rotonda dedicata a Scarlatti, con interventi di Benedikt Poensgen, Hans Jörg Jans, Luca Della Libera, Dinko Fabris, Paolo Cattelan, Paolo Cecchi e Romano Vettori. Frattanto il Concerto per le Ceneri ha accresciuto di anno in anno il proprio pubblico e la propria fama e ha ormai conquistato una menzione nella Guide verte della Michelin del 2011. Anche in quest’anno l’esecuzione è stata magistrale, con Riccardo Favero che dirige l’Oficina Musicum su testi di Antonio Lotti e soprattutto di Dietrich Buxtehude, tanto che la Fondazione decise di pubblicare in dvd tutta questa parte col titolo abbreviato: Membra Iesu nostri. Nel 2012 Sergio Balestracci dirige l’Ensemble La Stagione Armonica su un programma dal titolo Meditazioni musicali per i 50 anni della Fondazione Levi che allinea musiche di Baldassarre Galuppi (Qui tollis peccata mundi), Bonaventura Furlanetto e Johann Adolf Hasse. Il concerto ha aperto le 67 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 68 Il provetto stregone Mario Bortolotto e le vie della musicologia (6) C un progetto a cura di Jacopo Pellegrini apita sovente che, giunti ormai a uno stadio molto avanzato di un progetto, di un’impresa, spunti dal niente un dato, un’informazione, un dettaglio, che illumina di nuova luce il cammino percorso e da percorrere, induce a ripensare il già fatto, imprime un nuovo indirizzo al da farsi. Questa nostra indagine intorno alla musicologia italiana e internazionale dell’ultimo cinquantennio a partire dalla produzione critica di Mario Bortolotto non è propriamente giunta a conclusione: mancherebbero all’appello svariati interventi (su Richard Strauss, sui compositori russi dell’Ottocento e del primo Novecento, sulla Nuova musica: argomenti tutti oggetto di ricerche svolte dal Nostro; sul suo lavoro come critico musicale in quotidiani e periodici, sul suo stile letterario, ecc.). Come però certo saprete, dal prossimo numero «VeneziaMusica e dintorni» cambia editore, impostazione, contenuti, e può anche darsi che del tutto legittimamente i nuovi promotori non siano interessati a proseguire nell’esame delle anse, dei promontori, delle vie maestre, dei meandri, dei misteri, delle ambiguità, delle intuizioni, delle scoperte proprie a una disciplina ormai adulta e tutt’altro che stagnante o paludata. Nel qual caso, cercheremo una soluzione alternativa; nel frattempo sia però resa grazia a Leonardo Mello e alla redazione tutta del nostro amato bimestrale. Ebbene, proprio adesso che l’avventura si avvia forse alla fine, in una recensione (capitatami per caso tra le mani) a Consacrazione della casa, la raccolta di saggi sul teatro in musica comparsa nell’82 presso Adelphi, rinvengo una definizione di Bortolotto che più appropriata non si può: la si deve (stavo per scrivere: ovviamente) ad Alberto Arbasino e la si poté leggere sull’«Espresso». Chi è dunque Bortolotto? «L’infido maestro insostituibile». Titolo oltretutto imperfettibile per questo progetto editoriale, ad averlo scoperto prima. Sarà per un’altra (speriamo prossima) volta. Intanto, un rendiconto e un bilancio su un’attività a prima vista secondaria nell’iter umano e professionale di un uomo 1. L’originale è conservato nel Fondo Petrassi, Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina. 2. Gianni Cesarini, Bortolotto lascia l’Orchestra Rai, «Il mattino», XCVI/305, 3 novembre 1987. votato specialmente alla speculazione intellettuale (non conosco molti lettori altrettanto incalliti e onnivori). In effetti, tra gli studiosi e i critici puri non è comune la disponibilità a «sporcarsi le mani» nella palude dell’organizzazione artistica: si possono ricordare i casi di Loris Azzaroni (un breve incarico al Comunale di Bologna), di Fedele d’Amico (Maggio musicale fiorentino 1985), di Claudio Gallico (Festival di Sabbioneta), di Giorgio Pestelli (un mandato all’Orchestra rai di Torino), e pochissimi altri. Ma ecco che Ennio Speranza (specialista di Britten e di musica strumentale italiana tra xix e xx secolo, chitarrista, narratore, drammaturgo, docente al Conservatorio di Frosinone) ci squaderna dinanzi agli occhi venticinque anni abbondanti di teoria e pratica della programmazione, da Bortolotto esercitata a più livelli, in luoghi e àmbiti diversi (teatri d’opera esclusi): s’inizia nel 1969 con una Rassegna del pianoforte contemporaneo a Bergamo e Brescia (già l’anno prima l’imminente direttore artistico interpella per lettera Goffredo Petrassi chiedendogli espressamente di comporre un nuovo brano per tastiera: invano)1 e si finisce nel ’96 a Roma con i consigli elargiti alle dame dell’Euterpe (ma vale la pena di ricordare una recentissima appendice: il ciclo pianistico «suggerito» a Giorgio Ferrara per il Festival dei due mondi 2012). La collaborazione più lunga, sfaccettata e proficua resta quella con l’Orchestra Scarlatti di Napoli (1977-1987): per la caccia alle rarità, certo (Giorgio Pestelli, nel commentare Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale – Adelphi, Milano 1992 – attirò l’attenzione sull’abbondanza di spunti che il volume offriva a un direttore artistico curioso, dimenticando però di avvertire che Bortolotto li aveva già sperimentati quasi tutti in proprio), ma anche per la scoperta di nuovi talenti direttoriali (Bruno Moretti, Daniel Oren), per la capacità di persuadere artisti affermati a saggiare vie nuove (Gavazzeni). A conclusione del mandato decennale così Bortolotto riassumeva la sua permanenza sotto il Vesuvio: «Ho approfondito la conoscenza del repertorio e sono stato bene a Napoli. Ho anche imparato a mangiare la mozzarella […]. Non c’è mica molto altro [sottinteso: di buono a Napoli]»2. ◼ Mario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo). N di Ennio Speranza on posso certo dirmi un «bortolottiano perfetto», benché abbia «letto tutti i libri» suoi – non proprio tutti, diciamo quasi tutti, tenendo sommamente in considerazione il saggio su Petrassi1, fonte per me di continua ispirazione, e i due volumi su musica francese e russa2. Mai ho avuto la fortuna di frequentare Mario Bortolotto né di confrontarmi con lui, né di essergli conoscente o amico, com’era il caso di molti tra i relatori al convegno di Latina del 2007. Anzi, per essere più preciso e spudoratamente autobiografico, la mia viva frequentazione assume i connotati della singolarità. Ero infatti a Perugia il 28 settembre 1994, per assistere a una messinscena della Orleanskaja Deva (Pulzella d’Orleans) di Čajkovskij. Dopo lo spettacolo, all’uscita del teatro, invitato a cena da un amico, vengo presentato a Mario Bortolotto. Mi ero laureato due anni prima, ero più giovane e non troppo sveglio, e, avendo letto alcune sapide ardue trattazioni di Bortolotto, mi ero fatto di lui un’idea ben granitica, solida, quindi errata. Credo fossimo in quattro, non di più: ci siamo avviati nella notte vagando alla ricerca di un luogo in cui mangiare, ma più giravamo più il fato remava contro di noi facendoci raggiungere una selva di ristoranti sprangati. Nel frattempo, comunque, Mario Bortolotto ci e mi deliziava con commenti sull’opera, giudizi arguti su Čajkovskij, condendo il tutto con gustosi motti e considerazioni salaci. Infine, l’unico ristorante aperto nei paraggi si rivelò una pizzeria del tutto improbabile, ipergiovanilistica, decisamente fuori luogo per una tranquilla conversazione musicale: luci sparate, musica techno pop ad alto volume e, soprattutto, ingombranti affreschi alle pareti, nei quali erano raffigurati degli implacabili Astérix, Obélix e persino Idéfix, il cane di Obélix, alle prese con singolari pizze capricciose o margherite. Insomma, i nostri discorsi – e i nostri abiti – divergevano completamente dal luogo in cui ci trovavamo, anche se pian piano trovammo il modo di adattarci, visto che ancor oggi ricordo quella nottata come uno dei più divertenti dopo teatro che abbia mai trascorso. In quell’occasione mi fu rovesciata addosso una tale quantità di boutades che rimpiango di non aver avuto con me un piccolo registratore: Bortolotto vaticiGeorg Philipp Telemann. Francesco Manfredini. Luigi Boccherini. nò scherzosamente, ma non troppo di un’esemplare «fase terza», di cui non parlerò nemmeno sotto tortura. Racconto queste amenità anche per ribadire la mia invidia nei confronti di chi, con ben altra profondità e diuturnità, ha potuto e può frequentare le opinioni concrete e pulsanti di Mario Bortolotto, ma soprattutto per avvalorare un certo grado di superficialità del mio intervento. Mi piacerebbe in qualche modo perorare la causa della superficialità: alle volte la «superficie» può raccontarci cose interessanti tanto quanto la «profondità», e credo che per discettare su alcuni fenomeni si debba non solo scavare, ma contemplare ciò che accade a livello del suolo, «vedere l’effetto che fa» – dopo Mallarmé, Jannacci: un effetto della liquidità contemporanea. Prendiamo allora in considerazione un’attività come quella dell’organizzazione musicale e soprattutto della direzione artistica: è un lavoro in cui più di altri ci si sporca le mani, in cui si viene a patti con il compromesso, in cui si deve purtroppo essere capaci di colpi a cerchi, botti e quant’altro, soprattutto in un Paese difficile come l’Italia. Ma è altresì un lavoro che consente di verificare delle intuizioni, di portare a esiti pratici dei ragionamenti, di consegnare a un pubblico l’esecuzione di musica in cui si crede o che si ritiene «giusto» che il pubblico conosca. Una questione di superficie, appunto: da un lato si scava, si studia, si analizza, si distingue, si concettualizza, dall’altro ci si può sbizzarrire e si può fare in modo che un repertorio, un gruppo di composizioni o un singolo brano musicale venga effettivamente ascoltato, valutato, apprezzato o rifiutato. È innegabile che la musica vada prima di tutto, oppure diciamo soprattutto ascoltata; e si perdoni la banalità dell’asserto. E per uno studioso così magmatico, turbinoso, curioso, amante della liminarità, di rivoli poco battuti tanto quanto di fiumi di ampia portata, poter organizzare stagioni concertistiche dev’essere stata una grande sfida, forse un bel divertimento, di là dalle ineschivabili rogne e delle innumerevoli «gatte da pelare», che certo in simili occasioni non mancano mai. Non conoscendo le vicende, le modalità, le circostanze in cui tali compiti furono espletati e non avendo informazioni di prima mano, e nemmeno volendo scadere nell’aneddotica o nella chiacchiera, non posso che rivolgermi alla «superficie», ossia alla collana di programmi che ho potuto consultare. Non importa cosa li ha prodotti, quali situazioni, difficoltà o magari polemiche ci furono dietro: mi piacerebbe constatare se mettendo in fila tali programmi sia possibile cogliere delle ricorrenze, dei motivi principali e secondari, o semplicemente registrare quello che i frequentatori di un’istituzione musicale han- Il provetto stregone Mario Bortolotto organizzatore musicale 69 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 70 no ascoltato grazie a un impegno che presupponeva dei ragionamenti, delle linee di tendenza, dei gusti, delle opportunità, forse anche una diversità di approccio rispetto alle predilezioni e alle posizioni critiche – invero tante e altamente motivate, talvolta in controtendenza con opinioni diffuse o sin troppo docilmente accettate – che è possibile attribuire a Bortolotto attraverso la lettura dei suoi saggi. Il Nostro ha dapprima contribuito, insieme a Camillo Togni, alla programmazione artistica d’una rassegna a latere del Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo, rassegna dedicata alla musica pianistica contemporanea che fu varata sei anni dopo l’avvio del festival vero e proprio, ossia nel 1969. E questo per diversi anni, almeno sino al 1977. Quindi, Bortolotto è stato direttore artistico dell’Orchestra «Alessandro Scarlatti» di Napoli della rai dal 1977 al 1987 e dell’Associazione musicale Euterpe di Roma dal 1990 al 1996 (benché in forma non ufficiale). Tre lunghe, considerevoli porzioni di tempo, in cui è sicuramente possibile rintracciare delle direttrici. Per quanto riguarda le rassegne inserite nel Festival pianistico di Brescia e Bergamo, essendo queste dedicate alla musica cosiddetta contemporanea, alla Nuova musica del se- condo Novecento, è difficile individuare una precisa scelta di campo: tutti i compositori più o meno rappresentativi di quegli anni vi hanno fatto la loro comparsa, nel segno però, come sostenuto allora da Bortolotto, di un’opposizione ai comuni festival che si presentavano «senza eccezioni all’insegna dell’anonimia e del casuale affastellamento»3. Vi è da dire che, pur componendo programmi filigranati e vari, in cui sono presenti esponenti delle più disparate tendenze, i singoli concerti possiedono un impianto fortemente coeso e ricco di risonanze interne. Invece, a una prima rapida scorsa dei cartelloni napoletani riportati dalla «Nuova rivista musicale italiana» – spesso sotto forma di rapide segnalazioni o di stringate recensioni collettive – è possibile notare come la programmazione sembra essere una diretta conseguenza dell’idea per cui la storia della musica sia intreccio di relazioni, labirinto da districare, mescolanza non casuale di tendenze e personaggi, non museo granitico di soli padri fondatori. Oggi questa tendenza, anche in musicologia, è ovvia, direi patente, ma una trentina di anni fa lo era assai meno. Così, già nella prima stagione che vede la direzione artistica di Bortolotto, quella del 1977, appare lampante la volontà di ampliare lo spettro delle proposte mediante tre azioni programmatiche che lasciano trasparire posizioni critiche ben ponderate: a) i capolavori riconosciuti e amati non vengono fuori dal nulla, ma prendono vita da ciò che gira loro intorno, spesso trascendendo il contesto storico-sociale-geografico in cui nascono. Mi sia consentita a questo punto la licenza di una citazione: «Se si vuole conoscere un Paese occorre frequentare gli scrittori minori, i soli che ne riflettano la vera natura. Gli altri denunciano o trasfigurano le nullità dei loro compatrioti: non vogliono e non possono mettersi sullo stesso piano. Sono testimoni sospetti»4. Questa frase è frutto dell’intelligenza e del gusto per il paradosso dello scrittore franco-romeno Emil Cioran5 e, a mio parere, esprime una indubitabile verità. La stessa cosa può dirsi per i musicisti. Ogni tanto frequentare i presunti minori può essere utile, oppure, ancora meglio, metterli in parallelo con i presunti maggiori: si scopriranno relazioni, false relazioni, affinità, moti paralleli o contrari, divergenze, e la realtà di un clima, di un ambiente non potrà che venire fuori con una maggiore intensità prismatica; b) la perla rara, il bravo figlio dimenticato, non è infrequente, anche nei compositori più noti e saccheggiati. Perché non mettere in condizione il pubblico di conoscere tali reietti e di goderseli? Ancora un esempio personale: nutro una passione speciale per un breve brano di Čajkovskij datato 1884, l’Elegia in sol maggiore per orchestra d’archi dedicata a Ivan Va s i l ’e v i č Samarin, attore e regista dal musicista sommamente apprezzato. È un pezzo patetico e incantevole che purtroppo sinora non sono mai riuscito ad ascoltare dal vivo (e che neanche Bortolotto mi risulta abbia mai programmato); c) la musica d’oggi deve contare su spazi propri ed essere presentata in concerti dalla forte coerenza interna (e questo, oltre che al Festival di Bergamo e Brescia, accadde anche a Taormina nel 19756, poi a Napoli all’inizio del mandato, tramite l’istituzione di un breve festival intitolato «Nuova Musica e oltre», che, pur non avendo avuto vita durevole, presentò un ampio ventaglio di musiche e musicisti), ma deve essere altresì incistata con cura in una programmazione più varia, tale da evitare il ghetto, la sin troppo pericolosa aura del concerto per addetti ai lavori, e da meglio mettere in evidenza i nessi tra chi è venuto prima e chi dopo. Prendiamo alcuni concerti dalla prima stagione e notiamo, per esempio, una serata che unisce la Sinfonia in do minore n. 95 (1791) di Haydn alla March for the Royal Society of Musicians (1792) dello stesso, la Sinfonia concertante K. 297 di Mozart a un Concerto in re maggiore di Francesco Manfredini (1680 ca-1748 ca); oppure un altro appuntamento in cui Mozart (la Gran partita K. 361) viene affiancato da Hummel, e Vivaldi da Telemann. Per quanto riguarda specificamente il primo punto possiamo citare un concerto del 22 otJan Křtitel Václav Kalivoda. Karl Amadeus Hartmann. Jean Claude Risset. Ada Gentile. Marcella Mandanici. Emanuel Nunes. certo erano assai risicate. Il ciclo prevedeva, tra l’altro, la Sinfonia di concerto grosso n. 5 di Alessandro Scarlatti, la Sinfonia funebre di Paisiello (scritta su invito di Napoleone per commemorare la morte del generale Louis Lazaire Hoche e riutilizzata nel 1799 per la scomparsa di Pio VI!), l’intermezzo Fra’ Donato di Antonio Sacchini, un intero concerto dedicato a Domenico Cimarosa: l’ouverture dei Traci amanti, un Concerto in sol per due flauti e orchestra e l’assai più noto Maestro di cappella. Primizie e bizzarrie, pagine inusuali o dimenticate, costellavano del resto anche gli incontri musicali ideati da Bortolotto per il Festival dei due mondi a Spoleto tra il 1979 e l’inizio del decennio successivo. Per quanto riguarda la musica del secondo Novecento, abbiamo già accennato al festival «Nuova Musica e oltre», che presentò innumerevoli pagine fresche di stampa o giù di lì accanto a grandi numi tutelari: citiamo la tappa iniziale della prima rassegna, dedicata ad Anton von Webern, e poi un concerto monografico su Schoenberg 9; ma in seguito furono ascoltate musiche di Pennisi, Ferrero, Clementi, Canino, Robert Mann, Sciarrino, Takemitsu, Ives, Stockhausen, Feldman, Kagel, Varèse, Boulez, Cage, Christian Wolff, Togni, Luis de Pablo, Bussotti, ecc., in programmi spesso ar- ticolati su tematiche ben precise o su affinità tra gli autori; ma anche nella stagione concertistica ufficiale numerosi sono stati i contatti con i compositori novecenteschi di tutte le tendenze. Si succedono così le serate monotematiche su Giorgio Federico Ghedini, Guido Turchi, Hans Werner Henze, Mario Zafred (stagione 1977), Hindemith (26 novembre 1982), ancora Henze (23 dicembre 1983), Karl Amadeus Hartmann (20 aprile 1984), ma anche intriganti binomi o trinomi: nel 1981, il 6 febbraio Franz Schreker (Intermezzo op. 8 per archi; Kammersymphonie) e Handel/Schoenberg (Concerto per quartetto d’archi e orchestra del 1933, che ascoltato a bruciapelo potrebbe far pensare a Stravinskij), il 15 maggio Kurt Weill (Concerto per violino e strumenti a fiato op. 12), Luigi Nono (Incontri per 24 strumenti) e Arnold Schoenberg (Kammersymphonie n. 2 op. 38); il 16 dicembre 1983, Luis De Pablo (Latidos; Concerto per clavicembalo, una versione del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra preparata appositamente per la Scarlatti su richiesta di Bortolotto), Aldo Clementi (Sinfonia da camera), Tomás Marco (Concierto de Alma per violino e archi); il 30 marzo 1984, Schumann (Introduzione e Allegro appassionato op. 92 per pianoforte e orchestra), Schubert (Sinfonia in si minore n. 8 Incompiuta), Schumann trascritto da Adorno (Kinderjahr, sei pezzi dall’Album für die Jugend op. 68) e Il provetto stregone tobre 1982, che vede il Concerto per pianoforte e orchestra K. 488 di Mozart preceduto da una sinfonia di August Carl Ditters von Dittersdorf (in do maggiore, Die vier Weltalter, ossia «Le quattro età del mondo», la prima delle sinfonie sulle Metamorfosi di Ovidio) e, prima, le Quattro danze dal Don Juan di Gluck emergere dopo la Serenata in do maggiore dal Concentus musico-instrumentalis di Johann Joseph Fux. Il concerto seguente, 29 ottobre ’82, affermerà gli stessi princìpi: Sinfonia K. 161 di Mozart, Sinfonia concertante per flauto, oboe e orchestra di Ignaz Moscheles, Adagio, Tema e Variazioni op. 102 per oboe e orchestra di Hummel e una Sinfonia del men che celebre violinista e compositore boemo Jan Křtitel Václav Kalivoda (Praga 1801-Karlsruhe 1866). Lavori insoliti fanno capolino inaspettatamente, ma organicamente, in locandine in cui non mancano riconosciuti capolavori: Mozart, Concerto per pianoforte K. 595, Serenata notturna n. 6 in re maggiore K. 239, Serenata per archi op. 58 di Čajkovskij, il poema sinfonico Kikimora op. 63 di Anatolij Konstantinovič Ljadov (Pietroburgo 1855-Novgorod 1914): è questo un programma della stagione 1978-1979, stagione che accolse la prima esecuzione italiana della Sinfonia (già Sonatina) in mi bemolle maggiore di Richard Strauss assieme al più noto Concerto per oboe e orchestra (e al Concer to per oboe e violino in do minore BWV 10 6 0R d i J.S. Bach). Na t u r a lmente non mancano, anzi abbondano, i concer ti mono g r a f ic i : sempre nella stagione d’esordio ne contiamo di dedicati a Boccherini, a Weber e a Stravinskij; e in seguito, cito fra i tanti, a Franz Berwald (1978), a Gabriel Fauré (1979)7, a Samuel Barber (1980), a Max Reger (1981). Ma anche quando le monografie saranno meno temerarie – dedicate, per esempio, a Strauss o a Mozart, – la pagina poco o nulla ascoltata, la pagina sottovalutata non mancherà di fare capolino. Sempre nella stagione 1978-1979 viene presentata in sei serate l’integrale dei pezzi per pianoforte e orchestra dell’amato Camille Saint-Saëns, credo per la prima e unica volta in Italia, ma vi sono anche appuntamenti riservati solo a Mario Zafred, Bruno Bettinelli, Nino Rota8. Nel 1980, quale corollario a una mostra sul Settecento napoletano promossa dalla soprintendenza ai Beni culturali, il cartellone incluse cinque concerti esplicitamente collegati all’esposizione: se oggi un interesse così pronunciato a pagine ignote o quasi di Giordani, Leo, Paisiello, Sacchini, Alessandro Scarlatti può risultare per nulla innovativa, oltre trent’anni fa le cose non dovevano essere così pacifiche, anche perché le occasioni per ascoltare, persino su disco, tale musica se non mancavano del tutto 71 Mario Bortolotto e le vie della musicologia 72 Schubert trascritto da Webern (cinque Lieder). Naturalmente con minori mezzi economici a disposizione e in un diverso contesto come quello dell’Associazione Euterpe di Roma, Bortolotto, volgendosi quasi esclusivamente alla musica da camera, cerca comunque di compiere un percorso simile, privilegiando l’alternanza di composizioni conosciute a brani di più raro ascolto, oppure elaborando programmi che prevedano accostamenti magari inediti, ma congrui. Pochissimi esempi dal 1990: 8 febbraio, Boulez (Sonatina per flauto e pianoforte), Ravel (Chansons madecasses; Habanera), Debussy (Syrinx; Sonata per flauto, arpa e viola; En blanc et noir); 5 aprile: monografia su Chopin (Studi op. 10 e op 25, ma anche i tre Studi per il metodo MoschelesFétis); 10 maggio: Franck (Preludio, Aria e Finale), Alkan (Sinfonia per pianoforte solo), Ravel (Miroirs). Oppure vi sono serate dedicate a musicisti contemporanei, come quella in onore di Petrassi del 4 maggio 1994, mentre il 15 gennaio 1991 un concerto con un organico non comune, flauto chitarra clavicembalo, prevede, nella seconda parte, alcuni pezzi per tastiera di Rameau, la Sonata in si minore per flauto e b.c. BWV 1030 di Bach, e, nella prima parte, brani per chitarra e flauto di Ada Gentile (Quick Moments), Marcella Manda- nici (Counterparts II), Iván Vándor (Esquisse en noir), Francesco Pennisi (Méliès, da Esequie della luna), Giuseppe Soccio (Lisar: a solo d’insieme per flauto basso e chitarra), infine un brano di Čajkovskij, la Ninna nanna op. 16 n. 1, trascritta da Aldo Clementi per flauto contralto, celesta e chitarra. Il 31 ottobre 1991 flauto e clavicembalo alternano sapientemente musica di contemporanei a maestri dell’età barocca: a Grund per flauto e nastro magnetico (1984) di Emanuel Nu- nes seguono brani di François Couperin; al Cassandra’s Dream Song per flauto solo (1970) di Brian Ferneyhough succede la Sonata 4 dall’op. 20 per flauto e clavicembalo di Michel Corrette; dopo Les Tourbillons per flauto e clavicembalo di Fabrizio De Rossi Re è la volta di Jean-Philippe Rameau (dal Primo libro delle Pièces de clavecin: Preludio, Allemanda, Corrente, Sarabanda, Giga); Passages per flauto e nastro magnetico (1982) di Jean Claude Risset precede la Sonata in la BWV 1032 di Bach. Potrei naturalmente continuare su questo tono elencando altri concerti e autori, ma credo che, seppur superficialmente, i contrassegni illustrati risultino piuttosto chiari. Riguardo invece alle concordanze ovvero divergenze del Bortolotto studioso dal Bortolotto organizzatore, se da una parte è innegabile la funzione propedeutica svolta da alcune scelte in vista delle due grandi monografie apparse negli anni novanta (sulla musica in Francia e in Russia tra Ottocento e primo Novecento), dall’altra mi sembra che certa granitica impostazione del suo pensiero critico non trovi riscontro in un’offerta di nomi, scuole, opere ed epoche oltremodo ampia, anche a tener conto dell’organico da camera dell’Orchestra Scarlatti e della sua vocazione al repertorio preclassico e classico. Vorrei allora concludere, senza che ciò appaia piaggeria, dicendo che mi piacerebbe oggi ascoltare quei concerti o almeno tipologie di concerto simili, e seguire stagioni tanto doviziose e rifinite. Mi piacerebbe altresì, da parte di più o meno auguste istituzioni musicali, un poco di curiosità in più. Insomma, mi aspetto, prima o poi, di ascoltare dal vivo la mia amata Elegia di Čajkovskij. Chissà, forse non sono l’unico. ◼ 1. Mario Bortolotto, Il cammino di Goffredo Petrassi, «Quaderni della Rassegna musicale», 1, 1964 (L’opera di Goffredo Petrassi), pp. 11-79. lano 1991 («Biblioteca Adelphi», 243), p. 102; ed. or. De l’inconvénient d’être né, Gallimard, Paris 1973 («Les essais», 186). 2. Id., Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale, Adelphi, Milano 1992 («Saggi. Nuova serie», 9); Id., Est dell’Oriente. Nascita e splendore della musica russa, Adelphi, Milano 1999. («Saggi. Nuova serie», 33). 5. Tra l’altro ricordo che Mario Bortolotto è stato splendido traduttore di una delle ultime fatiche di Emil Cioran, ossia Confessioni e anatemi, Adelphi, Milano 2007 («Biblioteca Adelphi», 515); edizione originale Aveux et anathèmes, Gallimard, Paris 1987 («Arcades»). 3. Mario Messinis, Da Brescia – Il festival internazionale pianistico dedicato a Schumann – La prima rassegna di musica pianistica contemporanea – I «February pieces» di Cornelius Cardew, «Nuova rivista musicale italiana», III/4, luglioagosto 1969, pp. 740-743: 741. 4. Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati, traduzione italiana di Luigia Zilli, Adelphi, Mi- 6. Nell’ambito dell’Estate musicale di Taormina, XIV Festival internazionale, 2-10 agosto 1975, si tenne un seminario di studi musicali sul tema «Il pianoforte oggi» a cura di Mario Bortolotto (con concerti dal 2 agosto al 7 agosto). 7. Ne parla Fedele d’Amico, Che gioia, è un tipo da salotto (4 maggio 1980), in Id., Tutte le crona- François Couperin. Michel Corrette. Fabrizio De Rossi Re. che musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, III (1979-1989), pp. 1805-1808. 8. In proposito si legga: Id., Lo sventurato non firmò (7 gennaio 1979), ivi, pp. 1675-1678: 1676. 9. Al pianoforte di Schoenberg era stata dedicata la terza Rassegna di musica contemporanea: Messinis, Da Brescia – L’ottava edizione del Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo dedicata a Liszt e al suo tempo – La rivelazione del sovietico Lazar Berman Una importante rassegna schoenberghiana, «Nuova rivista musicale italiana», V/4, luglio-agosto 1971, pp. 679-681: 680-681. G di Giuseppina La Face Bianconi loria Staffieri, musicologa romana, affronta una sfida davvero ambiziosa: tracciare un profilo complessivo della storia dell’opera italiana in tre volumi Carocci destinati a Università e Conservatori, ma anche ai melomani colti. Il secondo e il terzo sportello del trittico avranno uno sviluppo cronologico (Sei-Settecento e Otto-Novecento, fino alla Turandot di Puccini: dopo di che si fanno ancora delle opere in Italia ma l’opera italiana in quanto genere coerente tramonta). Il volume introduttivo – il solo finora uscito – ha invece impianto sistematico e tematizza i caratteri costitutivi del genere, osservati e comparati sincronicamente anziché diacronicamente. Il titolo, Un teatro tutto cantato, punta immediatamente sulla specificità essenziale di questa stupenda invenzione italiana, comparsa a Firenze sullo scorcio del Cinquecento e diffusasi in tutto il globo. Staffieri riconosce la costituzione pluridimensionale del teatro d’opera ma non esita ad affermare la «centralità della musica»: la drammaturgia operistica si fonda infatti sulla «forza attrattiva» che la musica, in primis il canto, «è in grado di esercitare sul testo verbale»; parole e musica, a loro volta, intrecciano un rapporto complesso con la dimensione scenica, in una «gerarchia a polarità variabili», in un «sofisticato contrappunto di codici e di messaggi». Nella seconda metà del volume Staffieri delinea i tratti generali delle strutture formali di base dell’opera italiana: Ad onta delle cento varianti, si constatano persistenze significative, nel rapporto tra ritmo poetico e frase musicale come nello spicco dei moduli d’«intonazione vocale». Il manuale, ricco di spunti, ben argomentato, criticamente aggiornato, getta salde basi concettuali per il disegno storico che seguirà. L’Edizione nazionale delle opere di Giacomo Puccini, che prevede la pubblicazione delle partiture, dell’epistolario e delle mises en scènes, decolla da quest’ultima sezione. Michele Girardi, puccinista di lungo corso, associato nella Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia-Cremona, presenta l’edizione critica della messinscena che Albert Carré, il direttore dell’Opéra-Comique, realizzò d’intesa col musicista per la «prima» francese della Madame Butterfly nel dicembre 1906, protagonista la moglie di Carré, Marguerite. L’iniziativa è propizia: nell’èra delle regìe «trasgressive» lo studioso e il melomane hanno così modo di ricostruire mentalmente l’aspetto e la dinamica di uno spettacolo sontuoso, che fu concepito sotto lo sguardo vigile e partecipe di Puccini, arrivato due mesi prima a Parigi. La documentazione consiste Giacomo Puccini, «Madama Butterfly»: mise en scène di Albert Carré, edizione critica di Michele Girardi, Torino, edt, 2012 («Edizione nazionale delle opere di Giacomo Puccini. Livrets de mise en scène e disposizioni sceniche», 4), xii-215 pp., isbn 978-88-6040-521-0, 39 euro. Giulia Giachin, Il viandante e il tramonto. Mozart e le fonti del Lied romantico, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012 («Musica e Letteratura», 12), xii-224 pp., isbn 978-88-6274-326-6, 18 euro. Elisabetta Fava, Voci di un mondo perduto. Mahler e il “Corno magico del fanciullo”, ibid., 2012 («Musica e Letteratura», 13), v-308 pp., isbn 978-88-6274-418-8, 20 euro. Chiara Garzo, «In a Garden Shady» All’ombra di un giardino. Studio su Benjamin Britten, ibid., 2012 («Musica e Letteratura», 14), xiii-115pp., isbn 978-88-6274-422-5, 16 euro. in una puntuale annotazione manoscritta, mista di parole e schemi grafici, che battuta per battuta descrive sia l’impianto scenico sia le posizioni e i movimenti di attori, cori e comparse. Il curatore l’ha opportunamente corredata dei rinvii al testo italiano e allo spartito standard: vediamo dunque idealmente scorrere – per così dire fotogramma dopo fotogramma – l’azione scenica e musicale. In appendice, uno stralcio dei Souvenirs di Carré, un glossario di termini scenotecnici e di voci giapponesi, e il facsimile del libretto francese. Un lavoro di grande pregio. Le Edizioni dell’Orso hanno aggiunto tre titoli alla serie «Musica e Letteratura», collana cara agli amanti del Lied. Giulia Giachin, docente di Storia della musica nel Conservatorio di Torino, rintraccia nella liederistica di Mozart i primi germogli e fermenti di una sensibilità protoromantica: intuizione plausibile, alla luce della loro recezione e discendenza. All’altro estremo della parabola storica, Elisabetta Fava, ricercatrice nell’Università di Torino, ricostruisce il profondo debito ideale di Gustav Mahler nei confronti della cornucopia originaria del Lied poetico romantico, la raccolta Des Knaben Wunderhorn di von Arnim e Brentano (1805). Chiara Garzo, docente di scuola secondaria, affronta infine una selezione ristretta ma squisitissima di liriche solistiche e corali di Benjamin Britten: spiccano i sonetti del poeta barocco John Donne (1945) e l’inno a santa Cecilia su versi di W.H. Auden (1942). Nelle tre monografie si coglie l’impronta metodologica e stilistica del magistero universitario di Giorgio Pestelli, promotore della bella collana. ◼ 73 carta canta — libri Le recensioni Gloria Staffieri, Un teatro tutto cantato. Introduzione all’opera italiana, Roma, Carocci, 2012, 191 pp., isbn 978-88-430-6576-9, 17 euro. carta canta — libri 74 «Forma divina», gli scritti di Fedele d’Amico U di Jacopo Pellegrini n libro a lungo invocato, atteso, desiderato: se ne parlava da oltre un ventennio, da quando cioè Mario Bortolotto, commemorando in un articolo la figura di Fedele d’Amico (1912-1990), sollecitò una raccolta dei suoi programmi di sala, convinto che ne sarebbe sortita una (quasi) storia dell’opera memoranda. L’idea accese la fantasia di molti, ma soprattutto si abbarbicò nella mente di Suso Cecchi d’Amico, vedova del critico e studioso romano oltre che celeberrima sceneggiatrice cinematografica. Sempre ella andò rimuginandola, mai si stancò di patrocinarla presso amici studiosi editori. Anche quando, nel corso degli anni, maturarono e videro la luce, di d’Amico, una raccolta di saggi e articoli1; un’antologia di scritti dedicati al teatro d’opera2; volumi su Rossini3 e su Puccini4; l’integrale, in tre tomi, degli articoli scritti per «L’Espresso»5; i carteggi con Arnheim6 e con Berio7. La realizzazione di un sogno, il sogno di Suso, l’adempimento di una preghiera da molti condivisa: ecco cos’è Forma divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, ottantuno scritti (sessantanove sul teatro in musica da Gluck a Berio, passando per Mozart, Beethoven, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Wagner – soltanto Tristan, – Berlioz, Massenet, Čajkovskij, Musorgskij, Puccini, Schoenberg, Berg, Bartók, Menotti, Rota e parecchi altri, un intervento dal titolo In che senso la crisi dell’opera di argomento novecentesco, undici sulla danza da Adam a Hindemith, Čajkovskij Stravinskij Falla inclusi) in due tomi di complessive 578 pagine, dovuti a uno dei «grandissimi musicologi italiani del secondo Novecento» (così il risvolto di copertina); anzi, se posso azzardare un parere personale, l’unico della sua generazione, insieme a Nino Pirrotta, in grado di uscire a testa alta da un eventuale confronto con i «prodotti» delle scuole germanica e anglosassone (questione d’idee, certo, ma anche, forse soprattutto, di metodo). Solo che a differenza di Pirrotta, d’Amico ha sempre rifiutato per sé la qualifica professionale di musicologo, preferendo quella di «giornalista, critico musicale», ancor oggi leggibile sull’elenco telefonico (recte: Pagine bianche) di Roma. E tutto sommato, a questo dono meraviglioso procuratoci dall’intraprendenza di Giorgio Pestelli (a lui dobbiamo anche una Prefazione di esemplare limpidezza), dalla lungimirante liberalità della Fondazione Spinola Banna per l’arte (che ha sostenuto finanziariamente la stampa dei volumi presso l’editore Olschki di Firenze), dalla curatela meticolosa, fin maniacalmente pignola di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi, maestro e allievo nell’alacre fucina del dams bolognese: che soddisfazione leggere un libro pressoché privo di errori, che gioia maligna scovare in pagine così amorosamente vagliate il refuso sfuggito all’occhio di lince (p. 53, riga 6: la lingua più che «razionale» sarà «nazionale»; p. 341, riga 8: «1960»); tutto sommato, dicevo, l’unico appunto che mi sento di poter muovere alla pubblicazione è il ricorso, nel sottotitolo, alla parola «saggi» in luogo del più neutro «scritti» (vedi Un ragazzino all’Augusteo, libro ordinato dall’autore poco prima di morire) o addirittura della locuzione «programmi di sala» (i testi estranei a questo genere letterario sono solo quattro). Poiché del saggio, nonostante l’abile difesa di Pestelli («veri e propri “saggi”, per la solidi- tà tecnica, la portata effettiva delle idee messe in gioco e la facoltà tipicamente saggistica di restituire motivi o pretesti intellettuali in immediatezza di intuizioni e verità di emozioni»), queste pagine non mi sembrano (voler) esibire né il tono né l’andamento: troppo incandescente la materia versata con mano fermissima sulla pagina, troppo polemica e battagliera la natura dello scrittore per adattarsi al passo austero, pacato nelle argomentazioni (anche quelle avverse a qualcosa o qualcuno) ma perentorio nelle conclusioni della tradizione saggistica. Più della verità vera (cui sempre ambisce la trattatistica di profilo alto), a d’Amico importa prendere per mano il lettore, condurlo lungo un percorso da lui accuratamente Fedele d’Amico, Forma divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, a cura di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi, prefazione di Giorgio Pestelli, Leo S. Olschki editore, Firenze 2012, due volumi, pp. 580, 54 euro. predisposto secondo le più ferree leggi della retorica, comunicargli la maggiore quantità possibile d’informazioni, infine proporgli una prospettiva ermeneutica, una chiave di lettura, che vada oltre il giudizio di valore (peraltro non scansato, come era invece buona regola in ambito accademico: in Orfeo ed Euridice il quadro dei Campi elisi costituisce «forse […] la vetta di tutto Gluck»; per Bohème si parla di «livello sommo» e di fattura miracolosa), per riportare ogni titolo a un quadro storico-sociale-artistico più vasto e articolato. Per d’Amico, molto attento al nesso società-cultura, è però l’opera d’arte a improntare di sé un’epoca non viceversa (lo sottolinea anche Pestelli), secondo una prospettiva che fonde idealismo (più gentiliano che crociano, direi) e materialismo storico. E la trasmissione dell’essenza (scil. della grandezza) nissimo vanno evocando; […] [un] muto corteggio; nel quale volenti o nolenti ci troviamo coinvolti, irrefrenabilmente commossi. Commossi ancora oggi, pensate un po’, nel bel mezzo del mondo di oggi. E senza rossore». Ho parlato di strategie retoriche, e le righe appena citate consentono di saggiare con l’orecchio (se lette a voce alta) la qualità di una lingua che dietro l’apparenza colloquiale diretta comunicativa, svela abbondantissime «ricercatezze linguistiche e concettuali» ancora tutte da studiare (più d’un accenno in proposito si trova nella Nota al testo di Bianconi, da cui traggo la citazione). Ho parlato anche di accumulo di informazioni storiche sulle singole partiture (genesi, circolazione, varianti tra edizioni diverse, ecc.), il che, com’è stato sottolineato, fa di d’Amico un antesignano degli studi sulla fortuna di un autore o di un’opera, quella che i tedeschi hanno battezzato Rezeptionsgeschichte e che in italiano si suole tradurre con Storia della ricezione ossia recezione (due scuole di pensiero diverse e contrapposte). Ma a enumerare le intuizioni, le anticipazioni di d’Amico si farebbe notte (a p. 348 si trova una definizione di «musica di scena» in puro stile Dahlhaus, ma con svariati anni di anticipo sull’ammirato collega tedesco), e poi si correrebbe il rischio di cadere nella trappola di chi vuole a tutti i costi nobilitare l’oggetto delle proprie ricerche, renderlo accetto alla casta accademica (le resistenze a d’Amico non mancano, sulla base di una sua presunta non «scientificità»). Il d’Amico studioso (e, insieme, critico) che detta testi di Fedele d’Amico. presentazione per i teatri italiani, vale di per sé e vale moltissimo: ha ragione Mario Messinis quando avverte che in quasi tutti si può trovare materia per un libro. Forma divina riporta all’incirca l’ottantacinque per cento di una produzione che copre un arco ultratrentennale (dai primi anni cinquanta alla fine degli ottanta), e che in misura preponderante trovò accoglienza all’Opera di Roma, di cui d’Amico, nel corso degli anni sessanta (gestione Palmitessa-Bogianckino), curò personalmente il settore editoriale, rinnovando alle radici l’idea stessa di programma di sala. Non mi è possibile riferire nel dettaglio il pensiero di d’Amico sull’opera in musica (centralità della voce, dunque dell’interprete, sulla scia di Paul Bekker e del suo libro Wandlungen der Oper, 1934) o sui singoli compositori (l’«eterno gioco mozartiano dell’ambiguità»; Rossini antidrammatico e antiromantico – forse l’unica prospettiva sorpassata, per quanto molti la condividano ancora; Berlioz prenovecentesco; il Verdi «quarto stato»: ed è perciò un vero peccato che manchi il commento a Falstaff – è riprodotta solo la parte relativa alla nascita e alla creazione dell’opera, dove si evidenziano «le relazioni non passeggere con la contemporanea cultura musicale europea»: lo si può leggere nella Guida all’opera, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Mondadori, 1971 e successive ristampe; la modernità del «decadente» Puccini, ecc. ecc.). E in fondo, non sarebbe neanche giusto. La gioia del nutrimento intellettuale e, al contempo, l’emozione propriamente fisica che la penna di d’Amico sa comunicare, è un’esperienza che ciascun lettore deve compiere da solo. ◼ 1. Fedele d’Amico, Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali, a cura di Franco Serpa, Einaudi, Torino 1991 («Saggi», 748). 2. Id., Scritti teatrali 1932-1989, prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Rizzoli, Milano 1992. 3. Id., Il teatro di Rossini, Il mulino, Bologna 1992 («Universale paperbacks», 271). Si tratta, in origine, di dispense universitarie già pubblicate nel 1968 (De Santis, Roma), ’74 (ELIA, Roma) e ’82 (Bulzoni, Roma). 4. Id., L’albero del bene e del male. Naturalismo e decadentismo in Puccini, a cura di Jacopo Pellegrini, introduzione di Enzo Siciliano, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2000 («La rosa», 4). 5. Id., Tutte le cronache musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000. 6. Id. – Rudolf Arnheim, Eppure, forse, domani. Carteggio 1938-1990, a cura di Isabella d’Amico, prefazione di Franco Serpa, Archinto, Milano 2000. 7. D’Amico – Luciano Berio, Nemici come prima. Carteggio 19571989, a cura di Isabella d’Amico, introduzione di Enzo Restagno, Archinto, Milano 2002. carta canta — libri di un determinato lavoro, esaurita l’esposizione serrata di argomenti razionali e verificabili, si affiderà di preferenza a un messaggio emotivo, a una comunicazione simpatetica, alla complicità tra autore-guida e lettore-discepolo: i famosi finali «travolgenti» di d’Amico, col loro «effetto-sorpresa», di subitanea illuminazione. Scelgo a mo’ d’esempio quello di Traviata, dove oltretutto la strategia emozionale del coinvolgimento è apertamente dichiarata: nell’ultimo atto Violetta «campeggia sola […]. Piuttosto, accanto a lei sentiamo la presenza nostra, di noi spettatori, chiamati a raccolta da quella sorta di rullo di tamburi che all’inizio e poi nel corso del suo ultimo canto gli accordi ribattuti dell’intera orchestra pia- 75 ASSOCIAZIONE CULTURALE COMPAGNIA DE CALZA «I ANTICHI» FONDATA DA ZANE COPE VENEZIA CARNEVAL DE VENETIA MASCARAR 2013-2014 TRADIZIONE E TRASGRESSIONE Campo San Maurizio 2677 – San Marco - Venezia – 30124 ITALIA e-mail: [email protected] www.iantichi.org arte grafica jsb+lc D di Lorenzo Bianconi come propellenti irrefrenabili della vita e della storia; l’impostura come strumento necessario della politica; la glorificazione di Venezia come legittima discendente dell’antica Troia in opposizione alla decadente Roma. È imminente l’edizione critica del dramma, a cura di Nicola Michelassi (Firenze, Olschki); il quale intanto, in un’importante miscellanea su Gli Incogniti e l’Europa curata da Davide Conrieri, ha anticipato un ampio capitolo sulla folgorante fortuna dell’opera. Un saggio copioso e importante, apparso or ora in Francia, offre finalmente un’ordinata mappa intellettuale e tematica della produzione letteraria degli Incogniti. Nella sua Venise «incognita», l’italianista Jean-François Lattarico (da tem- obbiamo al compianto Giovanni Morelli un’intuizione che, divulgata nel 1975 in un articolo mio e dell’amico Thomas Walker (anch’egli così presto scomparso), ha poi attecchito nella storiografia musicale: a Venezia, negli anni trenta e quaranta del Seicento, l’incubazione del teatro d’opera come impresa economica e come genere letterario e drammatico-musicale poté avvenire anche perché vi trovò un ambiente intellettuale propizio. Il riferimento è al libertinismo professato dagli Accademici Incogniti riuniti attorno a Giovan Francesco Loredano. Molti drammaturghi veneziani che nei primi decenni scrivono per i teatri d’opera – Giacomo Badoaro, Giulio Strozzi, Gian Francesco Busenello, Michelangelo Torcigliani, Paolo Vendramin – sono affiliati all’Accademia degli Incogniti, un sodalizio informale ma efficiente nei termini di una moderna «politica culturale», per l’influsso che esercita sull’editoria, il consumo letterario, la vita tepo ne attendiamo l’edizione critica dei drammi del Busenelatrale. Gli Incogniti idolatrano G.B. Marino e il suo poema lo) traccia un completo diagramma dell’ideologia «incognierotico, l’Adone (all’Indice); coltivano uno scetticismo radita» come si manifesta in particolare nei due generi letterari cale in campo storico, politico, filosofico, morale; professamoderni prediletti dagli Accademici: il romanzo e appunto no (sulla scia dell’aristotelico patavino Cesare Cremonini) il dramma per musica. Due capitoli chiave nel libro di Lattala mortalità dell’anima; riconoscono nelle religioni null’alrico concernono proprio Strozzi e Busenello. Il lavoro offre la tro che, machiavellicamente, un’utile impostura politica per più coerente e sistematica analisi finora disponibile su questa tenere a freno le masse; predicano e praticano una disinibita humus, così fertile, così ricca di sali e succhi che anche attrae versatile libertà sessuale; stigmatizzano la corruzione delverso il melodramma continuarono a vivificare l’intelligenle corti, a cominciare da quella papale; in compenso ostentaza e la sensibilità italiana ed europea dell’età moderna. Già, no un’indefettibile lealtà alle istituzioni della Serenissima. perché è ben vero che il libertinismo degli Incogniti sfiorì nel La quale di buon grado chiude un occhio sulla tracotanza corso del secondo Seicento; e che anche un dramma come La intellettuale di questi letterati scavezzacolli. Siamo nell’età finta pazza, fuori di Venezia, mitigò di un bel po’ gli ammicdell’Interdetto: estromessi i Gesuiti, all’ombra del Leone di chi più caustici e derisorii. Ma qualcosa dello spirito libertisan Marco si gode una libertà ignota altrove in Italia. no si mantenne, si propagò e si diffuse, e per li rami si perpeNon ci sono documenti espliciti che teorizzino o docutuò in un genere – l’opera in musica – che nei tumulti dell’amentino l’impegno diretto dell’Accademia nella gestazione nimo e dei sensi ha saputo penetrare con uno sguardo disine sviluppo del teatro d’opera. Ma cento indizi confermano cantato e scettico. Dai drammi degli Incogniti un filo sottiche gli Incogniti vi ebbero lo zampile ma tenace discende fino alle Nozno. In particolare, alcuni di loro fuze di Figaro, a Così fan tutte, al Ballo rono fautori di quel Teatro Novissiin maschera, alla Bohème, al CavalieJean-François Lattarico, mo, eretto nel 1641 dietro San Zanire della rosa, al Giro di vite. Venise «incognita». polo, che durò pochi anni ma varò le Per colmo di fortuna, la bur dell’ee Essai sur l’académie libertine au xvii siècle, stupefacenti invenzioni scenotecniditore Rizzoli ha pubblicato or non è Paris, Honoré Champion, 2012, 490 pp., che di Giacomo Torelli, il geniale inmolto una ricca antologia dei Liberisbn 978-2-7453-2276-0, euro 100. gegnere fanese dell’Arsenale, e lantini italiani dei secoli xvii e xviii, ciò la Finta pazza di Giulio Strozzi, egregiamente curata dall’italianista Libertini italiani. musica di Francesco Sacrati, la priAlberto Beniscelli, professore all’ULetteratura e idee tra xvii e xviii secolo, a cura di Alberto Beniscelli, ma opera che fece il giro di tutt’Itaniversità di Genova (e melomane): il Milano, rccs Libri, 2011 lia e nel 1645 fu rappresentata a Papingue ed economico volume è orgarigi, sempre con Torelli scenografo. «Biblioteca Universale Rizzoli – Classici moderni»), nizzato per temi – filosofia religione La finta pazza esibisce temi squisita- xli-911 pp., isbn 978-88-17-05060-9, euro 16,90. scienza eros antropologia politica – mente «incogniti»: la simulazione e sicché il lettore curioso dispone ora Gli Incogniti e l’Europa, la dissimulazione, l’inganno e il didi una bussola affidabile per circuma cura di Davide Conrieri, singanno; derisione e sarcasmo come navigare a bell’agio il bizzarro arciBologna, I Libri di Emil, 2011, visione del mondo; l’amore e il sesso pelago libertino. ◼ isbn 978-88-96026-84-7, 332 pp., euro 26. carta canta — libri L’opera dei libertini 77 carta canta — libri 78 Il «Lohengrin» di Quirino Principe, prima tappa di un progetto imponente Q di Leonardo Mello uirino Principe è uno dei musicologi e critici musicali italiani più importanti e riconosciuti a livello internazionale. Alla sua costante attività pubblicistica affianca da sempre quella di saggista e scrittore (fondamentali, per fare solo due esempi, le monografie da lui dedicate a Mahler e a Strauss). Ma riassumere in poche righe la poliedricità del suo pensiero e dei suoi interessi sarebbe un’impresa impossibile, per cui passiamo subito a parlare di Lohengrin – Wagner e noi, la sua ultima fatica (Jaca Book, 2012). Il libro è la prima tessera di un progetto imponente, intitolato «La spada della dualità», che prevede quattordici volumi, dedicati appunto ai quattordici Musikdramen wagneriani, dall’incompiuto fiorire dalla storia cosiddetta reale come variazione su un tema. Oppure, può essere “antistoria”, qualcosa che non è stato ma poteva essere, e per magia potrebbe ancora essere. Certo, la leggenda colora e arricchisce il mondo, ma non ne trasmuta l’essenza. Appartiene alla sfera dell’accadere, e si configura tutta nello spazio-tempo. Vertiginosamente più in alto è il mito, che appartiene alla sfera dell’essere, ed è ontologicamente diverso dal mondo: è indipendente dal tempo e dallo spazio. L’accadere gli è indifferente. Mito non è metafora né antistoria, non è ciò che è stato né ciò che non è stato ma sarebbe potuto essere. Il mito è Essere sempre, e ciò che in esso si cela (o si rivela a lampi) è Quirino Principe, Lohengrin – Wagner e noi, nuova traduzione con testo a fronte del libretto, Editoriale Jaca Book, Milano 2012, pp. 120, 10 euro. La spada della dualità 1. Lohengrin Wagner e noi 2. Tannhäuser L’umano atterrito dal soprannaturale 3. Tristano e Isotta Eros, o lo specchio della dualità 4. Il divieto d’amare Dualità nella dualità: lo pseudo-teorema di Burckhardt 5. Rienzi Scelte fatali, ovvero la malattia chiamata «storia» 6. L’olandese volante L’umano turbato dalla leggenda Die Hoczeit («Le nozze») al Parsifal. L’omaggio al Genio di Lipsia – che procede parallelo a quello ideato dal Teatro alla Scala in occasione del bicentenario della nascita di Wagner e Verdi, e che ha preso avvio a dicembre proprio con il Lohengrin allestito da Claus Guth e diretto da Daniel Barenboim – è dunque solo il primo di una serie di avvincenti capitoli wagneriani che inaugurano anche – dopo l’Atlante storico della musica nel Medioevo, curato da Vera Minazzi e Cesarino Ruini – il dipartimento «Jaca Musica». La nuova traduzione, accompagnata dal testo a fronte, comprende anche due celebri «scarti», vale a dire, come spiega l’autore stesso, «la seconda parte del racconto di Lohengrin, la preghiera di lui sulla navicella alla fine dell’opera (una preghiera che nella versione definitiva e a tutti nota è “muta”) e […] l’addio al cigno pronunciato da Goffredo di Bramante, personaggio che nel definitivo disegno drammaturgico […] è interpretato da un mimo, poiché non parla e, naturalmente, non canta». Alla sua versione del testo lo studioso accosta anche un magnifico saggio, dove l’opera viene contestualizzata, analizzandone la genesi compositiva, le origini e la leggenda: «Leggenda? Sì, certamente, ma anche qualcosa di più – afferma –. La leggenda può essere “metastoria”, qualcosa che la fantasia lascia Lohengrin alla Scala (foto di Rudy Amisano - teatroallascala.org). un sistema di archetipi, di “symbolische Formen” così come Ernst Cassirer le ha definite, di “Gestalten” preannunciate da folgoranti immagini eidetiche, quelle che ci sfiorano inafferrabili nei sogni. Nei sogni? È una seducente direzione per chi voglia mettersi in cammino e cercare le orme di uno che potrebbe essersi chiamato davvero Lohengrin e Loherangrin, e che addirittura potrebbe essere esistito» (p. 76) . E tra mito e sogno la scrittura limpida e documentatissima di Quirino Principe costruisce un percorso davvero appassionante sulle tracce del cavaliere del cigno e sulla materia epica da cui sorge grazie all’arte di Richard Wagner. ◼ 7. Le fate L’umano sedotto dall’impossibile fiaba 8. L’oro del Reno L’umano consumato dal mito: l’origine di tutto 9. La Valchiria L’umano consumato dal mito: l’eros 10. Sigfrido L’umano consumato dal mito: il potere 11. Il crepuscolo degli Dei L’umano consumato dal mito: la fine di tutto 12. Parsifal L’umano nel labirinto degli archetipi 13. I maestri cantori di Norimberga La piramide, la base e il vertice 14. Le nozze La dualità di compiuto e incompiuto C di Leonardo Mello i sono molti modi di raccontare una guerra. In particolare la seconda guerra mondiale, il più cruento e sanguinario dei conflitti (almeno fino a ora), ha avuto in quasi settant’anni un flusso inesausto di narrazioni, letterarie, teatrali, cinematografiche. È dunque difficile sorprendersi e appassionarsi all’ennesima cronaca di quei tempi bui. Eppure il magnifico libro di Maria Luisa Semi riesce in quest’impresa quasi impossibile: nel suo Una bambina, la sua guerra infatti gli eventi che hanno funestato il nostro Paese sono rivisti attraverso il ricordo di una bimba che cresce (e soffre) Maria Luisa Semi, con loro. SupporUna bambina, la sua guerra, tata da un’invidiaprefazione di Riccardo Calimani, bile memoria (coEdizioni Studio lt2, Venezia 2012, me lei stessa afferpp. 94, euro 13. ma nell’introduzione), l’autrice ripercorre gli anni del fascismo, i razionamenti, le campagne belliche, i bombardamenti, le persecuzioni razziali, la Liberazione. Ma lo fa – senza che il discorso divenga mai posticcio – dal punto di vista di chi non può comprendere (eppure comprende) l’enormità di quanto sta accadendo ai propri familiari, a una mamma volitiva e determinata, che segue dovunque – almeno fin dove le è possibile – il marito richiamato più volte al fronte. Quello che affascina non è tanto l’argomento quanto il modo inedito di trattarlo, la visuale infantile che mette sullo stesso piano un rifugio antiaereo e un pezzo di cioccolata, un lodevole ottenuto a scuola e la sorpresa per l’arrivo di una sorellina o di un fratellino. Il dramma di una famiglia nativa di Capodistria e trasferitasi a Venezia (solo la protagonista nasce in laguna) si intreccia con le tante inquietudini dell’infanzia, trascritte quasi stenograficamente, tanto che il lettore non può che immedesimarsi e riportare alla mente le proprie. Ma in questa scrittura piana e paratattica, sempre stupita eppure mai buonista, si annida la tragedia che ha contraddistinto più generazioni, la paura come sentimento dominante, l’orrore di un bambino ucciso dai sciavi (una delle pagine più dure e dirette). Per giungere infine all’epigrammatico e tutt’altro che consolatorio epilogo, nel quale mamma e papà – professore di liceo e partigiano – a guerra abbondantemente finita tornano, tra l’ostilità diffusa del nuovo occupante, a rivedere la propria terra. Un libro avvincente e istruttivo, che meriterebbe di circolare nelle aule scolastiche. ◼ Relazioni e osmosi tra cinema e teatro N ell’affrontare il problema dei rapporti tra il cinema e il teatro, relazioni che, nel corso degli anni e dello sviluppo di queste due forme espressive, si sono via via declinate secondo i principi dell’osmosi, dell’arricchimento o della netta opposizione, il nostro intento è lontano dal voler verificare se lo schermo possa considerarsi un’estensione della scena o, viceversa, la ribalta un dispositivo della narrazione di minor valore rispetto alla settima arte. Ciò che più ci preme affrontare è invece l’analisi di alcuni momenti, e di alcuni esempi, in cui cinema e teatro sembrano rincorrersi continuamente. In altre parole, poiché sono molti gli autori che hanno dimostrato di Marina Pellanda, non temere contaminazioCinema e teatro. ni e poiché sullo schermo Influssi e contaminazioni sono ricorrenti le situaziotra ribalta e pellicola, ni in cui il teatro viene a inCarocci editore, Roma 2012, tersecarsi con il cinema in pp. 112, euro 12. una continua comunione di ruoli, interferenze e risonanze, abbiamo dunque cercato di tessere un vero e proprio racconto dei legami che possono instaurarsi tra queste due arti della rappresentazione». Questo è l’inizio del magnifico Cinema e teatro. Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola di Marina Pellanda, prolifica studiosa della settima arte che ha al suo attivo, tra i molti titoli, anche due importanti monografie dedicate a Gian Maria Volonté e Marco Bellocchio. Il libro, nelle sue 110 pagine, si presenta avvincente e leggibile senza rinunciare mai a una rigorosa scientificità. Come dichiarato programmaticamente, lungi dall’essere un lavoro di mera compilazione, il volume si avvicina al tema (cruciale) attraverso un percorso ad exempla, partendo ovviamente e necessariamente dalle origini del mezzo cinematografico, e dalle differenze che sin da subito caratterizzano le due forme espressive, differenze rinvenibili prima di tutto «nella diversa modalità di fruizione da parte dello spettatore». La parte forse più appassionante è però quella che segue, dedicata al teatro greco e shakespeariano (e alle loro connessioni), indagati attraverso un’eterogenea selezione di lungometraggi, da Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch e La dea dell’amore di Woody Allen alle versioni di Otello create da tre grandi artisti come Orson Welles, Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini (lo splendido Cosa sono le nuvole). Si prosegue con un fitto capitolo incentrato sull’arte dell’attore (e sulle modificazioni in essa stimolate dalla macchina da presa) per concludere con «L’opera filmata», dove protagonista è il teatro musicale, materia di molti celebri film, tra cui – per citare solo alcuni titoli – Casta Diva di Carmine Gallone, Senso di Luchino Visconti e il Flauto magico firmato da Ingmar Bergman (1974) e Kenneth Branagh (2006). In estrema sintesi, un libro denso, ricco e per tutti i palati. (l.m.) ◼ « carta canta — libri Una bambina, la sua guerra 79 Eresia della felicità a Venezia Le collaborazioni di questo numero • Luigi Abbate (pp. 40-41) Compositore • Andrea Oddone Martin (pp. 28-29) Critico musicale • Eugenio Bernardi (pp. 54-55) già Ordinario di Letteratura Tedesca all’Università Ca’ Foscari di Venezia • Mario Messinis (pp. 16-17 e p. 27) Critico musicale • Gualtiero Bertelli (pp. 50-51) Cantautore • Lorenzo Bianconi (p. 77) Università di Bologna • Giorgio Busetto (pp. 66-67) Direttore della Fondazione Ugo e Olga Levi Università Ca’ Foscari di Venezia • Paolo Cattelan (pp. 32-33) Musicologo Presidente degli Amici della Musica di Venezia • Renzo Cresti (pp. 22-26) Musicologo • Denis Curti (pp. 64-65) Direttore scientifico Casa dei Tre Oci (Venezia) • Luigi De Angelis (p. 52) Regista Fondatore di Fanny & Alexander • Vitale Fano (pp. 14-15 e p. 19) Musicologo (Università di Padova) • Giuliano Gargano (p. 43) Giornalista • Tommaso Gastaldi (p. 46) Giornalista freelance • Peter Kammerer (pp. 56-57) Università di Urbino Traduttore • Guido Michelone (p. 45 e p. 47) Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Conservatorio di Musica «Antonio Vivaldi» di Alessandria Critico musicale • Letizia Michielon (pp. 36-37) Musicista Critico musicale • Jacopo Pellegrini (p. 68 e pp. 74-75) Critico musicale • Oliviero Ponte di Pino (pp. 59-61) Critico teatrale • Franco Pulcini (pp. 8-9) Musicologo • Eva Rico (p. 63) Storica dell’arte • Veniero Rizzardi (pp. 38-39) Musicologo • Mirko Schipilliti (pp. 12-13 e p. 30) Musicista Critico musicale • Gianni Sibilla (p. 44) Giornalista musicale (rockol.it) • Arianna Silvestrini (p. 18) Giornalista freelance • Ennio Speranza (pp. 69-72) Musicologo • Giuseppina La Face Bianconi (p. 73) Università di Bologna • Massimo Tria (pp. 10-11) Università Ca’ Foscari di Venezia • Annalisa Lo Piccolo (p. 35) Musicologa • John Vignola (p. 42) Critico musicale la c (p rit ar te ic te a o rz g a) g i Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice la c (p r ar it te ic qu a ar og ta g ) i Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno X - marzo / aprile 2013 - n. 51 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 80