piccole conferenze 1 Il cervello e l’iPod piccola conferenza con Silvia Bencivelli © 2010 Scuola Bertolini Portogruaro Area della ricerca metodologico/didattica Trascrizione della conferenza e progetto grafico della pubblicazione a cura di Daniele Dazzan Scelta dei materiali di approfondimento: Daniele Dazzan e Daniela Grillo Piccole conferenze per grandi incontri Non un “festival della filosofia” o della matematica in piccolo (e tuttavia non sono estranee le recenti sollecitazioni della Philosophy for children), ma un “festival” della scuola che incontra Grandi Maestri, disponibili a far circolare dentro la scuola stessa le loro idee e capaci di rivolgersi a un pubblico di ragazzi. Una proposta culturale nata dentro la scuola, non preconfezionata all’esterno di essa: gli insegnanti restano i proponenti, i coordinatori, gli artefici dell’iniziativa, e mettono in circolo le loro competenze disciplinari e il loro impegno transdisciplinare per la ricostruzione della rete di relazioni che coinvolge il mondo della conoscenza. La collocazione delle “Piccole conferenze” nel Teatro Comunale Luigi Russolo, reso disponibile dall’Amministrazione di Portogruaro, sottolinea la partecipazione convinta dell’istituzione pubblica a un progetto di rivisitazione critica dei saperi tradizionali e di approfondimento dei nuovi saperi emergenti: il teatro della città si conferma teatro delle idee e luogo di incontro tra scuola e società civile. La compartecipazione di Coop Consumatori Nordest al progetto si configura, infine, come ulteriore presenza significativa nella positiva, sinergica “triangolazione” delle forze vive messe in gioco, tutte interessate alla crescita culturale e alla costruzione del benessere collettivo: il mondo della scuola, l’amministrazione pubblica, il mondo del lavoro e della produzione. 5 Un progetto per la scuola Credo che questo incontro sulla musica e il cervello costituisca il modo migliore per inaugurare il progetto “Piccole conferenze per grandi incontri” e per dare il benvenuto ai nostri ospiti: il dott. Domenico Martino, direttore dell’ufficio scolastico provinciale di Venezia e di Belluno; la relatrice dott.ssa Silvia Bencivelli, autrice tra l’altro del libro “Perché ci piace la Musica” a cui si ispira il titolo dell’incontro di oggi; il neo eletto assessore alla cultura dott. Ivo Simonella, in rappresentanza del Comune di Portogruaro, partner del progetto; il signor Agostino Serra, vice presidente distrettuale di Coop Consumatori Nordest, pure partner dell’iniziativa; il prof. Daniele Dazzan, docente di musica della nostra scuola, ideatore e curatore del progetto. Per una serie fortuita di circostanze, ci troviamo ad inaugurare questa iniziativa proprio con un incontro che ha per protagonista la musica: ebbene, la musica nella nostra scuola riveste da sempre un ruolo di primo piano. Da più di vent’anni è infatti attiva la sezione a indirizzo musicale del corso M la quale, da quest’anno, si è raddoppiata nel corso C: un grazie davvero sentito, a questo proposito, va al Dott. Martino, presente tra noi, che sappiamo sensibile a questi temi e che si è prodigato generosamente per la scuola di Portogruaro. Ma ha compiuto ormai cinque anni pure l’Orchestra di Istituto, che conta non solo sugli alunni ed ex alunni dei corsi musicali, ma anche su ragazzi provenienti dalle varie classi e sedi dell’Istituto che studiano privatamente uno strumento, ed è per tutti motivo di orgoglio: non 7 solo per i risultati che individualmente e in gruppo gli alunni ogni anno ottengono a livello nazionale (sono appena tornati dal concorso nazionale di Bologna dove hanno fatto incetta di primi premi, tra cui numerosi primi premi assoluti), ma perché contribuisce ad esemplificare e testimoniare molte delle riflessioni che penso potranno emergere anche quest’oggi sul senso, sul valore e sul significato della musica. Il progetto che oggi ci prestiamo ad inaugurare ha lo scopo di far incontrare i nostri alunni con le idee di Grandi Maestri contemporanei per far crescere in loro, da subito, il desiderio di ricercare e discernere il meglio, nel grande mercato culturale o pseudo culturale del mondo che ci circonda, per diventare adulti dal palato raffinato. Perché agli adolescenti piace così tanto la musica? Perché guardiamo con distacco e sospetto il diverso? Perché fatichiamo a rispettare le regole? Sono i primi temi che abbiamo messo in programma, a cui contiamo di aggiungerne molti altri e per i quali abbiamo già avuto la disponibilità oltre che della dott.ssa Bencivelli, che ringraziamo di cuore, della scrittrice Antonia Arslan, del magistrato Gherardo Colombo, del linguista e glottologo Andrea Moro... Noi, insieme alla città di Portogruaro, all’USP di Venezia e alla Coop Consumatori Nordest abbiamo voluto credere in questa iniziativa e speriamo vivamente che il tempo possa darci ragione. Daniela Giovanna Villotta, Dirigente scolastico 8 Silvia Bencivelli Nata il 20 luglio del 1977, è cresciuta a Pisa. Nel luglio del 2002 si è laureata con lode in medicina e chirurgia all’Università di Pisa e nel novembre del 2004 ha conseguito con lode il Master in comunicazione della scienza alla Sissa di Trieste. Oggi fa la giornalista scientifica e vive a Roma. Ha cominciato questo mestiere lavorando nella sede romana dell’agenzia Zadig, dove ha scritto lanci di agenzia e articoli per quotidiani e riviste e ha avuto modo di seguire alcuni progetti editoriali, in particolar modo quelli di scolastica. Nell’agosto 2005 ha cominciato a lavorare nella redazione di Radio3 Scienza, dove si trova tuttora. Intanto ha fatto altri mille lavori: giornalista, addetto stampa, consulente editoriale, traduttrice, moderatrice... e così via. Ha scritto due libri, tradotti anche per il pubblico francese, e ne ha messi in cantiere almeno altri due. 9 Avvio a cura di Daniele Dazzan D’accordo con la dottoressa Bencivelli, abbiamo pensato di dare inizio a questo primo appuntamento con uno spezzone cinematografico tratto da Incontri ravvicinati del terzo tipo, un film degli anni Settanta in cui si ipotizza l’arrivo di un’astronave aliena sulla terra. Bene: il primo contatto tra terrestri e alieni avviene attraverso la proposta di un codice musicale. Ingenuità dell’autore del copione? Ingenuità del regista? Plausibilità scientifica dell’ipotesi o totale improbabilità della trovata? L’idea non sembra del tutto peregrina. Nella sonda Voyager, lanciata nel 1977 nello spazio cosmico - come la classica bottiglia del naufrago sull’isola deserta (dove l’avrà trovata la bottiglia, nell’isola deserta?) - i tecnici della NASA hanno pensato di poter includere un disco d’oro contenente suoni e immagini della vita sulla Terra (e, tra le altre cose, la registrazione della Quinta di Beethoven e dell’Aria della Regina della Notte di Mozart...) per dare l’idea del livello di civiltà raggiunto dalla specie umana1. Il piccolo spezzone tratto dal film mostra come sia necessario un po’ di tempo per l’apprendimento di un nuovo codice, cioè del funzionamento della musica: e tuttavia, una volta scoperto, il gioco si fa estremamente intrigante e irresistibile aprendo interrogativi ulteriori sulla manipolazione e sulla creatività artistica... 1 Per l’elenco dei brani inclusi nella sonda Voyager vedi l’articolo Voyager Golden Record in http://it.wikipedia.org/wiki/Voyager_Golden_Record 11 Il cervello e l’iPod Beh, intanto grazie a tutti di essere presenti, soprattutto a voi, ragazzi... Voi l’avete riconosciuto quel film? Brava! È un film del ’77: quindi un film che ha i suoi anni, anche se se li porta bene! E nemmeno io l’avevo visto, poiché nel ’77 ero impegnata a fare altre cose...: mi stavo preparando a venire al mondo! Dunque: Incontri ravvicinati del terzo tipo è stato scelto dal vostro professore perché, come vi ha spiegato all’inizio, mostra che gli alieni scelgono un sistema di comunicazione molto particolare per comunicare con noi. Scelgono la musica. Fate attenzione, però: questo film lo hanno fatto gli umani, lo hanno scritto gli umani, lo guardano gli umani. E, soprattutto, gli umani “occidentali”! Questo per dire che se questa storia ve la raccontasse una medusa, una balena, un pinguino o un uccellino, ve la direbbero in un modo diverso. Ma siccome qui siamo tra umani io ve la racconto così. Nella prima mezzora dunque vi parlerò un po’ di biologia e di musica, cercheremo di trovare dei legami tra queste due cose: e ce ne sono moltissimi. Nella seconda mezzora 13 Piccole conferenze per grandi incontri lascerò che siate voi a farmi le domande: so che ne avete già preparate diverse e le aspetto con ansia. Avete dunque visto che nel film si utilizza la musica. Questo perché la musica è una delle cose che ci distinguono dagli altri animali. Attenzione: la musica come la intendiamo noi. Chissà cosa direbbe una balena, al riguardo. Ma finché saremo noi a definirla, poiché siamo “i vincitori”, la musica ce l’abbiamo soltanto noi: e possiamo dirlo a ragion veduta. Un’altra cosa che abbiamo soltanto noi, sapreste indicarmela? Una forma che possediamo solo noi... Il gatto non ce l’ha... Il pensiero? Questa è un po’ forte, eh! No: una cosa che noi umani utilizziamo sempre... Si, il linguaggio, bravissimo! Il linguaggio è una caratteristica soltanto umana: su questo non ci sono molte discussioni tra gli scienziati, tutti quanti la pensano più o meno così. Il linguaggio è la capacità che noi possediamo di mettere insieme le parole, in modi infiniti, e di costruire infinite frasi; anche frasi che non vogliono dire niente. Quelle che sto usando io probabilmente un significato ce l’hanno, ma se volessi potrei rigirarle come mi pare e dire cose molto particolari. Musica e linguaggio hanno delle caratteristiche in comune che fanno sì che quando ci mettiamo a studiare l’una non possiamo prescindere dall’altra. Per esempio: che cosa utilizziamo per cantare e per parlare? Bocca e orecchio. Usiamo cioè un canale che un biologo definirebbe “uditivovocale”. Utilizziamo delle cose che stanno nella nostra testa. Però utilizziamo anche il cervello! Tutta questa mia breve conferenza servirà per dirvi se 14 Il cervello e l’iPod sappiamo qualcosa del perché abbiamo la musica, e vedrete che bocca e orecchie le lascerò da parte, ma mi concentrerò moltissimo sul cervello. “Perché abbiamo la musica?” è una domanda dal punto di vista di un biologo molto interessante, tanto interessante che una risposta non ce l’ha: una specie di rompicapo. Selezione naturale Voi avete studiato l’evoluzione a scuola? Allora sapete cos’è la selezione naturale: quel fenomeno per cui, nel corso di tantissimo tempo, non certo di pochi giorni, un carattere particolarmente favorevole alla sopravvivenza di un individuo si impone nella popolazione. Poniamo allora che sette milioni di anni fa, più o meno quando ci siamo separati dagli scimpanzé e dai nostri cugini diretti più vicini, i bonobo (un tempo c’era l’uomo di Neanderthal, trentamila anni fa, ma l’abbiamo fatto fuori!), uno dei nostri antenati abbia cominciato a usare un sistema di comunicazione appunto uditivo-vocale, bocca e orecchio, e che il cervello lo sostenesCongo, Bonobo se in questo. Ciò ha dato un vantaggio evidente perché, per esempio, rendeva capaci di far capire ai figli se c’era un pericolo che stava arrivando, e quindi i figli sono sopravvissuti: così questo carattere si è diffuso e ce l’abbiamo tutti, o quasi tutti, nella stessa misura. La stessa domanda ha senso anche per la musica? Possiamo dire che la musica abbia dato un vantaggio ai nostri antenati che ce l’avevano? 15 Piccole conferenze per grandi incontri Non si può dire! È molto difficile dire a che cosa serva nelle nostre vite la musica, se si esclude un ambito molto particolare, al quale in realtà siamo tutti molto affezionati: quello del piacere. Noi ci procuriamo piacere in un sacco di modi: la musica è uno di questi sistemi. E naturalmente nessuno di noi è disposto a rinunciarvi, né alla musica né agli altri sistemi. Per cui la domanda “A cosa è servita la musica nel corso della nostra evoluzione?“ non ha una risposta evidente, non sapremmo dire perché uno dei nostri antenati che cantava meglio degli altri si sia imposto, si sia riprodotto di più. Selezione sessuale Qui entriamo nel campo della selezione sessuale. Non c’è niente di sconvolgente: succede a tutti, anche alle balene e alle meduse menzionate poco fa. La selezione sessuale è un modo particolare della selezione naturale: essa stabilisce che un carattere che favorisce l’accoppiamento, e che passa più favorevolmente nella prole, si impone semplicemente perché chi ce l’ha fa più figli. Quindi a lungo andare quel carattere diventa molto più diffuso degli altri. Non è che l’individuo viva di più: può anche vivere di meno, ma il carattere si impone. L’esempio classico è quello della coda del pavone. La coda del pavone è molto scomoda. Se voi foste dei pavoni, e abitaste in un ambiente naturale, tra gli alberi..., vi rendereste conto che portarsi dietro quella coda è una vera rogna: la coda pesa, ci si gira male... Però se voi pavoni avete una bella coda le femmine vi scelgono e fate tanti pavoncini. Il fatto, quindi, che voi moriate abbastanza in fretta, alla specie non interessa molto. Quello che importa è che voi siate degli animali da riproduzione perfetti perché le femmine vi scelgano rispetto agli altri. Ma secondo voi, per la musica si può dire che ci sia stata 16 Il cervello e l’iPod una ragione di questo tipo a imporla nella nostra biologia? Qualcuno pensa che possa essere una ragione il fatto che chi suona fa figli? No, non è una ragione, anche se Bach ne ebbe venti, e molti ne ebbe sicuramente anche Jimmy Hendrix... Questi esempi parziali non sono sufficienti a suffragare l’ipotesi di una musica fondamentalmente legata alla selezione sessuale degli individui. Del resto il fatto che si possa fare musica anche prima della pubertà, cioè prima di essere in grado di fare figli, depone a sfavore dell’ipotesi citata. Qualcuno di voi avrà cominciato a suonare per esempio quando aveva ancora cinque anni: può mai aver pensato alla riproduzione un bambino di cinque anni? E non solo, ma vi dirò di più: noi sentiamo la musica anche in utero. Quando la mamma è al settimo mese di gravidanza, il bambino (noi un po’ di anni fa) è in grado di sentire gli stimoli uditivi che vengono da fuori, e qualcuno racconta anche che è pure in grado di “apprezzarli”, questi stimoli che vengono da fuori. Ecco allora che è un po’ difficile pensare vi sia fin da subito un progetto di tipo sessuale, in questo precoce interesse per la musica. Tuttavia questa idea della selezione sessuale è stata abbandonata da poco, ed era ciò che pensava della musica anche Darwin. Darwin, quel signore con la barba che centocinquanta anni fa (centocinquantuno, ormai) ha dato alle stampe un libro molto importante per la storia della scienza: in particolare per la storia della biologia, ma anche per la storia della cultura, perché ci ha rimesso un po’ al nostro posto, insegnandoci che l’uomo è come gli altri animali (é infatti sbagliato dire “gli animali”: è più corretto dire “gli altri animali”). Bene: Darwin in questo libro, osservando appunto gli al- 17 Piccole conferenze per grandi incontri tri animali e vedendo che spesso essi utilizzano la musica per corteggiarsi (però attenzione: quella che noi chiamiamo musica, cioè il canto degli uccellini), ha dedotto che forse – data la sua grande diffusione nella nostra specie – l’uso della musica può aver costituito anche per noi (come per i nostri antenati) un sistema di richiamo per l’accoppiamento: chi cantava meglio aveva maggiore possibilità di riprodursi, come dicevamo prima. Però questa spiegazione oggi non ci soddisfa più: i bambini suonano, i vecchi suonano, suonano le persone che non si accoppiano, suonano le persone omosessuali (in Occidente tra i musicisti ce ne sono e ce ne sono state tante...), suonano persone che non hanno nessun interesse a fare dei figli... L’ipotesi insomma non sembra attendibile. La teoria della torta alla panna Allora c’è un’altra risposta, e questa è un po’ più complicata: penso che a scuola non ci si arrivi. Io non l’ho studiata nemmeno al liceo. Provo a spiegarvela. È la teoria della “Torta alla panna”. La spiegazione della torta alla panna è stata formulata nella storia della biologia soltanto nel 1979, quindi abbastanza poco tempo fa, se pensiamo alla storia della scienza: il film di Spielberg era uscito da appena due anni. Tale spiegazione dice che ci sono dei caratteri, delle cose, che possiamo anche aver addosso, che non si possono spiegare né con la selezione sessuale, né con la selezione naturale più in senso lato, ma che tuttavia accompagnano altri caratteri che, quelli sì, sono derivati da una selezione. Il nostro sangue non è rosso perché il colore rosso dà un vantaggio al sangue, il nostro sangue è rosso perché il migliore trasportatore è l’emoglobina che dentro ha il ferro, che ai nostri occhi appare rosso: il carattere “rosso” è un carattere di accompagnamento. 18 Il cervello e l’iPod Una caricatura di Darwin nei giornali satirici dell’epoca. La teoria si chiama della torta alla panna perché sulle cose che ci piacciono – un sacco di cose, che non nominerò perché orecchie indiscrete ci stanno ascoltando – si può dare una spiegazione di questo tipo. Perché ci piace la torta alla panna? Non è che ci piaccia la torta alla panna perché i nostri antenati che apprezzavano la panna vivevano più a lungo o si riproducevano di più, e quindi questo carattere è arrivato fino a noi. 19 Piccole conferenze per grandi incontri A noi piace la torta alla panna perché i nostri antenati che apprezzavano i cibi calorici se la cavavano meglio in carestia. Chi beveva latte beveva proteine, zuccheri, lipidi in quantità abbastanza equilibrata: quindi noi abbiamo sviluppato un gusto per il latte, per la panna, per le cose grasse che ci danno quel tipo di nutrimento lì. E altre per la frutta: si possono mettere le fragole sulla torta alla panna. Noi oggi, nel ventunesimo secolo, combiniamo questi caratteri biologici, praticamente li parassitiamo, e ci facciamo la torta alla panna. È sciocco chiedersi perché all’uomo piace la torta alla panna. Qualcuno dice che per la musica la questione è questa: a noi la musica piace come ci piace la torta alla panna. Non sarebbe nata di per sé, la musica, non sarebbe stata selezionata dalla biologia di per sé, ma sarebbe il prodotto collaterale della selezione di qualcosa che, essa sì, è risultata utile: il linguaggio. Allora le ipotesi sono tre: le prime due (selezione naturale e selezione sessuale) sono state già scartate, rimane questa della torta alla panna. Ma dobbiamo scartare anche questa, poiché l’ipotesi della torta alla panna muore lì, dice poco, e soprattutto non ci soddisfa. Tutti gli uomini, tutte le culture del mondo fanno musica, anche se noi, che siamo i “vincitori” di questo pianeta, tendiamo ad applicare le nostre categorie pure alle musiche degli altri e a dire che per esempio la Quinta di Beethoven è migliore di certe produzioni musicali magari africane o cinesi o sudamericane... (Tra parentesi, sul Voyager c’era anche della musica elettronica...!). Ma insomma, noi dobbiamo escludere anche questa ipotesi della torta alla panna perché non spiega l’incredibile varietà delle musiche che abbiamo: non spiega e non soddisfa. Per molti dei biologi che si occupano della cosa, la questio- 20 Il cervello e l’iPod ne rimane aperta. Come si fa a dire che una cosa così diffusa, così bella, che quasi tutti gli uomini (effettivamente non tutti) apprezzano e capiscono è solo una questione di panna sulla torta? Noi possiamo sentire una ninna nanna australiana e riconoscerla come ninna nanna; o sentire una musica spaventosa e capire che l’obiettivo di quella musica è proprio quella di spaventare. Le emozioni che ci dà la musica sono abbastanza universali: come il sorriso. Chiunque ce lo faccia, noi siamo in grado di capire che si tratta di un sorriso; comunque sia fatto, da dovunque venga, qualunque lingua parli chi ci sorride. E la musica ha questo effetto su di noi. Per tutto quanto detto l’ipotesi torta alla panna non ci soddisfa affatto. Ma allora come si fa a venirne a capo? Dicevo poco fa che musica e linguaggio hanno lo stesso canale: bocca e orecchie. Ma c’è qualcosa di diverso che entra nel discorso: il cervello. Una risposta nel cervello Una delle possibilità per cercare di capire come possediamo la musica è andare a vedere cosa succede nel cervello. Allora, se valesse l’ipotesi della torta alla panna, varrebbe la conclusione per cui la musica è un parassita del linguaggio: noi ci siamo sviluppati insieme al linguaggio, il linguaggio è proprio degli umani ed è stato selezionato dalla natura perché era vantaggioso per i nostri antenati ed è vantaggioso per noi, dunque la musica è andata a rimorchio del linguaggio, è un suo parassita. Per avvalorare tale ipotesi, a livello di cervello umano dovrei allora trovare che quello che fa la musica, quello che mi permette di capire e apprezzare la musica, si sovrappone a quello che mi permette di capire, apprezzare e 21 Piccole conferenze per grandi incontri utilizzare il linguaggio. Il cervello non è fatto da pezzi diversi, come si pensava qualche decennio fa. Non è composto di aree separate. È fatto come di circuiti, è fatto di tante cellule che come fili elettrici comunicano l’una con l’altra. Se i sentieri che fa il linguaggio nel nostro cervello si sovrappongono a quelli che percorre la musica, possiamo pensare che la musica se ne sia approfittata, che sia come la torta alla panna, che non sia nata così; e che noi poi siamo stati capaci di procurare piacere a noi stessi e a chi ci ascolta aggiungendo qualcosa a quei pezzi di cervello selezionati invece dalla biologia. Allora si tratta di studiare il cervello. Ma studiare il cervello è una cosa un po’ complicata, soprattutto quando si parla di funzioni complesse. Quando noi abbiamo a che fare con la musica, non utilizziamo soltanto i pezzi di cervello che ci permettono di muovere il corpo (si pensi al violinista che aziona le dita della sinistra e il gomito della destra per muovere l’archetto...), ma utilizziamo, ad esempio, anche pezzi di cervello relativi alla memoria; o specializzati nel riconoscimento della musica... Chiunque di noi abbia fatto un po’ di musica, quando sente un altro suonare si sofferma a pensare alla struttura della musica che ascolta, o al modo in cui essa viene eseguita... Poi vengono coinvolti pezzi di cervello più primitivi (nel senso che li possiedono anche gli altri animali, e se andiamo indietro nella nostra storia scopriremo che li abbiamo da molto tempo): quelli che riguardano le emozioni. Non mi sembra di dire niente di particolarmente sconvolgente affermando che la musica suscita emozioni. Il motivo per cui nei film ci sono le colonne sonore è quello: cosa che ci conferma l’idea che le emozioni suscitate da una unica musica siano più o meno le stesse per tutti. Nessuno di noi guarda Psycho e ride, o si commuove fino alle lacrime 22 Il cervello e l’iPod durante la scena dell’accoltellamento sotto la doccia. Se invertite la colonna sonora di un film di paura e ci mettete la colonna sonora di un film romantico non provate più tanta paura come prima; e viceversa se in questo film romantico ci mettono una colonna sonora da circo, non ci commuoviamo più per quella scena del primo bacio. Allora andiamo a vedere il cervello. Lo studio del cervello è complicato per tante ragioni, anche perché è un po’ difficile vederlo dal vivo... Oggi possediamo degli strumenti per studiarlo, un tempo si faceva in modo indiretto. Arrivava ad esempio, in un grande ospedale di fine Ottocento, un signore ammalato che sapeva dire soltanto “Tan tan tan tan tan...”. Trovava un grosso medico che si chiamava Paul Broca: siamo attorno agli anni ‘50 ’60 del secolo. Il medico prendeva appunti, seguiva questo paziente per anni e cercava di capire che cosa costui fosse in grado o non fosse in grado di fare. Quindi teneva una cartella clinica dettagliata. Poi il paziente “Tantan” moriva. Allora il famoso medico del 1860 poteva vederlo davvero, il cervello: faceva una cosa che si chiama autopsia, prendeva il cervello e andava a vedere dove si trovasse il danno. Nel caso del linguaggio, già nel 1860, con la storia di questo signor Paul Broca, si era visto che il linguaggio sta a sinistra. E si cominciò a dire: “ma allora stai a vedere che la musica sta a destra!” Per un sacco di tempo - per un secolo, diciamo - questa è stata l’idea principale. Anche perché all’epoca si pensava che il cervello fosse fatto come una cartina politica dell’Europa: qua c’è la Francia, qua la Germania, qui c’è il linguaggio, lì la simpatia... Le avrete viste anche voi quelle cartine che separano il cervello in parti diverse con funzioni diverse. 23 Piccole conferenze per grandi incontri Paul Broca (Sainte-Foy-la-Grande, 28 giugno 1824 – Parigi, 9 luglio 1880) Questo fatto che la musica si trovi a destra, in realtà non è del tutto falsa, anzi: è abbastanza vera. Oggi non serve aspettare che il signor “Tam” muoia e un grosso medico possa fargli l’autopsia; oggi abbiamo delle macchine attraverso le quali possiamo vedere cosa succede nel cervello delle persone viventi e in salute. Possiamo dunque studiare il cervello per fini sperimentali, non solo per curare la persona affetta da malattie, e possiamo vedere cosa succede nel cervello, che immaginiamo simile in tutti gli esseri umani. Oggi abbiamo visto che effettivamente la musica è separata dal linguaggio per tante delle sue peculiarità: cioè molte delle nostre capacità musicali sono situate a destra, mentre a sinistra si trova il linguaggio. Sono dunque funzioni separate. Eppure non basta per escludere l’ipotesi torta alla panna. Non basta perché questa separazione non è così netta. Ci sono delle funzioni che, infatti, appartengono a entrambe le capacità, come quella che si chiama sintassi: la funzione cioè che sovraintende al mettere insieme elementi diversi quando parliamo o quando suoniamo. Questa è abbastanza in comune fra musica e linguaggio, per cui sul cervello le 24 Il cervello e l’iPod cose un po’ si complicano: non dovete aspettarvi di trovare una cosa esclusivamente a destra e una cosa solo a sinistra. Ma la complicazione incredibile viene dal fatto che mentre noi tutti parliamo, non tutti suoniamo. Nella nostra cultura – non era così secoli fa, e non è così presso altre culture che, in questo senso forse sono più fortunate di noi – c’è chi si specializza e diventa un musicista, e c’è chi non si specializza e diventa un fruitore della musica. Il cervello delle persone è insomma abbastanza diverso. Esistono naturalmente anche degli stadi intermedi. Io per esempio ho studiato violino, e sino a dieci fa suonavo in un’orchestra come la vostra. Ancora adesso, se prendo in mano un violino, lo so suonare. Non lo faccio quasi mai, ma lo so fare. Lo faccio male: dovrei esercitarmi. Però io sono nel mezzo tra un musicista e un non musicista. E poi ci sono altri - tra di noi sono circa il cinque per cento, qui quindi ce ne possono essere una decina - che la musica proprio non la capiscono. Possono naturalmente far finta di capirla. Non hanno nessun handicap sociale: io sono convinta che anche mio padre sia così. Non c’è assolutamente nessun problema. Però costoro non sono soltanto stonati: hanno proprio grossissime difficoltà anche a capire cosa ci può essere di bello in una melodia senza parole. Essi, se va bene, diventano dei melomani, come mio padre. C’è gente che ascolta la lirica perché lì c’è la storia, ci son le parole; d’accordo, c’è anche la musica: ma c’è il libretto e un sacco di cose da immaginarsi, dietro quella storia lì... Queste faccende complicano tantissimo andar a vedere cosa succede nel cervello quando ascoltiamo la musica o quando parliamo. Attenzione però: sto parlando di ascoltare la musica, infatti produrre la musica è una faccenda molto diversa. E non sto nemmeno parlando di apprezzare la musica, 25 Piccole conferenze per grandi incontri perché, come dicevo prima, apprezzare la musica significa mettere in moto tanti pezzi di cervello, anche di quelli primitivi, quelli del piacere, quelli che ci dicono: “vai questa cosa devi farla perché fa bene a te o alla specie”, e potete immaginare in che caso ce lo dicano! Studi sperimentali Ad un certo punto - meno di un anno fa - questa cosa della musica a destra e del linguaggio a sinistra ha trovato una conferma molto interessante proprio qui in Italia. È stato studiato il cervello di bambini che avevano tra uno e tre giorni di vita: di bambini, dunque, che si suppone non avessero ancora visto Sanremo... Erano molto piccoli, questi bambini. E si può anche supporre che quello che essi facevano col loro cervello fosse simile a ciò che abbiamo fatto tutti quanti noi col nostro cervello nei primi giorni di vita, e che quindi la cosa sia generalizzabile, tanto da poter dire: “così fa l’essere umano”. Effettivamente questi bambini, quando ascoltavano la musica, presentavano un’attivazione del cervello a destra (ovviamente non quando la producevano, data l’età...), e mostravano di riconoscere – o perlomeno attivavano una zona diversa – quando nella musica venivano inserite delle stonature. Come dire: mostravano di possedere già una capacità di distinguere che quella era musica! Attenzione però: in questo caso, come dicevo prima, a complicare le cose si accendeva anche un po’ la parte sinistra del cervello. Musica e linguaggio, alla fine degli studi, non risultano perfettamente separati, la musica non è del tutto a destra e il linguaggio non è del tutto a sinistra. Comunque questa ricerca ci ha dato un buon contributo per sconfiggere l’ipotesi della torta alla panna: musica e linguaggio non percorrono esattamente le stesse strade, nel cervello. 26 Il cervello e l’iPod Vi volevo a questo punto far vedere una cosa, perché questi esperimenti sui bambini sono molto interessanti dal nostro punto di vista. Molto interessanti e molto particolari. È difficile chiedere a un bambino molto piccolo che cosa pensi, se riesce per esempio a riconoscere la risoluzione di un accordo, o chiedergli se gli è piaciuto quello che ha ascoltato. Ci sono dei sistemi sperimentali assai interessanti utilizzati dagli psicologi dell’evoluzione. I bambini, per esempio, girano la testa quando la loro attenzione è colpita da qualcosa; inoltre essi si soffermano spesso a guardare le cose: avete presente cosa fanno col ciuccio? Succhiano come disperati, poi si fermano, poi ricominciano a succhiare... E gli psicologi han dovuto escogitare dei sistemi che potessero sfruttare queste caratteristiche delle manifestazioni emotive dei bambini per poter cercare di sapere quanto effettivamente essi capiscano e come apprezzino la nostra musica da grandi. Anche in questo caso si trattava infatti della musica tonale occidentale: cioè di quella musica alla quale siamo tutti quanti abituati e che per le nostre orecchie, chiaramente, è “la migliore che ci sia”. Vi faccio vedere queste foto perché mi pare carino a questo punto rispondere a una domanda che può sorgere dentro ciascuno di noi “Ma i genitori lasciano i loro bambini nelle mani degli psicologi per fare questi esperimenti, che sembrano piuttosto “crudeli”, come lo è appunto il sentire una ninna nanna stonata?”. La risposta è che sì, li lasciano. E le cose avvengono in modo serissimo, secondo protocolli ben precisi2. Questi studi, come dicevo, vanno avanti da trent’anni; non so il genitore che abbiamo visto nel filmato, ma molti genitori sono stati a loro volta soggetti degli stessi esperimenti quando avevano l’età dei loro figli. 2. L’esperienza è tratta dal sito dell’università di Toronto. Vedi in http://www.utm.utoronto.ca/10264.0.html 27 Piccole conferenze per grandi incontri Questa è una cosa molto importante perché si capisce che non si tratta di una scelta peregrina, ma di una scelta che ha in un certo senso la sua storia: e tuttavia, in questi trent’anni, tanti perché non siamo ancora riusciti a spiegarli. Vi dicevo che la stessa cosa si può fare con gli animali, si può fare con le scimmie: infatti le scimmie ci assomigliano molto. Hanno una storia evolutiva che si è separata da noi circa sette milioni di anni fa, con buona approssimazione. Sette milioni di anni sono niente, sono veramente poco: il nostro DNA per il 98,5 per cento è ancora uguale al loro! Se dunque vogliamo vedere cosa sanno fare le scimmie, ci mettiamo in una sorta di macchina del tempo: nel senso che osserviamo come eravamo, o meglio come erano i nostri antenati in comune con loro. Come dire che io prendo mio cugino. Mio cugino ha i capelli ricci? Io ho i capelli lisci? Non posso dire com’era mio nonno! Ma se mio cugino ha gli occhi marroni e io ho gli occhi marroni, allora è probabile che il nonno avesse gli occhi marroni! Questo è il ragionamento che si fa quando si prendono le scimmie. Allora si dà alle scimmie la possibilità di scegliere tra due alternative: la scimmia può scegliere di ascoltare due suoni a intervallo di terza o due suoni a intervallo di semitono; oppure può scegliere tra i Beatles e un complesso havy metal... La scimmia può anche scegliere di non sentire niente: e in effetti se la scimmia può davvero scegliere, sceglie il silenzio, o comunque sceglie di andare dalla parte dove il volume è più basso. Sembra comunque che le scimmie apprezzino l’intervallo di ottava, quando cioè due suoni sono l’uno otto note distante dall’altro, un do e il do più alto... La nostra macchina del tempo ci dice che il nostro antenato comune, quello che ha vissuto sette milioni di anni fa, forse qualcosa di musicale sapeva fare, ma di certo la musica non l’apprezzava granché! 28 Il cervello e l’iPod Musica ed emozioni Quindi la musica è qualcosa di più recente. Essa è come il linguaggio: è qualcosa che fa parte della nostra umanità probabilmente da quando siamo uomini. E probabilmente è essa stessa che ci rende uomini... Ora io devo andare a conclusione, anche perché starebbe a voi parlare, ora. Per concludere vorrei però dire che a questo punto possiamo arrivare ad una serie di ipotesi. Non vi sconvolgo con queste ipotesi, perché le ipotesi sono un po’ cieche, però possiamo dire con più forza che forse la musica è una forma di comunicazione, come il linguaggio; poi possiamo affermare che forse non si è evoluta per il corteggiamento, che si sia sviluppata prima o insieme al linguaggio; sicuramente è un sistema di comunicazione, di comunicazione delle emozioni in maniera particolare: le colonne sonore, il fatto che tutti riconosciamo il carattere delle musiche indipendentemente da chi le suoni o da dove vengano... È un sistema di comunicazioni delle emozioni che però ci esercita anche alla socialità: io non ve ne ho parlato, ma tutti quanto conoscete le ninne nanne. E le ninne nanne sono dei sistemi musicali che tutti i bambini riconoscono. Anche i figli sordi di persone udenti. E tutti quanti, è inutile che lo neghiamo, ai bambini parliamo in quel certo modo, tutto moine, che ha molto in comune con la musica. Gli scienziati lo chiamano “mammese” (anche quando lo parlano i... babbi). Quindi l’ipotesi che la musica appartenga alla grande categoria dei sistemi di comunicazione, ma che abbia una dignità tutta sua - anche per il fatto che ci aiuta a comunicare le emozioni - diventa ancora più forte se vediamo che ci esercita a stare insieme. E non soltanto in orchestra: pensate per esempio ai cori dello stadio, o ai cori delle mondine, o agli inni nazionali: sono tutte musiche che si cantano insieme per sentirsi parte dello stesso gruppo: sono musiche 29 Piccole conferenze per grandi incontri che ci danno identità. I gruppi musicali che ascoltiamo ci rendono fan di qualcuno in particolare, ma ci definiscono anche chi siamo. Se io vado in giro a dire che non ascolto Arisa, vi racconto un po’ di me, probabilmente: capite un po’ della mia identità... Poi, oltre a esercitarci alla socialità e a fare da collante sociale, a definire la nostra identità, la musica fa anche qualcosa nel nostro cervello: ci esercita all’astrazione, probabilmente. Non sto dicendo che la musica renda più intelligenti: penso che questa sia una panzana assoluta! Però è vero che la musica è qualcosa di astratto che stimola il nostro cervello; gli dà piacere, senza il bisogno di qualcosa di concreto cui pensare, o da dover toccare, annusare... Però la scienza a questo punto si ferma. Quello che mi preme che voi capiate è che, se anche noi in questa mezzora non siamo stati in grado di dare una risposta alla domanda “Perché abbiamo la musica?”, e men che meno alla domanda Woodstock, 1969 30 Il cervello e l’iPod “Perché ci piace la musica?”, la scienza non ci potrà mai dire che una musica è migliore delle altre. In questo quadro che vi ho dipinto non esiste una musica migliore: tutte le musiche hanno uguale dignità. Se c’è qualcuno qui a cui piace Arisa, va benissimo! Non sarà certo la scienza a dirvi che c’è una musica migliore delle altre. Quello che la scienza vi può dire è perché, e come, e quando, e cosa succede nel nostro cervello e nel nostro corpo quando ascoltiamo la musica: e che tutto questo ha un senso, nella nostra biologia. Silvia Bencivelli, Portogruaro, 15 maggio 2010 31 DOMANDE Domande Andrea Ma la musica ha effetti diversi sul cervello se ascoltata dal vivo oppure con strumentazioni e apparecchiature meccaniche, tipo cuffie, altoparlanti, ecc.? Tu sei un intenditore, eh? Io penso che la differenza importante tra quando la musica la ascoltiamo dal vivo e quando la ascoltiamo registrata sia che quando la ascoltiamo dal vivo, la ascoltiamo tipicamente in compagnia. E quindi cambiano moltissime cose! Cambia il nostro modo di apprezzarla, le aspettative che ci mettiamo, cambia la nostra attenzione... Quando prima suonavate, io vi guardavo le dita... e cercavo di capire quale fosse per esempio il violino che faceva qualche pasticcio: non ci sono riuscita! Ma è più forte di me: io dal vivo guardo anche l’ “estetica” della musica, e trovavo per esempio particolarmente carini i percussionisti... bravi questi clarinetti che mi sono piaciuti un sacco! Bravi anche i violinisti, eh..., e i chitarristi: bravi tutti! 35 Piccole conferenze per grandi incontri Però secondo me la differenza più importante è quella che ho detto. Anche se è comunque difficile che riusciamo mai a venirne a capo con uno studio di tipo neuroscientifico, cioè con uno studio che investighi il nostro sistema nervoso, e in particolar modo mentre è in azione, non quando è inattivo. Quando utilizziamo queste macchine, per forza la musica deve essere registrata. Gli esperimenti sono fatti sugli esseri umani, su di noi, con delle macchine molto grandi, ferme in una stanza fatta apposta, tutta schermata: ti ci infilano dentro e ti fanno sentire della musica... È impossibile fare esperimenti del genere con musica dal vivo. Però quello che rende la musica dal vivo assolutamente diversa, assolutamente superiore rispetto ad un altro tipo di fruizione, è che tipicamente in questo caso siamo in tanti ad ascoltarla, magari la cantiamo insieme, come quando si va ai concerti negli stadi... Diventa un’esperienza globale... 36 Domande Davide Lei ha già risposto alla domanda che volevo farle. Ma la giro in questo modo: come mai i giornali, le riviste, nonostante la scienza non abbia confermato effetti miracolosi della musica sull’intelligenza, continuano a diffondere notizie in tal senso? Questa storia ve la racconto a brevi linee. Sinteticamente, dire che la musica rende più intelligenti è un modo per vendere più dischi, e per vendere certi tipi di dischi... Ma distinguiamo: fare musica o ascoltare musica? Fare la musica modifica il nostro cervello; però lo modifica nelle parti che servono a fare la musica! Se a te fare la musica non piace, non ti diverte, o per una qualche altra ragione proprio “non ti viene”, tu puoi migliorare il tuo cervello semplicemente crescendo, leggendo, stando con gli amici, andando con gli scout, giocando a scacchi...: ci sono mille modi per cui il nostro cervello cresce. Si dice che il cervello è plastico, come una palla di pongo: qualsiasi cosa si faccia, questa lo modella, lo modifica, lo rende più morbido... E comunque fare musica non è detto che non renda il cervello anche più “duro”: capita di incontrare dei musicisti molto stupidi; pensiamo per esempio alla musica degli ultimi trent’anni, o anche degli ultimi cinquanta: non sempre quelli che l’hanno fatta hanno poi fatto chissà quale strada... Certo fare musica cambia il nostro cervello, ma soltanto nelle parti che permettono di fare la musica: quasi come il cane che si morde la coda. Ascoltare la musica non rende più intelligenti: anche perché tutti ascoltiamo la musica. In metropolitana, a Roma, o al supermercato: lo facciamo da tutte le parti anche se non lo vogliamo fare! È un’esperienza molto diffusa, soprattutto oggi. Non lo era per i nostri nonni, che non avevano l’iPod..., ma oggi è la cosa più ovvia di questa terra. Tant’è che ci sono degli scienziati 37 Piccole conferenze per grandi incontri che danno a dei volontari un quadernino e costoro durante il giorno annotano tutto quello che sentono, compresi gli spot pubblicitari. È un lavoro infinito: non riuscirei mai a segnare tutte le cose che mi capita di sentire nel corso del giorno. E comunque questa cosa della musica che aumenta l’intelligenza è nata nel 1993 per colpa di due scienziati che hanno scritto un articolo su una importante rivista scientifica - che però ogni tanto prende delle grandi cantonate pure lei - nel quale si affermava che ascoltare una particolare sonata di Mozart rendeva i ragazzi più intelligenti in quel momento lì. Sono diciassette anni che gli scienziati smentiscono questo. Infatti si può dimostrare abbastanza chiaramente che se io ti faccio fare un test d’intelligenza e ti metto in una stanza tutta bianca, senza porte, senza niente, ti faccio magari aspettare anche mezz’ora insieme ad un’infermiera che, chissà, quel giorno lì non ha nessuna voglia di farti assistenza, tu il test non lo fai tanto bene! Se invece io lo stesso test, uguale, te lo faccio fare ma ti faccio ascoltare... Cosa ascolti? Cosa ti piace ascoltare? - Bach Tutto? Va bene: allora faccio ascoltare Arisa anche a te! Dunque: se ti faccio fare il test ascoltando una musica che ti piace, in un ambiente sereno, in presenza di qualcuno che conosci e che ti mette a tuo agio, tu quel test lo fai meglio! E comunque io ho sempre un po’ l’orticaria quando si parla di intelligenza e musica, perché trovo che sia un modo piuttosto scorretto di vedere lo sviluppo delle nostre personalità. Penso che la cosa più importante da sviluppare non sia l’intelligenza, ma la felicità. Poi la felicità si raggiunge anche con l’intelligenza, ma vuol dire fare le cose che a noi piace fare, nel modo in cui le condizioni che ci circondano ce lo permettono, senza danneggiare gli altri. Se poi vi piace la musica, come piace a me, avanti! Se 38 Domande vi piace il calcio... perché no? Non danneggiate gli altri, le condizioni di contorno ve lo permettono... Credo sia questo il nostro obiettivo, più o meno, nella vita... Anna Come mai gli uomini fanno musica e gli animali no? Beh... Lo sai che se noi fossimo una scuola di corvi, e io fossi un giornalista corvo, la domanda che il corvo Anna potrebbe fare sarebbe: “Come mai gli uomini non sanno, a due anni di distanza, trovare le ghiande in un bosco? (ciò che per il corvo è la cosa più normale di questa terra, mentre per gli esseri umani è difficilissimo, impensabile: io per esempio non so neanche trovare dove ho messo lo spazzolino da denti!). Noi facciamo musica perché siamo umani; e non facciamo tante altre cose perché siamo umani. È una caratteristica del nostro cervello - di noi che siamo umani e che abbiamo la scienza, che è una cosa umana - il fatto che sia plastico. Non che il cervello degli altri animali non lo sia. Il nostro cervello sa fare un sacco di cose, come questa, ma non ne sa fare tante altre. Ed è molto ingiusto, e pure molto miope (perché ci impedisce di vedere molte cose, anche nel nostro quotidiano), continuare a usare le nostre categorie e esportarle con violenza oltre la nostra specie. È un po’ quello che facciamo quando ci aspettiamo che tutti gli uomini siano uguali e poi scopriamo che c’è qualcuno che si discosta dalla norma, ma non fa danno a se stesso né agli altri: anzi, porta un po’ di fantasia e di colore al mondo. 39 Piccole conferenze per grandi incontri Giulia Vorrei sapere se durante gli esperimenti coi bambini, quando essi ascoltano una musica, si attivano le zone del cervello dove hanno sede le emozioni. Sì: brava! Anche se non avviene in tutti noi, perché in realtà non tutti gli uomini hanno lo stesso rapporto felice con la musica, negli esperimenti con i bambini quella parte si attivava, ed è quella parte antica di cervello che ci dà piacere e ci incoraggia a fare le cose che fanno molto bene a noi e fanno molto bene alla specie. Anche questo è un elemento che ci porta un po’ più lontani dalle cose di cui parlavamo. Per carità: quella parte si attiva anche quando facciamo cose che non servono a niente! Non vi posso qui far l’elenco, ma per esempio...: la droga... O la cioccolata! Il cioccolato non è una cosa che noi mangiamo perché ci faccia particolarmente bene. Però ci dà un piacere... Può diventare una vera e propria forma di dipendenza, come quella per la nicotina o per certe droghe, proprio perché va a stimolare questi centri, anche se ciò non vuol dire che il nostro gusto per il cioccolato si sia evoluto proprio per quello... Giulia E come si chiama questa zona del cervello? È quello che si chiama sistema limbico. È proprio un sistema, poiché è costituito di tanti pezzi che non è facile andare a vedere come e dove siano situati. 40 Domande Edoardo Ma gli animali riconoscono la musica in quanto tale o la riconoscono come qualcos’altro? Noi non potremo mai saperla, la risposta. Cos’è che noi definiamo “musica”? Il problema – che ho fatto finta di non considerare – è quello molto grosso della definizione che noi dobbiamo dare alle parole. Per fare lo stesso tipo di studio, scientifico, di qualsiasi cosa si stia parlando, dobbiamo definire le cose nello stesso modo. Se noi facciamo uno studio sull’ipertensione, che è la pressione alta del sangue, dobbiamo essere d’accordo su cosa definiamo ipertensione. Allora: se per musica intendi i suoni messi insieme in una maniera che a noi risultano gradevoli, anche soltanto gradevoli e niente affatto utili a qualche scopo, io direi che no, gli animali non la riconoscono come musica... Sono anche 41 Piccole conferenze per grandi incontri abbastanza infastiditi da quella che noi definiamo musica. Dopo di che i nostri animali, gli animali con cui cresciamo - cani, gatti - sanno riconoscere le nostre emozioni: generalmente sono contenti quando siamo contenti anche noi. Sono molto bravi a mettersi in comunicazione con noi, per cui probabilmente, imparano a capire che quella è una cosa che vuol dire,,, “serenità”? E allora anche a loro dà serenità! L’animale selvaggio non utilizza la musica come la utilizziamo noi. La nostra musica è, appunto, nostra: della nostra specie, non è detto che a loro dica granché. Del resto gli uccellini la utilizzano in maniera più simile a come noi utilizziamo le parole... 42 Domande Alessio Perché la musica ci può far cambiare emozioni? Ottima domanda: questa non è una cosa da poco. Se vai al supermercato e la musica non ti piace, sai che compri molto meno? Oppure: se vai al ristorante, e c’è la musica classica, e sei in compagnia di una persona che ti piace, questa persona ti piace ancora di più! Se c’è una musica dozzinale, un po’ volgare, ti senti un po’ in imbarazzo e te ne vai prima... Tu vuoi passare per una persona chic e la musica grossolana ti rovina l’incontro! È una questione molto importante, perché effettivamente la musica modula le nostre emozioni, e questo si può utilizzare a scopo commerciale. Non solo: le colonne sonore funzionano così. Funzionano proprio sulla base del fatto che siamo assolutamente d’accordo che una musica è triste o no. Sul perché? il perché è difficile dirlo! Sicuramente c’è qualcosa di innato, qualcosa che è presente in noi fin dalla nascita, che ci fa sentire quella musica allegra o triste in maniera... “oggettiva”: è così, e non se ne discute per niente. E poi c’è qualcosa di culturale: ci sono musiche che ti suonano allegre perché... Io trovo bellissime le musiche che sentivo quando facevo l’esame di maturità, perché erano le musiche di un’epoca particolare della mia vita. Poi un po’ di queste impressioni dipendono da come siamo cresciuti. Per esempio nella nostra cultura le scale maggiori sono associate a melodie più felici, le scale minori, siccome le troviamo inconcludenti, ci sembra che ci lascino un po’ di tristezza; le musiche più veloci sono più allegre, più vivaci, le musiche più lente sono più tristi. Questa è una schematizzazione che funziona quasi per tutte le culture, 43 Piccole conferenze per grandi incontri funziona molto bene per noi, e quindi noi le applichiamo a tutto quanto. Però, a proposito di questa cosa della cultura e delle emozioni, è abbastanza famoso l’aneddoto di quando, negli anni ’60, andava di moda la musica indiana e i nostri genitori facevano i raffinati ascoltando questa musica che in realtà non capivano. Ebbene, ci fu un concerto molto importante con un musicista che suonava il sithar e si chiamava Ravi Shankar. Costui all’inizio faceva quello che fanno tutti i musicisti: accordava lo strumento. Bene, come finisce di accordare il Sithar, tutti quanto giù ad applaudire, come degli scemi, senza neanche chiedersi cosa avesse fatto il musicista finora. Questo per dire che non siamo tanto in grado di capire le cose con cui non siamo cresciuti: forse ci vuole un po’ di umiltà, un po’ d’intelligenza, un po’ di attenzione ... Ravi Shankar concluse dicendo “Beh, se vi è piaciuta così tanto l’accordatura, immagino quanto vi piacerà il seguito!” 44 Per concludere... Ringraziamo davvero tantissimo la dottoressa Bencivelli per la chiarezza e la simpatia con cui ha saputo parlarci. L’ultima cosa che ha detto mi ha ricordato un film di Alberto Sordi, “Vacanze intelligenti”. Un esempio uguale e contrario, rispetto al suo: Albertone e moglie pensavano che i musicisti stessero ancora accordando, al festival di musica contemporanea di Venezia, invece erano nel bel mezzo del concerto. E giù tutti a zittirli, quei due che continuavano imperturbabili a chiacchierare del più e del meno! Per concludere, prima di dare la parola al direttore dell’Ufficio Scolastico Provinciale dottor Domenico Martino, che salutiamo, ancora una piccola osservazione. È vero che la scienza non potrà mai dirci che una musica è buona e l’altra è cattiva. Sarebbe troppo facile e perfino troppo comodo. Ma come è la cultura - la conoscenza - che ci permette di distinguere quando si può applaudire e quando no, sono ancora la cultura, la conoscenza, lo studio - cose che nella scuola dovrebbero circolare e diffondersi (e siamo qui proprio per questo!) – che ci permettono di distinguere forme e funzioni, adeguatezza e inadeguatezza, bello e brutto. Come c’è una letteratura d’evasione e una letteratura “alta”, c’è anche musica e musica. È la cultura che ci dà modo di riconoscerci come elementi di una società in cui certi valori, sicuramente mai assoluti e sempre in divenire, sono tuttavia costituitivi della nostra comune identità. 45 Cervello, udito, musica MATERIALI di approfondimento scelti e proposti da Daniele Dazzan e Daniela Grillo L’unico organo che studia se stesso Intervista di Marta Erba a Michael Gazzaniga È di gran lunga “l’oggetto” più complesso che esista in natura. Ma quanto lo conosciamo? Facciamo il punto con uno dei più grandi neuroscienziati. Michael Gazzaniga è uno dei neuroscienziati più noti al mondo. Oggi dirige il Sage Center per gli studi sulla mente a Santa Barbara (il cui motto è: “quando si comprende la mente si comprende la condizione umana”). Gli abbiamo chiesto di fare il punto delle nuove scoperte, e dei misteri ancora irrisolti, che riguardano l’organo più importante che abbiamo. Come ha cominciato a interessarsi alle neuroscienze? Quando ero al College lessi un articolo di Roger Sperry che descriveva come i nervi, durante lo sviluppo, crescano raggiungendo spontaneamente la loro destinazione. Rimasi affascinato all’idea e gli scrissi per sapere se potevo lavorare nel suo laboratorio. Mi rispose subito di sì. Quando arrivai, scoprii che non si stava occupando solo della crescita delle fibre nervose, ma stava cominciando a studiare il “cervello diviso” negli animali. Alla fine fu proprio questa ricerca che catturò la mia attenzione. Infatti lei e Roger Sperry, proprio studiando le persone prive dl corpo calloso (il fascio di fibre che connette le due 49 Piccole conferenze per grandi incontri metà del cervello), siete stati i primi al mondo a scoprire che i due emisferi hanno funzioni diverse. Ma c’è anche chi dice che questa sia una forzatura... Questa è in effetti la visione popolare, semplificata, di come funzionano le due metà del cervello. Sfortunatamente non è così semplice. Di sicuro i due emisferi hanno una loro specializzazione: il cervello sinistro è preposto al pensiero complesso mentre quello destro è più portato all’apprendimento visivo. Ci sono però molte situazioni in cui i due emisferi lavorano insieme per svolgere compiti mentali più articolati, per esempio quando devono dare valutazioni “morali”. Come fa, allora, un essere umano a costruirsi un senso morale? La costruzione dei valori comincia molto presto nel bambino. Ann e David Premark anni fa hanno dimostrato che i bambini di un anno preferiscono gli oggetti che sembrano “aiutare” un altro oggetto a perseguire un obiettivo piuttosto che oggetti che lo ostacolano. Anche se siamo portati a pensare che il senso morale derivi dall’esperienza e dall’insegnamento culturale, questo nuovo campo delle neuroscienze sociali sembra rivelare che molti dei nostri giudizi morali siano connaturati nel genere umano, a prescindere dall’età, dal sesso, dalla religione o dalla cultura. Tutti, -cioè, tendiamo a comportarci in un modo simile di fronte a situazioni specifiche, anche se poi diamo giustificazioni diverse. Ritiene positivo il fatto che le neuroscienze stiano “contaminando” campi del sapere che un tempo sembravano lontani, come la filosofia, l’economia, il marketing, l’etica, l’estetica, l’arte... Con l’esplosione delle conoscenze nel campo delle neuroscienze è naturale che chi si interessa di un certo argo- 50 Materiali mento che coinvolge la mente chieda un contributo ai neuroscienziati. In molti casi ottiene anche delle risposte. Detto questo, è anche vero che c’è molta “presunzione” tra i neuroscienziati, che tendono a credere di poter spiegare ogni cosa. Forse un giorno sarà così, oggi certamente no. Qual è la peculiarità del cervello umano rispetto agli altri animali? Le dimensioni della questione sono tante, ecco perché per fare il punto mi è servito un intero libro (Human, cit.). Sono partito esaminando gli aspetti unici del funzionamento del cervello umano, e ho cercato a poco a poco di capire da dove deriva il nostro senso di unità psicologica. Da qui discendono il nostro mondo sociale, il nostro senso degli altri e il nostro comportamento morale. In breve: ci sono un sacco di cose che ci rendono unici. Per esempio: anche un animale può provare empatia, ma non capirà mai la differenza tra il dispiacere e la pietà. Può riassumere che cosa pensa che sia ciò che chiamiamo “coscienza”? Una mole crescente di letteratura indica che la separazione delle funzioni cognitive in regioni specializzate è un aspetto fondamentale dell’organizzazione del cervello. Tuttavia la natura dei processi cognitivi fa pensare debba esserci da qualche parte una sorta di “centralina” che abbia invece le caratteristiche di unità e integrazione. Io ho sviluppato un modello secondo cui l’esperienza cosciente emerge dalle interazioni dinamiche tra aree specializzate attraverso una rete neurale distribuita. Ma è una faccenda molto complessa... Quando si indaga sulla coscienza, è inevitabile sollevare la questione del libero arbitrio. Alla luce delle sue conoscenze noi siamo in grado di influenzare le nostre scelte, o 51 Piccole conferenze per grandi incontri quella della libertà di scelta è solo un’illusione? Ecco il mio punto di vista: i cervelli sono determinati, ma le persone sono libere. Che cosa significa? Significa che noi definiamo la libertà come una funzione dell’interazione con gli altri esseri umani. La libertà è nelle dinamiche sociali, non nel cervello. Pensa che, prima o poi, avremo anche degli automi o dei computer coscienti? In linea teorica posso pensare che sia possibile. La mia sensazione, però, è che qualsiasi cosa saremo in grado di ottenere che possa assomigliare alla coscienza umana non sarà basata sugli stessi meccanismi del cervello biologico. Molto studiata oggi è la neuroplasticità e di conseguenza la possibilità di modificare il nostro cervello. Ritiene che sia possibile migliorare l’efficienza mentale attraverso esercizi specifici? Qualsiasi cosa richiede pratica. I musicisti si esercitano 6 ore al giorno per tutta la vita. Lo stesso vale per la semplice attività mentale. Ciascuno di noi deve tenere in allenamento il proprio vocabolario, le idee e le strategie di ragionamento, altrimenti prima o poi le perde. Ancora non si è compreso bene come funzionano questi meccanismi cerebrali, ma possiamo dire che è senz’altro vero che per una buona salute mentale bisogna tenere attivo il cervello. Ritiene che la schizofrenia, la malattia mentale che viene anche definita “pazzia”, abbia una componente biologica? La schizofrenia è un disturbo biologico del sistema nervoso. Non c’è dubbio riguardo a questo. Ci sono molte ipotesi sull’esatta natura del disturbo e un’analisi chiara e completa non è ancora disponibile. È però certo che coinvolge connessioni aberranti, anomalie dei neurotrasmettitori e altro. 52 Materiali Che cosa pensa invece della psicoanalisi? Ritiene che oggi sia superata? La psicoanalisi decisamente sì. La psicoterapia assolutamente no. Oltre che come scienziato, lei è noto come divulgatore. Che cosa la spinge a cercare di rendere accessibili al grande pubblico le sue scoperte e le sue conoscenze? Beh, non sono l’unico. In realtà tra noi scienziati sta passando il concetto che sia un nostro dovere rendere comprensibile quello che facciamo. Dopo tutto la gente paga per il nostro lavoro, e magari ha figli che stanno decidendo a che cosa dedicare la loro vita. Le nuove generazioni devono sapere che non c’è niente al mondo di così entusiasmante quanto la ricerca scientifica. Marta Erba (in: Focus Extra, n. 42, pagg. 6-9) Michael Gazzaniga, nato nel ’39 a Santa Barbara, in California, nipote di immigrati italiani, ha lavorato prima sotto la guida di Roger Sperry (premio nobel per la medicina nel 1981), con il quale ha compiuto importanti scoperte sulle differenze tra i due emisferi cerebrali studiando il cosiddetto split brain (cervello diviso). In seguito si è occupato di vari settori delle neuroscienze, tra cui l’etica e la coscienza. Ha pubblicato molti libri, tra cui La mente etica (Codice editore), L’interprete: come il cervello decodifica il mondo (Di Renzo editore) e Human: quel che ci rende unici (Cortina). Di recente ha partecipato in Italia al Festival della Scienza di Genova e alla prima edizione dell’evento 21 minuti – I saperi dell’eccellenza. 53 Come sopravvivere a un cocktail: l'udito di Sandra Aamodt - Sam Wang Spesso pensiamo che la vista sia il nostro senso più importante, ma forse l'udito è altrettanto essenziale. Per ovvie ragioni, la sordità rende difficile comunicare con gli altri. I sordi hanno affrontato questa sfida creando una forma di linguaggio propria, in cui si usano mani e occhi invece di bocca e orecchie. Le barriere comunicative tra udenti e non udenti sono così profonde che è nata una cultura specifica dei sordi. (Per esempio, nel film Figli di un Dio minore, la relazione tra una donna sorda e un insegnante udente della scuola in cui anche lei lavora è minacciata dalla fedeltà della ragazza alla comunità dei non udenti). È ancora piuttosto misterioso come faccia il cervello a identificare suoni complessi come il linguaggio, ma gli studiosi sanno parecchie cose su come percepiamo e localizziamo i segnali uditivi. Che tu stia ascoltando la musica, il canto degli uccelli o il chiacchiericcio a un cocktail, l'udito comincia con una serie di onde di pressione dell'aria che chiamiamo suono. Se potessimo vedere le onde provocate da una tonalità pura mentre si muovono nell'aria (nel mondo reale l'esempio più calzante sarebbe la nota di un flauto), sembrerebbero le increspature prodotte da un sasso lanciato in uno stagno. La densità delle increspature (chiamata frequenza) determina l’altezza del tono: distanze più brevi tra le onde pro- 55 Piccole conferenze per grandi incontri ducono suoni acuti, distanze più lunghe producono suoni gravi, e la loro ampiezza determina l’intensità sonora. Suoni più complicati, come il linguaggio, contengono frequenze multiple con diverse intensità mischiate insieme. L’orecchio esterno trasmette le onde sonore a un organo dell’orecchio interno che si chiama coclea («chiocciola», in latino, perché ha quella forma). La coclea contiene le cellule sensibili al suono, che sono collocate in fila su una lunga membrana attorcigliata. La pressione sonora sposta il fluido presente nell’orecchio, facendo vibrare la membrana in modi diversi a seconda delle frequenze sonore; la vibrazione attiva i sensori, chiamati cellule ciliate perché dalla loro sommità spunta un fascio di fibre sottili, simile alla cresta di un punk, il cui movimento trasforma il segnale vibratorio in un impulso elettrico, che viene interpretato da altri neuroni. Le cellule ciliate sono in grado di percepire movimenti della misura di un atomo e reagiscono molto in fretta (oltre ventimila volte al secondo). Le cellule ciliate collocate alla base della membrana cocleare percepiscono le frequenze più alte. Procedendo lungo la spirale verso l’altra estremità, le cellule ciliate diventano sensibili a frequenze sempre più basse (immagina la serie dei tasti di un pianoforte). Questa organizzazione forma una mappa di frequenza sonora registrata in molte delle aree cerebrali che reagiscono ai suoni. Le informazioni sonore provenienti dalle due orecchie vengono assemblate dai neuroni del tronco encefalico. In base a questo fatto, i medici possono diagnosticare le cause della perdita dell’udito, a seconda che essa si verifichi per un orecchio o per entrambi: dato che i neuroni nel cervello ricevono informazioni sonore da ambo le orecchie, se una parte del cervello addetta all’elaborazione dei suoni è danneggiata si riscontrano problemi di udito a entrambe le orecchie, se invece si hanno difficoltà a sentire solo da un orecchio, con ogni probabilità il danno riguarda l’orecchio 56 Materiali stesso o il nervo uditivo. La perdita dell’udito può essere causata anche da problemi meccanici che interferiscono con la trasmissione dei suoni provenienti dall’esterno dell’orecchio verso la coclea. Questo tipo di perdita dell’udito può essere curata con protesi acustiche, che amplificano i suoni in arrivo all’orecchio, mentre alla perdita di udito dovuta a darmi delle cellule ciliate si può ovviare soltanto con un impianto coclerare. Il cervello si prefigge due scopi principali riguardo alle informazioni sonore: localizzare il suono in modo che si possa guardare verso la fonte, e individuare di che tipo sia. Nessuna delle due operazioni è facile, ed esse vengono espletate in regioni diverse del cervello, perciò alcuni pazienti con lesioni cerebrali hanno difficoltà a localizzare i suoni ma non a identificarli, e viceversa. Le differenze tra il momento in cui i suoni arrivano all’orecchio destro e l’intensità con cui ci arrivano, rispetto a quando e come arrivano al sinistro, aiutano il cervello a stabilire da dove proviene un dato suono: i suoni provenienti da un punto di fronte a noi (o dietro a noi) arrivano all’orecchio sinistro e a quello destro esattamente nello stesso momento, invece quelli provenienti da destra arrivano all’orecchio destro prima che al sinistro, e così via. Analogamente i suoni (almeno quelli acuti) provenienti da destra tendono a essere un po’ più forti nell’orecchio destro e hanno un’intensità ridotta nell’orecchio sinistro, perché in mezzo c’è la testa (mentre i suoni gravi possono passarci sopra o intorno). Per localizzare i suoni gravi e medi ci basiamo sulle differenze tra i momenti in cui il suono arriva alle due orecchie, mentre per localizzare i suoni acuti ricorriamo alla differenza di intensità con cui le raggiungono. Quando il cervello lavora per individuare il contenuto di un suono, si concentra soprattutto sulla scoperta di segnali importanti per il comportamento. Molte aree cerebrali superiori rispondono nel miglior modo ai suoni complessi, 57 Piccole conferenze per grandi incontri che vanno da particolari combinazioni di frequenze alla sequenza temporale in cui compaiono i suoni associati a segnali di comunicazione specifici. Quasi tutti gli animali hanno neuroni specializzati per individuare i segnali sonori importanti per loro, tipo il canto per gli uccelli o gli echi per i pipistrelli. (I pipistrelli usano una specie di sonar per orientarsi, facendo rimbalzare i suoni sugli oggetti e valutando le velocità con cui ritornano.) Nell’uomo un carattere particolarmente importante dell’interpretazione sonora è il riconoscimento del linguaggio, e ci sono diverse aree del cervello destinate a questo processo. La capacità del cervello di riconoscere certi suoni cambia a seconda delle esperienze uditive individuali. Per esempio, i bambini piccoli riescono a riconoscere i suoni di tutte le lingue del mondo, ma verso i diciotto mesi cominciano a non saper più distinguere quelli non utilizzati nella loro lingua; è per questa ragione che, per esempio, la l e la r hanno lo stesso suono per chi parla giapponese: infatti, in giapponese non esiste distinzione tra queste due consonanti. Si potrebbe dedurne che dimentichiamo le distinzioni tra i suoni solo perché non ce ne serviamo, ma non è così: il tracciato elettrico dell’attività cerebrale dei poppanti (ottenuto applicando loro sulla pelle degli elettrodi) dimostra che, mentre imparano a riconoscere i suoni della loro lingua madre, il cervello si modifica. Quando cominciano a camminare, hanno una reazione più intensa ai suoni della loro lingua madre che ad altri. Al termine di questo processo, il cervello colloca automaticamente nelle sue categorie usuali tutti i suoni del linguaggio che percepisce: per esempio ha un modello di suono perfetto per la vocale o, e tutti i suoni abbastanza simili vengono interpretati come delle o, anche se magari sono costituiti da frequenze e intensità diverse Finché non si tenta di imparare una nuova lingua, questa specializzazione nella lingua madre è utile, poiché consente 58 Materiali di capire le diverse persone, anche quando parlano in ambienti rumorosi; infatti la stessa parola, pronunciata da due persone diverse, può contenere frequenze e intensità molto diverse, ma il cervello sente i suoni come se fossero più simili di quanto in realtà non siano, quindi gli diventa più facile riconoscere le parole. I software per il riconoscimento del linguaggio, invece, per funzionare hanno bisogno di un ambiente tranquillo, e incontrano difficoltà a riconoscere le parole pronunciate da più di una persona, perché si basano sulle mere proprietà fisiche dei suoni linguistici. Questo è un altro settore in cui il cervello funziona meglio di un computer; e se vuoi la nostra opinione, i computer non riusciranno a stupirci fino a quando non cominceranno a creare culture e linguaggi propri. Sandra Aamodt - Sam Wang Il tuo cervello. Istruzioni per l’uso e la manutenzione, Mondadori, Milano, 2008, pagg. 69-76 Sandra Aamodt, dopo aver conseguito il dottorato in meuroscienze alla Rochester University e svolto attività di ricercatrice presso la Yale University, dal 2003 è direttore di Nature Neuroscienze, una delle più importanti riviste internazionali di neuroscienze, di cui è stata cofondatrice. Sam Wang, professore associato di neuroscienze e biologia molecolare alla Princeton University, è autore di numerosi articoli sul cervello pubblicati dalle più prestigiose riviste del settore, fra cui Nature Neuroscienze, Nature e Proceedings of the National Academy of Sciences. 59 Requiem per l’effetto Mozart di Bruna Pelucchi Realtà scientifica o mistificazione dei media? Nuovi studi riportano in una dimensione più realistica gli effetti della musica. "Che la musica influenzi l'umore è cosa nota. Meno risaputo è che la musica possa agire direttamente sull'organismo modificando il nostro stato emotivo, fisico e mentale. Questo fenomeno - chiamato effetto Mozart - non si verifica solo ascoltando le sinfonie del grande Amadeus, ma anche i canti gregoriani, un certo tipo di jazz e di pop, i ritmi sudamericani, le armonie new age e persino un po’ di sano e robusto rock'n'roll." Queste citazioni sono prese dalla presentazione all’edizione italiana del libro di Don Campbell Effetto Mozart. Dello stesso autore sono in vendita numerosi cd che l’autore pubblicizza affermando: "Le vostre orecchie, la vostra voce e il vostro repertorio musicale sono il più potente strumento di cura a vostra disposizione". Le potenzialità terapeutiche della musica ci vengono insomma presentate come un dato certo ed acquisito, una realtà scientifica. Ma è davvero così? Ripercorriamo insieme la storia del cosiddetto Effetto Mozart e scopriremo un’interessante miscela di dati scientifici, distorsioni mediatiche ed interessi commerciali. 61 Piccole conferenze per grandi incontri I fatti Le origini del cosiddetto "Effetto Mozart" vanno fatte risalire all’otorinolaringoiatra e psicologo francese Alfred A. Tomatis (1920 – 2001), che nel libro del 1991 Pourquoi Mozart? descrive la sua pluridecennale esperienza di musicoterapeuta nel trattamento di una ampio ventaglio di disturbi dello sviluppo, dall’autismo alla sindrome di Down. Con una tecnica riabilitativa chiamata "metodo Tomatis", e basata sull’utilizzo della musica del compositore viennese, si sarebbero ottenuti importanti successi terapeutici dei quali non è però possibile trovare riscontro nella letteratura scientifica internazionale. L’attenzione della stampa e del grande pubblico si risvegliò tuttavia soltanto nel 1993 a seguito della pubblicazione su Nature di un articolo di Frances Rauscher, violoncellista e psicologa, ora all’università di Whoshoa (Wisconsin), e di Gordon Shaw, fisico dell’Università’ di Irvin (California). Gli autori riferivano un transitorio aumento dei punteggi in alcuni particolari test d’intelligenza a seguito dell’ascolto dell’Allegro con spirito dalla Sonata in Re maggiore per due pianoforti K448 di Mozart. I dati sperimentali originali si riferivano ad un campione di 36 studenti universitari ai quali era stato fatto ascoltare, per una decina di minuti, il brano musicale. Dopo l’ascolto gli studenti mostravano un miglioramento modesto, 8-9 punti sulla scala Stanford-Binet, uno dei più utilizzati sistema di misura del IQ (quoziente di intelligenza). Tale aumento durava solo per 10-15 minuti ed era limitato alle abilità visuo-spaziali. In pratica agli studenti veniva mostrato il disegno di un foglio di carta ripiegato più volte su sé stesso e sul quale venivano indicate delle linee di taglio. Era poi richiesto di scegliere, tra quattro figure, quella che più realisticamente rappresentava come sarebbe appar- 62 Materiali so il foglio una volta riaperto. Mentre molti gruppi di ricerca indipendenti, salvo sporadiche eccezioni, fallivano nel tentativo di replicare il dato originale della Rauscher, la ricercatrice pubblicava nuovi lavori secondo cui lezioni di piano e canto erano significativamente più efficaci delle lezioni di computer nel migliorare le abilità di ragionamento astratto dei bambini. Inoltre, sempre secondo la Rauscher, l’ascolto della musica di Mozart in ratte gravide migliorava la capacità della prole di orientarsi nei labirinti sperimentali. L’ultimo dato suscitò più di una perplessità dato che l’autrice non sembrava aver tenuto conto che, in relazione alla limitata trasmissione dei suoni attraverso l’utero ed alla diversa sensibilità uditiva dei topi, una grossa componente del brano musicale non potesse in realtà essere percepita dai feti. Senza contare che, mentre nella specie umana l’orecchio raggiunge la maturità funzionale attorno all’ultimo trimestre della gravidanza, i ratti nascono, oltre che ciechi, sordi. Le critiche della comunità scientifica si concretizzarono in particolare con l’uscita nel 1999 di due lavori di Christopher F. Chabris e Kenneth M. Steele et al., pubblicati insieme su Nature sotto il titolo di Prelude or Requiem for the 'Mozart Effect'? Il primo autore, attraverso una meta-analisi sui 16 lavori pubblicati fino ad allora dalle riviste scientifiche, dimostrava che l’effetto non era statisticamente significativo. Steel, per contro, comunicava l’impossibilità sua e di altri due laboratori indipendenti di riprodurre il dato pur avendo seguito fedelmente la procedura della ricercatrice. Poco male, ribatteva la Rauscher nella sua replica: solo perché a qualcuno l’impasto del pane non cresce, non vuol dire che l’ "effetto lievito" non esista. Quello che risultava poco convincente del lavoro della Rauscher del 1993 era, oltre alla mancanza di riproducibilità del dato, la spiegazione artificiosa ed aleatoria fornita 63 Piccole conferenze per grandi incontri dagli autori, che proponevano che l’ascolto passivo della musica mozartiana, per sue non ben precisate peculiari caratteristiche, fosse in grado di attivare un pattern di scarica neuronale virtualmente identico a quello attivato dall’esecuzione di compiti visuo-spaziali, nonostante fra questi due tipi di attività cerebrale non esista alcuna ovvia relazione. Secondo il cosiddetto principio del rasoio di Occam, per spiegare un fenomeno non dovrebbero essere fatte più assunzioni di quelle strettamente necessarie. Nel metodo scientifico solo quando l’ipotesi più parsimoniosa si sia dimostrata insufficiente a descrivere i fatti si può pensare di passare ad una teoria più complessa. Anche accettando l’esistenza dell’effetto Mozart esiste un’ipotesi più semplice dell’improbabile sincronismo tra neuroni e pianoforte: la teoria del "enjoyment arousal", secondo cui uno stimolo piacevole, che per alcuni può essere Mozart ma per altri il rap o la banda del paese, determina uno stato emozionale positivo che rende il soggetto temporaneamente più ricettivo ed efficiente. Alcuni autori hanno ad esempio riscontrato lo stesso effetto a seguito dell’ascolto di un brano tratto da un libro di Stephen King. In particolare, nel 1996, la ricercatrice Susan Hallam dell’Università di Londra testò oltre 8000 bimbi inglesi tra i dieci e gli undici anni. Con la collaborazione della BBC ed il coinvolgimento di numerose scuole elementari, i bambini vennero divisi in tre gruppi che ascoltarono in contemporanea brani di Mozart, della musica pop (tra cui i Blur, un gruppo molto popolare in Inghilterra in quegli anni) o un narratore che descriveva l’esperimento. I risultati mostrarono che i bambini che avevano ascoltato Mozart non ottenevano punteggi significativamente superiori agli altri. La mancata replica dell’effetto Mozart fu comunicata immediatamente dalla BBC. Poiché lo scopo originario del lavoro era di verificare la 64 Materiali superiorità della musica del compositore viennese l’analisi di quei dati non proseguì oltre. Tuttavia nel 2005, considerando l’unicità di un campione così numeroso, Glenn Schellenberg, dell’Univesità di Toronto (Canada), e Susan Hallam rianalizzarono insieme i dati. Coerentemente con la teoria del risveglio dell’attenzione e con le preferenze musicali di quella fascia di età, ci si rese conto che in realtà i bambini che erano riusciti meglio nella risoluzione del compito visuo-spaziale erano quelli che avevano ascoltato la musica pop. Insomma … nessun "effetto Mozart" ma invece un "effetto Blur". La leggenda Successivamente alla pubblicazione dei lavori della Rauscher i media, interpretando superficialmente i dati oggettivi e non prestando attenzione al dibattito scientifico in corso, instillarono nel grande pubblico l’idea che bastasse ascoltare Mozart per diventare più intelligenti. Un po' come quando da giovani studenti si mette il libro sotto al cuscino nella speranza, la mattina dopo, di sapere la lezione. Come spesso accade, le informazioni riscuotono tanto più interesse quanto più rispondono alle ansie dell’opinione pubblica e l’Effetto Mozart trovò terreno fertile nella diffusa preoccupazione presente negli USA circa l’inadeguatezza dell’istruzione primaria. Adrian Bangerter, uno psicologo dell’Università di Neuchâtel, ha pubblicato nel 2004 un interessante studio sociologico sull’argomento, esaminando accuratamente gli articoli usciti sulla stampa internazionale. Questa analisi ha evidenziato come, con il passare del tempo, l’Effetto Mozart venisse sempre meno associato al campione originale, gli studenti del college, e sempre più ai bambini, per i quali la Rauscher non aveva mai pubblicato dati relativi all’ascolto passivo, ma solo in relazione ad un programma di educazione musicale. 65 Piccole conferenze per grandi incontri In particolare è sorprendente come in molti articoli comparisse un’associazione tra effetto Mozart e neonati, nonostante non fossero mai apparsi in letteratura dati al riguardo, escludendo i già citati e dubbi esperimenti sulle ratte gravide. A fronte di un effetto modesto, transitorio, circoscritto a specifiche abilità visuo-spaziali e praticamente non replicabile, il Governatore della Georgia nel 1998 ritenne che ci fossero sufficienti basi razionali per investire denaro nella distribuzione gratuita dei cd di musica classica a tutti i nuovi nati, mentre in Florida veniva avviato nel 1999 un programma di ascolto quotidiano di musica classica nelle scuole pubbliche. Il business Nella sua replica all’articolo di Chabris e Steele del 1999 la stessa Rauscher ammetteva che i suoi dati erano stati ampiamente distorti dei media e negava di aver mai sostenuto che ascoltare Mozart aumentasse l’intelligenza. Queste puntualizzazioni non hanno comunque impedito a Shaw and Rauscher di aderire al M.I.N.D. (Music Intelligence Neural Development Institute) che, tra l’altro, si occupa della vendita di libri, cd e software sull’argomento. Colui che comunque ha fatto dell’Effetto Mozart un vero e proprio business è stato Don Campbell che, registrato il marchio 'The Mozart Effect' ha largamente esagerato e distorto il lavoro originale di Rauscher e Shaw, attribuendo alla musica di Mozart proprietà taumaturgiche ed avviando un fiorente mercato di libri e cd. Educazione musicale ed intelligenza È facile comprendere che esiste una chiara differenza tra l’ascolto passivo di musica classica, fulcro del lavoro originale della Rauscher, ed gli effetti di una sistematica educazione musicale. 66 Materiali Quest’ultima richiede periodi prolungati di attenzione, una pratica quotidiana, l’apprendimento di una complessa simbologia, la memorizzazione di ampi passaggi musicali, ed inoltre, specie nella musica strumentale, la progressiva padronanza di raffinate abilità motorie. Questo, specie se avviene nell’infanzia, un periodo di grande plasticità neuronale, può influenzare significativamente lo sviluppo cognitivo del bambino. Tuttavia non possiamo assumere a priori che l’insegnamento di uno strumento musicale sia di per sé più efficace di un corso di informatica di base o di una lingua straniera, sebbene per alcuni bambini probabilmente possa essere più divertente. Vari studi hanno verificato un legame tra partecipazione a corsi di musica in età prescolare e IQ. Tuttavia una correlazione tra due eventi non implica di per sé un rapporto di causa ed effetto. Probabilmente sarebbe possibile verificare nella popolazione degli Stati Uniti una correlazione tra la presenza di una lavastoviglie in una casa e lo stato generale di buona salute dei bambini che vi vivono, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che sia la lavastoviglie la causa del miglioramento del benessere fisico, a parte forse ad una ditta che produce elettrodomestici. Più semplicemente una famiglia con un buon tenore di vita, in grado di permettersi tra l’altro una lavastoviglie, può anche garantire ai propri figli adeguate cure mediche ed una alimentazione equilibrata. Nel caso dell’educazione musicale la spiegazione più parsimoniosa è che i bambini che hanno maggiori probabilità di ricevere lezioni di musica siano anche quelli provenienti da famiglie benestanti, ed è noto che esiste una correlazione positiva tra reddito, livello di istruzione e IQ dei genitori. Per ovviare a questo problema il gruppo di ricerca del Prof. Schellenberg ha selezionato un campione di 144 bam- 67 Piccole conferenze per grandi incontri bini di sei anni, avendo cura di garantire la più varia provenienza etnica, culturale ed economica. I bambini sono stati divisi a caso in 4 gruppi e sono stati sottoposti ad un test di intelligenza prima dell’inizio dell’anno scolastico. Ad un primo gruppo sono state fornite lezioni settimanali gratuite di canto secondo il metodo Kodàly, ad un secondo di tastiera, ad un terzo di drammatizzazione e ad un quarto gruppo nessuna lezione. Il metodo Kodàly è un sistema di insegnamento del canto basato su una tecnica non convenzionale che prevede anche una componente gestuale. Si tratta, in un certo qual modo, di un’istruzione a metà strada tra la musica e la recitazione. Dopo un anno si è ripetuto il test di intelligenza. I bambini che avevano ricevuto le lezioni di musica, sommando i dati dei gruppi relativi a canto e tastiera, mostravano un piccolo ma significativo incremento nell’IQ. Tuttavia i bambini che avevano seguito le lezioni di teatro mostravano, rispetti agli altri gruppi, un significativo miglioramento nelle competenze sociali. Conclusioni Dobbiamo quindi correre ad iscrivere i nostri figli ad un corso di musica? Perché no! Di certo ne risulteranno arricchiti. Ma non aspettiamoci di ritrovare un piccolo Einstein al nostro tavolo. È in corso di stampa un articolo del Prof. Kenneth Steel della Appalachian State University (North Carolina) che getta alcune ombre sul risultato di Schellemberg. La principale obiezione riguarda la procedura statistica utilizzata per l’analisi dei dati. Se le performance dei bambini vengono analizzate confrontando ciascun gruppo separatamente, come sarebbe più ovvio fare, anziché mettere insieme gli effetti del metodo Kodàly e del corso di tastiera da una lato, e quelle di drammatizzazione e l’assenza di lezioni, dall’altro, le diffe- 68 Materiali renze tra i trattamenti non sono più significative. In pratica l’accusa è quella di aver scelto a posteriori la procedura statistica che portava al risultato voluto. Per un bambino di sei anni, un anno è un arco di tempo molto lungo nel quale andrà incontro ad un’importante maturazione intellettuale e fisica semplicemente perché sta crescendo. A questo si sommerà il contributo dell’istruzione scolastica, di eventuali attività sportive, ecc. Ogni arricchimento aggiuntivo dato dalle lezioni di musica, se pure presente, potrebbe essere così modesto da perdersi nel generale miglioramento cognitivo, sfuggendo alla rilevazione sperimentale. Godiamoci quindi l’ascolto di un brano di Mozart, ben venga un incremento dell’attenzione all’educazione musicale nei curricula scolastici, ma non aspettiamoci di guarire da una malattia o di diventare improvvisamente studenti più brillanti. Nelle scienze, la strada che porta a trasformare una teoria scientifica in un dato acquisito è lunga e complessa. Le procedure sperimentali seguite devono essere condivise con la comunità degli scienziati, validate secondo criteri condivisi e replicate da laboratori indipendenti. Ogni spiegazione teorica deve poter prevedere una serie di esperimenti che la dimostrino o la confutino. Insomma, facciamo attenzione: solo perché un’affermazione parte da una fonte 'autorevole' (carta stampata, ambienti accademici, libri di testo) non vuol dire che la dobbiamo prendere per verità assoluta. Bruna Pelucchi in: Le Scienze Web News, http://www.lswn.it/ 69 Piccole conferenze per grandi incontri Bibliografia CHABRIS C. ET AL. Prelude or requiem for the Mozart effect, Nature, 200, 1999, pp. 826-828. HETLAND L. , Listening to music enhances spatial temporal performance: evidence from the Mozart effect, J. Aesthetic. Edu. 34, 2000, pp. 105-148. RAUSCHER FH ET AL., Listening to Mozart enhances spatial-temporal reasoning: towards a neurophysiologycal basis., Neurosci. Lett. 185, 1995, pp. 44-47. RAUSCHER FH ET AL. Music and spatial task performance, Nature, 365, 1993, p. 611. RAUSCHER FH, ROBINSON KD, JENS JJ.,Improved maze learning through early music exposure in rats, Neurol Res. 20(5), 1998, pp. 427-32. RAUSCHER FH, SHAW GL, LEVINE LJ, WRIGHT EL, DENNIS WR, NEWCOMB RL., Music training causes long-term enhancement of preschool children's spatial-temporal reasoning, Neurol Res.,19(1), 1997, pp. 2-8. SCHELLENBERG EG ET AL., Music listening and cognitive abilities in 10- and 11-years old: the Blur effect, Ann. N.Y. Acad. Sci., 1060, 2005, pp. 202–209. SCHELLENBERG E.G., Music lessons enhance IQ, Psychol. Science 15(8), 2004, pp. 511-514. STEELE, K., BASS, K. E CROOK, M., The Mystery of the Mozart Effect: Failure to replicate, Psychological Science, 10(4),1999. STEELE, K. M., Do rats show a Mozart effect? Music Perception, 21, 2003, pp. 251-265. STEELE, K. M., Unconvincing evidence that rats show a Mozart effect. Music Perception, 23, 2006, pp. 455-458. STEELE, K. M., Do music lessons enhance IQ? A Reanalysis of Schellenberg, The Scientif. Rev. Mental Health Pract., 4(2), 2006. THOMPSON W.F. ET AL. Arousal, mood and the Mozart effect, Psychol. Sci 12, pp. 248-251. BANGERTER A. 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STEELE - RESEARCH www.acs.appstate.edu/~kms/research/Steele.htm (sito del Prof. Kenneth Steele, uno dei più attivi critici dei lavori sull’effetto Mozart); MOZART EFFECT - THE SKEPTIC’S DICTIONARY http://skepdic.com/mozart.html; THE SCIENTIFIC REVIEW OF MENTAL HEALTH PRACTICE www.srmhp.org (sito della rivista "The Scientific Review of Mental Health Practice"? il cui scopo dichiarato è quello di marcare il confine tra i lavori supportati da evidenza scientifiche da quelli che invece non lo sono nelle discipline psicologiche, psichiatriche e sociologiche); NEUROSCIENCE FOR KIDS - THE MUSICAL BRAIN http://faculty.washington.edu/chudler/music.html (sito di divulgazione scientifica gestito dalla Università di Washington in cui si parla, tra l’altro, dell’effetto Mozart). Bruna Pelucchi è ricercatrice del Dipartimento di Biologia dell’Università di Ferrara. Attualmente è ospite del Waisman Center, UW-Madison (Wisconsin) dove sta sviluppando un progetto di ricerca sull’apprendimento statistico nei bambini. Precedentemente si è occupata di neurofisiologia cellulare applicando le tecniche dell’elettrofisiologia classica e del patch clamp. Ha insegnato fisiologia generale ed applicata presso le facoltà di Scienze e di Medicina e, precedentemente all’entrata in servizio nell’università di Ferrara, ha a lungo lavorato nella Scuola Superiore come docente di Chimica. Si è laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche nel 1988 presso l’Università di Ferrara, dove ha anche conseguito il Dottorato in Neurobiologia e Neurofisiologia nel 1994. E’ nata nel 1963 a Ferrara ed ha due figli. 71 Un fulmine a ciel sereno: musicofilia improvvisa Oliver Sacks, Musicofilia Un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipa all’incontro organizzato da un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: tutti appaiono in preda a tic contagiosi, che si propagano «come onde». Poi il batterista inizia a suonare - e come per incanto il gruppo lo segue con i tamburi, fondendosi in una perfetta sincronia ritmica. Questo stupefacente esempio è solo una particolare variante del prodigio di «neurogamia» che si verifica ogniqualvolta il nostro sistema nervoso ‘si sposa’ a quello di chi ci sta accanto attraverso il medium della musica. Presentando questo e molti altri casi con la consueta capacità di immedesimazione, in Musicofilia Sacks esplora la straordinaria robustezza neurale della musica e i suoi nessi con le funzioni e disfunzioni del cervello. Allucinazioni sonore, amusia, disarmonia, epilessia musicogena: da quali inceppi nella connessione a due vie fra sensi e cervello sono causate? Come sempre l’indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: l’orecchio assoluto, la memoria fonografica, l’intelligenza musicale e soprattutto l’amore per la musica - un amore che può divampare all’improvviso, come nel memorabile caso del medico che, colpito da un fulmine, viene assalito da un «insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte», suonare e persino comporre. Grazie alle testimonianze dei pazienti di Sacks ci troviamo così a riconsiderare in una nuova prospettiva appassionanti interrogativi, e assistiamo ai successi della musicoterapia su formidabili banchi di prova quali l’autismo, il Parkinson, la demenza. Dai misteriosi sogni musicali che ispirarono Berlioz, Wagner e Stravinskij, alla possibile amusia di Nabokov, alla riscoperta dell’ «enorme importanza, spesso sottostimata, di avere due orecchie»: ogni storia cui Sacks dà voce illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono. 73 Piccole conferenze per grandi incontri «Una tale inclinazione per la musica traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Questa “rnusicofilia” è un dato di fatto della natura umana. Può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò nondimeno, è così profondamente radicata nella nostra natura da imporci di considerarla innata, proprio come Edward O. Wilson considera innata la “biofilia”, il nostro sentimento verso gli altri esseri viventi. (Forse la stessa musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva)». A quarantadue anni, Tony Cicoria era un uomo robusto e in ottima forma; giocatore di football ai tempi del college, era diventato uno stimato chirurgo ortopedico in una cittadina nella parte settentrionale dello Stato di New York. In un pomeriggio d’autunno, si trovava in un padiglione sulle rive di un lago per una riunione di famiglia. Era una bella giornata ventosa, ma lui fece caso, in lontananza, ad alcune nubi temporalesche. Aveva tutta l’aria di voler piovere. Uscito dal padiglione si diresse a un telefono pubblico per chiamare sua madre (era il 1994, prima dell’era dei cellulari). Ricorda ancora ogni secondo di ciò che accadde poi: «Stavo parlando con mia madre al telefono. Pioveva appena, si sentiva tuonare in lontananza. Mia madre riattaccò. Il telefono era a una trentina di centimetri da dove mi trovavo io, quando fui colpito. Ricordo un lampo di luce uscire dall’apparecchio. Mi prese in pieno viso. La prima cosa che ricordo, subito dopo, è che stavo volando all’indietro ». «Poi» e qui sembrò esitare prima di raccontarmelo «stavo volando in avanti. Stupefatto. Mi guardai intorno. Vidi il mio corpo per terra. Dissi a me stesso: “Accidenti, sono morto”. Vidi della gente radunarsi convergendo intorno al corpo. E vidi una donna - una che prima era in piedi proprio dietro di me, in attesa che io liberassi il telefono - mettersi sopra al corpo e praticargli una manovra di rianimazione ... Salii fluttuando le scale, e la coscienza mi venne dietro; vidi i miei figli ed ebbi la percezione che sarebbero stati bene. Poi mi ritrovai 74 Materiali circondato da una luce bianco-azzurra ... una sensazione di enorme benessere e di pace. Vidi scorrere velocissimi, vicino a me, i momenti migliori della mia vita e quelli peggiori. Non erano associati ad alcuna emozione ... puro pensiero: estasi pura. Ebbi la percezione di accelerare, di essere attirato verso l’alto ... percepii velocità e direzione. Poi, mentre stavo dicendo a me stesso: “Questa è la sensazione più splendida che abbia mai provato” - PAM! Ero tornato ». Il dottor Cicoria capì di essere tornato nel suo corpo perché sentì dolore - il dolore causato dalle bruciature al volto e al piede sinistro, dove la scarica elettrica era entrata e uscita - e, si rese conto, «solo un corpo prova dolore». Voleva tornare indietro, pensava, voleva dire a quella donna di smetterla con la rianimazione, di lasciarlo morire; ma ormai era troppo tardi: era stabilmente tornato fra i vivi. Dopo uno o due minuti, quando riuscì a parlare, disse: «Va tutto bene, sono un medico I ». La donna (emerse in seguito che faceva l’infermiera in una unità di terapia intensiva) replicò: «Qualche minuto fa non andava bene per niente ». Arrivò la polizia; volevano chiamare un’ambulanza, ma Cicoria rifiutò, farneticando. Così lo portarono a casa (<< mi sembrò di impiegarci ore»), da dove poté chiamare il suo medico, un cardiologo. Questi, visitandolo, pensò che Cicoria avesse avuto un breve arresto cardiaco, ma non riuscì a trovare nulla fuori posto, né a un esame obiettivo, né facendogli un ECG. «In questi casi, o vivi o muori» osservò. Pensava che il dottor Cicoria non avrebbe patito alcuna conseguenza per quel bizzarro incidente. Cicoria consultò anche un neurologo: si sentiva indolente (cosa estremamente insolita per lui) e aveva qualche problema di memoria. Gli capitava di dimenticare nomi di persone che conosceva bene. Fu sottoposto a un esame neurologico; gli fecero un EEG e una risonanza magnetica. Ancora una volta, sembrava non ci fosse nulla fuori posto. Un paio di settimane dopo, ritrovate le energie, il dottor 75 Piccole conferenze per grandi incontri Cicoria tornò al lavoro. Aveva ancora qualche problema con la memoria - capitava che dimenticasse il nome di malattie rare o di procedure operatorie; tutte le abilità chirurgiche, però, erano intatte. Scomparsi nell’arco di altre due settimane i problemi di memoria, Cicoria pensò che ormai la faccenda fosse definitivamente chiusa. Ciò che accadde poi lo riempie di meraviglia ancora oggi, a distanza di dodici anni. Quando in apparenza la vita era ormai tornata alla norma, «all’improvviso, nell’arco di due o tre giorni, mi venne un insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte ». Era proprio una cosa senza precedenti. Da bambino, mi disse, aveva preso qualche lezione di piano, «ma senza alcun reale interesse ». Non aveva un pianoforte in casa. Quella che ascoltava di solito era musica rock. Spinto da questo improvviso, intenso desiderio di musica per pianoforte, Cicoria cominciò ad acquistare dischi e si innamorò in modo particolare di un’incisione di Vladimir Askenazi, Chopin Favorites: la Polacca «Militare», lo Studio « Vento d’inverno », lo Studio «Sui tasti neri», la Polacca in la bemolle e lo Scherzo in si bemolle minore. «Mi piacevano tutti moltissimo» mi spiegò Tony. «Volevo suonarli io. Ordinai tutti gli spartiti. A questo punto, una delle nostre baby-sitter ci chiese il permesso di portare il suo pianoforte da noi; cosi, proprio nel ~omento in cui ne desideravo immensamente uno, ecco che mi arrivava uno strumento: un piccolo piano verticale, molto bello. Per me era perfetto. Leggevo appena la musica, a malapena riuscivo a suonare, ma cominciai a imparare da autodidatta». Erano passati più di trent’anni da quelle poche lezioni prese da bambino, e le sue dita parevano rigide e legate. E poi, subito dopo questo improvviso desiderio di pianoforte, Cicoria cominciò a sentirsi suonare in testa della musica. «La prima volta» mi disse «fu in sogno. Ero su un palco, con uno smoking addosso; stavo suonando, qualcosa che avevo scritto io. Mi svegliai stupito, e la musica era an- 76 Materiali cora lì, nella mia testa. Saltai giù dal letto, e cercai di metter nero su bianco tutto quello che riuscivo a ricordare. Ma non sapevo da che parte cominciare per scrivere con le note ciò che sentivo ». Il tentativo non riuscì molto bene: prima di allora, non aveva mai cercato di scrivere della musica usando la notazione. Adesso, però, ogni volta che sedeva al piano per lavorare su Chopin, ecco che subentrava la sua musica: «affiorava e mi assorbiva completamente. Era una presenza prepotente ». Proprio non sapeva che cosa pensare di questa musica perentoria che si insinuava in lui in modo quasi irresistibile, sopraffacendolo. Erano forse delle allucinazioni musicali? No, disse il dottor Cicoria, non erano allucinazioni: «ispirazione» era una parola più appropriata. La musica era là, in lui, nel profondo - o comunque da qualche parte - e tutto quello che lui doveva fare era lasciare che gli venisse incontro. «È come una frequenza, una banda radio. Se io mi apro, lei arriva. Insomma, intendo che “viene dal cielo”, come diceva Mozart». La sua musica è incessante: «Non si esaurisce mai» continuò Cicoria. «Quanto meno, sono io che devo spegnerla» . Ora Cicoria doveva combattere non solo per imparare a suonare Chopin, ma anche per dar forma alla musica che gli scorreva continuamente in testa, provare a suonarla al piano, fissarla sulla carta. «Era una lotta terribile» mi disse. «Mi alzavo alle quattro di mattina e suonavo finché non andavo al lavoro; e quando tornavo a casa, me ne stavo al piano tutta la sera. Mia moglie non era certo contenta. Ero come posseduto». Nel terzo mese dall’incidente, Cicoria (che un tempo era stato un tipo socievole, tutto casa e famiglia, quasi indifferente alla musica) si ritrovò cosi ispirato, addirittura posseduto, dalla sua nuova passione che quasi non trovava il tempo di fare altro. Gli venne in mente che forse era stato «salvato» per un motivo particolare. «Arrivai a pensare» mi raccontò «che la musica fosse l’unica ragione per la quale mi era stato 77 Piccole conferenze per grandi incontri concesso di sopravvivere». Gli chiesi del suo rapporto con la religione prima dell’incontro con il fulmine. Aveva ricevuto un’ educazione cattolica, mi disse, ma non era mai stato troppo osservante: oltre tutto , aveva qualche credenza «non proprio ortodossa», per esempio la reincarnazione. Era giunto a convincersi di essere lui stesso protagonista di una sorta di reincarnazione: aveva subìto una metamorfosi e ricevuto un dono speciale, una missione - quella di «sintonizzarsi» sulla musica che lui chiamava, solo per metà metaforicamente, «la musica venuta dal cielo ». Spesso, essa si presentava come un «torrente assoluto» di note senza interruzioni fra una e l’altra - senza pause - e toccava a lui dar loro un contorno e una forma. (Mentre mi raccontava questo, mi venne in mente Caedmon, il poeta anglosassone del settimo secolo, un pastore ‘analfabeta che si diceva avesse ricevuto 1’«arte del canto» in sogno, una notte, e che aveva passato il resto della vita tessendo le lodi di Dio e del creato nei suoi inni e nelle sue poesie). Cicoria continuò a lavorare alla tecnica del pianoforte e alla composizione. Acquistò libri sulla notazione musicale e subito si rese conto di aver bisogno di un maestro. Andava ai concerti tenuti dai suoi esecutori preferiti, ma non aveva nulla a che fare con i circoli musicali della sua città o con le attività musicali che vi si svolgevano. La sua era una ricerca solitaria, qualcosa fra lui e la sua illusa. Gli chiesi se avesse sperimentato altri cambiamenti dal giorno in cui era stato colpito dal fulmine: un nuovo apprezzamento dell’arte, forse, oppure gusti diversi nella lettura, o nuove credenze. Cicoria mi disse che dopo quella sua esperienza di quasi-morte era diventato «molto spirituale »: aveva cominciato a leggere tutti i libri che era riuscito a trovare sulle esperienze di quasi-morte o sulle persone colpite dai fulmini. Inoltre, si era fatto «un’intera biblioteca su Tesla» e aveva raccolto qualsiasi cosa riguardasse il potere, meraviglioso e terribile, dell’elettricità ad alto voltaggio. Era con- 78 Materiali vinto di riuscire a vedere, a volte, «aure» di luce o di energia intorno al corpo delle persone: una cosa che non gli era mai capitata prima di essere colpito dal fulmine. Passarono alcuni anni e, nella sua nuova vita, Cicoria non perse mai l’ispirazione, nemmeno per un momento. Continuò a lavorare a tempo pieno come chirurgo, ma il suo cuore e la sua mente erano ormai concentrati sulla musica. Nello stesso anno del suo divorzio, il 2004, ebbe uno spaventoso incidente in motocicletta, del quale non conservò alcun ricordo. La sua Harley fu tamponata da un altro veicolo e lui, incosciente e ferito in modo grave, fu ritrovato in un fosso con le ossa rotte, la milza spappolata, un polmone perforato, contusioni cardiache e, nonostante il casco, un trauma cranico. A dispetto di tutto questo, guarì completamente e in capo a due mesi era di nuovo al lavoro. Né l’incidente, né il trauma cranico e nemmeno il divorzio sembravano aver scalfito la sua passione per l’esecuzione musicale e la composizione. Oliver Sacks Musicofilia Adelphi, Milano 2008, pagg. 21-26 Oliver Sacks (1933), laureatosi presso il Queen’s College di Oxford, è oggi titolare della cattedra di Neurologia presso l’Università di Los Angeles (UCLA). Nei suoi libri, Sacks descrive i casi clinici concentrandosi non soltanto sulle descrizioni scientifiche delle patologie ma anche e soprattutto sull’esperienza personale dei pazienti. Molti dei casi che racconta sono incurabili, ed il tema principale del racconto è quello dei diversi modi in cui le persone si adattano alle loro diverse disabilità. Nell’ottica di Sacks, tuttavia, l’adattamento non è passivo e giunge a modificare sostanzialmente la stessa base patologica. La concezione di Sacks infatti postula l’unità delle strutture nervose, per cui una funzione danneggiata in una certa area, può essere vicariata e in parte corretta dall’uso di altre aree. Tipico il caso dell’afasico che riesce a parlare cantando o del discinetico che si muove alla perfezione se accompagnato da musica. Tema trasversale alla sua trattazione è quello della “romantic science”, ovvero la necessità di promuovere una scienza ed una clinica che non si dimentichino mai la fondamentale attenzione alla “dimensione umanistica” che le dovrebbe sempre guidare. 79 La canzone del primo amore da L’accordatore di piano, di Daniel Mason Edgar Drake, stimato accordatore di pianoforti nella Londra vittoriana, riceve un giorno una bizzarra richiesta dal ministero della Guerra britannico: accordare un pregiato pianoforte a coda Érard consegnato a un eccentrico medico dell’esercito a capo di un remoto avamposto nel cuore della giungla birmana, il maggiore medico Anthony Carroll. È l’inizio di una lunga e appassionante odissea, che porterà Drake a migliaia di chilometri dalla sua vita, in un mondo dalle tinte vivaci, apparentemente così semplice e aperto, in realtà indecifrabile e traditore. Sulle rive dell’impetuoso fiume Salween Drake uscirà sconvolto dall’incontro con il sogno ambiguo e visionario di quest’uomo e soprattutto dall’incontro con la Birmania, un luogo più tenebroso e fatale di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Dov’ero rimasto? Ah, sì, Carroll si infila nella giungla con una scorta, una decina di soldati al massimo, è lui a non volerne di più, dice che non è una spedizione militare, ebbene, spedizione militare o no, prima ancora di arrivare a destinazione vengono assaliti, stanno attraversando una radura e all'improvviso si sente sibilare una freccia che si conficca in un albero proprio sopra la sua testa. I soldati si nascondono nei cespugli e caricano i fucili, ma Carroll rimane in piedi in mezzo alla radura, matto da legare, ve lo dico io, solo, ma calmo, calmissimo, così calmo da far invidia a un giocatore di poker, e un’altra freccia gli sfiora il casco. Che pazzo! Puoi ben dirlo, e lui cosa fa? Diccelo, Jackson. Sì, dillo, non tenerci sulle spine. Va bene, va bene, 81 Piccole conferenze per grandi incontri ve lo dico, lui cosa fa? Quel disgraziato si toglie il casco, ci ha legato un piccolo flauto che si diverte a suonare mentre marcia, e per l'appunto si mette a suonare. È pazzo, credetemi! Completamente andato! Mi lasciate finire? Sì, va’ avanti, va’ avanti, finisci ‘sta benedetta storia! Carroll si mette a suonare, e cosa suona? Dio salvi la Regina? Sbagliato, Murphy. La figlia del taglialegna? «Sei sempre il solito, Stephens, lo scusi, signor Drake, scusate, ragazzi, insomma Carroll si mette a suonare una canzone stranissima che nessuno ha mai sentito, un motivetto bizzarro, un mio amico era nella scorta, me l'ha raccontato lui, non aveva mai sentito quella canzone in vita sua, era semplicissima, una ventina di note in tutto. Poi Carroll si ferma e si guarda intorno, i suoi uomini sono ancora inginocchiati fra i cespugli con il fucile imbracciato, pronti a sparare se vola una mosca, ma non succede nulla, silenzio, e allora Carroll suona di nuovo il motivetto. Niente, neanche un cinguettio, non arrivano più frecce, e Carroll suona di nuovo, e da dietro gli alberi si sente un fischiettare sommesso, è lo stesso motivetto, e questa volta, quando la canzone finisce, Carroll non si ferma ma la ripete, ed ecco che tutti quei pazzi si mettono a cantare insieme, Carroll e i suoi assalitori, e i soldati li sentono ridere nella foresta, ma la vegetazione è fitta e non si vede niente. Alla fine Carroll si ferma e fa cenno ai suoi uomini di alzarsi e di uscire dai loro nascondigli, loro hanno una paura maledetta, come potete immaginare, ma si rimettono in sella e riprendono la marcia, e gli assalitori non si fanno più vedere, anche se il soldato che mi ha raccontato questa storia dice che continuarono a sentirli per tutto il tragitto, loro erano là, li proteggevano, proteggevano Carroll, ed è così che Carroll attraversa uno dei territori più insidiosi dell'Impero senza sparare un colpo, e arriva a Mae Lwin, dove il capo locale li sta già aspettando, ha fatto preparare del riso e delle pietanze al curry, e dà loro ospitalità, e dopo tre giorni passati a parlamentare, Carroll annuncia ai suoi 82 Materiali uomini che il capo ha dato il permesso di costruire un fortino in cambio della protezione dai dacoit1 e della promessa di un piccolo ospedale. E di altra musica. Si fece silenzio. Anche il più loquace dei soldati era rimasto senza parole. «Che canzone era?» chiese Edgar. «Eh?» «La canzone. Che canzone era quella che suonò Carroll col suo flauto?» «Ah, sì... una canzone d’amore shan2. Quando un giovane shan corteggia una ragazza, canta sempre la stessa canzone. Un motivo semplicissimo, ma il risultato fu miracoloso. L’amico che mi ha raccontato questa storia mi ha spiegato perché: secondo Carroll nessuno può uccidere un uomo dopo averlo sentito suonare la canzone che gli ricorda il suo primo amore. «Incredibile.» Qualcuno ridacchiò. I soldati tacevano, assorti. «Ci sono altre storie?» chiese Edgar. «Su, Carroll? Caspita, signor Drake, ce ne sarebbero tante.» Il soldato fissò il bicchiere quasi vuoto. «Domani, forse. Adesso sono stanco. Il viaggio è ancora lungo. Avremo tutto il tempo di raccontarci storie, prima che arriviamo a Mondalay.» Daniel Mason L’accordatore di piano Mondadori, Milano 2003, pagg. 126-127 Dacoit: rapinatori (da daka, “rapinare”), banditi. Shan: gruppo etnico del sud-est dell’Asia: vive soprattutto nello Stato Shan, in Birmania e nelle zone confinanti della Cina, Thailandia, Cambogia e Vietnam. 1 2 83 Incontri ravvicinati del terzo tipo Steven Spielberg, 1977 Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind) è un film di fantascienza del 1977 diretto e sceneggiato da Steven Spielberg, nel quale viene narrato un possibile primo contatto tra l’umanità ed entità extraterrestri. Il film racconta lo straordinario incontro ravvicinato attraverso una narrazione molto semplice, quasi favolistica, con il classico lieto fine. Lo stesso Steven Spielberg al termine delle riprese aveva commentato: «Volevo che Incontri ravvicinati del terzo tipo fosse una storia molto semplice, vissuta da una persona qualunque, che doveva essere testimone di un evento straordinario, un’esperienza sconvolgente e ossessionante, di quelle che cambiano completamente la vita». Una delle peculiarità del film è proprio il lieto fine, gli alieni infatti non vengono per conquistare e distruggere, ma vengono in pace, ribaltando così un’immagine classica del cinema di fantascienza postbellico. Trama Alcuni fenomeni misteriosi si verificano in alcune località del continente americano. A Mencie, Indiana, capitano strani avvenimenti anche nella casa della giovane vedova Jillin Guiler. Frattanto Roy Neary parte per verificare le cause di una caduta nella tensione elettrica: ma scorge un UFO e per poco non investe il piccolo Barry, figlio della vedova, che è uscito di casa attratto da un arcano richiamo Assieme ad altre persone convenute sul luogo, Roy e la madre del piccolo vedono tre UFO in volo. Rientrato a casa, l’uomo informa dell’accaduto la moglie, che non gli crede. Indipendentemente dalla sua stessa volontà, Roy prende a 85 Piccole conferenze per grandi incontri plasmare la forma di una montagna con qualsiasi materiale gli capiti sottomano. Infine è licenziato. La moglie lo lascia. Frattanto lo scienziato Claude Lacombe spiega ai colleghi il principio di un alfabeto musicale, che corrisponde ad alcuni suoni “celesti”, e ripetuti da una popolazione dell’India del nord. Gli ufologi inviano un messaggio mediante le note, ottenendo una risposta. Il piccolo Barry è rapito da una forza aliena. Roy scopre che la montagna delle sue ossessioni è la Torre del diavolo, nel Wyoming: si reca sul posto e vi incontra Jillian Guiler, alla ricerca del figlio. I due capiscono che lo sfollamento della montagna da parte delle autorità è giustificato con un pretesto. Riescono a fuggire, inseguiti, e giungono nel luogo dove gli scienziati si preparano al rendez-vous del terzo tipo con gli extraterrestri. Quando gli UFO arrivano si fa uso delle comunicazione musicale già sperimentata. Una grande astronave atterra: ne escono persone già scomparse in circostanze inesplicabili. Tra loro, Barry. Roy, spinto da un impulso irresistibile, avanza ed è circondato da piccoli alieni amichevoli. Lo aggregano ai componenti della missione di pace che parte a bordo dell’astronave. Assieme a Star Wars di Gorge Lucas, il film è all’origine del massiccio revival americano del cinema fantastico. Il costo è stimato intorno ai venti milioni di dollari. Tributo alla ricchezza della ordinaria immaginazione umana, il film è un po’ la sintesi dell’ingegno fantastico-realistico di Spielberg. La passione per gli effetti speciali (tra i più complessi realizzati a quella data) e il sentimento dell’ignoto sono congiunti nella formula narrativa che il regista predilige: “gente normale in condizioni straordinarie”. Si tratta di una sorta di rispetto per l’arcano che trascende la paranoia e il melodramma usuali nel genere fantascientifico. I personaggi preferiscono il contatto diretto piuttosto che le versioni 86 Materiali ufficiali della realtà. Spielberg manifesta un’attenzione particolare per le reazioni umane, assumendo talora toni surreali senza mai rinunciare, però, al realismo del dettaglio quotidiano. All’apparato narrativo fiabesco si sovrappone una strumentazione sonoro-visiva-effettistica tra le più sbalorditive che la tecnica cinematografica abbia mai sperimentato. Una versione un po’ più ampliata è stata fatta circolare nel 1981 (tratto da: Franco La Polla, Steven Spielberg, in Il castoro cinema, La Nuova Italia, maggio - giugno 1982) La melodia Nel film, gli extraterrestri mandano un messaggio costituito da una sequenza di cinque note (in realtà si tratta di sole quattro note, una delle quali ripetuta all’ottava: dunque non è tecnicamente una scala pentatonica). Tale sequenza è stata scritta da John Williams, su diretta indicazione di Spielberg. In realtà Williams voleva utilizzare una melodia con almeno sette note, ma Spielberg volle categoricamente una sequenza di sole 5 note, che fosse possibile considerare come equivalente musicale della parola inglese Hello (Ciao). Nella scena appare un grande sintetizzatore modulare ARP 2500, nella realtà la musica proviene dall’orchestra di John Williams. Le note che compongono la sequenza sono: sol4-la4-fa4-fa3-do4: & œ œ œ œ œJ In un’altro momento del film, dopo aver sentito cantare la sequenza di suoni nella scena ambientata a Dharamsala, in India, il personaggio di Lacombe osserva: «Mais c’est la guerre pentatonique... cinq notes au lieu de sept!» («Ma è la guerra pentatonica... cinque note invece di sette!»). 87 Piccole conferenze per grandi incontri Una sequenza di note simile viene descritta come emessa da un disco volante durante un avvistamento documentato nel libro La verità sui dischi volanti di Frank Edwards, pubblicato nel 1969. La stessa musica è citata nel film Agente 007 - Moonraker - Operazione spazio, allorquando James Bond compone i cinque numeri del codice per entrare in un laboratorio a Venezia, e anche all’inizio dell’esibizione live dei Daft Punk durante il tour Alive 2007, a simboleggiare l’incontro tra alieni (i Daft Punk si travestono notoriamente da robot) e umani (il pubblico)1. 1 Cfr. Incontri ravvicinati del terzo tipo in Wikipedia, l’enciclopedia libera. 88 SOMMARIO Piccole conferenze per grandi incontri Un progetto per la scuola Silvia Bencivelli 5 7 9 Avvio Il cervello e l’iPod Selezione naturale Selezione sessuale La teoria della torta alla panna Una risposta nel cervello Studi sperimentali Musica ed emozioni 11 13 15 16 18 21 26 29 Domande Per concludere... 33 45 Cervello, udito, musica/Materiali 47 L’unico organo che studia se stesso intervista di Marta Erba a Michael Gazzaniga 49 Come sopravvivere a un cocktail: l'udito di Sandra Aamodt - Sam Wang 55 Requiem per l’effetto Mozart di Bruna Pelucchi 61 Un fulmine a ciel sereno: musicofilia improvvisa di Oliver Sacks 73 La canzone del primo amore di Daniel Mason (da L’accordatore di piano) 81 Incontri ravvicinati del terzo tipo di Franco La Polla 85