FOGLI
LIBRI
MILES DAVIS
molti dei luoghi comuni sulla musica di Miles di quel periodo e
molti sono oggi i musicisti influenzati dal suo approccio e dalle
intuizioni maturate in quegli anni.
Altri libri poi sono stati scritti sull’argomento (in particolare quello
di Paul Tingen Miles Beyond, però mai pubblicato in Italia) e
soprattutto la Columbia ha fatto uscire una serie di cofanetti che
hanno ampliato di molto il materiale edito a disposizione, senza
considerare i dvd e la marea di bootleg e registrazioni amatoriali
che grazie al web sono spuntati un po’ dovunque. Tutto materiale
che è servito a Salvatore per mettere appunto una versione 2.0
del suo già esaurientissimo libro, qui ancora più dettagliato e
preciso nell’analisi musicale e nello svelare, pagina dopo pagina,
la particolare natura ‘sciamanica’ e multiculturale del Davis
elettrico.
Un saggio che consigliamo quindi caldamente non solo agli
appassionati davisiani, ma a tutti i musicofili in generale. Per
invogliarvi ulteriormente alla lettura pubblichiamo di seguito uno
stralcio del capitolo 9, quello dedicato alle session del 1972 che
porteranno all’album On The Corner, recentemente rese edite
nel cofanetto The Complete On The Corner Session, uscito per
Columbia lo scorso ottobre. (David Nerattini)
Lo sciamano elettrico
di Gianfranco Salvatore
(Stampa Alternativa)
SUPERFLY / DIC/GEN 2007
9.2 L’Africa a Darmstadt
Red China Blues, registrato il 9 marzo 1972, è un sintomo evidente
dell’indecisione in cui si trovava Miles Davis subito prima di
lanciarsi nella nuova avventura di O N THE CORNER, dopo quasi
due anni di assenza dagli studi di registrazione. La cosa scaturì
dall’estemporanea infatuazione per un ennesimo chitarrista,
Cornell Dupree, che aveva fatto parte della storica sezione ritmica
dell’etichetta Atlantic col batterista Bernard “Pretty” Purdie:
assieme avevano formato un supergruppo funky, gli Stuff, a
cui Davis si era entusiasmato ascoltandolo al Mikell’s. Ma Red
China Blues non c’entra nulla con il canone davisiano. È solo
un convenzionale rock-blues eseguito da una formazione che
mischiava Michael Henderson, Al Foster e Mtume a un gruppo di
musicisti della Motown, con l’armonica a bocca di Wally Chambers
e la classica sezione di fiati (arrangiata da Wade Marcus) a sputare
riff secondo copione. Miles non partecipò né ai preparativi, né alla
registrazione della base, ma si limitò a sovrapporvi a fine maggio la
tromba: la quale, filtrata dall’ormai immancabile wah-wah, sempre
piú “parlante” e umanizzata, appare in totale disaccordo col
contesto. Davanti a tanta confusione, non si sa come interpretare
l’episodio, se come un gesto arrogante o un grido d’aiuto. Forse
Red China Blues è solo l’ultima – e piú perfetta – proiezione dei
suoi desideri nascosti: quella di “cantare” funky, di sparare note
come faceva James Brown con sillabe e fonemi, di farsi amare da
quel pubblico. O forse davvero, come accennò a qualcuno, era
solo una cosetta irrilevante, fatta per fare un piacere a un amico.
Alla sovrincisione della tromba assistette Paul Buckmaster, un
giovane violoncellista inglese di grande cultura musicale, con
una vasta competenza nelle avanguardie del Novecento, nella
musica indiana, nel rock e nel jazz, che si sarebbe affermato come
compositore in proprio, arrangiatore pop (per Elton John e poi per
molte altre star) e produttore di gruppi sperimentali come la Third
Ear Band. Davis l’aveva conosciuto il 10 novembre ’69 a Londra,
dove fu colpito dall’ascolto di una sua registrazione, consistente in
un ritmo fisso di batteria e una figura di basso che si trasformava
nel corso del pezzo. Si trattava di quel genere di scrittura modulare
verso cui egli stesso si stava orientando.
Buckmaster si trovava a New York per invito di Miles, che doveva
decidersi a preparare un nuovo disco ma non aveva le idee chiare.
Ospitò l’inglese a casa sua per sei settimane, tra fine maggio e
i primi di luglio, per usarlo come collaboratore e consulente. Le
esercitazioni mattutine di Buckmaster sulle suites per violoncello
A dodici anni dalla sua prima edizione torna in libreria in versione
riveduta ed aggiornata l’ottimo saggio del musicologo (e musicista,
nonché leader del progetto Baba Yoga) Gianfranco Salvatore
dedicato al periodo elettrico di uno dei giganti della musica del
secolo scorso: Miles Davis.
Lo sciamano elettrico è stato il primo libro in assoluto ad analizzare
la musica ed il percorso creativo del trombettista negli anni che
vanno dal 1967 al 1980, un periodo poco amato dalla critica e
dagli storici ‘ufficiali’ (penso a Stanley Crouch soprattutto) che lo
hanno sempre visto come una degenerazione commerciale della
poetica davisiana. Negli anni che sono passati fra la prima uscita
del libro e questa riedizione però le cose sono un po’ cambiate,
ed in meglio. Uccisi dal cambio generazionale, infatti, sono caduti
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di Bach lo entusiasmarono, e si appassionò all’idea di un
contrappunto a tre e a quattro voci indipendenti. Ma soprattutto lo
folgorò la scoperta di Stockhausen. Buckmaster gli aveva portato
un disco che conteneva Telemusik e Mixtur, e Miles lo ascoltò
tutto il giorno a tutto volume, invogliato a procurarsi anche altre
opere del compositore tedesco. Ma specialmente Telemusik fu
una rivelazione, con le sue sovrincisioni leggermente sfasate e
le registrazioni di musiche etniche elettronicamente trattate. Si
rese conto che gli effetti usati da Stockhausen – modulatori ad
anello, filtri, variatori di velocità e modulatori di ampiezza – erano
gli stessi adoperati anche da lui e Macero, e cosí le tecniche di
sovrincisione. Colpito da certe affinità di tipo metodologico con il
suo modo di concepire la musica, si lasciò profondamente ispirare
da quelle opere nate da esperienze cosí diverse dalle sue: la scuola
di Darmstadt, le avanguardie elettroniche europee.
Sotto questo genere di influenze diede istruzioni a Buckmaster
di preparare per il nuovo disco alcuni elementi modulari: e il
musicista inglese scrisse un vamp di basso, uno per la batteria,
altre due figure ritmiche per le tablas e le congas,
e alcuni schemi per le tastiere. Non elaborò (o
non presentò) vere e proprie melodie, preso in
contropiede dall’improvvisa convocazione della
seduta di registrazione, dal repentino segnale
d’inizio dato da Miles in studio, e dal fatto
che i musicisti si distaccassero liberamente
dalle indicazioni da lui fornite anche a voce.
Buckmaster, un ottimista, interpretò queste
deviazioni dal programma assegnatogli nel
senso “stockhauseniano” della trasformazione
continua di elementi in un processo, e lasciò
correre, sopportando senza protestare anche
il fatto che la sua collaborazione non venisse
accreditata nel disco. Peraltro, nel corso delle
registrazioni, la direzione fu totalmente di Miles.
Nacque cosí O N THE CORNER, destinato a diventare
l’album davisiano piú controverso in assoluto.
La prima facciata conteneva cinque titoli, coi
loro tempi regolarmente segnati sull’etichetta
del disco, ma i primi quattro, perfettamente
omogenei, risultavano uniti senza soluzione di
continuità e senza solchi di separazione tra l’uno
e l’altro. Indivisi apparivano pure il secondo e
il terzo brano della seconda facciata. Anche a
vista, insomma, era evidente come la messa a
punto dell’album rispettasse l’idea di “flusso”
su cui ora Miles stava lavorando, a estensione
e perfezionamento della sua concezione ciclica
della temporalità musicale. L’unica ragione per
cui i brani a cavallo delle due facciate, Black Satin e One And
One, risultavano separabili dagli altri era forse la speranza che
potessero essere inseriti nella programmazione radiofonica.
Da Miles c’era da aspettarsi simili paradossi. Si trattava del progetto
musicale piú sofisticato tra quelli messi a punto nel suo primo
periodo elettrico, e causò enorme scandalo presso l’ortodossia
del pubblico e della critica jazz: eppure Davis confidava in un
suo vasto consenso, immaginandosi un vero e proprio successo
commerciale. Ne è sintomo il vistoso cambio di stile della copertina,
dove all’onirismo africaneggiante di Mati Klarwein si era sostituito
un coloritissimo ambiente metropolitano (disegnato dal cartoonist
Corky McCoy) popolato di hipsters neri vestiti in maniera chiassosa,
con pantaloni svasati o a saltafosso, in atteggiamenti tra il giocoso,
il militante e il delinquenziale. Davis fece pressioni sulla casa
discografica perché gli uffici promozionali spingessero l’album in
maniera diversa che in passato, restando deluso che la Columbia
lo pubblicizzasse come un normale disco di jazz, anziché come
una musica concepita per il pubblico giovane di colore, da spingere
nelle radio che trasmettevano rhythm&blues e rock.
un po’ come Conlon Nancarrow usava proiettare le sue ricerche
metrico-ritmiche nel ragtime. Davis ha raccontato che, nell’allestire
O N THE CORNER, aveva in mente James Brown e i Last Poets, il
gruppo di rappers ante litteram conosciuti attraverso il produttore
Alan Douglas. Ma soprattutto aveva consumato le sue copie di
DANCE TO THE MUSIC e STAND !, due dischi di Sly & The Family Stone
usciti tra il ’68 e il ’69. Anche Hancock era stato affascinato da
quel «modo di disporre strati ritmici uno sull’altro», dove «il ritmo
era nello stesso tempo verticale e orizzontale, gli arrangiamenti
ingegnosi». E Miles aveva colto nella musica di Sly la tendenza a
costruire i brani su vamps bassistici, spesso ruotanti attorno ad un
unico accordo. Inoltre, riascoltando STAND !, forse prese dal lungo
brano Sex Machine quello spunto formale – il gioco di incastri tra
le varie figure in ostinato scambiate tra basso, chitarra e armonica
a bocca, e la periodicità ritmica degli accordi chitarristici – che
avrebbe direttamente influenzato la struttura delle performances
di O N THE CORNER.
Si ringraziano Stampa Alternativa e l’autore per la gentile concessione.
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SUPERFLY / DIC/GEN 2007
Sintomatica contraddizione, che mostra come ancora una volta
egli cercasse una commercialità sui generis, mirata in senso
razziale e generazionale, ma senza la minima intenzione di imitare
la musica di qualcun altro. In certi suoi modelli come Sly Stone
o James Brown non vedeva soltanto una strategia di mercato,
ma delle idee di forma che egli stressava in modo radicale:
raggiungendo esiti artistici di portata storica, ma con l’inevitabile
risultato di alienarsi il mercato jazzistico senza affermarsi su
quello del rhythm&blues.
In effetti la musica che si ascolta nel disco, tirata fino alle estreme
conseguenze su un unico accordo grazie a un fitto intreccio di
ostinati ed obbligati, appare come un inestricabile sistema
modulare, omogeneo nella sua condotta dinamica priva di climax
e picchi di tensione, ma di una complessità metrica estrema
e sconosciuta al pensiero musicale occidentale. Nella musica
europea solo Messiaen e Stockhausen avevano osato affrontare
sistematicamente un obiettivo del genere, anche se Davis,
paradossalmente, lo identificava a suo modo col rhythm&blues,