piccole conferenze
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Il cervello e l’iPod
piccola conferenza con
Silvia Bencivelli
© 2010 Scuola Bertolini Portogruaro
Area della ricerca metodologico/didattica
Trascrizione della conferenza
e progetto grafico della pubblicazione
a cura di Daniele Dazzan
Scelta dei materiali di approfondimento:
Daniele Dazzan e Daniela Grillo
Piccole conferenze
per grandi incontri
Non un “festival della filosofia” o della matematica in piccolo
(e tuttavia non sono estranee le recenti sollecitazioni della Philosophy for children), ma un “festival” della scuola che incontra
Grandi Maestri, disponibili a far circolare dentro la scuola stessa
le loro idee e capaci di rivolgersi a un pubblico di ragazzi.
Una proposta culturale nata dentro la scuola, non preconfezionata all’esterno di essa: gli insegnanti restano i proponenti,
i coordinatori, gli artefici dell’iniziativa, e mettono in circolo le
loro competenze disciplinari e il loro impegno transdisciplinare
per la ricostruzione della rete di relazioni che coinvolge il mondo
della conoscenza.
La collocazione delle “Piccole conferenze” nel Teatro Comunale Luigi Russolo, reso disponibile dall’Amministrazione di Portogruaro, sottolinea la partecipazione convinta dell’istituzione
pubblica a un progetto di rivisitazione critica dei saperi tradizionali e di approfondimento dei nuovi saperi emergenti: il teatro
della città si conferma teatro delle idee e luogo di incontro tra
scuola e società civile.
La compartecipazione di Coop Consumatori Nordest al progetto
si configura, infine, come ulteriore presenza significativa nella
positiva, sinergica “triangolazione” delle forze vive messe in gioco, tutte interessate alla crescita culturale e alla costruzione del
benessere collettivo: il mondo della scuola, l’amministrazione
pubblica, il mondo del lavoro e della produzione.
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Un progetto per la scuola
Credo che questo incontro sulla musica e il cervello costituisca
il modo migliore per inaugurare il progetto “Piccole conferenze
per grandi incontri” e per dare il benvenuto ai nostri ospiti: il
dott. Domenico Martino, direttore dell’ufficio scolastico provinciale di Venezia e di Belluno; la relatrice dott.ssa Silvia Bencivelli,
autrice tra l’altro del libro “Perché ci piace la Musica” a cui si ispira
il titolo dell’incontro di oggi; il neo eletto assessore alla cultura dott. Ivo Simonella, in rappresentanza del Comune di Portogruaro, partner del progetto; il signor Agostino Serra, vice presidente distrettuale di Coop Consumatori Nordest, pure partner
dell’iniziativa; il prof. Daniele Dazzan, docente di musica della
nostra scuola, ideatore e curatore del progetto.
Per una serie fortuita di circostanze, ci troviamo ad inaugurare questa iniziativa proprio con un incontro che ha per protagonista la musica: ebbene, la musica nella nostra scuola riveste
da sempre un ruolo di primo piano. Da più di vent’anni è infatti attiva la sezione a indirizzo musicale del corso M la quale,
da quest’anno, si è raddoppiata nel corso C: un grazie davvero
sentito, a questo proposito, va al Dott. Martino, presente tra noi,
che sappiamo sensibile a questi temi e che si è prodigato generosamente per la scuola di Portogruaro. Ma ha compiuto ormai
cinque anni pure l’Orchestra di Istituto, che conta non solo sugli
alunni ed ex alunni dei corsi musicali, ma anche su ragazzi provenienti dalle varie classi e sedi dell’Istituto che studiano privatamente uno strumento, ed è per tutti motivo di orgoglio: non
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solo per i risultati che individualmente e in gruppo gli alunni
ogni anno ottengono a livello nazionale (sono appena tornati dal
concorso nazionale di Bologna dove hanno fatto incetta di primi
premi, tra cui numerosi primi premi assoluti), ma perché contribuisce ad esemplificare e testimoniare molte delle riflessioni che
penso potranno emergere anche quest’oggi sul senso, sul valore
e sul significato della musica.
Il progetto che oggi ci prestiamo ad inaugurare ha lo scopo
di far incontrare i nostri alunni con le idee di Grandi Maestri
contemporanei per far crescere in loro, da subito, il desiderio di
ricercare e discernere il meglio, nel grande mercato culturale o
pseudo culturale del mondo che ci circonda, per diventare adulti dal palato raffinato.
Perché agli adolescenti piace così tanto la musica? Perché guardiamo
con distacco e sospetto il diverso? Perché fatichiamo a rispettare le regole?
Sono i primi temi che abbiamo messo in programma, a cui
contiamo di aggiungerne molti altri e per i quali abbiamo già
avuto la disponibilità oltre che della dott.ssa Bencivelli, che ringraziamo di cuore, della scrittrice Antonia Arslan, del magistrato
Gherardo Colombo, del linguista e glottologo Andrea Moro...
Noi, insieme alla città di Portogruaro, all’USP di Venezia e alla
Coop Consumatori Nordest abbiamo voluto credere in questa
iniziativa e speriamo vivamente che il tempo possa darci ragione.
Daniela Giovanna Villotta, Dirigente scolastico
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Silvia Bencivelli
Nata il 20 luglio del 1977, è cresciuta a Pisa.
Nel luglio del 2002 si è laureata con lode in medicina e chirurgia
all’Università di Pisa e nel novembre del 2004 ha conseguito con lode
il Master in comunicazione della scienza alla Sissa di Trieste.
Oggi fa la giornalista scientifica e vive a Roma.
Ha cominciato questo mestiere lavorando nella sede romana dell’agenzia Zadig, dove ha scritto lanci di agenzia e articoli per quotidiani e
riviste e ha avuto modo di seguire alcuni progetti editoriali, in particolar modo quelli di scolastica.
Nell’agosto 2005 ha cominciato a lavorare nella redazione di Radio3
Scienza, dove si trova tuttora.
Intanto ha fatto altri mille lavori: giornalista, addetto stampa, consulente editoriale, traduttrice, moderatrice... e così via.
Ha scritto due libri, tradotti anche per il pubblico francese, e ne ha
messi in cantiere almeno altri due.
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Avvio
a cura di Daniele Dazzan
D’accordo con la dottoressa Bencivelli, abbiamo pensato di
dare inizio a questo primo appuntamento con uno spezzone cinematografico tratto da Incontri ravvicinati del terzo tipo, un
film degli anni Settanta in cui si ipotizza l’arrivo di un’astronave
aliena sulla terra. Bene: il primo contatto tra terrestri e alieni
avviene attraverso la proposta di un codice musicale. Ingenuità
dell’autore del copione? Ingenuità del regista? Plausibilità scientifica dell’ipotesi o totale improbabilità della trovata?
L’idea non sembra del tutto peregrina. Nella sonda Voyager,
lanciata nel 1977 nello spazio cosmico - come la classica bottiglia
del naufrago sull’isola deserta (dove l’avrà trovata la bottiglia,
nell’isola deserta?) - i tecnici della NASA hanno pensato di poter
includere un disco d’oro contenente suoni e immagini della vita
sulla Terra (e, tra le altre cose, la registrazione della Quinta di
Beethoven e dell’Aria della Regina della Notte di Mozart...) per
dare l’idea del livello di civiltà raggiunto dalla specie umana1.
Il piccolo spezzone tratto dal film mostra come sia necessario
un po’ di tempo per l’apprendimento di un nuovo codice, cioè
del funzionamento della musica: e tuttavia, una volta scoperto, il
gioco si fa estremamente intrigante e irresistibile aprendo interrogativi ulteriori sulla manipolazione e sulla creatività artistica...
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Per l’elenco dei brani inclusi nella sonda Voyager vedi l’articolo Voyager
Golden Record in http://it.wikipedia.org/wiki/Voyager_Golden_Record
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Il cervello e l’iPod
Beh, intanto grazie a tutti di essere presenti, soprattutto
a voi, ragazzi...
Voi l’avete riconosciuto quel film?
Brava! È un film del ’77: quindi un film che ha i suoi anni,
anche se se li porta bene!
E nemmeno io l’avevo visto, poiché nel ’77 ero impegnata
a fare altre cose...: mi stavo preparando a venire al mondo!
Dunque: Incontri ravvicinati del terzo tipo è stato scelto
dal vostro professore perché, come vi ha spiegato all’inizio, mostra che gli alieni scelgono un sistema di comunicazione molto particolare per comunicare con noi. Scelgono la musica.
Fate attenzione, però: questo film lo hanno fatto gli umani, lo hanno scritto gli umani, lo guardano gli umani. E,
soprattutto, gli umani “occidentali”!
Questo per dire che se questa storia ve la raccontasse una
medusa, una balena, un pinguino o un uccellino, ve la direbbero in un modo diverso.
Ma siccome qui siamo tra umani io ve la racconto così.
Nella prima mezzora dunque vi parlerò un po’ di biologia e di musica, cercheremo di trovare dei legami tra queste
due cose: e ce ne sono moltissimi. Nella seconda mezzora
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Piccole conferenze per grandi incontri
lascerò che siate voi a farmi le domande: so che ne avete già
preparate diverse e le aspetto con ansia.
Avete dunque visto che nel film si utilizza la musica.
Questo perché la musica è una delle cose che ci distinguono dagli altri animali. Attenzione: la musica come la intendiamo noi. Chissà cosa direbbe una balena, al riguardo. Ma
finché saremo noi a definirla, poiché siamo “i vincitori”, la
musica ce l’abbiamo soltanto noi: e possiamo dirlo a ragion
veduta.
Un’altra cosa che abbiamo soltanto noi, sapreste indicarmela? Una forma che possediamo solo noi... Il gatto
non ce l’ha...
Il pensiero? Questa è un po’ forte, eh!
No: una cosa che noi umani utilizziamo sempre...
Si, il linguaggio, bravissimo!
Il linguaggio è una caratteristica soltanto umana: su
questo non ci sono molte discussioni tra gli scienziati, tutti
quanti la pensano più o meno così.
Il linguaggio è la capacità che noi possediamo di mettere insieme le parole, in modi infiniti, e di costruire infinite
frasi; anche frasi che non vogliono dire niente. Quelle che
sto usando io probabilmente un significato ce l’hanno, ma
se volessi potrei rigirarle come mi pare e dire cose molto
particolari.
Musica e linguaggio hanno delle caratteristiche in comune che fanno sì che quando ci mettiamo a studiare l’una
non possiamo prescindere dall’altra.
Per esempio: che cosa utilizziamo per cantare e per parlare? Bocca e orecchio.
Usiamo cioè un canale che un biologo definirebbe “uditivovocale”. Utilizziamo delle cose che stanno nella nostra testa.
Però utilizziamo anche il cervello!
Tutta questa mia breve conferenza servirà per dirvi se
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Il cervello e l’iPod
sappiamo qualcosa del perché abbiamo la musica, e vedrete che bocca e orecchie le lascerò da parte, ma mi concentrerò moltissimo sul cervello.
“Perché abbiamo la musica?” è una domanda dal punto di
vista di un biologo molto interessante, tanto interessante
che una risposta non ce l’ha: una specie di rompicapo.
Selezione naturale
Voi avete studiato l’evoluzione a scuola? Allora sapete
cos’è la selezione naturale: quel fenomeno per cui, nel corso
di tantissimo tempo, non certo di pochi giorni, un carattere
particolarmente favorevole alla sopravvivenza di un individuo si impone nella popolazione.
Poniamo allora che sette
milioni di anni fa, più o meno
quando ci siamo separati
dagli scimpanzé e dai nostri
cugini diretti più vicini, i bonobo (un tempo c’era l’uomo
di Neanderthal, trentamila anni
fa, ma l’abbiamo fatto fuori!),
uno dei nostri antenati abbia
cominciato a usare un sistema
di comunicazione appunto
uditivo-vocale, bocca e orecchio,
e che il cervello lo sostenesCongo, Bonobo
se in questo. Ciò ha dato un
vantaggio evidente perché, per esempio, rendeva capaci di
far capire ai figli se c’era un pericolo che stava arrivando, e
quindi i figli sono sopravvissuti: così questo carattere si è
diffuso e ce l’abbiamo tutti, o quasi tutti, nella stessa misura.
La stessa domanda ha senso anche per la musica? Possiamo dire che la musica abbia dato un vantaggio ai nostri
antenati che ce l’avevano?
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Piccole conferenze per grandi incontri
Non si può dire! È molto difficile dire a che cosa serva
nelle nostre vite la musica, se si esclude un ambito molto
particolare, al quale in realtà siamo tutti molto affezionati:
quello del piacere. Noi ci procuriamo piacere in un sacco
di modi: la musica è uno di questi sistemi. E naturalmente
nessuno di noi è disposto a rinunciarvi, né alla musica né
agli altri sistemi.
Per cui la domanda “A cosa è servita la musica nel corso
della nostra evoluzione?“ non ha una risposta evidente, non
sapremmo dire perché uno dei nostri antenati che cantava
meglio degli altri si sia imposto, si sia riprodotto di più.
Selezione sessuale
Qui entriamo nel campo della selezione sessuale. Non
c’è niente di sconvolgente: succede a tutti, anche alle balene
e alle meduse menzionate poco fa. La selezione sessuale è
un modo particolare della selezione naturale: essa stabilisce
che un carattere che favorisce l’accoppiamento, e che passa
più favorevolmente nella prole, si impone semplicemente
perché chi ce l’ha fa più figli. Quindi a lungo andare quel
carattere diventa molto più diffuso degli altri. Non è che
l’individuo viva di più: può anche vivere di meno, ma il
carattere si impone.
L’esempio classico è quello della coda del pavone.
La coda del pavone è molto scomoda. Se voi foste dei
pavoni, e abitaste in un ambiente naturale, tra gli alberi...,
vi rendereste conto che portarsi dietro quella coda è una
vera rogna: la coda pesa, ci si gira male... Però se voi pavoni avete una bella coda le femmine vi scelgono e fate tanti
pavoncini. Il fatto, quindi, che voi moriate abbastanza in
fretta, alla specie non interessa molto. Quello che importa è
che voi siate degli animali da riproduzione perfetti perché
le femmine vi scelgano rispetto agli altri.
Ma secondo voi, per la musica si può dire che ci sia stata
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Il cervello e l’iPod
una ragione di questo tipo a imporla nella nostra biologia?
Qualcuno pensa che possa essere una ragione il fatto che
chi suona fa figli?
No, non è una ragione, anche se Bach ne ebbe venti, e
molti ne ebbe sicuramente anche Jimmy Hendrix... Questi
esempi parziali non sono sufficienti a suffragare l’ipotesi di
una musica fondamentalmente legata alla selezione sessuale degli individui.
Del resto il fatto che si possa fare musica anche prima
della pubertà, cioè prima di essere in grado di fare figli,
depone a sfavore dell’ipotesi citata. Qualcuno di voi avrà
cominciato a suonare per esempio quando aveva ancora
cinque anni: può mai aver pensato alla riproduzione un
bambino di cinque anni?
E non solo, ma vi dirò di più: noi sentiamo la musica
anche in utero. Quando la mamma è al settimo mese di gravidanza, il bambino (noi un po’ di anni fa) è in grado di
sentire gli stimoli uditivi che vengono da fuori, e qualcuno
racconta anche che è pure in grado di “apprezzarli”, questi
stimoli che vengono da fuori.
Ecco allora che è un po’ difficile pensare vi sia fin da subito un progetto di tipo sessuale, in questo precoce interesse per la musica.
Tuttavia questa idea della selezione sessuale è stata abbandonata da poco, ed era ciò che pensava della musica
anche Darwin. Darwin, quel signore con la barba che centocinquanta anni fa (centocinquantuno, ormai) ha dato alle
stampe un libro molto importante per la storia della scienza: in particolare per la storia della biologia, ma anche per
la storia della cultura, perché ci ha rimesso un po’ al nostro
posto, insegnandoci che l’uomo è come gli altri animali (é
infatti sbagliato dire “gli animali”: è più corretto dire “gli
altri animali”).
Bene: Darwin in questo libro, osservando appunto gli al-
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Piccole conferenze per grandi incontri
tri animali e vedendo che spesso essi utilizzano la musica
per corteggiarsi (però attenzione: quella che noi chiamiamo
musica, cioè il canto degli uccellini), ha dedotto che forse
– data la sua grande diffusione nella nostra specie – l’uso
della musica può aver costituito anche per noi (come per i
nostri antenati) un sistema di richiamo per l’accoppiamento: chi cantava meglio aveva maggiore possibilità di riprodursi, come dicevamo prima.
Però questa spiegazione oggi non ci soddisfa più: i bambini suonano, i vecchi suonano, suonano le persone che
non si accoppiano, suonano le persone omosessuali (in Occidente tra i musicisti ce ne sono e ce ne sono state tante...),
suonano persone che non hanno nessun interesse a fare dei
figli... L’ipotesi insomma non sembra attendibile.
La teoria della torta alla panna
Allora c’è un’altra risposta, e questa è un po’ più complicata: penso che a scuola non ci si arrivi. Io non l’ho studiata
nemmeno al liceo. Provo a spiegarvela.
È la teoria della “Torta alla panna”. La spiegazione della
torta alla panna è stata formulata nella storia della biologia
soltanto nel 1979, quindi abbastanza poco tempo fa, se pensiamo alla storia della scienza: il film di Spielberg era uscito
da appena due anni.
Tale spiegazione dice che ci sono dei caratteri, delle
cose, che possiamo anche aver addosso, che non si possono
spiegare né con la selezione sessuale, né con la selezione
naturale più in senso lato, ma che tuttavia accompagnano
altri caratteri che, quelli sì, sono derivati da una selezione.
Il nostro sangue non è rosso perché il colore rosso dà un
vantaggio al sangue, il nostro sangue è rosso perché il migliore trasportatore è l’emoglobina che dentro ha il ferro,
che ai nostri occhi appare rosso: il carattere “rosso” è un
carattere di accompagnamento.
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Il cervello e l’iPod
Una caricatura di Darwin nei giornali satirici dell’epoca.
La teoria si chiama della torta alla panna perché sulle cose
che ci piacciono – un sacco di cose, che non nominerò perché orecchie indiscrete ci stanno ascoltando – si può dare
una spiegazione di questo tipo.
Perché ci piace la torta alla panna? Non è che ci piaccia la
torta alla panna perché i nostri antenati che apprezzavano
la panna vivevano più a lungo o si riproducevano di più, e
quindi questo carattere è arrivato fino a noi.
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Piccole conferenze per grandi incontri
A noi piace la torta alla panna perché i nostri antenati
che apprezzavano i cibi calorici se la cavavano meglio in
carestia. Chi beveva latte beveva proteine, zuccheri, lipidi
in quantità abbastanza equilibrata: quindi noi abbiamo sviluppato un gusto per il latte, per la panna, per le cose grasse
che ci danno quel tipo di nutrimento lì. E altre per la frutta: si possono mettere le fragole sulla torta alla panna. Noi
oggi, nel ventunesimo secolo, combiniamo questi caratteri
biologici, praticamente li parassitiamo, e ci facciamo la torta
alla panna. È sciocco chiedersi perché all’uomo piace la torta alla panna.
Qualcuno dice che per la musica la questione è questa: a
noi la musica piace come ci piace la torta alla panna. Non
sarebbe nata di per sé, la musica, non sarebbe stata selezionata dalla biologia di per sé, ma sarebbe il prodotto collaterale della selezione di qualcosa che, essa sì, è risultata utile:
il linguaggio.
Allora le ipotesi sono tre: le prime due (selezione naturale e selezione sessuale) sono state già scartate, rimane questa della torta alla panna.
Ma dobbiamo scartare anche questa, poiché l’ipotesi della torta alla panna muore lì, dice poco, e soprattutto non ci
soddisfa.
Tutti gli uomini, tutte le culture del mondo fanno musica, anche se noi, che siamo i “vincitori” di questo pianeta,
tendiamo ad applicare le nostre categorie pure alle musiche
degli altri e a dire che per esempio la Quinta di Beethoven
è migliore di certe produzioni musicali magari africane o
cinesi o sudamericane... (Tra parentesi, sul Voyager c’era
anche della musica elettronica...!).
Ma insomma, noi dobbiamo escludere anche questa ipotesi della torta alla panna perché non spiega l’incredibile varietà delle musiche che abbiamo: non spiega e non soddisfa.
Per molti dei biologi che si occupano della cosa, la questio-
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Il cervello e l’iPod
ne rimane aperta. Come si fa a dire che una cosa così diffusa, così bella, che quasi tutti gli uomini (effettivamente non
tutti) apprezzano e capiscono è solo una questione di panna
sulla torta?
Noi possiamo sentire una ninna nanna australiana e riconoscerla come ninna nanna; o sentire una musica spaventosa e capire che l’obiettivo di quella musica è proprio
quella di spaventare. Le emozioni che ci dà la musica sono
abbastanza universali: come il sorriso. Chiunque ce lo faccia, noi siamo in grado di capire che si tratta di un sorriso;
comunque sia fatto, da dovunque venga, qualunque lingua
parli chi ci sorride. E la musica ha questo effetto su di noi.
Per tutto quanto detto l’ipotesi torta alla panna non ci soddisfa affatto.
Ma allora come si fa a venirne a capo?
Dicevo poco fa che musica e linguaggio hanno lo stesso
canale: bocca e orecchie. Ma c’è qualcosa di diverso che entra nel discorso: il cervello.
Una risposta nel cervello
Una delle possibilità per cercare di capire come possediamo la musica è andare a vedere cosa succede nel cervello.
Allora, se valesse l’ipotesi della torta alla panna, varrebbe la conclusione per cui la musica è un parassita del linguaggio: noi ci siamo sviluppati insieme al linguaggio, il
linguaggio è proprio degli umani ed è stato selezionato
dalla natura perché era vantaggioso per i nostri antenati ed
è vantaggioso per noi, dunque la musica è andata a rimorchio del linguaggio, è un suo parassita.
Per avvalorare tale ipotesi, a livello di cervello umano
dovrei allora trovare che quello che fa la musica, quello
che mi permette di capire e apprezzare la musica, si sovrappone a quello che mi permette di capire, apprezzare e
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Piccole conferenze per grandi incontri
utilizzare il linguaggio.
Il cervello non è fatto da pezzi diversi, come si pensava
qualche decennio fa. Non è composto di aree separate. È
fatto come di circuiti, è fatto di tante cellule che come fili
elettrici comunicano l’una con l’altra.
Se i sentieri che fa il linguaggio nel nostro cervello si
sovrappongono a quelli che percorre la musica, possiamo
pensare che la musica se ne sia approfittata, che sia come
la torta alla panna, che non sia nata così; e che noi poi siamo
stati capaci di procurare piacere a noi stessi e a chi ci ascolta
aggiungendo qualcosa a quei pezzi di cervello selezionati
invece dalla biologia.
Allora si tratta di studiare il cervello.
Ma studiare il cervello è una cosa un po’ complicata, soprattutto quando si parla di funzioni complesse.
Quando noi abbiamo a che fare con la musica, non utilizziamo soltanto i pezzi di cervello che ci permettono di muovere il corpo (si pensi al violinista che aziona le dita della sinistra e il gomito della destra per muovere l’archetto...), ma
utilizziamo, ad esempio, anche pezzi di cervello relativi alla
memoria; o specializzati nel riconoscimento della musica...
Chiunque di noi abbia fatto un po’ di musica, quando sente
un altro suonare si sofferma a pensare alla struttura della
musica che ascolta, o al modo in cui essa viene eseguita...
Poi vengono coinvolti pezzi di cervello più primitivi (nel
senso che li possiedono anche gli altri animali, e se andiamo indietro nella nostra storia scopriremo che li abbiamo
da molto tempo): quelli che riguardano le emozioni.
Non mi sembra di dire niente di particolarmente sconvolgente affermando che la musica suscita emozioni. Il motivo per cui nei film ci sono le colonne sonore è quello: cosa
che ci conferma l’idea che le emozioni suscitate da una unica musica siano più o meno le stesse per tutti. Nessuno di
noi guarda Psycho e ride, o si commuove fino alle lacrime
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Il cervello e l’iPod
durante la scena dell’accoltellamento sotto la doccia. Se invertite la colonna sonora di un film di paura e ci mettete la
colonna sonora di un film romantico non provate più tanta
paura come prima; e viceversa se in questo film romantico
ci mettono una colonna sonora da circo, non ci commuoviamo più per quella scena del primo bacio.
Allora andiamo a vedere il cervello. Lo studio del cervello è complicato per tante ragioni, anche perché è un po’
difficile vederlo dal vivo...
Oggi possediamo degli strumenti per studiarlo, un tempo si faceva in modo indiretto.
Arrivava ad esempio, in un grande ospedale di fine
Ottocento, un signore ammalato che sapeva dire soltanto
“Tan tan tan tan tan...”. Trovava un grosso medico che si
chiamava Paul Broca: siamo attorno agli anni ‘50 ’60 del secolo. Il medico prendeva appunti, seguiva questo paziente
per anni e cercava di capire che cosa costui fosse in grado o
non fosse in grado di fare. Quindi teneva una cartella clinica dettagliata.
Poi il paziente “Tantan” moriva. Allora il famoso medico del 1860 poteva vederlo davvero, il cervello: faceva una
cosa che si chiama autopsia, prendeva il cervello e andava a
vedere dove si trovasse il danno.
Nel caso del linguaggio, già nel 1860, con la storia di questo signor Paul Broca, si era visto che il linguaggio sta a
sinistra. E si cominciò a dire: “ma allora stai a vedere che la
musica sta a destra!”
Per un sacco di tempo - per un secolo, diciamo - questa è
stata l’idea principale.
Anche perché all’epoca si pensava che il cervello fosse
fatto come una cartina politica dell’Europa: qua c’è la Francia, qua la Germania, qui c’è il linguaggio, lì la simpatia...
Le avrete viste anche voi quelle cartine che separano il
cervello in parti diverse con funzioni diverse.
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Piccole conferenze per grandi incontri
Paul Broca
(Sainte-Foy-la-Grande, 28 giugno 1824 –
Parigi, 9 luglio 1880)
Questo fatto che la musica si trovi a destra, in realtà non
è del tutto falsa, anzi: è abbastanza vera.
Oggi non serve aspettare che il signor “Tam” muoia e un
grosso medico possa fargli l’autopsia; oggi abbiamo delle
macchine attraverso le quali possiamo vedere cosa succede nel cervello delle persone viventi e in salute. Possiamo
dunque studiare il cervello per fini sperimentali, non solo
per curare la persona affetta da malattie, e possiamo vedere
cosa succede nel cervello, che immaginiamo simile in tutti
gli esseri umani.
Oggi abbiamo visto che effettivamente la musica è separata dal linguaggio per tante delle sue peculiarità: cioè
molte delle nostre capacità musicali sono situate a destra,
mentre a sinistra si trova il linguaggio. Sono dunque funzioni separate.
Eppure non basta per escludere l’ipotesi torta alla panna.
Non basta perché questa separazione non è così netta. Ci
sono delle funzioni che, infatti, appartengono a entrambe
le capacità, come quella che si chiama sintassi: la funzione
cioè che sovraintende al mettere insieme elementi diversi
quando parliamo o quando suoniamo. Questa è abbastanza
in comune fra musica e linguaggio, per cui sul cervello le
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Il cervello e l’iPod
cose un po’ si complicano: non dovete aspettarvi di trovare
una cosa esclusivamente a destra e una cosa solo a sinistra.
Ma la complicazione incredibile viene dal fatto che mentre
noi tutti parliamo, non tutti suoniamo. Nella nostra cultura
– non era così secoli fa, e non è così presso altre culture che,
in questo senso forse sono più fortunate di noi – c’è chi si
specializza e diventa un musicista, e c’è chi non si specializza e diventa un fruitore della musica.
Il cervello delle persone è insomma abbastanza diverso.
Esistono naturalmente anche degli stadi intermedi. Io per
esempio ho studiato violino, e sino a dieci fa suonavo in
un’orchestra come la vostra. Ancora adesso, se prendo in
mano un violino, lo so suonare. Non lo faccio quasi mai, ma
lo so fare. Lo faccio male: dovrei esercitarmi. Però io sono
nel mezzo tra un musicista e un non musicista.
E poi ci sono altri - tra di noi sono circa il cinque per
cento, qui quindi ce ne possono essere una decina - che la
musica proprio non la capiscono. Possono naturalmente
far finta di capirla. Non hanno nessun handicap sociale: io
sono convinta che anche mio padre sia così. Non c’è assolutamente nessun problema.
Però costoro non sono soltanto stonati: hanno proprio
grossissime difficoltà anche a capire cosa ci può essere di
bello in una melodia senza parole. Essi, se va bene, diventano dei melomani, come mio padre. C’è gente che ascolta
la lirica perché lì c’è la storia, ci son le parole; d’accordo,
c’è anche la musica: ma c’è il libretto e un sacco di cose da
immaginarsi, dietro quella storia lì...
Queste faccende complicano tantissimo andar a vedere
cosa succede nel cervello quando ascoltiamo la musica o
quando parliamo.
Attenzione però: sto parlando di ascoltare la musica, infatti produrre la musica è una faccenda molto diversa.
E non sto nemmeno parlando di apprezzare la musica,
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Piccole conferenze per grandi incontri
perché, come dicevo prima, apprezzare la musica significa
mettere in moto tanti pezzi di cervello, anche di quelli primitivi, quelli del piacere, quelli che ci dicono: “vai questa
cosa devi farla perché fa bene a te o alla specie”, e potete
immaginare in che caso ce lo dicano!
Studi sperimentali
Ad un certo punto - meno di un anno fa - questa cosa
della musica a destra e del linguaggio a sinistra ha trovato una conferma molto interessante proprio qui in Italia. È
stato studiato il cervello di bambini che avevano tra uno e
tre giorni di vita: di bambini, dunque, che si suppone non
avessero ancora visto Sanremo...
Erano molto piccoli, questi bambini. E si può anche supporre che quello che essi facevano col loro cervello fosse
simile a ciò che abbiamo fatto tutti quanti noi col nostro
cervello nei primi giorni di vita, e che quindi la cosa sia generalizzabile, tanto da poter dire: “così fa l’essere umano”.
Effettivamente questi bambini, quando ascoltavano la
musica, presentavano un’attivazione del cervello a destra
(ovviamente non quando la producevano, data l’età...), e
mostravano di riconoscere – o perlomeno attivavano una
zona diversa – quando nella musica venivano inserite delle stonature. Come dire: mostravano di possedere già una
capacità di distinguere che quella era musica! Attenzione
però: in questo caso, come dicevo prima, a complicare le
cose si accendeva anche un po’ la parte sinistra del cervello.
Musica e linguaggio, alla fine degli studi, non risultano
perfettamente separati, la musica non è del tutto a destra e
il linguaggio non è del tutto a sinistra.
Comunque questa ricerca ci ha dato un buon contributo
per sconfiggere l’ipotesi della torta alla panna: musica e linguaggio non percorrono esattamente le stesse strade, nel
cervello.
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Il cervello e l’iPod
Vi volevo a questo punto far vedere una cosa, perché
questi esperimenti sui bambini sono molto interessanti
dal nostro punto di vista. Molto interessanti e molto particolari. È difficile chiedere a un bambino molto piccolo
che cosa pensi, se riesce per esempio a riconoscere la risoluzione di un accordo, o chiedergli se gli è piaciuto quello
che ha ascoltato. Ci sono dei sistemi sperimentali assai interessanti utilizzati dagli psicologi dell’evoluzione. I bambini, per esempio, girano la testa quando la loro attenzione è colpita da qualcosa; inoltre essi si soffermano spesso
a guardare le cose: avete presente cosa fanno col ciuccio?
Succhiano come disperati, poi si fermano, poi ricominciano a succhiare... E gli psicologi han dovuto escogitare dei
sistemi che potessero sfruttare queste caratteristiche delle
manifestazioni emotive dei bambini per poter cercare di
sapere quanto effettivamente essi capiscano e come apprezzino la nostra musica da grandi.
Anche in questo caso si trattava infatti della musica tonale occidentale: cioè di quella musica alla quale siamo tutti
quanti abituati e che per le nostre orecchie, chiaramente, è
“la migliore che ci sia”.
Vi faccio vedere queste foto perché mi pare carino a questo punto rispondere a una domanda che può sorgere dentro ciascuno di noi “Ma i genitori lasciano i loro bambini
nelle mani degli psicologi per fare questi esperimenti, che
sembrano piuttosto “crudeli”, come lo è appunto il sentire
una ninna nanna stonata?”. La risposta è che sì, li lasciano.
E le cose avvengono in modo serissimo, secondo protocolli ben precisi2. Questi studi, come dicevo, vanno avanti da
trent’anni; non so il genitore che abbiamo visto nel filmato,
ma molti genitori sono stati a loro volta soggetti degli stessi
esperimenti quando avevano l’età dei loro figli.
2. L’esperienza è tratta dal sito dell’università di Toronto. Vedi in
http://www.utm.utoronto.ca/10264.0.html
27
Piccole conferenze per grandi incontri
Questa è una cosa molto importante perché si capisce che
non si tratta di una scelta peregrina, ma di una scelta che ha
in un certo senso la sua storia: e tuttavia, in questi trent’anni,
tanti perché non siamo ancora riusciti a spiegarli.
Vi dicevo che la stessa cosa si può fare con gli animali, si
può fare con le scimmie: infatti le scimmie ci assomigliano
molto. Hanno una storia evolutiva che si è separata da noi
circa sette milioni di anni fa, con buona approssimazione.
Sette milioni di anni sono niente, sono veramente poco: il
nostro DNA per il 98,5 per cento è ancora uguale al loro!
Se dunque vogliamo vedere cosa sanno fare le scimmie,
ci mettiamo in una sorta di macchina del tempo: nel senso
che osserviamo come eravamo, o meglio come erano i nostri antenati in comune con loro. Come dire che io prendo
mio cugino. Mio cugino ha i capelli ricci? Io ho i capelli lisci? Non posso dire com’era mio nonno! Ma se mio cugino
ha gli occhi marroni e io ho gli occhi marroni, allora è probabile che il nonno avesse gli occhi marroni!
Questo è il ragionamento che si fa quando si prendono le
scimmie. Allora si dà alle scimmie la possibilità di scegliere
tra due alternative: la scimmia può scegliere di ascoltare
due suoni a intervallo di terza o due suoni a intervallo di
semitono; oppure può scegliere tra i Beatles e un complesso
havy metal... La scimmia può anche scegliere di non sentire niente: e in effetti se la scimmia può davvero scegliere,
sceglie il silenzio, o comunque sceglie di andare dalla parte
dove il volume è più basso.
Sembra comunque che le scimmie apprezzino l’intervallo di ottava, quando cioè due suoni sono l’uno otto note
distante dall’altro, un do e il do più alto...
La nostra macchina del tempo ci dice che il nostro antenato comune, quello che ha vissuto sette milioni di anni fa,
forse qualcosa di musicale sapeva fare, ma di certo la musica non l’apprezzava granché!
28
Il cervello e l’iPod
Musica ed emozioni
Quindi la musica è qualcosa di più recente. Essa è come
il linguaggio: è qualcosa che fa parte della nostra umanità
probabilmente da quando siamo uomini. E probabilmente
è essa stessa che ci rende uomini...
Ora io devo andare a conclusione, anche perché starebbe a voi parlare, ora. Per concludere vorrei però dire che
a questo punto possiamo arrivare ad una serie di ipotesi.
Non vi sconvolgo con queste ipotesi, perché le ipotesi sono
un po’ cieche, però possiamo dire con più forza che forse
la musica è una forma di comunicazione, come il linguaggio; poi possiamo affermare che forse non si è evoluta per
il corteggiamento, che si sia sviluppata prima o insieme al
linguaggio; sicuramente è un sistema di comunicazione,
di comunicazione delle emozioni in maniera particolare:
le colonne sonore, il fatto che tutti riconosciamo il carattere delle musiche indipendentemente da chi le suoni o da
dove vengano...
È un sistema di comunicazioni delle emozioni che però
ci esercita anche alla socialità: io non ve ne ho parlato, ma
tutti quanto conoscete le ninne nanne. E le ninne nanne sono
dei sistemi musicali che tutti i bambini riconoscono. Anche
i figli sordi di persone udenti. E tutti quanti, è inutile che
lo neghiamo, ai bambini parliamo in quel certo modo, tutto
moine, che ha molto in comune con la musica. Gli scienziati
lo chiamano “mammese” (anche quando lo parlano i... babbi).
Quindi l’ipotesi che la musica appartenga alla grande
categoria dei sistemi di comunicazione, ma che abbia una
dignità tutta sua - anche per il fatto che ci aiuta a comunicare le emozioni - diventa ancora più forte se vediamo che ci
esercita a stare insieme. E non soltanto in orchestra: pensate
per esempio ai cori dello stadio, o ai cori delle mondine, o
agli inni nazionali: sono tutte musiche che si cantano insieme per sentirsi parte dello stesso gruppo: sono musiche
29
Piccole conferenze per grandi incontri
che ci danno identità. I gruppi musicali che ascoltiamo ci
rendono fan di qualcuno in particolare, ma ci definiscono
anche chi siamo. Se io vado in giro a dire che non ascolto
Arisa, vi racconto un po’ di me, probabilmente: capite un
po’ della mia identità...
Poi, oltre a esercitarci alla socialità e a fare da collante sociale, a definire la nostra identità, la musica fa anche
qualcosa nel nostro cervello: ci esercita all’astrazione, probabilmente. Non sto dicendo che la musica renda più intelligenti: penso che questa sia una panzana assoluta! Però
è vero che la musica è qualcosa di astratto che stimola il
nostro cervello; gli dà piacere, senza il bisogno di qualcosa
di concreto cui pensare, o da dover toccare, annusare...
Però la scienza a questo punto si ferma. Quello che mi
preme che voi capiate è che, se anche noi in questa mezzora
non siamo stati in grado di dare una risposta alla domanda
“Perché abbiamo la musica?”, e men che meno alla domanda
Woodstock, 1969
30
Il cervello e l’iPod
“Perché ci piace la musica?”, la scienza non ci potrà mai dire
che una musica è migliore delle altre. In questo quadro che
vi ho dipinto non esiste una musica migliore: tutte le musiche hanno uguale dignità. Se c’è qualcuno qui a cui piace
Arisa, va benissimo! Non sarà certo la scienza a dirvi che
c’è una musica migliore delle altre.
Quello che la scienza vi può dire è perché, e come, e
quando, e cosa succede nel nostro cervello e nel nostro corpo quando ascoltiamo la musica: e che tutto questo ha un
senso, nella nostra biologia.
Silvia Bencivelli,
Portogruaro, 15 maggio 2010
31
DOMANDE
Domande
Andrea
Ma la musica ha effetti diversi sul cervello se ascoltata
dal vivo oppure con strumentazioni e apparecchiature meccaniche, tipo cuffie, altoparlanti, ecc.?
Tu sei un intenditore, eh? Io penso che la differenza
importante tra quando la musica la ascoltiamo dal vivo e
quando la ascoltiamo registrata sia che quando la ascoltiamo dal vivo, la ascoltiamo tipicamente in compagnia. E
quindi cambiano moltissime cose! Cambia il nostro modo
di apprezzarla, le aspettative che ci mettiamo, cambia la nostra attenzione... Quando prima suonavate, io vi guardavo
le dita... e cercavo di capire quale fosse per esempio il violino che faceva qualche pasticcio: non ci sono riuscita! Ma è
più forte di me: io dal vivo guardo anche l’ “estetica” della
musica, e trovavo per esempio particolarmente carini i percussionisti... bravi questi clarinetti che mi sono piaciuti un
sacco! Bravi anche i violinisti, eh..., e i chitarristi: bravi tutti!
35
Piccole conferenze per grandi incontri
Però secondo me la differenza più importante è quella
che ho detto. Anche se è comunque difficile che riusciamo
mai a venirne a capo con uno studio di tipo neuroscientifico, cioè con uno studio che investighi il nostro sistema nervoso, e in particolar modo mentre è in azione, non quando
è inattivo. Quando utilizziamo queste macchine, per forza
la musica deve essere registrata. Gli esperimenti sono fatti sugli esseri umani, su di noi, con delle macchine molto
grandi, ferme in una stanza fatta apposta, tutta schermata:
ti ci infilano dentro e ti fanno sentire della musica... È impossibile fare esperimenti del genere con musica dal vivo.
Però quello che rende la musica dal vivo assolutamente
diversa, assolutamente superiore rispetto ad un altro tipo
di fruizione, è che tipicamente in questo caso siamo in tanti
ad ascoltarla, magari la cantiamo insieme, come quando si
va ai concerti negli stadi... Diventa un’esperienza globale...
36
Domande
Davide
Lei ha già risposto alla domanda che volevo farle. Ma la
giro in questo modo: come mai i giornali, le riviste, nonostante la scienza non abbia confermato effetti miracolosi
della musica sull’intelligenza, continuano a diffondere notizie in tal senso?
Questa storia ve la racconto a brevi linee. Sinteticamente, dire che la musica rende più intelligenti è un modo per
vendere più dischi, e per vendere certi tipi di dischi... Ma
distinguiamo: fare musica o ascoltare musica? Fare la musica
modifica il nostro cervello; però lo modifica nelle parti che
servono a fare la musica! Se a te fare la musica non piace,
non ti diverte, o per una qualche altra ragione proprio “non
ti viene”, tu puoi migliorare il tuo cervello semplicemente
crescendo, leggendo, stando con gli amici, andando con gli
scout, giocando a scacchi...: ci sono mille modi per cui il
nostro cervello cresce.
Si dice che il cervello è plastico, come una palla di pongo:
qualsiasi cosa si faccia, questa lo modella, lo modifica, lo
rende più morbido... E comunque fare musica non è detto
che non renda il cervello anche più “duro”: capita di incontrare dei musicisti molto stupidi; pensiamo per esempio
alla musica degli ultimi trent’anni, o anche degli ultimi cinquanta: non sempre quelli che l’hanno fatta hanno poi fatto
chissà quale strada...
Certo fare musica cambia il nostro cervello, ma soltanto
nelle parti che permettono di fare la musica: quasi come il
cane che si morde la coda. Ascoltare la musica non rende
più intelligenti: anche perché tutti ascoltiamo la musica.
In metropolitana, a Roma, o al supermercato: lo facciamo
da tutte le parti anche se non lo vogliamo fare! È un’esperienza molto diffusa, soprattutto oggi. Non lo era per i nostri nonni, che non avevano l’iPod..., ma oggi è la cosa più
ovvia di questa terra. Tant’è che ci sono degli scienziati
37
Piccole conferenze per grandi incontri
che danno a dei volontari un quadernino e costoro durante il giorno annotano tutto quello che sentono, compresi
gli spot pubblicitari. È un lavoro infinito: non riuscirei mai
a segnare tutte le cose che mi capita di sentire nel corso del
giorno.
E comunque questa cosa della musica che aumenta
l’intelligenza è nata nel 1993 per colpa di due scienziati
che hanno scritto un articolo su una importante rivista
scientifica - che però ogni tanto prende delle grandi cantonate pure lei - nel quale si affermava che ascoltare una
particolare sonata di Mozart rendeva i ragazzi più intelligenti in quel momento lì. Sono diciassette anni che gli
scienziati smentiscono questo. Infatti si può dimostrare
abbastanza chiaramente che se io ti faccio fare un test
d’intelligenza e ti metto in una stanza tutta bianca, senza porte, senza niente, ti faccio magari aspettare anche
mezz’ora insieme ad un’infermiera che, chissà, quel giorno lì non ha nessuna voglia di farti assistenza, tu il test
non lo fai tanto bene! Se invece io lo stesso test, uguale,
te lo faccio fare ma ti faccio ascoltare... Cosa ascolti? Cosa
ti piace ascoltare?
- Bach
Tutto? Va bene: allora faccio ascoltare Arisa anche a te!
Dunque: se ti faccio fare il test ascoltando una musica
che ti piace, in un ambiente sereno, in presenza di qualcuno che conosci e che ti mette a tuo agio, tu quel test lo fai
meglio! E comunque io ho sempre un po’ l’orticaria quando si parla di intelligenza e musica, perché trovo che sia
un modo piuttosto scorretto di vedere lo sviluppo delle
nostre personalità. Penso che la cosa più importante da
sviluppare non sia l’intelligenza, ma la felicità. Poi la felicità si raggiunge anche con l’intelligenza, ma vuol dire fare
le cose che a noi piace fare, nel modo in cui le condizioni
che ci circondano ce lo permettono, senza danneggiare gli
altri. Se poi vi piace la musica, come piace a me, avanti! Se
38
Domande
vi piace il calcio... perché no? Non danneggiate gli altri, le
condizioni di contorno ve lo permettono... Credo sia questo il nostro obiettivo, più o meno, nella vita...
Anna
Come mai gli uomini fanno musica e gli animali no?
Beh... Lo sai che se noi fossimo una scuola di corvi, e io
fossi un giornalista corvo, la domanda che il corvo Anna
potrebbe fare sarebbe: “Come mai gli uomini non sanno, a
due anni di distanza, trovare le ghiande in un bosco? (ciò
che per il corvo è la cosa più normale di questa terra, mentre per gli esseri umani è difficilissimo, impensabile: io per
esempio non so neanche trovare dove ho messo lo spazzolino da denti!).
Noi facciamo musica perché siamo umani; e non facciamo tante altre cose perché siamo umani.
È una caratteristica del nostro cervello - di noi che siamo
umani e che abbiamo la scienza, che è una cosa umana - il
fatto che sia plastico.
Non che il cervello degli altri animali non lo sia. Il nostro
cervello sa fare un sacco di cose, come questa, ma non ne sa
fare tante altre.
Ed è molto ingiusto, e pure molto miope (perché ci impedisce di vedere molte cose, anche nel nostro quotidiano),
continuare a usare le nostre categorie e esportarle con violenza oltre la nostra specie.
È un po’ quello che facciamo quando ci aspettiamo che
tutti gli uomini siano uguali e poi scopriamo che c’è qualcuno che si discosta dalla norma, ma non fa danno a se stesso né agli altri: anzi, porta un po’ di fantasia e di colore al
mondo.
39
Piccole conferenze per grandi incontri
Giulia
Vorrei sapere se durante gli esperimenti coi bambini,
quando essi ascoltano una musica, si attivano le zone del
cervello dove hanno sede le emozioni.
Sì: brava!
Anche se non avviene in tutti noi, perché in realtà non
tutti gli uomini hanno lo stesso rapporto felice con la musica, negli esperimenti con i bambini quella parte si attivava,
ed è quella parte antica di cervello che ci dà piacere e ci
incoraggia a fare le cose che fanno molto bene a noi e fanno
molto bene alla specie.
Anche questo è un elemento che ci porta un po’ più lontani dalle cose di cui parlavamo. Per carità: quella parte
si attiva anche quando facciamo cose che non servono a
niente! Non vi posso qui far l’elenco, ma per esempio...: la
droga...
O la cioccolata! Il cioccolato non è una cosa che noi mangiamo perché ci faccia particolarmente bene. Però ci dà un
piacere... Può diventare una vera e propria forma di dipendenza, come quella per la nicotina o per certe droghe, proprio perché va a stimolare questi centri, anche se ciò non
vuol dire che il nostro gusto per il cioccolato si sia evoluto
proprio per quello...
Giulia
E come si chiama questa zona del cervello?
È quello che si chiama sistema limbico. È proprio un sistema, poiché è costituito di tanti pezzi che non è facile andare
a vedere come e dove siano situati.
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Domande
Edoardo
Ma gli animali riconoscono la musica in quanto tale o
la riconoscono come qualcos’altro?
Noi non potremo mai saperla, la risposta.
Cos’è che noi definiamo “musica”? Il problema – che ho
fatto finta di non considerare – è quello molto grosso della
definizione che noi dobbiamo dare alle parole. Per fare lo
stesso tipo di studio, scientifico, di qualsiasi cosa si stia parlando, dobbiamo definire le cose nello stesso modo. Se noi
facciamo uno studio sull’ipertensione, che è la pressione
alta del sangue, dobbiamo essere d’accordo su cosa definiamo ipertensione.
Allora: se per musica intendi i suoni messi insieme in una
maniera che a noi risultano gradevoli, anche soltanto gradevoli e niente affatto utili a qualche scopo, io direi che no,
gli animali non la riconoscono come musica... Sono anche
41
Piccole conferenze per grandi incontri
abbastanza infastiditi da quella che noi definiamo musica.
Dopo di che i nostri animali, gli animali con cui cresciamo
- cani, gatti - sanno riconoscere le nostre emozioni: generalmente sono contenti quando siamo contenti anche noi. Sono
molto bravi a mettersi in comunicazione con noi, per cui probabilmente, imparano a capire che quella è una cosa che vuol
dire,,, “serenità”? E allora anche a loro dà serenità!
L’animale selvaggio non utilizza la musica come la utilizziamo noi. La nostra musica è, appunto, nostra: della nostra
specie, non è detto che a loro dica granché. Del resto gli uccellini la utilizzano in maniera più simile a come noi utilizziamo le parole...
42
Domande
Alessio
Perché la musica ci può far cambiare emozioni?
Ottima domanda: questa non è una cosa da poco.
Se vai al supermercato e la musica non ti piace, sai che
compri molto meno?
Oppure: se vai al ristorante, e c’è la musica classica, e sei
in compagnia di una persona che ti piace, questa persona
ti piace ancora di più! Se c’è una musica dozzinale, un po’
volgare, ti senti un po’ in imbarazzo e te ne vai prima... Tu
vuoi passare per una persona chic e la musica grossolana ti
rovina l’incontro!
È una questione molto importante, perché effettivamente
la musica modula le nostre emozioni, e questo si può utilizzare a scopo commerciale. Non solo: le colonne sonore
funzionano così. Funzionano proprio sulla base del fatto che
siamo assolutamente d’accordo che una musica è triste o no.
Sul perché? il perché è difficile dirlo!
Sicuramente c’è qualcosa di innato, qualcosa che è presente in noi fin dalla nascita, che ci fa sentire quella musica
allegra o triste in maniera... “oggettiva”: è così, e non se ne
discute per niente. E poi c’è qualcosa di culturale: ci sono
musiche che ti suonano allegre perché...
Io trovo bellissime le musiche che sentivo quando facevo
l’esame di maturità, perché erano le musiche di un’epoca
particolare della mia vita.
Poi un po’ di queste impressioni dipendono da come
siamo cresciuti. Per esempio nella nostra cultura le scale
maggiori sono associate a melodie più felici, le scale minori,
siccome le troviamo inconcludenti, ci sembra che ci lascino
un po’ di tristezza; le musiche più veloci sono più allegre,
più vivaci, le musiche più lente sono più tristi. Questa è una
schematizzazione che funziona quasi per tutte le culture,
43
Piccole conferenze per grandi incontri
funziona molto bene per noi, e quindi noi le applichiamo a
tutto quanto.
Però, a proposito di questa cosa della cultura e delle
emozioni, è abbastanza famoso l’aneddoto di quando, negli anni ’60, andava di moda la musica indiana e i nostri
genitori facevano i raffinati ascoltando questa musica che
in realtà non capivano. Ebbene, ci fu un concerto molto importante con un musicista che suonava il sithar e si chiamava Ravi Shankar. Costui all’inizio faceva quello che fanno
tutti i musicisti: accordava lo strumento.
Bene, come finisce di accordare il Sithar, tutti quanto giù
ad applaudire, come degli scemi, senza neanche chiedersi cosa avesse fatto il musicista finora. Questo per dire che
non siamo tanto in grado di capire le cose con cui non siamo cresciuti: forse ci vuole un po’ di umiltà, un po’ d’intelligenza, un po’ di attenzione ...
Ravi Shankar concluse dicendo “Beh, se vi è piaciuta così
tanto l’accordatura, immagino quanto vi piacerà il seguito!”
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Per concludere...
Ringraziamo davvero tantissimo la dottoressa Bencivelli per la
chiarezza e la simpatia con cui ha saputo parlarci. L’ultima cosa
che ha detto mi ha ricordato un film di Alberto Sordi, “Vacanze intelligenti”. Un esempio uguale e contrario, rispetto al suo:
Albertone e moglie pensavano che i musicisti stessero ancora accordando, al festival di musica contemporanea di Venezia, invece
erano nel bel mezzo del concerto. E giù tutti a zittirli, quei due che
continuavano imperturbabili a chiacchierare del più e del meno!
Per concludere, prima di dare la parola al direttore dell’Ufficio
Scolastico Provinciale dottor Domenico Martino, che salutiamo,
ancora una piccola osservazione.
È vero che la scienza non potrà mai dirci che una musica è
buona e l’altra è cattiva. Sarebbe troppo facile e perfino troppo
comodo. Ma come è la cultura - la conoscenza - che ci permette di
distinguere quando si può applaudire e quando no, sono ancora
la cultura, la conoscenza, lo studio - cose che nella scuola dovrebbero circolare e diffondersi (e siamo qui proprio per questo!) – che
ci permettono di distinguere forme e funzioni, adeguatezza e inadeguatezza, bello e brutto. Come c’è una letteratura d’evasione e
una letteratura “alta”, c’è anche musica e musica.
È la cultura che ci dà modo di riconoscerci come elementi di una
società in cui certi valori, sicuramente mai assoluti e sempre in
divenire, sono tuttavia costituitivi della nostra comune identità.
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Cervello, udito, musica
MATERIALI
di approfondimento
scelti e proposti da
Daniele Dazzan e Daniela Grillo
L’unico organo che studia se stesso
Intervista di Marta Erba a Michael Gazzaniga
È di gran lunga “l’oggetto” più complesso che esista in natura.
Ma quanto lo conosciamo? Facciamo il punto con uno dei più
grandi neuroscienziati.
Michael Gazzaniga è uno dei neuroscienziati più noti al
mondo. Oggi dirige il Sage Center per gli studi sulla mente
a Santa Barbara (il cui motto è: “quando si comprende la
mente si comprende la condizione umana”). Gli abbiamo
chiesto di fare il punto delle nuove scoperte, e dei misteri
ancora irrisolti, che riguardano l’organo più importante che
abbiamo.
Come ha cominciato a interessarsi alle neuroscienze?
Quando ero al College lessi un articolo di Roger Sperry
che descriveva come i nervi, durante lo sviluppo, crescano
raggiungendo spontaneamente la loro destinazione. Rimasi affascinato all’idea e gli scrissi per sapere se potevo lavorare nel suo laboratorio. Mi rispose subito di sì. Quando
arrivai, scoprii che non si stava occupando solo della crescita delle fibre nervose, ma stava cominciando a studiare il
“cervello diviso” negli animali. Alla fine fu proprio questa
ricerca che catturò la mia attenzione.
Infatti lei e Roger Sperry, proprio studiando le persone
prive dl corpo calloso (il fascio di fibre che connette le due
49
Piccole conferenze per grandi incontri
metà del cervello), siete stati i primi al mondo a scoprire
che i due emisferi hanno funzioni diverse. Ma c’è anche chi
dice che questa sia una forzatura...
Questa è in effetti la visione popolare, semplificata, di
come funzionano le due metà del cervello. Sfortunatamente
non è così semplice. Di sicuro i due emisferi hanno una loro
specializzazione: il cervello sinistro è preposto al pensiero
complesso mentre quello destro è più portato all’apprendimento visivo. Ci sono però molte situazioni in cui i due
emisferi lavorano insieme per svolgere compiti mentali più
articolati, per esempio quando devono dare valutazioni
“morali”.
Come fa, allora, un essere umano a costruirsi un senso
morale?
La costruzione dei valori comincia molto presto nel bambino. Ann e David Premark anni fa hanno dimostrato che i
bambini di un anno preferiscono gli oggetti che sembrano
“aiutare” un altro oggetto a perseguire un obiettivo piuttosto che oggetti che lo ostacolano. Anche se siamo portati a
pensare che il senso morale derivi dall’esperienza e dall’insegnamento culturale, questo nuovo campo delle neuroscienze sociali sembra rivelare che molti dei nostri giudizi
morali siano connaturati nel genere umano, a prescindere dall’età, dal sesso, dalla religione o dalla cultura. Tutti,
-cioè, tendiamo a comportarci in un modo simile di fronte
a situazioni specifiche, anche se poi diamo giustificazioni
diverse.
Ritiene positivo il fatto che le neuroscienze stiano “contaminando” campi del sapere che un tempo sembravano
lontani, come la filosofia, l’economia, il marketing, l’etica,
l’estetica, l’arte...
Con l’esplosione delle conoscenze nel campo delle neuroscienze è naturale che chi si interessa di un certo argo-
50
Materiali
mento che coinvolge la mente chieda un contributo ai neuroscienziati. In molti casi ottiene anche delle risposte. Detto
questo, è anche vero che c’è molta “presunzione” tra i neuroscienziati, che tendono a credere di poter spiegare ogni
cosa. Forse un giorno sarà così, oggi certamente no.
Qual è la peculiarità del cervello umano rispetto agli
altri animali?
Le dimensioni della questione sono tante, ecco perché
per fare il punto mi è servito un intero libro (Human, cit.).
Sono partito esaminando gli aspetti unici del funzionamento del cervello umano, e ho cercato a poco a poco di capire
da dove deriva il nostro senso di unità psicologica. Da qui
discendono il nostro mondo sociale, il nostro senso degli
altri e il nostro comportamento morale. In breve: ci sono un
sacco di cose che ci rendono unici. Per esempio: anche un
animale può provare empatia, ma non capirà mai la differenza tra il dispiacere e la pietà.
Può riassumere che cosa pensa che sia ciò che chiamiamo “coscienza”?
Una mole crescente di letteratura indica che la separazione delle funzioni cognitive in regioni specializzate è
un aspetto fondamentale dell’organizzazione del cervello.
Tuttavia la natura dei processi cognitivi fa pensare debba
esserci da qualche parte una sorta di “centralina” che abbia invece le caratteristiche di unità e integrazione. Io ho
sviluppato un modello secondo cui l’esperienza cosciente
emerge dalle interazioni dinamiche tra aree specializzate
attraverso una rete neurale distribuita. Ma è una faccenda
molto complessa...
Quando si indaga sulla coscienza, è inevitabile sollevare la questione del libero arbitrio. Alla luce delle sue conoscenze noi siamo in grado di influenzare le nostre scelte, o
51
Piccole conferenze per grandi incontri
quella della libertà di scelta è solo un’illusione?
Ecco il mio punto di vista: i cervelli sono determinati, ma
le persone sono libere. Che cosa significa? Significa che noi
definiamo la libertà come una funzione dell’interazione con
gli altri esseri umani. La libertà è nelle dinamiche sociali,
non nel cervello.
Pensa che, prima o poi, avremo anche degli automi o dei
computer coscienti?
In linea teorica posso pensare che sia possibile. La mia
sensazione, però, è che qualsiasi cosa saremo in grado di
ottenere che possa assomigliare alla coscienza umana non
sarà basata sugli stessi meccanismi del cervello biologico.
Molto studiata oggi è la neuroplasticità e di conseguenza la possibilità di modificare il nostro cervello. Ritiene
che sia possibile migliorare l’efficienza mentale attraverso
esercizi specifici?
Qualsiasi cosa richiede pratica. I musicisti si esercitano 6 ore al giorno per tutta la vita. Lo stesso vale per la
semplice attività mentale. Ciascuno di noi deve tenere in
allenamento il proprio vocabolario, le idee e le strategie di
ragionamento, altrimenti prima o poi le perde. Ancora non
si è compreso bene come funzionano questi meccanismi cerebrali, ma possiamo dire che è senz’altro vero che per una
buona salute mentale bisogna tenere attivo il cervello.
Ritiene che la schizofrenia, la malattia mentale che viene
anche definita “pazzia”, abbia una componente biologica?
La schizofrenia è un disturbo biologico del sistema nervoso. Non c’è dubbio riguardo a questo. Ci sono molte
ipotesi sull’esatta natura del disturbo e un’analisi chiara e
completa non è ancora disponibile. È però certo che coinvolge connessioni aberranti, anomalie dei neurotrasmettitori e altro.
52
Materiali
Che cosa pensa invece della psicoanalisi? Ritiene che
oggi sia superata?
La psicoanalisi decisamente sì. La psicoterapia assolutamente no.
Oltre che come scienziato, lei è noto come divulgatore.
Che cosa la spinge a cercare di rendere accessibili al grande
pubblico le sue scoperte e le sue conoscenze?
Beh, non sono l’unico. In realtà tra noi scienziati sta passando il concetto che sia un nostro dovere rendere comprensibile quello che facciamo. Dopo tutto la gente paga
per il nostro lavoro, e magari ha figli che stanno decidendo
a che cosa dedicare la loro vita. Le nuove generazioni devono sapere che non c’è niente al mondo di così entusiasmante quanto la ricerca scientifica.
Marta Erba
(in: Focus Extra, n. 42, pagg. 6-9)
Michael Gazzaniga, nato nel ’39 a Santa Barbara, in California, nipote
di immigrati italiani, ha lavorato prima sotto la guida di Roger Sperry
(premio nobel per la medicina nel 1981), con il quale ha compiuto importanti scoperte sulle differenze tra i due emisferi cerebrali studiando il
cosiddetto split brain (cervello diviso). In seguito si è occupato di vari
settori delle neuroscienze, tra cui l’etica e la coscienza. Ha pubblicato
molti libri, tra cui La mente etica (Codice editore), L’interprete: come
il cervello decodifica il mondo (Di Renzo editore) e Human: quel che
ci rende unici (Cortina). Di recente ha partecipato in Italia al Festival
della Scienza di Genova e alla prima edizione dell’evento 21 minuti – I
saperi dell’eccellenza.
53
Come sopravvivere a un cocktail: l'udito
di Sandra Aamodt - Sam Wang
Spesso pensiamo che la vista sia il nostro senso più importante, ma forse l'udito è altrettanto essenziale. Per ovvie ragioni, la sordità rende difficile comunicare con gli altri. I
sordi hanno affrontato questa sfida creando una forma di
linguaggio propria, in cui si usano mani e occhi invece di
bocca e orecchie. Le barriere comunicative tra udenti e non
udenti sono così profonde che è nata una cultura specifica
dei sordi. (Per esempio, nel film Figli di un Dio minore, la
relazione tra una donna sorda e un insegnante udente della
scuola in cui anche lei lavora è minacciata dalla fedeltà della ragazza alla comunità dei non udenti). È ancora piuttosto
misterioso come faccia il cervello a identificare suoni complessi come il linguaggio, ma gli studiosi sanno parecchie
cose su come percepiamo e localizziamo i segnali uditivi.
Che tu stia ascoltando la musica, il canto degli uccelli o
il chiacchiericcio a un cocktail, l'udito comincia con una serie di onde di pressione dell'aria che chiamiamo suono. Se
potessimo vedere le onde provocate da una tonalità pura
mentre si muovono nell'aria (nel mondo reale l'esempio
più calzante sarebbe la nota di un flauto), sembrerebbero
le increspature prodotte da un sasso lanciato in uno stagno.
La densità delle increspature (chiamata frequenza) determina l’altezza del tono: distanze più brevi tra le onde pro-
55
Piccole conferenze per grandi incontri
ducono suoni acuti, distanze più lunghe producono suoni
gravi, e la loro ampiezza determina l’intensità sonora. Suoni
più complicati, come il linguaggio, contengono frequenze
multiple con diverse intensità mischiate insieme.
L’orecchio esterno trasmette le onde sonore a un organo
dell’orecchio interno che si chiama coclea («chiocciola», in
latino, perché ha quella forma). La coclea contiene le cellule
sensibili al suono, che sono collocate in fila su una lunga
membrana attorcigliata. La pressione sonora sposta il fluido presente nell’orecchio, facendo vibrare la membrana in
modi diversi a seconda delle frequenze sonore; la vibrazione attiva i sensori, chiamati cellule ciliate perché dalla loro
sommità spunta un fascio di fibre sottili, simile alla cresta
di un punk, il cui movimento trasforma il segnale vibratorio in un impulso elettrico, che viene interpretato da altri
neuroni. Le cellule ciliate sono in grado di percepire movimenti della misura di un atomo e reagiscono molto in fretta
(oltre ventimila volte al secondo).
Le cellule ciliate collocate alla base della membrana
cocleare percepiscono le frequenze più alte. Procedendo
lungo la spirale verso l’altra estremità, le cellule ciliate diventano sensibili a frequenze sempre più basse (immagina
la serie dei tasti di un pianoforte). Questa organizzazione
forma una mappa di frequenza sonora registrata in molte
delle aree cerebrali che reagiscono ai suoni.
Le informazioni sonore provenienti dalle due orecchie
vengono assemblate dai neuroni del tronco encefalico. In
base a questo fatto, i medici possono diagnosticare le cause della perdita dell’udito, a seconda che essa si verifichi
per un orecchio o per entrambi: dato che i neuroni nel cervello ricevono informazioni sonore da ambo le orecchie, se
una parte del cervello addetta all’elaborazione dei suoni è
danneggiata si riscontrano problemi di udito a entrambe le
orecchie, se invece si hanno difficoltà a sentire solo da un
orecchio, con ogni probabilità il danno riguarda l’orecchio
56
Materiali
stesso o il nervo uditivo. La perdita dell’udito può essere
causata anche da problemi meccanici che interferiscono con
la trasmissione dei suoni provenienti dall’esterno dell’orecchio verso la coclea. Questo tipo di perdita dell’udito può
essere curata con protesi acustiche, che amplificano i suoni
in arrivo all’orecchio, mentre alla perdita di udito dovuta
a darmi delle cellule ciliate si può ovviare soltanto con un
impianto coclerare.
Il cervello si prefigge due scopi principali riguardo alle
informazioni sonore: localizzare il suono in modo che si
possa guardare verso la fonte, e individuare di che tipo
sia. Nessuna delle due operazioni è facile, ed esse vengono
espletate in regioni diverse del cervello, perciò alcuni pazienti con lesioni cerebrali hanno difficoltà a localizzare i
suoni ma non a identificarli, e viceversa.
Le differenze tra il momento in cui i suoni arrivano
all’orecchio destro e l’intensità con cui ci arrivano, rispetto
a quando e come arrivano al sinistro, aiutano il cervello a
stabilire da dove proviene un dato suono: i suoni provenienti da un punto di fronte a noi (o dietro a noi) arrivano
all’orecchio sinistro e a quello destro esattamente nello stesso momento, invece quelli provenienti da destra arrivano
all’orecchio destro prima che al sinistro, e così via. Analogamente i suoni (almeno quelli acuti) provenienti da destra tendono a essere un po’ più forti nell’orecchio destro
e hanno un’intensità ridotta nell’orecchio sinistro, perché
in mezzo c’è la testa (mentre i suoni gravi possono passarci
sopra o intorno). Per localizzare i suoni gravi e medi ci basiamo sulle differenze tra i momenti in cui il suono arriva
alle due orecchie, mentre per localizzare i suoni acuti ricorriamo alla differenza di intensità con cui le raggiungono.
Quando il cervello lavora per individuare il contenuto di
un suono, si concentra soprattutto sulla scoperta di segnali
importanti per il comportamento. Molte aree cerebrali superiori rispondono nel miglior modo ai suoni complessi,
57
Piccole conferenze per grandi incontri
che vanno da particolari combinazioni di frequenze alla
sequenza temporale in cui compaiono i suoni associati a
segnali di comunicazione specifici. Quasi tutti gli animali
hanno neuroni specializzati per individuare i segnali sonori importanti per loro, tipo il canto per gli uccelli o gli echi
per i pipistrelli. (I pipistrelli usano una specie di sonar per
orientarsi, facendo rimbalzare i suoni sugli oggetti e valutando le velocità con cui ritornano.) Nell’uomo un carattere
particolarmente importante dell’interpretazione sonora è il
riconoscimento del linguaggio, e ci sono diverse aree del
cervello destinate a questo processo.
La capacità del cervello di riconoscere certi suoni cambia
a seconda delle esperienze uditive individuali. Per esempio, i bambini piccoli riescono a riconoscere i suoni di tutte
le lingue del mondo, ma verso i diciotto mesi cominciano
a non saper più distinguere quelli non utilizzati nella loro
lingua; è per questa ragione che, per esempio, la l e la r hanno lo stesso suono per chi parla giapponese: infatti, in giapponese non esiste distinzione tra queste due consonanti.
Si potrebbe dedurne che dimentichiamo le distinzioni
tra i suoni solo perché non ce ne serviamo, ma non è così:
il tracciato elettrico dell’attività cerebrale dei poppanti (ottenuto applicando loro sulla pelle degli elettrodi) dimostra
che, mentre imparano a riconoscere i suoni della loro lingua madre, il cervello si modifica. Quando cominciano a
camminare, hanno una reazione più intensa ai suoni della
loro lingua madre che ad altri.
Al termine di questo processo, il cervello colloca automaticamente nelle sue categorie usuali tutti i suoni del linguaggio che percepisce: per esempio ha un modello di suono perfetto per la vocale o, e tutti i suoni abbastanza simili
vengono interpretati come delle o, anche se magari sono
costituiti da frequenze e intensità diverse
Finché non si tenta di imparare una nuova lingua, questa
specializzazione nella lingua madre è utile, poiché consente
58
Materiali
di capire le diverse persone, anche quando parlano in ambienti rumorosi; infatti la stessa parola, pronunciata da due
persone diverse, può contenere frequenze e intensità molto diverse, ma il cervello sente i suoni come se fossero più
simili di quanto in realtà non siano, quindi gli diventa più
facile riconoscere le parole. I software per il riconoscimento
del linguaggio, invece, per funzionare hanno bisogno di un
ambiente tranquillo, e incontrano difficoltà a riconoscere le
parole pronunciate da più di una persona, perché si basano
sulle mere proprietà fisiche dei suoni linguistici. Questo è
un altro settore in cui il cervello funziona meglio di un computer; e se vuoi la nostra opinione, i computer non riusciranno a stupirci fino a quando non cominceranno a creare
culture e linguaggi propri.
Sandra Aamodt - Sam Wang
Il tuo cervello. Istruzioni per l’uso e la manutenzione,
Mondadori, Milano, 2008, pagg. 69-76
Sandra Aamodt, dopo aver conseguito il dottorato in meuroscienze alla
Rochester University e svolto attività di ricercatrice presso la Yale University, dal 2003 è direttore di Nature Neuroscienze, una delle più importanti
riviste internazionali di neuroscienze, di cui è stata cofondatrice.
Sam Wang, professore associato di neuroscienze e biologia molecolare
alla Princeton University, è autore di numerosi articoli sul cervello pubblicati dalle più prestigiose riviste del settore, fra cui Nature Neuroscienze,
Nature e Proceedings of the National Academy of Sciences.
59
Requiem per l’effetto Mozart
di Bruna Pelucchi
Realtà scientifica o mistificazione dei media? Nuovi studi riportano in una dimensione più realistica gli effetti della musica.
"Che la musica influenzi l'umore è cosa nota. Meno risaputo è che la musica possa agire direttamente sull'organismo modificando il nostro stato emotivo, fisico e mentale.
Questo fenomeno - chiamato effetto Mozart - non si verifica
solo ascoltando le sinfonie del grande Amadeus, ma anche
i canti gregoriani, un certo tipo di jazz e di pop, i ritmi sudamericani, le armonie new age e persino un po’ di sano e
robusto rock'n'roll."
Queste citazioni sono prese dalla presentazione all’edizione italiana del libro di Don Campbell Effetto Mozart. Dello stesso autore sono in vendita numerosi cd che l’autore
pubblicizza affermando: "Le vostre orecchie, la vostra voce
e il vostro repertorio musicale sono il più potente strumento di cura a vostra disposizione".
Le potenzialità terapeutiche della musica ci vengono insomma presentate come un dato certo ed acquisito, una realtà scientifica. Ma è davvero così?
Ripercorriamo insieme la storia del cosiddetto Effetto Mozart e scopriremo un’interessante miscela di dati scientifici,
distorsioni mediatiche ed interessi commerciali.
61
Piccole conferenze per grandi incontri
I fatti
Le origini del cosiddetto "Effetto Mozart"
vanno fatte risalire all’otorinolaringoiatra e
psicologo francese Alfred A. Tomatis (1920 –
2001), che nel libro del 1991 Pourquoi Mozart?
descrive la sua pluridecennale esperienza
di musicoterapeuta nel trattamento di una
ampio ventaglio di disturbi dello sviluppo,
dall’autismo alla sindrome di Down.
Con una tecnica riabilitativa chiamata "metodo Tomatis",
e basata sull’utilizzo della musica del compositore viennese, si sarebbero ottenuti importanti successi terapeutici dei
quali non è però possibile trovare riscontro nella letteratura
scientifica internazionale.
L’attenzione della stampa e del grande pubblico si risvegliò tuttavia soltanto nel 1993 a seguito della pubblicazione
su Nature di un articolo di Frances Rauscher, violoncellista
e psicologa, ora all’università di Whoshoa (Wisconsin), e di
Gordon Shaw, fisico dell’Università’ di Irvin (California).
Gli autori riferivano un transitorio aumento dei punteggi
in alcuni particolari test d’intelligenza a seguito dell’ascolto
dell’Allegro con spirito dalla Sonata in Re maggiore per due
pianoforti K448 di Mozart.
I dati sperimentali originali si riferivano ad un campione
di 36 studenti universitari ai quali era stato fatto ascoltare,
per una decina di minuti, il brano musicale. Dopo l’ascolto gli studenti mostravano un miglioramento modesto, 8-9
punti sulla scala Stanford-Binet, uno dei più utilizzati sistema di misura del IQ (quoziente di intelligenza).
Tale aumento durava solo per 10-15 minuti ed era limitato alle abilità visuo-spaziali. In pratica agli studenti veniva
mostrato il disegno di un foglio di carta ripiegato più volte
su sé stesso e sul quale venivano indicate delle linee di taglio.
Era poi richiesto di scegliere, tra quattro figure, quella
che più realisticamente rappresentava come sarebbe appar-
62
Materiali
so il foglio una volta riaperto.
Mentre molti gruppi di ricerca indipendenti, salvo sporadiche eccezioni, fallivano nel tentativo di replicare il dato
originale della Rauscher, la ricercatrice pubblicava nuovi
lavori secondo cui lezioni di piano e canto erano significativamente più efficaci delle lezioni di computer nel migliorare le abilità di ragionamento astratto dei bambini. Inoltre,
sempre secondo la Rauscher, l’ascolto della musica di Mozart in ratte gravide migliorava la capacità della prole di
orientarsi nei labirinti sperimentali.
L’ultimo dato suscitò più di una perplessità dato che l’autrice non sembrava aver tenuto conto che, in relazione alla
limitata trasmissione dei suoni attraverso l’utero ed alla diversa sensibilità uditiva dei topi, una grossa componente del
brano musicale non potesse in realtà essere percepita dai feti.
Senza contare che, mentre nella specie umana l’orecchio
raggiunge la maturità funzionale attorno all’ultimo trimestre della gravidanza, i ratti nascono, oltre che ciechi, sordi.
Le critiche della comunità scientifica si concretizzarono
in particolare con l’uscita nel 1999 di due lavori di Christopher F. Chabris e Kenneth M. Steele et al., pubblicati insieme su Nature sotto il titolo di Prelude or Requiem for the
'Mozart Effect'?
Il primo autore, attraverso una meta-analisi sui 16 lavori
pubblicati fino ad allora dalle riviste scientifiche, dimostrava che l’effetto non era statisticamente significativo. Steel,
per contro, comunicava l’impossibilità sua e di altri due laboratori indipendenti di riprodurre il dato pur avendo seguito fedelmente la procedura della ricercatrice.
Poco male, ribatteva la Rauscher nella sua replica: solo
perché a qualcuno l’impasto del pane non cresce, non vuol
dire che l’ "effetto lievito" non esista.
Quello che risultava poco convincente del lavoro della
Rauscher del 1993 era, oltre alla mancanza di riproducibilità del dato, la spiegazione artificiosa ed aleatoria fornita
63
Piccole conferenze per grandi incontri
dagli autori, che proponevano che l’ascolto passivo della
musica mozartiana, per sue non ben precisate peculiari caratteristiche, fosse in grado di attivare un pattern di scarica
neuronale virtualmente identico a quello attivato dall’esecuzione di compiti visuo-spaziali, nonostante fra questi due
tipi di attività cerebrale non esista alcuna ovvia relazione.
Secondo il cosiddetto principio del rasoio di Occam, per
spiegare un fenomeno non dovrebbero essere fatte più
assunzioni di quelle strettamente necessarie. Nel metodo
scientifico solo quando l’ipotesi più parsimoniosa si sia dimostrata insufficiente a descrivere i fatti si può pensare di
passare ad una teoria più complessa.
Anche accettando l’esistenza dell’effetto Mozart esiste
un’ipotesi più semplice dell’improbabile sincronismo tra
neuroni e pianoforte: la teoria del "enjoyment arousal", secondo cui uno stimolo piacevole, che per alcuni può essere
Mozart ma per altri il rap o la banda del paese, determina
uno stato emozionale positivo che rende il soggetto temporaneamente più ricettivo ed efficiente.
Alcuni autori hanno ad esempio riscontrato lo stesso effetto a seguito dell’ascolto di un brano tratto da un libro di
Stephen King. In particolare, nel 1996, la ricercatrice Susan
Hallam dell’Università di Londra testò oltre 8000 bimbi inglesi tra i dieci e gli undici anni.
Con la collaborazione della BBC ed il coinvolgimento di
numerose scuole elementari, i bambini vennero divisi in tre
gruppi che ascoltarono in contemporanea brani di Mozart,
della musica pop (tra cui i Blur, un gruppo molto popolare
in Inghilterra in quegli anni) o un narratore che descriveva
l’esperimento.
I risultati mostrarono che i bambini che avevano ascoltato Mozart non ottenevano punteggi significativamente superiori agli altri. La mancata replica dell’effetto Mozart fu
comunicata immediatamente dalla BBC.
Poiché lo scopo originario del lavoro era di verificare la
64
Materiali
superiorità della musica del compositore viennese l’analisi
di quei dati non proseguì oltre.
Tuttavia nel 2005, considerando l’unicità di un campione
così numeroso, Glenn Schellenberg, dell’Univesità di Toronto (Canada), e Susan Hallam rianalizzarono insieme i
dati. Coerentemente con la teoria del risveglio dell’attenzione e con le preferenze musicali di quella fascia di età, ci
si rese conto che in realtà i bambini che erano riusciti meglio
nella risoluzione del compito visuo-spaziale erano quelli
che avevano ascoltato la musica pop. Insomma … nessun
"effetto Mozart" ma invece un "effetto Blur".
La leggenda
Successivamente alla pubblicazione dei lavori della Rauscher i media, interpretando superficialmente i dati oggettivi e non prestando attenzione al dibattito scientifico in
corso, instillarono nel grande pubblico l’idea che bastasse
ascoltare Mozart per diventare più intelligenti. Un po' come
quando da giovani studenti si mette il libro sotto al cuscino
nella speranza, la mattina dopo, di sapere la lezione.
Come spesso accade, le informazioni riscuotono tanto
più interesse quanto più rispondono alle ansie dell’opinione pubblica e l’Effetto Mozart trovò terreno fertile nella diffusa preoccupazione presente negli USA circa l’inadeguatezza dell’istruzione primaria.
Adrian Bangerter, uno psicologo dell’Università di Neuchâtel, ha pubblicato nel 2004 un interessante studio sociologico sull’argomento, esaminando accuratamente gli articoli usciti sulla stampa internazionale.
Questa analisi ha evidenziato come, con il passare del
tempo, l’Effetto Mozart venisse sempre meno associato al
campione originale, gli studenti del college, e sempre più ai
bambini, per i quali la Rauscher non aveva mai pubblicato
dati relativi all’ascolto passivo, ma solo in relazione ad un
programma di educazione musicale.
65
Piccole conferenze per grandi incontri
In particolare è sorprendente come in molti articoli comparisse un’associazione tra effetto Mozart e neonati, nonostante non fossero mai apparsi in letteratura dati al riguardo, escludendo i già citati e dubbi esperimenti sulle ratte
gravide.
A fronte di un effetto modesto, transitorio, circoscritto a
specifiche abilità visuo-spaziali e praticamente non replicabile, il Governatore della Georgia nel 1998 ritenne che ci
fossero sufficienti basi razionali per investire denaro nella distribuzione gratuita dei cd di musica classica a tutti i
nuovi nati, mentre in Florida veniva avviato nel 1999 un
programma di ascolto quotidiano di musica classica nelle
scuole pubbliche.
Il business
Nella sua replica all’articolo di Chabris e Steele del 1999
la stessa Rauscher ammetteva che i suoi dati erano stati ampiamente distorti dei media e negava di aver mai sostenuto
che ascoltare Mozart aumentasse l’intelligenza.
Queste puntualizzazioni non hanno comunque impedito a Shaw and Rauscher di aderire al M.I.N.D. (Music Intelligence Neural Development Institute) che, tra l’altro, si occupa
della vendita di libri, cd e software sull’argomento.
Colui che comunque ha fatto dell’Effetto Mozart un vero
e proprio business è stato Don Campbell che, registrato il
marchio 'The Mozart Effect' ha largamente esagerato e distorto il lavoro originale di Rauscher e Shaw, attribuendo
alla musica di Mozart proprietà taumaturgiche ed avviando un fiorente mercato di libri e cd.
Educazione musicale ed intelligenza
È facile comprendere che esiste una chiara differenza tra
l’ascolto passivo di musica classica, fulcro del lavoro originale della Rauscher, ed gli effetti di una sistematica educazione musicale.
66
Materiali
Quest’ultima richiede periodi prolungati di attenzione,
una pratica quotidiana, l’apprendimento di una complessa
simbologia, la memorizzazione di ampi passaggi musicali,
ed inoltre, specie nella musica strumentale, la progressiva
padronanza di raffinate abilità motorie. Questo, specie se
avviene nell’infanzia, un periodo di grande plasticità neuronale, può influenzare significativamente lo sviluppo cognitivo del bambino.
Tuttavia non possiamo assumere a priori che l’insegnamento di uno strumento musicale sia di per sé più efficace
di un corso di informatica di base o di una lingua straniera,
sebbene per alcuni bambini probabilmente possa essere più
divertente.
Vari studi hanno verificato un legame tra partecipazione
a corsi di musica in età prescolare e IQ. Tuttavia una correlazione tra due eventi non implica di per sé un rapporto di
causa ed effetto.
Probabilmente sarebbe possibile verificare nella popolazione degli Stati Uniti una correlazione tra la presenza di
una lavastoviglie in una casa e lo stato generale di buona
salute dei bambini che vi vivono, ma a nessuno verrebbe
in mente di dire che sia la lavastoviglie la causa del miglioramento del benessere fisico, a parte forse ad una ditta che
produce elettrodomestici.
Più semplicemente una famiglia con un buon tenore di
vita, in grado di permettersi tra l’altro una lavastoviglie,
può anche garantire ai propri figli adeguate cure mediche
ed una alimentazione equilibrata. Nel caso dell’educazione
musicale la spiegazione più parsimoniosa è che i bambini
che hanno maggiori probabilità di ricevere lezioni di musica siano anche quelli provenienti da famiglie benestanti,
ed è noto che esiste una correlazione positiva tra reddito,
livello di istruzione e IQ dei genitori.
Per ovviare a questo problema il gruppo di ricerca del
Prof. Schellenberg ha selezionato un campione di 144 bam-
67
Piccole conferenze per grandi incontri
bini di sei anni, avendo cura di garantire la più varia provenienza etnica, culturale ed economica. I bambini sono stati
divisi a caso in 4 gruppi e sono stati sottoposti ad un test di
intelligenza prima dell’inizio dell’anno scolastico.
Ad un primo gruppo sono state fornite lezioni settimanali gratuite di canto secondo il metodo Kodàly, ad un secondo di tastiera, ad un terzo di drammatizzazione e ad
un quarto gruppo nessuna lezione. Il metodo Kodàly è un
sistema di insegnamento del canto basato su una tecnica
non convenzionale che prevede anche una componente gestuale. Si tratta, in un certo qual modo, di un’istruzione a
metà strada tra la musica e la recitazione.
Dopo un anno si è ripetuto il test di intelligenza.
I bambini che avevano ricevuto le lezioni di musica,
sommando i dati dei gruppi relativi a canto e tastiera, mostravano un piccolo ma significativo incremento nell’IQ.
Tuttavia i bambini che avevano seguito le lezioni di teatro mostravano, rispetti agli altri gruppi, un significativo
miglioramento nelle competenze sociali.
Conclusioni
Dobbiamo quindi correre ad iscrivere i nostri figli ad un
corso di musica? Perché no!
Di certo ne risulteranno arricchiti. Ma non aspettiamoci
di ritrovare un piccolo Einstein al nostro tavolo.
È in corso di stampa un articolo del Prof. Kenneth Steel della Appalachian State University (North Carolina) che
getta alcune ombre sul risultato di Schellemberg.
La principale obiezione riguarda la procedura statistica
utilizzata per l’analisi dei dati.
Se le performance dei bambini vengono analizzate confrontando ciascun gruppo separatamente, come sarebbe
più ovvio fare, anziché mettere insieme gli effetti del metodo Kodàly e del corso di tastiera da una lato, e quelle di
drammatizzazione e l’assenza di lezioni, dall’altro, le diffe-
68
Materiali
renze tra i trattamenti non sono più significative. In pratica l’accusa è quella di aver scelto a posteriori la procedura
statistica che portava al risultato voluto.
Per un bambino di sei anni, un anno è un arco di tempo molto lungo nel quale andrà incontro ad un’importante
maturazione intellettuale e fisica semplicemente perché sta
crescendo.
A questo si sommerà il contributo dell’istruzione scolastica, di eventuali attività sportive, ecc. Ogni arricchimento
aggiuntivo dato dalle lezioni di musica, se pure presente,
potrebbe essere così modesto da perdersi nel generale miglioramento cognitivo, sfuggendo alla rilevazione sperimentale.
Godiamoci quindi l’ascolto di un brano di Mozart, ben
venga un incremento dell’attenzione all’educazione musicale nei curricula scolastici, ma non aspettiamoci di guarire
da una malattia o di diventare improvvisamente studenti
più brillanti.
Nelle scienze, la strada che porta a trasformare una teoria
scientifica in un dato acquisito è lunga e complessa. Le procedure sperimentali seguite devono essere condivise con la
comunità degli scienziati, validate secondo criteri condivisi
e replicate da laboratori indipendenti. Ogni spiegazione teorica deve poter prevedere una serie di esperimenti che la
dimostrino o la confutino.
Insomma, facciamo attenzione: solo perché un’affermazione parte da una fonte 'autorevole' (carta stampata, ambienti accademici, libri di testo) non vuol dire che la dobbiamo prendere per verità assoluta.
Bruna Pelucchi
in: Le Scienze Web News, http://www.lswn.it/
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Piccole conferenze per grandi incontri
Bibliografia
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ALISON ABBOTT, Mozart doesn't make you clever
German government decides to tackle the myth of the 'Mozart effect', Nature,
Published online: 13 April 2007; doi:10.1038/news070409-13
Sitografia
MIND INSTITUTE
www.mindinst.org (il sito dell’organizzazione M.I.N.D. a cui afferiscono gli autori del lavoro di ricerca originale);
70
Materiali
THE MOZART EFFECT RESOURCE CENTER
www.mozarteffect.com (sito di Don Campbell, pur avendo registrato il
marchio commerciale, non ha in realtà nulla a che fare con il lavoro di
ricerca originale);
KENNETH M. STEELE - RESEARCH
www.acs.appstate.edu/~kms/research/Steele.htm (sito del Prof. Kenneth
Steele, uno dei più attivi critici dei lavori sull’effetto Mozart);
MOZART EFFECT - THE SKEPTIC’S DICTIONARY
http://skepdic.com/mozart.html;
THE SCIENTIFIC REVIEW OF MENTAL HEALTH PRACTICE
www.srmhp.org (sito della rivista "The Scientific Review of Mental Health Practice"? il cui scopo dichiarato è quello di marcare il confine tra
i lavori supportati da evidenza scientifiche da quelli che invece non lo
sono nelle discipline psicologiche, psichiatriche e sociologiche);
NEUROSCIENCE FOR KIDS - THE MUSICAL BRAIN
http://faculty.washington.edu/chudler/music.html (sito di divulgazione scientifica gestito dalla Università di Washington in cui si parla, tra
l’altro, dell’effetto Mozart).
Bruna Pelucchi è ricercatrice del Dipartimento di Biologia dell’Università di Ferrara. Attualmente è ospite del Waisman Center, UW-Madison
(Wisconsin) dove sta sviluppando un progetto di ricerca sull’apprendimento statistico nei bambini. Precedentemente si è occupata di neurofisiologia cellulare applicando le tecniche dell’elettrofisiologia classica e del
patch clamp. Ha insegnato fisiologia generale ed applicata presso le facoltà
di Scienze e di Medicina e, precedentemente all’entrata in servizio nell’università di Ferrara, ha a lungo lavorato nella Scuola Superiore come docente
di Chimica. Si è laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche nel 1988
presso l’Università di Ferrara, dove ha anche conseguito il Dottorato in
Neurobiologia e Neurofisiologia nel 1994. E’ nata nel 1963 a Ferrara ed
ha due figli.
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Un fulmine a ciel sereno:
musicofilia improvvisa
Oliver Sacks, Musicofilia
Un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipa all’incontro organizzato da
un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: tutti
appaiono in preda a tic contagiosi, che si propagano «come onde». Poi il batterista inizia a suonare - e come per incanto il gruppo lo segue con i tamburi,
fondendosi in una perfetta sincronia ritmica.
Questo stupefacente esempio è solo una particolare variante del prodigio di
«neurogamia» che si verifica ogniqualvolta il nostro sistema nervoso ‘si sposa’
a quello di chi ci sta accanto attraverso il medium della musica. Presentando
questo e molti altri casi con la consueta capacità di immedesimazione, in Musicofilia Sacks esplora la straordinaria robustezza neurale della musica e i suoi
nessi con le funzioni e disfunzioni del cervello.
Allucinazioni sonore, amusia, disarmonia, epilessia musicogena: da quali inceppi nella connessione a due vie fra sensi e cervello sono causate? Come
sempre l’indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto:
l’orecchio assoluto, la memoria fonografica, l’intelligenza musicale e soprattutto l’amore per la musica - un amore che può divampare all’improvviso, come
nel memorabile caso del medico che, colpito da un fulmine, viene assalito da
un «insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte», suonare e persino
comporre.
Grazie alle testimonianze dei pazienti di Sacks ci troviamo così a riconsiderare in una nuova prospettiva appassionanti interrogativi, e assistiamo ai successi
della musicoterapia su formidabili banchi di prova quali l’autismo, il Parkinson,
la demenza.
Dai misteriosi sogni musicali che ispirarono Berlioz, Wagner e Stravinskij,
alla possibile amusia di Nabokov, alla riscoperta dell’ «enorme importanza, spesso sottostimata, di avere due orecchie»: ogni storia cui Sacks dà voce illumina
uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano,
e ci definiscono.
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Piccole conferenze per grandi incontri
«Una tale inclinazione per la musica traspare già nella prima infanzia, è
palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della
nostra specie. Questa “rnusicofilia” è un dato di fatto della natura umana. Può
essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della
vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui;
ciò nondimeno, è così profondamente radicata nella nostra natura da imporci di
considerarla innata, proprio come Edward O. Wilson considera innata la “biofilia”, il nostro sentimento verso gli altri esseri viventi. (Forse la stessa musicofilia
è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva)».
A quarantadue anni, Tony Cicoria era un uomo robusto e
in ottima forma; giocatore di football ai tempi del college, era
diventato uno stimato chirurgo ortopedico in una cittadina
nella parte settentrionale dello Stato di New York. In un pomeriggio d’autunno, si trovava in un padiglione sulle rive di
un lago per una riunione di famiglia. Era una bella giornata
ventosa, ma lui fece caso, in lontananza, ad alcune nubi temporalesche. Aveva tutta l’aria di voler piovere.
Uscito dal padiglione si diresse a un telefono pubblico per
chiamare sua madre (era il 1994, prima dell’era dei cellulari).
Ricorda ancora ogni secondo di ciò che accadde poi: «Stavo parlando con mia madre al telefono. Pioveva appena, si
sentiva tuonare in lontananza. Mia madre riattaccò. Il telefono era a una trentina di centimetri da dove mi trovavo io,
quando fui colpito. Ricordo un lampo di luce uscire dall’apparecchio. Mi prese in pieno viso. La prima cosa che ricordo,
subito dopo, è che stavo volando all’indietro ».
«Poi» e qui sembrò esitare prima di raccontarmelo «stavo
volando in avanti. Stupefatto. Mi guardai intorno. Vidi il mio
corpo per terra. Dissi a me stesso: “Accidenti, sono morto”.
Vidi della gente radunarsi convergendo intorno al corpo. E
vidi una donna - una che prima era in piedi proprio dietro
di me, in attesa che io liberassi il telefono - mettersi sopra al
corpo e praticargli una manovra di rianimazione ... Salii fluttuando le scale, e la coscienza mi venne dietro; vidi i miei figli
ed ebbi la percezione che sarebbero stati bene. Poi mi ritrovai
74
Materiali
circondato da una luce bianco-azzurra ... una sensazione di
enorme benessere e di pace. Vidi scorrere velocissimi, vicino a me, i momenti migliori della mia vita e quelli peggiori.
Non erano associati ad alcuna emozione ... puro pensiero:
estasi pura. Ebbi la percezione di accelerare, di essere attirato
verso l’alto ... percepii velocità e direzione. Poi, mentre stavo
dicendo a me stesso: “Questa è la sensazione più splendida
che abbia mai provato” - PAM! Ero tornato ».
Il dottor Cicoria capì di essere tornato nel suo corpo perché sentì dolore - il dolore causato dalle bruciature al volto e al piede sinistro, dove la scarica elettrica era entrata e
uscita - e, si rese conto, «solo un corpo prova dolore». Voleva tornare indietro, pensava, voleva dire a quella donna di
smetterla con la rianimazione, di lasciarlo morire; ma ormai
era troppo tardi: era stabilmente tornato fra i vivi. Dopo uno
o due minuti, quando riuscì a parlare, disse: «Va tutto bene,
sono un medico I ». La donna (emerse in seguito che faceva
l’infermiera in una unità di terapia intensiva) replicò: «Qualche minuto fa non andava bene per niente ».
Arrivò la polizia; volevano chiamare un’ambulanza, ma
Cicoria rifiutò, farneticando. Così lo portarono a casa (<< mi
sembrò di impiegarci ore»), da dove poté chiamare il suo medico, un cardiologo. Questi, visitandolo, pensò che Cicoria
avesse avuto un breve arresto cardiaco, ma non riuscì a trovare nulla fuori posto, né a un esame obiettivo, né facendogli
un ECG. «In questi casi, o vivi o muori» osservò. Pensava che
il dottor Cicoria non avrebbe patito alcuna conseguenza per
quel bizzarro incidente.
Cicoria consultò anche un neurologo: si sentiva indolente
(cosa estremamente insolita per lui) e aveva qualche problema di memoria. Gli capitava di dimenticare nomi di persone
che conosceva bene. Fu sottoposto a un esame neurologico;
gli fecero un EEG e una risonanza magnetica. Ancora una
volta, sembrava non ci fosse nulla fuori posto.
Un paio di settimane dopo, ritrovate le energie, il dottor
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Piccole conferenze per grandi incontri
Cicoria tornò al lavoro. Aveva ancora qualche problema con
la memoria - capitava che dimenticasse il nome di malattie
rare o di procedure operatorie; tutte le abilità chirurgiche,
però, erano intatte. Scomparsi nell’arco di altre due settimane i problemi di memoria, Cicoria pensò che ormai la faccenda fosse definitivamente chiusa.
Ciò che accadde poi lo riempie di meraviglia ancora oggi,
a distanza di dodici anni. Quando in apparenza la vita era
ormai tornata alla norma, «all’improvviso, nell’arco di due o
tre giorni, mi venne un insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte ». Era proprio una cosa senza precedenti.
Da bambino, mi disse, aveva preso qualche lezione di piano,
«ma senza alcun reale interesse ». Non aveva un pianoforte
in casa. Quella che ascoltava di solito era musica rock.
Spinto da questo improvviso, intenso desiderio di musica per pianoforte, Cicoria cominciò ad acquistare dischi e si
innamorò in modo particolare di un’incisione di Vladimir
Askenazi, Chopin Favorites: la Polacca «Militare», lo Studio
« Vento d’inverno », lo Studio «Sui tasti neri», la Polacca in
la bemolle e lo Scherzo in si bemolle minore. «Mi piacevano tutti moltissimo» mi spiegò Tony. «Volevo suonarli io.
Ordinai tutti gli spartiti. A questo punto, una delle nostre
baby-sitter ci chiese il permesso di portare il suo pianoforte
da noi; cosi, proprio nel ~omento in cui ne desideravo immensamente uno, ecco che mi arrivava uno strumento: un
piccolo piano verticale, molto bello. Per me era perfetto. Leggevo appena la musica, a malapena riuscivo a suonare, ma
cominciai a imparare da autodidatta». Erano passati più di
trent’anni da quelle poche lezioni prese da bambino, e le sue
dita parevano rigide e legate.
E poi, subito dopo questo improvviso desiderio di pianoforte, Cicoria cominciò a sentirsi suonare in testa della
musica. «La prima volta» mi disse «fu in sogno. Ero su un
palco, con uno smoking addosso; stavo suonando, qualcosa
che avevo scritto io. Mi svegliai stupito, e la musica era an-
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Materiali
cora lì, nella mia testa. Saltai giù dal letto, e cercai di metter
nero su bianco tutto quello che riuscivo a ricordare. Ma non
sapevo da che parte cominciare per scrivere con le note ciò
che sentivo ». Il tentativo non riuscì molto bene: prima di allora, non aveva mai cercato di scrivere della musica usando
la notazione. Adesso, però, ogni volta che sedeva al piano
per lavorare su Chopin, ecco che subentrava la sua musica:
«affiorava e mi assorbiva completamente. Era una presenza
prepotente ».
Proprio non sapeva che cosa pensare di questa musica perentoria che si insinuava in lui in modo quasi irresistibile, sopraffacendolo. Erano forse delle allucinazioni musicali? No,
disse il dottor Cicoria, non erano allucinazioni: «ispirazione»
era una parola più appropriata. La musica era là, in lui, nel
profondo - o comunque da qualche parte - e tutto quello che
lui doveva fare era lasciare che gli venisse incontro. «È come
una frequenza, una banda radio. Se io mi apro, lei arriva. Insomma, intendo che “viene dal cielo”, come diceva Mozart».
La sua musica è incessante: «Non si esaurisce mai» continuò Cicoria. «Quanto meno, sono io che devo spegnerla» .
Ora Cicoria doveva combattere non solo per imparare a
suonare Chopin, ma anche per dar forma alla musica che gli
scorreva continuamente in testa, provare a suonarla al piano,
fissarla sulla carta. «Era una lotta terribile» mi disse. «Mi alzavo alle quattro di mattina e suonavo finché non andavo al
lavoro; e quando tornavo a casa, me ne stavo al piano tutta
la sera. Mia moglie non era certo contenta. Ero come posseduto».
Nel terzo mese dall’incidente, Cicoria (che un tempo era
stato un tipo socievole, tutto casa e famiglia, quasi indifferente alla musica) si ritrovò cosi ispirato, addirittura posseduto,
dalla sua nuova passione che quasi non trovava il tempo di
fare altro. Gli venne in mente che forse era stato «salvato»
per un motivo particolare. «Arrivai a pensare» mi raccontò
«che la musica fosse l’unica ragione per la quale mi era stato
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Piccole conferenze per grandi incontri
concesso di sopravvivere». Gli chiesi del suo rapporto con la
religione prima dell’incontro con il fulmine. Aveva ricevuto un’ educazione cattolica, mi disse, ma non era mai stato
troppo osservante: oltre tutto , aveva qualche credenza «non
proprio ortodossa», per esempio la reincarnazione.
Era giunto a convincersi di essere lui stesso protagonista
di una sorta di reincarnazione: aveva subìto una metamorfosi e ricevuto un dono speciale, una missione - quella di
«sintonizzarsi» sulla musica che lui chiamava, solo per metà
metaforicamente, «la musica venuta dal cielo ». Spesso, essa
si presentava come un «torrente assoluto» di note senza interruzioni fra una e l’altra - senza pause - e toccava a lui dar
loro un contorno e una forma. (Mentre mi raccontava questo, mi venne in mente Caedmon, il poeta anglosassone del
settimo secolo, un pastore ‘analfabeta che si diceva avesse
ricevuto 1’«arte del canto» in sogno, una notte, e che aveva
passato il resto della vita tessendo le lodi di Dio e del creato
nei suoi inni e nelle sue poesie).
Cicoria continuò a lavorare alla tecnica del pianoforte e
alla composizione. Acquistò libri sulla notazione musicale e
subito si rese conto di aver bisogno di un maestro. Andava
ai concerti tenuti dai suoi esecutori preferiti, ma non aveva
nulla a che fare con i circoli musicali della sua città o con le
attività musicali che vi si svolgevano. La sua era una ricerca
solitaria, qualcosa fra lui e la sua illusa.
Gli chiesi se avesse sperimentato altri cambiamenti dal
giorno in cui era stato colpito dal fulmine: un nuovo apprezzamento dell’arte, forse, oppure gusti diversi nella lettura, o
nuove credenze. Cicoria mi disse che dopo quella sua esperienza di quasi-morte era diventato «molto spirituale »: aveva cominciato a leggere tutti i libri che era riuscito a trovare
sulle esperienze di quasi-morte o sulle persone colpite dai
fulmini. Inoltre, si era fatto «un’intera biblioteca su Tesla» e
aveva raccolto qualsiasi cosa riguardasse il potere, meraviglioso e terribile, dell’elettricità ad alto voltaggio. Era con-
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Materiali
vinto di riuscire a vedere, a volte, «aure» di luce o di energia
intorno al corpo delle persone: una cosa che non gli era mai
capitata prima di essere colpito dal fulmine.
Passarono alcuni anni e, nella sua nuova vita, Cicoria non
perse mai l’ispirazione, nemmeno per un momento. Continuò a lavorare a tempo pieno come chirurgo, ma il suo cuore
e la sua mente erano ormai concentrati sulla musica. Nello
stesso anno del suo divorzio, il 2004, ebbe uno spaventoso
incidente in motocicletta, del quale non conservò alcun ricordo. La sua Harley fu tamponata da un altro veicolo e lui,
incosciente e ferito in modo grave, fu ritrovato in un fosso
con le ossa rotte, la milza spappolata, un polmone perforato,
contusioni cardiache e, nonostante il casco, un trauma cranico. A dispetto di tutto questo, guarì completamente e in capo
a due mesi era di nuovo al lavoro. Né l’incidente, né il trauma cranico e nemmeno il divorzio sembravano aver scalfito
la sua passione per l’esecuzione musicale e la composizione.
Oliver Sacks
Musicofilia
Adelphi, Milano 2008, pagg. 21-26
Oliver Sacks (1933), laureatosi presso il Queen’s College di Oxford, è
oggi titolare della cattedra di Neurologia presso l’Università di Los Angeles (UCLA). Nei suoi libri, Sacks descrive i casi clinici concentrandosi non
soltanto sulle descrizioni scientifiche delle patologie ma anche e soprattutto
sull’esperienza personale dei pazienti. Molti dei casi che racconta sono incurabili, ed il tema principale del racconto è quello dei diversi modi in cui le
persone si adattano alle loro diverse disabilità. Nell’ottica di Sacks, tuttavia,
l’adattamento non è passivo e giunge a modificare sostanzialmente la stessa
base patologica. La concezione di Sacks infatti postula l’unità delle strutture nervose, per cui una funzione danneggiata in una certa area, può essere
vicariata e in parte corretta dall’uso di altre aree. Tipico il caso dell’afasico
che riesce a parlare cantando o del discinetico che si muove alla perfezione se
accompagnato da musica. Tema trasversale alla sua trattazione è quello della
“romantic science”, ovvero la necessità di promuovere una scienza ed una
clinica che non si dimentichino mai la fondamentale attenzione alla “dimensione umanistica” che le dovrebbe sempre guidare.
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La canzone del primo amore
da L’accordatore di piano, di Daniel Mason
Edgar Drake, stimato accordatore di pianoforti nella Londra vittoriana,
riceve un giorno una bizzarra richiesta dal ministero della Guerra britannico: accordare un pregiato pianoforte a coda Érard consegnato a un eccentrico
medico dell’esercito a capo di un remoto avamposto nel cuore della giungla
birmana, il maggiore medico Anthony Carroll.
È l’inizio di una lunga e appassionante odissea, che porterà Drake a migliaia di chilometri dalla sua vita, in un mondo dalle tinte vivaci, apparentemente
così semplice e aperto, in realtà indecifrabile e traditore. Sulle rive dell’impetuoso fiume Salween Drake uscirà sconvolto dall’incontro con il sogno ambiguo e visionario di quest’uomo e soprattutto dall’incontro con la Birmania, un
luogo più tenebroso e fatale di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Dov’ero rimasto? Ah, sì, Carroll si infila nella giungla
con una scorta, una decina di soldati al massimo, è lui a
non volerne di più, dice che non è una spedizione militare,
ebbene, spedizione militare o no, prima ancora di arrivare
a destinazione vengono assaliti, stanno attraversando una
radura e all'improvviso si sente sibilare una freccia che si
conficca in un albero proprio sopra la sua testa. I soldati
si nascondono nei cespugli e caricano i fucili, ma Carroll
rimane in piedi in mezzo alla radura, matto da legare, ve
lo dico io, solo, ma calmo, calmissimo, così calmo da far
invidia a un giocatore di poker, e un’altra freccia gli sfiora
il casco. Che pazzo! Puoi ben dirlo, e lui cosa fa? Diccelo,
Jackson. Sì, dillo, non tenerci sulle spine. Va bene, va bene,
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Piccole conferenze per grandi incontri
ve lo dico, lui cosa fa? Quel disgraziato si toglie il casco, ci
ha legato un piccolo flauto che si diverte a suonare mentre
marcia, e per l'appunto si mette a suonare. È pazzo, credetemi! Completamente andato! Mi lasciate finire? Sì, va’ avanti, va’ avanti, finisci ‘sta benedetta storia! Carroll si mette a
suonare, e cosa suona? Dio salvi la Regina? Sbagliato, Murphy. La figlia del taglialegna? «Sei sempre il solito, Stephens,
lo scusi, signor Drake, scusate, ragazzi, insomma Carroll si
mette a suonare una canzone stranissima che nessuno ha
mai sentito, un motivetto bizzarro, un mio amico era nella
scorta, me l'ha raccontato lui, non aveva mai sentito quella
canzone in vita sua, era semplicissima, una ventina di note
in tutto. Poi Carroll si ferma e si guarda intorno, i suoi uomini sono ancora inginocchiati fra i cespugli con il fucile
imbracciato, pronti a sparare se vola una mosca, ma non
succede nulla, silenzio, e allora Carroll suona di nuovo il
motivetto. Niente, neanche un cinguettio, non arrivano più
frecce, e Carroll suona di nuovo, e da dietro gli alberi si sente un fischiettare sommesso, è lo stesso motivetto, e questa
volta, quando la canzone finisce, Carroll non si ferma ma
la ripete, ed ecco che tutti quei pazzi si mettono a cantare
insieme, Carroll e i suoi assalitori, e i soldati li sentono ridere nella foresta, ma la vegetazione è fitta e non si vede
niente. Alla fine Carroll si ferma e fa cenno ai suoi uomini
di alzarsi e di uscire dai loro nascondigli, loro hanno una
paura maledetta, come potete immaginare, ma si rimettono
in sella e riprendono la marcia, e gli assalitori non si fanno
più vedere, anche se il soldato che mi ha raccontato questa
storia dice che continuarono a sentirli per tutto il tragitto,
loro erano là, li proteggevano, proteggevano Carroll, ed è
così che Carroll attraversa uno dei territori più insidiosi
dell'Impero senza sparare un colpo, e arriva a Mae Lwin,
dove il capo locale li sta già aspettando, ha fatto preparare
del riso e delle pietanze al curry, e dà loro ospitalità, e dopo
tre giorni passati a parlamentare, Carroll annuncia ai suoi
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Materiali
uomini che il capo ha dato il permesso di costruire un fortino in cambio della protezione dai dacoit1 e della promessa
di un piccolo ospedale. E di altra musica.
Si fece silenzio. Anche il più loquace dei soldati era rimasto senza parole. «Che canzone era?» chiese Edgar.
«Eh?»
«La canzone. Che canzone era quella che suonò Carroll
col suo flauto?»
«Ah, sì... una canzone d’amore shan2. Quando un giovane shan corteggia una ragazza, canta sempre la stessa
canzone. Un motivo semplicissimo, ma il risultato fu miracoloso. L’amico che mi ha raccontato questa storia mi ha
spiegato perché: secondo Carroll nessuno può uccidere un
uomo dopo averlo sentito suonare la canzone che gli ricorda il suo primo amore.
«Incredibile.» Qualcuno ridacchiò. I soldati tacevano,
assorti.
«Ci sono altre storie?» chiese Edgar.
«Su, Carroll? Caspita, signor Drake, ce ne sarebbero tante.»
Il soldato fissò il bicchiere quasi vuoto. «Domani, forse. Adesso sono stanco. Il viaggio è ancora lungo. Avremo
tutto il tempo di raccontarci storie, prima che arriviamo a
Mondalay.»
Daniel Mason
L’accordatore di piano
Mondadori, Milano 2003, pagg. 126-127
Dacoit: rapinatori (da daka, “rapinare”), banditi.
Shan: gruppo etnico del sud-est dell’Asia: vive soprattutto nello
Stato Shan, in Birmania e nelle zone confinanti della Cina, Thailandia,
Cambogia e Vietnam.
1
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Incontri ravvicinati del terzo tipo
Steven Spielberg, 1977
Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind) è un
film di fantascienza del 1977 diretto e sceneggiato da Steven Spielberg, nel quale
viene narrato un possibile primo contatto tra l’umanità ed entità extraterrestri.
Il film racconta lo straordinario incontro ravvicinato attraverso una narrazione molto semplice, quasi favolistica, con il classico lieto fine. Lo stesso Steven
Spielberg al termine delle riprese aveva commentato: «Volevo che Incontri ravvicinati del terzo tipo fosse una storia molto semplice, vissuta da una persona
qualunque, che doveva essere testimone di un evento straordinario, un’esperienza sconvolgente e ossessionante, di quelle che cambiano completamente la vita».
Una delle peculiarità del film è proprio il lieto fine, gli alieni infatti non
vengono per conquistare e distruggere, ma vengono in pace, ribaltando così
un’immagine classica del cinema di fantascienza postbellico.
Trama
Alcuni fenomeni misteriosi si verificano in alcune località del continente americano. A Mencie, Indiana, capitano
strani avvenimenti anche nella casa della giovane vedova
Jillin Guiler. Frattanto Roy Neary parte per verificare le
cause di una caduta nella tensione elettrica: ma scorge un
UFO e per poco non investe il piccolo Barry, figlio della vedova, che è uscito di casa attratto da un arcano richiamo
Assieme ad altre persone convenute sul luogo, Roy e la
madre del piccolo vedono tre UFO in volo. Rientrato a casa,
l’uomo informa dell’accaduto la moglie, che non gli crede.
Indipendentemente dalla sua stessa volontà, Roy prende a
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Piccole conferenze per grandi incontri
plasmare la forma di una montagna con qualsiasi materiale
gli capiti sottomano. Infine è licenziato. La moglie lo lascia.
Frattanto lo scienziato Claude Lacombe spiega ai colleghi il principio di un alfabeto musicale, che corrisponde ad
alcuni suoni “celesti”, e ripetuti da una popolazione dell’India del nord. Gli ufologi inviano un messaggio mediante le
note, ottenendo una risposta.
Il piccolo Barry è rapito da una forza aliena. Roy scopre
che la montagna delle sue ossessioni è la Torre del diavolo,
nel Wyoming: si reca sul posto e vi incontra Jillian Guiler,
alla ricerca del figlio. I due capiscono che lo sfollamento
della montagna da parte delle autorità è giustificato con un
pretesto. Riescono a fuggire, inseguiti, e giungono nel luogo dove gli scienziati si preparano al rendez-vous del terzo
tipo con gli extraterrestri.
Quando gli UFO arrivano si fa uso delle comunicazione
musicale già sperimentata. Una grande astronave atterra:
ne escono persone già scomparse in circostanze inesplicabili. Tra loro, Barry. Roy, spinto da un impulso irresistibile,
avanza ed è circondato da piccoli alieni amichevoli. Lo aggregano ai componenti della missione di pace che parte a
bordo dell’astronave.
Assieme a Star Wars di Gorge Lucas, il film è all’origine
del massiccio revival americano del cinema fantastico. Il costo è stimato intorno ai venti milioni di dollari. Tributo alla
ricchezza della ordinaria immaginazione umana, il film è un
po’ la sintesi dell’ingegno fantastico-realistico di Spielberg.
La passione per gli effetti speciali (tra i più complessi realizzati a quella data) e il sentimento dell’ignoto sono congiunti nella formula narrativa che il regista predilige: “gente normale in condizioni straordinarie”. Si tratta di una
sorta di rispetto per l’arcano che trascende la paranoia e il
melodramma usuali nel genere fantascientifico. I personaggi preferiscono il contatto diretto piuttosto che le versioni
86
Materiali
ufficiali della realtà. Spielberg manifesta un’attenzione particolare per le reazioni umane, assumendo talora toni surreali senza mai rinunciare, però, al realismo del dettaglio
quotidiano.
All’apparato narrativo fiabesco si sovrappone una strumentazione sonoro-visiva-effettistica tra le più sbalorditive
che la tecnica cinematografica abbia mai sperimentato. Una
versione un po’ più ampliata è stata fatta circolare nel 1981
(tratto da: Franco La Polla, Steven Spielberg, in Il castoro cinema,
La Nuova Italia, maggio - giugno 1982)
La melodia
Nel film, gli extraterrestri mandano un messaggio costituito da una sequenza di cinque note (in realtà si tratta di sole quattro note, una delle quali ripetuta all’ottava:
dunque non è tecnicamente una scala pentatonica). Tale
sequenza è stata scritta da John Williams, su diretta indicazione di Spielberg. In realtà Williams voleva utilizzare una
melodia con almeno sette note, ma Spielberg volle categoricamente una sequenza di sole 5 note, che fosse possibile
considerare come equivalente musicale della parola inglese
Hello (Ciao).
Nella scena appare un grande sintetizzatore modulare
ARP 2500, nella realtà la musica proviene dall’orchestra di
John Williams. Le note che compongono la sequenza sono:
sol4-la4-fa4-fa3-do4:
&
œ œ œ
œ œJ
In un’altro momento del film, dopo aver sentito cantare
la sequenza di suoni nella scena ambientata a Dharamsala, in India, il personaggio di Lacombe osserva: «Mais c’est
la guerre pentatonique... cinq notes au lieu de sept!» («Ma è la
guerra pentatonica... cinque note invece di sette!»).
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Piccole conferenze per grandi incontri
Una sequenza di note simile viene descritta come emessa da un disco volante durante un avvistamento documentato nel libro La verità sui dischi volanti di Frank Edwards,
pubblicato nel 1969. La stessa musica è citata nel film Agente 007 - Moonraker - Operazione spazio, allorquando James
Bond compone i cinque numeri del codice per entrare in
un laboratorio a Venezia, e anche all’inizio dell’esibizione
live dei Daft Punk durante il tour Alive 2007, a simboleggiare
l’incontro tra alieni (i Daft Punk si travestono notoriamente
da robot) e umani (il pubblico)1.
1
Cfr. Incontri ravvicinati del terzo tipo in Wikipedia, l’enciclopedia libera.
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SOMMARIO
Piccole conferenze per grandi incontri
Un progetto per la scuola
Silvia Bencivelli
5
7
9
Avvio
Il cervello e l’iPod
Selezione naturale
Selezione sessuale
La teoria della torta alla panna
Una risposta nel cervello
Studi sperimentali
Musica ed emozioni
11
13
15
16
18
21
26
29
Domande
Per concludere...
33
45
Cervello, udito, musica/Materiali
47
L’unico organo che studia se stesso
intervista di Marta Erba a Michael Gazzaniga
49
Come sopravvivere a un cocktail: l'udito
di Sandra Aamodt - Sam Wang
55
Requiem per l’effetto Mozart
di Bruna Pelucchi
61
Un fulmine a ciel sereno: musicofilia improvvisa
di Oliver Sacks
73
La canzone del primo amore
di Daniel Mason (da L’accordatore di piano)
81
Incontri ravvicinati del terzo tipo
di Franco La Polla
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