VeneziaMusicaedintorni 51 - RIVISTA COMPLETA

La banda di Shanghai, 2010
(foto di Mariano Beltrame).
Anno X - marzo / aprile 2013 - n. 51 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
2
In copertina: Il caso Makropulos di Leóš Janáček
secondo Robert Carsen
(foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu).
VeneziaMusica e dintorni
Anno x – n. 51 – marzo / aprile 2013
testata in corso di nuova registrazione
Direttore editoriale: Giuliano Segre
Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano
Direttore responsabile: Leonardo Mello
Caporedattore: Ilaria Pellanda
Art director: Luca Colferai
Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano,
Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin,
Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti
VeneziaMusica e dintorni
è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004
Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),
Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis,
Ignazio Musu, Giampaolo Vianello
Stampa: Tipografia Crivellari 1918
Via Trieste 1, Silea (Tv)
Tiratura: 3000 copie
Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione
di Giorgio Mastinu, Maria Rita Cerilli, Alexia Boro,
Camilla Mozzato, Erika Bonelli, Adriana Vianello,
Andrea De Marchi, Livia Sartori, Elena Casadoro,
Elena Tosi, Andrea Benesso
La storia continua
di Cristiano Chiarot e Giuliano Segre
7
Editoriale
di Leonardo Mello
8-17
sommario
6
3
focus on
8
Arriva sempre il momento in cui anche una bella donna
deve confessare la sua età…
di Franco Pulcini
10 Karel Čapek, ovvero: sui rimedi alla stupidità umana
di Massimo Tria
12 Ferro dirige il «Caso Makropulos»
a cura di Mirko Schipilliti
14 Janáček secondo Robert Carsen
a cura di Vitale Fano
16 La dolcezza della morte
di Mario Messinis
«Il caso Makropulos»
di Janáček/ Čapek:
ne parlano, tra gli altri,
Franco Pulcini,
Robert Carsen
e Gabriele Ferro
opera
18 «La cambiale di matrimonio» vista da Enzo Dara
Continua il progetto «Atelier della Fenice al Teatro Malibran»
a cura di Arianna Silvestrini
19 Stefano Montanari sul podio per Rossini
a cura di Vitale Fano
21 Un 2013 ricco di eventi per l’Associazione Richard Wagner Venezia
di Leonardo Mello
22 Wagner e i suoi soggiorni in Italia
di Renzo Cresti
22-26
classica
27 Beethoven con il quartetto Belcea
di Mario Messinis
28 Claudio Scimone dirige l’Orchestra della Fenice
a cura di Andrea Oddone Martin
30 Gabriele Ferro: da Janáček a Stravinskij
a cura di Mirko Schipilliti
31 Mikhail Pletnëv e la Kremerata Baltica alla Fenice
Continua la stagione della Società Veneziana di Concerti
di Ilaria Pellanda
32 Conversazioni angeliche: il femminismo tra sacro
e inconscio nella musica del xviii secolo
Due concerti degli Amici della Musica di Venezia
di Paolo Cattelan
34 La nuova stagione dell’Agimus di Venezia tra musica e filosofia
di Ilaria Pellanda
27
contemporanea
35 Concerto con musiche di Leone Sinigaglia
di Annalisa Lo Piccolo
32
sommario
4
36 I primi vent’anni dell’Archivio Luigi Nono di Venezia
a cura di Letizia Michielon
38 Luigi Nono
di Veniero Rizzardi
40 Sulla Biennale Musica
Una lettera
di Luigi Abbate
36-39
l’altra musica
42 Francesco De Gregori: storie senza fine
Il cantautore romano presenta «Sulla strada»
di John Vignola
43 Sinead O’Connor sbarca in Fenice
di Giuliano Gargano
44 Un «Fantasma» per esorcizzare i propri demoni
I Baustelle in concerto a Padova
di Gianni Sibilla
45 Gli anni ottanta dei Litfiba rivivono in concerto
di Guido Michelone
46 In un disco di cover ecco le radici rock di Anastacia
di Tommaso Gastaldi
47 Max Gazzè canta «Sotto casa»
di Guido Michelone
49 Al Fondamenta Nuove tre inediti concerti
di Ilaria Pellanda
50 Se tu prenderai marito
Cantare al femminile
di Gualtiero Bertelli
52 Il corpo sonoro di Ravenna
Nasce il progetto «Buco bianco»
di Luigi De Angelis e Sergio Policicchio
I vent’anni dell’Archivio
Luigi Nono
44
50-51
prosa
53 Roberto Herlitzka e il genio di Glenn Gould
«Il soccombente» di Bernhard approda al Goldoni
a cura di Ilaria Pellanda
54 A voce alta
Sul «Soccombente» di Thomas Bernhard
di Eugenio Bernardi
56 Le verità si scontrano nell’«Orazio» di Heiner Müller
di Peter Kammerer
58 Lo splendido «Panico» di Luca Ronconi
E ancora Spregelburd con «Todo» di Alessio Nardin
di Leonardo Mello
53-55
Al Goldoni
«Il soccombente»
di Bernhard
sommario
5
prosa – commenti
59 I premi Ubu: proposte di modifica
di Oliviero Ponte Di Pino
arte
62 «Postwar. Protagonisti italiani» secondo Luca Massimo Barbero
di Ilaria Pellanda
63 Tiepolo torna a Villa Manin
di Eva Rico
fotografia
64 63
Giambattista Tiepolo
ritorna a Villa Manin
La parola a Gianni Berengo Gardin
di Denis Curti
in vetrina
66 Fondazione Levi: dieci anni di concerti per le Sacre Ceneri
di Giorgio Busetto
in vetrina – Mario Bortolotto
68 Il provetto stregone
Mario Bortolotto e le vie della musicologia (6)
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini
69 Mario Bortolotto organizzatore musicale
di Ennio Speranza
64-65
carta canta – libri
73 Le recensioni
di Giuseppina La Face Bianconi
74 «Forma divina», gli scritti di Fedele d’Amico
di Jacopo Pellegrini
77 L’opera dei libertini
di Lorenzo Bianconi
78 Il Wagner colossale di Quirino Principe
di Leonardo Mello
79 Una bambina, la sua guerra
di Leonardo Mello
79 Relazioni e osmosi tra cinema e teatro
di Leonardo Mello
In mostra
la fotografia/documento
di Gianni Berengo Gardin
66-67
77
Lorenzo Bianconi racconta
«L’opera dei libertini»
6
La storia continua
D
di Cristiano Chiarot e Giuliano Segre
opo aver oltrepassato l’importante traguardo delle cinquanta uscite, con il numero 51
VeneziaMusica e dintorni conclude in un certo
senso il suo primo ciclo di attività, dopo nove anni di ininterrotta e vigile presenza negli ambienti culturali
cittadini e regionali. Con la cessione, da parte della Fondazione di Venezia, della sua società strumentale Euterpe Venezia alla Fondazione Teatro La Fenice anche la rivista infatti entra a far parte dei progetti editoriali del Teatro. Questo però non comporta affatto una sua diminuzione, quanto invece una crescita della sua importanza come strumento
efficace e ormai universalmente riconosciuto di informazione e approfondimento, rivolto ai moltissimi appassionati di
quella che da qualche tempo viene definita «arte dal vivo»,
intendendo con questa espressione il variegato mondo dello
spettacolo, a cominciare ovviamente dalla musica in tutte le
sue sfaccettature e proseguendo per i limitrofi settori del teatro, della danza e di tutto quanto prevede la compresenza di
un attore e di (almeno) uno spettatore.
In questo senso la pubblicazione, nelle sue prossime uscite,
continuerà nella sua indagine capillare, anche se in parte verrà rimodulata per rispondere ancora maggiormente alle esigenze comunicative del Teatro che la edita. Esigenze che come è ovvio non si limitano all’esame dettagliato del suo cartellone e di tutte le iniziative che vi si riferiscono (e che sin
dalla nascita, del resto, VeneziaMusica e dintorni ha sempre
«coperto» giornalisticamente) ma investono invece a largo
raggio le attività musicali e più estesamente culturali dell’intera città metropolitana, di cui la Fenice e la Fondazione di
Venezia intendono essere interlocutori attenti e privilegiati.
La rivista dunque, come annunciato inequivocabilmente
nei festeggiamenti per il numero 50, continua il suo percorso, anche se potrebbe cambiare la sua periodicità e in parte anche il suo profilo «estetico», adeguandola in termini
d’immagine, e anche economici, alla situazione contemporanea. Ma al di là delle piccole trasformazioni che la toccheranno resta salda l’impostazione risultata vincente nel corso di quasi un decennio, che ha nell’attenzione al territorio
uno dei suoi fondamenti essenziali. E in linea con il passaggio al Teatro La Fenice, arricchendo la già folta produzione
editoriale di questa istituzione, sarà anche uno degli ingranaggi fondamentali della collaborazione tra le due Fondazioni, collaborazione da sempre molto attiva e ancora più stretta
e concreta ora, quando l’orizzonte metropolitano della città
lagunare sta finalmente divenendo realtà.
È doveroso, prima di concludere, ringraziare i moltissimi
collaboratori, provenienti dal mondo accademico e della critica militante, che in questi lunghi anni hanno decretato il
successo della testata, dandole – anche attraverso i molti dossier corali sulle questioni più urgenti e spinose relative alla
musica, al teatro e all’arte dal vivo in generale – una visibilità e una notorietà che travalicano i confini locali. Ci auguriamo di cuore che tutti continuino a supportare, con il loro
prezioso contributo intellettuale, il proseguimento di questa avventura. ◼
A sinistra, la Fondazione di Venezia.
A destra , il Teatro La Fenice.
Editoriale
C
di Leonardo Mello
ome avrete letto nella pagina a fianco, e come già annunciato nel numero 50, la nostra rivista sta vivendo una fase di ristrutturazione, conseguente al passaggio in forze della stessa al Teatro La Fenice. Dopo nove anni sotto le insegne di Euterpe Venezia la testata dunque cambia ora editore, entrando
a far parte della frastagliata attività pubblicistica della Fondazione lirica cittadina, che del resto è stata
sin dalle origini il nostro principale e irrinunciabile referente.
È evidente, in questo contesto, che alcune trasformazioni saranno inevitabili, coinvolgendo
sia la periodicità che, in parte, la linea culturale sin qui seguita e costruita nel corso del tempo, sulla base delle esigenze e delle volontà che
la Fondazione di Venezia, attraverso la sua società strumentale Euterpe, ci aveva chiesto di
interpretare al momento della nascita del bimestrale, nel novembre del 2004.
Viene quindi spontaneo, in questo momento di passaggio, esprimere un ringraziamento
retrospettivo all’istituzione che ci ha permesso, in
questo lungo percorso, di muoverci in grande autonomia e indipendenza nel cercare di analizzare, sviscerare e in parte anche prevenire –
per così dire – le tendenze che caratterizzano l’arte dal vivo nelle sue
infinite possibili declinazioni. Nel continuo e costante esame dei cartelloni,
nella disamina dei
cosiddetti even-
ti, nell’individuazione di filoni tematici, abbiamo tentato
di sviluppare dei fili, di comprendere (e comunicare) delle
intersezioni, di dare impulso, pur essendo uno strumento
«territoriale», a inedite e a volte imprevedibili connessioni. Il lavoro di redazione, suddiviso tra ideazione e coordinamento, ha sempre avuto come orizzonte progettuale la mescolanza e il meticciato, due concetti che – a nostro parere –
si inseriscono perfettamente nell’immagine dello spettatore (ma anche dell’artista) contemporaneo.
I settori legati alla «performatività»,
che hanno avuto una fioritura inesausta e conflittuale durante tutto il xx secolo e continuano a
essere indicatori preziosi della
realtà nel suo incessante mutamento – assecondato anche
dalla corsa sfrenata al ricambio
propria della tecnologia – puntano, per la loro stessa essenza
di arti composite e miste, a sviluppare e favorire la commistione e la tessitura, intesa quest’ultima nella sua più stretta valenza
etimologica. E questo processo, pur
talvolta ostacolato dalle impostazioni legislative e dalle burocrazie, sempre arretrate rispetto alla fluidità dell’esistente, ci sembra senza possibilità di ritorno. Nel documento singolo, nel dossier articolato o nell’inchiesta corale, grazie al sostegno di un’insperatamente ampia e generosa rete di collaborazioni, abbiamo sempre perseguito – ora in
termini «scientifici», ora sotto
l’aspetto formativo e divulgativo – l’obiettivo di essere, più che
una vetrina estetizzante del reale, una piattaforma aperta alla discussione e alla verifica progressiva. Del resto a un approccio del genere Venezia, sia per il
suo fertile retroterra storico (qui
nasce il melodramma, qui si riforma il teatro comico, qui l’idea moderna di fruizione scenica acquista il suo primato nella moltiplicazione e sovrapposizione dell’offerta), sia per il suo
attuale assetto metropolitano è
il terreno di coltura ideale.
Tutto questo portiamo ora in
dote e mettiamo a disposizione dei nostri nuovi committenti, mantenendo un legame profondo con la Fondazione di Venezia e le sue molteplici attività
e considerando ovviamente la
Fenice, principale centro propulsore della cultura cittadina, come nostro naturale porto d’arrivo. ◼
Pina Bausch
(foto di Wilfried Krüger-pina-bausch.de).
7
focus on
8
Arriva sempre
il momento
in cui anche
una bella donna
deve confessare
la sua età…
L’
di Franco Pulcini
affare Makropulos, opera rappresentata nel
1926, è il penultimo titolo di Leoš Janáček, e quello in cui il compositore cèco ha più radicalmente
applicato i suoi studi sulle «melodie parlate». È
pezzo di teatro musicale dalla vocalità saettante che accende
una partitura rapidissima, in cui non è per niente facile cogliere tutti gli «indizi» di
cui è disseminata. La ben
congegnata trama ha infatti gli ingredienti del giallo macabro, del poliziesco
fantastico, della causa ereditaria e del racconto alchemico: quanto di meno
operistico ci possiamo immaginare; un capolavoro
originale e un’opera fra le
meno eseguite e più affascinanti dell’autore.
Il titolo originale della
commedia di Karel Čapek,
da cui il musicista ha tratto il libretto tagliando semplicemente il testo in prosa, è Věc (pronuncia: viez)
Makropùlos. Věc in ceco
significa «cosa». E quando nel terzo atto si parla
del «Věc Makropùlos»,
ci si riferisce a un preciso
oggetto: la busta gialla in
cui è contenuta la formula dell’elisir di lunga vita,
l’innominabile «cosa» segreta ideata dal dottor Hieronymus Makropulos, greco di Creta, medico personale dell’imperatore Rodolfo II alla fine del Cinquecento, nella Praga incapricciata di magia.
La protagonista è Elina
Makropulos, figlia dello
sperimentatore, che nel 1922 ritorna trecentotrentasettenne
in quella Praga dove aveva avuto inizio la sua lunga avventura
esistenziale. Ora si chiama Emilia Marty, ma nei secoli è stata la spagnola Eugenia Montez, la russa Ekaterina Myškin,
la scozzese Ellian MacGregor, la tedesca Elsa Müller – unico legame con il passato le iniziali, E. M.; la Marty è ancora
una donna sofisticata e bellissima, che dimostra una trentina d’anni, anche se a guardarla bene porta con sé l’inquietante aspetto fisico di una vecchia ringiovanita. È una dark
lady dal passato bollente, una ricca e celebre cantante lirica,
una primadonna dal temperamento accentratore e autoritario, un misto fra Maria Callas e Marlene Dietrich. Giunge a
Praga per cantare, ma anche per ritrovare la formula smarrita dell’elisir bevuto un tempo, e che sta ormai perdendo il
suo effetto: certi suoi atteggiamenti isterici sono da assimilare ai comportamenti dei tossicodipendenti in carenza, alla
spasmodica ricerca di una nuova dose.
La malía ipnotizzatrice e l’innaturalezza orrida del magnetico e mostruoso personaggio viene esercitata in luoghi pubblici – uno studio legale, il retroscena di un teatro, la stanza
di un albergo – in cui si consuma una certa villana sbrigatività di rapporti. E l’opera è quasi interamente costituita di
dialoghi in cui i personaggi si parlano spesso addosso. Tuttavia, al di là delle parole, la musica dissemina insinuazioni, cenni, sfumature, allusioni, grazie alle quali si svela lentamente il segreto della donna. Nello stridulo spezzone di vita moderna, fanno inaspettatamente capolino brividi metafisici e fascinazioni di un passato oscuro. La musica e il canto
funzionano, a livello percettivo, proprio con gli ingredienti
di un «giallo»: accenni, involontarie allusioni, interrogati-
vi, dubbi, silenzi, perplessità, dialoghi interrotti, riflessioni,
riemersioni e, alla fine, rivelazioni choc. Un piccolo ricciolo
melodico, una quasi impercettibile curvatura del canto possono comunicare, in questo saggio della psicologica vocalità janáčekiana, imbarazzo, stupore, indifferenza, angoscia.
In un ambiente freddo e nichilista, dominato dagli imperiosi sbalzi vocali della Marty, o dai flessuosi e semiparlati racIl caso Makropulos secondo Robert Carsen
(foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu).
e la straordinaria emotività di un vecchio decrepito di fronte
alla riemersione del ricordo.
Il finale è il culmine dell’opera. I brividi che emana la musica di Janáček negli attimi del crollo fisico e nervoso della protagonista sono indimenticabili, quando la Marty ritrova, al
capolinea della vita, un po’ di umanità nel descrivere la noia
esasperante di un’esistenza protratta oltre misura. ◼
focus on
conti giuridici di Kolenatý, che possiede l’inespressività della carta bollata, fanno riscontro gli accenti disperati di Prus,
appresa la morte del figlio, la tenera sensualità della fanciulla Kristina (immagine della femminilità allo stato nascente,
anziché deteriorato) o i nostalgici lamenti amorosi di HaukŠendorf. Di quest’ultimo la musica mima in modo straordinario la decadenza fisico-psichica senile, il disturbo mentale
9
focus on
10
Karel Čapek, ovvero:
sui rimedi
alla stupidità umana
K
di Massimo Tria
arel Čapek ha viaggiato molto, anche in Italia. Qui di seguito alcune sue parole su Venezia, estratte da uno dei suoi libri di viaggio, I fogli italiani. Le cose che gli piacquero in particolar modo sono: «I gendarmi italiani, subito, già alla frontiera. Camminano sempre in coppia... mi ricordano i fratelli Čapek... Quelle stradine di Venezia dove non vi sono né
canali né palazzi. Sono così
contorte che finora non sono ancora riusciti ad esaminarle tutte; forse in alcune di
esse non ha mai messo piede
un essere umano. Le più belle
sono quelle larghe un metro e
lunghe tanto da farci entrare
giusto un gatto con la sua coda. È un labirinto, nel quale
vaga perfino il passato e non
riesce a trovare una strada
per uscire... Piacevole in particolar modo è poi che qui
non c’è neanche un’auto, neanche una bici, neanche una
carrozza o un carretto... però
c’è un sacco di gatti, e sono
più dei piccioni di Piazza San
Marco: gatti enormi, misteriosi e dagli occhi chiari, che
guardano con ironia i turisti
dai marciapiedi». Poi ci sono delle altre cose che non gli
piacquero molto, ma per ora
le lasceremo stare...
Il destino di Karel Čapek è
quanto meno bizzarro, e il rischio di sottovalutare la sua
grandezza è sempre in agguato: dal punto di vista letterario è
costretto in quella camicia di forza quasi obbligata che ci costringe spesso (anche noi boemisti) ad indicarlo per comodità come «l’inventore dei robot». Come se avesse scritto solo
il dramma R.U.R. (1920), in cui la parola robot viene usata
per la prima volta, e non decine di opere dalla più varia e profonda gamma umana e poetica. Dal punto di vista esistenziale, proprio lui che tanto aveva scritto e riflettuto sull’avanzata del potere totalitario ne è stato segnato direttamente: è
morto infatti nel Natale del 1938, mentre osservava sgomento la Germania di Hitler prendersi pezzo dopo pezzo il territorio e la libertà della sua Cecoslovacchia libera, pluralista
e democratica, laddove poi suo fratello Josef, insigne artista
poliedrico di non minore valore, sarebbe morto qualche anno dopo proprio in un campo di concentramento.
E almeno per i primi anni della sua attività letteraria il nome di Karel è inscindibile da quello del fratello, con il quale
si consulta, collabora e scrive opere a quattro mani: fra queste alcuni racconti che affrontano già in nuce i temi catastrofici ed antiutopici del Čapek maturo; si veda il racconto Abis-
si splendenti, ispirato al disastro del Titanic, o la commedia
«animale» Dalla vita degli insetti, nella quale i tre atti sono
dedicati ai vizi di vanità ed eccessiva avidità di farfalle, coleotteri e formiche, dietro i quali si legge facilmente una sferzante parodia dei più classici processi distruttivi per cui si distingue il genere umano, stupido e vanesio.
Ma è proprio con la pièce R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) che si inaugura ufficialmente una delle vene ispirative
più forti di Karel Čapek come autore indipendente: in un’isola lontana seguiamo le fasi finali dell’estinzione dell’umanità, accompagnata dalla rivolta dei robot, esseri antropomorfi (e non metallici, come nella successiva tradizione filmica e figurativa) che si ribellano contro gli uomini-sfruttatori. Le posizioni democratiche e dichiaratamente anti-comuniste dell’autore lo portavano a guardare sempre con occhio sospetto le grandi ideologie massimaliste: sia in R.U.R.
sia nel romanzo successivo La guerra del-
le salamandre egli commenta o prevede addirittura i procedimenti di sconvolgimento umanitario che hanno accompagnato i totalitarismi del xx secolo: nel primo caso c’è una
sorta di parallelo della Rivoluzione proletario-bolscevica, nel
secondo l’inarrestabile ascesa di mostri disumani e militareschi può richiamare i vari movimenti nazi-fascisti degli anni
venti e trenta. Ugualmente critici verso i regimi dittatoriali
sono i drammi teatrali dei suoi ultimi anni di vita, Il morbo
bianco e La madre.
Čapek fu spesso criticato dagli ambienti della sinistra e soprattutto dall’avanguardia impegnata politicamente, come
uomo mediocre, difensore dello status quo e amante conservatore della quiete borghese della allora neonata Repubblica parlamentare cecoslovacca (1918-1938). A offrire il fianco a questa critica alcune prose più domestiche, ironiche o
intimiste del Čapek novelliere: si vedano i cicli di racconti
di ispirazione poliziesca Racconti dall’una e dall’altra tasca,
o i suoi vari bozzetti autobiografici dedicati agli animali doA sinistra: Karel Čapek.
A destra: Josef Čapek.
Leoš Janáček.
altà la stavano conducendo alla rovina e all’infelicità totale.
Il fatto che l’Affare Makropulos sia ambientato negli anni
venti, e ripercorra i tre secoli precedenti, in cui la sua protagonista ha vissuto la sua meccanica vita di immortale, non
sminuisce il valore attuale dell’opera. Al contrario, essa è sovratemporale, e raccoglie in un unico testo i miti cinquecenteschi della Praga alchemica di Rodolfo ii, l’Ottocento delle
lotte di autodeterminazione dei popoli centro-europei (compreso quello ceco e la sua classe borghese) e l’atmosfera ricca ma incerta della Cecoslovacchia fra le due guerre, dubbiosa circa il suo ruolo sullo scacchiere europeo e presto minacciata dai totalitarismi. Come scrive Sergio Corduas, proprio
il Golem dell’epoca Rudolfina, il Robot di Čapek e il contemporaneo Josef Švejk (il protagonista del capolavoro di Jaroslav Hašek) sono uniti da tratti di automatismo, di attività incontrollata e da una certa tendenza a distruggere l’opera dell’uomo. Il problema del doppio, del sosia o del falso essere umano era ben presente anche a Čapek: si vedano gli automi, le salamandre-antropoidi, la protagonista di Makropulos, finta giovane, il finto compositore del suo romanzo incompiuto Foltýn. E a ben pensarci il Potere totalitario è il falso doppione, l’imitazione disumana di Dio in terra. La stessa idea di sostituirsi a Dio, la supposizione imperdonabile che
l’uomo possa anche solo provare a fingersi più grande di quel
piccolo insetto che in fondo è, doveva essere per il nostro autore una delle più odiose e pericolose offese all’intelligenza.
Sarebbe però riduttivo vedere in lui «solo» una personalità anti-utopica o anti-fascista: egli è anche, positivamente,
aperto, democratico, possibilista, pluralista. Lo confermano
le sue opere che indagano sulla verità: la cosiddetta trilogia
noetica (i tre romanzi Hordubal, La meteora e Una vita ordinaria), i suoi racconti che sono una parodia dei gialli più che
gialli autentici, in cui non domina l’interesse a risolvere lo
specifico caso delittuoso, bensì il paradosso dell’irraggiungibilità della Verità, per la quale ognuno ha una sua (quasi sempre erronea) interpretazione soggettiva; Il libro degli apocrifi, dove vengono presentati personaggi celebri sotto un’ottica
imprevedibile e dissacrante (un esempio su tutti: Don Giovanni sarebbe stato… impotente). O ancora il suo ultimo romanzo, rimasto incompiuto, La vita e le opere del compositore Foltýn, dove vengono svelati i mezzucci e le falsità con cui i
sedicenti geni si spacciano per tali. In questi ed in altri scritti egli ci pone davanti l’enigma della Verità, irraggiungibile,
perché non ne esiste mai una unica e sola. Essa in Čapek non
è imposta e affermativa, bensì interrogativa e potenziale, come dimostrano le sue vicende narrate da più punti di vista e
angolazioni, nessuno dei quali potrà mai prevalere, perché la
Verità non è un punto fermo, ma è più simile a un fascio di linee parallele che si avvicinano asintoticamente all’infinito.
Questa è la democrazia letteraria assoluta: quando l’autore non ci impone un’unica via d’uscita, e anzi si interroga insieme al lettore, suo compagno di stupore e di avventura, su
quali siano le trappole della rappresentazione letteraria e poetica del mondo.
Karel Čapek rimane uno dei fondamentali difensori dell’umanità, dei suoi valori più alti e universali, seppur inquadrati all’interno di precisi confini. Per lui questi confini non sono imposti da leggi sovrannaturali o ideali, ma dalla semplice e naturale constatazione dei limiti a noi dettati dalla natura, dalla nostra conformazione fisica e psichica. Qualcuno
può interpretare questa sua visione (e molti lo hanno fatto)
come conservatorismo antropologico. Ma se il conservatorismo antropologico, se la chiara coscienza della propria finitezza, se la lunga e preoccupata serie di avvertimenti čapkiani
ci avessero potuto evitare i totalitarismi del xx secolo, forse
non sarebbe stata una cosa poi così negativa. ◼
focus on
mestici della sua casa, come ad esempio il delizioso Dášenka.
La vita di un cucciolo. O ancora le prose dedicate alla pacifica
arte del giardinaggio, in cui con gusto e zelo egli si cimentò.
Ma Čapek non era semplicemente un conservatore, bensì un
animo profondamente ferito dal caos della guerra, della malattia e dell’idiozia umana. Se proprio volessimo, potremmo
chiamarlo allora «conservatore di umanità» (e non di valori passatisti o di posizioni di potere). Rubando alcune riflessioni a Sylvie Richterová, ricordiamo che l’etimologia di
paradiso è «giardino» e che nelle visioni edeniche classiche
l’uomo vive in pace con tutti gli animali del creato in una
dimensione casalinga e naturale priva di conflittualità, dove nessun essere vivente cerca di occupare posti che non gli
competono. Riusciamo dunque ad inquadrare anche questi
suoi interessi «casalinghi» all’interno della sua ricerca della ricomposizione del Cosmo originario, perseguita grazie ad
un’opera quotidiana di riedificazione certosina. Il lavoro dovrebbe per lui
venire riscattato dal peso
della originaria punizione
divina, e non
essere manipolato al fine
della sottomissione delle energie e
forze produttive altrui.
Ed è in questo tentativo di ricomposizione
dell’Uomo e
della sua Unità (tentativo
non utopistico e romantico, bensì basato sull’onesto lavoro quotidiano) che si inquadrano le
piccole prose
čapkiane da un lato, e dall’altro la sua produzione antiutopica (si leggano anche La fabbrica dell’Assoluto e Krakatit),
destinata ad evitare la catastrofe dell’essere umano, travolto dalla propria hybris e capace di far saltare in aria l’equilibrio del Creato.
Sia nell’Affare Makropulos, che viene ora presentato al Teatro La Fenice nella riscrittura operistica di Leoš Janáček,
sia nell’epopea catastrofica dei suoi Robot, due donne sono
protagoniste loro malgrado, vittime del delirio di onnipotenza maschile. In Makropulos il sogno dell’eterna giovinezza si trasforma nella maledizione di Elina Makropulos, bella
fuori ma marcia dentro, impossibilitata a morire a causa degli egoistici esperimenti paterni e perseguitata dal tedio secolare delle vuotezze umane. Nei Robot l’unica donna umana, Helena, è circondata da maschi che hanno perso di vista i
limiti insuperabili del proprio orgoglio terreno. Solo il fuoco
potrà bruciare le formule magiche e maledette che da un lato
dovevano assicurare all’umanità il Paradiso in Terra (l’eterna giovinezza e la liberazione dal lavoro fisico), ma che in re-
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focus on
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Ferro dirige
il «Caso Makropulos»
successive. Consideri che negli anni cinquanta a Darmstadt i
compositori hanno analizzato tutti i parametri della musica,
compreso lo studio delle altezze dei suoni nello spazio. Con
questa attenzione particolare, se si analizza una partitura di
Mozart è possibile trovare alcuni atteggiamenti simili, sepa cura di Mirko Schipilliti
pure più o meno coscienti e visibili, ovvero quella logica con
cui sono stati disposti i suoni nell’armonia. Si tratta di metom’è difficile questa musica!», commentere in risalto queste peculiarità.
ta Gabriele Ferro sfogliando la partitura del
Si tratta quindi di comprendere un ordine prestabilito?
Caso Makropulos, opera della maturità di
Persino la grafia ci aiuta, perché la musica che ci è giunta fiLeoš Janáček, affrontata per la prima volta
no a oggi non è altro che, appunto, un segno grafico. Tornannel percorso di una carriera che sembra non avere limiti quanto
do agli anni cinquanta, i compositori erano arrivati a realiza repertorio. Nel 2008 Ferro aveva diretto Janáček nel suo ulzare pezzi per orchestra pensando solo alla «scrittura». Diftimo lavoro teatrale, Da una casa di morti, al Teatro Massimo
ferentemente, in Brahms si vedono disegni che hanno condi Palermo. Alla Fenice, dove l’abbiamo incontrato fra prove
dizionato la strumentazione. Se non lo sai, non te ne accord’orchestra e di regia, ci mostra con calma autorevole la partigi. Persino in un autore come Rossini ciò che rimane non è il
tura e le sue complessità d’intreccio, le difficoltà per il direttore,
fatto «teatrale» ma quello che ha scritto musicalmente in sé.
sciolte con un atteggiamento sotTutto sta nel comprendere le
tile e profondo, che tiene conto di
strutture?
tutta la storia della musica.
Non si può dirigere se non c’è
Venezia
Maestro, lei dirige veramenquesto atteggiamento verso la
Teatro La Fenice
te tutto! Ma qual è il tipo di apmusica, che influenza in modo
15, 19, 21 marzo, ore 19.00
proccio che assume verso un autototale le scelte sul fraseggio.
17 e 23 marzo, ore 15.30
re complesso, e per certi versi mistePreferenze?
rioso, come Janáček? Qual è il suo
No, non se la tua cultura musiVĕc Makropulos
mondo di interprete? Dobbiamo
cale è basata sul concetto di suo(Il caso Makropulos)
Opera in tre atti
partire da lontano…
no. Sono un musicista a cui malibretto e musica di Leoš Janáček
Sì. Pensi che in un programgari interessa dirigere Jeaux di
dalla commedia omonima di Karel Čapek
ma con l’Orchestre de Paris agli
Debussy solo perché è un capolapersonaggi e interpreti
Champs-Élysées avevo diretto la
voro, ma è difficilissimo e nessuEmilia Marty Ángeles Blancas Gulín
Messe de Notre-Dame di Guilno lo vuole affrontare».
Jaroslav Prus Martin Bárta
laume de Machault, del 1364,
Come concilia questa visione
Janek Enrico Casari
insieme alla Holidays Symphocol«sangue tzigano» di Mann?
Albert Gregor Ladislav Elgr
ny di Charles Ives, del 1913, due
Non sono un interprete oggetHauk-Šendorf Andreas Jäggi
L’avvocato dr. Kolenatý Enric Martínez-Castignani
compositori con personalità foltivo, ho solo cercato di togliere il
L’archivista Vítek Leonardo Cortellazzi
li. Nella versione della Messa di
lato esibizionistico. Non è posKrista Judita Nagyová
Machault dietro a ogni gruppo
sibile dirigere e andare in estasi,
Una cameriera / Una donna delle pulizie Leona Pelešková
vocale facevo suonare uno struperché ci si perdi nel particolare.
Un macchinista William Corró
mento della famiglia dei tromBisogna sempre conoscere il primaestro concertatore e direttore Gabriele Ferro
boni, cosicchè quando finiva la
ma, il durante e il dopo di quello
regia Robert Carsen
linea del coro proseguiva quella
che si sta dirigendo in quel preciscene Radu Boruzescu
strumentale. In altri programmi
so momento. Molto interessancostumi Miruna Boruzescu
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
ho abbinato, per esempio, musite è il trattato di Diderot Il paramaestro del Coro Claudio Marino Moretti
che di Verdi all’Adagio dalla dedosso sull’attore che si può appliallestimento Fondazione Teatro La Fenice
cima sinfonia di Mahler.
care anche alla musica. Racconin coproduzione
Il suo approccio al repertorio suta che il vero attore che finge di
con l’Opéra National du Rhin di Strasburgo
pera ogni limitazione temporale...
essere in punto dimorte percepie lo Staatstheater di Norimberga
La mia formazione è quella di
sce la reazione del pubblico rimaprima rappresentazione a Venezia
compositore e penso quindi alla
nendo distaccato: non è freddo,
musica in maniera diversa dall’ee più è cosciente di star per mosecutore che scegli i pezzi per fare numeri o scena, anche se
rire all’interno di una finzione, più riesce a essere reale. Chi
– come diceva Thomas Mann – nell’interprete c’è sempre
si «immedesima» non sente la reazione del pubblico. Se sei
un po’ di «sangue tzigano». Ciò che conta per me, ed è fontroppo immerso nel ruolo perdi il controllo. Si potrebbe andamentale, è la valenza e la conoscenza della musica in sé.
che aggiungere che non è possibile ottenere il sublime se non
Mi spiego: la musica ha una sua oggettività, e come la pittusi conosce l’orrido.
ra si serve del colore così la musica si serve del suono. Non si
Ma il musicista non vive «nella» musica invece che «con»
può dire propriamente che «l’arte progredisce» ma un’evola musica?
luzione in tal senso c’è stata. Se l’approccio avviene con queCertamente, perché quella del musicista è l’unica professiosto tipo di conoscenza è possibile vedere la musica in modo
ne che si occupa dei sentimenti umani, e lo fa giorno e notte.
diverso.
Per me la prima cosa è l’amore, e poi ci sono la musica e l’arte.
Quindi si tratta di leggerla in senso oggettivo, distaccato?
Distacco e immedesimazione, sublime, orrido, amore, arte…
Non proprio. Per esempio un’altra cosa fondamentale nelun cocktail perfetto per l’opera di Janáček? Lei mi fa venire in
la mia visione dell’interprete è il conoscere che cosa è accamente la complessità della protagonista del Caso Makropulos.
duto nel periodo compreso tra il brano che si dirige e la proCome tradurla in musica?
pria vita.
Emilia è tremenda, ma alla fine sceglie di morire perché
Ma anche prima, no?
comprende la solitudine della sua vita e preferisce essere
Sì, certo, ma faccio soprattutto riferimento alle evoluzioni
umana.
C
«
In alto, Gabriele Ferro.
Sotto, Il caso Makropulos, bozzetto di Roudi Barth
per lo spettacolo di Walter Pohl,
Teatro Statale di Wiesbaden, 1961.
alcuni motivi conduttori ma non sono veri e propri leitmotiv.
Come affrontare il problema della lingua?
La particolarità sta nel fatto che, come nella Casa di morti, vocalmente sembra tutto un declamato, tanto che le scene scorrono così velocemente rispetto alla musica che la difficoltà sta nel calibrare bene i tempi affinché si riesca a esegui-
re tutto. In generale la voce è completamente indipendente,
raramente raddoppiata da strumenti, forse quattro o cinque
volte in tutto. Non ci sono arie, è un divenire in modo quasi
rapsodico, con scambi di battute rapide, nulla di prevedibile
o squadrato. È tutto in continuo movimento. ◼
focus on
Il testo teatrale di Čapek, fonte del libretto, è molto filosofico, verbalmente complesso. Come ha potuto metterlo in musica Janáček?
Creando un’instabilità, un percorso di note molto frammentario, dove non c’è un appoggio ritmico, fra temi enunciati sempre con strumenti diversi. Dal punto di vista ritmico, soprattutto, c’è una continua diversità tra l’orchestra e l’uso della voce, che
canta figure musicali differenti.
L’ instabilità emotiva si traduce con
un’instabilità strutturale in partitura?
Oltre a quella tra voce e orchestra troviamo l’instabilità del rapporto metrico
tra una misura e le successive. Per esempio, metri ternari che passano da 3/4 a
3/2 mantenendo lo stesso tactus, oppure misure binarie scritte in metri ternari, che hanno come risultato lo stesso effetto uditivo nonostante una realizzazione grafica diversa. Ne risulta un continuo cambiamento, un senso di assenza di quadratura. Il fatto grafico conta
molto per chi lo deve poi realizzare. Come dicevo prima, negli anni cinquanta si
scrivevano cose «ineseguibili», fatte appositamente per creare un disagio. Per
raggiungere l’esattezza esecutiva bisogna quasi sdoppiarsi in un meccanismo
cerebralmente complicato.
Quindi siamo davvero in pieno
Novecento?
Sì, in Janáček si traduce in un’angoscia
di base, esistenziale.
Vi troviamo elementi espressionisti?
Sì, ma in modo diverso da quel filone che venne da Wagner e che passò per
Schoenberg. Non dimentichiamo che in
quegli anni c’erano anche Debussy con la
scala esatonale, opposta al cromatismo, e
Stravinskij. Ma è una questione più ampia e se penso a Blake o a Füssli, già allora si era intravisto l’espressionismo!
Janáček ha una personalità fortissima,
con un suo mondo teatrale, totalmente
indipendente.
Ci si muove anche in mezzo a un certo
erotismo emanato dalla protagonista.
Tutto il ii atto si concentra sulla sua
bellezza e sulla sua sensualità, confermando al tempo stesso la sensazione di
angoscia.
Come trova la strumentazione del Caso
Makropulos?
Spesso c’è una disposizione per ottave,
raramente l’orchestra suona tutta insieme, ci sono timbri molto separati (mentre nelle partiture propriamente espressioniste c’è un suono con maggiore massa). La partitura è in fondo molto scarna,
non c’è una complessità contrappuntistica, c’è soprattutto quella instabilità ritmica e di sovrapposizioni; ci sono anche
13
focus on
14
Janáček
secondo Robert Carsen
R
a cura di Vitale Fano
obert Carsen è fra i più originali registi d’opera del momento. Nato in Canada cinquantotto anni fa, non ama essere definito, come verrebbe spontaneo, «regista canadese», perché circa trent’anni fa ha lasciato il suo Paese per venire in Europa e risiede ormai stabilmente fra Parigi e Londra. Inoltre la sua attività lo
porta a spostarsi continuamente in città e paesi diversi, per cui
la sua nazionalità è un fattore
alquanto indeterminato. Gli
ultimi tempi sono stati particolarmente laboriosi, con allestimenti al ritmo frenetico di
un’opera al mese: a novembre
2012 ha messo in scena L’amore delle tre
melarance di
Prokofiev alla
Deutsche Oper
di Berlino, lo
scorso gennaio Falstaff alla
Scala di Milano per l’inaugurazione del
bice nte na r io
verdiano, a febbraio La piccola volpe astuta di Janáček a Strasburgo, a marzo Il flauto magico al Festspielhaus di Baden Baden. Il 15 marzo sarà ancora in scena
alla Fenice con un nuovo allestimento del Caso Makropulos.
Lo raggiungiamo a Baden Baden, dove si trova per le prove del
suo prossimo spettacolo. Sono le nove di mattina, probabilmente l’unico momento libero della sua giornata, quando ci concede un’intervista telefonica nel suo ottimo italiano venato di un
elegante accento «medioatlantico».
Fra qualche settimana sarà nuovamente in scena alla Fenice, che è ormai diventato uno dei suoi appuntamenti ricorrenti.
Lavoro da molti anni e con grande piacere al Teatro La Fenice di Venezia, al quale mi sento decisamente legato soprattutto da quando ho avuto l’onore, nel 2004 con Traviata, di
mettere in scena l’opera di riapertura del teatro, ricostruito dopo l’incendio del 1996. In seguito ho curato gli allestimenti della Tosca di Puccini e di tre quarti della Tetralogia di
Wagner − Walkiria, Sigfrido e Crepuscolo degli Dei − mentre
L’oro del Reno è stato realizzato in forma di concerto.
Adesso La Fenice la chiama per Il caso Makropulos di
Janáček. Qual è il suo rapporto con questo grande compositore ceco?
Lo amo moltissimo e da qualche anno sto curando un imponente «ciclo Janáček» all’Opera National du Rhin di
Strasburgo, un progetto che comprende le sue cinque opere maggiori. Abbiamo già messo in scena, dal 2010, Jenufa, Il
caso Makropulos, Katia Kabanova, e poche settimane fa La
piccola volpe astuta. L’anno prossimo, a conclusione del ciclo,
è in programma La casa dei morti.
Quindi Il caso Makropulos è una coproduzione con
Strasburgo?
Sì, una coproduzione con Strasburgo e con Norimberga,
dov’è andato in scena rispettivamente nel 2011 e nel 2012.
Il caso Makropulos è un capolavoro che non è noto quanto
merita, con una vicenda fantastica che mira a penetrare alcune questioni della vita. Lei come la vede?
È un’opera assolutamente straordinaria e inusuale che parla di una donna, Emilia Marty, che ha più di trecento anni.
Suo padre era il medico personale dell’imperatore Rodolfo
ii d’Asburgo, vissuto nella seconda metà del Cinquecento.
Quando Emilia aveva sedici anni, il padre fu incaricato di
preparare una pozione che avrebbe dovuto dare la longevità all’imperatore, ma poiché Rodolfo ii non si fidava, lei fu
costretta a bere l’elisir per prova e cadde subito in catalessi.
Allora l’imperatore pensò che la pozione non funzionasse e
imprigionò il padre; ma accadde poi che Emilia si riprendesse e iniziasse la propria carriera di cantante, che portò avanti per tre secoli. Ogni volta che qualcuno cominciava a insospettirsi per la sua eterna giovinezza, lei doveva cambiare città e nome, tenendo ferme solo la sua carriera di successo e le
iniziali: E. M.
Questa situazione le ha suggerito qualche idea teatrale
particolare?
Sì, la situazione è molto strana e stimolante: questa donna
deve fingere nella vita perché non può dire a nessuno ciò che
le succede, e deve fingere anche nella professione perché come
cantante lirica si trova a interpretare personaggi sempre diversi. C’è dunque un misto di ambienti, costumi ed epoche,
perché non solo Emilia è vissuta nei secoli xvi, xvii, xviii,
ecc. ma ha anche interpretato molti ruoli di quelle stesse epoche. Tutto ciò è molto affascinante.
Anche nella musica ci sono indizi di un passato misterioso
(ad esempio le fanfare) che fanno capolino come intersezioni
dell’irreale nel reale. C’è una corrispondenza di questo aspetto nella messinscena?
ta un mostro, e che dopo tutto questo tempo si ritrova a essere molto cinica, a non credere più in niente, men che meno
nell’amore: Emilia non ama e non può amare, e questo rende
l’opera espressione della durezza della vita, che se non ha fine
può diventare qualcosa di terribile.
Quindi vi è anche una riflessione sulla longevità?
Direi sul ciclo naturale della vita: in anni in cui facciamo di
tutto per vivere più a lungo e per rimanere giovani (penso ad
esempio alla chirurgia estetica), l’opera ci dice che dobbiamo
accettare le leggi naturali e che non dobbiamo invece provare a controllare la natura. È un inno alle cose che non possiamo capire ma che dobbiamo accettare, perché comunque arriverà prima o poi il momento in cui la vita si concluderà. La
stessa protagonista all’inizio dello spettacolo cerca ansiosamente la ricetta che ha perduto e che le servirà per vivere altri trecento anni, ma alla fine capisce che non potrà più continuare a vivere.
I personaggi maschili disegnano una costellazione di varia
umanità: l’aristocratico Prus, il pragmatico Koletatý, il colto e
ottimista Vitek, il fragile Janek, l’avido Gregor, il vecchio e rincitrullito Hauk. Come li inquadra?
Ruotano tutti attorno a Emilia Marty e sono tutti innamoIl caso Makropulos secondo Robert Carsen
(foto di Alain Kaiser – operanationaldurhin.eu).
rati di lei, che non ne può più di questi uomini che per secoli cadono uno dopo l’altro ai suoi piedi. Dopo essere sopravvissuta a tutti i suoi amanti, l’amore non significa più nulla
per lei, perché ha vissuto troppo e ha visto troppe volte le stesse cose. Solo con il vecchio Hauk-Sendorf, che sembra riconoscerla, ricorda divertita la relazione vissuta cinquant’anni
prima. Tra l’altro il vecchio personaggio impersona lo stesso
Janáček, che a settantadue anni era innamorato di una giovane trentenne che fu la musa ispiratrice delle sue ultime opere: Kamila Stösslová.
Nel libretto dell’opera il primo atto si svolge nello studio di
un notaio, il secondo nella scena vuota di un grande teatro, il
terzo in una stanza d’albergo. Qual è l’ambientazione del suo
allestimento?
Tutto comincia e termina a
teatro. Nel secondo atto la
scena dovrebbe essere ambientata dietro
le quinte ma io
voglio che avvenga sul palcoscenico subito dopo una
rappresentazione, con il
pubblico plaudente ancora
in sala che grida quanto lei è
stata brava, divina, la migliore di tutte. Poiché nessuno
ha mai detto
che cosa avesse cantato, mi
è parso interessante supporre
che avesse appena interpretato il personaggio di Turandot alla sua prima
rappresentazione, in una teatrale Cina favolistica. Questo innanzitutto perché il debutto di Turandot è avvenuto nello
stesso anno in cui Janáček ha composto il Caso Makropulos, il 1926; in secondo luogo perché Turandot, come Emilia Marty, è una donna che non può amare e che, anzi, odia
gli uomini.
Dunque i cambiamenti di ruolo sono nodali nella sua visione dell’opera.
Assolutamente sì, perché ritengo di fondamentale importanza che Emilia Marty non sia un solo personaggio ma
molti. Grazie agli splendidi costumi di Miruna Boruzescu,
i cambiamenti avvengono con rapidissime trasformazioni
della protagonista in scena. Quando Emilia Marty sveste il
costume di Turandot, ad esempio, diviene un altro mito di
quest’epoca: Lulù.
I dialoghi serrati, i temi brevi e incisivi, le ripetizioni ossessive rendono la musica frenetica e inquietante.
La musica è effettivamente molto strana, frammentata e
segmentata, un po’ come la vita di Marty. Ma alla fine c’è
una scena decisiva, in cui Emilia può finalmente raccontare
tutto quello che è successo e rivelare di essere Elina Makropulos. Quando la protagonista dice finalmente la verità, c’è
un’esplosione di lirismo che chiude l’opera e completa il ritratto affascinante di una situazione impossibile. ◼
focus on
Sì, fin dal Preludio, che è un brano straordinario che io
sfrutto per far scorrere visivamente tutte le epoche vissute
dalla protagonista, da quando beve l’elisir nel Cinquecento fino agli anni venti del Novecento. E questo passando attraverso opere e ruoli teatrali successivi: Francesca da Rimini, Don Carlos, Rosenkavalier, Traviata, Tosca e così via, andando avanti nel tempo con i protagonisti più in voga delle
varie epoche.
Che opinione ha di questa donna al tempo stesso bellissima e
mostruosa?
Innanzitutto non voglio giudicarla, perché si tratta di una
vittima: non ha scelto lei di vivere trecento anni ma è stata
forzata, a rischio della sua stessa vita, quando era una ragazzina totalmente inconsapevole. Una vittima che è divenu-
15
focus on
16
La dolcezza
della morte
I
n attesa che arrivi in laguna Il caso Makropulos
secondo Robert Carsen,
ripubblichiamo qui una
recensione di Mario Messinis
che risale a vent’anni fa, quando a firmare la regia dell’opera
di Janáček era Luca Ronconi,
in uno spettacolo allestito per il
Regio di Torino.
Per un paio di settimane Torino è la capitale del teatro
in Italia. Luca Ronconi mette in scena contemporaneamente L’affare Makropulos
del drammaturgo ceco Karel Čapek al Teatro Carignano e al Regio l’opera omonima di Leoš Janáček, che utilizza abbastanza fedelmente
la commedia con qualche taglio e un nuovo epilogo. Bellissima l’idea di allestire negli stessi giorni il testo drammatico e quello musicale, considerate le relazioni che sussistono tra Čapek e Janáček. Il
musicista ceco infatti era stato
fortemente impressionato nel
1922 dalla commedia, che subito dopo musicò ultimando
la stesura nel 1925.
Vi si racconta la storia di una
di Mario Messinis
cantante di trecentotrentasette anni, dall’aspetto però giovanile, cui il padre aveva somministrato un elisir di lunga vita, e che ritorna nella nativa Praga alla ricerca del documento con la formula per rinnovare la propria longevità. La pièce
è costruita come un giallo, tra cause giudiziarie, freddi erotismi, cinismo e aggressività: intorno a Emilia Marty, che altri non è che Elina Makropulos, nata oltre tre secoli prima,
ruotano personaggi vari e caratteristici, ammaliati dalla
sua bellezza e dalla sua spregiudicatezza. Ma nel momento in cui Emilia rintraccia la
formula desiderata assapora
anche la dolcezza della morte
e L’affare Makropulos si conclude con un epilogo consolatorio. Campeggia dunque
la figura femminile di Elina
Makropulos / Emilia Marty,
tratteggiata da Ronconi e dalla Kabaivanska con gelida eleganza, in cui la giovinezza è a
tratti come artificiale, incrinata da barbagli di decrepitezza.
Luca Ronconi si muove perfettamente a suo agio nella cultura mitteleuropea del
primo dopoguerra, nella Praga magica ove l’evidenza realistica si confonde con un mondo allucinatorio. L’impianto
scenografico sghembo vale a
creare un clima di lucido delirio. Sono architetture un poco
surreali: una pista attraverso il
palcoscenico con librerie oblique e aggettanti, linee spezzate e geometriche tra espressionismo e Bauhaus. Ne esce uno
spettacolo magistrale, in cui
Il caso Makropulos
secondo Luca Ronconi,
Torino, Teatro Regio
(foto di Marcello Norberth).
Immagini tratte da Ronconi.
Gli spettacoli di Torino,
a cura di Ave Fontana
e Alessandro Allemandi,
Umberto Allemandi & C.,
Torino 2006.
getto sembrerebbe respingerle. Ma Janáček aveva sempre bisogno di sentire le suggestioni dell’aria aperta, della pittura di paesaggio. Solo nella grande scena conclusiva, in cui
Emilia Marty rinuncia all’immortalità, Janáček ricorre ad
un flusso melodico continuo, liberatorio e persino struggente. Ci si chiede come mai, sotto il profilo drammaturgico, la
trasformazione psicologica della protagonista sia così repentina. Come si concilia questa straordinaria scena lirica con la caratterizzazione
tagliente e crudele delle pagine precedenti?
Raina Kabaivanska è stata una protagonista d’eccezione anche per le risorse di
attrice (si pensi al suo ingresso da «femme fatale»,
con un sontuoso cappotto nero, molto anni venti). Eccellente tutta la fitta
compagnia di cui ci limitiamo a ricordare il bravissimo tenore José Cura. La
bella traduzione è di Sergio
Sablich. Direzione autorevole e ben coordinata di
Pinchas Steinberg alla testa
dell’orchestra del Regio. ◼
(da «Il Gazzettino»,
18 dicembre 1993)
focus on
Ronconi mette a fuoco anche una recitazione analitica (la
scenografia è di Margherita Palli, i costumi di Carlo Diappi).
L’affare Makropulos è tra i lavori teatrali più affascinanti di
Janáček, momento paradigmatico dell’ultima stagione creativa di un musicista sempre più attratto dalle tentazioni delle avanguardie. Non c’è più la violenta temperatura passionale della sua prima maturità né un esplicito richiamo folclorico. Il discorso è rotto,
fratturato, caleidoscopico.
Il linguaggio vocale privilegia uno stile di conversazione asciutto, strettamente legato al ritmo della parola. Per altro le insorgenze e le allusioni cantabili sono continue: l’orchestra è tutto un pullulare di
melodie brevi e cangianti,
in una scrittura cameristica segmentata e sottile. Si
colgono qua e là le predilette voci della natura, anche se il carattere del sog-
17
opera
18
«La cambiale
di matrimonio»
vista da Enzo Dara
nella Cenerentola di Rossini, vestendo i panni di Don Magnifico, e ho indossato le vesti di Don Pasquale nell’omonima opera donizettiana (specializzato nei ruoli di “basso buffo”, è dagli anni novanta che Dara si dedica prevalentemente alla regia, ndr.). I ragazzi dell’Accademia di Belle Arti –
con i quali si è da subito instaurato un ottimo rapporto, professionale e umano – si stanno occupando della costruzione
delle scene seguendo il progetto di Stefano Crivellari. All’inizio dei lavori, ciascuno studente aveva elaborato e presentato il proprio disegno scenografico e non è stato facile scegliere. Alla fine ho voluto il progetto di Stefano, sul quale sono intervenuto solo con qualche piccolo accorgimento. Per
a cura di Arianna Silvestrini
quanto riguarda la regia, la mia Cambiale di matrimonio –
opera che ho affrontato per la prima volta nelle vesti di interl prossimo 16 marzo al Malibran di Venezia andrà
prete nel 1991 al Rossini Opera Festival (allora la regia era
in scena La cambiale di matrimonio di Gioacchino Rosdel grande Luigi Squarzina) – è decisamente tradizionale,
sini. L’opera – farsa comica in un atto su libretto di Gaema non per una scelta di parte o per principio. In realtà amo
tano Rossi – rientra nel progetto «Atelier della Fenice al
molto anche le messinscene moderne e credo che la questioTeatro Malibran», che prevede la collabone non riguardi la distinzione tra trarazione con importanti istituzioni cittadidizione e modernità. Penso piuttosto
ne quali l’Accademia di Belle Arti, il Conche esistano belle e brutte regie: queservatorio di Musica «Benedetto Marcelsta è l’unica differenza possibile. SpesVenezia
lo» e l’Università Ca’ Foscari al fine di reso gli allestimenti moderni corrono il
Teatro Malibran
alizzare l’incontro e la collaborazione tra
rischio di voler essere a tutti i costi di
16, 20, 28 marzo e 12 aprile, ore 19.00
le potenzialità creative e produttive del
forte impatto, quasi scioccanti, men22 marzo, ore 17.00
Teatro e quelle formative di centri di stutre le regie più tradizionali risentono
24 marzo e 14 aprile, ore 15.30
di altamente qualificati. Da questa uniodi un approccio oramai stanco e fini16, 17 aprile, ore 10.30 (riservate alle scuole)
ne è nato un polo di produzione che pur avscono con l’annoiare le platee».
valendosi delle capacità organizzative delChe ruolo ha la sua esperienza di inla Fenice mantiene però la propria fisionomia di cantiere speriterprete nelle regie che realizza?
mentale. Il progetto, coordinato dal direttore della produzioIl pericolo più insidioso per un cantante che si cimenta con
ne artistica Bepi Morassi, ha visto il suo
la regia è quello di riciclare alcuni piccoli accorgimenti tecdebutto nel gennaio del 2012 con la
nici degli allestimenti a cui ha preso parte nelle vesti di intermessinscena dell’Inganno feprete. In passato ho cantato al Covent Garden di Londra, allice (cfr. vmed n. 44, p. 19),
la Scala di Milano, all’Opéra di Parigi, e in vent’anni di carla prima delle cinque farriera ho potuto lavorare con Claudio Abbado, Luca Roncose di Gioachino Rossini, Luigi Squarzina – come dissi poc’anzi – e molti altri. Nel
ni che saranno via
’90, infine, ho debuttato alla regia allestendo Il barbiere di
via proposte
Siviglia al Teatro Filarmonico di Verona ed è così cominciaal Malita questa bella avventura.
bran. In
Per quel che riguarda l’allestimento della Cambiale di maoccasione
trimonio, quali novità ci saranno?
dell’alleDue saranno le novità principali, una delle quali desidero
st i m e nrimanga una sorpresa per il pubblico che verrà in sala. Posto della
so solo dire che il negoziante americano Slook non viaggerà
Cambiadal Canada a Londra ma giungerà invece a Venezia, dove inle di macontrerà la Commedia dell’Arte. Ogni carattere, nell’assotrimoluto rispetto del testo musicale e senza scadere nella gag, sarà
nio – con
rappresentato da una delle maschere della Commedia. Nelrepliche
la vita di tutti i giorni ciascuno di noi è circondato da tanti
fino al 17
personaggi – il garzone, l’ortolano, il droghiere, ecc. –, tutaprile –
ti in qualche maniera maschere che partecipano alla narraabbiamo
zione della nostra vita. Così in questa messinscena rossiniaincont rana ho cercato di rappresentare la complessità e la ricchezza
to Enzo Dara,
dell’esistenza, senza però mai alterare i personaggi nella loche ci ha raccontaro essenza: in punta di penna, diciamo così. Spero di far dito la propria idea di revertire il pubblico con una rappresentazione in parte realistigia e i rapporti di collaboca e in parte surreale di un’opera che, pur svolgendosi in un
razione tra la Fenice e l’Acatto unico, è decisamente articolata. Tutti i personaggi delcademia di Belle Arti.
la Cambiale sono molto colorati: Fanny e Edoardo, gli innamorati, Tobia Mill, il padre di Fanny… Nell’opera che ve«Per me è una vera gioia ladrete al Malibran, Tobia Mill sarà il titolare di una pelliccevorare a Venezia, dove in
ria che arriva a Venezia per commerciare le proprie pelli. Ma
passato – prima di ininon voglio dirvi di più e… vi aspetto a teatro. ◼
ziare il mio percorso
come regista –
ho cantato
Gioachino Rossini (commons.wikimedia.org).
Continua il progetto
«Atelier della Fenice
al Teatro Malibran»
I
S
a cura di Vitale Fano
tefano Montanari, direttore d’orchestra e violinista romagnolo, dirigerà al Teatro Malibran, a partire dal 16 marzo, La cambiale di matrimonio di Rossini, tappa 2013 del progetto «Atelier Malibran» (cfr.
pagina accanto) dedicato alla scoperta di giovani interpreti attraverso le farse rossiniane. Gli chiediamo di raccontarci questa sua esperienza.
«Sono molto felice di dirigere le farse rossiniane a Venezia:
ho cominciato l’anno scorso con L’inganno felice, che è
stata la mia prima esperienza
con Rossini, che mi ha molto
stupito per gli spunti musicali
quasi preromantici, se non romantici, che contiene. Intendo
dei momenti fortemente patetici, che nella Cambiale di matrimonio non ci sono perché si
tratta di un’opera più leggera,
che deve perciò assumere una
veste brillante».
L’opera anticipa alcuni elementi che torneranno nel Barbiere di Siviglia e in altri lavori rossiniani.
Sì, Rossini c’è già tutto, anche se aveva solo diciott’anni
quanto scrisse La cambiale di
matriomonio. Penso che all’epoca fosse molto dedito alla ricerca perché nell’opera sono
presenti stilemi mozartiani,
altri che poi troviamo in Donizetti ed elementi che rimangono per sempre nel Rossini
che conosciamo. Per esempio, con L’inganno felice Rossini
guarda indietro fino a prima di Mozart e poi si spinge avanti,
alla ricerca di soluzioni originali.
C’è nella Cambiale di matrimonio una dialettica interessante fra la parte buffa e quella sentimentale.
L’opera oscilla fra momenti di grande dinamismo e momenti cantabili in cui emerge il lato sentimentale. Quello
che cercherò di fare è di non rendere i cantabili troppo «sonnolenti», evitando tempi troppo lenti, altrimenti le parti diventano difficili per i cantanti e pesanti per gli ascoltatori.
La regia è affidata a Enzo Dara (cfr. intervista pagina accanto), un celebre basso buffo che ha grande esperienza di palcoscenico. Ha già avuto occasione di lavorare con lui?
No, mai; questa è la prima volta. In ogni caso amo lavorare a stretto contatto con chi si occupa della regia: quello a cui
ambisco è che non ci sia mai scollamento fra quanto facciamo in buca e quello che accade sul palcoscenico.
Da questo punto di vista è molto importante il rapporto con
il testo.
Il mio lavoro di concertazione mira a far emergere le paroStefano Montanari (foto di Dan Codazzi).
le, sia nelle arie che nei recitativi. Dovremo rendere le sonorità dei cantabili molto leggere, cercando di rendere al massimo il fraseggio e tutti gli accenti musicali, che sono sempre
simmetrici agli accenti del testo. Quanto ai recitativi, che sono piuttosto lunghi, dovranno essere interpretati in maniera molto teatrale ed essere accompagnati con gusto e varietà .
L’edizione di quest’anno si arricchisce della collaborazione tra la Fenice e il Conservatorio «Benedetto Marcello» di
Venezia, la cui orchestra eseguirà le ultime tre recite al posto
dell’Orchestra del Teatro.
È una cosa splendida che dovrebbe essere messa in atto anche in altri teatri e molto più spesso, mentre invece si realizza quasi solo a Venezia. Purtroppo, per miei precedenti impegni, non potrò dirigere le tre recite di aprile con l’Orchestra del Conservatorio (che credo sarà diretta in quelle occasioni da Giovanni Battista Rigon), ma mi prenderò cura di
tutta la preparazione e della concertazione con gli studenti.
Sarà un’operazione impegnativa! La partitura non è facile.
In effetti la partitura è difficile, non solo dal punto di vista
tecnico ma anche per quanto riguarda lo stile. Il problema è
che ci sono tante cose che rimangono «dietro», cioè non sono scritte ma che sappiamo che vanno eseguite, soprattutto nelle legature e nei fraseggi. Io vengo dalla filologia e dallo studio della prassi antica, che purtroppo nei Conservatori
si insegnano ancora troppo poco.
L’anno scorso al Malibran ha proposto al pubblico veneziano una lettura molto enfatizzata delle Quattro stagioni di Vivaldi. Ci sono anche in Rossini margini di libertà esecutiva?
Non molti. La scrittura di Rossini ha molti più segni d’espressione e quindi siamo più vincolati. I margini ci sono in
relazione al fraseggio, agli accenti, agli appoggi, al legato e allo staccato, questo sì.
L’Ouverture è innovativa perché comincia con un tempo lento, che tra l’altro ha un bell’assolo di corno.
A mio parere questo deriva dalla tradizione antica, in cui
molte arie sono affidate a strumenti come il corno, la tromba o il fagotto, che non erano certo relegati a meri strumenti d’armonia (basti pensare a Haendel). La melodia del corno nell’Ouverture è molto dolce e ha subito l’effetto di creare un ambiente magico. ◼
opera
Stefano Montanari
sul podio
per Rossini
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03 SKYClassica_Stagione_out_v 26/10/12 11:23 Pagina 1
Un 2013
ricco di eventi
per l’Associazione
Richard Wagner
Venezia
U
di Leonardo Mello
n febbraio particolarmente intenso ha caratterizzato le attività dell’Associazione Richard
Wagner Venezia presieduta da Alessandra Althoff Pugliese. In una giornata importante come quella del 13 – ricorrenza dei centrotrent’anni dalla morte del Genio di Bayreuth, e data simbolica di fondazione
dell’Associazione, nata appunto il 13 febbraio 1992 per volontà e su impulso di Giuseppe Pugliese – si sono visti alternare due appuntamenti di grande rilevanza. Alle 17, in collaborazione con la Fondazione Cini, presso la magnifica sala
degli Arazzi dell’isola di San Giorgio Uri Caine si è esibito
in un concerto dedicato a Wagner e a Verdi, eseguendo nella prima parte improvvisazioni e variazioni da Tristan und
Isolde, dal Tannhäuser e dai Lieder. Passando al repertorio
del compositore di Busseto ha poi proposto, alla sua maniera, estratti dall’Otello, richiamando alla memoria la fortunata Othello Syndrome da lui presentata al Piccolo Arsenale il 13 febbraio 2003, quand’era direttore del settore Musica della Biennale. Alle 20 e 45 poi, trasferendosi alla Chiesa della Pietà, si è poi potuta gustare – all’interno del Concerto delle Ceneri organizzato dalla Fondazione Levi (cfr.
pp. 66-67) – un’altra primizia, lo Stabat Mater di Palestrina
nella versione messa a punto da Wagner nel 1848. Ma in cosa consiste, esattamente, quest’operazione wagneriana? Lo
spiega esaurientemente Marco Manzardo nel programma di
sala: «L’intervento di Wagner consisté, innanzitutto, nel ripartire l’intero mottetto in una serie di azioni dialogiche affidate di volta in volta a compagini differenti, alternando per
ognuno dei due cori il quartetto di solisti, il semi-coro e il coro pieno, a loro volta con aggiunta o meno dei soli. Un ragioUri Caine (foto di Simon Miele – wikimedia.org).
Giovanni Pierluigi da Palestrina.
namento per addizione o sottrazione che ricorda la logica dei
resgistri d’organo, la cui somma o combinazione determina
dinamica e colore del suono, oppure la pratica del concerto
barocco italiano, in cui l’alternanza tra concertino dei solisti
e concerto grosso dei “tutti” costituiscono uno dei principali
elementi di originalità e ricerca timbrica. Questo espediente,
unito a numerose e puntigliose indicazioni di nuances dinamiche, rende la lettura wagneriana del mottetto fortemente
espressiva e ricca di colori, con esiti talvolta quasi madrigalistici, in cui la musica ritrae fedelmente l’immagine evocata dalle parole».
Tra i prossimi appuntamenti, si segnala, il 15 marzo,
nell’ambito dell’iniziativa intitolata «Wagner e il cinema»,
la proiezione, alla Querini Stampalia, di Richard Wagner,
pellicola muta di Carl Froelich, accompagnata dalle improvvisazioni pianistiche di Orazio Sciortino (già borsista
dell’arwv a Bayreuth nel 2009). Il 18 aprile, poi, presso l’Ateneo Veneto, sarà presentata la seconda edizione del monumentale volume Richard Wagner. Diario veneziano, a cura
di Giuseppe Pugliese (Corbo e Fiore Editori, 2012), di cui in
chiusura si cita un breve estratto della splendida introduzione: «Questa è la storia dell’incontro di un artista con una
città: Wagner e Venezia. Un incontro – per gli eventi che ne
hanno tracciato l’itinerario e scandito il ritmo – destinato a
fare di Venezia una protagonista della vita e dell’arte del musicista. Sei i soggiorni veneziani di Wagner, dal 1858 al 1883.
All’origine di ciascuno di essi – simile ad un Leitmotiv – due
condizioni: il bisogno di fuggire da qualcuno e da qualcosa, quasi ossessivo pedale psicologico di
una esistenza tormentata, irrequieta, eternamente insoddisfatta. Fuga dal mondo esterno, sempre ostile, dagli affanni, dai problemi pratici, dalle tempeste sentimentali,
dalle fatiche quotidiane. Il bisogno, sempre più acuto, doloroso,
di un rifugio (il foscoliano “porto” ove trovare quiete) in una città
amica, discreta, capace di accoglierne e capirne le contraddittorie, tumultuose aspirazioni, placarne l’animo, avvolgerlo in quell’isolamento e in quel silenzio tanto
a lungo vagheggiati. Questa
città – Wagner non ha dubbi – è Venezia». ◼
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1813 - 2013
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Wagner
e i suoi soggiorni
in Italia
L
di Renzo Cresti
a prima volta che comparve il nome di Richard
Wagner in Italia fu sul quinto numero della rivista
fondata da Giulio Ricordi, «La Gazzetta Musicale di Milano», dove si pubblicarono, il 30 gennaio
1842, tre lettere di un «dotto critico musicale tedesco il sig.
R. Wagner» sotto il titolo La musica in Germania, nel quale si descrivono le qualità della musica strumentale tedesca,
proponendo una sorta di equazione musica sinfonica e ricerca
armonica = musica tedesca: sarà il malinteso che dominerà il
mondo musicale italiano non solo ottocentesco ma che perdurerà fino alla metà del Novecento. Nell’ambiente musicale
italiano, a torto o a ragione, si pensava che la musica tedesca
fosse troppo intellettuale e che il predominio della musica
orchestrale avrebbe nuociuto all’espressività lirica. Lo stesso Wagner si era reso conto dell’eccesso di cerebralismo dei
compositori tedeschi, ma non riuscirà a liberarsene, rimarrà
egli stesso un alto esponente proprio di questa tendenza che
parte dai compositori fiamminghi, prosegue con gli organisti barocchi, viene portata avanti nell’epoca di Bach e arriva fino a Beethoven, in una linea non certo retta ma comunque assai visibile. Tutti i musicisti e i critici italiani dell’epoca partirono da questa equazione e tutti, anche quelli wagneriani, ne accettarono le conseguenze.
Il critico musicale Filippo Filippi, che pure amava Wagner,
scrisse che il maestro tedesco «è grande quando si abbandona alla spontaneità della fantasia, altrettanto sia contorto e
minuzioso e pesante quando si avvolge di progetto nelle tortuosità del sistema, e quando troppo rigorosamente lo vuole applicare»1. Filippi fu l’unico critico italiano che assistette
alle rappresentazioni di Weimar nel 1870 dell’Olandese volante, Tannhäuser, Lohengrin, I Maestri cantori di Norimberga, e queste esecuzioni le recensì sul giornale «La perseveranza» sotto il titolo Viaggio nelle regioni dell’avvenire. Pur apprezzando lo spessore culturale
e la resa teatrale delle opere di Wagner,
Filippi rimase ancora legato al mondo musicale italiano secondo lo
stereotipo dell’equazione musica italiana = canto. Egli apprezzò infatti l’abbondanza
di melodia dei Maestri cantori e, per la stessa ragione,
Lohengrin sarà l’opera più
seguita, amata e rappresentata in Italia.
Wagner ebbe una relazione controversa con
la cultura italiana, della quale ben poco conosceva, apprezzava il
solo Leopardi, i cui scritti aveva conosciuto a Zurigo
grazie al De Sanctis2 , precettore di Mathilde Wesendonck, mentre di musica italiana e in specie
di opere ne conosceva parecchie,
tanto da avere chiara la situazione della nostra musica teatrale fino agli anni qua-
ranta. Il rapporto che Wagner ebbe con l’Italia, intesa
quale territorio geografico ma anche come luogo d’arte, di bellezze naturalistiche e soprattutto come spazio
mentale, fu intenso e complesso, dagli anni cinquanta in
avanti. La musica italiana fu detestata, con un’ammirazione
espressa solo nel caso di Bellini (di cui Wagner diresse molte
opere e più volte) e, in parte, di Rossini (Verdi fu totalmente ignorato), mentre i luoghi italiani lo attrassero, come posti in cui ritirarsi e concentrarsi (Venezia) o nei quali ricaricarsi e rifornirsi interiormente di energia positiva (Ravello
e Palermo). I momenti trascorsi nel nostro Paese furono nel
complesso felici e ricchi di prospettive, alcune località furono foriere di ispirazioni, come La Spezia quando ebbe l’intuizione del pedale che apre L’oro del Reno; a Venezia concluse
il secondo atto del Tristan, a Siena il duomo gli ispirò il santuario del Graal. Inoltre non è da trascurare il fatto che Cosima nacque a Como e che Liszt, soprattutto dopo aver preso
gli ordini minori, trascorse molto tempo in Italia. La morte
a Venezia non fu un caso, il silenzio che tanto amò della città lagunare, lo avvolse nel suo ultimo viaggio come un sudario di suoni velati3.
Wagner fu un ottimo camminatore e anche alpinista, nei
suoi soggiorni in Svizzera scalò diverse volte le Prealpi svizzere. A parte uno sconfinamento a Formazza, durante le gite in
montagna, il primo viaggio in Italia venne realizzato nell’estate 1853, quando lasciò Zurigo per delle cure a Sankt Moritz e da qui proseguì per Torino, dove arrivò il 29 agosto, ma
la città non gli piacque, proseguì allora per Genova e ne ebbe una «magnifica impressione», come racconta nella Mia
vita. Il 4 settembre, con un battello, raggiunse La Spezia, lo
colpì la dissenteria ed ebbe bisogno di riposare, cadde in un
dormiveglia in cui ebbe l’intuizione del lungo pedale di mib
che apre L’oro del Reno, ricordò questo sogno sonoro, oltre
che nella sua autobiografia, anche nella lettera che, il 7 novembre 1871, indirizzò a Boito, dopo la première di Lohengrin a Bologna (che poi fosse proprio così è tutto da dimostrare, come tanti altri racconti della Mia vita).
Un secondo soggiorno italiano avvenne cinque anni più
tardi, dopo che la moglie Minna aveva scoperto la relazione
di Richard con Mathilde Wesendonck. Wagner fu costretto a lasciare Zurigo, cercò rifugio a Ginevra, quindi,
il 29 agosto 1858, fu a Venezia, dove lo raggiunse Karl Ritter. La città dipendeva dall’amministrazione austriaca e questo lo avrebbe tenuto lontano dalle grane con la polizia tedesca.
Prese alloggio all’hotel Danieli, poi abitò
nel mezzanino di Palazzo Giustiniani, dai
grandi e spogli saloni, con muri ammuffiti e ricoperti di velluti sbiaditi; qui, dal
suo arrivo fino alla partenza, avvenuta
il 24 marzo dell’anno seguente, lavorò
con regolarità e con sublime ispirazione al Tristan, in solitudine. L’autunno
e l’inverno veneziano, con le sue brume ben si addicevano allo stato d’animo. Solo Ritter, il pianista Winterberger, allievo di Liszt, l’altro pianista Tessarin e il principe russo Dolgoruki riuscirono a frequentarlo. I canti dei gondolieri gli crearono forti suggestioni e gli suggerirono la melodia
del pastore nel Tristan. Era circondato
dall’acqua, come i suoi eroi, dal silenzio rotto solo da vibrazioni che traducevano la linRichard Wagner.
gua in suono.
Fu atterrito dalla vista delle gondole nere, quasi come se avesse avuto un presagio che una di quelle avrebbe trasportato la sua salma. I canti dei gondolieri però lo
affascinavano e gli suggerirono il lamento del corno pastore
all’inizio del terzo atto di Tristan. Il tempo sospeso della città sull’acqua lo faceva sentire beato, è lo stesso tempo spazializzato che avvolge gli amanti del dramma. Nel silenzio veneziano riuscì a comunicare al mondo il più sublime lamento d’amore.
Immergendosi nei meandri sonori del Tristan4 la sua mente fu portata in luoghi lontani che evocano il già accaduto e
prefigurano il cosa potrebbe accadere; sono le zone del mito ma pure quelle dell’inconscio, legato alla vita corrente ma
contemporaneamente lontano dal presente, luoghi dove la
cronologia è oscillante come il rapporto con la realtà. Una
successione di istanti irrelati è ciò che succede anche nell’esperienza amorosa, dove tutto si concentra sull’oggetto amato che sospende ogni ordine temporale e ogni spazio concreto. Certamente
la relazione con Mathilde contribuì alla creazione della particolare temporalità spazializzata del Tristan, come fu
determinante il soggiorno a Venezia,
luogo sostanzialmente u-topico, fermo nel tempo e sospeso nello spazio.
Venezia non ha un centro, come non
ce l’aveva Wagner nel momento in cui
compose i Wesendonck-Lieder e Tristan o meglio il suo centro era quello di
un essere instabile, di un amore sfuggente, di una meta irraggiungibile.
Oltre a questo del 1858-1859 vi furono altri cinque soggiorni veneziani
(novembre 1861, settembre 1876, ottobre 1880, aprile 1882 e dal 14 settembre dello stesso anno alla morte) e
ognuno di essi fu causato dall’esigenza di ritirarsi lontano dall’affaristica volgarità delle città industrializzate (come più volte ebbe a dire). Di questo primo
soggiorno e del secondo, avvenuto due anni e mezzo dopo,
Wagner ne parla nella Mia vita, nel Diario veneziano e nelle lettere a Mathilde Wesendonk, mentre degli altri quattro
abbiamo notizie dagli appunti che Cosima prese, nel suo diario quotidiano, dal 1869 al 18835. Dunque sei furono i soggiorni veneziani di Wagner, dal 1858 al 1883, e «all’origine di ciascuno di essi il bisogno – simile ad un “leit-motiv”
psicologico, con “variazioni” – di fuggire da qualcuno o da
qualcosa, costante “pedale” di una esistenza tormentata, irrequieta, eternamente insoddisfatta. […] Il bisogno sempre
più acuto, doloroso, di un rifugio spiritualmente sicuro (il
foscoliano “porto” dove trovare quiete) in una città amica,
discreta, capace di accogliere e di comprendere le sue tumultuose aspirazioni, e avvolgerlo in quel silenzio e in quella solitudine tanto a lungo vagheggiata»6.
Il silenzio dell’inverno veneziano lo avvolse, come ben dice Pugliese, non era tanto un’assenza di rumori quanto una
quiete interiore che lo sollecitò alla creatività, che dall’interiorità assolutamente concentrata su se stessa si alzava alle
vette più alte. Riusciva ad avere qualche notizia di Mathilde
da Frau Wille, la quale aveva detto alla signora Wesendonck
che Wagner non possedeva un pianoforte nel suo soggiorno veneziano: fu così che Mathilde gliene procurò uno che
fece la felicità di Richard. Riuscì ad avere notizie anche da
A sinistra, Mathilde Wesendonck.
A destra, Cosima Wagner.
Minna, la cui salute stava peggiorando, fu Liszt a mandargli
qualche denaro per le cure necessarie alla moglie. A Venezia
ascoltò le sue prime musiche in territorio italiano, realizzate
dalle Bande militari dei due reggimenti austriaci in sede, si
trattò delle ouverture dal Rienzi e dal Tannhäuser.
Il periodo veneziano fu tormentato: nell’ottobre, Otto
Wesendonck lo informò della morte del loro figlio Guido;
fu per Wagner un colpo assai duro e scrisse ai Wesendonck
per le condoglianze. Furono mesi difficili, trascorsi in solitudine e con una forte gastrite, il pessimismo lo avvolgeva
tanto da fargli presagire una fine imminente. Il governo di
Sassonia aveva informato quello austriaco della residenza su
suolo veneziano di un suo ricercato, e fu così che il 6 febbraio
1859 gli venne notificato di essere stato bandito da Venezia.
Del resto, dopo avergli suggerito il grande duetto d’amore, la
città aveva terminato il suo compito; il 24 marzo 1859 lasciò
la laguna, con in valigia il secondo atto concluso del Tristan.
Partì per Lucerna, via Milano dove si recò alla Scala e dove si
rese conto del lusso esteriore e del degrado del gusto artistico italiano (forse aveva anche pensato di fermarsi a Milano,
ma la prima impressione negativa cancellò questo pensiero).
L’umore era nero e si sentiva un uomo distrutto e un musicista da far pietà! Come ci dicono le lettere di questo periodo.
Il 26 marzo lasciò Milano e tornò in Svizzera.
Nel 1861 Wagner scrisse ai Wesendonck della situazione
difficile a Vienna, dove era prevista la rappresentazione del
Tristan ma che trovava molte difficoltà. Forse per rasserenarlo o forse per inconscio masochismo, i coniugi gli fissarono
un appuntamento a Venezia, dove, nel novembre Wagner si
recò, attraversando il Semmering, facendo tappa a Trieste
e giungendo in battello nella città lagunare. Qui trascorse
quattro giorni, dall’8 all’11 novembre, nei quali si rese conto che il suo rapporto con Mathilde doveva considerarsi concluso. Otto e sua moglie dimostrarono di aver rinsaldato il
loro rapporto, e per di più lei era incinta. L’unica esperienza
estetica veneziana fu la vista dell’Assunzione di Tiziano che
gli causò una forte emozione, talmente forte da spingerlo –
come lui stesso dichiara nella Mia vita – a riprendere il progetto dei Maestri cantori. Cosa c’entri l’Assunta con I Maestri
è cosa difficile da capire, probabilmente Wagner si riferiva
all’euforia tipica dei momenti in cui si sente crescere l’energia creativa, una forte spinta al lavoro, ma anche al fatto che
della sua opera aveva parlato con Mathilde, probabilmente il
giorno prima o il giorno stesso della visita al capolavoro del
Tiziano, chiedendole la restituzione dell’abbozzo che aveva
steso nel 1845 e che le aveva regalato (lei glielo restituì quale dono nell’imminente Natale). Wagner non aspettò di
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riavere l’originaria bozza, e stese un nuovo copione, pressoché uguale a quello originario, che evidentemente era rimasto bene impresso nella sua memoria, e lo spedì all’editore7.
Il 14 settembre 1868 ebbe inizio il quarto viaggio di Wagner in Italia, scese con Cosima attraverso il Gottardo e fece la prima tappa sul lago Maggiore, poi proseguì per Genova, dove, per la seconda volta, trascorse giorni felici. Quindi
si recò a Milano per incontrare l’editore Giovannina Lucca
che rilevò i diritti per le sue opere in Italia. La coppia ritornò in Svizzera passando da Como (la città nativa di Cosima).
Passarono alcuni anni prima che Wagner tornasse in terra italiana. Fu quando, per riposarsi dalle fatiche dell’allestimento del Ring a Bayreuth, i Wagner, il 14 settembre 1876,
partirono per l’Italia. Passando da Verona, raggiunsero Venezia, e qui fu recapitata a Wagner una lettera dell’amministratore del festival, Feustel, che informava il maestro del debito di centoventimila marchi, una cifra enorme che Wagner
dubitò di poter reperire. Gli fu prospettato di trasferire il festival a Monaco, ma ovviamente non accettò. Acconsentì però che La Walkyria fosse staccata dal ciclo e rappresentata da
sola a Vienna (progressivamente dette l’autorizzazione alla
messinscena di questa singola giornata, che fu la più richiesta, anche in altri teatri).
All’arrivo dell’autunno i Wagner scesero a Napoli, poi proseguirono per Sorrento, dove ritrovarono Nietzsche, che era
là per curarsi in compagnia di Paul Rée; i vecchi amici s’incontrarono solo due volte, oramai il loro dialogo si era interrotto. Quindi i Wagner risalirono verso Roma, dove si trattennero per quattro settimane, durante le quali Richard fu
festeggiato dall’ambasciatore tedesco von Keudell, che dette una serata in suo onore, e dalla Reale Accademia di Santa Cecilia, che lo nominò «socio onorario». Dall’ambasciatore conobbe Giovanni Sgambati, fu colpito dal suo Quintetto per pianoforte e lo presentò alle edizioni Schott (che poi
pubblicò molte composizioni di Sgambati), fu uno dei pochi
compositori a cui Wagner degnò attenzione. A Roma Cosima incontrò la principessa Sayn-Wittgenstein e Wagner conobbe Gobineau.
Il 3 dicembre Wagner fu a Firenze e il giorno dopo a Bologna, per la rappresentazione di Rienzi, quindi fece ritorno nel capoluogo toscano, soggiornando nel bel palazzo Ricasoli, affacciato sull’Arno; si trattenne quattordici giorni, durante i quali si recò più volte agli Uffizi, accompagnato dal barone Liphardt (rimase affascinato soprattutto dalla Primavera di Botticelli, nella quale vide trasfigurata Freia). Visitò anche san Miniato, Fiesole
e Pisa. Ebbe modo di rivedere
Jenny Laussot e di conoscere il compositore fiorentino
Giuseppe Buonamici, che
era stato allievo di Hans
von Bülow al Conservatorio di Monaco8.
La composizione di
Parsifal procedeva fra
euforie e depressioni,
addirittura alla fine
del 1878 rilesse alcune
partiture di Liszt, soprattutto La campana di Strasburgo, per
paura di aver inconsapevolmente ripreso
qualcosa. In ogni caGiovanni Sgambati.
so, ha la fortuna di poter lavorare senza interruzioni.
Il 31 dicembre del 1879, i Wagner, con i bambini, partirono per Napoli, dove arrivarono il 4 gennaio installandosi a Villa d’Angri, stupefacente dimora dalla quale
si gode un panorama mozzafiato che va dal golfo di Napoli
a Posillipo. Con loro era anche Heinrich von Stein, giovane
ma reazionario studioso, precettore del piccolo Siegfried. Alla Villa andò a trovarli il pittore russo Paul von Joukowsky,
futuro scenografo di Parsifal. I Wagner si recarono a Napoli più volte, andarono al San Carlo per assistere a una rappresentazione dell’Ebrea di Halévy e si recarono pure in visita al
Conservatorio di San Pietro a Maiella, ricevuti da un Francesco Florido esultante. I coniugi si recarono inoltre in visita ad Amalfi e a Ravello dove, nel parco di Villa Rufolo, Wagner ebbe l’ispirazione per la messinscena del magico giardino di Klingsor, nel quale ammiccavano sensuali, fra rosai
profumati, le Fanciulle fiore9.
Giunta l’estate, il caldo diventò troppo forte e si formò il
desiderio di un posto che fosse «meno Africa e più Italia»;
Cosima riuscì a trovare un luogo adatto e la famiglia, in agosto, si trasferì a villa Torre Fiorentina, alle porte di Siena. Risalendo dalla Costa amalfitana si fermarono a Roma e, prima di giungere a Siena, rividero Firenze e, per la prima volta,
Pistoia e Perugia; il 22 agosto10 arrivarono a Siena, dove Wagner fu affascinato dal duomo e fu proprio dalla cattedrale
della bella città toscana che Joukowsky prese ispirazione per
il tempio del Graal. Liszt trascorse dieci giorni con loro e insieme al genero Wagner suonò tutto il terzo atto di Parsifal.
Nel frattempo Ludwig aveva acconsentito che Parsifal venisse rappresentato esclusivamente a Bayreuth.
Il 1 ottobre i Wagner partirono da Siena e, dopo una nuova sosta a Firenze, arrivarono a Venezia. Dal 4 al 30 ottobre
i Wagner furono all’hotel Danieli e poi a palazzo Contarini delle Figure a Venezia. Nel novembre la famiglia si recò a
Palermo, alloggiando prima nel lussuoso Hôtel des Palmes e
successivamente a villa Gangi ai Porrazzi. Qui Wagner riprese un frammento che aveva abbozzato per il Tristan ma mai
concluso, si tratta di tredici battute in lab che vogliono simboleggiare il collegamento fra Tristan e Parsifal, il rapporto
fra due epoche della propria vita, ma forse anche la relazione
fra i caratteri dei due protagonisti. Queste battute sono note
come il Tema di Porrazzi e furono regalate a Cosima, la quaPaul von Joukowsky.
le ebbe anche, per il suo compleanno, il dono dell’esecuzione dell’ouverture Polonia composta da un giovane Richard nel 1836.
Nella città, dove, tanti anni or sono, senza conoscerla,
aveva ambientato Il divieto d’amare, ora Wagner progettava
anche di scrivere musica orchestrale e di riprendere, come desiderava e sollecitava Ludwig, I Vincitori, ma l’abbozzo non
era più utilizzabile perché molte idee erano passate a Parsifal.
Gli si presentò Auguste Renoir, che stava facendo un viaggio
in Italia e che avrebbe voluto portare ai fan wagneriani a Parigi un ritratto del maestro, cosa che avvenne effettivamente;
Wagner disse che nel ritratto di Renoir gli sembrava di essere
un pastore protestante e il pittore, da parte sua, dichiarò che
la testa di Wagner era meravigliosa!11 Il 20 marzo i Wagner si
trasferirono ad Acireale, insieme a loro il conte siciliano Gravina, fidanzato di Blandine. Furono testimoni del passaggio
di Garibaldi ferito e ne furono commossi. Ad Acireale Wagner fu colto da uno spasmo cardiaco, prima avvisaglia di ciò
che lo condurrà alla morte. La famiglia visitò Catania, Giarre, Riposto e Taormina che, con la sua stupenda posizione,
colpì profondamente Wagner. Ai primi di aprile partirono
per Venezia, dove giunsero il 15, trattenendosi per due settimane, prima di ripartire per Monaco. Nietzsche ascoltò per
la prima volta Carmen.
Il 13 gennaio Richard 1882 terminò Parsifal a Palermo,
anche grazie all’aiuto di Engelbert Humperdink, il giovane compositore che mise in bella copia la partitura (divenuto
poi famoso per il gustoso lavoro Hänsel und Gretel). Nell’aprile i Wagner intrapresero il viaggio di ritorno, passando
da Acireale, Napoli e Venezia, dove si fermarono all’hotel
Europa. Curiosa coincidenza il fatto che Wagner scrisse in
quel mese a Venezia il saggio Sul maschile e il femminile nella cultura e nell’arte: su un argomento analogo scriverà anche il suo ultimo saggio, ancora a Venezia, Del femminino
nell’umano.
Il 26 luglio, dopo sei anni, il Festspielhaus riaprì per la prima rappresentazione di Parsifal 12 . Fra gli spettatori ne mancavano tre illustri: Ludwig, Nietzsche13 e Bülow. Il festival si
protrasse fino al 29 agosto14, e a rassegna terminata, per rilassarsi dalla tensione e dalle fatiche, i Wagner vollero tornare in Italia. Giunsero a Venezia il 16 settembre, sistemandosi per alcuni giorni all’Hotel Europa poi a Palazzo Vendramin Calergi, dove Wagner aveva affittato le stanze del mezzanino da Maria Carolina duchessa di Berry (che aveva acquistato il palazzo da Nicolò e Gasparo Vendramin Galergi e lo aveva restaurato con un buon impianto di stufe: sembra che Wagner, assai freddoloso, scegliesse questo palazzo,
oltre che per la bella posizione sul Canal Grande, per l’eccellente impianto di riscaldamento)15.
La città ci piace. […] Andiamo sulla Riva dove passeggiamo a
lungo. […] Poi ci rechiamo al giardino pubblico, dove Richard
vuole informarsi se Siegfried possa imparare là a cavalcare. […] Al
giardino Papadopoli, i pappagalli e le belle aiuole piacciono molto
a Richard. […] La vista del Canal Grande, da sotto il ponte di Rialto, gli procura sempre una grandissima gioia; il ponte stesso con
gli ampi gradini, gli dà un senso di sicurezza. E resta dell’opinione
che nessuna città possa competere con Venezia.16
La salute di Wagner si dimostrò malferma, nel novembre
ebbe un attacco cardiaco, in piazza san Marco. Poco dopo
Cosima festeggiò il suo quarantacinquesimo compleanno e
per l’occasione Richard rielaborò la sua giovanile Sinfonia in
do, che fu eseguita al teatro La Fenice il 24 dicembre, dai docenti e dagli allievi del Conservatorio. In una lettera del 31
Friedrich Nietzsche.
dicembre, indirizzata all’editore del «Musikalischen Wochenblatt», Wagner descrisse con dovizia di particolari la
preparazione del concerto e l’esecuzione, ricordando quando la partitura venne eseguita la prima volta: allora aveva solo diciannove anni e il consigliere della Gewandhaus-Konzert, Rochlitz, fu sorpreso dalla giovane età; Wagner scrisse
anche che lui stesso s’era meravigliato della bontà del suo lavoro e questo lo convinse che per fare l’artista la dote naturale è decisiva, infatti, lui aveva seguito i suoi modelli formali,
Mozart e Beethoven, ma il lavoro giovanile si reggeva in piedi non per l’abilità tecnica ma per il talento.
Era giunto, il 19 novembre, anche Liszt per trascorrere qualche settimana con i Wagner, per porgere gli auguri
di buon compleanno alla figlia e quelli di Natale a Wagner.
Liszt rimase fino al 13 gennaio dell’anno successivo, quando ripartì per Budapest. La struggente e melanconica atmosfera invernale di Venezia, ispirò all’abbé, forse in preda a un
presentimento, una delle pagine più belle del suo ultimo periodo creativo, La gondola funebre, brano che sembra presagire l’imminente fine di Wagner.
In questi mesi Wagner ebbe un contrasto con Giovannina Lucca, la quale, a ragione, affermava di avere i diritti anche su Parsifal, in virtù del contratto stipulato nel 1868. Vi
furono due lettere della Lucca17 a Wagner, e fu soltanto grazie ai buoni uffici del dottor Strecker che la questione si appianò, non andando a intaccare l’esclusiva che Wagner aveva concesso a Schott.
Le donne, così tanto bramate e che tanta parte ebbero
nell’ispirazione del maestro, furono la causa dell’accelerazione della fine. All’inizio del 1883, Cosima seppe che sarebbe giunta a Venezia Carrie Pringle, un soprano che aveva interpretato una Fanciulla fiore alla premiére di Parsifal. Il
12 febbraio vi fu un violento litigio ed è possibile che questo
alterco, come pare sostenne il medico che fu chiamato dopo
il malore di Wagner, sia stato la causa dell’infarto mortale;
il cuore del maestro cessò di battere il giorno dopo, 13 febbraio 1883.
Beniamino Dal Fabbro, nel 1949, raccolse la testimonianza di Piero figlio di Papete, che fu l’ultimo gondoliere di Wagner, il quale accompagnò il critico nell’appartamento in cui
Wagner morì e lasciò questa dichiarazione:
Il giorno che gli venne male, Wagner era appena tornato con mio
padre dal solito giro in gondola. Lui era qui, sopra il divano
da una persona e mezza, davanti al tavolino degli scacchi. Appoggiò la testa sul
tavolino e gli scacchi rotolarono sul pavimento;
era rimasta in piedi soltanto, tra i suoi capelli, la
regina nera. Corse mio padre, chiamò subito la Cosima,
che si trovava dall’altra parte
della casa. In due lo trasportarono a braccia sul letto, là
nella camera; ma lui era
ormai morto18.
Wagner stava lavorando al saggio Del
femminino nell’umano. Nietzsche, che stava scrivendo Zarathustra, de-
25
opera
1813 - 2013
opera
26
1813 - 2013
finirà poi, in Ecce home, «sacra» l’ora
della morte di Wagner. Il giorno dopo, 14 febbraio, Verdi scrisse a Ricordi: «Triste! Triste! Triste! Vagner
è morto! Leggendone il dispaccio
ne fui atterrito». Bruckner, l’unico compositore insieme a Sgambati
che Wagner apprezzò al di fuori di
quelli che formavano la Cancelleria di Bayreuth, stava componendo
la Settima sinfonia, la Coda fu intitolata Musica funebre per il maestro defunto.
Il giovane D’Annunzio, che nella sua prima fase subì fortemente l’influenza wagneriana, fu fra
coloro che sostennero il feretro
che da palazzo Vendramin fu portato alla gondola nera che lo condusse alla stazione. La reazione di
Nietzsche fu dura: «Ora comincio a riprendermi, e credo proprio che la morte di Wagner sia
il sollievo maggiore che mi poFranz Listz.
1. Filippo Filippi, Secondo viaggio nelle regioni
dell’avvenire, in G. M. Lleonardt, Riccardo Wagner,
Milano, Dumolard 1881, p. 161.
tesse capitare»19.
Durante il viaggio di ritorno verso Bayreuth20 la salma di Wagner fu
onorata da una gran folla, specialmente a Monaco, dove erano giunte
molte corone di fiori, fra cui quella di
Ludwig, il quale avrebbe preteso di
seppellire lui il corpo dell’amatissimo amico, cosa che non sarebbe
stata certo sconveniente. Due mesi esatti dopo la morte di Wagner,
la compagnia di Neumann rappresentò l’intero ciclo nibelungico al teatro La Fenice, era il 14
aprile; il 19 si tenne al Conservatorio un concerto solenne
in memoria del maestro e
una maestosa cerimonia si svolse sul Canal
Grande. L’anno successivo, con l’ode barbara carducciana, Presso l’urna di Percy Bysshe
Shelley, conclusa il 13 dicembre 1884, ebbe inizio la consacrazione di Wagner nella letteratura italiana21. ◼
po aver ricevuto i consigli di Rheinberger).
3. Cfr. Renzo Cresti, Wagner in Italia, “Feeria” n. 42,
Panzano in Chianti settembre 2012.
9. A seguito della marcia celebrativa del centenario
della fondazione della città di Philadelphia, che aveva
composto quattro anni prima, pervennero a Wagner
delle proposte di lavoro dagli Stati Uniti e fu quasi per
accettarle, come dimostra il fatto che regalò al figlioletto Siegfried un libro che illustrava la vita americana. Fra
gli altri, lo stesso Ludwig cercò di distrarlo dal proposito di recarsi in America, dicendogli che nella terra del
denaro la sua arte non sarebbe mai fiorita, promettendogli inoltre ancora aiuti economici per Bayreuth.
4. Il Tristan und Isolde è un dramma diverso dagli altri fin dal titolo, poiché in quasi tutte le altre opere la
titolazione indica il protagonista, in solitudine (Rienzi, l’Olandese, Tannhäuser, Lohengrin, Siegfried, Parsifal), mentre qui è l’unione indissolubile ad annunciarsi: «Il nostro amore, / non si chiama Tristan / e Isolde?» ma anche la congiunzione infine verrà tolta, Isolde
vuol diventare Tristan e lui vuol divenire lei. È un’opera
che ha l’ambizione di avvicinarsi all’ontologia.
10. Due giorni prima, da Marienbad, Nietzsche scrisse a Peter Gast: «Niente può compensare per me il fatto
di aver perduto negli ultimi anni la simpatia di Wagner.
Quante volte sogno di lui, e sempre nello stile dei nostri
rapporti confidenziali di un tempo. Tra noi non è mai
corsa una parola cattiva, neppure nei miei sogni, molte
invece incoraggianti e liete, e con nessuno forse ho mai
riso tanto. Ma ormai è finita», in Carteggio NietzscheWagner, p. 164.
5. Il periodo in cui Wagner periodicamente frequentò Venezia è lungo venticinque anni e alla città lagunare egli confidò «i suoi malumori, la tristezza di un amore finito, la malinconia del tempo che passa, il suo lavoro, il piacere della compagnia dei figli, la profondità del
rapporto con la moglie e, talvolta, in modo inaspettato, il suo umoristico sarcasmo», la città esprimeva quel
«desolato senso di abbandono che tanto aveva colpito
Wagner la prima volta che la visitò, ma pur sempre scrigno di sogni e desideri, di bellezze e meraviglie» da Itinerari veneziani di Richard Wagner, immagini d’epoca
e foto di Mario Vindor, a cura dell’Associazione Richard
Wagner di Venezia, Punto Marte, Venezia 2008, p. 123.
11. Dallo schizzo che Renoir fece a Palermo ricavò poi
il ritratto, esposto alla biblioteca dell’Opéra.
2. Cosima pensò anche di far tradurre diversi scritti e
poesie di Leopardi. In casa Wagner era conosciuta anche l’attività di Mazzini i cui scritti degli anni trenta sono, per molti aspetti, vicini a quelli wagneriani degli anni quaranta-cinquanta.
6. Giuseppe Pugliese, Wagner e Venezia: un viaggio
attraverso le immagini, in Itinerari veneziani di Richard
Wagner, cit., p. 7.
7. Durante il viaggio di ritorno a Vienna ebbe la prima ispirazione musicale dei Maestri cantori e concepì
subito, con la massima precisione, come racconta nella
Mia vita, la parte principale del Vorspiel in do maggiore.
Nell’autunno del 1865 Wagner riprese la partitura di
Siegfried, un miracolo dopo così tanto tempo, dato che
era stata interrotta al secondo atto nel luglio del 1857.
8. Buonamici (Firenze, 1846-1914) fu pianista assai stimato da Liszt, tanto che questi lo invitò a Weimar nel 1879. Fu presente alla première di Parsifal a
Bayreuth. Il giorno della partenza di Wagner da Firenze per Bayreuth, il 17 dicembre, in occasione di un rinfresco per salutare il maestro, venne eseguito un quartetto di Buonamici (che aveva composto a Monaco do-
12. La sala, come già nelle rappresentazioni del Ring,
fu al buio e gli spettatori furono invitati a seguire la musica in silenzio; s’inaugurò la tradizione di applaudire
solo alla conclusione del secondo e del terzo atto.
13. Nell’estate del 1882, da Tautenburg, Nietzsche
scrisse a Lou Salomé: «Le ultime parole che Wagner
ebbe per me sono la dedica di un bell’esemplare di Parsifal, “Al caro amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner membro del Concistoro”. Quasi allo stesso tempo
gli giungeva, inviato da me, il mio volume Umano, troppo umano e così tutto era chiarito. Ma anche tutto finito», in Friedrich Nietzsche, Epistolario, Einaudi, Torino 1977, p. 169.
14. Durante quell’ultima rappresentazione Wagner
diresse il terzo atto, e sono interessanti le testimonianze
che ci raccontano come i tempi della sua direzione fossero molto più lenti di quelli di Levi.
15. Due mesi dopo la morte di Wagner, venne pubblicato ad Augusta il libro di Henry Perl, Richard Wagner
in Venedig, nel quale viene descritta la vita della famiglia
Wagner a Palazzo Vendramin Calergi: «Nella stanza
da letto di Wagner tutto contribuiva a creare un’atmosfera magica, come in un sogno. La luce singolare, come se fosse giorno eppure così piacevolmente soffusa,
le pareti ricoperte di raso rosa pallido e verde acqua. […]
Il centro della stanza-salone era occupato da un letto,
le cui dimensioni erano decisamente esagerate. Questo
letto, a guisa di letto antico, si sollevava dal pavimento
di appena un piede ed era foderato con un pesante raso
color tè ghiacciato. […] Un maestoso pianoforte a coda
era ricoperto pure con una lucida seta sulla quale brillavano delle rose. Le finestre erano mascherate da tende in sei strati, dal blu scuro a sfumature più chiare fino
al rosa e verde, con le quali la luce esterna era trattenuta
totalmente. Perfino il giorno, con i suoi umori mutevoli e con i diversi effetti di luce, non doveva disturbare la
vivificante armonia in questo Eden ricreato artificiosamente!» Cit. in Sale Richard Wagner, a cura dell’Associazione Richard Wagner di Venezia.
16. Itinerari veneziani di Richard Wagner, cit., pp.
51, 52, 73, 57. Questi appunti di Cosima sono tutti volti ad annotare i (f)atti e le reazioni di Richard, quasi come se le sue e quelle delle altre persone non esistessero.
L’acqua, i giardini, i cavalli, i pappagalli, le bellezze di
una natura silenziosa attiravano Richard più dei monumenti e dei musei.
17. Dopo la morte di Wagner, la Lucca si accordò con
Cosima per riconoscere la compartecipazione agli utili delle rappresentazioni dei drammi wagneriani in Italia a Siegfried e a Eva. Dal 1888 la casa editrice passò alle edizioni Ricordi, le quali si erano assai più industrializzate, abbandonando quella dimensione artigianale
che ancora era conservata dalle edizioni Lucca. Guarda
caso, dopo l’acquisizione dei diritti sui drammi di Wagner, Giulio Ricordi cambiò idea sul maestro tedesco,
prima bistrattato, in nome della bella melodia italiana,
ora riconosciuto quale genio musicale!
18. Beniamino Dal Fabbro, I bidelli del Walhalla, Parenti, Firenze 1954, p. 66. La semplice testimonianza
del figlio del gondoliere di Wagner è verosimile; dice
anche, a dimostrazione di quanto Wagner fosse attratto dal silenzio sonoro dell’acqua veneziana, che «negli
ultimi mesi, quando ormai non stava più bene, voleva
uscire lo stesso e mio padre lo portava in gondola, sempre per lo stesso giro di canali», pp. 65-66.
19. Da Rapallo, lettera a Peter Gast, datata 19 febbraio 1883, in Friedrich Nietzsche, Epistolario, p. 189.
20. Cosima resse le sorti del festival fino al 1906,
quando si ritirò e passò la direzione a Siegfried, musicista preparato e uomo di vasta cultura ma assai conservatore, anche se nei festival che allestì dal 1924 al 1930
tentò qualche prudente innovazione. Cosima morirà
nel 1930, poco dopo morirà anche Siegfried.
21. Cfr. Renzo Cresti, Richard Wagner, la poetica del
puro umano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2012,
anche in edizione inglese Richard Wagner, The Poetics
of the Pure Human.
A
dell’interpretazione è evidente anche nella singolare analisi contrappuntistica, al di là dei consueti «tre stili» attribuiti a Beethoven. È quanto si coglie nella corrispondenza e
nella sottigliezza subcutanea dei decorsi polifonici, sia nella
di Mario Messinis
San Giovanni Evangelista tutto Beethoven
con il Quartetto Belcea, di formazione inglese,
ma guidato da una splendida violinista rumena
che dà il nome al complesso. Per la Società veneziana di Concerti il 3 febbraio scorso si è ascoltata una interpretazione moderna, di impianto antiromantico, molto formalizzata. Il Quartetto Belcea approfondisce il valore strutturale della dinamica, come fondamentale caratterizzazione del pensiero beethoveniano. Ciò è evidente sin dal brano
di esordio, il Quartetto op.18 n. 4.
L’impostazione è apparentemente
settecentesca, ma la differenza delle gradazioni di intensità, dal pianissimo alla incisività tagliente, determina il lucido distacco dell’opera dal precedente haydniano, chiarificando la novità espressiva. Il forte carattere oggettivo e intellettuale
Sopra, la Scuola Grande
di San Giovanni Evangelista.
In alto a destra,
il Quartetto Belcea.
Al centro,
Ludwig van Beethoven.
giovanile op.18, come nell’ultimo capolavoro quartettistico,
l’op. 135. Beethoven è classico o romantico? Il Quartetto Belcea crede nel classicismo, ma con punte di asciuttezza strumentale
quasi novecentesca. È quanto si è notato
anche nella mirabile esecuzione
dell’op. 59 n. 1, resa
con tempi più mossi del consueto e
con tensioni interne di una
scarnificata
drammaticità. ◼
classica
Beethoven
con il quartetto Belcea
27
classica
28
Claudio Scimone
dirige l’Orchestra
della Fenice
la qualità del colore. Da questo punto di vista, possiamo certamente ravvisare un parallellismo tra i due compositori, entrambi dominati dal culto del suono, del suono comunicativo, ricco. Una considerazione a sostegno del mio pensiero,
che si distingue da alcune prese di posizione particolarmente
settarie: il fatto che uno strumento potesse essere un limite
e non una condizione viene provato dall’evoluzione nel tema cura di Andrea Oddone Martin
po degli strumenti musicali. Un altro esempio: Tartini cercò continuamente di modificare lo strumento in virtù della
capolavori di Wolfgang Amadeus Mozart occupano
propria idea sonora. Devo il mio approfondimento della muuno spazio importante nella ricca programmazione stasica di Mozart anche alla personale amicizia con Bernhard
gionale del Gran Teatro La Fenice di Venezia. PrincipalPaumgartner, conosciuto al Mozarteum, dove studiavo con
mente il trittico dapontiano: Don Giovanni, Nozze di
un altro specialista mozartiano, Carlo Zecchi. In quel luoFigaro e Così fan tutte, meravigliose opere nate dal Genio sago conobbi uno dei miei riferimenti fondamentali per la dilisburghese di innata vocazione teatrale. A incornirezione d’orchestra, Dmitri Mitropulos. Studiai
ciare la gloriosa triade, una serie di quattro concerti
con lui a Salisburgo e a Vienna, e anche alla Scatenuti dall’Orchestra del Teatro veneziano dedicala di Milano. Apriremo il concerto che si terrà al
Venezia
ti alla musica di Mozart. Il primo appuntamento,
Malibran con la Sinfonia «Praga» e lo chiudereTeatro Malibran
previsto il 26 aprile al Malibran, avrà in programmo con il finale della «Haffner»; tra le due sin26 aprile, ore 20.00
ma la Sinfonia n. 38 kv 504 «Praga», il Concerfonie eseguiremo una composizione giovanile di
28 aprile, ore 17.00
to per fagotto e orchestra kv 191 e la Sinfonia n. 35
Mozart: il Concerto in si bemolle maggiore per
kv 385 «Haffner». Sul podio a dirigere l’orchestra
fagotto e orchestra kv 191, avvalendoci dell’eccesalirà Claudio Scimone al quale abbiamo chiesto quali sono
zionale fagottista Roberto Giaccaglia».
gli aspetti salienti della sua lettura del repertorio mozartiano.
I Solisti Veneti da lei fondati e diretti sono nel tempo divenuti celebri per le esecuzioni di musica barocca: si tratta di una
«Ho diretto spesso la musica di Mozart, sia il repertorio
specializzazione?
operistico – ad esempio Il flauto magico e Don Giovanni –
In realtà, avendo studiato direzione con Franco Ferrara e
che quello sinfonico. Molte delle numerose partecipazioni
con Dmitri Mitropulos non posso che sentirmi un «direttodei Solisti Veneti al Festival di Salisburgo, più di una trentire romantico». Ma provenendo da una piccola città ho dovuna, hanno avuto in programma il repertorio mozartiano, per
to creare la mia orchestra, che, per esigenze d’organico, si riil quale è fondamentale la ricerca della
giusta sonorità, che,
soprattutto per quel
che riguarda le Sinfonie, non deve essere “secca” perché proviene dall’intenzione di un compositore
di opere teatrali. Un
compositore d’opera che si cimenti nella
stesura di una Sinfonia non azzera la sua
propensione alla comunicatività, all’ampiezza e alla varietà dei suoni di carattere teatrale, sontuoso. È all’opposto
dell’arcata sospesa,
lieve, astratta, quella che un tempo si diceva “in stile” e che
in sostanza significava “suonata senza carattere”. Ritengo che
la musica di Mozart sia “teatrale” persino nei quartetti. D’alvolse forzatamente al repertorio barocco al quale mi dedicai
tra parte, egli è vissuto tra i cantanti e infatti oltre alle opecon studi e ricerche, conseguendo, lo posso dire a posteriori,
re c’è tutta la letteratura straordinaria delle Cantate. Possiadegli ottimi risultati. Ad esempio fu un successo internaziomo prendere come esempio anche Vivaldi: non si può pensanale l’esecuzione dell’opera vivaldiana Orlando Furioso – sia
re che fossero compositori diversi il Vivaldi che scriveva l’Eal Filarmonico di Verona che al Théâtre du Chatelet di Paristro Armonico – e quindi il concerto solistico, certamente nagi – con Marilyn Horne e la regia di Pier Luigi Pizzi. Il seconto da un’esperienza operistica – e il Vivaldi che scriveva per il
do concerto dei Solisti Veneti aveva in programma Verklärteatro. V’è una teatralità profonda nella musica strumentate Nacht di Arnold Schoenberg; quindi fin già dall’inizio
le di Vivaldi, basti pensare alle grandi introduzioni degli archi in ottava. È tutta musica che viene suonata pensando alClaudio Scimone.
I
Claudio Scimone con i Solisti Veneti.
me capita sempre quando posso eseguirlo. Il mio sogno è di
lavorare ancora nei miei luoghi d’elezione: prediligo dirigere a Venezia oppure a Verona, insomma in Veneto, vicino al-
la mia casa, che a New York, ad esempio. Ciò non è dovuto a
snobismo ma al fatto che il pubblico a me più vicino, quello
col quale nel tempo si sono stabiliti dei legami forti, è anche
quello che mi permette di esprimermi meglio. ◼
classica
le nostre ambizioni avevano un repertorio di vasti orizzonti. A tutt’oggi i Solisti Veneti spaziano da Giovanni Gabrieli a composizioni scritte nell’anno in corso, coprendo tutto l’arco del repertorio cameristico esistente. Un’orchestra piuttosto longeva la nostra, se si pensa che
prossimamente eseguiremo il nostro seimillesimo
concerto e il prossimo anno celebreremo il cinquantacinquesimo anno di attività. Nel corso del tempo la
compagine ha elevato costantemente il suo profilo
qualitativo.
Paradossalmente, mi pare
che la cultura in genere, e in
particolare la cultura musicale in Italia, sia considerata sempre più, mi permetta
il termine, «accessoria».
È una vergogna del «sistema Italia», il quale non
capisce (ma spesso non sa,
non conosce) che soprattutto la musica non è solo spettacolo, non è riducibile esclusivamente alla sua esteriorità: la musica è il mezzo educativo più
potente che esista, come ci
insegna il Venezuela con
il grande esperimento del
mio amico Antonio Abreu.
Purtroppo l’Italia rimane
monca nonostante gli innumerevoli esempi mondiali. Ormai nelle campagne elettorali la parola
«cultura» non si pronuncia quasi più se non svilendola; la parola «musica» è
scomparsa completamente. Il tutto mentre perfino
la medicina specializzata,
la neurologia, ne riconosce le qualità, gli effetti tonici diretti. Per non parlare
degli effetti sociali indiretti: è sufficiente come esempio l’attività della West Eastern Divan Orchestra di
Daniel Barenboim.
La sua laboriosa carriera è costellata di numerosi riconoscimenti. Quali
partiture vorrebbe ancora
interpretare?
Mi vengono in mente le
Grandi Sinfonie di Muzio
Clementi, le opere di Boito e Puccini, come ad esempio il Capriccio Sinfonico: un repertorio comunemente non
frequentato e tuttavia accolto con successo dal pubblico, co-
29
classica
30
Gabriele Ferro:
da Janáček
a Stravinskij
vinskij faceva creare a freddo questi schemi ritmici, rimescolando metro ternario e binario ma mantenendo alcuni incisi sempre identici, che lungo il pezzo dovevano permanere
immutati. Per questo non ha senso, come qualcuno ha detto, affermare che, a dispetto delle complicazioni ritmiche, la
Sagra della primavera potrebbe essere ridotta ritmicamente «in quattro».
a cura di Mirko Schipilliti
Vale anche per il neoclassicismo di Pulcinella?
Personalmente detesto qualsiasi neo-classicismo e neo-roJanáček (cfr. pp. 12-13) Gabriele Ferro accosta,
manticisimo. Nel primo Novecento si era fatto molto in Itaall’interno della stagione sinfonica della Fenice, un
lia (si pensi a Scarlattiana di Casella o a certe pagine di Reprogramma con due capolavori sempre di area slaspighi), ma un po’ «deformando» armonicamente una muva ma con riferimenti al Settecento più europeo: la
sica del Settecento. L’unico che riuscì a creare un capolavosuite dal balletto Pulcinella di Stravinskij (diretro totale facendo neoclassicismo è stato Stratamente basato su musiche del Settecento italiano,
vinskij. Ho diretto a Parigi un programma con
in particolare di Pergolesi) e la Sinfonia n. 1 Clasle arie originali di Pergolesi seguite dalla versiosica di Prokof’ev. Un percorso suggestivo se si penne completa di Pulcinella ed è stato incredibile:
Venezia
sa all’enorme successo che i compositori italiani di
musiche, le prime, che con pochissime modifiTeatro La Fenice
quel periodo (Traetta, Cimarosa, Paisiello) ebbeche sono diventate il Pulcinella. Stravinskij ha
22 marzo, ore 20.00
ro proprio in Russia.
talmente assimilato quelle armonie da ricom24 marzo, ore 17.00
Maestro, abbiamo parlato di Janáček e del perporle in un modo totalmente nuovo.
corso che sta intorno alla messa in opera di una parE anche ironico, potremmo dire.
titura così complessa. La considera un’opera rivoluzionaria?
Apparentemente ironico, sembra qualcosa di allegro. Io lo
Ho diretto più di duecento titoli operistici diversi, toccansento invece come un pezzo drammatico, un fossile, qualdo anche Traetta o addirittura Schreker. Janáček è personacosa di pietrificato. Non vuole «imitare» ma ci fa rivivere
lissimo, perché non ha precedenti a cui si è rifatto. È davla sensazione di qualcosa che è stato e che non c’è più. Crea
vero originale ma se si guarda all’evoluzione della musica,
un senso di straniamento, anche per l’uso speciale del ritmo.
la dissoluzione dell’armonia era già avvenuta. Tuttavia,
Un mondo completamente diverso da quello del Prokof ’ev
cominciavano a delinearsi principi compositidella sinfonia Classica, composta tre anni prima.
vi per cui ogni autore elaborava una proCerto. Stravinskij rielabora, destabilizza e, più che strapria cellula – un nucleo fortemente divolgere, ricompone. In Prokof’ev traspare invece un
verso da compositore a compositore –
classicismo delizioso, più da salotto se vogliamo.
intorno a cui costruire il brano. Fu ArQualcosa che si tinge di olimpica trasparenza?
nold Schoenberg l’unico che veramenNon solo purezza, piuttosto un’idea di fanciullezza,
te analizzò sé stesso per arrivare all’edi finta, voluta, ingenuità.
laborazione di nuove regole attraverso la
Rimane costante l’idea, forte, di modernità, e per lei
dodecafonia.
affrontare il Novecento è sempre imprescindibile, coCosa la colpisce invece della mome lo testimonia la sua lunga esperienza nella musica
dernità di Stravinskij?
contemporanea.
In lui c’è l’elemento ritNon credo molto negli interpreti che non hanno
mico, particolari accenmai diretto musica contemporanea, dove ogni compositi, come all’inizio di
tore ha una propria scrittura; persino la musica aleatoria, doPetruška, dove inve, praticamente, si crea il pezzo fra varie possibilità di scelta,
troduce all’imti dà una libertà dal tempo prestabilito,
provviso un insvincolandoti completamente.
ciso che sbalJanáček è molto complesso. La musila tutto. L’ecca, è difficile?
cezionaMolto. I Greci pensavano che
le e geniale
fosse l’unica vera arte. ◼
buon gusto
di StraHilda Wiener (1877-1940),
A
Igor Stravinsky
suona il Capriccio
per Piano e Orchestra
(matita su carta 16.8 x 22.8 cm;
con autografo:
«Igor Strawinsky,
Palais de Beaux-Arts in Brussels,
14 December 1930»
commons.wikimedia.org).
la Russia, che sotto la direzione di Pletnëv – che la considera una delle sue gioie più grandi e per la quale, ancora oggi, ricopre la carica di direttore artistico e direttore principale – raggiunge in pochi anni una posizione prestigiosa tra
le orchestre più importanti di tutto il mondo. Membro del
Consiglio culturale russo, nel 2007 Pletnëv riceve un Premio presidenziale per i suoi contributi alla vita artistica della nazione. In qualità di direttore ospite sale regolarmente
sul podio con orchestre quali la Philharmonia di Londra, la
Mahler Chamber Orchestra, la Filarmonica di Tokyo, l’Ordi Ilaria Pellanda
chestra del Concertgebouw, la London Symphony Orchestra, la Filarmonica di Los Angeles e l’Orchestra Sinfonica
ra il 1997 quando al festival di musica da camedi Birmingham. Nel 2008 viene nominato direttore ospite
ra di Lockenhaus si assistette a una piccola rivoluprincipale dell’Orchestra della Svizzera Italiana a Lugano.
zione: il violinista Gidon Kremer preNelle vesti di pianista solista e interprete appasentò infatti, oltre a tanti famosi musire regolarmente nelle capitali musicali di tutto il
cisti, una nuova orchestra, la Kremerata Baltica,
mondo. Le sue registrazioni e le esecuzione dal vicomposta da ventitré giovani talenti provenienvo lo mettono in luce come interprete eccezionaVenezia
ti da Lettonia, Lituania ed Estonia. L’orchestra
le, che si muove in un repertorio d’ampio respiro.
Teatro La Fenice
conquistò immediatamente il pubblico presenIl «London Telegraph» sottolinea che «Pletnëv
20 marzo, ore 20.00
te alla manifestazione, donando nuova linfa al feriesce, attraverso la sua mente e le sue dita, a dare
stival. La Kremerata Baltica, progetto fondato in
vita alla musica, riempiendola di freschezza e di
una prospettiva a lungo termine, è stata il regalo che Kremer
spirito». Il «Times», dal canto suo, afferma che il suo modo
ha voluto farsi in occasione del suo cinquantesimo compledi suonare è «di una bellezza incredibile e di una virtuosità
anno: un modo per trasmettere la propria esperienza ai gioimmaginativa prodigiosa».
vani colleghi provenienti dall’area baltica, regione in cui è
Le registrazioni effettuate per Deutsche Grammophon
stato promotore e ispiratore della
cultura musicale, senza accettare
compromessi sui livelli qualitativi. Elemento essenziale del profilo artistico dell’ensemble è il suo
approccio creativo alla programmazione, che spesso guarda oltre
le tendenze dominanti per dare
spazio a numerose prime esecuzioni di opere composte da autori come Kancheli, Vasks, Desyatnikov e Raskatov.
La Kremerata sarà ospite
quest’anno della stagione di musica da camera della Società Veneziana di Concerti – «Aere perennius, anno ii» –, che il prossimo
20 marzo proporrà sul palcoscenico del Teatro La Fenice la creatura di Kremer in un programma
che spazierà dal Concerto per pianoforte in re minore bwv 1052
di Johann Sebastian Bach a quello in re maggiore op. 21 di Joseph
Haydn, dal Viatore per orchestra
d’archi di Pēteris Vasks al Concerto per pianoforte in do maggiore kv 246 di Wolfgang Amadeus Mozart.
Nella doppia veste di direttore
e solista al pianoforte, a calcare le
tavole del Teatro veneziano sarà
Mikhail Pletnëv, uno dei più raffinati artisti del nostro tempo. Figlio di musicisti, si dedica
hanno ricevuto negli anni numerosi premi, tra i quali un
alle sette note sin da bambino e, giovanissimo, si diploma al
Grammy Award nel 2005 per il cd che contiene l’arrangiaConservatorio di Mosca. A soli ventuno anni vince il Conmento per due pianoforti della Cenerentola di Prokofiev, esecorso Medaglie d’Oro e il primo premio al Concorso interguito con Martha Argerich. Per la stessa casa, nel 2007 reginazionale Čajkovskij. Nel 1990 fonda la Russian National
stra tutti i Concerti per pianoforte di Beethoven, e il disco
Orchestra, prima compagine indipendente della storia delcontenente i Concerti n. 2 e n. 4 viene nominato come «Miglior registrazione di concerto del 2007» dalla Tokyo ReKremerata Baltica (kremerata-baltica.com).
cord Academy. ◼
Continua la stagione
della Società Veneziana di Concerti
E
classica
Mikhail Pletnëv
e la Kremerata Baltica
alla Fenice
31
classica
32
Conversazioni
angeliche:
il femminino
tra sacro e inconscio
nella musica
del xviii secolo
Due concerti
degli Amici della Musica
di Venezia
U
di Paolo Cattelan*
no dei capitoli più misteriosi ed affascinanti
della storia dello musica classica è quello dello
«strumento di vetro» che comincia
a riaffiorare anche in Italia dopo una rimozione durata secoli.
Lo «strumento di vetro», come lo chiama Leopold Mozart,
ebbe in realtà molti nomi: verso
la metà del Settecento prese
piede in Inghilterra l’Organo
Angelico, un set di bicchieri di
varia dimensione disposto su di
un tavolo suonato passandovi
sopra delicatamente le mani
inumidite. Nel 1762 veniva
stampato un trattato dedicato
all’arte dei Musical glasses,
scritto dall’attrice e musicista
Anne Ford, una donna anticonformista che incise profondamente sul costume inglese.
Poi Benjamin Franklin pensò
di rivoluzionare le caratteristiche organologiche del nuovo
strumento per renderlo più affidabile, trasportabile e sicuro
per l’esecutore. I bicchieri vennero così sostituiti da coppe di
grandezza digradante, impilate fino a comporre una figura
conica disposta in orizzontale attorno ad un perno rotante
azionato dal suonatore grazie ad una pedaliera posta al di
sotto dello strumento. Girando, le coppe attraversavano per
il lungo una vasca d’acqua e, dal lato opposto all’immersione, venivano strofinate dalle dita dello strumentista producendo il suono. Franklin diede un nuovo nome alla sua creatura, Armonica, ma per farlo conoscere sul continente si affidò principalmente alla prodigiosa simbiosi musicale di due
donne, due sorelle inglesi: Marianne e Cecilia Davies.
Quest’ultima, che cantava da soprano, divenne quasi l’alter
ego vocale dello strumento di vetro suonato dall’altra. Si
inaugurò così una nuova e duratura associazione simbolica
(ampiamente studiata dalla musicologa statunitense Heather Hadlock) tra l’Armonica e la voce femminile, lo strumento di vetro e il femminino. Con una nuova cantata scritta da Johann Adolf Hasse e Metastasio appositamente per
loro e intitolata L’Armonica le Davies giunsero a Parma in
occasione del matrimonio di Maria Amalia di Asburgo con
il duca Ferdinando di Borbone nel 1769 e fecero in seguito
diversi altri viaggi in italia soggiornandovi per lunghi periodi. Incrociarono certamente i Mozart a Milano nel 1770 e a
Venezia nel febbraio 1771. In una nota inedita del Codice
Gradenigo rilevata da Pier Giuseppe Gillio resta una confusa memoria delle loro performace: «19 febbraio 1771 / Femmina forastiera, e sino dalla tenera età fu istruita a maneggiare uno strumento vitreo inventato da maestro di Matematica […] oggi a Venezia si è tanto sublimata in più Accademie
filarmoniche rese attonite, e stupefatte stante la soavità di
note canore […]». Frattanto a Vienna l’Armonica cominciò
ad essere richiesta anche da altri musicisti e competenti dilettanti tra cui il dottor Franz Anton Mesmer propugnatore
della teoria del «magnetismo animale» e buon amico dei
Mozart. Racconta Leopold Mozart che Mesmer possedeva
un esemplare di Armonica «molto più bello di quello che
aveva Ms. Davis. Anche Wolfgang – aggiungeva Leopold –
sarebbe in grado di suonarlo, se solo ne avessimo uno anche
noi». Mesmer cominciò ad impiegare l’Armonica come coadiuvante nelle proprie terapie «magnetiche» e lo strumento fu perciò destinato a caricarsi di ulteriori significati: simbolo del mesmerismo e delle patologie nervose che Mesmer
curava, nonché delle «crisi» che induceva con le sue meto-
diche sui pazienti, pazienti che erano soprattutto donne. Fu
nell’entourage di Mesmer che si scoprì l’ipnosi e il sonnanbulismo provocato o artificiale, ma poi Mesmer venne messo sotto accusa ed anche il suono dell’Armonica cominciò ad
essere considerato nocivo tanto per coloro che lo udivano
quanto per coloro che lo suonavano. L’invalidante malattia
nervosa che colpì Marianne Davies (forse dovuta al piombo
contenuto nei bicchieri) peggiorò a tal punto la fama dello
strumento che in alcune città della Germania venne addirittura proibito. Mozart tuttavia fece in tempo, nel 1791 poco
prima di morire, a regalare due capolavori al repertorio dello
«strumento di vetro»: l’Adagio e Rondò Kv 617 per Armonica («Glasharmonika») e strumenti e l’Adagio Kv617a per
Armonica sola. Entrambi questi pezzi furono scritti per Marianne Kirchgässner, una virtuosa cieca che li portò con sé in
numerose tournée: sono le ultime ispiratissime composizioni della produzione cameristica mozartiana. È opinione corrente che l’unico italiano a cimentarsi con «L’armonico a
bicchieri», associandolo non a caso alla rappresentazione di
Le mani di Christa Schoenfeldinger.
classica
stati alterati della coscienza femminile, sia stato, dopo il giro
luoghi di attività di artiste ispirate, in grado di figurare credidel secolo, Gaetano Donizetti nella Scena della pazzia della
bilmente le storie dell’antico testamento in un clima di proLucia di Lammermoor e, come ha dimostrato Emilio Sala,
fetica esaltazione, quel clima che Jacopo Guarana catturò in
nel Castello di Kenilworth, opere scritte entrambi per il Teaqualche modo negli affreschi che ancor oggi adornano la Satro San Carlo di Napoli. Si conserva tuttavia, nella bibliotela della Musica dell’Ospedaletto arrivando a porre in mano,
ca del Conservatorio San Pietro a Majellla, anche un singonel ritratto in primo piano di una delle Figlie, la citazione di
lare autografo di Domenico Cimarosa, datato 12 luglo 1780
un’aria metastasiana «Contro il destin che freme combattee intitolato «Aria con Angelico e altri strumenti obbligati»
remo insieme». Sono dunque le Figlie veneziane le destinain cui lo strano strumento e la voce del soprano, che intona
tarie dell’angelica conversazione di Cimarosa? Lo storico
un testo latino vagamente
Gerardo Tocchini ci ricorda
mottettistico, si impegnano,
che in Francia, collegando
un po’ come Donizetti mezgli esperimenti di Mesmer
zo secolo dopo, in una lunga
alle teorie di Swedenborg, si
cadenza congiunta. In nescominciò a propugnare il vasun caso la scrittura che Cilore mistico della trance mamarosa riserva all’Angelico
gnetica, la credenza che giopuò far pensare ad uno struvani donne-medium potesmento a pizzico con cui è stasero sviluppare una particoto erroneamente identificato
lare chiaroveggenza fino a
alla fine dell’Ottocento. Il
comunicare con gli angeli,
testo, poi, con alcune immama la questione è ancora
gini molto precise, ci instraaperta. Sull’altro versante
da alla giusta identificaziodella storia invece, quello
ne. È la metafora di una guadella parodia comica, un alrigione interiore («l’anima
tro veneziano, molto legato
oppressa dal peso delle pasalla massoneria, si distingue.
sioni, è come un uccello che
Questi è Caterino Mazzolà,
spicca il volo dall’amica terra
il «maestro» di Lorenzo Da
verso un alto monte mosso
Ponte, il poeta che ridusse
dal desiderio di curarsi con le
«a vera opera» la Clemenza
limpide acque di una fonte pura»),
di Tito di Mozart aggiustando per lui il vecun’immagine fin troppo significativa e
chio libretto del Metastasio. A Mazzolà si
Venezia
allusiva. Il movimento di Mesmer nel
devono poi diversi libretti del Turco in IitaTeatro La Fenice
1780 si era oramai nuovamente radicato
lia, da cui deriverà il capolavoro di Rossini.
9 marzo, ore 20.15
a Parigi con l’appoggio di Maria AntoIl prototipo della protagonista di quest’oConversazioni angeliche.
nietta e di una vasta rete di Societés de
pera è Fiorilla, una giovane moglie che riIl femminino e l’inconscio
l’Harmonie connessa con le Logge masvuole la propria libertà dal marito che le è
nella musica del xviii secolo
soniche. Mesmer, ricordiamo, faceva ristato imposto e, paragonandosi allo strumusiche di Mozart, Hasse,
suonare l’Armonica in un momento premento di vetro dice di sé: «Sentiste mai
Cimarosa, F.X. Süßmayr
ciso del rituale di guarigione, allorché i
l’Armonica? / se i cavi arguti vetri / esperte
Padova
suoi pazienti si immergevano in particodita premono, / l’udite or lieta or flebile / il
Sala della Carità
lari vasche, dette baquets, di acqua masuono modular. / Ma è muta affatto o stri29 marzo, ore 21.00
gnetizzata. Ma chi poteva essere il destidula /se non si sa suonar».
Come piuma sul respiro di Dio.
natario di quest’Aria di Cimarosa? Forse
Figure femminili dell’Antico Testamento
Napoli? Qui Carolina d’Asburgo aveva
Si inaugura con due appuntamenti a VeMusiche di A. Sacchini, F.Bertoni,
liberalizzato l’attività massonica e certanezia
e a Padova la terza edizione del proJ.Schuster, D. Cimarosa
mente seguiva da vicino le vicende del
getto di ricerca «Di suoni, di luoghi» promedico tedesco nei rapporti con la regina
mosso dagli Amici della Musica di Venezia
Interpreti
Susanna Armani soprano
di Francia sua sorella, ma non è il solo incon il sostegno della Regione Veneto e del
Andrea Crosara violino
dizio: una suggestiva stampa ritrae la pitComune di Padova, nell’ambito della rasSimone Tieppo violoncello
trice Angelica Kaufmann, notoriamente
segna «SacreArmonie» e la collaborazioVolpato clavicembalo
protetta a Napoli dalla regina Carolina, ChristaBruno
ne del Comune di Venezia nell’ambito di
Schoenfeldinger armonica di vetro
nel suo studio dove tra tavolozze, cavalDoVe (Donne a Venezia).
(Wiener Glass Duo)
letti e calchi di gesso compare anche
Il primo concerto è dedicato alla riscoun’Armonica. Tuttavia potrebbe c’enperta del repertorio dell’Armonica di vetro
trare anche Venezia, dove Cimarosa doe presenterà diversi inediti per la prima volveva debuttare come operista proprio nell’autunno del 1780.
ta eseguiti in tempi moderni. Il secondo a Padova nella splenI legami di Cimarosa con i circoli intellettuali veneziani non
dida cornice della Sala della Carità, affrescata da Dario Varosono per nullla trascurabili ed in gran parte ancora da indatari con le storie di Maria tratte dai Vangeli apocrifi, presengare: Venezia lo accolse bandito e condannato a morte dopo
terà invece musiche tratte dalle azioni sacre scritte per le Fil’esperienza della Repubblica partenopea; Venezia, fin dal
glie degli Ospedali veneziani dei Mendicanti e dei Derelitti.
1782, gli offrì lavoro nel particolarissimo luogo dell’OspePer informazioni e prenotazioni: www.amicimusicavedale dei Derelitti detto «l’Ospedaletto». E per le Figlie
nezia.it; [email protected]; tel. 3387372286;
dell’Ospedaletto Cimarosa scriverà in quell’anno ben due
0415462514. ◼
oratori latini, Judith e Absalom alimentandone il repertorio
e il mito: in tutta Europa si guardava infatti agli Ospedali ve*Presidente Amici della Musica di Venezia
neziani, in particolare ai Mendicanti e ai Derelitti, come ai
33
classica
34
La nuova stagione
dell’Agimus di Venezia
tra musica e filosofia
torio wagneriano affidate agli studenti della classe di canto
del Conservatorio «Giuseppe Tartini» di Trieste; il 23 aprile Elio Matassi (Università Roma Tre) e Giorgio Appolonia
(Radio della Svizzera Italiana) si incontreranno per discutere
l’idea di musica assoluta, accompagnati successivamente dalle note di Schumann e Brahms eseguite per l’occasione dal
duo violoncello-pianoforte Luca Provenzani-Fabiana Barbidi Ilaria Pellanda
ni; il 30 aprile, infine, protagonisti del nuovo colloquio, che
analizzerà il rapporto tra Mallarmé e la musica del xx e xxi
l prossimo 10 aprile, alle 17.30 presso l’Ateneo Vesecolo, saranno Enzo Restagno (direttore artistico del festineto, l’Agimus di Venezia inaugura la sua nuova stagioval MiTo) e Daniele Martino («Il Giornale della Musica»),
ne concertistica con un inedito ciclo di incontri filoai quali seguirà l’esecuzione di alcuni brani di Debussy, Messofico-musicali realizzato in collaboraziosiaen e Boulez interpretati ancora una volta da
ne con lo stesso Ateneo e sostenuto dal ConsorLetizia Michielon.
zio Venezia Nuova, dal Festival Suona Francese
La stagione dell’Agimus – che si avvale del paVenezia
(Fondazione Nuovi Mecenati) e dall’Hotel Ca’
trocinio dei Ministeri dei Beni Culturali e delAteneo Veneto
Sagredo.
la Pubblica Istruzione e della collaborazione con
(e Sale Apollinee
Dedicati al rapporto «Musica e lógos», i quatil Teatro la Fenice, il Conservatorio «Benedetdel Teatro La Fenice)
tro dialoghi si apriranno con un omaggio a Luito Marcello» e l’Associazione italo-tedesca di
dal 10 aprile al 6 giugno
gi Nono in occasione del ventennale della fondaVenezia – proseguirà il proprio cartellone con
zione dell’Archivio veneziano a lui dedicato (cfr.
una serie di appuntamenti dedicati al rapporto
pp. 36-37 e pp. 38-39). Dopo l’introduzione del presidentra musica e sogno, ispirati nell’anno del bicentenario wate dell’Ateneo Michele Gottardi, Nuria Schoenberg Nono
gneriano all’interpretazione che il compositore elaborò del(presidente dell’Archivio), Guido Barbieri (Rai Radio Tre),
la teoria del sogno di Schopenhauer. Il duo flauto-pianoforte
Stefano Maffizzoni-Valter Favaro rileggerà (il 2 maggio, ancora una volta in Ateneo) opere di Franck e Poulenc; a proposito dell’influenza esercitata da Wagner sul simbolismo
francese e del rapporto tra poesia e mondo onirico, rifletteranno l’8 maggio Renzo Cresti e Letizia Michielon in occasione della presentazione
della recente monografia di
Cresti Wagner e il puramente umano (lim 2012); seguiranno esecuzioni di brani di
Liszt, Debussy, Fauré e Ravel
affidate a Marina Feruglio,
Rosanna Guadagno e Biancamaria Targa, studentesse del
«Tartini» che partecipano al
progetto formativo del Plurimo Ensemble dedicato ai giovani talenti emergenti. Il duo
Plurimo Alessandra Trentin
(arpa) e Cecilia Vendrasco
(flauto) chiuderà il 6 giugno la
prima parte della stagione alle Sale Apollinee della Fenice
Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele di Micon otto partiture appartenenti ai primi cinquant’anni del
lano) e Alvise Vidolin (storico collaboratore alla regia del suoxx secolo, composte sullo sfondo di un ambiente musicale
no del maestro veneziano e di tanti illustri protagonisti del
francese pulviscolare, caleidoscopico ma al tempo stesso sexx secolo) dialogheranno sul tema «L’infinito sorriso delle
manticamente connotato e attratto dalla ricerca di sfumatuonde. Nono, maestro di suoni e silenzi», traendo spunto dal
re timbriche delicate e soffuse: partiture ispirate dalle immabrano pianistico … sofferte onde serene…, che verrà poi eseguigini di un paesaggio notturno («Chanson dans la nuit» di
to da Letizia Michielon – accanto a opere di Chopin e MesSalzedo) o di un luogo geografico reso evanescente dalla mesiaen –; sarà inoltre affrontato quel percorso di ricerca sul suomoria imprecisa del suono («Deux impressions» di Bozza),
no e sulla parola che da quest’opera introspettiva dedicata a
o, ancora, brani che rifuggono le regole sintattiche di una narMaurizio Pollini condurrà alla più stretta collaborazione con
razione musicale per librarsi in fascinose nuance coloristiche
la filosofia di Massimo Cacciari e alla creazione del Prometeo.
(«Cinq nuances» di Berthomieu). ◼
Il 16 aprile si potrà partecipare al dialogo tra Lucio Cortella (Università di Venezia) e Oreste Bossini (Rai Radio Tre)
Luigi Nono, Studi per Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1984)
dal titolo «Tra nichilismo e mitologia: Adorno interprete di
Archivio Luigi Nono, Venezia © Eredi Luigi Nono,
Wagner», al quale seguiranno alcune esecuzioni del reperper gentile concessione.
I
U
di Annalisa Lo Piccolo
na figura da riscoprire quella di Leone Sinigaglia, compositore nato a Torino nel 1868 e vittima, con altri illustri colleghi, della censura nazifascista per le sue origini ebraiche. Solo in tempi assai recenti la musicologia italiana si è impegnata nella riscoperta della personalità artistica e umana di Sinigaglia, che
seppe trarre dalla propria formazione internazionale esiti di
grande interesse sia dal punto di vista della musica d’arte, sia
sul fronte di una metodica indagine sul canto popolare della
sua terra, il Piemonte.
Leone Sinigaglia nasce da una famiglia dell’alta borghesia torinese; le frequentazioni familiari lo mettono in contatto, fin dalla giovane età, con illustri esponenti del pensie-
ro, delle arti e delle scienze allora residenti in città: Antonio Fogazzaro, Leonardo Bistolfi, Cesare
Lombroso e Galileo Ferraris. A Torino la prima
formazione musicale, sotto la guida di Giovanni Bolzoni, avviene in un clima ricco di stimoli e
proficui contatti, dominato dalla figura di Arturo Toscanini; con Toscanini nascerà un rapporto di stima e amicizia che tanta importanza avrà
nella diffusione dell’opera di Sinigaglia. Affianca
alla passione per la musica quella per l’alpinismo,
che lo rende protagonista di importanti ascensioni sulle Alpi occidentali e della scoperta di nuove
vie sulle Dolomiti d’Ampezzo.
Spinto dal desiderio di studiare sotto la guida
di Johannes Brahms, nel 1894 Sinigaglia si trasferisce a Vienna; Brahms non si dedica all’insegnamento, ma, in nome della fiducia ispiratagli
dal giovane torinese, lo indirizza presso l’amico
Eusebius Mandyczewski. Con Mandyczewski Sinigaglia studia cinque anni, durante i quali nasce lo splendido Concerto per violino e orchestra
in La maggiore, dedicato al violinista bolognese
Arrigo Serato. L’amicizia con Oskar Nedbal e Joseph Suk, membri del Quartetto Boemo, consente a Sinigaglia di entrare in contatto con Antonin Dvořák; nel 1900 l’esperienza di studio con
il compositore boemo lo porta a scoprire il fascino
e il valore storico del canto di tradizione orale. Rientrato in patria nel 1901, Sinigaglia si dedica alSopra, un momento del concerto di Ferrara.
Al centro, Leone Sinigaglia.
la raccolta e all’indagine sistematica del patrimonio popolare della collina di Cavoretto, vicino a Torino. Trascrive un’enorme quantità di melodie e varianti, raccolte dalla viva voce
degli informatori; celebri pagine di Sinigaglia recano traccia
del grande amore per la musica popolare, come le Danze Piemontesi e la Suite per orchestra «Piemonte», lavori legati alla
personalità di Toscanini, che di frequente li eseguirà in Italia e negli Stati Uniti; i primi anni del Novecento vedono la
nascita inoltre dell’Ouverture «Le baruffe chiozzotte», lavoro di grande brio e freschezza melodica.
Nei decenni successivi la produzione di Sinigaglia diminuisce notevolmente, impermeabile alle avanguardie emergenti
nel panorama musicale del Novecento (dodecafonia, serialità, neoclassicismo); sono anni comunque assai ricchi di contatti e relazioni con interpreti e impresari, che vedono la sua
musica conquistare numerose platee italiane e internazionali.
La svolta antisemita del regime fascista condanna l’opera di
Sinigaglia all’oblio: la sua musica è bandita da qualsiasi esecuzione pubblica e quanto edito a stampa viene ritirato dalla circolazione.
Il compositore si spegne il 16 maggio 1944 a causa di una
sincope cardiaca, nel momento in cui le guardie della milizia
nazifascista, per arrestarlo, irrompono nella camera dell’Ospedale Mauriziano, ove si era rifugiato
grazie all’aiuto dell’amico Luigi Rognoni.
Il Comitato per i Grandi Maestri, in collaborazione con l’Università di Ferrara, ha voluto ricordare Leone Sinigaglia con un concerto monografico tenutosi lo scorso 15 gennaio presso il Teatro
Comunale, nell’ambito delle celebrazioni per il
Giorno della Memoria 2013. La serata si è aperta
con Regenlied, da Zwei Charachterstücke für Streichorchester op. 35, composizione degli anni viennesi. Assai convincente l’esecuzione dell’Orchestra Città di Ferrara, diretta da Marco Zuccarini,
attenta all’intima cantabilità, alle atmosfere traslucide e idilliache di questa deliziosa miniatura.
A seguire Romanza e Umoresca per violoncello e
orchestra op. 16, pagine giocate su una ricca varietà di contrasti tematici. Il violoncellista italo-argentino Fernando Caida Greco ha saputo coglierne le diverse atmosfere emotive, sicuro negli episodi di virtuosismo e capace di grande espressività nei momenti più lirici e melodici. In conclusione il Concerto per violino e orchestra in La maggiore op. 20, affidato all’ìarco della giovane bolognese
Laura Marzadori, in grado di affrontare con maestria e disinvoltura l’ampia gamma di difficoltà
tecniche presentate da questa pagina, in un dialogo sempre equilibrato tra orchestra e solista.
La serata è stata anche l’occasione per presentare il volume Leone Sinigaglia. La musica delle alte vette, scritto da Gianluca La Villa e Annalisa Lo
Piccolo e pubblicato da Gabrielli editori. ◼
contemporanea
Un concerto
(e un volume)
per Leone Sinigaglia
35
contemporanea
36
I primi vent’anni
dell’Archivio Luigi Nono
di Venezia
M
a cura di Letizia Michielon
inuta, con due grandi occhi azzurri che vibrano di luce, Nuria Schoenberg Nono emana una energia alacre e silenziosa, sempre profondamente entusiasta. Con creatività ha dedicato la propria vita a custodire il lascito culturale e umano
di due compositori cruciali del xx secolo: il padre Arnold,
il cui spirito innovatore e sperimentatore continua a vivere
nel cuore di Vienna, al Centro Schoenberg, e il marito Luigi
Nono, che, a quasi venticinque anni della morte, ispira studiosi e musicisti di tutto il mondo grazie a un Archivio unico
nel suo genere, fondato a Venezia vent’anni fa, oggi operante
nella Sala delle Colonne dell’ex Convento dei Santi Cosma e
Damiano alla Giudecca. Due istituzioni volute con forza da
questa preziosa figura di archivista, nata a Vienna, cresciuta in California e da cinquant’anni residente a Venezia: un
esempio mirabile di come la storia possa dialogare con il presente, nutrendolo e intrecciandosi con il futuro. Ideali, d’altronde, che animavano sia Nono che Arnold Schoenberg.
L’Archivio Luigi Nono (aln), per esempio, si profila come
spazio di conservazione ma anche di creazione e formazione. Consente agli studiosi di consultare liberamente l’ampio lascito del compositore, comprendente manoscritti, lettere, nastri, libri e partiture, fotografie, programmi di sala, manifesti, recensioni e saggi critici; ma, come ha sottolineato Massimo Cacciari, questo luogo rappresenta anche
l’«immagine di quel laboratorio, di quell’inesausto “sperimentare”, di quel “cammino” che è l’opera di Nono, della sua
generosità, della sua “curiosità” mai vana, dell’apertura del
suo ascolto». Secondo il filosofo veneziano «sarà impossibile comprendere l’opera di Nono senza conoscere quest’Archivio. Così come è impossibile conoscere la musica contemporanea senza ascoltare Nono».
Abbiamo incontrato Nuria Nono nella sua casa della Giudecca per chiederle di illustrarci alcuni dei numerosi progetti in programma quest’anno.
Quali iniziative avete ideato per festeggiare il ventennale?
Nel 2013 abbiamo in programma molti eventi volti a celebrare in modo nuovo la musica e il pensiero di mio marito, attraverso una stretta collaborazione con altre istituzioni. Per
valorizzare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, stiamo preparando alcuni progetti multimediali, tra cui la realizzazione di una mappa di Venezia che consenta un tour virtuale nei luoghi della biografia umana e artistica di Gigi. Il lavoro informatico e grafico sarà realizzato grazie alla collaborazione con due Istituti del territorio veneto: il dei (Dipartimento di Ingegneria Informatica dell’Università di Padova) e l’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Entro la fine del
2013 si intende creare un prototipo che sarà implementato e
raffinato informaticamente nel 2014, e presentato ufficialmente nel 2015 in
occasione dei venticinque anni della
morte di mio marito. Stiamo poi elaborando un documentario sui
vent’anni di attività dell’aln, comprendente videointerviste, commento di documenti e montaggio di video finora
consultabili solo in
Archivio.
Da sempre dedicate molta attenzione alle giovani generazioni di
artisti.
Certo, abbiamo per esempio in
programma una
collaborazione tra
l’aln e l’Accademia di Belle Arti
di Venezia (Corso
di Arti e Musiche
Contemporanee).
Il progetto prevede
un ciclo di cinque incontri sulla musica e il pensiero di Nono; la proiezione di un documentario a lui dedicato, Archipel Luigi, una esposizione-installazione delle opere realizzate dagli studenti dell’Accademia veneziana ai Magazzini del
Sale, e infine un seminario didattico, a cura di Veniero Rizzardi, che preluderà all’audizione di A floresta é jovem e cheja
de vida (1966) – nella versione a otto canali – e alla visione del filmato di Theo Gallehr (1966) sull’opera, accompagnata da una selezione di fonti documentarie che illustrano
Nuria Schoenberg Nono
con una classe del Liceo musicale «Pigafetta» di Vicenza
che ha fatto visita all’Archivio nella primavera-estate del 2012
(per gentile concessione dell’Archivio Luigi Nono).
L’Archivio Luigi Nono di Venezia.
ne lavorando a una tavola rotonda tra soci fondatori e membri dei nostri organi, in programma a fine 2013, ove sarà tracciato un bilancio dell’“impact factor” della faln sugli studi
e sulle esecuzioni della musica di Nono in Italia e all’estero.
Quali nuove pubblicazioni sono attese per quest’anno?
Segnalo in particolare quella relativa al carteggio Luigi Nono-Giuseppe Ungaretti, a cura di Maria Carla Papini e Paolo Dal Molin per i tipi del Saggiatore. Sono testi di notevole
interesse per argomenti, durata (1950-1969) e «aperture».
Quale futuro immagina per l’Archivio Nono?
Nel corso di questi anni il lavoro svolto è stato molto intenso, abbiamo potuto garantire agli studiosi di tutto il mondo
un servizio di alto profilo che ci ha procurato una stima riconosciuta a livello internazionale. Ci auguriamo di poter
mantenere anche in futuro questa qualità, grazie anche al generoso sostegno di enti privati, oltre che di quelli pubblici,
provati dalla crisi economica.
A cosa ci invita oggi Luigi Nono?
Ha sempre meditato sul tema della sofferenza umana: quella personale, quella di chi vive con durezza la realtà della fabbrica, la povertà in paesi lontani, o la mancanza di libertà nei
governi repressivi, desiderando che tutti conoscessero que-
sti fatti; c’è un messaggio di speranza, un messaggio che implica un impegno di cambiamento, rinnovamento, così come lui ha sempre sperimentato. Era un uomo concreto, il suo
modo di fare non metteva in soggezione le persone, amava
ascoltarle.
Come incide la sua esperienza estetica e creativa sulle nuove
generazioni di musicisti?
Mi sembra che i giovani compositori siano influenzati dalle sue opere elettroniche, dalla sua ricerca sullo spazio e sul
tempo e che in loro stia rinascendo un’attenzione all’aspetto espressivo e conoscitivo della musica, anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Mio padre disse una volta a un
critico che lo stile è come un vestito: passata la moda decade,
mentre ciò che resta è il contenuto dell’idea. ◼
contemporanea
la genesi della composizione. A floresta venne concepita negli anni sessanta insieme allo scrittore Giovanni Pirelli come
ipotesi di nuovo teatro musicale basato su testi documentari (lettere, dichiarazioni, discorsi) che dovevano riflettere l’esperienza soggettiva della partecipazione alla lotta politica.
Essa divenne il modello per quasi tutti i lavori composti nei
dieci anni successivi e fu l’opera che, come direttore e regista
del suono, accompagnò in varie tournée più a lungo di ogni
altra. Non venne però mai fissata in una partitura: soltanto
nel 1998 l’editore Ricordi affidò a Maurizio Pisati e Veniero Rizzardi il compito di ricostruire un testo eseguibile basato sui numerosi documenti cartacei, sonori, visivi depositati
presso l’Archivio Nono. Nella versione discografica del 1966
fu operato un montaggio di materiali che sono tuttora conservati: è così possibile oggi sincronizzare le parti isolate dei
solisti originali (voci, clarinetto, percussioni) alle otto tracce
del nastro base e diffondere l’insieme secondo la disposizione spaziale prevista da Gigi. Questa nuova realizzazione sperimentale permette un ascolto dell’opera in condizioni molto vicine a quelle del concerto, con il vantaggio di disporre
dell’interpretazione delle voci originali.
Per valorizzare l’attività non solo compositiva ma anche
analitica di suo marito, presenterete poi
il cofanetto Arnold
Schoenberg, Variationen für Orchester op. 31 (Colophon, Belluno,
2011).
Si tratta di una
pubblicazione della faln realizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini,
Istituto per la Musica, che verrà proposta al pubblico
alla Cini da Daniel
Baremboim. Alla
sua lectio magistralis seguiranno due
sedute dedicate alle analisi dei compositori e alla storia
dell’interpretazione
musicale.
Per quanto riguarda i progetti esterni?
In occasione dei
cinquant’anni della
morte di Karl Amadeus Hartmann, parteciperò alla tavola rotonda «Projektinsel Hartmann-Nono» che si terrà allo Stadtmuseum di Monaco i prossimi 20 e 21 marzo. L’Archivio presenterà una selezione di lettere tra Nono e Hartmann, che saranno anche
pubblicate nella Festschrift.
Quali sono le novità relative ai progetti di ricerca e
formazione?
Presso la Zürcher Hochschule der Künste si svolge un seminario sulla «Prassi esecutiva della musica elettronica. Gli
anni dello Studio di Fonologia», mentre in collaborazione
con l’Università di Pavia è in programma un ciclo di seminari sulle questioni editoriali di Intolleranza 1960. Stiamo infi-
37
contemporanea
38
Luigi Nono
F
di Veniero Rizzardi
orse è una domanda futile, ma a qualcosa può magari servire chiedersi che cosa sarebbe stato della
fortuna postuma di Luigi Nono se non esistesse da
vent’anni un Archivio (cfr. pp. 36-37, ndr.) che, ad
appena tre anni dalla morte (1990), ne raccoglieva e ne ordinava tutto il lascito, e cominciava a promuovere un’attività di studio molto intensa, che aveva da subito visibili effetti
sulla ricezione e la diffusione della sua musica. Forse era soltanto una coincidenza, ma una coincidenza storica: Nono
veniva a mancare a un’età non avanzata, meno di settant’anni, in un momento molto particolare non soltanto della sua
carriera e della sua stessa fortuna di compositore, ma anche
della vicenda della musica del Novecento, sullo sfondo della fine del «secolo breve». Proviamo a rileggerla rapidamente, questa carriera, riprendendo qualche luogo comune, naturalmente per ribaltarlo.
A chi abbia qualche familiarità con le storie della musica recente, senza per questo esserne esperto o appassionato, la figura di Nono evoca quasi sempre l’immagine, magari non
esclusiva ma certo caratterizzante, del musicista politico,
dell’artista che subordina la soggettività al credo collettivo,
la ricerca di un’espressione convincente alla finalità agitatoria. Si tratta di un pregiudizio formatosi davvero in un’altra
epoca, ma occorre anche dire che Nono stesso, per qualche
tempo, non ha scoraggiato questa semplificazione. Lo stesso
carattere della persona, un affascinante intreccio di mitezza
e di irruenza, corrispondeva bene al suo stile di artista impegnato, che sul finire degli anni cinquanta aveva fatto sue le tesi di Jean Paul Sartre sulla letteratura come strumento di testimonianza e lotta politica, rendendo del tutto esplicita una
tendenza latente fin dalle primissime opere. Come negli Epitaffi per Federico Garcìa Lorca del 1952-53, dedicati ai combattenti della guerra civile di Spagna – pezzo d’Europa allora saldamente in mano a una dittatura fascista – ma già l’opera prima, le Variazioni Canoniche sulla serie dell’op. 41 di
Arnold Schoenberg erano costruite appunto a partire dall’O-
de a Napoleone Buonaparte, invettiva di Byron contro i tiranni, intonata dal padre della dodecafonia nella sua vena più
brillante e sarcastica. E così il giovane Nono scriveva il suo
manifesto, dichiarando di avere scelto il suo modello: modello di artista progressivo, che compone con acuta coscienza
di ciò che la storia ha consegnato nelle sue mani e altrettanta
responsabilità verso ciò che essa gli richiede. Fin dall’inizio
dunque la poetica di Nono è orientata in direzione opposta
al perfezionamento di una maniera, ma piuttosto alla ricerca di soluzioni tecnicamente più avanzate, che sappiano stimolare l’ascolto dei contemporanei, e la partecipazione alla
civiltà della musica – che per Nono diventa a un certo punto
funzione esplicitamente politica.
La posizione di questo giovane artista, nell’Europa e ancor più nell’Italia degli anni cinquanta, era molto singolare. Destinato dal talento e da una costellazione culturale originale, orientata, anche per tradizione familiare, alla cultura nordeuropea, Nono, insieme al suo «fratello maggiore»
Bruno Maderna, si era trovato a rappresentare la nuova musica italiana in un giovane e dinamico consesso internazionale, quello che si ritrovava ogni anno per pochi
densissimi giorni nella
piccola città tedesca di
Darmstadt. Sostenuto
dal prestigio di un grande direttore d’orchestra
e apostolo della musica
nuova, Hermann Scherchen, e poi da una solida
rete di rapporti intessuti
da un influente gruppo
di critici militanti, produttori radiofonici e direttori artistici, Nono
aveva esordito in Germania, salutato come
giovane radicale tra i più
dotati e interessanti, ma
per diversi anni sarebbe
stato pressoché ignorato
in patria. Nel 1956 compone Il canto sospeso, su
lettere di condannati a
morte della resistenza
europea (si badi, non solo italiana), una composizione che dovrà attendere diversi anni per essere ascoltata
fuori dalla Germania, e per moltissimo tempo più chiacchierata che veramente ascoltata. Il canto sospeso, composizione
sempre citata come esempio di opera in perfetto equilibrio
tra impegno civile e impegno tecnico-compositivo, in cui
Nono condensa la sua caratteristica, efficacissima «drammaturgia dell’ascolto», viene pubblicata, come registrazione, per la prima volta negli anni novanta, così come sarà solo nel 2000 che verranno raccolti in italiano i suoi numerosi
scritti, a dieci anni dalla sua scomparsa. Prima di allora, del
pensiero e delle idee mese nero su bianco da Nono nel suo Paese non si è discusso come si sarebbe altrimenti potuto.
L’Italia si accorge di questo maestro in un momento che per
lui stesso è di svolta; ed è un autentico choc. L’azione scenica Intolleranza 1960, la prima sua realizzazione teatrale, va
in scena alla Fenice nell’aprile del 1961, una delle «prime»
Luigi Nono, 1969
(Archivio Luigi Nono, Venezia;
© Eredi Luigi Nono, per gentile concessione).
Alcuni schizzi allestiti nello studio di Venezia, 1983
(foto di Luigi Nono; Archivio Luigi Nono, Venezia
© Eredi Luigi Nono, per gentile concessione).
Nono, tra l’altro, il favore unanime della critica, prima divisa dallo spartiacque politico.
Gli anni ottanta erano quelli in cui la musica contemporanea si stava polarizzando tra «nuova complessità» e «nuova semplicità», tra scrittura utopica e banalità postmoderne.
Nono andava in controtendenza rispetto ad ambedue, ma
attorno a questa sua singolarità si stava creando anche una
certa mitologia, non tanto diversa da quella che veniva allora
costruita attorno a un enigmatico e controverso compositore «esoterico», Giacinto Scelsi.
Ecco: se non altro, l’avvio, promosso dall’Archivio Luigi
Nono, di uno studio basato sulla documentazione del processo creativo ha permesso di mitigare molto presto questa
sorta di «canonizzazione», riconducendo l’opera di Nono
alle sue premesse tecniche, materiali (incluso il lavoro sulle fonti poetiche, beninteso), mettendo in evidenza i forti
motivi di continuità attraverso le differenti fasi e «rotture»
della sua produzione, ricostruendo un’immagine unitaria
che ha potuto recuperare all’ascolto dei contemporanei tutti quei lavori che si ritenevano, a torto, consegnati alle circo-
stanze dell’epoca: le composizioni ad alto tasso di impegno
tecnico degli anni cinquanta, quelle «politiche» degli anni
sessanta e settanta.
Nono non ha avuto allievi, e la sua influenza non si è fatta sentire come avrebbe potuto, soprattutto presso le generazioni più giovani: moltissimi ormai sono i compositori fuggiti da un Paese che da anni non offre alcuna opportunità di
carriera, e di necessità rifugiatisi presso lidi più accoglienti,
come la Francia, dove però le istituzioni di formazione e ricerca imprimono un marchio «di scuola», tradizionalmente piuttosto tecnicistico.
Rispetto a questa realtà, il lavoro condotto dall’Archivio
può svolgere una funzione di raccordo molto importante.
Nei suoi vent’anni ha infatti promosso ricerca, analisi, edizioni, seminari d’interpretazione, ricostruzioni esecutive,
attività di documentazione di ogni genere. Si tratta di un lavoro a tutto campo che può mantenere in vita, rinnovandola secondo i mutamenti delle prospettive scientifiche, l’opera del compositore in modo tale da mantenerne alta la possibilità di una reale trasmissibilità. ◼
contemporanea
più tumultuose del secolo. È un’irruzione di espressionismo
tecnicamente aggiornato e potenziato, con parti registrate
su nastro e diffuse da un sistema di altoparlanti che avvolge
la platea, e una componente scenica nuovissima, dominata
dal segno di Emilio Vedova. È un teatro totale in cui accanto
all’allegoria c’è l’attualità del lavoro in miniera dei lavoratori emigrati, le torture poliziesche, i disastri naturali colposi.
Nono sta svoltando verso un’ancora maggiore sperimentazione tecnica, la scoperta della musica elettroacustica, un approfondito scavo dell’espressione vocale. L’intento politico
è ormai esplicito tuttavia, e nella sua speciale drammaturgia
prende sempre la forma di ritratti esistenziali di singole figure la cui dimensione politica scaturisce, o è posta in evidenza, quasi sempre da un lutto. Ma non c’è mai nulla di celebrativo o di oleografico nella musica che Nono scrive – si dovrebbe dire «fa», perché a un certo punto la scrittura è solo
uno tra i momenti della creazione e della performance, a cui
Nono partecipa direttamente – come direttore e regista del
suono – e soprattutto questa musica è accompagnata da una
forte determinazione da parte del suo autore a cercare modi nuovi e diversi di farla
ascoltare, fuori dai festival di musica contemporanea, soprattutto fuori dall’«avanguardia»,
verso un pubblico non
specializzato, politicamente amico. Non sarà facile questa quadratura del cerchio, e il problema rimarrà irrisolto, sospeso, fino a quando la rivoluzione dell’ascolto postulata da Nono si compie più tardi,
al volgere degli anni ottanta, in un’ultima fase che in apparenza abbandona l’ispirazione
politica. Nell’Italia della metà degli anni settanta, mentre il Partito Comunista Italiano
raggiunge il massimo
della sua presenza sociale e del suo peso politico, Nono, che ne teme
l’istituzionalizzazione, compie una delle sue caratteristiche
«rotture»: si rivolge ora ai temi del mito, dell’esperienza mistica, e la sovversione auspicata è semmai quella «insospettata» della poesia di Jabès. Svolta poetica che si accompagna
ancora una volta a una svolta tecnica, con la scoperta dell’elaborazione del suono interattiva, in tempo reale, che muta completamente il rapporto con l’interprete. Nono esplora la natura del suono, la sua materia, mentre lo trasforma e
lo proietta nello spazio come mai prima: è un tratto di sperimentazione che si ricollega però alla pratica degli amati maestri del Cinquecento veneziano nella cappella di San Marco. Nel corso degli anni ottanta fioriscono così opere straordinariamente delicate e imponenti al tempo stesso, fatte di
soffi, sussurri, voci remote e improvvise esplosioni. Le ultime opere, con Prometeo che in qualche modo le compendia,
sono vere e proprie meditazioni sonore che riguadagnano a
39
contemporanea
40
Sulla Biennale Musica
Una lettera
C
di Luigi Abbate
aro Direttore,
ho apprezzato l’attenzione riservata da VeneziaMusica e dintorni all’ultima edizione della Biennale Musica. Certo, sarebbe stato curioso che un
periodico con un titolo come quello che dirigi non avesse dedicato particolare riguardo all’importante manifestazione italiana di musica d’oggi che da decenni a Venezia si tiene. Cionondimeno, destinare ben cinque pezzi sull’argomento non è cosa da poco, specie se si considera la pressoché totale nullità degli spazi offerti alla critica musicale dalla stampa
nazionale. Non sono stato presente all’ultimo festival, quindi l’ampio spazio è stato utile strumento d’informazione e opportunità dialettica. In particolare le perplessità espresse da
Mario Gamba e Giordano Montecchi mi spingono a qualche riflessione di rilancio. Gamba si chiede perché in Biennale Musica è ammesso ciò che non lo è nella sezione arte o cinema, ossia porre al centro del programma autori ormai storicizzati. E, sempre Gamba, rammaricandosi dell’esclusività della presenza di musica contemporanea «colta», lamenta l’assenza di musiche «altre». Ovviamente molte sono le ragioni
di questo oggettivo stato di cose, da quelle più prosaicamente
economiche a quelle «alte» dell’estetica e degli studi sulla ricezione. Rimaniamo solo su queste ultime. Se ci riferiamo alla Biennale, è inevitabile notare il fatto che sia arte che cinema
considerano nel proprio dna, ben più della musica, l’integrazione con il «diverso», sia esso inteso come semplice materiale, concreto o linguistico, sia nelle sue derive concettuali, sia
ancora per la prerogativa (sempre di arte e cinema) di abbracciare con forza emotiva gli ambiti più distanti del cosiddetto
«sociale». La musica, arte «ineffabile» per eccellenza, cede
facilmente alle lusinghe dell’autoreferenzialità e pone acerrime resistenze a tali attitudini. Per esempio la fisicità, a volte
cruenta (si pensi alla Body Art nelle manifestazioni ormai storicizzate del Leone d’oro Marina Abramovich o, prima di lei,
di Gina Pane), dell’esperienza artistica non trova uno spazio
paritetico nella musica, a meno che non si vogliano considerare «body music» i giochi percussivi del corpo di un Bobby
Mc Ferrin. Maurizio Mochetti dice che il suono non è prerogativa del musicista. Pensiero disarmante per chi musicista è,
e quindi considera anche concettualmente il suono e tutto ciò
che a esso afferisce un appannaggio, viceversa ritenendo che
altre vocazioni e competenze ne facciano uso come di un’arma impropria. In realtà sarà il caso di valutare anche qui, come altrove, pariteticità delle vocazioni-competenze altrui. Vi
sono artisti – e qui sarebbe lunga la lista – che usano il suono,
sia come fenomeno assoluto che nel suo articolarsi con l’immagine, la forma plastica, in modo ben interessante, non solo
presentandolo nel ruolo consueto di «esperienza-d’ascolto»,
ma anche facendolo interagire con la componente simbolicoconcettuale che tanto si ritrova nelle arti visive degli ultimi anni. Un esempio per tutti: l’installazione di Arcangelo Sassolino vista di recente nell’omaggio a Bacon offerto dal fiorentino
Palazzo Strozzi, dove protagonista è appunto il suono prodotto da un gioco di corde pericolosamente tese all’inverosimile, proposto a intervalli più o meno regolari. Saggio fra mille
possibili di idee e relative realizzazioni che pongono sotto luce nuova la poetica cageana del rapporto suono-silenzio, e alle quali anche i compositori potrebbero (ri)fare un pensiero di
riflesso. Se non altro – detto scherzosamente – per fare in modo che proprio il collega artista, con le sue sempre più frequenti incursioni sonoro-musicali, non finisca per espropriare anche i (poveri) ambiti di competenza del compositore, e quindi
i sempre più risicati spazi di sopravvivenza di quest’ultimo. E,
tanto per restare nel gioco dei paragoni fra discipline storicamente care alla Biennale veneziana, vien da dire che fra i critici, gli studiosi, gli esperti, alla musica son mancate quelle figure-chiave che viceversa non sono certo mancate alle arti visuali. Figure che la Biennale ben conosce, ispiratori di movimenti
che loro stessi hanno definito e storicizzato: un Germano Celant, esegeta dell’Arte Povera, un Achille Bonito Oliva, archimandrita della Transavanguardia.
La pratica artistica, e in particolare quella della Performing
Art, suggerisce un possibile ritorno di fiamma della convivenza fra autore, in particolare, virtuoso, ed esecutore. Convivenza, ovvio, non solo relegata al jazz e non solo nel jazz capace di
risultati di indubbio interesse sul fronte dell’equidistanza fra
bravura e qualità. Esperienze meno stimolanti si incontrano
laddove a una notevole maestria performativa si accompagna
una sostanziale povertà di stimoli ed esiti compositivi. Peggio
ancora quando la povertà accomuna sia l’aspetto compositivo che quello esecutivo. Anche qui gli esempi non mancano,
e con loro certi atteggiamenti che paiono veri cavalli di Troia per far passare come «alto» un tipo di approccio alla composizione che strizza l’occhietto all’easy listening commercialmente potabile. Interessante poi notare come un genere abitualmente associato all’improvvisazione nel tempo si sia cristallizzato in formule ormai manieristiche. La performance di
Braxton intinta nell’accademismo che ha deluso Gamba mi
ha ricordato un concerto seguito alcuni anni fa alla Casa da
Música di Porto, la cui mirabile acustica concorreva a esaltare la prova dell’eccellente Dave Holland e del suo gruppo; la
quale, per precisione esecutiva pareva più vicina allo standard
di un Arturo Benedetti Michelangeli che quello della vecchia,
fumosa cantina.
Ma è l’intervento di Giordano Montecchi a mettere il dito nella piaga. Spinto a Venezia dai concerti con le musiche
dei più giovani, e – dice – diviso a metà fra speranza e timore
di delusione, scoprendo prevalere alla fine la seconda attitudine, Giordano esordisce con la domandina sorniona: «Sono io
o è lei? È la sclerosi dell’ascoltatore divenuto incapace di sorprendersi? O è lei, la musica, quella musica che via via si è fatta
più anemica e replicante?» Chi, come me, si ritrova a cavalcare entrambe le tigri, coltivando con la composizione l’orticello di un narcisismo creativo, ma anche testimoniando con la
scrittura un disagio della creatività e della critica alla creatività medesima, queste domande se le pone due volte. E subito gli
Anthony Braxton.
Tracy Chapman.
zioni di carriera. E a mio avviso è qui, per noi musicisti, il vero
«morbo – riprendo ancora le parole di Montecchi – che consuma: un’insufficienza culturale che è la madre di tutte le corruzioni e degenerazioni della politica come della cittadinanza». Allora, giusto per rincarare la dose, spostandoci dalla formazione alla produzione e diffusione, completiamo il quadro
mettendoci dentro altre idiosincrasie, altri malcostumi tutti
italici, e facciamolo con una «domandina» alla Montecchi:
ma l’Italia della musica è forse migliore di quella della politica, dell’economia, della finanza o del sindacalismo? Sarà che
anche in musica legami e amicizie personali, lassismo di editori e direttori artistici, una declinazione «postmoderna» del
gramsciano intellettuale organico non fiacchino la serenità di
giudizio, il gusto – diciamolo con semplicità – per il bello, e
financo la forza dell’invenzione, il faticoso – perché tale è –
impegno del comporre? Se poi parlassimo dell’eterna incompetenza dei responsabili culturali non addetti ai lavori? E vogliamo tirare in ballo un altro baraccone tutto italico: la siae?
Ma no, meglio di no. «Restiamo – sempre per citare il nostro
Giordano – al pessimismo della musica».
Vorrei aggiungere ancora un ricordo. Proprio Montecchi ha
ben presente una bella masterclass di Uri Caine, organizzata
dal neonato (e troppo presto abortito) Dipartimento di Nuove Pratiche Musicali, iniziativa della quale Giordano, insieme
ad altri colleghi tra cui il sottoscritto, fu promotore presso il
Conservatorio di Parma. Giusto per dire che tra i cascami di
una vetusta istituzione cose buone si potevano, e ancora oggi
si possono continuare a fare. Era il 2001. Fu un momento importante, specie per giovani strumentisti e compositori poco
avvezzi all’esperienza dell’improvvisazione; tutti impegnati
in una rilettura di Caine, allora inedita e battezzata per l’occasione, delle Variazioni Diabelli. Due anni dopo il simpatico Uri fu chiamato a Venezia per dirigere la Biennale Musica. Un’edizione, quella del 2003, frizzante, che pareva innovativa, ma messa in piedi frettolosamente, e non solo ma forse anche per questo ridotta a una vetrina di musica jazzisticoebraico-newyorkese o poco più. Alla fine, gira e rigira, dalla
morsa «anemica e replicante» non se ne esce vivi. Ma forse
un giorno, Giordano Montecchi, magari nominato a sua volta alla direzione della Biennale Musica, saprà smentire l’infausta tradizione.
Dei contributi, caro Direttore, che hai pubblicato sull’argomento, e specie dei due che ho citato, ho apprezzato l’onestà
intellettuale. Mi auguro che VeneziaMusica e dintorni altri
di questo tenore ne faccia seguire.
Con stima,
Luigi Abbate
contemporanea
vien da porsi la domanda sotto la seguente forma: comporre
come urgenza e denuncia, oppure no? Ebbene, lo confesso: io
– ma forse come me anche altri colleghi autori – amerei lasciare un segno come lo ha lasciato la Tracy Chapman di Behind
the Wall, la cui melopea a cappella canta con forza degna di
epos omerico della violenza perpetrata entro le mura domestiche, o il Chico Buarque di A Construção, le cui ciniche sostituzioni di parole nel testo su gesti di ballata fan rabbrividire
chi è sensibile alla tragedia delle morti bianche. Amerei farlo,
e ci provo usando strumenti appropriati a disegnare una forma meno autoreferenziale, una forma nuova di impegno, magari rivissuta nella poesia declinata al femminile, quella delle
martiri (nel senso antico di testimoni) della modernità: Sylvia
Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi… Ci proviamo, a lasciare un segno, e a fare in modo che questo segno
arrivi a un pubblico. Ben venga quello della Biennale Musica, meglio ancora se giovane. Se poi prevale la «sclerosi dell’ascoltatore (e del critico, benché sensibile e avveduto) incapace
di sorprendersi», forse c’è anche un problema, come si diceva una volta, «di contesto». In fondo il Brahms che invidiava a Johann Strauss il motivo di An der schönen blauen Donau
a pensarci bene ci ha lasciato tempi di Ländler che non son da
meno per purezza formale e forza evocativa. E non sono meno
«semplici (einfach)»: sono solo meno «popolari».
La reiterata assenza delle musiche altre denunciata sia da
Gamba che da Montecchi è un problema vero, e al tempo stesso un falso problema. L’urgenza stringente, improrogabile nei
desiderata musicali del mondo giovanile spinge all’allarme.
Ormai anche in Italia rap e hip hop han superato per interesse pop e rock. Ma soprattutto il download, a norma o illegale che sia, i contatti in YouTube, e il grande equivoco generato
dall’immediatezza di accesso a un presunto comporre nell’epoca del sampler e dei software virtuali autocompositivi. E ancora, l’inclinazione di alcune star dell’esecuzione «classica»
verso più o meno personali letture dell’altra musica, rock-popjazz-ethno-ecc. Insomma, tutti temi da mettere in conto per
tentare una risposta alla «domandina». Montecchi auspica
l’invenzione di nuovi spazi per la produzione. E quali potrebbero essere, per esempio in Italia, gli spazi deputati per la produzione del nuovo in musica? Ma i Conservatori di musica,
naturalmente! Infatti non lo sono per niente. Lo sono invece, e tanto, avvinghiati nella morsa letale di una riforma che,
basandosi su un approccio ancora tristemente neoidealistico,
produce, nei suoi migliori saggi, asfittici esercizi di stile (qualcosa del genere ci racconta Gamba, citando una collaborazione fra Biennale e Conservatorio veneziano). Ma nella realtà
dei fatti che cos’è diventato il Conservatorio di musica? Delle originarie «Arti e Mestieri», grazie a surrettizie manipolazioni degli intellettualismi e della burocrazia s’è trasformato
in una aberratio institutionalis. Le cause: una riforma avviata
dall’alto, per giunta priva del completamento del cursus accademico con la mancata istituzione dei livelli superiori, una balorda promiscuità di competenze e velleità scientifico-didattiche. Pianisti, tubisti, violinisti, bassisti e fisarmonicisti: tutti
insieme appassionatamente preoccupati di congedare tesi di
laurea elegantemente rilegate e titolate, ma che stringi stringi si riducono a compilazioni a volte costellate di refusi se non
di errori di ortografia. Già, la chimera delle lauree triennali e
biennali, garbata sintesi di un arrampicarsi sugli specchi verso
il riconoscimento professionale prima ancora che artistico del
ruolo del musicista. E il compositore, l’allievo di composizione, dico, caso estremo di una situazione del genere? Quando
arriva a terminare il corso va alla ricerca della griffe accademica, giustamente meglio se lontano dall’Italia, da annotare sul
curriculum, e da cercare di monetizzare nelle proprie aspira-
41
l’altra musica
42
Francesco De Gregori:
storie senza fine
to di più in passato, magari, anche se ci sarebbe da aprire una
discussione sulla faccenda: oggi le canzoni che sta portando in giro per l’Italia hanno la freschezza dell’ispirazione.
La sua è una storia in cui musica popolare, rock, poesia, inquietudine e splendida presunzione continuano a deflagrare fra di loro. Nessuna scorciatoia nei testi, che inanellano figure sfumate, dolenti, perentorie, dalla parte degli ultimi e
qualche volta intonate dai primi, ben consapevoli di avere la
di John Vignola
dote dell’ispirazione.
La «Belle epoque» che fu, mai così vicina, nei suoi risvolti
ncora sulla strada, Francesco De Gregodrammatici, il «Passo d’uomo» che è l’unico da percorrere,
ri. Un disco uscito da poco, su cui vale la pena di
la gazzarra disumana di un «Omero al Cantagiro» (con la
soffermarci, un tour che imita da vicino quello di
voce di Malika Ayane, che fa capolino anche nella «Ragazuno dei suoi miti, Bob Dylan, nel cambiare direza del ’95»), folclore tipicamente italiano un po’ da rimpianzione, stile, musicisti, e addirittura un audiolibro in cui la sua
gere e un po’ da dimenticare, l’ironia che si sposa col senso
voce legge nientemeno che Cuore di tenebra, pubdi tragedia: tasselli di un viaggio di quarantadue
blicato da Emons.
minuti e di nove canzoni in cui la musica è comLa verità, ammesso che ce ne sia una sola, è che il
pagna fedele. Gli arrangiamenti di Nicola Piovani
Principe è uscito da un esilio puramente artistico,
(«Guarda che non sono io»), l’immancabile maPadova
qualche anno fa, che lo aveva reso quasi inavvicinano di Guido Guglielminetti e la scelta di danzare
Gran Teatro Geox
bile ai cronisti musicali. Era il 2005, l’epoca di Pezsul falsopiano della nostra tradizione, quella per13 aprile, ore 21.30
zi, e De Gregori aveva ricominciato a parlare, era
corsa da festival strapaesani e solcata da una abbasceso in mezzo alla gente, una figura un po’ papacinante strada da macinare: un disco libero, dove
le, ma del resto appropriata, per colmare la distanza, sempre
i ricordi del passato, inevitabili, («Showtime») rifuggono
più ampia, fra se stesso e la percezione del pubblico. Il decenogni stucchevolezza.
nio precedente era stato segnato da qualche grande canzone,
Non che tutto sia oro lucentissimo: quelli che hanno amama soprattutto da una serie di dischi dal vivo affastellati, tirati via
senza troppo riguardo per la voce né attenzione per gli arrangiamenti. Come il suo punto costante di riferimento d’Oltreoceano, si
limitava a salutare, quasi apostrofandola, la platea, per poi inanellare una serie di brani in successione
rapida e velocissima, con una voce
incrinata, più che dal tempo, dal
tentativo di essere in leggero ritardo con la trama sonora.
Da Amore nel pomeriggio, del
2001, ma soprattutto da Il fischio
del vapore, dell’anno successivo,
pensato assieme a Giovanna Marini, il percorso del cantautore romano ha ripreso una sua forza poetica importante, mescolando sempre di più il folk, la tradizione, con
la sua passione per il rock’n’roll.
Poi, è arrivato il resto: tante interviste e altrettante partecipazioni
radiofoniche, qualche comparsata
televisiva, addirittura un film quasi autobiografico, Finestre rotte, girato da Stefano Pistolini e presentato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, la collaborazione
sui palchi di mezza Italia con Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra
Popolare Italiana. Infine, è arrivato Sulla strada, sorta di corrimano
in studio per i suoi nuovi concerti.
Evitiamo, anche qui, a fatica, la tentazione piuttosto stucto il recente Pezzi (uno dei suoi album migliori, per dire) lachevole di accostare Sulla strada a Tempest di Bob Dylan,
menteranno magari la mancanza di grinta, qua e là, e di un
anche se una linea di contatto esiste: la vivacità. Così come
pezzo davvero memorabile. Chi scrive, sobriamente, applauil più grande cantautore americano continua a sorprendede la bravura di un Francesco De Gregori ancora in stato di
re per l’uso della voce e per la libertà dell’ispirazione, così
grazia, capace di farsi riconoscere fra tutti e di non strafare.
il Principe non si adagia né si ripiega su se stesso. Lo ha fatNon possiamo, per ora almeno, volere di più. ◼
Il cantautore romano
presenta
«Sulla strada»
A
me solcano il viso della cantante. Il successo è planetario: il
singolo raggiunge il primo posto in classifica in Australia,
Austria, Germania, Irlanda, Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti. Il video vince anche l’Mtv Video Music Awards nel 1990, e si tratta della prima volta per
di Giuliano Gargano
una donna.
Sulla scia dello strepitoso successo di quella canzone – diiciamoci la verità. Lo sforzo è apprezzabile,
ventata ormai un classico – la O’Connor piazza un altro pala caparbietà pure. Il rimettersi in gioco è imporio di singoli, «The Emperor’s New Cloche» e «Three Batante. Ma anche la più buona vobies», tutti inclusi nell’album I Do Not Want
lontà – se non accompagnata da
What I Haven’t Got.
una produzione che sia anche lontanamente
E poi… e poi bisognerebbe stendere un veconfrontabile con l’exploit che ti ha cambialo sugli anni successivi. La O’Connor resta al
Venezia
to la vita – è insufficiente per tornare appuncentro delle cronache, ma mai per motivi muTeatro La Fenice
to a quei livelli. Ed ecco allora che per parlasicali. Tra i momenti più controversi, quello
2 aprile, ore 21.00
re di Sinead O’Connor, per la prima volta a
in cui strappa – durante un concerto – la foVenezia in aprile, bisogna tornare indietro al
to di papa Giovanni Paolo ii. E poi gli scontri
1990. La giovane cantante irlandese incide la
con i colleghi (Frank Sinatra voleva prendercover di un brano che Prince, il folletto
la a pedate nel fondoschiena), il flirt con il cantante
di Minneapolis, aveva scritto a medei Red Hot Chili Peppers Anthony Kiedis. Setà degli anni ottanta per il gruppo
guono anni bui, con un tentato suicidio, la
musicale The Family. La canzoscoperta di soffrire di un disturbo bipone è «Nothing Compares
lare, l’ordinazione all’interno di un
2 U». Una ballata strugmovimento cattolico irlandese…
gente e malinconica,
A quasi un quarto di secolo da
accompagnata da un
quei momenti di gloria, Sinevideo – girato a Pariad O’Connor è di nuovo sul
gi – tanto essenziapalco. Martedì 2 aprile sarà
le quanto intenso: a
dunque alla Fenice con una
lunghi primi piani
tappa del suo «The Crazy
del volto di SineBaldhead Tour»: ad acad si sovrapponcompagnarla ci saranno
gono riprese nelGraham Henderson (tala capitale franstiere), Robert McIncese. Per certi
tosh (chitarra), John
versi, sembra
Reynolds (batteria),
l’antenato di
Clare Kenny (basso),
un’altra belBrooke Supple (chila e triste cantarra). Al centro del
zone, «Somesuo concerto l’ultimo
one Like You»
cd, How About I Be Me
di Adele, il cui
(And You Be You)?, uscivideo è girato
to nel 2012: è addirittura
all’ombra della
il nono album della cantorre Eiffel.
tante irlandese, prodotto
Verso la fine del
da John Reynolds e distribrano – subito dobuito dall’etichetta inglepo la frase «All
se One Little Indian. Dieci
the f lowers that
brani (salutati in modo non
you planted, Maproprio entusiastico da parte
ma, in the backyard
della critica, e con zero com/ All died when you
menti su iTunes), ai quali, giowent away» (Tutti
co forza, verranno intervallai fiori che hai pianti i successi di venticinque antato nel giardino di
ni fa. Ma se è lo scotto da padietro, mamma / sogare per riascoltare «Nothing
no morti quando sei
Compares 2 U»… ◼
andata via) – due lacri-
D
Sinead O’Connor
(foto di BarryMcCall).
l’altra musica
Sinead O’Connor
sbarca in Fenice
43
l’altra musica
44
Un «Fantasma»
per esorcizzare
i propri demoni
tolo a parte – è fieramente «pop».
Fantasma è un disco orgogliosamente inattuale, un piccolo trattato sulla canzone italiana e sugli arrangiamenti orchestrali, che però non ha la pretenziosità (e la noia) che un
saggio accademico può avere e che una raccolta di canzoni
non ha.
«Ma, credimi, non c’è alcuna differenza tra fare un disco
così e fare un disco di Jovanotti»: ho letto questa frase nei
meandri di Facebook, in risposta a qualche recensione podi Gianni Sibilla
stata e discussa vigorosamente. Siamo un Paese di allenatori della nazionale di calcio e di critici musicali... Il «critichia morte esiste ancora, eccome. Solo che un
no» aveva ragione: questa frase è vera, ma nel senso opposto
consolidato luogo comune dei media e dell’indua quello scherno e a quel disprezzo che il suo anonimo autostria culturale vuole che non se ne parli. La si celere intendeva esprimere.
bra, perché è un evento che genera indotPerché Fantasma è un disco frutto di una ricerto – in fin dei conti, alla fine delle classifiche di
ca molto diversa da quella che Lorenzo Cherubiogni anno ci sono i dischi di cantanti scomparsi
ni fa nei suoi dischi, ma altrettanto profonda: ci
prematuramente.
sarebbe da scrivere un saggio solo sui suoni, sugli
Padova
È un luogo comune soprattutto nazionale, perstrumenti e sugli arrangiamenti di questo nuovo
Gran Teatro Geox
ché ci sono band anglosassoni come i Grateful
album, inciso con un’orchestra, la FilmHarmo29 marzo, ore 21.00
Dead che sulla morte hanno costruito un immany Orchestra di Wroclaw/Breslavia, arrangiata da
ginario, visivo e musicale, anche scherzandoci,
Enrico Gabrielli.
esorcizzandola, elaborando. Ma cantarla, da vivi, no, non in
Viene in mente un’altra parola, desueta e inattuale pure
Italia. Quello non è tollerato da noi: genera sorrisini, scherquella: «concept album» – una parola che gli stessi Baustelle
no, battutine. C’è il rischio, concretissimo e amplificato dal
ostentano nel comunicato stampa di presentazione del disco.
chiacchiericcio libero sul tazebao globale dei social network,
Nell’immaginario degli ascoltatori questa definizione evodi passare per pesanti, presuntuosi intellettualoidi.
ca tentativi – goffi o, peggio, pretenziosi – di usare le canzoni come capitoli di libro, di
narrare con un linguaggio
che non è quello del pop.
Invece Fantasma è proprio
questo: un «song cycle» sia
lirico che musicale, con una
sua organicità.
Fate una prova: prendete
il libretto (questo è un disco da avere nel caro, vecchio, formato fisico), leggete i testi, che peraltro sono
giustificati, senza gli «a capo» delle strofe. Leggeteli
dal primo all’ultimo. Tutto fila come un unico racconto. Le parole non andrebbero mai separate dalla musica, dall’interpretazione. Ma il gioco in Fantasma funziona, eccome.
Poi ascoltate le canzoni:
trovate voi qualcuno che
sappia mettere assieme De
André (la voce di Bianconi
ricorda quella del Maestro,
Tradotto: ci vuole un gran coraggio a sparire completaa tratti), Morricone e la musica per film, quella sinfonica, la
mente per quasi tre anni e scegliere una canzone come «La
musica concreta, il pop «remmiano» cantato in romanesco
morte (non esiste più)» come primo singolo del ritorno. Og(«Contà l’inverni») e la canzone melodica italiana. Trovagi gli artisti non staccano mai: twittano, postano, bloggano.
te qualcuno che sappia mettere assieme tutto questo senza
Non i Baustelle: da I mistici dell’occidente (2010) a oggi erasembrare «retromaniaco», come direbbe Simon Reynolds.
no praticamente scomparsi, senza quell’ossessione al presenSarà interessante vedere come il Fantasma si materializzezialismo digitale odierno.
rà sul palco, spogliato in larga parte della presenza dell’orNon c’è alterità, non c’è snobismo, non c’è provocazione.
chestra (che sarà in scena solo nelle prime date del tour). Un
C’è solo la scelta di un proprio percorso: Francesco BiancoFantasma senza veli è ancora più evocativo, pauroso, inquieni, Rachele Bastreghi, Claudio Brasini di coraggio ne hanno
tante. E forse è proprio questo l’effetto che vogliono otteneda vendere, da tempi non sospetti. E la scelta di una canzone
re i Baustelle: costringervi ad affrontare i vostri demoni. Sacosì stupisce solo chi li conosce superficialmente. Una gran
rete in grado di esorcizzarli? ◼
canzone, melodica e retrò al punto giusto, ottima introduzione a un disco ancora più coraggioso di quel brano che – tiBaustelle (foto di Gianluca Moroso).
I Baustelle in concerto a Padova
L
la ricerca sonora, teatrale, letteraria, visiva, eccetera. I Litfiba anzitutto scelgono il nome dall’indirizzo telex della sala
prove utilizzata presso la via De’ Bardi al numero civico 32:
quindi L (prefisso telex) + IT (Italia) + FI (Firenze) + BA
(via De’ Bardi); oltre Pelù e Renzulli ci sono Antonio Aiazzi alle tastiere, Francesco Calamai alla batteria e soprattutto
di Guido Michelone
Gianni Maroccolo al basso (destinato poi a un’importante
sodalizio con i gruppi emiliani cccp e csi). Ben presto l’acono tornati. I Litfiba da qualche mese sono di
coglienza riservata al quintetto da un pubblico generazionanuovo assieme dopo che la brusca separazione tra i
le sempre più allargato, porta i Litfiba a compiere un salto di
due leader: Piero Pelù, il cantante, e Ghigo Renzulli,
qualità – caso più unico che raro nella scelta indie nostrana
la chitarra solista. Nella storia del rock succe–, diventando la sola band tricolore a fregiarsi del tide infatti anche questo: basti pensare a quando, dutolo di rock star attraverso album memorabili – Derante gli anni novanta, Mick Jagger e Keith Richard,
saparecido, 17 re, Litfiba 3, El diablo, Terremoto, Spiovvero i Rolling Stones, comunicavano tra loro solo
rito, Mondi sommersi, Infinito –, una band che, pur
Padova
attraverso i rispettivi avvocati, per capire la tortuo- Gran Teatro Geox concedono via via larghi spazi a una comunicativa
sità delle dinamiche di gruppo in un ambito – la po- 6 aprile, ore 21.30 poppeggiante, mantiene integerrima l’essenza – di
pular music – dove industria e showbiz comandaPelù e compagnia – di musici, cantastorie toscanacno su arte e creatività col pugno di ferro. Del resto il
ci, personaggi ribelli, fuorilegge e contestatori.
nocciolo della questione che vede, nel 1999, Pelù abbandoA emergere sia dai dischi recenti (Insidia, Essere o sembrare,
nare Renzulli (o viceversa) riguarda proprio il valore da atGrande nazione) che sul palco – anche oggi i Litfiba danno
tribuire all’identità poetica del duo dopo diciannove anni di
il meglio di sé dal vivo, con i nuovi ingressi di Daniele Bagni,
S
onorata attività, al contempo popolare e trasgressiva, canzonettistica e rockettara: dunque, per il nuovo millennio, ritorno all’originaria funzione alternativa o svolta verso un ancor
più tranquillo successo commerciale?
Come si sa, Pelù intraprende la carriera solista con alti e
bassi, mentre Renzulli prosegue con il gruppo assumendo un
nuovo cantante senza però bissare l’exploit precedente. Ma
i Litfiba, in quanto tali, necessitano di una front line PelùRenzulli, due figure complementari, due musicisti simbiotici, due immagini piratesche del rock italiano, due corpi in
scena, due menti artisticamente inscindibili l’una dall’altra.
E dire che la band si costituisce un’identità faticosamente,
cominciando dall’underground fiorentino che già alla fine
degli anni settanta, sulle ceneri del punk tricolore, può vantare una scena giovanile di tutto rispetto negli ambiti delLitfiba (foto di Alexandra Morris, litfiba.net).
Federico Sagona, Cosimo Zannelli, Luca Martelli – ci sono
la voce e il volto di Pelù tra l’ironico sberleffo, la recita animalesca, la selvaggeria gaglioffa, e l’aplomb del Renzulli chitarrista, al contempo compositore e intellettuale del gruppo.
Se ne sentiranno delle belle, insomma, in questo nuovo
tour battezzato «Trilogia 1983-1989» – con l’esclusiva partecipazione di altri due componenti fondatori della band,
Gianni Maroccolo e Antonio Aiazzi – che, partito il 26 gennaio dall’Arena di Mendrisio, sta percorrendo l’Italia intera
con tappe a Milano, Bologna, Fontaneto d’Agogna, Cortemaggiore, Napoli, Roma e Padova.
Concludono idealmente i Litfiba: «Ci piace molto spaziare tra i generi, anche perché in trent’anni, trentadue oramai,
che suoniamo insieme è cambiato il mondo intorno a noi ed
è cambiata anche la musica, quindi giustamente essere al passo con i tempi, anche se può sembrare una formula un po’
“paracula”, in realtà non lo è». ◼
l’altra musica
Gli anni ottanta
dei Litfiba rivivono
in concerto
45
l’altra musica
46
In un disco di cover
ecco le radici rock
di Anastacia
ca, suo paese natale: nata a Chicago, Anastacia è poi cresciuta a New York assieme alla madre attrice di Broadway, vivendo quindi a stretto contatto con il mondo dello spettacolo. Sviluppa in questi anni la sua attitudine musicale, spinta
dall’ambiente in cui vive e dalla passione di sua mamma per
Barbra Streisand ed Elton John, che rimane ancora oggi l’artista preferito da Anastacia. Con il secondo album, pubblicadi Tommaso Gastaldi
to alla fine del 2001, arriva in poco tempo a vendere dieci di
milioni di copie: Freak of Nature, scherzo della natura, come
l contrario non esiste. Quantomeno come complila definivano, madre compresa, tutti quelli che si stupivano
mento detto nei confronti di una voce. Non esistono
di una voce così forte in quella «strana» figura femminile.
«neri con la voce da bianco» e di certo se a qualche diQuando le cose sembrano finalmente girare per il verso giuscografico saltasse in mente di lanciare un artista con
sto viene sottoposta a un intervento chirurgico per rimuovequesta caratteristica, la cosa non farebbe vendere più dischi.
re un cancro al seno, con la conseguente pausa dal lavoro. La
La definizione «bianco con la voce da nero», inmalattia però non riesce a scalfire il suo carattere
vece, riguarda una precisa qualità vocale volta a
forte, che già in passato l’aveva aiutata a superare
indicare una particolare timbrica tipica dei cantale difficoltà dovute al morbo di Crohn. In greco
ti afroamericani particolarmente adatta al canto,
il suo nome significa «colei che nascerà ancora»
Padova
emessa però dalle corde vocali di un corpo umae nel suo caso nessun nome avrebbe potuto esseGran Teatro Geox
no di origine caucasica. Oggi, in tempi di politire migliore: lasciata alle spalle la malattia, ritor8 aprile, ore 21.30
cally corrected, è più probabile che si parli di voce
na sulle vette delle classifiche mondiali nel 2004
soul, ma di fatto il risultato non cambia. Anastacon l’omonimo album Anastacia. Un’analisi sincia appartiene senza alcun dubbio a questa categoria di cancera della malattia e del difficile rapporto col padre sono i tetanti. La sua è una voce molto potente, che ha estensione e tomi portanti del disco, supportato nelle vendite da hit come
no unici, il tutto incastonato in un corpo di notevole bellez«Left Outside Alone» e «Sick and Tired». Negli anni a
za. Paradossalmente all’inizio della sua carriera tutte queseguire intraprende una lunga e fortunata tournée, il «Live
ste virtù non giocaroat Last Tour», duetta
no a suo favore, visto
con Eros Ramazzotche nessun produttoti nel brano «I Bere si sentiva di accollong to You», pubblilarsi il rischio di lanca il best of Pieces of a
ciare un’artista che
Dream (2005) e lannon aveva una collocia un suo profumo
cazione discografica
e una propria linea di
precisa. Tocca allora
moda. Cambiata cainventarselo questo
sa discografica e supnuovo genere, meportata da un team di
scolando pop soul e
produttori di primo
rock, ovvero lo sprock,
livello, nel 2008 esce
come lei stessa l’ha
il disco Heavy Rotabattezzato. La svolta
tion, che però non riavviene alla fine degli
esce a raggiungere gli
anni novanta, quanstessi volumi di vendo Anastacia vince
dita dei lavori preceun programma per la
denti. Benché il sucricerca di nuovi talencessivo tour ottenga
ti musicali, The Cut,
un numero di spettain pratica l’antesignatori importante, neno degli attuali talent
gli ultimi anni è inishow. Ottiene immeziato un periodo di
diatamente un conriflessione per la cartratto discografico e
riera di Anastacia,
un ampio riscontro
in cerca di ritrovadi pubblico e di elore l’ennesima resurgi anche da parte di
rezione artistica. In
illustri colleghi come
quest’ottica la recente
Elton John e Michael
uscita di It’s a Man’s
Jackson. Il suo primo
World è una produalbum, I’m Not that
zione di buona fattuKind, viene pubblicato nell’estate del 2000 anticipato a febra in attesa di un disco di inediti già in lavorazione. Si tratta
braio dal singolo «I’m Outta Love»: proprio questa canzoinfatti di un disco di cover di brani di gruppi rock che lei stesne ottiene subito un enorme successo mondiale e, anche grasa ha amato e comprende brani tra gli altri di Aerosmith, Oazie ai successivi singoli estratti, il disco vende ben cinque misis, U2, Guns n’ Roses e Rolling Stones. Nel frattempo non
lioni di copie solo nel primo anno d’uscita. La sua fama ragci resta che goderci dal vivo tutta la bravura di questo bellisgiunge molti paesi, compresa l’Italia, dove Luciano Pavarotsimo «scherzo della natura». ◼
ti la chiama a duettare con lui nell’edizione del Pavarotti &
Friends del 2001. Purtroppo non riesce a sfondare in AmeriAnastacia.
I
soli, Niccolò Fabi (cfr. vmed n. 50, pp. 32-33), Samuele Bersani – che a metà degli anni novanta rinnova il pop italiano,
avvicinandosi più alla musica leggera raffinata piuttosto che
guardare al mito alternativo del folksinger impegnato.
Nato a Roma nel 1967, Gazzè trascorre infanzia e giovinezza in Belgio, dove a sei anni inizia a studiare pianoforte,
a quattordici strimpellare il basso elettrico, a sedici a suonadi Guido Michelone
re con gruppi diversi nei localini di Bruxelles. Per cinque anni, a Londra, fa parte dei 4 Play 4, band inglese in stile norme piace la musica che abbia una melothern-soul, dal pionieristico acid-jazz. Con la band si trasfedia, una complessità anche armonica – dirisce nel sud della Francia, dove lavora anche come produttoce Max Gazzè in una recente intervista –. In
re artistico; il rientro in Italia, nel 1991, è dedicato invece alpassato ho fatto dei testi in cui c’era da dela sperimentazione: in piccolo studio si dedica alla composicodificare un significato, in cui si doveva andare un po’ oltre
zione di colonne sonore, iniziando altresì collaborazioni imquella che era l’espressione superficiale del testo.
portanti con Frankie hi-nrg mc e i citati Britti,
Però credo che le canzoni debbano avere una loro
Fabi, Silvestri.
condizione al di là della necessità di dover tradurIl primo album a nome Max Gazzè, Contro
re un linguaggio». Le canzoni, in tal senso, devoun’onda
del mare, esce nel gennaio 1996: presenRoncade (Tv)
no narrare qualcosa: «Come un amore primortato in versione acustica nel tour di Franco BatNew Age Club
diale, qualcosa che non ha bisogno di essere detiato, inaugura il sodalizio con la Virgin Records,
15 marzo, ore 21.00
codificato e che arriva così com’è. Invece, nei tela celebre etichetta britannica, che lo promuove
sti più complicati, a volte è più importante l’assoper via di un talento originale in grado manifenanza, la musicalità stessa delle parole, al di là del loro signistare, in ogni disco, una notevole diversità di climi musicali
ficato letterario».
che s’abbina alla scioltezza nella stesura dei testi, e che porta
Gazzè a un ottimo successo
di pubblico e di critica.
Per il secondo album, La
favola di Adamo ed Eva
(1998), le liriche vengono
scritte insieme al fratello
Francesco Gazzè, in un anno che vede Max protagonista di due mosse autoriali: una canzone, «O Caroline», per l’album di tributo a
Robert Wyatt (The Different
You-Robert Wyatt e noi), e
l’invito al Premio Tenco, ossia il festival della canzone
d’autore che si tiene a Sanremo. Da allora però risultano
più frequenti le apparizioni
all’altra rassegna – quella più
commerciale – della città dei
fiori, in cui presenta brani efficaci ma alquanto mainstream per forma e contenuto;
sono del resto queste le peculiarità di un artista che dal
2000 a oggi firma altri sette cd: Max Gazzè (Gadzilla), Antecedentemente inediMa c’è pure, nell’arte di questo singolare cantautore, una
to, Ognuno fa quello che gli pare?, Un giorno, Tra l’aratro e
velata ironia, che «è un po’ una mia caratteristica, un mio
la radio, Sotto casa; e due raccolte: Raduni 1995-2005 e The
stile, un modo di proporre dei temi che, raccontati o espressi
Best of Platinum.
in maniera drammatica, rischierebbero di diventare pesanti.
Un messaggio comune a tutte le sue canzoni? La filosofia di
L’ironia è un modo di far arrivare dei concetti senza renderMax Gazzè forse può essere riassunta in un’altra sua riflessioli drammatici. Si tratta comunque di uno stile: il sarcasmo
ne molto attuale: «Forse la formula sarebbe semplicemene una forma di cinismo fanno parte non solo del mio mote pensare che essere sintonizzati su una sola frequenza non
do di fare musica ma anche di quello con il quale mi espriescluda l’esistenza di tutte le altre, e forse arrendersi di fronmo nei testi».
te al fatto che molte convenzioni e regole che ci siamo creaRomano di nascita con origini siciliane, cantautore, ma anti non hanno fatto altro che sostituire una nostra “tecnoloche valido strumentista alla chitarra e al contrabbasso, Max
gia interna” con una tecnologia esterna che ci ha allontanaGazzè, fa parte di quella schiera non foltissima – assieme ad
ti dal capire tantissime cose, che per esempio antiche e rigoAlex Britti, Cristina Donà, Daniele Silvestri, Carmen Congliose civiltà, come quella degli Egizi o dei Sumeri, avevano
intuito profondamente. Da questo punto di vista, il progresso non ci ha aiutato». ◼
Max Gazzè (foto di Barbara Oizmud, maxgazze.it).
A
«
l’altra musica
Max Gazzè
canta
«Sotto casa»
47
C
di Ilaria Pellanda
ominciata lo scorso novembre, continua la stagione musicale del Teatro Fondamenta Nuove.
Il prossimo 14 marzo approda in laguna il sassofonista Colin Stetson per un concerto da solista. Nato ad Ann Arbor e oggi residente a Montreal, città
molto vivace dal punto di vista musicale, Stetson – che è attualmente negli Arcade Fire accanto al talentuoso Bon Iver,
e che ha suonato anche con Tom Waits e David Byrne, con
congiuntamente all’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Giorgio Cini, invita a una riflessione sulla musica africana. Come già messo in luce nell’evento dello
scorso anno, «Re:African:Mix», la scena creativa del continente offre molti spunti che permettono di confrontarsi con
la sostanziale transculturalità dei fenomeni musicali contemporanei, della quale i Konono n. 1 sono un esito tra i migliori. Proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo, si
tratta di un gruppo di musicisti d’ispirazione tradizionale:
stabilitisi a Kinshasa, la città che negli anni sessanta era stata
centro propulsore della nuova musica urbana congolese, hanno elettrificato i propri strumenti utilizzando materiale di recupero. Ne è derivato un mutamento radicale della timbrica,
vicina all’estetica del rock e della musica elettronica più estrema e rumorista. Il gruppo fa uso di tre likembe (lamellofoni
i Tv On the Radio e con Anthony Braxton, con Lou Reed,
con risuonatore a scatola) elettrificati (medio, acuto e basJolie Holland, Sinead O’Connor e altri ancora – ha conquiso) ed equipaggiati con microfoni costruiti artigianalmenstato e incantato con i suoi dischi, in particolare New Histote usando vecchi magneti d’automobili, di grandi megafory Warfare Vol. 2: Judges, pubblico e critini risalenti all’epoca coloniale e comprenca per la capacità di trarre da uno strumende inoltre una sezione ritmica che mescoto timbricamente estremo come il sax basla percussioni tradizionali ad altre ricavate
so sonorità di notevole impatto emozionale.
da materiale di recupero. Ne risulta un efVenezia
Con l’uso della respirazione circolare, della
fetto distorsivo e ipnotico delle sonorità in
Teatro Fondamenta Nuove
voce, di microfoni e di tecniche non convenuna non facile unione tra tradizione e teczionali, Stetson – che, oltre ai sassofoni, suonologia, tra ritmi centro-africani, modali14 marzo, ore 21.00
Colin Stetson (sassofoni)
na anche il clarinetto, la cornetta, il corno e
tà sonore proprie del punk-rock e il sound
il flauto – inventa spazi sonori in cui trova«duro» della dance music elettronica.
9 aprile, ore 21.00
no buon agio minimalismo e free, post-rock
L’11 aprile, sempre alle 21.00, sarà la volta
Konono n. 1
e avanguardia.
del duo formato da Peter Brötzmann (sasA seguire, il 9 aprile alle 18.00, in occasiosofoni, clarinetto, tarogato) e Paal Nilssen11 aprile, ore 21.00
ne del concerto dei Konono n. 1 (ore 21.00), Peter Brötzmann & Paal Nilssen-Love Love (batteria), nomi di culto del jazz creasi terrà una tavola rotonda che vedrà protativo degli anni sessanta e settanta in grado
gonisti Vincent Kenis (direttore di Cramdi forgiare una musica urgente, contempomed Disc e primo promotore del gruppo sulla scena musiranea ed energica nell’improvvisazione. Brötzmann e Nilscale europea) e Serena Facci (etnomusicologa – Università di
sen-Love si incontrano musicalmente nel 1998, collaborano
Roma «Tor Vergata»). L’appuntamento, che viene proposto
in molti gruppi – dagli Hairy Bones all’Ada Trio, passando
per l’esperienza del Chicago Tentet di Brötzmann – e, come duo, incidono per l’etichetta norvegese Smalltown SuA sinistra, Konono n. 1.
persound i dischi SweetSweat e Woodcuts. ◼
A destra, Colin Stetson.
l’altra musica
Al Fondamenta Nuove
tre inediti concerti
49
l’altra musica
50
Se tu prenderai marito
l me moroso m’à mandato a dire / che me proveda ch’el me vol lassare / e mi g’ò mandà a
dir che so modista / e de morosi ghe n’ò sento in lista».
«… le vilote che ancor sopravvivono vengono ora cantate
a semplice sollazzo dalle nostre donne del popolo, massime
nelle corti e ne’ campieli (piccolo piazze tra case) ove vivono
in più comunanza e libertà. Le accompagnano al suono del
cembalo a sonagli, intessendovi anco un ballo, che al pari del
canto e del suono vilota si chiama. Per solito la più attempata
donna della brigata è quella che canta le vilote e dà nel cembalo, mentre le altre più giovani ballano» (Angelo Dalmedico,
Canti del popolo veneziano, 1848).
Angelo Dalmedico pubblica questi suoi Canti del popolo veneziano in una città appena liberata e trasformata in repub-
le sedi sindacali. C’è tutto un clima intorno che spinge alla
solidarietà non solo di classe, ma espressamente di genere. Le
vilote, le ninnananne, i lamenti e persino i canti d’amore e le
«canzonette» precedenti e successivi a quel periodo ci narrano, senza alcuna intenzione propagandistica, di questa lunga marcia che va dal disagio all’individuazione esplicita di bisogni e diritti.
Alla figlia di vent’anni che vuol prendere marito, un tema
molto frequentato dal canto popolare di ogni parte d’Italia, la madre toscana documentata dal Giannini nella seconda metà dell’Ottocento risponde: «Se tu prenderai marito /
qualche cosa hai da sofrì /… / il marito all’osteria / sempre a
bevere e a mangià / e io in casa coi figlioli / sempre a piange e
sospirà». Le fa eco la Malcontenta, una ninnananna che viene ancora dalla Toscana: «Babbo va all’osteria / mamma tribola tuttavia / Babbo mangia il baccalà / mamma tribola a
tutt’andà».
Un’altra ninnananna, questa volta trentina, predice: «Dormi mia bella dormi / sul tuo letto di rosa / che quando sarai
sposa / non dormirai così /... / che quando sarai mamma /
non dormirai così. / … / che quando avrai dei figli / non dor-
blica mazziniana. Sull’onda dell’entusiasmo dedica la prima
edizione della sua raccolta al Cittadino Daniele Manin. Le
note vicende storiche lo inducono a non insistere su questa
dedica nella sua seconda edizione del 1857.
Le parole della villotta e l’introduzione dell’autore ci restituiscono uno spaccato di vita femminile veneziana estremamente vivace e «moderno». Che le donne di Venezia e dintorni fossero non proprio «remissive» ce l’aveva già detto
Goldoni con le femmine emancipate ed astute delle sue commedie «borghesi». Ma le strofette improvvisate e poi ripetute ci dicono anche come si è sviluppata questa indipendenza:
«so modista». Lavoro, esco di casa, posso trovarmi con altre
donne e ballare, parlare, creare complicità. Più tardi, all’inizio del secolo scorso, compariranno anche canti di tenore rivendicativo che, per il linguaggio con cui sono espressi, attestano lo sviluppo dell’organizzazione sindacale delle donne
veneziane. Le filandine in sciopero contro il caposala tiranno:
«…E anca el caposala / che no xe bon da niente / ghe vegna
un assidente / su la punta del cuor». Le impiraresse «tuto fogo ne le vene» pronte a scendere in lotta, ancora una volta,
contro «le mistre che vorave tuto quanto a magnar lore…»
e a «desfarghe el cocon», quello che oggi, con il nostro polimorfismo linguistico, chiameremmo «chignon».
Siamo nell’immediato primo dopoguerra, il «biennio rosso» sta infiammando l’Italia, si canta «Via, via la borghesia,
l’agrario e il pipì» e si occupano le fabbriche mentre i fascisti assaltano le Case del Popolo, le redazioni dell’«Avanti»,
mirai così». Insomma una vita dannata dalla povertà e dalla
dipendenza dal marito nelle diverse previsioni materne. Purtroppo il più delle volte vere, e non solo ieri. Progressivamente, seppur lentamente, il lamento si riveste di consapevolezza,
la rivendicazione da privata diviene pubblica, la speranza diritto, la protesta lotta esplicita.
«Questa xe la cale de le alte mura / dove che gera inamorà ‘na volta – canta il moroso (forse) pentito – so vegnù a veder se ti xe risolta / che amor vecio torna un’altra volta». Idealmente la risposta potrebbe essere questa: «Vorave che piovesse macaroni / che la tera fusse tuta informa giada / che
i corni del mio ben fusse pironi / che gusto de magnar ‘sti
macaroni».
Scherzi, lazzi di una serata in compagnia rimasti impressi
nella memoria collettiva? Probabilmente sì. Nulla però s’imprime per caso, ma resta perché stupisce, colpisce, in qualche
modo fa clamore o prurito. E un po’ alla volta cambia anche
il comune sentire.
I drammi della storia incalzano e funzionano da acceleratore di processi sociali altrimenti lenti e controversi. «Son maritata giovane / l’età di quindici anni / Mio marito è morto, / è
morto militar. / E son rimasta vedova / con due figli al cuor. /
…. / Tutte le ore che passano / mi sento di morir, / E devo andare in ‘Merica, /‘Merica a lavorar». Due tragedie che hanno
cambiato l’Italia e il mondo, la grande guerra e l’emigrazione, si saldano e ciò ci restituisce la drammaticità di mille immagini di distruzione, miseria, abbandoni.
Cantare al femminile
E
di Gualtiero Bertelli
«
ran mai più». Le donne a casa, nei paesi sparsi lungo il fronte si fanno carico di vecchi e bambini, lavorano in quel che resta dei loro campi, spesso incalzate dai nostri soldati che fuggono, da quelli nemici che arrivano, invadono, violentano e
rubano quel poco che c’è da rubare. «Veder le nostre mame /
coi lor cari bambini / corevano spaventate / spaventate da la
paura / perchè tiravan giusto /giù in pianura. / Veder le nostre case / che andavano giù per tera / alora ci siamo acorti / di
questa guera / Veder ste signorine / con le sotane strete / che
andavano gridand o/ con la forsa del municipio /voliamo la
bandiera / de l’armistizio».
Il fascismo tenta di arrestare il processo di sviluppo della
coscienza e dell’autonomia femminile: inneggia alla massaia
madre di tanti figli da donare alla patria e cerca di contenere
le gonne che si accorciano, i vitini da vespa, le signorine grandi firme, l’avanzata della modernità. «Non è tollerabile che,
specialmente i giornali di moda, pubblichino fotografie di
donne magrissime» sentenzia una delle innumerevoli «veline» quotidianamente inviate ai giornali. Le donne di città, le
magrissime da contrapporre ai robusti e prolifici fianchi della madre italiana, sono dipinte come piccoloborghesi viziate
e dispotiche: «La ragazza che è impiegata / come sta sacrificata / Va in ufficio strapazzata / perché s’ha da maritar. / Maritata sai che fa / dice a lui:”Voglio pranzar / o ti adatti a cucinar / o mi porti al restaurant”». E, naturalmente, il nemico si
annida altrove. La canzone infatti continua: «Il bolscevismo
/ la donna l’applica / ma vuol mangiar, vestir, goder / e lavo-
rar non ne vuol saper / Il bacio che ti dà / ben caro fa pagar /
Tutto per essa e niente a te / questo è l’effetto che fa il soviet».
Paradossalmente però proprio il fascismo, con le sue adunate
e esercitazioni, le sue iniziative sportive e ricreative, contende il diritto/dovere di educare le signorine alle famiglie e alla
Chiesa. Entra in sotterranea rotta di collisione con organizzazioni potenti come l’Azione Cattolica, convoglia in organizzazioni di genere provenienze sociali diverse facendo convivere ragazze bassamente scolarizzate con figlie della buona
borghesia destinate a studi ben più ambiziosi, riducendo, con
le divise, anche le evidenti differenze di censo. È certamente
un effetto collaterale imprevisto e forse sottovalutato dagli alti strateghi dell’educazione fascista, ma di fatto la suddivisione in organizzazioni distinte per età e genere funziona anche
da catalizzatore del processo modernista specialmente nelle
zone urbane del settentrione. E si creano persino occasioni di
rapporto tra i generi: «Con le Piccole Italiane / Il Balilla è cavalier: / dell’Italica dimane / è l’ardito messagger! / Il Balilla
è un buon fratello, / all’appello è pronto ognor: / come il sasso
di Perasso / per l’Italia ci lancia il cor! / Balilla cuor d’oro… /.
La partecipazione significativa di donne alla lotta di liberazione dal nazismo e dal fasci smo dette certamente
un buon rilievo alla questione femminile,
ma la cultura di
un Paese ottenebrato da un
ventennio di
propaganda, di
isolazionismo e
di conseguente
ignoranza non
si cambia in un
momento, neppure con il mutamento di regime istituzionale, con l’allargamento del diritto di voto a
tutti i cittadini della repubblica, con la promulgazione di un
documento straordinario qual è la nostra Costituzione. Nella maggioranza dei casi i rapporti tra i generi, dentro e fuori
della famiglia, resteranno per lungo tempo immutati. Lo testimonia questa canzone di Virgilio Savona e Age incisa nel
1944 da Lucia Mannucci, sposatasi proprio in quell’anno con
Savona, ma non ancora voce femminile del Quartetto Cetra
(lo diventerà tre anni dopo): «Mi rimproveri sempre / mi stai
sempre a sgridar / Dici: non vuoi far mai niente / solo guai
sai combinar / Che vuoi di più che devo far / per non sentirmi più sgridar / farò la brava e tu vedrai / che d’ora in poi non
faccio più guai /… / saprò camicie stirar / lavar vestiti saprò /
invece di riposar / tutta la casa ti luciderò… /». La fine ironia
di Savona si coniuga in questo brano con la sua attenzione ai
problemi sociali che nel tempo ci lascerà canzoni, registrazioni e libri (spesso in collaborazione con Michele L. Straniero)
molto importanti.
Dai giorni dell’Italia liberata la questione femminile ha
assunto e continua ad assumere un’importanza sempre più
determinante per lo sviluppo della democrazia; i canti delle donne accompagnano ancora tutti i passi del movimento
femminile e femminista. In un mondo in cui ancora le donne vengono stuprate e uccise, soprattutto tra le mura domestiche, cantare al femminile significa non cedere alla paura e
alla sopraffazione, rivendicare per tutti il diritto alla dignità e alla vita. ◼
l’altra musica
«Chi ama la guerra sono òmini tristi, / privi di scienza e di
cuore cattivo; / fossero stati invece i socialisti, / il mio figlio
sarebbe ancora vivo. / La guerra è bella pe’ capitalisti, / perché ritrovan sempre il loro attivo: / dalle imposte che tengono impiegate / dicono sempre: Armiamoci ed andate» conclude la plebea nel suo contrasto con l’aristocratica a proposito della guerra di Tripoli. La moglie toscana con quattro figli grida: «E anche al mi’ marito tocca andare / a fa’ barriera
contro l’invasore, /… / E avevano ragione i socialisti: / ne more tanti e ‘un semo ancora lesti; / ma s’anco ‘r prete dice che
dovresti, / a morì te ‘un ci vai, ‘un ci hanno cristi. / E a te, Cadorna, ‘un mancan l’accidenti, / ché a Caporetto n’hai ammazzati tanti; / … / E ‘un me ne ‘mporta della tu’ vittoria ,/
perché ci sputo sopra alla bandiera; / sputo sopra l’Italia tutta ‘ntera / e vado ‘n culo al re con la su’ boria». La rabbia è forte, si accumula, esplode, esploderà ancora più forte: «Maledetto sia Cadorna / prepotente come d’un cane / vuol tenere
la terra degli altri / che i tedeschi sono i padron». La disperazione accomuna i responsabili, Cadorna e i signori: «Ma quei
vigliacchi di quei signori / che hanno gridato viva la guerra / e
ne avesse un figlio morto in guerra / viva la guerra non gride-
51
l’altra musica
52
Il corpo sonoro
di Ravenna
n buco bianco, nella teoria della relatività generale, è una regione ipotetica di spaziotempo nella quale non si può entrare
dall’esterno, ma dalla quale la materia e la
luce possono solamente fuoriuscire. In questo senso è l’opposto di un buco nero, nel quale si può entrare dall’esterno, ma
dal quale nulla, inclusa la luce, ha la possibilità di fuoriuscire. Alcuni pensano pertanto che i buchi bianchi possano essere l’altra estremità di un tunnel spazio-temporale che collega un buco nero con regioni molto lontane dell’universo o
addirittura con altri universi».
le sue porte, i suoi passaggi, i suoi guardiani, le sue geometrie archetipiche e fondative? È possibile restituire la testimonianza dello stupore di uno sguardo straniero a contatto per la prima volta con il territorio di Ravenna? Editare un
dizionario sonoro percettivo del suo paesaggio? Così come,
nell’ipotesi della teoria della relatività, la materia e la luce attraversano un tunnel spaziotemporale mettendo in connessione due universi lontani nel tempo tramite due buchi o coni, uno detto «nero» e uno detto «bianco», uno attrattivo e
l’altro irradiante, uno appartenente all’orizzonte del passato
e l’altro all’orizzonte del futuro, mettersi in ascolto del corpo
sonoro di una città significa porsi all’incrocio dei due orizzonti, al centro del tunnel spaziotemporale, farsi membrana
del timpano e duplice cono: da un lato attrarre i materiali sonori dell’universo grossolano e dall’altra irradiarli in quello
sottile, immaginale, restituendoli alla città.
Per tanto, come due antenne all’erta in costante movimento, dal gennaio 2012 stiamo raccogliendo un materiale sonoro molto ampio, da rielaborare e articolare in varie
declinazioni:
1) un ascolto pubblico/concerto da realizzare in uno spa-
Il progetto si propone di indagare, attraverso un’ampia
mappatura, il corpo sonoro del territorio di una città. Ravenna è una realtà geograficamente unica che si presenta agli
occhi dello straniero come un corpo inafferrabile, irriducibile, incommensurabile, labirintico. Già immerso nelle acque a partire dal suo nome originario (Ravenna, «fluire di
acque»), il corpo sonoro di Ravenna è da sempre in continua metamorfosi, si proietta verso il mare e allo stesso tempo sprofonda in se stesso. Inseguendo le traiettorie degli animali, sostando a lungo nei loro regni, per lo più nascosti e paralleli al fluire della vita contemporanea, il progetto tenta di
comporre, mediante la tecnica lenticolare del micromosaico,
un corpo sonoro sottile di origine antichissima, che travalica
i confini fisici e temporali della città, le sue torri, i suoi muri,
le sue barriere. Un corpo immaginale e sonoro sospeso, a metà dell’andirivieni perpetuo di acque tra le paludi e il mare,
un corpo mantice, attraversato da forze opposte, aperto, tramite la sua porta sul mare, verso il lontano.
È possibile individuare il suono originario e fondativo di
una città? Questo suono è lo stesso che gli animali che oggi
ne popolano il territorio ascoltavano anticamente? Ne sono
essi stessi parte, corpo? È possibile isolarlo dai suoni generati dall’umano o si è definitivamente compromesso? È possibile l’epifania genuina di uno, due, cento organi sonori pulsanti autentici in un territorio così stratificato? Quali sono
le linee di attrito tra il mondo sonoro animale e quello umano? C’è una guerra sonora in corso tra essi? Quali sono le architetture/timpano che risuonano e permettono di entrare
in contatto profondo con questo corpo sonoro? Quali sono
zio vasto, all’aperto, che restituisca la sensazione di orizzontalità estesa, con il supporto di un sistema di diffusione sonoro adeguato a un sound design per spazi di grandi dimensioni; una sinfonia fondativa, che ripercorra l’architettura emozionale del nostro viaggio, dove l’ascoltatore sia posto al centro di un micromosaico sonoro vibrante, fluido. A Ravenna abbiamo individuato come luogo ideale l’ippodromo della città, con il posizionamento degli ascoltatori al centro del
prato all’interno dell’anello delle corse e a partire da un mimetismo sonoro con la vitalità ambientale dell’ippodromo
stesso, come porta all’origine del viaggio. Immaginiamo al
centro dello spazio di ascolto un buco rettangolare di grandi dimensioni, un «mundus» (fossa fondativa), catalizzatore degli sguardi e degli ascolti, una presenza/assenza cui affacciarsi e tramite la quale discendere verso il corpo sonoro
della città.
2) un portale internet o catalogo sonoro pubblico, una
mappa interattiva del corpo sonoro della città, che contenga un dizionario del paesaggio: un glossario di voci straniere, un’indicizzazione emotiva, testimonianza in lingua straniera dello stupore di chi si trova per la prima volta di fronte
al paesaggio ravennate. Si prevedono per questo una serie parallela di registrazioni con ospiti stranieri, immigrati e non,
nei cuori pulsanti del corpo sonoro cittadino, da realizzare
entro il 2013. Contestualmente alle presentazioni del portale alcuni incontri pubblici con filosofi o pensatori che si siano
posti la questione dell’estraneità in tempo di deterritorializzazione. Tra questi Jean Luc Nancy e Paul Virilio.
3) una pubblicazione sonora, sintesi di tutto il progetto. ◼
Nasce il progetto
«Buco bianco»
U
di Luigi De Angelis e Sergio Policicchio
«
Si ritira quasi subito dalle proprie aspirazioni musicali, convincendosi o riconoscendo di non essere un artista dell’interpretazione pianistica e rifugiandosi nell’intenzione di dedicarsi alla filosofia, che, dice lui stesso, nemmeno sa bene cosa
sia; piuttosto, egli si adombra in una sorta di disinteresse, di
restringimento in se stesso che rappresenta quasi una metafora, un’immagine con cui Thomas Bernhard vuole forse significare il suo modo di vivere e di vedere il mondo.
Cosa emerge dalla riduzione curata da Cappuccio, quali temi cari all’autore?
a cura di Ilaria Pellanda
Uno di questi è lo sguardo negativo nei confronti del mondo, che Bernhard esprime senza mai cadere nel banale grazie
ndrà in scena nel mese di aprile al Goldoni di
alla sua grande capacità di ironia. Dal testo emerge la storia
Venezia Il soccombente di Thomas Bernhard neldella disfatta di una persona, che soccombe a causa del suo
la riduzione che dall’omonimo romanzo ha curato
essere dotata di una sensibilità e di una raffinatezza mentaRuggero Cappuccio. L’opera tratta del fittizio raple eccessive; se ne potrebbe dedurre che colui che ha troppe
porto tra il famoso pianista canadese Glenn Gould
qualità e che non presenta una qualche forma di
e due suoi giovani compagni di studio al Mozarottusità nei confronti del mondo, alla fine socteum di Salisburgo negli anni cinquanta. Sotto la
comberà. Difatti il personaggio di Gould, che è
Venezia
guida di Vladimir Horowitz il trio studia musiguardato con grande ammirazione e amore anTeatro Goldoni
ca e al tempo stesso sviluppa un rapporto di amiche dall’autore stesso, si rivela una persona quasi
10 aprile, ore 20.30
cizia che si rivelerà drammatico per tutti e fatapriva di sensibilità tranne che nei confronti del11 aprile, ore 16.00
le per uno dei tre, il soccombente appunto. Il narla propria arte: una sorta di «specializzato» che
ratore e il suo amico Wertheimer
ha rinunciato, anche per natura, a
abbandonano gli studi di pianotutto il resto. Invece Wertheimer
forte appena si rendono conto del
non rinuncia a nulla e sarà progenio superiore di Gould quando
prio il suo eccesso di immedesilo sentono suonare le Variazioni
mazione nelle cose e negli eventi a
Goldberg di Bach. Protagonista
portarlo alla propria distruzione.
della pièce diretta da Nadia BalChe tipo di lavoro ha affrontato
di – una produzione del Teatro Secon la regista Nadia Baldi?
greto di Roma che ha debuttato nel
Abbiamo voluto cercare un monovembre 2012 al Teatro Comudo nel recitare che riuscisse a innale di Formello – è Roberto Hertrigare il pubblico, l’ascoltatore,
litzka, che ci ha presentato il perpensando quindi a una possibisonaggio che incarna sulla scena.
le varietà di toni. Ricordandomi
della materia musicale, che poi è
«Si tratta dell’autore del libro,
fondamentale e alla base di queche finge – o immagina, o ricorsto testo, ho pensato di trovare
da – di essere stato compagno di
dei tipi di variazione al mio linstudi di Glenn Gould e di un alguaggio che in qualche maniera
tro pianista o aspirante tale, e di
potessero ricordare proprio una
aver assistito alla distruzione di
partitura. Il libro stesso è scritto
questo terzo collega, Wertheiin questo modo, perché lo stile di
mer, che soccomberà alla genialiBernhard, per la ripetitività, per i
tà di Gould: non sopportando di
temi che ricorrono, per i cambianon essere in grado di eguagliarmenti di ritmo e di velocità, ricorlo, o comunque di emularlo, finida proprio l’andamento delle Varà infatti per suicidarsi. In scena
riazioni di Bach. Nadia ha inoltre
con me c’è Marina Sorrenti, che
sposato alle azioni mie e di Mariscandisce alcune parole ricorrenna alcune immagini, che duranti nel testo e che incarna un pate la messinscena vengono proietio di personaggi femminili. Uno
tate alle nostre spalle e che sono
di questi è la sorella di Wertheimolto funzionali allo spettacolo.
mer, che ha un ruolo fondamenChe ruolo ha il gesto (penso anche
tale nella vicenda: la donna assial gesto musicale) in questa pièce?
ste e subisce il fratello per anni, riAnche se alcuni movimenti
uscendo a liberarsi dalla sua morevocano degli stati d’animo – sosa solo una volta dopo essersi sposata e trasferita a vivere alprattutto quelli di Wertheimer –, in realtà non vanno moltrove. Per Wertheimer sarà proprio questo abbandono il colto al di là del sedersi o del camminare in un certo modo: sulpo fatale che lo spingerà al suicidio».
la scena passo da un leggio a un altro (uno più basso e uno
Il personaggio narrante, l’autore, che modalità di sconfitta
più alto), oppure mi siedo su una grande poltrona situata nel
vive?
mezzo del palco che diventa una specie di centro delle azioni:
queste comprendono anche gli interventi della Sorrenti, che a
volte incarna la sorella di Wertheimer e altre diventa un conRoberto Herlitzka e Marina Sorrenti
trappunto musicale mentre ripete alcune parole, quasi una
nel Soccombente di Thomas Bernhard
specie di colpi di tamburo o di bordone. ◼
secondo Nadia Baldi (foto di Gabriele Gelsi).
«Il soccombente» di Bernhard
approda al Goldoni
A
prosa
Roberto Herlizka
e il genio
di Glenn Gould
53
prosa
54
A voce alta
di quella prima esplosione del talento bernhardiano in Italia.
Sul «Soccombente»
di Thomas Bernhard
A
di Eugenio Bernardi
nni fa, quando Adelphi pubblicò Perturbamento (1981), un attore-regista italiano ne fu fulminato e pensò subito di ricavarne uno spettacolo. Gli
occorreva il permesso dell’autore, per cui andò in
Austria, scovò la casa di Bernhard in mezzo alla campagna
e si appollaiò nel boschetto circostante finché l’autore impietosito non lo fece entrare in casa. L’attore-regista gli parlò con entusiasmo del progetto che voleva assolutamente re-
alizzare andando in scena lui stesso, ma trascinandovi anche
la moglie malaticcia e perfino la figlioletta renitente. Bernhard, a quanto pare, lo ascoltò con sorprendente benevolenza, ma non disse né sì né no. Qualche tempo dopo, l’attoreregista si rivolse a me in quanto traduttore, e mi chiese di collaborare al progetto, per cui aveva già definito tutto, non solo la scena, ma perfino gli abiti che i personaggi avrebbero indossato, fra cui ricordo un certo tipo di loden, quello autentico, una specie di pastrano. Da parte mia, prima di mettermi
al lavoro, volevo avere l’autorizzazione dell’autore e gli telefonai. Lasciava a me la decisione, disse, ma non capiva perché
l’attore-regista volesse adattare per il teatro un testo in prosa, quando c’era una commedia bell’e pronta, in cui un attore-regista metteva in scena un proprio testo facendo recitare
la moglie malaticcia e anche la figlioletta renitente. Il testo in
questione si chiamava Der Theatermacher (Il teatrante) che
Franco Branciaroli sta portando in tournée proprio in questi
mesi. C’era davvero da chiedersi se Bernhard non fosse stato ispirato proprio da quell’incontro con l’attore-regista italiano e dai racconti di costui sulla moglie malaticcia e la figlioletta renitente. Le date lo fanno supporre e anche (o soprattutto) la capacità di Bernhard di trarre profitto anche dal
minimo evento della sua solitaria vita quotidiana. Il progetto non ebbe seguito anche perché a Perturbamento seguirono altre traduzioni dello stesso autore, testi meno complicati
Con il suo progetto quell’attore-regista toccava comunque
un punto sostanziale della poetica dell’autore austriaco che
per esitazioni editoriali arrivava tardi in Italia, e nei Paesi di
lingua tedesca, oltre che per la provocazione delle sue tematiche, aveva suscitato quello stesso tipo di reazione: già i suoi
primi lettori avevano intuito che quelle pagine andavano lette a voce alta, erano una specie di partitura, reclamavano una
partecipazione fisica che era anche una specie di solidarietà.
Ma di cosa parlava quella voce così suasiva, anzi ossessiva?
Parlava per lo più di quanto fosse difficile scrivere un’opera,
non un’opera qualunque, s’intende, ma un’opera che inglobasse scienza, letteratura e filosofia in modo tanto esausti-
A sinistra, Glenn Gould.
A destra, Thomas Bernhard nel 1987
(commons.wikimedia.org).
Sopra, Franco Branciaroli
nel Teatrante (foto di Umberto Favretto).
perfezione inattingibile dell’arte , risulta disumana. Di questi sforzi ogni volta la narrazione non fa che percorrere il tracciato che è nello stesso tempo la testimonianza di una «volontà di arte» come la intendevano Nietzsche e Worringer,
e la rappresentazione di un’impossibilità, di un fallimento.
Proprio perché in una cultura al tramonto, imprese di questo tipo si rivelano iperboliche, sempre ai bordi della follia,
incalzate nella loro ossessività dal pensiero della morte, esse possono collocarsi solo su uno sfondo altrettanto eccessivo tramite la rappresentazione drastica, ossessiva, radicale
dell’ambiente in cui esse sorgono e con cui ogni conciliazione è esclusa, ogni compromesso impossibile in quanto esse
ne rappresentano la massima opposizione. In questo senso va
letto il Bernhard denigratore dell’Austria di oggi con tutti i
cliché diffusi dalle mode letterarie e dalle aziende turistiche,
l’Austria indegna del suo grande
passato e della esplosione di creatività che caratterizzò la sua cultura alla svolta del secolo.
Il soccombente ripropone queste tematiche con nuove varianti, ma anche con maggior forza
di persuasione. Grossolanamente riassumendo, si tratta della storia di tre pianisti, di cui uno è il
narratore,il secondo un suo amico di nome Wertheimer e il terzo
Glenn Gould. I tre s’incontrano
a Salisburgo a un corso di perfezionamento tenuto da Horowitz.
Gould si rivela subito un genio e
provoca una crisi radicale negli
altri due. Ma mentre il narratore abbandona definitivamente il
pianoforte e le proprie ambizioni, Wertheimer continua a scervellarsi su quell’esperienza, a dipendere da quello smacco al punto da togliersi la vita pochi giorni
dopo la morte del pianista americano. Chi sopravvive è il narratore che, a differenza di Wertheimer, tenta di razionalizzare
quell’esperienza traumatica scrivendo un saggio sul pianista
famoso e su quello fallito, sul progetto culminato nel successo e su quello finito nella sconfitta.
Si è notato che per la prima volta in Bernhard qui compare
un artista che riesce a realizzare un ideale di perfezione. Eppure il titolo non allude a costui, ma a Wertheimer che è appunto il fallito. Ad attirare il narratore infatti non è solo lo
splendore inattingibile di Gould, ma anche o soprattutto la
vita disperata di Wertheimer, quell’andare a tentoni nell’oscurità peraltro tanto simile al procedere di questo testo che
oscilla tra ciarle e sentenze, comicità e disperazione, fra l’attrazione della catastrofe e un’accanita urgenza di razionalità. Tutto questo mima d’altro canto anche l’atteggiamento
del lettore stesso, trascinato di pagina in pagina da una voce
suasiva che gli racconta i suoi stessi pensieri.
E l‘esito della seduzione è proprio qui: nel coinvolgere il lettore trasportandolo in un gorgo in cui tutto viene rimesso in
gioco, tutto appare incerto e provvisorio e dove l’umanità di
un fallito è altrettanto attraente quanto la gloria dell’interprete perfetto. ◼
In alto, Robert Musil
(commons.wikimedia.org).
Qui sopra, Hermann Broch.
1. Di questa bellezza, nel Soccombente vi è un ricordo legato a Venezia, ossia una rappresentazione alla Fenice del Tancredi di Rossini, molto probabilmente quella memorabile con Marilyn Horne e Lella Cuberli (1982).
prosa
vo da imporsi come una visione del mondo, fosse una vera riproduzione sulla carta di quel complesso e sfuggente meccanismo che è il pensiero, e alla fine si presentasse, per dirla con uno di questi personaggi, come una «giacca da mettere definitivamente addosso al mondo». Imprese folli, degne
del presidente Schreber, ma non del tutto estranee a tentativi dello stesso tipo che la letteraura moderna, e in particolare
quella asburgica, aveva intrapreso, si pensi a Musil, a Broch.
Nel caso di Bernhard però nella furia intellettuale-creativa dei personaggi vi è sempre la coscienza dell’impossibilità dell’obiettivo, della vanità dello sforzo, della sua assurdità: per alcuni già scrivere la prima frase dell’opus che hanno
in mente è impossibile, anche perché il linguaggio si ribella
alle costrizioni imposte dalla grammatica e alla fine ognuna
di queste avventure intellettuali, sul cui orizzonte splende la
55
1
prosa
56
Le verità
si scontrano
nell’«Orazio»
di Heiner Müller
la indivisibilità / della persona che aveva compiuto / azioni
così diverse».
La soluzione che Müller propone seguendo le fonti antiche
(il primo libro della storia di Roma di Livio) è un compromesso solo in apparenza salomonico. L’Orazio-vincitore viene incoronato con l’alloro e portato sugli scudi dalla truppa.
Poi l’Orazio-assassino, persona indivisibile, viene giustiziato con la scure e gettato ai cani. «E chi nominerà la sua colpa
/ e non nominerà il suo merito / se ne stia come un cane tra
i cani». Perché le parole devono rimanere pure, «non posdi Peter Kammerer
sono essere spezzate / nell’ingranaggio del mondo». Altriome nessun altro autore di teatro Heiner Mülmenti «l’inconoscibilità delle cose è mortale» e distruggeler rifiuta le soluzioni. Il sipario si chiude, le ferirà la società. Ma si tratta di una soluzione «provvisoria», di
te si aprono. Müller ama metuna verità «impura». Il dilemma morale
tere lo spettatore davanti all’anon può trovare altra soluzione finché c’è
poria, alla situazione insolubile. È lo spetguerra, finché regna la violenza.
Marghera
tatore che deve fare la sua scelta tra errori
Lo stesso tema dell’uccidere con necesTeatro Aurora
13 aprile 2013, ore 21.00
impossibili da evitare. Così Müller spinge
sità e dell’uccidere senza necessità viene
L’Orazio di Heiner Müller
il teatro didattico di Brecht alle sue estretrattato da Müller in Mauser (1970). Ma
ideazione Simone Laggia
me conseguenze.
chi riesce ancora a distinguere? È la pistointerpreti Ilaria Cecchinato,
Nel suo L’Orazio, scritto nel 1968 cola, la Mauser, che sviluppa una sua dinaCamilla Grandi, Ilaria Penzo,
me commento agli eventi praghesi dello
mica propria. «Parla, compagno MauEnrico Silvestri, Ilaria Squarise
stesso anno, accade questo: Roma e Al- diretto da Elena Casalin, Simone Laggia ser», cantava Majakowski. Nella dinamiba, città nemiche, devono difendersi conca delle uccisioni di massa un rivoluziona-
C
tro gli etruschi, un nemico esterno che minaccia ambedue
rio inizia a uccidere per abitudine. Ora anche lui deve essele città. Di fronte a questa contraddizione principale le due
re eliminato nel nome della rivoluzione. Il verso «anche l’ercittà compongono il loro dissidio minore con un duello tra
ba dobbiamo strappare, perché rimanga verde» diventa un
due campioni risparmiando così «gli alritornello del dramma. La storia non protri (per la lotta) contro il nemico comucede verso un progresso glorioso, ma si rine». La sorte sceglie per Roma un Oravela essere una macelleria assurda. Solo la
zio, per Alba un Curiazio, fidanzato con
purezza della parola rimane come ultima
All’Aurora la versione
la sorella dell’Orazio. Quest’ultimo vin- della Vanguardia Nonsensista, speranza. C’è una immagine teatrale, cara
ce. Il Curiazio chiede pietà, il vincitore peMüller sin dal 1956, quando Chruščëv
giovane formazione mestrina adenunciava
rò «cacciò la sua spada in gola al Curiai crimini di Stalin: «I monuzio». Roma esulta, ma la sorella davanti
menti cominciano a sanguinare. Questo è
alla tunica insanguinata del suo sposo griil momento della verità».
da: «Roma, restituiscimi quello che stava dentro questa tuNel testo di L’Orazio manca qualsiasi indicazione delle
nica». Il fratello vincitore, infastidito per il pianto della soparti. Non si sa chi dice che cosa. È un testo corale. Gli eroi
rella, l’ammazza. «E questo accada a ogni donna romana /
che pianga il nemico». Il giubilo ammutolisce. Poi gli uni
A sinistra, La Vanguardia Nonsensista,
gridano: «Onorate il vincitore» e gli altri: «Processate l’asL’Orazio di Heiner Müller.
sassino». Il popolo deve decidere se il merito cancelli la colA destra, Cavalier d’Arpino, Combattimento
pa o se la colpa cancelli il merito. «E il popolo rifletteva suldegli Orazi e Curiazi, 1612-1613 (Roma, Musei Capitolini).
Un estratto da «L’Orazio»
«Questo spettacolo è infame! Perfino gli albani
Non potrebbero reggerlo senza vergogna.
Gli etruschi sono schierati in armi
attorno alla nostra città, e Roma spezza
la sua spada migliore.
Pensate a una cosa sola,
pensate a Roma».
Ma un romano lo rimbecca:
«Roma ha molte spade;
nessun romano vale meno di Roma,
altrimenti Roma non vale niente».
E un altro romano grida, indicando
con il dito il luogo
dove sta accampato il nemico:
«L’etrusco raddoppia la sua potenza
se Roma si dimezza per un contrasto di pareri
in un processo intempestivo».
Sopra, La locandina di Mauser
secondo la compagine brasiliana
Grupo Caos e Acaso de Teatro.
A destra, Heiner Müller.
E il primo insiste:
«Un discorso non detto
appesantisce il braccio che regge la spada;
una discordia dissimulata
dirada le schiere nella battaglia.
Allora, per la seconda volta, i littori
sciolgono l’abbraccio degli Orazi, e i romani
si armano, ognuno con la sua spada:
e anche chi teneva l’alloro, o la scure,
si arma con la sua spada,
così che adesso la sinistra
tiene l’alloro, o la scure,
e la destra la spada.
Per un attimo, gli stessi littori,
devono deporre le insegne
della loro carica per rimettere
a ognuno la spada nella cintola,
e poi riprendono in mano fascio e bipenne.
Ma l’Orazio si piega
per prendere la sua spada,
quella insanguinata,
che stava nella polvere.
E i littori, con fascio e bipenne,
glielo impediscono.
Allora il padre dell’Orazio
prende anche lui la sua spada
e va ad alzare con la sinistra
quella, insanguinata, del vincitore,
che era un assassino.
E i littori glielo impediscono.
Alle quattro porte venne rinforzata la guardia,
e si andò avanti con il processo,
mentre si aspettava il nemico.
Quello dell’alloro dice:
«Il suo merito estingue la colpa».
Ma quello della scure ribatte:
«La sua colpa estingue il merito».
Quello dell’alloro chiede:
«Si può processare un vincitore?»
Ma quello della scure chiede:
«Si può acclamare un assassino?»
Allora, quello dell’alloro:
«Chi processa l’assassino
processa il vincitore».
E quello della scure:
«Chi acclama il vincitore
acclama l’assassino».
Il popolo rifletteva sulla indivisibilità
della persona che aveva compiuto
azioni così diverse.
E taceva.
Ma quello dell’alloro
e quello della scure
continuavano a chiedere
se una cosa potesse essere fatta
senza l’altra,
che l’avrebbe disfatta.
Da: Heiner Müller, Teatro I (Filottete, L’Orazio, Mauser, La missione,
Quartetto), Ubulibri, Milano 1991.
prosa
non ci sono più. Con questa soluzione Müller offre l’occasione per una drammaturgia innovativa. Tutti possono/devono parlare e chi parla ha ragione. Le verità si scontrano. Il
dramma didattico di Brecht è ridotto a un «modello». Il teatro di Müller porta in scena il confronto tra modelli vari o
l’inserimento di un modello in un altro testo. Müller stesso mettendo in scena nel 1988 a Berlino Est Lo stakanovista ha voluto interrompere, o meglio, rompere quel testo inserendo L`Orazio in modo che un testo illuminasse l’altro.
Lo scontro tra i testi, lo scontro tra situazioni e logiche diverse ci fa capire, nel teatro di Müller, il progresso e il fallimento
della storia. Anche il suo teatro rappresenta, come sosteneva Schiller, poco amato da Müller, il vero tribunale della storia. Ma non è l’autore e non è nemmeno il coro a pronunciare una sentenza riservata unicamente a quell’altro coro, costituito dagli spettatori. ◼
57
prosa
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Lo splendido
«Panico»
di Luca Ronconi
E ancora Spregelburd
con «Todo»
di Alessio Nardin
È
di Leonardo Mello
un diavolo di commedia, che si presenta in
un modo e poi man mano che la conosci cambia continuamente aspetto. Si capisce immediatamente, anche alla lettura, che è una specie di puzzle ironicamente filosofico, però ti dà l’impressione che questo sia solo un aspetto superficiale, di immagine.
Poi, lavorandoci, ti accorgi che è tutto profondamente strutturato, che le battute si incatenano l’una all’altra secondo
un principio preciso, e non secondo i canoni della commedia d’intrattenimento. Imbocchi una strada perché ti
«
sembra l’unica possile, necessaria e sufficiente, ma poi
ti rendi conto che la strada non è mai dritta, che è un percorso accidentato e pieno di trappole. [...] Gli attori tendono per
loro natura ad affezionarsi al personaggio, e pensano che sia
quest’ultimo a determinare le situazioni. Invece nel Panico
l’autore si diverte a mettere i personaggi in condizioni particolari per vedere come reagiscono. E capita spesso che un personaggio venga spossessato delle proprie battute, che vengono dette anche da qualcun altro. È una commedia piena di
trabocchetti». Così Luca Ronconi, nell’intervista di Oliviero Ponte di Pino per il programma di sala, descrive Il panico di Rafael Spregelburd, che segue la messinscena, altrettanto splendida, della Modestia. E da queste parole è facile comprendere perché il maestro romano, da sempre incline alle
sfide drammaturgiche e ai testi sfaccettati e complessi, rivolga così tanta attenzione al giovane autore dell’Eptalogia di
Hieronymus Bosch (scelto, insieme a Gombrowicz, Pirandello e Scabia, anche per il decimo anno di attività del Centro
Teatrale Santacristina, in cui è stata analizzata L’inappetenza, cfr. vmed n. 49, pp. 50-51).
Difficile riassumere in poche parole la «trama» della
pièce: come sempre infatti il drammaturgo argentino moltiplica i livelli, interseca le storie, offre esche spesso ingannevoli agli spettatori, costruendo un collage di grande potenza teatrale. Così, si incontrano una madre e i suoi due figli all’af-
fannosa ricerca della chiave di una cassetta di sicurezza dove è contenuta l’eredità del padre/marito appena morto. Ma
presto si scopre che questi aveva un’amante, cui aveva destinato una casa che ora una zelante quanto pasticciona agente
immobiliare tenta disperatamente di allocare. Un altro quadro è poi quella della coreografa di fama che striglia i propri
danzatori, tra i quali la figlia del famoso padre defunto. E così via in un incastro le cui tessere si dipanano e combaciano
del tutto soltanto alla fine. Ma – al di là della mobilità delle
situazioni, cui contribuisce efficacemente la scena «sghemba» di Marco Rossi – due sono i piani che si incontrano nello spettacolo: il primo è quello dei vivi, ritratti come sempre
da Spregelburd in una dimensione grottesca di quotidianità, che ne mette spietatamente in luce le meschinità e i limiti; il secondo appartiene ai morti, e in particolare a quell’uomo appena scomparso, che nessuno ormai vede e sente più e
intorno al quale però ruota tutta la vicenda. Qui l’affanno,
l’ansia e la vertiginosità nevrotica dell’esistenza contemporanea sembrano finalmente trovare una pacificazione.
Luca Ronconi, al solito, allestisce uno spettacolo strepitoso, che – nella sua coesione – mette in risalto anche l’aspetto meno ludico e più graffiante del teatrista porteño, in molte rappresentazioni oscurato dalla valorizzazione del conge-
gno comico. In un’ambientazione neutra, che ricorda forse
le astratte geometrie della mente o del sogno, il regista colloca magistralmente un cast stellare di attori. Essendo impossibile citarli tutti si ricordano almeno Francesca Ciocchetti e
Maria Paiato, ormai espertissime interpreti spregelburdiane
dopo il successo della citata Modestia, la pungente figura della coregorafa incarnata da Manuela Mandracchia, la sciatta,
esilarante agente immobiliare di Iaia Forte e le giovani e bravissime Lucrezia Guidone e Clio Cipolletta.
Sempre sul versante Spregelburd, una fresca, avvincente prova è poi stata quella della giovane compagnia trentina
Evoè!Teatro, che ha allestito Todo (Tutto), un testo che nella sua tripartizione affronta i binomi cruciali Stato/burocrazia, arte/commercio, religione/superstizione. La semplice e
indovinata regia di Alessio Nardin lascia campo libero agli
attori – Silvio Barberio, Emanuele Cerra, Martina Galletta,
Gabriella Italiano, Matteo Spiazzi, tutti molto convincenti – e permette loro, nella moltiplicazione dei ruoli, di esprimersi al meglio dando luogo a uno spettacolo teso e appassionante. ◼
A sinistra, Todo di Evoè!Teatro.
A destra, una scena del Panico di Rafael Spregelburd
secondo Luca Ronconi (foto di Luigi Laselva).
C
di Oliviero Ponte di Pino*
ontinua il dibattito intorno ai Premi Ubu,
il più importante riconoscimento del teatro italiano. Oliviero Ponte di Pino, membro del direttivo
dell’Associazione Ubu per Franco Quadri – organismo promotore della manifestazione dopo la scomparsa del
grande critico che l’ha istituita – esprime alcune considerazioni e pone alcuni interrogativi, anche sulla base di precedenti interventi di artisti e critici.
Sono ormai due le edizioni dei Premi Ubu senza Franco
Quadri, assegnati in due emozionanti serate al Piccolo Teatro «Paolo Grassi».
Il bilancio è senz’altro positivo. Dopo la scomparsa del suo
fondatore e animatore, non era affatto scontato che l’iniziativa potesse avere un seguito e mantenere la sua autorevolezza. La vitalità del Premio Ubu, con il successo di pubblico e
di stampa delle due serate, è una conferma della bontà dell’idea originaria e dell’utilità di un riconoscimento che ormai
fa stabilmente parte del panorama teatrale italiano. Una ulteriore riprova viene dal fatto che i premiati segnalino con
enfasi il riconoscimento ricevuto nella documentazione che
producono, nei loro curricula e nelle inserzioni pubblicitarie degli spettacoli.
Va subito aggiunto che dare continuità all’iniziativa non è
stato facile, in primo luogo per l’esiguità delle risorse. Nel
2011 è stato possibile organizzare la serata grazie al contributo una tantum (purtroppo!) di Unicredit, nel 2012
grazie al sostegno del Comune di Milano – Assessorato Cultura, Moda e Design, e alle quote d’iscrizione all’Associazione Ubu per Franco Quadri. Anche per questo assumono grande valore
la fiducia e l’ospitalità del Piccolo Teatro di Milano, che ha accolto le serate al Teatro Grassi, sostenendo anche tutti i costi «tecnici».
Il merito del successo va condiviso anche con
i più di sessanta critici e studiosi (di tutte le tendenze) che hanno partecipato alle votazioni, e
che hanno così contribuito anche a rafforzare l’identità e la credibilità del premio.
Un altro risultato positivo è la realizzazione dell’elenco degli spettacoli della stagione, uno
strumento ritenuto indispensabile dai votanti, visto che contiene gli spettacoli che hanno debuttato
nella «finestra temporale» presa in considerazione
in ciascuna votazione (1 luglio-30 giugno), con funzione di promemoria, sia per gli spettacoli inclusi sia per quelli esclusi dalle candidature. Una quota rilevante del budget
delle edizioni 2011 e 2012 del Premio Ubu è stata destinata
proprio ai redattori che hanno inserito le produzioni nel database (che è a disposizione di tutti, indicizzato e ricercabile alla pagina www.ateatro.org/premioubu2012.asp). L’iniziativa è ancora più significativa perché si pone in continuità con il Patalogo e con l’elenco degli spettacoli della stagione che apriva ogni edizione dell’Annuario del teatro curato
da Franco Quadri: questo censimento, che procede ormai
dal 1978, è un prezioso patrimonio di tutto il teatro italiano.
In questi due anni, il Premio Ubu è dunque riuscito a darsi
continuità, cercando di mantenere le proprie caratteristiche
e la propria unicità, tra mille altri premi teatrali attivi oggi
nel nostro Paese. Tuttavia non può restare immobile, uguale
a se stesso. Deve evolvere. O meglio, deve continuare a evolvere, così come ha fatto con la guida di Franco Quadri per
più di trent’anni: come ha detto Sergio Escobar, direttore del
Piccolo Teatro, «lo spirito originario va mantenuto, ma con
il coraggio di una nuova interpretazione, di nuovi metodi e
strumenti» («la Repubblica», 11 dicembre 2012).
Proprio per questo sono particolarmente utili le sollecitazioni arrivate ai curatori del premio, sia da altri autorevoli
uomini di teatro, sia dalla stampa, sia dagli stessi giurati, su
differenti versanti.
La composizione della giuria
Per l’edizione 2011 si era deciso di mantenere stabile la composizione della giuria, ma già nell’edizione successiva è stato
deciso di cambiarne leggermente la composizione.
Sono infatti stati chiamati a partecipare tre nuovi criticistudiosi; mentre alcuni giurati «storici» non hanno partecipato alla votazione, perché assurti a ruoli direttivi in importanti realtà teatrali italiane, oppure perché spettatori
non sufficientemente «assidui» nella stagione di riferimento. Insomma, la composizione della giuria continua inevitabilmente a cambiare, cercando di restare fedele ai criteri seguiti da Franco Quadri: serietà e indipendenza dei giurati,
una base sufficientemente ampia per rappresentare una realtà variegata e dispersa sul territorio e dunque di intercettare il «nuovo», ovunque si presenti. Da questo punto di vista, l’evoluzione della giuria riflette la necessità di un ricambio generazionale.
Una seconda criticità riguarda la provenienza geografica
dei giurati. L’aveva segnalata nel 2011, con la consueta franchezza, Simone Nebbia su «Teatro & Critica» (http://
www.teatroecritica.net/2011/12/atlante-xii-da-utopiaal-premio-ubu-bene-comune/): «Abbiamo rintracciato una tendenza nord-centrica che marginalizza il centro-sud Italia e lanciato un nuovo capitolo del discorso attorno alla credibilità di un premio che troppo
poggia sulla capacità di giro, sia degli spettacoli che dei giurati votanti»; la «tendenza territoriale si dimostra evidente dalla provenienza
(stanziale, dunque) dei giurati: su 53 soltanto
17 sono sotto Firenze che ne ha 4, con 14 romani e 3 miseri sotto Roma». Questa “tendenza padana” era stata rimarcata anche da
Camilla Tagliabue: «Si ha la sensazione, più
che in passate edizioni, che gli Ubu 2011 siano stati assegnati con il manuale Cencelli (...):
l’alloro più ambito (...) è andato a Dopo la battaglia (...) e The History Boys (...), prodotti rispettivamente da Emilia Romagna/Roma e Milano, i
tre centri del potere teatrale. Eppure la geopolitica sta cambiando (...). Nord, comunque, straccia
Sud: Napoli non pervenuta e il leccese Mario Perrotta si aggiudica un riconoscimento speciale» («Il Fatto Quotidiano»,16 dicembre 2011).
Per quanto riguarda il «manuale Cencelli», una giuria abbastanza numerosa e che non prevede riunioni plenarie o assemblee operando in una dinamica di referendum, ne rende praticamente impossibile l’applicazione: caso mai a spingere verso la concentrazione dei voti è il meccanismo del
ballottaggio.
Del resto, la risposta più efficace alla «perplessità geopolitica» è arrivata dalla stessa Camilla Tagliabue, nel pezzo che
ha dedicato all’edizione 2012: «Luca Ronconi (…) è rimasto
a bocca asciutta, e con lui il Piccolo Teatro di Milano. Ma è
tutta la città a uscire sconfitta a favore del Sud», e segue l’elenco dei «sudisti» trionfatori nel 2012, da Antonio Latella a Lino Fiorito, da Saverio La Ruina a Daria Deflorian,
prosa - commenti
I Premi Ubu:
proposte di modifica
59
prosa - commenti
60
da Lucia Calamaro a Punta Corsara... («Il Fatto Quotidiano», 11 dicembre 2012).
Sempre sul versante della composizione della giuria, Elio
De Capitani, pluripremiato Ubu, suggerisce un cambiamento radicale: «Propongo che nella giuria entrino anche gli artisti premiati e con i critici vadano a formare una patafisica antiaccademia teatrale. Perché mantengano autorevolezza devono creare adesione, partecipazione, coinvolgimento.
Devono essere una festa di tutti» («la Repubblica», 11 dicembre 2012). Al di là del fatto che le due serate al Piccolo
Teatro sono state senz’altro caratterizzate da grande «adesione, partecipazione, coinvolgimento» del mondo teatrale,
il suggerimento di De Capitani porta senz’altro molto lontano dall’ispirazione iniziale di Franco Quadri e dalla sua valorizzazione del ruolo specifico dei critici e degli studiosi di
teatro. Del resto non mancano in Italia esempi di riconoscimenti nati con le migliori intenzioni e progressivamente risucchiati da logiche corporative e autocelebrative.
Il lavoro dei giurati
Un secondo livello di criticità viene rilevato da un altro membro di «Teatro & Critica», il direttore della rivista Andrea
Pocosgnich, uno dei nuovi membri della giuria del Premio
Ubu: «Neanche nel migliore dei mondi possibili ogni criti-
co/giurato riuscirebbe ad assistere a tutti gli spettacoli prodotti nel Paese, ma il fatto che questo non avvenga neppure per gli spettacoli finalisti mette decisamente in crisi l’intero metodo di valutazione» (http://www.teatroecritica.
net/2012/12/lettera-aperta-all’associazione-ubu-per-franco-quadri/). Pocosgnich propone un’ambiziosa soluzione:
«Progettare una festa del teatro, un momento di trasparente dibattito. Che si apra un tavolo progettuale per trovare le
risorse economiche, i partner e gli spazi con i quali creare, in
una tempistica di 2/3 anni, un modello chiaro e funzionale.
Una strada percorribile potrebbe essere quella di relazionarsi
con più soggetti produttivi nell’ottica di istituire delle giornate nelle quali spettatori e giurati possano assistere a tutte
le opere finaliste, sarebbe una festa del teatro e un importante momento di riflessione per critici, studiosi e appassionati». La proposta riprende quella già lanciata una anno prima,
sempre su «Teatro & Critica», da Simone Nebbia, quando
chiedeva «una vera e propria rassegna» dove «si portino in
scena gli spettacoli, tutti i giurati li vedano, una vera settima-
na della critica con tanto di concorso».
A Pocosgnich ha risposto su questa rivista Roberta Ferraresi (un’altra neo-giurata, assai attiva sul piano editoriale e
online sul Tamburo di Kattrin): «Senza valutarne la realizzabilità in senso economico e organizzativo – posto che, nel
momento in cui l’iniziativa passasse di mano alle strutture
produttive, si concretizzerebbe un orizzonte di conflitto difficilmente gestibile –, questa stimolante idea sul modello del
tedesco Theatertreffen rischia di restare un’interessante utopia» (cfr. vmed n. 50, p. 56). Insomma, al di là delle difficoltà
pratiche pressoché insormontabili, nota la Ferraresi, una proposta di questo genere rischia di riportare il premio all’interno delle logiche del teatro italiano, rischiando di comprometterne l’indipendenza e alla lunga l’autorevolezza.
Per quanto riguarda la composizione della giuria, si è già accennato all’inevitabile ricambio, che è già in corso. Il direttivo della Associazione Ubu per Franco Quadri ha ricevuto alcune candidature (e autocandidature), e altre presumibilmente ne riceverà in futuro: verranno tutte vagliate con la
massima cura.
Le categorie
Un secondo versante di criticità viene rilevato da Claudia
Cannella, in una e-mail all’Associazione Ubu: «Forse anche le categorie del
premio andrebbero
adeguate ai tempi...».
Renato Pa la zzi,
nell’accompagnare
le sue candidature al
primo turno, scriveva: «Urge, forse, individuare nuove categorie che consentano di
diversificare meglio,
di distinguere tra creazioni fortemente innovative, come Reality, per fare un esempio, e spettacoli di
grande respiro produttivo come The Coast of Utopia, che chiaramente non possono
essere valutati con lo
stesso metro».
Alla prova dei fatti, i
due spettacoli indicati da Palazzi hanno vinto entrambi premi «maggiori». Di
fatto, all’interno del meccanismo del Premio Ubu esiste da
sempre la possibilità di valorizzare produzioni e realtà «anomale» e «fortemente innovative», grazie alla categoria delle «segnalazioni». La storia di questi decenni dimostra che
molte realtà scoperte e lanciate da un riconoscimento in questa categoria sono poi approdate ai premi maggiori.
Sono poi arrivate alcune proposte specifiche sulle diverse
categorie in cui è articolata la scheda di votazione.
Andrea Pocosgnich esprime i suoi dubbi su diverse denominazioni. In primo luogo la «Regia»: «Possiamo pensare
ancora alla regia come quell’attività che ha il compito di far
confluire insieme tutte le pratiche e le professionalità del teatro dirigendole come si dirige un’orchestra? Che fine fanno
le regie collettive oppure, al contrario, gli artisti che lavorano solo su se stessi?
Perplessità da parte di Pocosgnich anche sulla categoria
«Attore» («Reputiamo sia utile sostituirlo o affiancarlo con
to» non ufficiali emerse dai risultati di questi anni: «Basti
pensare alla consistente presenza di alcune strutture che si
distinguono per particolari slanci produttivi, (…) realtà che
propongono progettualità culturali di ampio respiro, (…) il
versante pedagogico-formativo»; del resto è propria questa
una delle caratteristiche del Premio Ubu: «Non si limita al
livello estetico», ma «lascia emergere le pressioni produttive
e il lavoro dei tanti spazi che costellano la penisola, così come
il lavoro dei numerosi maestri che si muovono oggi dentro e
– soprattutto – fuori il teatro».
sultati significativi: proprio per questo era stata coniata una
nuova «categoria-ombrello», «Risultati tecnici da segnalare» (dal Patalogo quattro), diventata poi – attraverso varie
denominazioni – il più generico «Segnalazioni» (a partire
dal Patalogo nove).
Commenta la stessa Roberta Ferraresi, sul versante della
precisione nomenclatoria e delle categorizzazioni: «L’elasticità di tali divisioni [tra categorie, ndr.] è stabilita innanzitutto dai referendari che le votano: un indizio, per quanto
riguarda la categoria «Attore», è la presenza (peraltro non
inedita) di uno dei più affermati prototipi dell’attore-autore
italiano, Saverio La Ruina. Oppure, basti pensare al recente
predominio di una generazione tutta nuova di registi che –
proprio in questi anni in cui la categoria sembra in crisi, guadagnando un proprio prefisso “post-“, e proprio in un Paese
dove, a differenza della scena internazionale, non l’ha mai
fatta veramente da padrona – da qualche tempo sta scuotendo i palcoscenici nostrani: quest’anno presente con Antonio
Latella e Marco Tullio Giordana, ma anche, negli anni scorsi, con il coreografo Virgilio Sieni. Definizioni più precise –
come è stato proposto – volte a introdurre la cosiddetta “ricerca”, la danza o la performance, oltre a contraddire in parte
il piglio transdisciplinare che distingue i Premi fin dall’origine, rischierebbero forse di valorizzare ulteriormente divisioni e promuovere addirittura ghettizzazioni».
Roberta Ferraresi identifica poi alcune «categorie di fat-
Attualmente l’unico partner istituzionale del Premio Ubu
(attraverso l’Associazione Ubu per Franco Quadri che lo cura) è – tramite l’Assessorato Cultura Moda e Design – il Comune di Milano (che si può dire da sempre partner del Premio, con piccole interruzioni). Il Premio Ubu si celebra dalle
sue origini a Milano, a Milano ha sempre avuto sede la Ubulibri. Anche in considerazione della «milanesità» di Franco Quadri, l’archivio della Ubulibri-Franco Quadri è affidato a un’istituzione cittadina come la Fondazione Arnoldo e
Alberto Mondadori.
Negli scorsi mesi, sono stati presi (o richiesti) contatti con
realtà che operano in altre città italiane, e che potrebbero
proporsi di ospitare la manifestazione.
Rapporti con le istituzioni
Un ultimo fronte riguarda il ruolo e i rapporti istituzionali del Premio Ubu. Scrive, sempre nella sua e-mail, Claudia
Cannella: «Forse bisognerebbe convincere un’istituzione
(...) a farsi patron del Premio, che poi gestirebbe in accordo
con l’Associazione...».
Di tutto questo, ne discuteremo a Milano
Quelli qui raccolti sono alcuni dei suggerimenti ricevuti,
in via privata o pubblicamente, sull’evoluzione del Premio
Ubu. Sono tutte proposte che meritano di essere discusse
nel dettaglio, anche a partire dal dibattito che si è già aperto, fuori e dentro l’Associazione, e che può arricchirsi di ulteriori contributi. Alla prossima Assemblea dell’Associazione
Ubu per Franco Quadri (in programma a Milano il 23 marzo), i soci potranno approfondire i diversi punti. ◼
*Membro del direttivo Associazione Ubu per Franco Quadri
prosa - commenti
il termine performer») e su quella «Attore/Attrice protagonista e non protagonista» («Risultano estremamente limitanti perché riferite a un modello di teatro che è uno e uno
solo dei tanti, legato a certe forme codificate, cui non tutti
i lavori contemplati nella valutazione fanno riferimento»).
Elio De Capitani propone invece di inserire un’ulteriore
categoria, «Costumi»: «Assurdo che non ci sia»; Roberta
Ferraresi suggerisce di inserire le «Musiche».
Nell’insieme, i suggerimenti rientrano in due tipologie. Da
un lato si propone una diversa dicitura per alcune categorie
già presenti. Dall’altro si suggerisce l’inserimento di nuove
categorie. O meglio, in diversi casi, il loro reinserimento: nelle prime edizioni del premio erano infatti previsti riconoscimenti sia per i «Costumi» (a partire dal Patalogo uno) sia
per il «Miglior spettacolo con musiche» (a partire dal Patalogo due). Ben presto era stato ritenuto opportuno far cadere queste categorie, perché difficilmente si approdava a ri-
61
arte
62
«Postwar
Protagonisti italiani»
secondo
Luca Massimo Barbero
alcune tele emblematiche del suo percorso – si guardi a Concetto spaziale del 1951 e Concetto spaziale del 1957, opere che,
da poco donate alla Peggy Guggenheim, incarnano rispettivamente l’invenzione monocroma del concetto spaziale
«buchi» e la sua opera più propriamente materica, realizzata con pietre interpretabili come chiaro «residuo» dell’Informale –, nella sala a lui dediacata è presente Quanta (1960),
magistrale lavoro proveniente dalla Fondazione Lucio Fontana di Milano: si tratta di nove elementi rossi tridimensionali, una sorta di costellazione con buchi e tagli che anticipadi Ilaria Pellanda
no le shaped canvases, tele sagomate tipiche dell’arte americapoco più di dieci giorni dalla
na di quegli anni. Nella sua essenzialità conchiusura della bellissima – è procettuale questo lavoro dialoga in contrappunprio il caso di dirlo – mostra dedito con le ceramiche degli anni cinquanta, fra
Venezia
cata a Capogrossi (cfr. vmed n. 48, Collezione Peggy Guggenheim le quali emergono tre piatti la cui creatività è
pp. 52-53), lo scorso 23 febbraio la Collezione
in bilico tra il Barocco e la grande deflagraziofino al 15 aprile
Peggy Guggenheim ha inaugurato il proprio
ne dell’Informale.
2013 con «Postwar. Protagonisti italiani».
Si incontrano quindi cinque opere di Piero
Affidata ancora una volta alla cura di Luca Massimo BarbeDorazio, tra i fondatori della pittura astratta italiana, i cui rero, la nuova esposizione affianca cinque capisaldi del nostro
ticoli ottici e strutturali si espandono sulla tela – ad esempio
secondo dopoguerra: Lucio Fontana (1899-1968), Piero Doin Antelucano del 1962 – a illustrare una luminosità e un percorso rigoroso del segno, che si articola in incroci ma soprattutto in colore. La ricerca astratta
dell’artista emerge con vigore nel dipinto Mar
maraviglia, sempre del ’62, e in Unitas del 1965,
opera perno di questa seconda sala insieme alla monumentale tela Durante l’incertezza (’65).
Superficie, sintesi e grande oggettivazione
della ricerca sono il risultato della sala dedicata a Enrico Castellani, che catalizza lo sguardo
dell’osservatore sull’ipnotica Superficie angolare rossa del 1961, esposta accanto a Superficie
bianca del 1967 e a Superficie bianca del 1974,
qui presentata al pubblico per la prima volta.
La sala di Paolo Scheggi riporta all’attenzione
le innovative ricerche visive dell’artista toscano:
su una parete scorrono le tre Intersuperfici bianche a cui fanno da contraltare le tre Intersuperfici della cromia nera. Ai due estremi opposti della sala, Intersuperficie curva arancio (1969) e Intersuperficie curva rossa vanno a creare un notevole effetto cromatico. Il nome di queste tele rimanda al percorso che lo sguardo compie attraverso i diversi piani che le compongono e allude
all’interazione dello spettatore con esse.
L’esposizione si chiude con l’approfondimento dedicato a Rodolfo Aricò in due sale che presentano quelle opere che, realizzate tra il 1966 e
il 1970, vedono la definizione della sua particolarissima pittura oggettuale: quelle shaped canvases che l’artista matura confrontandosi con le
indagini internazionali sulla riduzione espressiva, dall’astrazione post-pittorica di Morris Lourazio (1927-2005), Enrico Castellani (n. 1930), Paolo Schegis e Kenneth Noland alle volumetrie strutturali e primarie
gi (1940-1971) e Rodolfo Aricò (1930-2002) sono infatti gli
del Minimalismo di Donald Judd e Sol LeWitt. L’origine
ospiti d’onore di un percorso che si snoda in sale monografidelle forme di Aricò è una sorta di grande nuova meditazioche e che «rilegge» l’idea di arte italiana a partire dal supene contemporanea della cultura visiva europea: un percorso
ramento dell’Informale.
a ritroso che parte dalle avanguardie storiche d’inizio NoveL’allestimento, che si sviluppa cronologicamente stanza per
cento per approdare alla relazione attiva con la pittura prostanza, presenta la sperimentazione di ciascun autore e dispettica rinascimentale di Paolo Uccello, espressa dall’opemostra come, proprio a partire da Fontana, le generazioni
ra del 1970 che porta proprio il nome dell’artista fiorentino,
successive abbiano raggiunto pienamente un linguaggio pitStudio 2. Paolo Uccello. ◼
torico personale in un momento ben specifico della loro produzione, tra gli anni sessanta e settanta del xx secolo.
Paolo Scheggi (1940-1971)
In veste di padre ideale delle ricerche artistiche contemIntersuperficie curva dal giallo, 1969
poranee del secondo dopoguerra italiano e internazionale,
(acrilico su tele sovrapposte, cm 120x120;
Collezione Franca e Cosima Scheggi).
è dunque Lucio Fontana ad aprire l’esposizione. Insieme ad
A
rità creativa, e ci permettono, appunto, di apprezzare la sua
evoluzione stilistica e l’inesauribile inventiva.
Per quanto riguarda le opere restaurate, a Villa Manin possiamo ammirare il ciclo tiepolesco di soprarchi e pennacchi
della chiesa veneziana dell’Ospedaletto, con il Sacrificio di
di Eva Rico
Isacco e la serie di Profeti, Evangelisti e Dottori della Chiesa.
Questo lavoro, portato a termine da un giovanissimo Tiepoel 1971, in occasione del secondo centenario
lo, può oggi essere osservato da vicino, dopo l’opera di pulidella morte di Tiepolo padre, ebbe luogo a Viltura e restauro necessaria a causa dell’incendio sofferto dalla
la Manin una mostra che permise al grande pubchiesa il 4 maggio 2010, che rovinò irrimediabilmente il soblico di conoscere uno dei più
prarco con i Santi Girolamo e Agostino. Coimportanti artisti veneziani del Settecento
sì l’occasione è doppia: non solo contemplia(se non addirittura il più importante di tutmo queste opere quasi come fossero appena
ti). Dopo più di quarant’anni, si ripropone
state create dai pennelli dell’allora ventenne
Villa Manin
ora nello stesso luogo una nuova esposizione
Giambattista, ma abbiamo anche la probaPassariano di Codroipo (Ud)
monografica a lui dedicata. Tante cose sono
bilmente irripetibile opportunità di veder«Giambattista Tiepolo»
cambiate in tutto questo tempo: per cominle da vicino, giacché a breve torneranno al
fino al 7 aprile
ciare, la grandiosa villa dell’ultimo doge di
posto per cui furono create e che loro corriVenezia è divenuta referente culturale a livelsponde, a un’altezza di tredici metri e mezlo non solo locale ma anche nazionale. Poi, gli studi sul pittozo da terra!
re sono immensamente progrediti, in gran parte grazie al laEcco poi la grandiosa tela tratta dal Duomo di Este, Sanvoro di restauro di diverse sue opere, alcune delle quali abbiata Tecla intercede per la liberazione della città di Este dalla
pestilenza, un capolavoro della maturità dell’artista dove
egli mette in pratica la sua famosa dichiarazione secondo
la quale «li pittori devono procurare riuscire nelle opere
grandi (...), quindi la mente del pittore deve sempre tendere
al Sublime, all’Eroico, alla Perfezione». Il dipinto, di grandi dimensioni (675 x 390), fa riferimento alla terribile epidemia di peste del 1630, la stessa di cui parla ampiamente
Alessandro Manzoni nei Promessi sposi, e per la quale, fra
molti altri edifici votivi, si costruì a Venezia la chiesa della Salute. Più di un secolo dopo (1758), la città di Este volle ricordare la sconfitta dell’epidemia grazie all’intervento
di Santa Tecla, e si rivolse a Giambattista Tiepolo, che allora godeva già di grande fama. In mostra si può vedere anche un interessantissimo video che illustra passo a passo lo
stupefacente lavoro di restauro.
E per documentare l’evoluzione stilistica del Tiepolo fra
questi due capolavori restaurati si inserisce un gran numero di opere di piccole dimensioni e di disegni, che comprendono tutta la produzione del maestro. Troviamo deliziosi bozzetti per dipinti di grande formato che ricordano le note parole di Sebastiano Ricci, senza dubbio messe
in pratica da Giambattista: «Perché questo non è modello
ma quadro terminato (...). Questo piccolo è l’originale, e la
pala d’altare è la copia». Ai quadri di soggetto religioso si
affiancano dipinti profani, che non solo danno conto della
grande cultura di Tiepolo, ma ricordano pure le sue feconde frequentazioni, come quella con i Zanetti, con Scipione Maffei e, in particolare, con Francesco Algarotti, al quale lo stesso Tiepolo, mentre lavorava in Villa Cordellina a
Montecchio, infastidito per la lontananza da Venezia e per
le continue occasioni mondane, scrisse: «Giuro che mi sarebbe più caro stare un giorno in compagnia sua e di parlare di pittura che tutti li divertimenti di questa villa, che mi
creda non è pochi». In cambio, il pittore ottenne i più entusiastici elogi dal letterato, che lo considerava «il miglior
pittore di Venezia, l’uomo più amabile che si possa desiderare», e con il quale dichiarava di aver stretto «l’amicizia
più pura immaginabile».
mo oggi la possibilità di ammirare esposte. Insieme a queste,
Insieme a queste pitture, negli ampi spazi espositivi si inè raccolta un’accurata selezione di disegni e dipinti di divercontra una considerevole raccolta di disegni preparatori,
so formato e tematica, che abbracciano tutta la vita «produtschizzi, appunti fatti a penna, inchiostro o acquarello, pativa» di Giambattista, dalle sue prime esperienze alla matuesaggi più o meno fantastici, bizzarri pulcinella, studi anatomici e ritratti, come quello bellissimo del figlio Lorenzo.
Tanto la mostra come il catalogo sono stati curati da GiuGiambattista Tiepolo, Il Tempo scopre la Verità,
Pinacoteca di Vicenza.
seppe Bergamini, Alberto Craievich e Filippo Pedrocco. ◼
N
arte
Tiepolo torna
a Villa Manin
63
fotografia
64
La parola
a Gianni Berengo Gardin
In questo mezzo secolo qual è stato l’evento o l’anno che maggiormente hanno caratterizzato la storia contemporanea?
Senza dubbio il Sessantotto, sia per i movimenti politici sia
per l’inchiesta che feci con Carla Cerati nei manicomi per
Franco Basaglia e che prese il nome di «morire di classe». Nea cura di Denis Curti
gli anni settanta, invece, mi ha segnato il reportage fatto con
Cesare Zavattini su Luzzara. Più recentemente, la ricerca conentotrenta fotografie rigorosamente in
dotta sugli zingari che mi ha portato a vivere in tre campi nobianco e nero, questa è la tua «cifra» stilistica.
madi. Esempi di questi reportage sono esposti nella mostra e
Da sempre prediligo il bianco e
nel libro Storie di un fotografo ai Tre Oci. Ho
nero, i miei maestri (Henri Carscelto poche immagini. Quelle più significatitier Bresson e Willy Ronis fra tutti) mi hanve, per lasciare spazio a una mostra più ampia,
Venezia
no fatto conoscere una poetica fotografica che
con una narrazione visiva più aperta e più conCasa dei Tre Oci
era tutta in bianco e nero. Ma non si tratta socentrata sulla figura umana.
Gianni Berengo Gardin
lo di una questione generazionale, penso che il
Da qui la tua continua attenzione agli occhi e
«Storie di un fotografo»
colore distragga il fotografo e chi guarda le imai
volti della gente, ai luoghi del lavoro.
fino al 12 maggio
magini. Penso che il colore sia per il paesaggio,
Il mio lavoro non è assolutamente artistico. E
il bianco e nero è per il reportage: gli eventi, la
non ci tengo a passare per un artista. L’impestoria. Comunque, detto per inciso, nel bianco e nero esistogno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sono tutte le sfumature di bianco e dei grigi. C’è la ricchezza dei
ciale e civile. Oggi, purtroppo, non va più così: è un’esperiensentimenti di una narrazione lineare e coerente.
za diversa, un lavoro portato avanti con le gallerie. Per me, in-
C
1.
Il tuo lavoro di reporter dura da oltre cinquant’anni e tu hai
spaziato nel tempo e nei luoghi. Come ci si sente di fronte a tante storie vissute?
Ho cominciato nel 1954 a lavorare seriamente con la macchina fotografica. Anzi, a me piace dire che è più di mezzo secolo, perché fa più impressione. Finché ci sarà la salute continuerò a fare questo mestiere. Anche in questo periodo lavoro
parecchio e a oggi ho realizato più di duecento fotolibri. Dagli esordi come reporter alla realizzazione di progetti sociali
ho archiviato oltre 1.500.000 di negativi. Ho girato il mondo con la macchina fotografica al collo e ho sempre usato la
pellicola.
2.
vece, è inconcepibile fare una copia in tiratura di pochi esemplari: la fotografia deve andare o sulle riviste o sui libri. D’altra
parte, la macchina fotografica non nasce per fare della pittura.
Nonostante la lunga carriera senti ancora la voglia di fotografare, da dove ti arriva tutta questa energia?
Dal bisogno di raccontare, soprattutto di documentare. Sono tuttora coinvolto di quello che faccio, non è routine, e vivo
come testimone del nostro tempo.
La fotografia diventa la testimonianza. Quello che ci fa ricordare come eravamo e come è cambiata la nostra vita, non
solo il paesaggio .
Parlando di reportage, ma soprattutto di narrazione, la foto-
© Gianni Berengo Gardin/Contrasto
1. Lido di Venezia 1958.
2. Venezia 1959 (piazza San Marco).
3. Venezia 1958.
4. Yugoslavia 1979.
immagini hanno di suscitare emozioni e possibilmente delle
reazioni che possono generare certi scatti.
Cosa ti resta di questa, oserei dire, inestimabile collezione di
immagini: ricordi, consapevolezza, nostalgia?
Naturalmente tanti ricordi, ma una cosa mi è molto cara: la
consapevolezza di essere riuscito a raccontare storie senza pregiudizi. Credo che questo sia un modo per rendere più leggibile la complessità del mondo
Qual è il ruolo del fotografo?
Sono tanti i ruoli, o meglio i tipi di fotografi: chi fa architettura, paesaggio, ritratto… Io sono un narratore, voglio raccontare delle storie, fotografo la gente di tutti i giorni, quelli che
non vengono notati, cerco di fare foto serie e non dei gossip.
A chi devi il tuo successo?
Devo tutto alle mie macchine fotografiche, soprattutto la
mie Leica, vere e fedeli compagne di vita, usare la macchina
fotografica ancora oggi mi fa andare avanti e guardare al futuro. ◼
fotografia
grafia resta ancora un fatto culturale?
Per quanto mi riguarda ho sempre raccontato il nostro tempo. La vita politica, i cambiamenti sociali, gli eventi che hanno marcato la storia del nostro Paese. Le fotografie sanno cogliere uno spaccato del nostro tempo e questo è certamente
un fatto culturale.
Con questa grande mostra, cosa vuoi raccontare che non è ancora stato detto?
Credo che in questa retrospettiva ci sia tanto mondo,
un racconto per immagini.
Credo che non esca solo il
mio punto di vista ma un insieme di visioni passate, ma
che ci riguardano ancora oggi. Ci sono storie con tanta
quantità umana che ci permette di ragionare, ma anche di guardare avanti con
maggiore consapevolezza.
In cosa queste immagini
raccontano il nostro Paese?
La vita per le strade, la
gente che si incontra per caso, gli abbracci sorprendenti e spontanei, in ogni foto,
ciascuno di noi ritrova un
po’ di se stesso, della sua storia, dei suoi ricordi. Le folle, l’infanzia e il tempo, il
lavoro. Tutto questo ci por3.
ta a ricordare, a pensare, a
ragionare.
A proposito del reportage
sugli zingari, cosa hai imparato ad apprezzare di questo
popolo?
La generosità, la poesia e la
musica. Per me è stato difficile entrare in quel mondo. Gli zingari sono sempre prevenuti nei confronti
della macchina fotografica
proprio perché, solitamente, si fotografa il lato negativo della realtà. Ho scoperto, poi, che durante la guerra nella ex Yugoslavia fuggivano molti delinquenti che,
giunti in Italia, si andavano
a «nascondere» all’interno
dei campi nomadi grazie al
fatto che parlavano la stessa lingua.
In una scala ipotetica di va4.
lori qual è il segno distintivo
della tua carriera, intendo
dire: qual è la spinta che ti permette di scattare una determinata foto? Curiosità, umanità, ricerca della verità?
Credo nella convinzione e nell’importanza di essere testimoni della storia. Credo nella persuasione e nel potere che le
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in vetrina
66
Fondazione Levi:
dieci anni di concerti
per le Sacre Ceneri
N
di Giorgio Busetto
el 2003, con l’avvento alla presidenza di Davide
Croff, la Fondazione Ugo e Olga Levi si propose di contribuire all’offerta culturale di Venezia
successiva al Carnevale con un concerto di musica sacra quaresimale da tenere il mercoledì delle Ceneri. Si
trattava di corrispondere ad una richiesta che da più parti si
era levata in rapporto all’annosa questione della cattiva distribuzione dei programmi di maggiore attrattiva turistica, vale a dire mostre e spettacoli, che si
condensavano e spesso sovrapponevano in determinati periodi dell’anno, lasciandone piuttosto
vuoti certi altri. Passata la sbornia del Carnevale
bisognava attendere la Pasqua per vedere rimettersi in moto la macchina dell’offerta culturale.
A quel tempo si chiedeva, o almeno lo chiedevano le categorie economiche interessate, di incentivare il turismo, che pur continuava a crescere, con il consueto strascico di polemiche, sicché
tanto il Promove quanto l’apt aderirono all’iniziativa nella prima edizione del 2004.
La direzione scientifica della Fondazione era
all’epoca retta da Giulio Cattin, per decenni docente di storia della musica a Padova, oggi presidente onorario della Levi, mentre tra gli studiosi a lui più vicini operavano Giovanni Morelli,
che professava musica contemporanea nell’ateneo veneziano di Ca’ Foscari, e Antonio Lovato, allievo di Cattin, lui pure docente a Padova e
suo successore alla guida del Comitato scientifico della Levi dal 2006.
Cattin apriva il primo libretto di sala di quella che sarebbe
poi divenuta una serie che ha ora toccato le dieci unità, con
una sorta di brevissimo editoriale, che introduceva e motivava la manifestazione dettando la linea che sarebbe poi stata sempre seguita: «Quest’anno, per la prima volta, la Fondazione Ugo e Olga Levi ha pensato d’inaugurare il tempo
della Quaresima con un concerto di musica sacra che segni
nettamente l’avvenuta conclusione del Carnevale. La liturgia, con il rito delle Ceneri, costituisce di per sé un segnale
inequivoco e forte, ma è forse possibile offrire un messaggio
che, altrettanto chiaramente indichi la realtà di un cambiamento e lo faccia in una forma più facilmente comprensibile all’uomo d’oggi.[…] L’esecuzione, pur proponendosi come
momento di seria riflessione, con la bellezza dei suoi brani
non rinuncia ad essere occasione di godimento spirituale».
Sono concetti che più avanti saranno ripresi da Lovato con
riferimento alla teologia della croce: «L’iniziativa […] intende contribuire alla riscoperta di questo patrimonio di profondo significato religioso e culturale, realizzando con cadenza annuale l’ascolto di composizioni originali attraverso
l’esecuzione di complessi specializzati».
Nonostante queste dichiarate intenzioni e l’attiva partecipazione di Chorus, Associazione di numerose chiese di Venezia, non mancò qualche polemica di fonte ecclesiastica,
che vedeva nella circostanza più apprezzato l’aspetto ludico spettacolare che non quello meditativo proprio della preghiera in musica, che caratterizza il canto sacro come colloquio col divino.
Per le prime due edizioni del concerto Cattin scelse di avvalersi del Coro Athestis diretto da Filippo Maria Bressan,
con un programma inaugurale di testi di Palestrina, Monteverdi e Scarlatti, disposti secondo lo schema di una liturgia eucaristica in «una sorta di escursione fra vetta e vetta
della più sofisticata ricerca di innovazioni stilistiche dell’arte
polifonica» e nel secondo anno «un arduo confronto fra le
espressioni della ispirazione mistica del sentimento penitenziale fra età barocca e immediata contemporaneità» (Morelli) con Desprez, Palestrina e Allegri alternati a Urmas Sisask.
Per la terza edizione del 2006 Morelli propose a Cattin di
virare su un programma etnomusicologico, segnalando per
l’esecuzione tre gruppi popolari di grande tradizione storica: «I Cantor ed Monc» di Monchio delle Corti (Parma); la
«Compagnia Sacco» di Ceriana Ligure (Imperia) e il gruppo siciliano de «I Lamentatori di Montedoro» (Caltaniset-
ta). L’iniziativa, rafforzata dall’adesione, che non sarebbe più
venuta meno, della Fenice e della Cassa di Risparmio di Venezia, riscosse un grande successo di pubblico e così si stabilizzò la ricorrenza, celebrata sempre, sino alla nona edizione
del 2012, nella chiesa di Santa Maria Formosa.
Dalla quarta edizione del 2007, attesa la maturità dell’evento, Lovato introdusse una formulazione a carattere seriale, dedicando ogni anno ad un secolo, presentando il concerto con un dotto libretto di sala, videoregistrando le esecuzioni, in modo da disporre di materiali documentari relativi alla prassi esecutiva e da poterli anche tradurre in cd o dvd.
L’avvio con l’Ensemble Oktoechos – Schola Gregoriana di
Venezia, direttore Lanfranco Menga, è proposto come «un
invito a ripartire dalle radici della nostra civiltà con un programma di testi e canti del periodo medievale, in cui intonazioni monodiche […] si alternano a composizioni della prima
polifonia d’arte e con testimonianze prossime alla sensibilità
popolare». Da questo concerto la Fondazione Levi ha pubblicato con l’editore Tactus di Bologna il cd Crucem tuam
adoramus, in cui è presente anche una delle prime polifonie,
le Lamentationes a due voci di Johannes de Quadris, musicus
in San Marco agli inizi del sec. xv:
Il passo successivo (2008) programma una serie di Laude, «cantasi come» e intonazioni «a modo proprio» dei secoli xiii-xvi nell’esecuzione dell’Ensemble Micrologus diretto da Patrizia Bovi, che mantiene il carattere religioso e popolare come aspetto caratteristico dei canti, pur se elevati ad
Le edizioni 2012 (sopra) e 2009 (a fronte) del concerto delle Ceneri.
celebrazioni per il cinquantesimo anniversario di istituzione della Levi ed è stato perciò preceduto da una tavola rotonda che è stata anche un’occasione di presentazione del restauro di Palazzo Giustinian Lolin, dove si è svolta, nel salone di
rappresentanza del primo piano nobile. Il tema era «Musica
e musicologia: prospettive della Fondazione Levi a 50 anni
dalla nascita» e sono intervenuti il vicepresidente della Fenice Giorgio Brunetti, il presidente della federazione nazionale
delle corali Sante Fornasier, il direttore della rivista «Amadeus» Gaetano Santangelo e Lovato, mentre la manifestazione è stata presieduta da Croff.
Nel frattempo è cambiato il parroco di Santa Maria Formosa e col nuovo curato le esigenze liturgiche hanno impedito lo svolgimento del concerto all’ora consueta e dunque si
è dovuta scegliere una nuova sede: grazie alla collaborazione dell’Istituto di Santa Maria della Pietà che ha messo a disposizione la famosa chiesa di Vivaldi affacciata sul bacino di
San Marco qui si è tenuta l’edizione 2013, Canti della Passione e di lode tra spirito romantico e culto dell’antico, musiche
dell’Ottocento eseguite dall’ensemble Reale Corte Armonica «Caterina Cornaro» (soli e coro da camera) con l’Orchestra da camera «Lorenzo Da Ponte», con la direzione di Roberto Zarpellon. Marco Manzardo, che ha curato l’iniziativa, ha recuperato nella Biblioteca della Fondazione Levi un
inedito Miserere di Antonio Buzzolla conservato nel fondo
musicale della Procuratoria di San Marco lì depositato. Nel
programma figuravano poi un canto funebre rinascimentale di Michael Weisse musicato da Johannes Brahms; uno
Stabat Mater di Pierluigi da Palestrina nella revisione di Richard Wagner, proposto come omaggio al sommo compositore tedesco nella ricorrenza del secondo centenario della nascita; e un Te Deum di Felix Mendelssohn-Bartholdy, fiorito
di echi di Giovanni Gabrieli, Monteverdi e Bach: due opere
giovanili di due dei massimi esponenti del romanticismo tedesco a fronte di due canti della Passione di scuola italiana.
Nell’insieme dunque la serie dei concerti delle Ceneri disegna un percorso coerente, persino didattico, che risente nella
formazione dei programmi del rigoroso lavoro musicologico
che sta loro alle spalle e che ben corrisponde alle scelte che da
decenni hanno caratterizzato l’attività della Fondazione Levi e che negli ultimi anni si son venute precisando ulteriormente nelle direzioni della divulgazione quale corollario necessario della ricerca, come pure dell’esecuzione altrettanto
corrispondente al lavoro musicologico.
La lunga durata nel tempo consente di trarre un bilancio
dell’esperienza di questi dieci concerti. Va sottolineato che la ritualità dell’appuntamento consente da un lato la crescita del pubblico, sempre
più numeroso e preparato, dall’altro l’affinamento di numerosi aspetti organizzativi, mentre
appare quasi come una rassegna di belle competenze musicali, per lo più venete, affermate o da
valorizzare. Va anche sottolineato come il concerto delle Ceneri si collochi nei programmi della Levi come tappa particolarmente espressiva di
un assai vasto lavoro sulla musica sacra, quasi di
ideale ricongiungimento col sostegno dato nei
primi anni del Novecento da Ugo Levi all’opera di Lorenzo Perosi. Il concerto delle Ceneri si
intreccia così con altre ricerche, dalla musica di
San Marco alla diffusione intercontinentale della policoralità, dal movimento ceciliano all’etnomusicologia, dalla pratica di comporre ed eseguire nelle chiese antiche di Venezia, alla storia
musicale e organologica degli organi.
Appaiono ormai maturi i tempi per lanciare
nuovi progetti di ricerca ed esecuzione, su cui
dovrebbe la comunità veneziana, nell’insieme delle sue organizzazioni musicali o con componenti musicali, motivarsi.
Le tradizioni della musica sacra; l’esigenza da più parti manifestata di ripensarne la presenza anche nell’ambito delle forme attuali della liturgia; la possibilità di connetterla con la
possente rilevanza delle arti sacre figurative e architettoniche; e altresì con l’offerta culturale della città: tutto questo
induce a pensare che si potrebbe ben dare vita ad un festival
di musica sacra capace di mettere in evidenza aspetti più sobri ed elevati della possibile fruizione del patrimonio storico
di Venezia di quanto attualmente non avvenga. ◼
in vetrina
un rango letterario superiore, marcato infine dall’autorialità di un Leonardo Giustinian, il cui vasto repertorio è stato fissato nelle edizioni della Fondazione Levi da Francesco
Luisi (1983).
Nel 2009 l’Ensemble Orologio diretto da Davide De Lucia
programma Polifonie, cori spezzati e concerti policorali a San
Marco nel Cinquecento: è il trionfo del rinascimento veneziano, con Willaert, Cipriano de Rore, Merulo, Gioseffo Guami, Croce, Usper, Grillo e soprattutto i Gabrieli.
Nel 2010, in coerenza coll’andamento a suo tempo annunciato, tocca alla musica del Seicento e poiché ricorrono i trecentocinquant’anni dalla nascita di Alessandro Scarlatti, il
concerto Musica policorale. Musica per la Settimana Santa è
interamente dedicato a questo autore, ed è eseguito dall’Orchestra Barocca e dal Coro della Mitteleuropa, con la direzione di Romano Vettori e trasmesso in diretta da 3 Channel tv – Canale SKY Italia 872. Il concerto viene per l’occasione presentato con una tavola rotonda dedicata a Scarlatti, con interventi di Benedikt Poensgen, Hans Jörg Jans, Luca Della Libera, Dinko Fabris, Paolo Cattelan, Paolo Cecchi
e Romano Vettori.
Frattanto il Concerto per le Ceneri ha accresciuto di anno
in anno il proprio pubblico e la propria fama e ha ormai conquistato una menzione nella Guide verte della Michelin del
2011. Anche in quest’anno l’esecuzione è stata magistrale,
con Riccardo Favero che dirige l’Oficina Musicum su testi
di Antonio Lotti e soprattutto di Dietrich Buxtehude, tanto
che la Fondazione decise di pubblicare in dvd tutta questa
parte col titolo abbreviato: Membra Iesu nostri.
Nel 2012 Sergio Balestracci dirige l’Ensemble La Stagione
Armonica su un programma dal titolo Meditazioni musicali per i 50 anni della Fondazione Levi che allinea musiche di
Baldassarre Galuppi (Qui tollis peccata mundi), Bonaventura Furlanetto e Johann Adolf Hasse. Il concerto ha aperto le
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Mario Bortolotto e le vie della musicologia
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Il provetto stregone
Mario Bortolotto
e le vie della musicologia (6)
C
un progetto a cura di Jacopo Pellegrini
apita sovente che, giunti ormai a uno stadio
molto avanzato di un progetto, di un’impresa,
spunti dal niente un dato, un’informazione, un
dettaglio, che illumina di nuova luce il cammino percorso e da percorrere, induce a ripensare il già fatto,
imprime un nuovo indirizzo al da farsi. Questa nostra indagine intorno alla musicologia italiana e internazionale
dell’ultimo cinquantennio a partire dalla produzione critica di Mario Bortolotto non è propriamente giunta a conclusione: mancherebbero all’appello svariati interventi (su Richard Strauss, sui
compositori russi dell’Ottocento
e del primo Novecento, sulla Nuova
musica: argomenti tutti oggetto di
ricerche svolte dal
Nostro; sul suo lavoro come critico
musicale in quotidiani e periodici, sul suo stile letterario, ecc.). Come però certo saprete, dal prossimo
numero «VeneziaMusica e dintorni» cambia editore, impostazione,
contenuti, e può
anche darsi che del
tutto legittimamente i nuovi promotori non siano
interessati a proseguire nell’esame
delle anse, dei promontori, delle vie maestre, dei meandri, dei
misteri, delle ambiguità, delle intuizioni, delle scoperte proprie a una disciplina ormai adulta e tutt’altro che stagnante o
paludata. Nel qual caso, cercheremo una soluzione alternativa; nel frattempo sia però resa grazia a Leonardo Mello e alla
redazione tutta del nostro amato bimestrale.
Ebbene, proprio adesso che l’avventura si avvia forse alla fine, in una recensione (capitatami per caso tra le mani) a Consacrazione della casa, la raccolta di saggi sul teatro in musica
comparsa nell’82 presso Adelphi, rinvengo una definizione
di Bortolotto che più appropriata non si può: la si deve (stavo per scrivere: ovviamente) ad Alberto Arbasino e la si poté
leggere sull’«Espresso». Chi è dunque Bortolotto? «L’infido maestro insostituibile». Titolo oltretutto imperfettibile
per questo progetto editoriale, ad averlo scoperto prima. Sarà per un’altra (speriamo prossima) volta.
Intanto, un rendiconto e un bilancio su un’attività a prima
vista secondaria nell’iter umano e professionale di un uomo
1. L’originale è conservato nel Fondo Petrassi, Istituto Goffredo Petrassi – Campus internazionale di musica, Latina.
2. Gianni Cesarini, Bortolotto lascia l’Orchestra Rai, «Il mattino», XCVI/305,
3 novembre 1987.
votato specialmente alla speculazione intellettuale (non conosco molti lettori altrettanto incalliti e onnivori). In effetti, tra gli studiosi e i critici puri non è comune la disponibilità a «sporcarsi le mani» nella palude dell’organizzazione artistica: si possono ricordare i casi di Loris Azzaroni (un breve
incarico al Comunale di Bologna), di Fedele d’Amico (Maggio musicale fiorentino 1985), di Claudio Gallico (Festival di
Sabbioneta), di Giorgio Pestelli (un mandato all’Orchestra
rai di Torino), e pochissimi altri. Ma ecco che Ennio Speranza (specialista di Britten e di musica strumentale italiana tra
xix e xx secolo, chitarrista, narratore, drammaturgo, docente
al Conservatorio di Frosinone) ci squaderna dinanzi agli occhi venticinque anni abbondanti di teoria e pratica della programmazione, da Bortolotto esercitata a più livelli, in luoghi e àmbiti diversi (teatri d’opera esclusi): s’inizia nel 1969
con una Rassegna del pianoforte contemporaneo a Bergamo e Brescia (già l’anno prima l’imminente direttore artistico interpella per lettera Goffredo Petrassi chiedendogli
espressamente di comporre un nuovo brano per tastiera: invano)1 e si finisce nel ’96 a Roma con i consigli elargiti alle dame dell’Euterpe (ma vale la pena di ricordare una recentissima appendice: il ciclo pianistico «suggerito» a Giorgio Ferrara per il Festival dei due mondi 2012). La collaborazione
più lunga, sfaccettata e proficua resta quella con l’Orchestra
Scarlatti di Napoli (1977-1987): per la caccia alle rarità, certo
(Giorgio Pestelli, nel commentare Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale – Adelphi, Milano 1992
– attirò l’attenzione sull’abbondanza di spunti che il volume
offriva a un direttore artistico curioso, dimenticando però di
avvertire che Bortolotto li aveva già sperimentati quasi tutti
in proprio), ma anche per la scoperta di nuovi talenti direttoriali (Bruno Moretti, Daniel Oren), per la capacità di persuadere artisti affermati a saggiare vie nuove (Gavazzeni). A conclusione del mandato decennale così Bortolotto riassumeva
la sua permanenza sotto il Vesuvio: «Ho approfondito la conoscenza del repertorio e sono stato bene a Napoli. Ho anche
imparato a mangiare la mozzarella […]. Non c’è mica molto
altro [sottinteso: di buono a Napoli]»2. ◼
Mario Bortolotto (foto di Francesco Maria Colombo).
N
di Ennio Speranza
on posso certo dirmi un «bortolottiano perfetto», benché abbia «letto tutti i libri» suoi –
non proprio tutti, diciamo quasi tutti, tenendo
sommamente in considerazione il saggio su Petrassi1, fonte per me di continua ispirazione, e i due volumi su
musica francese e russa2. Mai ho avuto la fortuna di frequentare Mario Bortolotto né di confrontarmi con lui, né di essergli conoscente o amico, com’era il caso di molti tra i relatori al convegno di Latina del 2007. Anzi, per essere più preciso e spudoratamente autobiografico, la mia viva frequentazione assume i connotati della singolarità. Ero infatti a Perugia il 28 settembre 1994, per assistere a una messinscena della
Orleanskaja Deva (Pulzella d’Orleans) di Čajkovskij. Dopo
lo spettacolo, all’uscita del teatro, invitato a cena da un amico, vengo presentato a Mario Bortolotto. Mi ero laureato due
anni prima,
ero più giovane e non
troppo sveglio, e, avendo letto alcune sapide
ardue trattazioni di
Bortolotto,
mi ero fatto
di lui un’idea ben granitica, solida, quindi
errata. Credo fossimo
in quattro,
non di più:
ci siamo avviati nella
notte vagando alla ricerca di un luogo in cui mangiare, ma
più giravamo più il fato remava contro di noi facendoci raggiungere una selva di ristoranti sprangati. Nel frattempo, comunque, Mario Bortolotto ci e mi deliziava con commenti sull’opera, giudizi arguti su Čajkovskij, condendo il tutto con gustosi motti e considerazioni salaci. Infine, l’unico
ristorante aperto nei paraggi si rivelò una pizzeria del tutto improbabile, ipergiovanilistica, decisamente fuori luogo
per una tranquilla conversazione musicale: luci sparate, musica techno pop ad alto volume e, soprattutto, ingombranti
affreschi alle pareti, nei quali erano raffigurati degli implacabili Astérix, Obélix e persino Idéfix, il cane di Obélix, alle prese con singolari pizze capricciose o margherite. Insomma, i nostri discorsi – e i nostri abiti – divergevano completamente dal luogo in cui ci trovavamo, anche se pian piano
trovammo il modo di adattarci, visto che ancor oggi ricordo quella nottata come uno dei più divertenti dopo teatro
che abbia mai trascorso. In quell’occasione mi fu rovesciata
addosso una tale quantità di boutades che rimpiango di non
aver avuto con me un piccolo registratore: Bortolotto vaticiGeorg Philipp Telemann.
Francesco Manfredini.
Luigi Boccherini.
nò scherzosamente, ma non troppo di un’esemplare «fase
terza», di cui non parlerò nemmeno sotto tortura. Racconto queste amenità anche per ribadire la mia invidia nei confronti di chi, con ben altra profondità e diuturnità, ha potuto e può frequentare le opinioni concrete e pulsanti di Mario
Bortolotto, ma soprattutto per avvalorare un certo grado di
superficialità del mio intervento. Mi piacerebbe in qualche
modo perorare la causa della superficialità: alle volte la «superficie» può raccontarci cose interessanti tanto quanto la
«profondità», e credo che per discettare su alcuni fenomeni si debba non solo scavare, ma contemplare ciò che accade a
livello del suolo, «vedere l’effetto che fa» – dopo Mallarmé,
Jannacci: un effetto della liquidità contemporanea.
Prendiamo allora in considerazione un’attività come quella dell’organizzazione musicale e soprattutto della direzione
artistica: è un lavoro in cui più di altri ci si sporca le mani, in
cui si viene a patti con il compromesso, in cui si deve purtroppo essere capaci di colpi a cerchi, botti e quant’altro, soprattutto in un Paese difficile come l’Italia. Ma è altresì un lavoro che consente di verificare delle intuizioni, di portare a esiti pratici dei ragionamenti, di consegnare a un pubblico l’esecuzione di musica in cui si crede o che si ritiene «giusto» che
il pubblico conosca. Una questione di superficie, appunto: da
un lato si scava, si studia, si analizza, si distingue, si concettualizza, dall’altro ci si può sbizzarrire e si può fare in modo
che un repertorio, un gruppo di composizioni o un singolo
brano musicale venga effettivamente ascoltato, valutato, apprezzato o rifiutato. È innegabile che la musica vada prima
di tutto, oppure diciamo soprattutto ascoltata; e si perdoni la banalità dell’asserto. E per uno studioso così magmatico, turbinoso, curioso, amante della liminarità, di rivoli poco battuti tanto quanto di fiumi di ampia portata, poter organizzare stagioni concertistiche dev’essere stata una grande sfida, forse un bel divertimento, di là dalle ineschivabili rogne e delle innumerevoli «gatte da pelare», che certo in
simili occasioni non mancano mai. Non conoscendo le vicende, le modalità, le circostanze in cui tali compiti furono
espletati e non avendo informazioni di prima mano, e nemmeno volendo scadere nell’aneddotica o nella chiacchiera,
non posso che rivolgermi alla «superficie», ossia alla collana di programmi che ho potuto consultare. Non importa cosa li ha prodotti, quali situazioni, difficoltà o magari polemiche ci furono dietro: mi piacerebbe constatare se mettendo
in fila tali programmi sia possibile cogliere delle ricorrenze,
dei motivi principali e secondari, o semplicemente registrare
quello che i frequentatori di un’istituzione musicale han-
Il provetto stregone
Mario Bortolotto
organizzatore musicale
69
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
70
no ascoltato grazie a un impegno che presupponeva dei ragionamenti, delle linee di tendenza, dei gusti, delle opportunità, forse anche una diversità di approccio rispetto alle predilezioni e alle posizioni critiche – invero tante e altamente
motivate, talvolta in controtendenza con opinioni diffuse o
sin troppo docilmente accettate – che è possibile attribuire a
Bortolotto attraverso la lettura dei suoi saggi.
Il Nostro ha dapprima contribuito, insieme a Camillo Togni, alla programmazione artistica d’una rassegna a latere
del Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo,
rassegna dedicata alla musica pianistica contemporanea che
fu varata sei anni dopo l’avvio del festival vero e proprio, ossia nel 1969. E questo per diversi anni, almeno sino al 1977.
Quindi, Bortolotto è stato direttore artistico dell’Orchestra «Alessandro Scarlatti» di Napoli della rai dal 1977
al 1987 e dell’Associazione musicale Euterpe di Roma dal
1990 al 1996 (benché in forma non ufficiale). Tre lunghe,
considerevoli porzioni di tempo, in cui è sicuramente possibile rintracciare delle direttrici.
Per quanto riguarda le rassegne inserite nel Festival pianistico di Brescia e Bergamo, essendo queste dedicate alla musica cosiddetta contemporanea, alla Nuova musica del se-
condo Novecento, è difficile individuare una precisa scelta
di campo: tutti i compositori più o meno rappresentativi di
quegli anni vi hanno fatto la loro comparsa, nel segno però,
come sostenuto allora da Bortolotto, di un’opposizione ai comuni festival che si presentavano «senza eccezioni all’insegna dell’anonimia e del casuale affastellamento»3. Vi è da
dire che, pur componendo programmi filigranati e vari, in
cui sono presenti esponenti delle più disparate tendenze, i
singoli concerti possiedono un impianto fortemente coeso e
ricco di risonanze interne. Invece, a una prima rapida scorsa
dei cartelloni napoletani riportati dalla «Nuova rivista musicale italiana» – spesso sotto forma di rapide segnalazioni
o di stringate recensioni collettive – è possibile notare come
la programmazione sembra essere una diretta conseguenza
dell’idea per cui la storia della musica sia intreccio di relazioni, labirinto da districare, mescolanza non casuale di tendenze e personaggi, non museo granitico di soli padri fondatori. Oggi questa tendenza, anche in musicologia, è ovvia, direi
patente, ma una trentina di anni fa lo era assai meno.
Così, già nella prima stagione che vede la direzione artistica di Bortolotto, quella del 1977, appare lampante la volontà
di ampliare lo spettro delle proposte mediante tre azioni programmatiche che lasciano trasparire posizioni critiche ben
ponderate: a) i capolavori riconosciuti e amati non vengono
fuori dal nulla, ma prendono vita da ciò che gira loro intorno, spesso trascendendo il contesto storico-sociale-geografico in cui nascono. Mi sia consentita a questo punto la licenza di una citazione: «Se si vuole conoscere un Paese occorre
frequentare gli scrittori minori, i soli che ne riflettano la vera natura. Gli altri denunciano o trasfigurano le nullità dei
loro compatrioti: non vogliono e non possono mettersi sullo
stesso piano. Sono testimoni sospetti»4. Questa frase è frutto dell’intelligenza e del gusto per il paradosso dello scrittore
franco-romeno Emil Cioran5 e, a mio parere, esprime una indubitabile verità. La stessa cosa può dirsi per i musicisti. Ogni
tanto frequentare i presunti minori può essere utile, oppure,
ancora meglio, metterli in parallelo con i presunti maggiori:
si scopriranno relazioni, false relazioni, affinità, moti paralleli o contrari, divergenze, e la realtà di un clima, di un ambiente non potrà che venire fuori con una maggiore intensità prismatica; b) la perla rara, il bravo figlio dimenticato, non è infrequente, anche nei compositori più noti e saccheggiati. Perché non mettere in condizione il pubblico di conoscere tali reietti e di goderseli? Ancora un esempio personale: nutro
una passione speciale per un breve brano di Čajkovskij datato 1884, l’Elegia in sol maggiore per orchestra d’archi dedicata a Ivan
Va s i l ’e v i č
Samarin, attore e regista dal musicista sommamente apprezzato. È un pezzo patetico
e incantevole che purtroppo sinora non sono
mai riuscito ad ascoltare dal vivo
(e che neanche Bortolotto mi risulta abbia
mai programmato); c) la musica d’oggi deve contare su spazi propri ed essere presentata in concerti dalla forte coerenza
interna (e questo, oltre che al Festival di Bergamo e Brescia,
accadde anche a Taormina nel 19756, poi a Napoli all’inizio
del mandato, tramite l’istituzione di un breve festival intitolato «Nuova Musica e oltre», che, pur non avendo avuto vita durevole, presentò un ampio ventaglio di musiche e musicisti), ma deve essere altresì incistata con cura in una programmazione più varia, tale da evitare il ghetto, la sin troppo
pericolosa aura del concerto per addetti ai lavori, e da meglio
mettere in evidenza i nessi tra chi è venuto prima e chi dopo.
Prendiamo alcuni concerti dalla prima stagione e notiamo,
per esempio, una serata che unisce la Sinfonia in do minore
n. 95 (1791) di Haydn alla March for the Royal Society of Musicians (1792) dello stesso, la Sinfonia concertante K. 297 di
Mozart a un Concerto in re maggiore di Francesco Manfredini (1680 ca-1748 ca); oppure un altro appuntamento in cui
Mozart (la Gran partita K. 361) viene affiancato da Hummel, e Vivaldi da Telemann. Per quanto riguarda specificamente il primo punto possiamo citare un concerto del 22 otJan Křtitel Václav Kalivoda.
Karl Amadeus Hartmann.
Jean Claude Risset.
Ada Gentile.
Marcella Mandanici.
Emanuel Nunes.
certo erano assai risicate. Il ciclo prevedeva, tra l’altro, la Sinfonia di concerto grosso n. 5 di Alessandro Scarlatti, la Sinfonia funebre di Paisiello (scritta su invito di Napoleone per
commemorare la morte del generale Louis Lazaire Hoche e
riutilizzata nel 1799 per la scomparsa di Pio VI!), l’intermezzo Fra’ Donato di Antonio Sacchini, un intero concerto dedicato a Domenico Cimarosa: l’ouverture dei Traci amanti,
un Concerto in sol per due flauti e orchestra e l’assai più noto Maestro di cappella. Primizie e bizzarrie, pagine inusuali
o dimenticate, costellavano del resto anche gli incontri musicali ideati da Bortolotto per il Festival dei due mondi a Spoleto tra il 1979 e l’inizio del decennio successivo.
Per quanto riguarda la musica del secondo Novecento, abbiamo già accennato al festival «Nuova Musica e oltre», che
presentò innumerevoli pagine fresche di stampa o giù di lì
accanto a grandi numi tutelari: citiamo la tappa iniziale della prima rassegna, dedicata ad Anton von Webern, e poi un
concerto monografico su Schoenberg 9; ma in seguito furono ascoltate musiche di Pennisi, Ferrero, Clementi, Canino, Robert Mann, Sciarrino, Takemitsu, Ives, Stockhausen,
Feldman, Kagel, Varèse, Boulez, Cage, Christian Wolff, Togni, Luis de Pablo, Bussotti, ecc., in programmi spesso ar-
ticolati su tematiche ben precise o su affinità tra gli autori;
ma anche nella stagione concertistica ufficiale numerosi sono stati i contatti con i compositori novecenteschi di tutte
le tendenze. Si succedono così le serate monotematiche su
Giorgio Federico Ghedini, Guido Turchi, Hans Werner
Henze, Mario Zafred (stagione 1977), Hindemith (26 novembre 1982), ancora Henze (23 dicembre 1983), Karl Amadeus Hartmann (20 aprile 1984), ma anche intriganti binomi o trinomi: nel 1981, il 6 febbraio Franz Schreker (Intermezzo op. 8 per archi; Kammersymphonie) e Handel/Schoenberg (Concerto per quartetto d’archi e orchestra del 1933,
che ascoltato a bruciapelo potrebbe far pensare a Stravinskij),
il 15 maggio Kurt Weill (Concerto per violino e strumenti
a fiato op. 12), Luigi Nono (Incontri per 24 strumenti) e Arnold Schoenberg (Kammersymphonie n. 2 op. 38); il 16 dicembre 1983, Luis De Pablo (Latidos; Concerto per clavicembalo, una versione del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra preparata appositamente per la Scarlatti su richiesta
di Bortolotto), Aldo Clementi (Sinfonia da camera), Tomás
Marco (Concierto de Alma per violino e archi); il 30 marzo 1984, Schumann (Introduzione e Allegro appassionato
op. 92 per pianoforte e orchestra), Schubert (Sinfonia in si
minore n. 8 Incompiuta), Schumann trascritto da Adorno
(Kinderjahr, sei pezzi dall’Album für die Jugend op. 68) e
Il provetto stregone
tobre 1982, che vede il Concerto per pianoforte e orchestra
K. 488 di Mozart preceduto da una sinfonia di August Carl
Ditters von Dittersdorf (in do maggiore, Die vier Weltalter,
ossia «Le quattro età del mondo», la prima delle sinfonie
sulle Metamorfosi di Ovidio) e, prima, le Quattro danze dal
Don Juan di Gluck emergere dopo la Serenata in do maggiore
dal Concentus musico-instrumentalis di Johann Joseph Fux.
Il concerto seguente, 29 ottobre ’82, affermerà gli stessi princìpi: Sinfonia K. 161 di Mozart, Sinfonia concertante per
flauto, oboe e orchestra di Ignaz Moscheles, Adagio, Tema
e Variazioni op. 102 per oboe e orchestra di Hummel e una
Sinfonia del men che celebre violinista e compositore boemo
Jan Křtitel Václav Kalivoda (Praga 1801-Karlsruhe 1866).
Lavori insoliti fanno capolino inaspettatamente, ma organicamente, in locandine in cui non mancano riconosciuti capolavori: Mozart, Concerto per pianoforte K. 595, Serenata notturna n. 6 in re maggiore K. 239, Serenata per archi op.
58 di Čajkovskij, il poema sinfonico Kikimora op. 63 di Anatolij Konstantinovič Ljadov (Pietroburgo 1855-Novgorod
1914): è questo un programma della stagione 1978-1979, stagione che accolse la prima esecuzione italiana della Sinfonia
(già Sonatina) in mi bemolle maggiore di Richard Strauss
assieme
al più noto Concerto per oboe
e orchestra
(e al Concer to per
oboe e violino in do minore BWV
10 6 0R d i
J.S. Bach).
Na t u r a lmente non
mancano,
anzi abbondano, i concer ti mono g r a f ic i :
sempre nella stagione
d’esordio ne contiamo di dedicati a Boccherini, a Weber e
a Stravinskij; e in seguito, cito fra i tanti, a Franz Berwald
(1978), a Gabriel Fauré (1979)7, a Samuel Barber (1980), a
Max Reger (1981). Ma anche quando le monografie saranno
meno temerarie – dedicate, per esempio, a Strauss o a Mozart, – la pagina poco o nulla ascoltata, la pagina sottovalutata non mancherà di fare capolino.
Sempre nella stagione 1978-1979 viene presentata in sei serate l’integrale dei pezzi per pianoforte e orchestra dell’amato Camille Saint-Saëns, credo per la prima e unica volta in
Italia, ma vi sono anche appuntamenti riservati solo a Mario
Zafred, Bruno Bettinelli, Nino Rota8. Nel 1980, quale corollario a una mostra sul Settecento napoletano promossa dalla
soprintendenza ai Beni culturali, il cartellone incluse cinque
concerti esplicitamente collegati all’esposizione: se oggi un
interesse così pronunciato a pagine ignote o quasi di Giordani, Leo, Paisiello, Sacchini, Alessandro Scarlatti può risultare per nulla innovativa, oltre trent’anni fa le cose non dovevano essere così pacifiche, anche perché le occasioni per ascoltare, persino su disco, tale musica se non mancavano del tutto
71
Mario Bortolotto e le vie della musicologia
72
Schubert trascritto da Webern (cinque Lieder).
Naturalmente con minori mezzi economici a disposizione
e in un diverso contesto come quello dell’Associazione Euterpe di Roma, Bortolotto, volgendosi quasi esclusivamente
alla musica da camera, cerca comunque di compiere un percorso simile, privilegiando l’alternanza di composizioni conosciute a brani di più raro ascolto, oppure elaborando programmi che prevedano accostamenti magari inediti, ma congrui. Pochissimi esempi dal 1990: 8 febbraio, Boulez (Sonatina per flauto e pianoforte), Ravel (Chansons madecasses;
Habanera), Debussy (Syrinx; Sonata per flauto, arpa e viola; En blanc et noir); 5 aprile: monografia su Chopin (Studi
op. 10 e op 25, ma anche i tre Studi per il metodo MoschelesFétis); 10 maggio: Franck (Preludio, Aria e Finale), Alkan
(Sinfonia per pianoforte solo), Ravel (Miroirs). Oppure vi sono serate dedicate a musicisti contemporanei, come quella
in onore di Petrassi del 4 maggio 1994, mentre il 15 gennaio
1991 un concerto con un organico non comune, flauto chitarra clavicembalo, prevede, nella seconda parte, alcuni pezzi
per tastiera di Rameau, la Sonata in si minore per flauto e b.c.
BWV 1030 di Bach, e, nella prima parte, brani per chitarra
e flauto di Ada Gentile (Quick Moments), Marcella Manda-
nici (Counterparts II), Iván Vándor (Esquisse en noir), Francesco Pennisi (Méliès, da Esequie della luna), Giuseppe Soccio (Lisar: a solo d’insieme per flauto basso e chitarra), infine
un brano di Čajkovskij, la Ninna nanna op. 16 n. 1, trascritta da Aldo Clementi per flauto contralto, celesta e chitarra.
Il 31 ottobre 1991 flauto e clavicembalo alternano sapientemente musica di contemporanei a maestri dell’età barocca: a
Grund per flauto e nastro magnetico (1984) di Emanuel Nu-
nes seguono brani di François Couperin; al Cassandra’s Dream Song per flauto solo (1970) di Brian Ferneyhough succede la Sonata 4 dall’op. 20 per flauto e clavicembalo di Michel Corrette; dopo Les Tourbillons per flauto e clavicembalo di Fabrizio De Rossi Re è la volta di Jean-Philippe Rameau
(dal Primo libro delle Pièces de clavecin: Preludio, Allemanda, Corrente, Sarabanda, Giga); Passages per flauto e nastro
magnetico (1982) di Jean Claude Risset precede la Sonata in
la BWV 1032 di Bach.
Potrei naturalmente continuare su questo tono elencando
altri concerti e autori, ma credo che, seppur superficialmente, i contrassegni illustrati risultino piuttosto chiari. Riguardo invece alle concordanze ovvero divergenze del Bortolotto studioso dal Bortolotto organizzatore, se da una parte è
innegabile la funzione propedeutica svolta da alcune scelte
in vista delle due grandi monografie apparse negli anni novanta (sulla musica in Francia e in Russia tra Ottocento e
primo Novecento), dall’altra mi sembra che certa granitica
impostazione del suo pensiero critico non trovi riscontro in
un’offerta di nomi, scuole, opere ed epoche oltremodo ampia, anche a tener conto dell’organico da camera dell’Orchestra Scarlatti e della sua vocazione al repertorio preclassico e
classico.
Vorrei allora concludere, senza
che ciò appaia piaggeria, dicendo
che mi piacerebbe oggi ascoltare quei concerti o almeno tipologie
di concerto
simili, e seguire stagioni tanto doviziose e rifinite. Mi piacerebbe altresì, da parte di più o meno auguste istituzioni musicali, un poco di curiosità in più. Insomma, mi aspetto, prima o poi, di ascoltare
dal vivo la mia amata Elegia di Čajkovskij. Chissà, forse non
sono l’unico. ◼
1. Mario Bortolotto, Il cammino di Goffredo Petrassi, «Quaderni della Rassegna musicale», 1,
1964 (L’opera di Goffredo Petrassi), pp. 11-79.
lano 1991 («Biblioteca Adelphi», 243), p. 102;
ed. or. De l’inconvénient d’être né, Gallimard,
Paris 1973 («Les essais», 186).
2. Id., Dopo una battaglia. Origini francesi del
Novecento musicale, Adelphi, Milano 1992
(«Saggi. Nuova serie», 9); Id., Est dell’Oriente.
Nascita e splendore della musica russa, Adelphi,
Milano 1999. («Saggi. Nuova serie», 33).
5. Tra l’altro ricordo che Mario Bortolotto è stato splendido traduttore di una delle ultime fatiche di Emil Cioran, ossia Confessioni e anatemi,
Adelphi, Milano 2007 («Biblioteca Adelphi»,
515); edizione originale Aveux et anathèmes,
Gallimard, Paris 1987 («Arcades»).
3. Mario Messinis, Da Brescia – Il festival internazionale pianistico dedicato a Schumann – La
prima rassegna di musica pianistica contemporanea – I «February pieces» di Cornelius Cardew,
«Nuova rivista musicale italiana», III/4, luglioagosto 1969, pp. 740-743: 741.
4. Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati,
traduzione italiana di Luigia Zilli, Adelphi, Mi-
6. Nell’ambito dell’Estate musicale di Taormina, XIV Festival internazionale, 2-10 agosto
1975, si tenne un seminario di studi musicali sul
tema «Il pianoforte oggi» a cura di Mario Bortolotto (con concerti dal 2 agosto al 7 agosto).
7. Ne parla Fedele d’Amico, Che gioia, è un tipo
da salotto (4 maggio 1980), in Id., Tutte le crona-
François Couperin.
Michel Corrette.
Fabrizio De Rossi Re.
che musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll., a
cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione
di Suso Cecchi d’Amico e Caterina d’Amico de
Carvalho, prefazione di Giorgio Pestelli, Bulzoni, Roma 2000, III (1979-1989), pp. 1805-1808.
8. In proposito si legga: Id., Lo sventurato non
firmò (7 gennaio 1979), ivi, pp. 1675-1678: 1676.
9. Al pianoforte di Schoenberg era stata dedicata la terza Rassegna di musica contemporanea:
Messinis, Da Brescia – L’ottava edizione del Festival pianistico internazionale di Brescia e Bergamo dedicata a Liszt e al suo tempo – La rivelazione del sovietico Lazar Berman Una importante rassegna schoenberghiana, «Nuova rivista
musicale italiana», V/4, luglio-agosto 1971, pp.
679-681: 680-681.
G
di Giuseppina La Face Bianconi
loria Staffieri, musicologa romana, affronta
una sfida davvero ambiziosa: tracciare un profilo
complessivo della storia dell’opera italiana in tre
volumi Carocci destinati a Università e Conservatori, ma anche ai melomani colti. Il secondo e il terzo sportello del trittico avranno uno sviluppo cronologico (Sei-Settecento e Otto-Novecento, fino alla Turandot di Puccini: dopo di che si fanno ancora delle opere in Italia ma l’opera italiana in quanto genere coerente tramonta). Il volume introduttivo – il solo finora uscito – ha invece impianto
sistematico e tematizza i caratteri costitutivi del genere, osservati e comparati sincronicamente anziché diacronicamente. Il titolo, Un teatro tutto
cantato, punta immediatamente sulla specificità essenziale di questa stupenda invenzione italiana, comparsa
a Firenze sullo scorcio del Cinquecento e diffusasi in tutto il globo. Staffieri
riconosce la costituzione pluridimensionale del teatro d’opera ma non esita
ad affermare la «centralità della musica»: la drammaturgia operistica si
fonda infatti sulla «forza attrattiva»
che la musica, in primis il canto, «è in
grado di esercitare sul testo verbale»;
parole e musica, a loro volta, intrecciano un rapporto complesso con la dimensione scenica, in una «gerarchia
a polarità variabili», in un «sofisticato contrappunto di codici e di messaggi». Nella seconda metà del volume
Staffieri delinea i tratti generali delle strutture formali di base dell’opera
italiana: Ad onta delle cento varianti,
si constatano persistenze significative,
nel rapporto tra ritmo poetico e frase
musicale come nello spicco dei moduli d’«intonazione vocale». Il manuale, ricco di spunti, ben argomentato,
criticamente aggiornato, getta salde
basi concettuali per il disegno storico
che seguirà.
L’Edizione nazionale delle opere di
Giacomo Puccini, che prevede la pubblicazione delle partiture, dell’epistolario e delle mises en scènes, decolla da quest’ultima sezione. Michele
Girardi, puccinista di lungo corso, associato nella Facoltà di Musicologia
dell’Università di Pavia-Cremona,
presenta l’edizione critica della messinscena che Albert Carré, il direttore dell’Opéra-Comique, realizzò d’intesa col musicista per
la «prima» francese della Madame Butterfly nel dicembre
1906, protagonista la moglie di Carré, Marguerite. L’iniziativa è propizia: nell’èra delle regìe «trasgressive» lo studioso e il melomane hanno così modo di ricostruire mentalmente l’aspetto e la dinamica di uno spettacolo sontuoso, che fu
concepito sotto lo sguardo vigile e partecipe di Puccini, arrivato due mesi prima a Parigi. La documentazione consiste
Giacomo Puccini, «Madama Butterfly»:
mise en scène di Albert Carré,
edizione critica di Michele Girardi,
Torino, edt, 2012
(«Edizione nazionale delle opere di Giacomo Puccini.
Livrets de mise en scène e disposizioni sceniche», 4),
xii-215 pp., isbn 978-88-6040-521-0, 39 euro.
Giulia Giachin, Il viandante e il tramonto.
Mozart e le fonti del Lied romantico,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012
(«Musica e Letteratura», 12),
xii-224 pp., isbn 978-88-6274-326-6, 18 euro.
Elisabetta Fava, Voci di un mondo perduto.
Mahler e il “Corno magico del fanciullo”,
ibid., 2012 («Musica e Letteratura», 13),
v-308 pp., isbn 978-88-6274-418-8, 20 euro.
Chiara Garzo, «In a Garden Shady»
All’ombra di un giardino.
Studio su Benjamin Britten,
ibid., 2012 («Musica e Letteratura», 14),
xiii-115pp., isbn 978-88-6274-422-5, 16 euro.
in una puntuale annotazione manoscritta, mista di parole e
schemi grafici, che battuta per battuta descrive sia l’impianto scenico sia le posizioni e i movimenti di attori, cori e comparse. Il curatore l’ha opportunamente corredata dei rinvii al
testo italiano e allo spartito standard:
vediamo dunque idealmente scorrere
– per così dire fotogramma dopo fotogramma – l’azione scenica e musicale. In appendice, uno stralcio dei Souvenirs di Carré, un glossario di termini scenotecnici e di voci giapponesi, e
il facsimile del libretto francese. Un lavoro di grande pregio.
Le Edizioni dell’Orso hanno aggiunto tre titoli alla serie «Musica e
Letteratura», collana cara agli amanti del Lied. Giulia Giachin, docente di
Storia della musica nel Conservatorio
di Torino, rintraccia nella liederistica
di Mozart i primi germogli e fermenti
di una sensibilità protoromantica: intuizione plausibile, alla luce della loro recezione e discendenza. All’altro
estremo della parabola storica, Elisabetta Fava, ricercatrice nell’Università di Torino, ricostruisce il profondo debito ideale di Gustav Mahler nei
confronti della cornucopia originaria
del Lied poetico romantico, la raccolta
Des Knaben Wunderhorn di von Arnim e Brentano (1805). Chiara Garzo,
docente di scuola secondaria, affronta
infine una selezione ristretta ma squisitissima di liriche solistiche e corali di
Benjamin Britten: spiccano i sonetti
del poeta barocco John Donne (1945) e l’inno a santa Cecilia su versi di W.H. Auden (1942). Nelle tre monografie si coglie l’impronta metodologica e stilistica del magistero universitario di Giorgio Pestelli, promotore della bella collana. ◼
73
carta canta — libri
Le recensioni
Gloria Staffieri, Un teatro tutto cantato.
Introduzione all’opera italiana,
Roma, Carocci, 2012, 191 pp.,
isbn 978-88-430-6576-9, 17 euro.
carta canta — libri
74
«Forma divina»,
gli scritti
di Fedele d’Amico
U
di Jacopo Pellegrini
n libro a lungo invocato, atteso, desiderato: se
ne parlava da oltre un ventennio, da quando cioè
Mario Bortolotto, commemorando in un articolo la figura di Fedele d’Amico (1912-1990),
sollecitò una raccolta dei suoi programmi di sala, convinto
che ne sarebbe sortita una (quasi) storia dell’opera memoranda. L’idea accese la fantasia di molti, ma soprattutto si abbarbicò nella mente di Suso Cecchi d’Amico, vedova del critico
e studioso romano oltre che celeberrima sceneggiatrice cinematografica. Sempre ella andò rimuginandola, mai si stancò
di patrocinarla presso amici studiosi editori. Anche quando,
nel corso degli anni, maturarono e videro la luce, di d’Amico,
una raccolta di saggi e articoli1; un’antologia di scritti dedicati al teatro d’opera2; volumi su Rossini3 e su Puccini4; l’integrale, in tre tomi, degli articoli scritti per «L’Espresso»5; i
carteggi con Arnheim6 e con Berio7.
La realizzazione di un sogno, il sogno di Suso, l’adempimento di una preghiera da molti condivisa: ecco cos’è Forma
divina. Saggi sull’opera lirica e sul balletto, ottantuno scritti (sessantanove sul teatro in musica da Gluck a Berio, passando per Mozart, Beethoven, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Wagner – soltanto Tristan, – Berlioz, Massenet,
Čajkovskij, Musorgskij, Puccini, Schoenberg, Berg, Bartók,
Menotti, Rota e parecchi altri, un intervento dal titolo In
che senso la crisi dell’opera di argomento novecentesco, undici sulla danza da Adam a Hindemith, Čajkovskij Stravinskij
Falla inclusi) in due tomi di complessive 578 pagine, dovuti a
uno dei «grandissimi musicologi italiani del secondo Novecento» (così il risvolto di copertina); anzi, se posso azzardare un parere personale, l’unico della sua generazione, insieme
a Nino Pirrotta, in grado di uscire a testa alta da un eventuale confronto con i «prodotti» delle scuole germanica e anglosassone (questione d’idee, certo, ma anche, forse soprattutto, di metodo). Solo che a differenza di Pirrotta, d’Amico ha sempre rifiutato per sé la qualifica professionale di musicologo, preferendo quella di «giornalista, critico musicale», ancor oggi leggibile sull’elenco telefonico (recte: Pagine
bianche) di Roma.
E tutto sommato, a questo dono meraviglioso procuratoci dall’intraprendenza di Giorgio Pestelli (a lui dobbiamo
anche una Prefazione di esemplare limpidezza), dalla lungimirante liberalità della Fondazione Spinola Banna per l’arte (che ha sostenuto finanziariamente la stampa dei volumi
presso l’editore Olschki di Firenze), dalla curatela meticolosa, fin maniacalmente pignola di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi, maestro e allievo nell’alacre fucina del dams
bolognese: che soddisfazione leggere un libro pressoché privo di errori, che gioia maligna scovare in pagine così amorosamente vagliate il refuso sfuggito all’occhio di lince (p. 53,
riga 6: la lingua più che «razionale» sarà «nazionale»; p.
341, riga 8: «1960»); tutto sommato, dicevo, l’unico appunto che mi sento di poter muovere alla pubblicazione è il ricorso, nel sottotitolo, alla parola «saggi» in luogo del più neutro «scritti» (vedi Un ragazzino all’Augusteo, libro ordinato dall’autore poco prima di morire) o addirittura della locuzione «programmi di sala» (i testi estranei a questo genere letterario sono solo quattro). Poiché del saggio, nonostante l’abile difesa di Pestelli («veri e propri “saggi”, per la solidi-
tà tecnica, la portata effettiva delle idee messe in gioco e la facoltà tipicamente saggistica di restituire motivi o pretesti intellettuali in immediatezza di intuizioni e verità di emozioni»), queste pagine non mi sembrano (voler) esibire né il tono né l’andamento: troppo incandescente la materia versata
con mano fermissima sulla pagina, troppo polemica e battagliera la natura dello scrittore per adattarsi al passo austero,
pacato nelle argomentazioni (anche quelle avverse a qualcosa
o qualcuno) ma perentorio nelle conclusioni della tradizione
saggistica. Più della verità vera (cui sempre ambisce la trattatistica di profilo alto), a d’Amico importa prendere per mano
il lettore, condurlo lungo un percorso da lui accuratamente
Fedele d’Amico,
Forma divina.
Saggi sull’opera lirica e sul balletto,
a cura di Nicola Badolato e Lorenzo Bianconi,
prefazione di Giorgio Pestelli,
Leo S. Olschki editore, Firenze 2012,
due volumi, pp. 580, 54 euro.
predisposto secondo le più ferree leggi della retorica, comunicargli la maggiore quantità possibile d’informazioni, infine proporgli una prospettiva ermeneutica, una chiave di lettura, che vada oltre il giudizio di valore (peraltro non scansato, come era invece buona regola in ambito accademico: in
Orfeo ed Euridice il quadro dei Campi elisi costituisce «forse […] la vetta di tutto Gluck»; per Bohème si parla di «livello sommo» e di fattura miracolosa), per riportare ogni titolo a un quadro storico-sociale-artistico più vasto e articolato.
Per d’Amico, molto attento al nesso società-cultura, è però
l’opera d’arte a improntare di sé un’epoca non viceversa (lo
sottolinea anche Pestelli), secondo una prospettiva che fonde
idealismo (più gentiliano che crociano, direi) e materialismo
storico. E la trasmissione dell’essenza (scil. della grandezza)
nissimo vanno evocando; […] [un] muto corteggio; nel quale volenti o nolenti ci troviamo coinvolti, irrefrenabilmente commossi. Commossi ancora oggi, pensate un po’, nel bel
mezzo del mondo di oggi. E senza rossore».
Ho parlato di strategie retoriche, e le righe appena citate consentono di saggiare con l’orecchio (se lette a voce alta) la qualità di una lingua che dietro l’apparenza colloquiale diretta comunicativa, svela abbondantissime «ricercatezze linguistiche e concettuali» ancora tutte da studiare
(più d’un accenno in proposito si trova nella Nota al testo di
Bianconi, da cui traggo la citazione). Ho parlato anche di accumulo di informazioni storiche sulle singole partiture (genesi, circolazione, varianti tra edizioni diverse, ecc.), il che,
com’è stato sottolineato, fa di d’Amico un antesignano degli studi sulla fortuna di un autore o di un’opera, quella che
i tedeschi hanno battezzato Rezeptionsgeschichte e che in italiano si suole tradurre con Storia della ricezione ossia recezione (due scuole di pensiero diverse e contrapposte). Ma a
enumerare le intuizioni, le anticipazioni di d’Amico si farebbe notte (a p. 348 si trova una definizione di «musica di scena» in puro stile Dahlhaus, ma con svariati anni di anticipo
sull’ammirato collega tedesco), e poi si correrebbe il rischio
di cadere nella trappola di chi vuole a tutti i costi nobilitare
l’oggetto delle proprie ricerche, renderlo accetto alla casta accademica (le resistenze a d’Amico non mancano, sulla base
di una sua presunta non «scientificità»).
Il d’Amico studioso (e, insieme, critico) che detta testi di
Fedele d’Amico.
presentazione per i teatri italiani, vale di per sé e vale moltissimo: ha ragione Mario Messinis quando avverte che in
quasi tutti si può trovare materia per un libro. Forma divina riporta all’incirca l’ottantacinque per cento di una produzione che copre un arco ultratrentennale (dai primi anni
cinquanta alla fine degli ottanta), e che in misura preponderante trovò accoglienza all’Opera di Roma, di cui d’Amico,
nel corso degli anni sessanta (gestione Palmitessa-Bogianckino), curò personalmente il settore editoriale, rinnovando alle radici l’idea stessa di programma di sala. Non mi è
possibile riferire nel dettaglio il pensiero di d’Amico sull’opera in musica (centralità della voce, dunque dell’interprete,
sulla scia di Paul Bekker
e del suo libro Wandlungen der Oper, 1934) o
sui singoli compositori (l’«eterno gioco mozartiano dell’ambiguità»; Rossini antidrammatico e antiromantico
– forse l’unica prospettiva sorpassata, per quanto molti la condividano
ancora; Berlioz prenovecentesco; il Verdi «quarto stato»: ed è perciò un
vero peccato che manchi
il commento a Falstaff –
è riprodotta solo la parte
relativa alla nascita e alla creazione dell’opera,
dove si evidenziano «le
relazioni non passeggere con la contemporanea cultura musicale europea»: lo si può leggere
nella Guida all’opera, a
cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Mondadori, 1971 e successive ristampe; la modernità del «decadente» Puccini, ecc. ecc.). E in fondo, non
sarebbe neanche giusto. La gioia del nutrimento intellettuale
e, al contempo, l’emozione propriamente fisica che la penna
di d’Amico sa comunicare, è un’esperienza che ciascun lettore deve compiere da solo. ◼
1. Fedele d’Amico, Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali, a cura
di Franco Serpa, Einaudi, Torino 1991 («Saggi», 748).
2. Id., Scritti teatrali 1932-1989, prefazione di Gioacchino Lanza
Tomasi, Rizzoli, Milano 1992.
3. Id., Il teatro di Rossini, Il mulino, Bologna 1992 («Universale
paperbacks», 271). Si tratta, in origine, di dispense universitarie
già pubblicate nel 1968 (De Santis, Roma), ’74 (ELIA, Roma) e ’82
(Bulzoni, Roma).
4. Id., L’albero del bene e del male. Naturalismo e decadentismo in
Puccini, a cura di Jacopo Pellegrini, introduzione di Enzo Siciliano,
Maria Pacini Fazzi, Lucca 2000 («La rosa», 4).
5. Id., Tutte le cronache musicali. «L’Espresso» 1967-1989, 3 voll.,
a cura di Luigi Bellingardi, con la collaborazione di Suso Cecchi
d’Amico e Caterina d’Amico de Carvalho, prefazione di Giorgio
Pestelli, Bulzoni, Roma 2000.
6. Id. – Rudolf Arnheim, Eppure, forse, domani. Carteggio 1938-1990,
a cura di Isabella d’Amico, prefazione di Franco Serpa, Archinto,
Milano 2000.
7. D’Amico – Luciano Berio, Nemici come prima. Carteggio 19571989, a cura di Isabella d’Amico, introduzione di Enzo Restagno,
Archinto, Milano 2002.
carta canta — libri
di un determinato lavoro, esaurita l’esposizione serrata di argomenti razionali e verificabili, si affiderà di preferenza a un
messaggio emotivo, a una comunicazione simpatetica, alla
complicità tra autore-guida e lettore-discepolo: i famosi finali «travolgenti» di d’Amico, col loro «effetto-sorpresa»,
di subitanea illuminazione. Scelgo a mo’ d’esempio quello di
Traviata, dove oltretutto la strategia emozionale del coinvolgimento è apertamente dichiarata: nell’ultimo atto Violetta
«campeggia sola […]. Piuttosto, accanto a lei sentiamo la presenza nostra, di noi spettatori, chiamati a raccolta da quella
sorta di rullo di tamburi che all’inizio e poi nel corso del suo
ultimo canto gli accordi ribattuti dell’intera orchestra pia-
75
ASSOCIAZIONE CULTURALE
COMPAGNIA DE CALZA
«I ANTICHI»
FONDATA DA ZANE COPE
VENEZIA
CARNEVAL DE VENETIA
MASCARAR
2013-2014
TRADIZIONE E TRASGRESSIONE
Campo San Maurizio 2677 – San Marco - Venezia – 30124 ITALIA
e-mail: [email protected]
www.iantichi.org
arte grafica jsb+lc
D
di Lorenzo Bianconi
come propellenti irrefrenabili della vita e della storia; l’impostura come strumento necessario della politica; la glorificazione di Venezia come legittima discendente dell’antica
Troia in opposizione alla decadente Roma. È imminente l’edizione critica del dramma, a cura di Nicola Michelassi (Firenze, Olschki); il quale intanto, in un’importante miscellanea su Gli Incogniti e l’Europa curata da Davide Conrieri, ha anticipato un ampio capitolo sulla folgorante fortuna
dell’opera.
Un saggio copioso e importante, apparso or ora in Francia,
offre finalmente un’ordinata mappa intellettuale e tematica
della produzione letteraria degli Incogniti. Nella sua Venise
«incognita», l’italianista Jean-François Lattarico (da tem-
obbiamo al compianto Giovanni Morelli
un’intuizione che, divulgata nel 1975 in un articolo mio e dell’amico Thomas Walker (anch’egli così presto scomparso), ha poi attecchito nella
storiografia musicale: a Venezia, negli anni trenta e quaranta
del Seicento, l’incubazione del teatro d’opera come impresa
economica e come genere letterario e drammatico-musicale
poté avvenire anche perché vi trovò un ambiente intellettuale propizio. Il riferimento è
al libertinismo professato
dagli Accademici Incogniti riuniti attorno a Giovan
Francesco Loredano.
Molti drammaturghi veneziani che nei primi decenni scrivono per i teatri
d’opera – Giacomo Badoaro, Giulio Strozzi, Gian
Francesco Busenello, Michelangelo Torcigliani, Paolo Vendramin – sono affiliati all’Accademia degli Incogniti, un sodalizio informale ma efficiente nei termini di una moderna «politica culturale», per l’influsso che esercita sull’editoria, il consumo letterario, la vita tepo ne attendiamo l’edizione critica dei drammi del Busenelatrale. Gli Incogniti idolatrano G.B. Marino e il suo poema
lo) traccia un completo diagramma dell’ideologia «incognierotico, l’Adone (all’Indice); coltivano uno scetticismo radita» come si manifesta in particolare nei due generi letterari
cale in campo storico, politico, filosofico, morale; professamoderni prediletti dagli Accademici: il romanzo e appunto
no (sulla scia dell’aristotelico patavino Cesare Cremonini)
il dramma per musica. Due capitoli chiave nel libro di Lattala mortalità dell’anima; riconoscono nelle religioni null’alrico concernono proprio Strozzi e Busenello. Il lavoro offre la
tro che, machiavellicamente, un’utile impostura politica per
più coerente e sistematica analisi finora disponibile su questa
tenere a freno le masse; predicano e praticano una disinibita
humus, così fertile, così ricca di sali e succhi che anche attrae versatile libertà sessuale; stigmatizzano la corruzione delverso il melodramma continuarono a vivificare l’intelligenle corti, a cominciare da quella papale; in compenso ostentaza e la sensibilità italiana ed europea dell’età moderna. Già,
no un’indefettibile lealtà alle istituzioni della Serenissima.
perché è ben vero che il libertinismo degli Incogniti sfiorì nel
La quale di buon grado chiude un occhio sulla tracotanza
corso del secondo Seicento; e che anche un dramma come La
intellettuale di questi letterati scavezzacolli. Siamo nell’età
finta pazza, fuori di Venezia, mitigò di un bel po’ gli ammicdell’Interdetto: estromessi i Gesuiti, all’ombra del Leone di
chi più caustici e derisorii. Ma qualcosa dello spirito libertisan Marco si gode una libertà ignota altrove in Italia.
no si mantenne, si propagò e si diffuse, e per li rami si perpeNon ci sono documenti espliciti che teorizzino o docutuò in un genere – l’opera in musica – che nei tumulti dell’amentino l’impegno diretto dell’Accademia nella gestazione
nimo e dei sensi ha saputo penetrare con uno sguardo disine sviluppo del teatro d’opera. Ma cento indizi confermano
cantato e scettico. Dai drammi degli Incogniti un filo sottiche gli Incogniti vi ebbero lo zampile ma tenace discende fino alle Nozno. In particolare, alcuni di loro fuze di Figaro, a Così fan tutte, al Ballo
rono fautori di quel Teatro Novissiin maschera, alla Bohème, al CavalieJean-François Lattarico,
mo, eretto nel 1641 dietro San Zanire della rosa, al Giro di vite.
Venise «incognita».
polo, che durò pochi anni ma varò le
Per colmo di fortuna, la bur dell’ee
Essai sur l’académie libertine au xvii siècle,
stupefacenti invenzioni scenotecniditore Rizzoli ha pubblicato or non è
Paris, Honoré Champion, 2012, 490 pp.,
che di Giacomo Torelli, il geniale inmolto una ricca antologia dei Liberisbn 978-2-7453-2276-0, euro 100.
gegnere fanese dell’Arsenale, e lantini italiani dei secoli xvii e xviii,
ciò la Finta pazza di Giulio Strozzi,
egregiamente curata dall’italianista
Libertini italiani.
musica di Francesco Sacrati, la priAlberto Beniscelli, professore all’ULetteratura e idee tra xvii e xviii secolo,
a cura di Alberto Beniscelli,
ma opera che fece il giro di tutt’Itaniversità di Genova (e melomane): il
Milano, rccs Libri, 2011
lia e nel 1645 fu rappresentata a Papingue ed economico volume è orgarigi, sempre con Torelli scenografo. «Biblioteca Universale Rizzoli – Classici moderni»), nizzato per temi – filosofia religione
La finta pazza esibisce temi squisita- xli-911 pp., isbn 978-88-17-05060-9, euro 16,90. scienza eros antropologia politica –
mente «incogniti»: la simulazione e
sicché il lettore curioso dispone ora
Gli Incogniti e l’Europa,
la dissimulazione, l’inganno e il didi una bussola affidabile per circuma cura di Davide Conrieri,
singanno; derisione e sarcasmo come
navigare a bell’agio il bizzarro arciBologna, I Libri di Emil, 2011,
visione del mondo; l’amore e il sesso
pelago libertino. ◼
isbn 978-88-96026-84-7, 332 pp., euro 26.
carta canta — libri
L’opera dei libertini
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carta canta — libri
78
Il «Lohengrin»
di Quirino Principe,
prima tappa
di un progetto
imponente
Q
di Leonardo Mello
uirino Principe è uno dei musicologi e critici musicali italiani più importanti e riconosciuti a livello internazionale. Alla sua costante attività pubblicistica affianca da sempre quella di saggista e scrittore (fondamentali, per fare solo due esempi, le monografie da lui dedicate a Mahler e a
Strauss). Ma riassumere in poche righe la poliedricità del suo
pensiero e dei suoi interessi sarebbe un’impresa impossibile,
per cui passiamo subito a parlare di Lohengrin – Wagner e
noi, la sua ultima fatica (Jaca Book, 2012). Il libro è la prima
tessera di un progetto imponente, intitolato «La spada della dualità», che prevede quattordici volumi, dedicati appunto ai quattordici Musikdramen wagneriani, dall’incompiuto
fiorire dalla storia cosiddetta reale come variazione
su un tema. Oppure, può
essere “antistoria”, qualcosa
che non è stato ma poteva
essere, e per magia potrebbe ancora essere. Certo, la
leggenda colora e arricchisce il mondo, ma non ne
trasmuta l’essenza. Appartiene alla sfera dell’accadere, e si configura tutta nello
spazio-tempo. Vertiginosamente più in alto è il mito, che appartiene alla sfera
dell’essere, ed è ontologicamente diverso dal mondo:
è indipendente dal tempo e
dallo spazio. L’accadere gli
è indifferente. Mito non è
metafora né antistoria, non
è ciò che è stato né ciò che
non è stato ma sarebbe potuto essere. Il mito è Essere sempre, e ciò che in esso
si cela (o si rivela a lampi) è
Quirino Principe,
Lohengrin – Wagner e noi,
nuova traduzione
con testo a fronte del libretto,
Editoriale Jaca Book,
Milano 2012,
pp. 120, 10 euro.
La spada della dualità
1. Lohengrin
Wagner e noi
2. Tannhäuser
L’umano atterrito
dal soprannaturale
3. Tristano e Isotta
Eros, o lo specchio della dualità
4. Il divieto d’amare
Dualità nella dualità:
lo pseudo-teorema di
Burckhardt
5. Rienzi
Scelte fatali,
ovvero la malattia
chiamata «storia»
6. L’olandese volante
L’umano turbato dalla leggenda
Die Hoczeit («Le nozze») al Parsifal. L’omaggio al Genio di
Lipsia – che procede parallelo a quello ideato dal Teatro alla
Scala in occasione del bicentenario della nascita di Wagner e
Verdi, e che ha preso avvio a dicembre proprio con il Lohengrin allestito da Claus Guth e diretto da Daniel Barenboim
– è dunque solo il primo di una serie di avvincenti capitoli wagneriani che inaugurano anche – dopo l’Atlante storico della musica nel Medioevo, curato da Vera Minazzi e Cesarino Ruini – il dipartimento «Jaca Musica». La nuova traduzione, accompagnata dal testo a fronte, comprende anche
due celebri «scarti», vale a dire, come spiega l’autore stesso,
«la seconda parte del racconto di Lohengrin, la preghiera di
lui sulla navicella alla fine dell’opera (una preghiera che nella
versione definitiva e a tutti nota è “muta”) e […] l’addio al cigno pronunciato da Goffredo di Bramante, personaggio che
nel definitivo disegno drammaturgico […] è interpretato da
un mimo, poiché non parla e, naturalmente, non canta». Alla sua versione del testo lo studioso accosta anche un magnifico saggio, dove l’opera viene contestualizzata, analizzandone la genesi compositiva, le origini e la leggenda: «Leggenda?
Sì, certamente, ma anche qualcosa di più – afferma –. La leggenda può essere “metastoria”, qualcosa che la fantasia lascia
Lohengrin alla Scala
(foto di Rudy Amisano - teatroallascala.org).
un sistema di archetipi, di
“symbolische Formen” così come Ernst Cassirer le
ha definite, di “Gestalten”
preannunciate da folgoranti immagini eidetiche,
quelle che ci sfiorano inafferrabili nei sogni. Nei sogni? È una seducente direzione per chi voglia mettersi in cammino e cercare le
orme di uno che potrebbe
essersi chiamato davvero
Lohengrin e Loherangrin,
e che addirittura potrebbe
essere esistito» (p. 76) . E
tra mito e sogno la scrittura
limpida e documentatissima di Quirino Principe costruisce un percorso davvero appassionante sulle tracce del cavaliere del cigno e
sulla materia epica da cui
sorge grazie all’arte di Richard Wagner. ◼
7. Le fate
L’umano sedotto
dall’impossibile fiaba
8. L’oro del Reno
L’umano consumato dal mito:
l’origine di tutto
9. La Valchiria
L’umano consumato dal mito:
l’eros
10. Sigfrido
L’umano consumato dal mito:
il potere
11. Il crepuscolo degli Dei
L’umano consumato dal mito:
la fine di tutto
12. Parsifal
L’umano nel labirinto
degli archetipi
13. I maestri cantori di
Norimberga
La piramide, la base e il vertice
14. Le nozze
La dualità
di compiuto e incompiuto
C
di Leonardo Mello
i sono molti modi di raccontare una guerra. In
particolare la seconda guerra mondiale, il più
cruento e sanguinario dei conflitti (almeno fino
a ora),
ha avuto in quasi settant’anni un
flusso inesausto di
narrazioni, letterarie, teatrali, cinematografiche.
È dunque difficile
sorprendersi e appassionarsi all’ennesima cronaca di
quei tempi bui. Eppure il magnifico
libro di Maria Luisa Semi riesce in
quest’impresa quasi impossibile: nel
suo Una bambina,
la sua guerra infatti
gli eventi che hanno funestato il nostro Paese sono rivisti attraverso il ricordo di una bimba
che cresce (e soffre)
Maria Luisa Semi,
con loro. SupporUna bambina, la sua guerra,
tata da un’invidiaprefazione di Riccardo Calimani,
bile memoria (coEdizioni Studio lt2, Venezia 2012,
me lei stessa afferpp. 94, euro 13.
ma nell’introduzione), l’autrice ripercorre gli anni del fascismo, i razionamenti, le campagne
belliche, i bombardamenti, le persecuzioni razziali, la Liberazione. Ma lo fa – senza che il discorso divenga mai posticcio – dal punto di vista di chi non può comprendere (eppure comprende) l’enormità di quanto sta accadendo ai propri familiari, a una mamma volitiva e determinata, che segue dovunque – almeno fin dove le è possibile – il marito richiamato più volte al fronte. Quello che affascina non è tanto l’argomento quanto il modo inedito di trattarlo, la visuale
infantile che mette sullo stesso piano un rifugio antiaereo e
un pezzo di cioccolata, un lodevole ottenuto a scuola e la sorpresa per l’arrivo di una sorellina o di un fratellino. Il dramma di una famiglia nativa di Capodistria e trasferitasi a Venezia (solo la protagonista nasce in laguna) si intreccia con le
tante inquietudini dell’infanzia, trascritte quasi stenograficamente, tanto che il lettore non può che immedesimarsi e
riportare alla mente le proprie. Ma in questa scrittura piana
e paratattica, sempre stupita eppure mai buonista, si annida
la tragedia che ha contraddistinto più generazioni, la paura
come sentimento dominante, l’orrore di un bambino ucciso dai sciavi (una delle pagine più dure e dirette). Per giungere infine all’epigrammatico e tutt’altro che consolatorio epilogo, nel quale mamma e papà – professore di liceo e partigiano – a guerra abbondantemente finita tornano, tra l’ostilità diffusa del nuovo occupante, a rivedere la propria terra.
Un libro avvincente e istruttivo, che meriterebbe di circolare nelle aule scolastiche. ◼
Relazioni
e osmosi
tra cinema e teatro
N
ell’affrontare il problema dei rapporti tra il cinema e il teatro, relazioni che, nel
corso degli anni e dello sviluppo di queste due forme espressive, si sono via via declinate secondo i principi dell’osmosi, dell’arricchimento
o della netta opposizione,
il nostro intento è lontano dal voler verificare se lo
schermo possa considerarsi
un’estensione della scena o,
viceversa, la ribalta un dispositivo della narrazione
di minor valore rispetto alla settima arte. Ciò che più
ci preme affrontare è invece l’analisi di alcuni momenti, e di alcuni esempi,
in cui cinema e teatro sembrano rincorrersi continuamente. In altre parole,
poiché sono molti gli autori che hanno dimostrato di
Marina Pellanda,
non temere contaminazioCinema e teatro.
ni e poiché sullo schermo
Influssi e contaminazioni
sono ricorrenti le situaziotra ribalta e pellicola,
ni in cui il teatro viene a inCarocci editore, Roma 2012,
tersecarsi con il cinema in
pp. 112, euro 12.
una continua comunione
di ruoli, interferenze e risonanze, abbiamo dunque cercato
di tessere un vero e proprio racconto dei legami che possono
instaurarsi tra queste due arti della rappresentazione». Questo è l’inizio del magnifico Cinema e teatro. Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola di Marina Pellanda, prolifica studiosa della settima arte che ha al suo attivo, tra i molti titoli, anche due importanti monografie dedicate a Gian
Maria Volonté e Marco Bellocchio. Il libro, nelle sue 110 pagine, si presenta avvincente e leggibile senza rinunciare mai
a una rigorosa scientificità. Come dichiarato programmaticamente, lungi dall’essere un lavoro di mera compilazione,
il volume si avvicina al tema (cruciale) attraverso un percorso ad exempla, partendo ovviamente e necessariamente dalle origini del mezzo cinematografico, e dalle differenze che
sin da subito caratterizzano le due forme espressive, differenze rinvenibili prima di tutto «nella diversa modalità di fruizione da parte dello spettatore». La parte forse più appassionante è però quella che segue, dedicata al teatro greco e
shakespeariano (e alle loro connessioni), indagati attraverso
un’eterogenea selezione di lungometraggi, da Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch e La dea dell’amore di Woody Allen
alle versioni di Otello create da tre grandi artisti come Orson Welles, Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini (lo splendido Cosa sono le nuvole). Si prosegue con un fitto capitolo incentrato sull’arte dell’attore (e sulle modificazioni in essa stimolate dalla macchina da presa) per concludere con «L’opera filmata», dove protagonista è il teatro musicale, materia
di molti celebri film, tra cui – per citare solo alcuni titoli –
Casta Diva di Carmine Gallone, Senso di Luchino Visconti
e il Flauto magico firmato da Ingmar Bergman (1974) e Kenneth Branagh (2006). In estrema sintesi, un libro denso, ricco e per tutti i palati. (l.m.) ◼
«
carta canta — libri
Una bambina,
la sua guerra
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Eresia della felicità a Venezia
Le collaborazioni di questo numero
• Luigi Abbate (pp. 40-41)
Compositore
• Andrea Oddone Martin (pp. 28-29)
Critico musicale
• Eugenio Bernardi (pp. 54-55)
già Ordinario di Letteratura Tedesca
all’Università Ca’ Foscari di Venezia
• Mario Messinis (pp. 16-17 e p. 27)
Critico musicale
• Gualtiero Bertelli (pp. 50-51)
Cantautore
• Lorenzo Bianconi (p. 77)
Università di Bologna
• Giorgio Busetto (pp. 66-67)
Direttore della Fondazione Ugo e Olga Levi
Università Ca’ Foscari di Venezia
• Paolo Cattelan (pp. 32-33)
Musicologo
Presidente degli Amici della Musica di Venezia
• Renzo Cresti (pp. 22-26)
Musicologo
• Denis Curti (pp. 64-65)
Direttore scientifico Casa dei Tre Oci (Venezia)
• Luigi De Angelis (p. 52)
Regista
Fondatore di Fanny & Alexander
• Vitale Fano (pp. 14-15 e p. 19)
Musicologo (Università di Padova)
• Giuliano Gargano (p. 43)
Giornalista
• Tommaso Gastaldi (p. 46)
Giornalista freelance
• Peter Kammerer (pp. 56-57)
Università di Urbino
Traduttore
• Guido Michelone (p. 45 e p. 47)
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Conservatorio di Musica «Antonio Vivaldi»
di Alessandria
Critico musicale
• Letizia Michielon (pp. 36-37)
Musicista
Critico musicale
• Jacopo Pellegrini (p. 68 e pp. 74-75)
Critico musicale
• Oliviero Ponte di Pino (pp. 59-61)
Critico teatrale
• Franco Pulcini (pp. 8-9)
Musicologo
• Eva Rico (p. 63)
Storica dell’arte
• Veniero Rizzardi (pp. 38-39)
Musicologo
• Mirko Schipilliti (pp. 12-13 e p. 30)
Musicista
Critico musicale
• Gianni Sibilla (p. 44)
Giornalista musicale (rockol.it)
• Arianna Silvestrini (p. 18)
Giornalista freelance
• Ennio Speranza (pp. 69-72)
Musicologo
• Giuseppina La Face Bianconi (p. 73)
Università di Bologna
• Massimo Tria (pp. 10-11)
Università Ca’ Foscari di Venezia
• Annalisa Lo Piccolo (p. 35)
Musicologa
• John Vignola (p. 42)
Critico musicale
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Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice
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Anno IX - luglio / agosto 2012 - n. 47 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno IX - settembre / ottobre 2012 - n. 48 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno X - marzo / aprile 2013 - n. 51 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno IX - novembre / dicembre 2012 - n. 49 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
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