Schizzo di studio di Claudio Ambrosini per Dai Filò di Zanzotto, trittico per quattro voci di donna e pianoforte composto nel 2003. Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 2 VeneziaMusica e dintorni Anno VIII – n. 43 – novembre / dicembre 2011 Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004 Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004 ISSN 1971-8241 Direttore editoriale: Giuliano Segre Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano Direttore responsabile: Leonardo Mello Caporedattore: Ilaria Pellanda Art director: Luca Colferai Redazione: Camilla Crosta, Veronica Tabaglio, Giulia Zennaro Segreteria di redazione: Erica Molin Redazione e uffici: Dorsoduro 3488/U – 30123 Venezia tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939 e-mail: [email protected] [email protected] web: www.euterpevenezia.it VeneziaMusica e dintorni è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004 Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore), Cesare De Michelis, Mario Messinis, Ignazio Musu, Giampaolo Vianello In copertina, I sette peccati capitali secondo Ricardo Bartís, Calixto Bieito, Romeo Castellucci, Jan Fabre, Rodrigo García, Jan Lauwers e Thomas Ostermeier alla Biennale Teatro 2011. Editore: Euterpe Venezia s.r.l. Euterpe Venezia è una società strumentale della Fondazione di Venezia che si occupa dello studio, della produzione e della gestione di processi e interventi formativi, di ricerca e di presenza nel campo delle arti e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo e alle discipline a esse correlate Presidente: Gianpaolo Fortunati Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo Consiglieri: Mariano Beltrame, Mario Geymonat, Eugenio Pino La Fondazione di Venezia è presieduta da Giuliano Segre Consiglio generale: Giorgio Baldo, Franco Bassanini, Vasco Boatto, Francesca Bortolotto Possati, Riccardo Calimani, Carlo Carraro, Anna Laura Geschmay Mevorach, Mario Geymonat, Gianni Mion, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza, Amerigo Restucci, Franco Reviglio, Giovanni Toniolo Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione di Massimo Contiero, Andrea Estero, Claudio Ambrosini, Stefania Lora, Barbara Fusconi, Francesca Borsato, Giuliano Gargano, Valentina Medda, Adriana Stradella, Maria Laura Conte, Cristina Dossi, Emanuela Caldirola, Elena Casadoro, Barbara Fusconi, Adriana Vianello, Andrea De Marchi, Andreina Forieri, Paolo Maier, Barbara Montagner, Annalisa Ricevuti, Andrea Benesso Stampa: Tipografia Crivellari 1918 Via Trieste 1, Silea (Tv) Raccolta pubblicitaria: Luciana Cicogna 347 6176193 – [email protected] Nicoletta Echer 348 3945295 – [email protected] Tiratura: 3000 copie Uscita bimestrale Editoriale eneziaMusica e dintorni nasce nel novembre del 2004, e dunque con questo numero entra nel suo ottavo anno di attività. Cogliamo quest’occasione per ringraziare chi – la Fondazione di Venezia e la sua società strumentale Euterpe, che è dall’inizio il nostro editore – ci ha permesso in passato e permette tuttora, pur in momenti così difficili sul piano economico e finanziario, di continuare il nostro lavoro con la consueta autonomia e libertà. V Le pagine di approfondimento del Focus sono tutte incentrate sulle rassegne della Biennale, in particolare sugli ultimi festival della musica e del teatro, che si sono susseguiti in laguna tra settembre e ottobre. Per raccontarli abbiamo scelto dieci «sguardi», per forza di cose diversi e tra loro complementari: dieci critici di orientamento culturale e generazioni differenti colgono gli elementi salienti delle due manifestazioni, esprimendo un giudizio sia sull’ideazione complessiva che sulle singole proposte. Questo «spazio critico», oltre a riunire personalità di livello nazionale, si propone anche un’altra finalità: creare le premesse per quella che nei prossimi tempi sarà la nostra nuova inchiesta «corale», il cui centro di indagine verterà proprio sulla critica e sulla sua funzione al giorno d’og- Con l’obiettivo di divenire sempre più leggibile e maneggevole, la rivista presenta qualche cambiamento grafico e si snellisce nella foliazione, passando da 96 a 80 pagine. Quella che resta immutata è invece l’impostazione di base, ormai collaudata, che ha tra i suoi obiettivi primari il racconto delle arti dal vivo, in un’epoca dove i confini tra forme espressive sono sempre più labili e in un territorio che giorno dopo giorno dimostra di essere fertile e vitale. Con questo numero, inoltre, iniziano a collaborare giovani e promettenti redattrici, che nel corso del 2010 hanno portato a termine, con un ottimo risultato, l’esperienza formativa di «Artefici», il magazine dedicato alle arti e totalmente ideato e costruito dai ragazzi iscritti a Giovani a Teatro e all’iniziativa per le scuole denominata «Leggere la scrittura». Particolare importanza ricoprono questa volta le pagine di apertura, dove pubblichiamo un inedito del Cardinale Angelo Scola, scritto per la nostra rivista quando era ancora Patriarca di Venezia: attraverso una serie di «appunti» l’attuale Arcivescovo di Milano riflette con la consueta acutezza e profondità sul cruciale rapporto tra esperienza estetica ed esperienza spirituale. gi, considerando in primo luogo gli ambiti legati direttamente allo spettacolo dal vivo ma coinvolgendo nella discussione anche tutte le altre arti. Da segnalare infine, oltre alle tante sezioni tematiche, anche un dettagliato excursus sulla nuova edizione delle Esperienze di Giovani a Teatro. Reduce dall’importante riconoscimento dell’Associazione Nazionale critici di Teatro – il Premio della Critica 2011, consegnato lo scorso 17 ottobre alla Pergola di Firenze – il gruppo di lavoro della Fondazione di Venezia che si occupa di arti sceniche ha ideato e confezionato una considerevole serie di iniziative, tutte collegate tra loro dal filo rosso del tema-guida prescelto, «Essere umani», e in grande maggioranza destinate alle fasce più giovani della nostra popolazione, dalla scuola primaria alla secondaria superiore. Oltre alla celebre «non scuola» di Marco Martinelli, un po’ il simbolo di quest’edizione, molte altre sono le offerte formative targate gat, per l’occasione raccontate dagli stessi artisti coinvolti. Chiudo queste poche righe augurando a tutti i nostri lettori delle buonissime feste e dando loro appuntamento al gennaio 2012. ◼ di Leonardo Mello L’avaro di Molière secondo il Teatro delle Albe (foto di Claire Pasquier). 3 sommario 4 3 Editoriale 8 Illimpidisci il nostro cuore Appunti su «esperienza estetica ed esperienza di fede» + Angelo card. Scola focus on 10 Dieci racconti per la Biennale (Musica e Teatro) di Leonardo Mello 10 Mario Messinis 12 Dino Villatico 16 Paolo Petazzi 17 Mario Gamba 19 Enrico Girardi 20 Maria Grazia Gregori 22 Renato Palazzi 24 Roberta Ferraresi 25 Antonio Audino 27 Roberto Canziani 8 Il Cardinale Angelo Scola svolge una riflessione sul rapporto tra esperienza estetica ed esperienza di fede all’opera 28 La Fenice secondo Cristiano Chiarot a cura di Leonardo Mello 29 Ortombina: «La Fenice parte da Sinopoli» a cura di Ilaria Pellanda 30 Il «Trovatore» onirico e surreale di Lorenzo Mariani a cura di Giulia Zennaro 31 Riccardo Frizza dirige l’opera di Verdi a cura di Veronica Tabaglio 32 Sul «Trovatore» di Massimo Contiero 10 - 27 Le Biennali Musica e Teatro raccontate e interpretate attraverso lo sguardo di dieci diversi critici italiani sinfonica 33 La stagione sinfonica della Fenice di Ilaria Pellanda 34 Alexander Lonquich per la Società veneziana di concerti di Vitale Fano 35 I concerti d’autunno degli Amici della Musica di Paolo Cattelan 36 A Gidon Kremer il «Rubinstein – Una vita nella musica» 2011 di Ilaria Pellanda 37 L’ottava edizione di Ex Novo Musica di Claudio Ambrosini 38 I nuovi concerti dell’Agimus Venezia di Ilaria Pellanda 38 Le Sonate di Mozart per gli Amici della Musica di Padova di Filippo Juvarra 39 Marc Minkowski dirige Bruckner e Poulenc di Mirko Schipilliti 30 - 32 33 Continuano i «Virtuosismi» del Bru Zane di Andrea Oddone Martin 41 «Castelli e Ville in Musica» da Manfredini a Beethoven di Ilaria Pellanda 45 sommario 40 5 l’altra musica 42 Bob Dylan e Mark Knopfler: un incontro in musica di Guido Michelone 43 Il «soul» di Lenny Kravitz sbarca a Treviso a cura di John Vignola 44 Ivano Fossati approda al Malibran Un ritratto dell’artista firmato da Giò Alajmo a cura di Leonardo Mello 45 Ai Frari è di scena Vinicio Capossela di Giovanni Greto 46 Nella «Casa 69» dei Negramaro di Tommaso Gastaldi 47 I trent’anni in musica di Calicanto di Sergio Garbato 47 I Beatles secondo la Magical Mystery Orchestra di Leonardo Mello 48 Sex Mob e Endangered Blood al Fondamenta Nuove di Enrico Bettinello 48 Le mondariso di Anguillara di Gualtiero Bertelli 50 Padova Jazz Festival 2011 di Ilaria Pellanda 48 Gualtiero Bertelli continua la sua narrazione degli anni settanta, momento assai fertile per la ricerca etnomusicologica e per lo studio del canto popolare prosa 51 Giovani a Teatro vince il Premio della Critica 2011 di Fabio Achilli 52 Le nuove Esperienze di Giovani a Teatro di Leonardo Mello 51 - 61 52 Essere umani di Cristina Palumbo 53 «Capire il teatro» affronta la scuola primaria di Gianni De Luigi 54 Il Laboratorio di Musica Creativa di Alvise Seggi Tornano le Esperienze di Giovani a Teatro, quest’anno dedicate prevalentemente a bambini e adolescenti. Gli artisti coinvolti illustrano i propri percorsi laboratoriali 55 Alcuni pensieri su «Romeo e Giulietta» di Massimo Munaro e Chiara Elisa Rossini 55 Copyleft/Copyright, strategie concrete per corpi e suoni di Laura Moro 57 Il lavoro sul video di «Scratch» di Elisa Dal Corso e Silvia Gribaudi 58 Zanzotto e la genesi di «Parlami ancora» di Stefania Felicioli 59 «Sonori sguardi», laboratorio per riflettere sul suono di Paolo Calzavara 59 sommario 6 60 «La città che pianta gli alberi» di Tam Teatromusica di Flavia Bussolotto 60 «Preparare i docenti» di Mafra Gagliardi 61 Albe a Venezia (tra «Avaro» e non scuola) di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari 63 La poesia di Zanzotto si fa carne di Ilaria Pellanda 64 Vitaliano Trevisan secondo Pagliai & Gassman di Stefania Taddeo 65 «Orlando – Orlando» di Stefano Pagin vince il Premio Off di Filomena Spolaor 65 Alcune note sullo spettacolo di Stefano Pagin 63 Stefania Felicioli è ideatrice e interprete unica di «Parlami ancora», uno spettacolo diretto da Stefano Pagin e costruito attorno alla parola poetica di Andrea Zanzotto dintorni – arte 66 Pier Luigi Pizzi si divide tra teatro e arte a cura di Leonardo Mello 67 Art Enclosures 2011 di Ilaria Pellanda 68 Gli «artisti per Noto» a Palazzo Grimani di Camilla Crosta 68 Ricardo Rico, scultore a cura di Leonardo Mello 68 dintorni – cinema 69 Strauboscopie all’Isola di San Giorgio di Francesca Bianchi carta canta – libri 70 Le recensioni di Giuseppina La Face Bianconi 71 Il «Goldoni» memorabile di Siro Ferrone di Leonardo Mello commenti 71 Un territorio per Capitale Per Venezia (con il Nordest) capitale europea della Cultura 2019 di Andrea Porcheddu in vetrina 73 74 Per Giovanni Morelli interventi di Jean Starobinski e Massimo Contiero 75 Gustav Mahler: tre casette per comporre di Piero De Martini 79 Andrea Zanzotto (1921 – 2011) 71 Andrea Porcheddu analizza le dinamiche centro/periferia con particolare attenzione a Venezia e al Nordest Alla Cini la Biblioteca di Luigi Squarzina a cura di Arianna Silvestrini 75 Fondazione Teatro La Fenice Stagioni 2012 e 2012-2013 lirica e balletto 2012 2013 Stagione lirica 2012 Teatro La Fenice 21 / 24 / 26 / 28 gennaio 2012 Lou Salomé musica di Giuseppe Sinopoli prima rappresentazione italiana personaggi e interpreti principali Lou Salomé Ángeles Blancas Gulín maestro concertatore e direttore Lothar Zagrosek regia, scene e costumi Facoltà di Design e Arti IUAV di Venezia tutors Luca Ronconi, Franco Ripa di Meana, Margherita Palli, Vera Marzot Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice nel 30° anniversario della prima rappresentazione assoluta e nel 10° anniversario della morte di Giuseppe Sinopoli Teatro La Fenice 16 / 19 / 21 / 24 / 26 / 28 febbraio 1 / 3 marzo 2012 Così fan tutte musica di Wolfgang Amadeus Mozart personaggi e interpreti principali Fiordiligi Maria Bengtsson Guglielmo Markus Werba / Alessio Arduini Ferrando Marlin Miller / Leonardo Cortellazzi Don Alfonso Andrea Concetti / Luca Tittoto maestro concertatore e direttore Antonello Manacorda Stefano Montanari regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Carla Teti Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice Teatro La Fenice Teatro La Fenice La traviata musica di Georges Bizet personaggi e interpreti principali Il conte Rodolfo Giovanni Battista Parodi Amina Jessica Pratt Elvino Shalva Mukeria maestro concertatore e direttore Gabriele Ferro regia Bepi Morassi personaggi e interpreti principali José Stefano Secco / Luca Lombardo Carmen Béatrice Uria Monzon / Katarina Giotas Micaëla Alexia Voulgaridou / Virginia Wagner maestro concertatore e direttore nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice Omer Meir Wellber regia Calixto Bieito scene Alfons Flores costumi Mercè Paloma Teatro Malibran maestro del Coro Claudio Marino Moretti Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti 27 / 29 aprile 4 / 8 / 10 maggio 2012 Powder Her Face musica di Thomas Adès prima rappresentazione a Venezia personaggi e interpreti principali La duchessa Olga Zhuravel Il direttore dell’hotel Nicholas Isherwood La cameriera Zuzana Marková maestro concertatore e direttore Philip Walsh regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi Orchestra del Teatro La Fenice allestimento Teatro Rossini di Lugo di Romagna e Teatro Comunale di Bologna con il contributo della Fondazione Amici della Fenice Teatro La Fenice 11 / 12 / 13 / 16 / 18 / 19 / 23 / 24 / 26 / 27 / 29 maggio 2012 La bohème Orchestra e Coro del Teatro La Fenice nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Gran Teatre de Liceu di Barcellona Teatro Massimo di Palermo e Teatro Regio di Torino con il contributo del Circolo La Fenice Teatro La Fenice 6 / 8 / 11 / 13 / 15 luglio 2012 1 / 2 / 4 / 5 / 9 / 13 / 15 / 19 / 20 / 22 / 26 / 28 / 30 settembre 2012 musica di Giuseppe Verdi personaggi e interpreti principali Violetta Valéry Patrizia Ciofi Alfredo Germont Antonio Poli Giorgio Germont Giovanni Meoni maestro concertatore e direttore Diego Matheuz regia Robert Carsen scene e costumi Patrick Kinmonth coreografia Philippe Giraudeau Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti allestimento Fondazione Teatro La Fenice Teatro La Fenice 14 / 16 / 18 / 21 / 23 / 25 / 27 / 29 settembre 2012 Rigoletto musica di Giuseppe Verdi L’elisir d’amore personaggi e interpreti principali Il duca di Mantova Celso Albelo Rigoletto Dimitri Platanias Gilda Desirée Rancatore personaggi e interpreti principali Adina Desirée Rancatore Nemorino Celso Albelo maestro concertatore e direttore Diego Matheuz regia Daniele Abbado scene e costumi Alison Chitty coreografia Simona Bucci musica di Gaetano Donizetti maestro concertatore e direttore Omer Meir Wellber regia Bepi Morassi scene e costumi Gian Maurizio Fercioni Orchestra e Coro del Teatro La Fenice Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti allestimento Fondazione Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti allestimento Fondazione Teatro La Fenice musica di Giacomo Puccini (Die Dreigroschenoper) libretto di Bertolt Brecht musica di Kurt Weill Marcello Seung-Gi Jung Mimì Kristin Lewis Musetta Francesca Sassu personaggi e interpreti principali Mackie Messer Massimo Ranieri Jenny delle spelonche Lina Sastri Polly Peachum Gaia Aprea Daniele Callegari regia Francesco Micheli scene Edoardo Sanchi costumi Silvia Aymonino Francesco Lanzillotta regia Luca De Fusco scene Fabrizio Plessi costumi Maurizio Millenotti coreografia Alessandra Panzavolta Carmen musica di Vincenzo Bellini La sonnambula personaggi e interpreti principali Rodolfo Gianluca Terranova / maestro concertatore e direttore Teatro La Fenice 21 / 22 / 23 / 24 / 26 / 27 / 28 / 29 / 30 giugno 1 / 7 / 10 / 12 luglio 2012 7 / 8 / 9 / 10 / 11 marzo 2012 L’opera da tre soldi Teatro La Fenice 21 / 24 / 28 aprile 17 / 20 / 22 / 25 maggio 2012 Khachatur Badalian maestro concertatore e direttore Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti allestimento Fondazione Teatro La Fenice Orchestra del Teatro La Fenice allestimento Teatro Stabile di Napoli e Napoli Teatro Festival Per informazioni, prenotazioni e acquisto biglietti Information and ticket booking call center Hellovenezia (+39) 041.2424 www.teatrolafenice.it F ONDAZIONE T EATR O L A F ENICE Illimpidisci il nostro cuore 8 Appunti su «esperienza estetica ed esperienza di fede» + Angelo card. Scola N el livello sempre civilmente alto degli interventi del Cardinale Angelo Scola, sia nelle risposte che la figura pubblica sa dare al luogo del suo impegno, sia anche – e vi è entusiasmo nel coglierlo per chi vi è esterno – nel suo magistero ecclesiale, traspare una lettura attenta al contorno. Quel «paesaggio» talvolta fisico, talvolta mistico, ovvero e comunque sempre culturale che ci circonda ed incorpora il credente nell’esistente. A questo riferimento esistenziale è facile dare la definizione che accompagna la cultura occidentale dalla prima metà del Settecento, da quando cioè Johann Joachim Winckelmann estrasse dal garbuglio filosofico allora prevalente la nozione del «bello nell’arte», come elemento distintivo della lettura della realtà circostante. B ello è quanto vediamo, se lo comprendiamo e per comprenderlo ci vuole poco: «l’umiltà e la semplicità sono le due vere sorgenti della bellezza». Si riferiva al manufatto artistico l’archeologo tedesco, forse troppo colpito dalla fisicità del marmo trasformato in figura. Ma il suo tema epistemologico era sviluppato proprio negli anni che il Cardinale ha recentemente richiamato intorno al ruolo scientifico di una grande figura del medesimo periodo. L’attenzione del Cardinale alla «Theory of moral sentiments» di Adamo Smith, cioè all’evidenza dell’empatia che lega gli uomini nel loro essere relazionali, consente di unire insieme ai nessi fra loro anche la dipendenza dal contesto. Esso è bello per capacità di arte, per cultura di chi lo legge, ma anche per natura (e volontà?) originaria. Tutto si riunifica nei moti dell’animo ed ecco perché l’arte illimpidisce i cuori. La nostra rivista è lieta ed onorata di aver avuto dall’allora Patriarca di Venezia queste riflessioni che pubblichiamo oggi proprio perché non rappresentano un commiato da quella Venezia che guida la nostra intitolazione, ma esprimono quella lunga mano che attraverso i chilometri ci consente di stringere quella dell’Arcivescovo di Milano. Giuliano Segre Direttore Editoriale 1. Il 3 marzo 2002, in occasione dell’inizio del mio ministero come Patriarca di Venezia, citai alcuni versi di una poesia di Ezra Pound che esprimevano, con un’intensità da me irraggiungibile, il «contraccolpo» di ciò che stavo vivendo: «O Dio [...] la mia strada hai segnato/[...] E la bellezza di questa tua Venezia/M’hai rivelata, [...]/O Dio, quale grande gesto di bontà/Abbiamo fatto in passato/E dimenticato,/Che tu ci doni questa meraviglia/ Sì, la gloria dell’ombra/Della tua Bellezza ha camminato/Sull’ombra delle acque in questa tua Venezia./ [...] O Dio …/Illimpidisci il nostro cuore [...]» (Ezra Pound, 1885-1972, Litania notturna, in: Poesie scelte, Mondadori, Milano 1960). Venezia, 8 maggio 2011 Una bellezza fragile e struggente che ammutolisce e non si stanca di attrarre ogni giorno migliaia di persone da tutto il mondo. A Venezia è il mondo a venire da noi, come ci fece notare con indimenticabili parole Giovanni Paolo II visitandola nel 1985. La nostra città possiede infatti una vocazione singolare. Una forza ad un tempo centripeta e centrifuga per cui tutta l’umanità si riversa da noi e la nostra città continua a parlare a tutta l’umanità. Cosa cercano da noi le folle dei visitatori più diversi per razza, lingua, cultura e religione? Solo le gloriose vestigia di un passato? E noi cosa offriamo loro? Una memoria museale e storica che consente una pausa di puro godimento estetico nel ritmo spesso affannato di una vita un po’ asfittica? 2. Ci aiutano a trovare tracce per una risposta convincente e mobilitante alcune osservazioni di Benedetto XVI nell’incontro con gli artisti dello scorso 21 novembre: «L’autentica bellezza… schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esi- stere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro,/il lavoro è per risorgere”». La bellezza desta la nostra fame e sete di eternità, rivelando l’ineliminabile dimensione spirituale dell’uomo. 3. Niente forse come l’arte, quando è autentica, ci mette davanti alla inesauribile, testarda «sporgenza» della realtà rispetto ad ogni illusoria pretesa da parte dell’uomo di comprenderla (comprendere, nel suo etimo latino, è sinonimo di catturare) dentro le proprie triangolazioni mentali. La stoffa ultima della realtà, infatti, è il Mistero. O per essere più pre- Mestre, 3 settembre 2011 cisi, rubando una fulminante intuizione agostiniana, la res (la consistenza della realtà) è la Trinità. Tutto il resto sono signa. Così, annodando in un legame indissolubile l’eterno e il temporale, l’arte si fa eco potente di quella logica sacramentale, che è il supremo metodo della rivelazione dell’Unitrino all’uomo. E dallo sguardo di quest’ultimo traspare un cuore vigile, che dentro il visibile sa scrutare l’Invisibile. L’Essere si dona all’uomo, in una compagnia totale e permanente. 4. L’arte è strumento formidabile di auto-rivelazione dell’anima, irriducibile ad ogni tentativo di spiegarla in termini scientifici, neanche in quelli sofisticati delle neonate neuroscienze. La natura enigmatica dell’uomo, quest’essere segnato dalla finitudine eppure irriducibilmente assetato di infinito, è «salvata» dall’arte. Non è vero, come pensava Nietzsche – e rielaborando il nichilismo nicciano, anche Heidegger – che dall’interno della finitudine è impossibile puntare all’Infinito, non è vero che il tempo è puro limite, non è vero che lo spa- zio è solo impedimento. Finitudine, tempo e spazio sono forma. Nel tempo si dà l’eterno. Nello spazio limitato la totalità. Nel finito, l’Infinito. L’opera d’arte si può considerare, in un certo senso, come un «sacramentale», un gesto espressivo dell’umana creatività che nel frammento veicola il tutto. 5. «Gesù Cristo, in quanto uomo, utilizza tutto l’apparato espressivo umano dell’esistenza storica – dalla nascita alla morte – in tutte le età, le condizioni, le situazioni individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio (possiede la natura divina), ma Egli non è Colui che Egli esprime, cioè il Padre (è differente, nel Suo essere personale, dalla persona del Padre). Paradosso incomparabile che costituisce il punto originario dell’estetica cristiana e quindi di ogni estetica!» (Hans Urs von Balthasar, Gloria 1, Jaca Book, Milano 1975, 20). Queste parole di von Balthasar, che come è noto ha fatto della percezione della forma (estetica) il punto di partenza privilegiato della sua riflessione, mettono immediatamente in evidenza il grande paradosso che caratterizza l’arte. Balthasar lo spiega a partire dall’esperienza archetipica di Gesù Cristo. Egli, il Figlio di Dio fattosi uomo, «tota Sui ipsius praesentia ac manifestatione» (“col fatto stesso della presenza e della manifestazione di sé”) - come dice il n. 4 della Dei Verbum – è ciò che esprime e contemporaneamente non è Colui che Egli esprime e che pure costituisce la Sua Origine eterna: il Padre, fons totius divinitatis. L’arte è forse l’esperienza umana in cui questa insuperabile polarità si manifesta in modo più acuto. 6. Il nesso tra arte e liturgia non è estrinseco, ma profondo, in un certo senso è un nesso costitutivo. La liturgia ci fa considerare le due dimensioni spazio-temporali in cui l’uomo vive. Anzitutto il tempo: la liturgia si gioca nel presente. L’Eucarestia, che ne è il cuore, lo mostra in maniera luminosa. Uomini e donne, bambini e vecchi, lasciano le loro case e, in un istante preciso del tempo, si riuniscono in un luogo (spazio) in cui si rende presente l’Avvenimento di Gesù Cristo morto e risorto. Ma questo presente vive sempre attraverso una presa di distanza: deve rinviare al passato, cioè al dramma del Golgota, per essere capito come presente. Senza questa distanza la liturgia non eviterebbe la riduzione a magìa – pretesa di trasporre meccanicamente nel tempo ciò che non è trasponibile – o ad idolatrìa – pretesa del soggetto di catturare con il proprio sguardo il mistero stesso di Dio –. Invece la necessaria apertura del presente all’Avvenimento della morte e resurrezione di Gesù, ben situato nel tempo, fa vivere il presente come spalancato sul futuro. I cristiani si radunano nel tempio (spazio) a celebrare quell’atto perché il futuro dipende da quell’atto. In un qualche modo l’irruzione finale dell’eternità è anticipata in quell’atto. ◼ 9 focus on / I racconti della Biennale 10 Dieci racconti per la Biennale (Musica e Teatro) C di Leonardo Mello osa resta di un festival teatrale, o di una rassegna musicale, una volta che la settimana di programmazione è terminata, e i teatri (o più generalmente i luoghi) in cui ha preso vita tornano a essere chiusi? In tempi fortunati (non questi) una testimonianza importante è rappresentata dai cataloghi, che pure, necessariamente, vengono dati alle stampe prima che la manifestazione abbia inizio. Certo, la tecnologia aiuta a preservarne la traccia, magari con una registrazione radiofonica o con una videoripresa, che passa rapidamente sul web: ma questi supporti non vanno al di là del puro materiale documentario, perché non possono per loro natura dare conto dell’hic et nunc proprio dello spettacolo dal vivo. E comunque forniscono un’informazione per forza di cose parcellizzata, che non permette alcun elemento di riflessione sul contesto generale in cui ciascuna singola esperienza artistica è inserita. Lo strumento principale perché rimanga memoria di queste manifestazioni – a beneficio di chi c’era e può esprimere un’opinione con cognizione di causa, ma anche e soprattutto di chi non c’era, e che può così crearsela – resta però ancora quello della recensione, o meglio delle molte recensioni che di quel particolare evento vengono prodotte e pubblicate. In un momento storico in cui la critica (tutta la critica, non soltanto quella teatrale o musicale) vede compressi e spesso negati gli spazi a lei storicamente destinati, almeno all’interno dei tradizionali mezzi d’informazione, abbiamo voluto chiedere a dieci giornalisti di settore (cinque per la musica, cinque per il teatro) di offrire il proprio sguardo sulle ultime Biennali, susseguitesi tra settembre e ottobre e dirette rispettivamente da Luca Francesconi e Álex Rigola. Ne è emersa una narrazione a più voci, interessante sia nelle convergenze che nelle dissonanze. Un mosaico a dieci tessere che propone altrettanti racconti, e che vuole essere la prima tappa di una riflessione sulla critica contemporanea, sulla sua funzione, e sulle sue evoluzioni/involuzioni, che ci vedrà impegnati nel prossimo futuro. Buona lettura. ◼ Mario Messinis Biennale Musica L uca Francesconi ama titoli sofisticati, come «Mutanti». Tralascio le escursioni ideologico-speculative care al direttore artistico; preferisco tradurre il termine nella sua accezione più facile, ossia come «mutazione», come trapasso dalla tradizione dell’avanguardia a oltre l’avanguardia attraverso il ricorso esorbitante alle tecnologie. Peraltro le mutazioni nella Biennale Musica non hanno avuto un ruolo preponderante. Solo alcuni concerti hanno affrontato una linea eversiva come allargamento delle possibilità sonore e l’assimilazione delle tempeste foniche del rock. Due complessi hanno seguito particolarmente questa strada. Il RepertorioZero, cui è stato assegnato nientemeno che il Leone d’argento, ha presentato nuove composizioni giovanili per strumenti elettrici (dal timbro ispido suonando gli archi senza cassa armonica) con una elettronica invadente e scomposta, ove si escluda un brano a suo modo lirico per violoncello elettrico di Andrea Alessandrini. C’erano anche i notissimi Different Trains di Steve Reich, la cui esecuzione mancava di mordente e non definiva il costruttivismo minimalista dell’autore. Ben più significativo il concerto dell’Ictus Ensemble. Il formida- bile esibizionismo di questo complesso emerge nello spettacolare potere creativo degli interpreti, al di là della creatività compositiva. Spicca una passionalità viscerale nella spasmodica affinità fonica con il rock. Ma si ha la nostalgia per il rock «storico» degli anni sessanta-settanta. C’è naturalmente un’eccezione: il celebre Trash di Fausto Romitelli conferma, dopo un decennio, l’importanza di un musicista che si è accostato alla «popular music» con rigore formale, cui spesso gli autori della nuova sperimentazione rinunciano. Il concerto dell’Ictus era drammaturgicamente ben articolato, con al centro le strepitose canzoni degli anni trenta di Harry Partch, splendidamente trascritte e attualizzate, e una poesia sonora di Schwitters rivissuta in maniera sensazionale dal canto recitato di Michael Schmidt di una follia dadaista. Al confronto degli indemoniati strumentisti del gruppo belga, gli interventi elettronici dell’ircam sembravano di placida compostezza. In realtà il laboratorio parigino ha raggiunto una assoluta perfezione tecnologica. Solisti prodigiosi dialogano con il live electronics. Si ammira, oltre al compiaciuto accademismo di Ian Maresz, Interno rosso con figure per fisarmonica ed elettronica di Francesca Verunelli che esplora, sulla linea dell’ultimo Nono, una estatica sottigliezza timbrica. Al di fuori delle esperienze tecnologiche si riapre il discorso sull’esotismo sia negli aspetti esornativi, come nelle idee originali. Il belga Wim Henderickx rievoca il mito di Medea in un lungo lavoro teatrale, ridotto e senza il testo parlato, eseguito in forma di concerto. I vocalizzi dovrebbero illustrare i diversi stadi emotivi della tragedia, ma la vocalità è di una ripetitiva prolissità. Le edulcorate melopee strumentali traducono in musica di consumo il folclore indiano. Invece la coreana Unsuk Chin in Gougalon, un paesaggio della periferia cinese, evoca l’estremo Oriente con accattivante fascino: la Cina come fantomatica e illusoria presenza. La malinconia umbratile della Chin è stata sentita con singolare finezza dall’Ensemble dell’Orchestra Nazionale della Rai, diretto da Fulvio Angius, che ha offerto anche tre prime assolute: lo «schumanniano» Timor panico di Giorgio Colombo Taccani, un oleografico Quintetto dello svedese Staffan Storm e un retorico Concerto per oboe di Massimo Botter. Riemergono periodicamente, come nel concerto dell’Orchestra Mitteleuropa diretto da Andrea Pestalozza, le tentazioni del poema sinfonico anche in pagine apparentemente aggiornate, come in Collagène dello svedese Olofsson che cerca di conciliare le suggestioni del rock con nostalgie tardoromantiche. L’orchestrazione sontuosa ma anche prevedibile, si notava nel sinfonismo di Pa s q u ale Corrado e Vittorio Zago. Il pensiero concettuale del Conce r to pe r pianoforte, 24 strumenti e carillons di Clementi, recentemente scomparso, suonava anche più avvincente in un contesto esibito: un capola- pensioni teatrali nel segno di una espressività diretta. Vladimir Gorlinsky rilegge Varèse attraverso Cage con aggressiva invadenza. Purtroppo non ho sentito il concerto dei Sentieri Selvaggi. Il teatro è confinato ai margini della rassegna, con un progetto a più voci ideato da una iniziativa europea, brevi pagine di quattro autori che si svolgono senza soluzione di continuità. La impaginazione scenico-registica è molto notevole nella sua ascetica essenzialità tra Beckett e Bob Wilson. La musica è prosciugata, a momenti rinunciataria. Il secondo titolo di Mischa Käser spicca per i toni ironico-grotteschi, ispirati ai testi taglienti di Thomas Bernhard, al centro dell’idea registica; l’ultimo di Filippo Perocco è di una distillata rarefazione. Il Leone d’oro alla carriera è stato opportunamente assegnato a Peter Eötvös, compositore e direttore poliedrico, prediletto per un quarto di secolo da Stockhausen e da Boulez. Peraltro non c’è traccia in lui del pensiero di questi autori. Le sue idee sono fel icemente retro- tegoria del godibile. Ma in San Michele emerge un memorabile epilogo con una melodia gotica di Machaut, interpretata dall’angelico tenore Muillon. Complessivamente una Biennale riuscita, anche perché in larga parte dedicata a novità dell’ultima generazione. Luca Francesconi è un musicista curioso colto ed intelligente e meriterebbe di essere riconfermato. Mi chiedo tuttavia perché si è rinunciato ad un regolare catalogo (le belle note di Enrico Girardi sono francobolli stenografici). Resta aperto il quesito fondamentale della eventuale sostituzione di Paolo Baratta, uno dei presidenti più autorevoli, sotto il duplice profilo organizzativo e culturale, che la Biennale abbia avuto dai tempi della riforma dello statuto. La proposta del Ministro Galan, di massimo rigore berlusconiano, è caduta su Giulio Malgara, notoriamente non interessato ai problemi culturali (ma sostenuto dal rettore dell’Università di Ca’ Foscari). Sono i vizi del cosiddetto aziendalismo che sta distruggendo le istituzioni culturali italiane. Ora attendiamo il verdetto della Commissione Cultura che purtroppo ha un valore meramente consuntivo. Come reagirà il Ministro? ◼ (per gentile concessione di «Classic Voice») Sopra, Ictus Ensemble. A sinistra, Vladimir Tarnopolski. Nella pagina a fronte, Francesca Verunelli. 11 focus on / I racconti della Biennale spettive con una forte vicinanza a Bartók e alla musica popolare ungherese, e qualche sporadico ricordo di Ligeti. Ha diretto l’Orchestra della Radio di Baden-Baden (eccellente soprattutto nelle sezioni dei fiati) rivelando le sue doti di interprete nel modo con cui ha drammatizzato in chiave espressionista la Suite di danze di Bartók. Invece l’immacolato Agon di Stravinsky mancava di lucida trasparenza. Il Concerto per due pianoforti e Replica per viola trascorrono da un «meccanico» bartokismo alla ombrosa elegia: Eötvös ha idealmente intuito ciò che è rimasto incompiuto nel Concerto per viola di Bartók. La «Vogata Rituale» conclusiva è stato un omaggio alla ca- Biennale Musica voro sfingeo come elogio della interiorità. Giungono i nuovi autori russi con cinque prime italiane, eseguite dal magnifico Studio per la Nuova Musica diretto da Igor Dronov. Informazione utilissima sulla situazione dell’avanguardia russa. Interessano i musicisti della generazione di mezzo. Faraj Karaev con l’ipnosi mistica di un brano dedicato a Crumb e Vladimir Tarnopolski in Chevengur per voce e orchestra, che aggiorna la tradizione rapsodica moscovita e le memorie della Lady Macbeth di Mcensk di Šostakovič: forse l’opera più caratterizzata della rassegna veneziana. I trentenni guardano un po’ ingenuamente all’Occidente, ma con pro- Biennale Musica focus on / I racconti della Biennale 12 Dino Villatico ispersasi l’ultima eco dell’ultimo suono nell’aria opaca della laguna, dalle barche che procedono lentamente verso San Michele, Stefano Ballon artifex dell’artefatto incantesimo – ma il terzo millennio non sembra un’era di magia – probabilmente solo dentro la tomba di Igor Stravinsky1, dove il corteo funebre si arresta – morte dell’arte? o morte nell’Italia, nell’Europa, nel mondo, delle primavere soffocate? –, resta racchiuso il segreto di quale chiave possa dischiudere le stanze del nuovo opificio musicale che potremmo chiamare oggi laboratorio della «nuova musica». Certo, l’impressione generale, tratta dall’ascolto dei brani eseguiti in questa Biennale 2011, «Mutanti», una settimana densa d’incontri e di ascolti, è proprio che, almeno in Italia, i mutanti non ci sono, non c’è anzi nessuna mutazione da trenta o forse quarant’anni a questa parte. Il paese non ristagna solo nell’industria, nel commercio, nella ricerca, ristagna anche nell’archi- rizia della classe politica italiana – si vorrebbe dire, anzi, dalla colpevole insipienza o dalla miopia, ormai decennali, con cui da destra e da sinistra è amministrata in Italia la cultura: mi scuso, sovvenzionata! quasi come fosse un’elemosina. Altrove, per esempio in Francia, si dice più correttamente finanziata, la differenza terminologica è sintomo di una differenza culturale. Ebbene, ciononostante, alla fine degli ascolti, e con in testa un turbinoso rovello di delusioni e di domande, a restare impressa nel ricordo è soprattutto l’impressione, a dir poco paralizzante, di una specie di paralisi della fantasia, di una defezione del coraggio intellettuale, ma anche dello scatto emotivo, di una umiliante resa della voglia di rischiare, che sembrano possedere come un démone epidemico quasi tutti i giovani musicisti italiani (non tutti, per nostra fortuna, ma la maggior parte), divenuti spudoratamente timidi, impavidamente prudentissimi, esperti e raffinati calcolatori dello spazio più ridotto possibile, attenti a non travalicare la sensibilità ombrosa delle vecchie ma ancora agguerrite accademie, a non oltrepassare i limiti di un modello straconfermato dall’uso, i dog- tettura, nella pittura, nella riflessione storica e filosofica, e infine nella musica. A scappare non sono solo medici, fisici, matematici, chimici, ingegneri: sono anche artisti, architetti, pittori, musicisti, e perfino galleristi se oggi la galleria più in di New York è tenuta da un milanese al quale Milano aveva chiuso tutte le porte. Tuttavia la considerazione da fare su questo fenomeno è un’altra: da sempre artisti e scienziati hanno viaggiato per il mondo, Pitagora da Samo a Crotone, Cartesio da Parigi a Stoccolma, Leonardo da Milano alla corte di Francia, Paisiello da Napoli a San Pietroburgo. Ma se dall’Italia l’esodo verso il resto del mondo è consistente, come mai un esodo simmetrico da molto tempo non si attua dal mondo all’Italia? come mai un Josquin des Près, un Poussin oggi non verrebbero a Roma, un Johann Christian Bach a Milano? Nel campo scientifico stiamo ancora peggio: se le nostre università educano cervelli appetiti dal resto del mondo, come mai dal mondo altri cervelli non arrivano nelle nostre università? Ma torniamo alla Biennale Musica di quest’anno. Una rassegna di pochi giorni, certo, non è lo specchio della molteplice realtà musicale del mondo di oggi, non basterebbe a documentarcene una settimana di concerti e non basterebbe il misero badget destinato alla rassegna veneziana dall’ava- mi e i tic di un insegnamento testardamente subito da più di trent’anni. Del resto, nel momento in cui i giovani dell’Africa settentrionale, del Medio Oriente, dell’Europa, e perfino degli usa s’infiammano, che fanno i giovani italiani? aspettano la grazia del potente di turno, al governo e nelle istituzioni, o scappano. Oppure, in caso che esplodano indesiderati tafferugli, mettono le mani avanti, «non sono stato io, io sono contro la violenza», per tema di essere anch’essi tacciati di violenti, da qui l’elenco miserevole di migliaia di distinguo. Accondiscendenza e disponibilità al compromesso forse secolari, se rileggere oggi Petrarca non consola, anzi sconforta, perché il male antico era stato già individuato dal grande poeta, che se ne doleva e se ne indignava (sì! se ne indignava!) con disincanto e amarezza. Né il suo odierno ammiratore, anche lui poeta, Andrea Zanzotto, pur troppo anche lui emigrato, e ahinoi per lidi da cui non si ritorna, ci parla con voce non diversa: anzi, con voce ancora più aspra, che registra, enumera, descrive, depreca i segni di una devastazione ancora più grande e profonda, visibile a occhio nudo perfino nell’ormai devastatissimo paesaggio padano, e devastato proprio da coloro che alzano a propria bandiera l’appartenenza a un’inesistente e mai esistita Padania. Devastazione che non deturpa solo il paesag- 1 Così si firmava lui stesso. Scrivere Stravinskij, per rispettare l’odierna traslitterazione dal russo, è tradire la sua volontà. Igor Stravinsky, del resto, sta scritto sulla sua tomba, a Venezia, nel cimitero di San Michele. L’inizio della Vogata rituale che ha concluso la Biennale Musica. D due pianoforti del 2007, in prima esecuzione italiana, ai pianoforti Andreas Grau e Götz Schumacher, e Replica, per viola e orchestra, del 1998, viola solista Geneviève Strosser. Ringraziando Paolo Baratta, Presidente della Biennale, il compositore ungherese ha citato i versi, bellissimi, di un madrigale di Gesualdo da Venosa, il diciannovesimo dal Sesto Libro: Al mio gioir il ciel si fa sereno, Il crin fiorito il Sole a i prati inaura. Danzano l’onde in mar al suon de l’aura, Cantan gli augei ridenti, Scherzan con l’aria i venti. Così la gioia mia versando il seno Io d’ogni intorno inondo E fo, col mio gioir, gioioso il mondo. Il nome di Gesualdo – e per chi conoscesse lo straordinario madrigale, insolitamente consonante appunto perché gioioso, un nome che calzava come pochi alla situazione – non poteva non richiamare alla memoria il nome di Stravinsky, che proprio a Venezia, il 27 settembre 1960, al Teatro La Fenice, eresse un monumento musicale al principe compositore. Le miserie dell’Italia di oggi non offuscano dunque gli splendoPeter Eötvös, tra Luca Francesconi e Paolo Baratta, riceve il Leone d’oro. Un peu profond ruisseau calomnié la mort2 . 2 Un poco profondo ruscello calunniato la morte. 13 focus on / I racconti della Biennale ri dell’Italia di un passato che sembra lontano solo per gli italiani, ma che per molti, invece, fuori dell’Italia, è ancora vivo e presente. La forma del madrigale fu scelta, del resto, da Eötvös per dare forma, nel 1998, all’Opéra di Lione, alla rappresentazione delle Tre sorelle, da Cekov, quasi una sorta di omaggio al madrigale drammatico di Orazio Vecchi e Adriano Banchieri. Il concerto si apriva nel nome di Béla Bartók, la Tanz-Suite del 1923, e di Igor Stravinsky, Agon, composto tra il 1953 e il 1957. Le due partiture sembrano rispecchiarsi: una misurazione lucida del tempo, una scansione geometrica, eppure imprevedibile del respiro musicale: una riflessione sul ritmo, che si fa riflessione sul pulsare della vita e, dunque, anche, sull’ineluttabilità della morte. La lucidità della scrittura, in entrambe le partiture, sospende la percezione del battito tra riconoscimento di un ritmo familiare e la sorpresa, per non dire l’ansia, di una pulsazione sconosciuta. Ma la lezione è preziosa: l’astrattezza, la geometria della scrittura, non soffocano, non devono soffocare, l’emozione del pensiero che sgorga dal suono. Non sapevamo ancora che i concerti che avremmo ascoltato nei giorni seguenti avrebbero confermato, per contrasto o per similitudine, l’esperienza di quel primo ascolto, confermato soprattutto la necessità dell’obbligo, pena l’aridità superflua o l’arabesco accademico: l’emozione cacciata dalla porta, infatti, si vendica e rientra dalla finestra con la maschera della noia. Non c’è questo rischio con le musiche di Eötvös. Il Concerto per due pianoforti innalza il virtuosismo strumentale a flusso di una fantasia che rompe gli argini, ma senza mai perdere il controllo dell’eruzione: non si nasce per caso nella terra di Liszt. Di tutt’altra pasta la pagina seguente, Replica. Scarna, quasi dura, un’invenzione prosciugata all’essenza del lamento, del grido. La viola implora, piange, urla, senza pudore. Che altro può dire un padre il cui figlio si uccide giovanissimo? Sta qui la grande lezione di Eötvös: non mascherare il dolore, ma se mai denudarlo, gettarlo disarmato in faccia all’ascoltatore, ma senza retorica, senza enfasi, ridotto all’osso, all’inesprimibile lamento. Che cosa rispondere a chi non c’è più? La musica riflette immagini distorte in uno specchio ch’è andato in frantumi, dice lo stesso compositore, ma l’originale di quell’immagine non c’è più. Ma allora anche la musica di oggi – quella che sola dovrebbe chiamarsi contemporanea, e non quella di un secolo fa che ancora ci si ostina a dire contemporanea – può comunicare affetti, come nel Barocco, emozioni come tra i romantici? Forse il punto centrale della questione sta in quel «può», nella possibilità, cioè, di trasmettere qualcosa che non sia solo l’immagine della propria forma, del proprio farsi durante la durata dell’ascolto. Ma siamo poi sicuri che, per esempio, il Pli selon pli di Boulez non comunichi che la propria fattura, che si tratti solo di musica raggelata? Anche il silenzio del soprano, nell’ultimo pannello del polittico, Tombeau, prima di pronunciare – si badi! pronunciare, non intonare – l’ultima parola del bellissimo verso di Mallarmé? Il soprano ha cantato fino a quel momento, ma quell’ultima parola la sillaba, la sussurra, come fosse una parola impossibile da intonare, una parola in cui la musica finisce. Biennale Musica gio, e soprattutto il paesaggio padano (se Sparta piange, però, Messene non ride: lo scempio del paesaggio meridionale della penisola è, se possibile, ancora più turpe), ma nel paesaggio tale deturpazione, anzi corruzione, deformazione, sono forse leggibili come segnali, o piuttosto sintomi, di una più terribile malattia, e cioè come il segno di una interiore, forse irreversibile e irredimibile, devastazione culturale. La cronaca del disfacimento è presto fatta. Se bastasse una cronaca a individuare i sintomi del male per ipotizzarne una cura, o addirittura una guarigione, ma non si spera tanto o sperarlo confina con la pazzia. Tiremm innanz. È bastato l’ascolto delle musiche della prima giornata, a farci capire dove la grande musica è di casa e come si fa a scrivere e suonare grande musica. L’apertura della rassegna, infatti, è stata entusiasmante. Dedicata com’era al Leone d’oro alla carriera del lv Festival Internazionale di Musica Contemporanea: Peter Eötvös. Alla testa della Südwestrundfunk Sinfonieorchester Baden-Baden und Freiburg, lo stesso Eötvös ha diretto due tra le sue più recenti composizioni, il Concerto per focus on / I racconti della Biennale 14 Il canto si arresta alla parola «calomnié», c’è una pausa, e pianissimo, un sussurro impercettibile, la voce dice: «la mort». La pausa – espressione musicale del silenzio – segna, con una sorta di madrigalismo, il varco del ruscello. Non diversamente, ma perfino più duramente, il silenzio si fa madrigalismo della morte all’arrestarsi del respiro di Melisande, nella partitura che apre il Novecento, Pelléas et Mélisande di Debussy. Ma lì non è nemmeno una pausa, che non è ancora silenzio, ma resta respiro musicale, no, lì è vero silenzio, il negativo del suono, una corona sulla stanghetta che divide le battute. Il lamento della viola, in Replica, sembra anch’esso, alla fine, arrestarsi su quell’abisso. Che dire mai a una voce scomparsa, che cosa rispondere al figlio che si è tolto dalla vista del padre? Da Debussy a Eötvös passando per Boulez? e indietro a Gesualdo, «io tacerò, ma nel silenzio mio / ... / griderà poi per me la morte ancora»? Eccoci tornati al discorso di ringraziamento tenuto da Eötvös, prima del concerto, per il conferimento del Leone d’oro alla carriera. Ai madrigalismi della partitura un ancora più eloquente madrigale che sostituisce il discorso. La musica, direbbe Debussy, – e la poesia, aggiungiamo – comincia dove finiscono le parole. La musica, del resto, non ha mai fatto altro, già dai tempi di Machaut: Biennale Musica pe cose per risultare efficace, ma possa e debba affidarsi allo sviluppo coerente di una sola idea, come in questo caso l’uso delle sordine. Anche il secondo concerto del laboratorio ircam sembra essere stato interessante. Ma pur troppo quel giorno non ci sono andato. Peccato, perché i compositori erano italiani, e tra essi si eseguiva un pezzo di Andrea Agostini, che sembra abbia confermato l’impressione positiva offerta dal pezzo suonato dal violoncellista di RepertorioZero, Giorgio Casati. Non una delusione, ma la conferma di un vuoto di Et musique est une science Qui veut qu’on rie et chante et dence3. Il Leone d’argento è stato assegnato all’ensemble di giovani musicisti milanesi RepertorioZero. «Per la ricerca innovativa» dice la motivazione: «che vuole andare oltre l’esperienza delle avanguardie tradizionali». Fosse vero! Pur troppo la loro serata è apparsa alquanto deludente. Non basta l’amplificazione elettronica a surrogare la mancanza di fantasia. Se si esclude O-zone per violoncello elettrico solo di Andrea Agostini, e naturalmente i brani di Stockhausen tratti da Licht, le musiche non sembravano proporre intuizioni inedite. Sembra quasi che i giovani compositori, soprattutto italiani, abbiano paura del suono determinato, del lavoro sugli intervalli, e si affidino pertanto ad abusate fasce sonore puramente materiche, quando già Ligeti insegna che una fascia può essere il risultato di un vorticoso, minutissimo, gioco contrappuntistico. Non è più il momento! «Torniamo all’antico, e sarà un progresso» direbbe Verdi. Dove l’antico è il lavoro contrappuntistico sugli intervalli. Sembra invece che i compositori italiani abbiano paura del contrappunto, o, chi sa, non lo sentano né familiare né percorribile. Ma lo conoscono poi davvero? L’imbarazzante Patchwork-Opera (sic!) Privo sarò del cielo e de l’inferno (ancora Orfeo!) offerto nel chiostro del Conservatorio Benedetto Marcello da un folto gruppo di musicisti guidati nella costruzione dell’opera da Corrado Pasquotti e Paolo Zavagna, farebbe supporre un interessato o distratto disinteresse. Ma il Conservatorio veneziano è stato per altri versi coinvolto invece in un interessantissimo laboratorio organizzato dall’ircam di Parigi. L’Europa entra nelle aule del Conservatorio come un vento nuovo che spazza ogni vecchiume accademico e sbugiarda ogni conato pseudoavanguardistico. Metallics per tromba ed elettronica, del 2001, di Yan Maresz, che è anche il coordinatore del laboratorio, è una dimostrazione di come la concezione di un brano non abbia bisogno di affastellare trop3 Francese antico: ciò spiega le differenze di scrittura. pensiero il concerto di Sentieri Selvaggi, diretto da Carlo Boccadoro. Se all’accademia degli epigoni delle avanguardie storiche debba contrapporsi la banalità di musiche sedicenti alternative, perché più gradite al pubblico, siamo perduti. Ci è stata inflitta perfino una spiega prima dei pezzi, per sentirsi dire, come fosse una scoperta, una nuova invenzione, che le «trasformazioni» del tema di partenza (a propowsito di Kick, di Steve Martland, basato su una melodia popolare inglese del Seicento) appaiono come un esempio nuovo di mutanti musicali. Oddio! E noi che pensavamo che la variazione fosse un’arte antichissima, praticata già dai primi cantori cristiani, e prima ancora dagli auleti greci. Ma può darsi che le denominazione di «Mutanti», imposta da Luca Francesconi a questa Biennale, abbia suggerito a Sentieri Selvaggi un adattamento terminologico opportuno: o cogliessero la palla al balzo per adattarvi le musiche eseguite, mutazioni, trasformazioni, musiche che apparivano piuttosto un cofanetto preconfezionato e scartato sul momento. Ma se così stanno le cose, allora tanto vale siasmante è stata offerta dallo Studio per la Nuova Musica di Mosca. I sei pezzi proposti sono tutti originalissimi, anche quando adottano tic storici delle avanguardie occidentali, riproposti e reinventati con freschezza e vivacità. E colmi di ironia. Del resto la musica di un paese che è un caos non può che proporre l’immagine del caos. Ma appunto l’immagine, la spazializzazione, la formalizzazione, il controllo del caos, non il caos. Olga Bochihina, Faraj Karaev, Aleksej Sioumak, Nikolaj Khrust, Vladimir Tarnopolski ci hanno sorpreso, commosso, divertito. Ma è stato soprattutto il giovanissimo Vladimir Gorlinsky (nato nel 1984) a sorprenderci, entusiasmarci, travolgerci, perfino quando ci sfidava con gesti dada o tipici del futurismo, che riesce a rinnovare come appena inventati. Speriamo di riascoltarli presto. E non in una singola serata. Se non altro, per confermare o confutare la prima impressione. Infine, come ogni anno, la Biennale si chiude con uno spettacolo teatrale (il giorno prima della vogata in laguna). Geblendet (accecato) ideato da Thierry Bruhel, e realizzato dalla Biennale di Venezia in collaborazione con Musik der Jahrhunderte Stuttgart e Musicadhoy Madrid. Sono cinque racconti brevissimi di Thomas Bernhard, tratti dall’Imitatore di voci (Der Stimmenimitator). Quattro compositori, Michael Beil, Due immagini di Geblendet. 15 focus on / I racconti della Biennale Blinded, Mischa Käser, Nachrichten, Manuel Hidalgo, Geblendet, e Filippo Perocco, Occhi, nur noch, compongono quattro brevi atti del «teatro musicale in cinque atti» immaginato da Bruhel, tra i primi due e gli ultimi s’inserisce come «intermezzo» l’esecuzione delle Sei bagatelle op. 9 di Webern. Sono cinque quadri diversissimi, in comune un’estrema astrazione del gesto, sia teatrale che musicale. Un attore, Christian Brückner, un controtenore, Daniel Gloger, dei Neue Vocalisten, una voce bianca, Vincent Frisch, rappresentano in qualche modo le tre età della vita: si pensa a Klimt, ma anche ai musici del Giorgione. Il quartetto d’archi Diotima, con estrema discrezione, offre il sostegno strumentale. Ciascuna a suo modo la musica di ogni atto appare intensa, meditata, concentratissima. Fino alla più astratta di tutte, quella di Filippo Perocco, senza gli strumenti, affidata al solo sussurro, quasi impercettibile, dell’attore e ai conati di canto del controtenore e della voce bianca. In questo estremo prosciugamento della materia sonora Perocco sembra volgersi indietro, sfidare la concentratissima scrittura di Webern, e oltrepassarne l’aforistica ellissi spingendosi qua si nel t e r r it o r i o dell’afasia, come se solo da un bagno salutare di silenzio si potesse ricominciare a ripensare la musica. E così si ritorna all’inizio: sembra quasi che il messaggio più profondo di questa rassegna, l’ultima disegnata da Luca Francesconi, sia di ricominciare a pensare l’oggi da una pagina bianca, la musica da un silenzio che cancelli l’orgia di suoni superflui da cui è afflitto l’uomo contemporaneo, in aereo, nei supermercati, in metropolitana, nei negozi, e dagli ingombranti, indigesti agglomerati sonori con cui ci assordano cinema, radio e televisione, come se dovessimo guarire dall’inquinamento acustico che ci soffoca, e respirare l’aria trasparente di un contrappunto finalmente riconquistato. Il modello potrebbe essere, chi sa, Magister Leoninus o Perotinus. Avremmo molto da imparare dal loro fastidio dell’inutile e del superfluo. ◼ Biennale Musica proporre Giovanni Allevi. Almeno l’appartenenza è più esplicita. Né più luce arrecava il concerto diretto dal pur bravissimo Andrea Pestalozza a capo dell’Ensemble da camera dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della rai. Non a caso il pezzo più interessante, anche se astuto, è apparso Gougalon (Scenes from a Street Theatre) della coreana Unsuk Chin. Sugli italiani Giorgio Colombo Taccani e Massimo Botter stendiamo un velo di oblio. Le intenzioni, infatti, non si traducono in fatti. Michaël Levinas ci ha regalato, al pianoforte, un’interpretazione convincente di quattro studi di Ligeti, e travolgente di tre studi composti da lui stesso (1992). Peccato, invece, che l’op. 111 di Beethoven non apparisse troppo meditata. Eppure l’accostamento della musica di Beethoven alla musica delle avanguardie del Secondo Novecento è un’idea che suggerisce molte considerazioni, se perfino nei Klavierstücke di Stockhausen è possibile riconoscere riflessi del pensiero (non dello stile!) beethoveniano. Ma la serata veramente entu- Biennale Musica focus on / I racconti della Biennale 16 Paolo Petazzi I l titolo «Mutanti», proposto dal direttore Luca Francesconi per la sua quarta edizione della Biennale Musica, andava inteso in senso ampio, non solo in quello di un recente scritto di Baricco: «mutanti» anche come artefici di coraggiose aperture innovative rispetto al proprio tempo. Soltanto così il termine si può riferire alla presenza dell’ultimo Beethoven o allo stesso Peter Eötvös (1944), il Leone d’oro alla carriera del 2011, che è stato per alcuni anni collaboratore di Stockhausen e dal 1979 al 1991 direttore dell’Ensemble InterContemporain, ma che nella sua attività compositiva si riferisce a radici lontane da Stockhausen come da Boulez. In Italia, a differenza che in altri paesi europei, è meno noto come compositore che come direttore d’orchestra, e nemmeno il successo delle sue opere teatrali (finora cinque, a partire da Tre sorelle, Lione 1998) ha suscitato qualche curiosità presso le pigre istituzioni del nostro paese. A Venezia ha diretto nella serata inaugurale della Biennale una delle eccellenti orchestre radiofoniche tedesche, quella di Baden Baden e Friburgo, proponendo un omaggio a Bartók (Suite di danze), una delle meraviglie dell’ultima stagione di Stravinsky, Agon, e due propri lavori, il Concerto per due pianoforti e Replica per viola e orchestra. Proprio perché molto diversi tra loro, questi due pezzi danno un’immagine molto viva e interessante delle qualità del compositore-direttore, della ricchezza «di pensiero e pratica musicale» che si fonda sulla sua duplice attività (come sottolinea anche la motivazione del Leone d’oro). Soprattutto nel Concerto il rapporto con la lezione di Bartók è esplicito, già nel vistoso rilievo del dialogare tra i pianoforti e gli strumenti a percussione. Il Concerto è la rielaborazione per due pianoforti (gli impeccabili Andreas Grau e Götz Schumacher) e orchestra, compiuta nel 2007, di un pezzo del 2005, CAP-KO, dove al posto del secondo pianoforte c’era una tastiera digitale. Nelle cinque parti del pezzo si succedono con brillante fantasia e scatenato virtuosismo forti esplosioni di energia, indugi meditativi con funzione di contrasto, vitalissima eccitazione, invenzioni coinvolgenti, che rivelano una latente evidenza «teatrale». Un carattere interiorizzato si riconosce nel mesto lirismo di Replica (1998) per viola e orchestra, una pagina lenta, immersa in un clima di congedo, a tratti cupamente drammatica, dove si ammirano i rapporti che via via si creano tra il monologare della viola solista (la bravissima Geneviève Strosser) e diversi strumenti dell’orchestra, in sapienti combinazioni di colori. Accanto al Leone d’oro c’era anche quest’anno un Leone d’argento riservato ai giovani: è stato assegnato al complesso RepertorioZero per la sua ricerca su nuovi strumenti e mezzi tecnologici, tesa a rinnovare radicalmente il repertorio, come dice il nome del gruppo. Come negli anni scorsi una serata di teatro musicale era realizzata insieme con Musik der Jarhunderte Stuttgart e Musicadhoy Madrid: portava un titolo generale, Geblendet (Accecato) e coinvolgeva quattro compositori diversi, il tedesco Michael Beil (1963), lo svizzero Mischa Käser (1959), lo spagnolo Manuel Hidalgo (1956) e l’italiano Filippo Perocco (1972). Non si capisce bene chi e perché li abbia messi insieme, inserendo come brevissimo interludio le Bagatelle di Webern. Probabilmente Thierry Bruehl, che firma «ideazione e regia» e crea uno spettacolo di raffinato minimalismo. Elementi unificanti sono anche il controtenore Daniel Gloger, la voce bianca Vincent Frisch e l’attore Christian Brückner. Fondamentale anche il Quartetto Diotima, cui tuttavia Perocco ha dovuto rinunciare. Altro elemento unificante dovrebbero essere i testi di Thomas Bernhard, perché alcuni suoi folgoranti, brevissimi racconti sono recitati nel corso dei pezzi di Käser (7), Hidalgo (3), Perocco (1). Beil, se ho capito bene, si serve di altre fonti. I quattro lavori sono brevi e fra loro diversi: ogni compositore a suo modo inquadra gli interventi dell’attore con musiche ricche di ironia (nel caso di Käser) o vicine al silenzio (Perocco). Lo spettacolo si svolge con una sua logica interna, sostanzialmente astratta, le musiche sono di qualità diversa, Bernhard è lasciato al bravissimo attore e inserito in un contesto in complesso poco pertinente. Ci sarebbero molte curiosità cui avrebbe potuto rispondere solo un decente programma di sala: anche quest’anno alla Biennale Musica si è fatta la deplorevole scelta di NON fornire un adeguato apparato informativo, indispensabile e destinato a restare come utile documenta- perso fra l’altro la conclusione con la «Vogata Rituale – Cultura in memoriam» all’isola di San Michele), c’erano i due concerti dell’ircam, in modo particolare per la presenza di giovani italiani che hanno trovato a Parigi possibilità negate dalla situazione chiusa della nostra vita musicale. Citerei ad esempio la fantasia di Francesca Verunelli (1979) nel rivisitare con le possibilità dell’elettronica uno strumento come la fisarmonica, esplorato nelle sue potenzialità con grande finezza. Daniele Ghisi (1984) evoca Cirano di Bergerac usando una frase di Rossana (Comment pouvez-vous lire à present? Il fait nuit) come titolo del suo suggestivo pezzo per saxofono ed elettronica. Da ricordare anche i concerti diretti da Andrea Pestalozza (Oloffson, Clementi, Corrado, Scelsi, Zago) e da Marco Angius (Chin, Colombo Taccani, Botter, Storm, Adès). Nel concerto diretto da Andrea Pestalozza tra le cose meno note si possono citare Collagène dello svedese Kent Olofsson (1962), la cui radici sono nel rock progressivo, o Inciso di Pasquale Corrado (1979), dalla scrittura molto brillante. Tra gli autori già affermati o scomparsi significative le presenze nella Biennale 2011 di lavori di Aldo Clementi, Crumb, Levinas, Ligeti, Xenakis, Scelsi, Romitelli, Unsuk Chin, Adès. ◼ A sinistra, Studio for New Music Moscow. A destra, George Crumb. Nella pagina a fronte: sopra, RepertorioZero; sotto, Daniele Ghisi. S e non muore, il Festival di Musica Contemporanea della Biennale, l’anno prossimo ci si rivede. Nuovo direttore? Non si sa. Orientato a destra, come il (minacciato) nuovo presidente dell’istituzione? Non è detto. Si parla di morte dopo l’edizione numero 55 non solo per il finale funerario a San Michele – peraltro suggestivo e decorato di belle musiche (il vecchio Stravinsky, uscito dalla fossa come si augurava Fausto Amodei a proposito dei morti di Reggio Emilia, ha battuto tutti e lo aveva già fatto nella serata d’apertura) – ma proprio per via di una certa aria di povertà e di stenti che si respirava nelle giornate dal 24 settembre all’1 ottobre. Povertà di budget e di allestimenti. Di idee? Risposta ardua: alcune idee c’erano, a intermittenza. Però ci si è divertiti quest’anno, si è stati coinvolti e sollecitati. Qui e là. Andando a spiluccare un pezzo e poi l’altro tra i vari concerti. Difficile trovare l’occasione tutta di piacere e prestigio: la monografia, la serata con un tema individuabile che fosse significativa per davvero. L’eccezione? Eccola. Senza tanti giri di parole: la serata più bella, di gran lunga più bella, del festival. È stata quella con protagonista lo Studio for New Music di Mosca. Qui il direttore artistico in scadenza, Luca Francesconi, ha fatto un colpo grosso. Ha pescato un cenacolo di compositori, e il relativo splendido Ensemble, che costituisce un fortissimo segnale di fervore culturale, vivacità, spregiudicatezza, pensiero dissenziente. L’ex Grande Orso Rosso sprigiona, quindi, grande musica non allineata. Nonostante l’orrido Putin al potere, nonostante un regime che agli intellettuali migliori del paese riserva l’assassinio. Grande musica mutante, sintonizzata sulle trasformazioni sociali-antropologiche in atto, libera dai dogmi delle scuole e dei sistemi, eppure ricca di sapienza e di capacità di riflessione. Quella che il titolo del festival, «Mutanti», prometteva. Sappiamo troppo poco della musica d’oggi sul pianeta Russia, comprendendovi le repubbliche ex-sovietiche, per renderci conto di quanto lo Studio for New Music moscovita rappresenti un clima culturale diffuso, non solo musicale. Oppure sia un’isola felice. Certo non si attarda a rimestare le tradizioni nazionali e il folclore e nemmeno a rifondare il romanticismo o a crogiolarsi nella nuova/vecchia spiritualità. Queste sono le prerogative degli autori portati all’attenzione mondiale dalle politiche del produttore discografico Manfred Eicher con la sua ecm. I vari Silvestrov, Mansurian, Kancheli, Pärt. I compositori mutanti dello Studio non si allacciano nemmeno a Gubaidulina o Schnittke. Probabilmente rispettano e ammirano, com’è giusto, tutti questi importanti autori, diversissimi tra loro. Ma sono su altre lunghezze d’onda. Sono globalisti, dire che guardano all’Occidente e alla sua radicalità musicale, storica e non, sarebbe limitativo. Battitori liberi in cerca di nuova costituzione. Con ricca formazione. Ecco che cosa sono Vladimir Tarnopolski, Faraj Karaev, Alexey Sioumak, Vladimr Gorlinsky, Nikolay Khrust e Olga Bochihina. Peccato che l’unica donna del gruppo, in un festival po- 17 focus on / I racconti della Biennale Mario Gamba Biennale Musica zione. Per ogni serata i testi erano limitati a quaranta righe, senza eccezioni: una presa in giro non degna dell’importanza dell’istituzione (e senza colpa alcuna di chi ha dovuto metterle insieme). Per un catalogo decente sarebbe valsa la pena di rinunciare a un paio di concerti, per esempio al tedioso Lamento di Medea del belga Wim Henderickx. Di molti altri sarebbe stato giusto lasciare memoria anche attraverso un catalogo adeguato. Per esempio hanno suscitato vivo interesse gli autori russi presentati dallo Studio for New Music Moscow diretto da Igor Dronov, in particolare Vladimir Tarnopolski (1955) con il suo Chevengur (2001) per soprano e ensemble su testi di Andrej Platonov (autore del romanzo che dà il titolo al pezzo). Senz’altro da ricordare, tra le cose che ho potuto seguire (ho Biennale Musica focus on / I racconti della Biennale 18 vero (di nuovo!) di firme femminili – soltanto quattro, e la classifica di genere vede al primo posto Eva Reiter, al secondo Francesca Verunelli, al terzo e al quarto (distanziate) Bochihina e Christina Athinodorou –, si sia mostrata ben lontana dalla frizzante/pensosa inventiva di tutti i suoi compagni. Grazioso il suo Unter der Kuppel hervor (2009), tutto processi imitativi faciletti: giusto per una festa di comari. È Tarnopolski l’animatore dello Studio? Di sicuro è il fondatore. Ha cinquantasei anni ma Karaev ne ha dodici di più, magari è solo un simpatizzante e non un militante, magari è un ospite di riguardo. Tarnopolski è stato maestro, proprio nel senso di corso di studi, di Gorlinsky e di Khrust, i due più giovani (ventisette e ventinove anni), i due rumoristi, uno dadaista/futurista/situazionista (Ultimate Granular Paradise, 2008), l’altro tutte queste cose ma meno ribalderia e più propensione elettronica (Eugenica. Italianishe concerto, 2009). Visto che la personalità magnifica di Tarnopolski è piuttosto orientata alla reinvenzione delle avanguardie e neoavanguardie europee, all’utilizzo dei depositi seriali in vista di inedite costellazioni di punti sonori o brevi nuclei sonori (Chevengur, 2001), non che sbeffeggiavano le rispettabili signore democrat di Se non ora quando durante la grande parata anti-mister B del 13 febbraio. Una forma-pastiche con citazioni arcaiche-romantiche e propositi descrittivi. Ma che equilibrio e maestria in questo gioco pericoloso! Crumb a Venezia a tenere compagnia con difficoltà alla sparuta pattuglia dei nordamericani, vivi o defunti. Vecchio vizio, pare cronico, della Biennale Musica questo del cordone sanitario eretto per tener lontani i compositori yankee. L’eurocentrismo integralista domina storicamente questa rassegna, Francesconi l’ha, se possibile, accentuato. Eppure l’America musicale è un vero allevamento di mutanti. Oltre a Crumb, un assaggetto poco saporito dell’immenso vagabondo Harry Partch nel concerto dell’Ictus Ensemble e due volte Steve Reich nei concerti di Sentieri Selvaggi (buona versione di Double Sextet) e di RepertorioZero (pessima versione di Different Trains): tutto qui. E le novità assolute? Le due che si sono contese la palma della migliore sono di tutto rispetto. E non potrebbero essere più diverse, pur avendo in comune il ristretto organico di archi. Una del tutto acustica di Claude Lenners (tre parti di Zen si può certo dire che gli allievi siano stati influenzati dal maestro. No, questi moscoviti vanno per la loro strada, realizzano la famosa insorgenza trasformativa delle singolarità nella moltitudine, per stare al lessico filosofico/politico di Gilles Deleuze e Antonio Negri. Sioumak è il costruttore metodico di un esito rivoltoso del suo brano per ensemble Illusion of Concerto (2006). L’accelerando di cellule sonore concomitanti e sovrapposte può far venire alla mente uno scontro di piazza corale (ma non unisonico, non compatto, non pianificato) che sia stato anticipato da attente riflessioni. Quanto a Karaev, invece, si è in presenza di un nuovo, nuovissimo Che fare. Disteso/pacato il suo A Crumb of Music for George Crumb, lavoro che il compositore ha scritto nel 1985 per ritornarci poi varie volte fino al 2004. Un fermo clima di raccoglimento nella riproposizione di linee melodiche dilatate e variate di volta in volta, con dentro improvvisi scoppi di voci, come l’irrompere di passioni disordinate nel pragmatico e persino malinconico discorso sulla possibile strategia sonora di ampia memoria e ampia visione. George Crumb, appunto. Omaggiato da Karaev. C’era anche lui tra i protagonisti del festival. Col suo Black Angels che non è un’opera nuova (è del 1970 e lo spunto extramusicale viene dall’inferno della guerra in Vietnam) ma in compenso è apparsa molto attuale con gli archi elettrificati del Quartetto della Fenice. Musica spudorata, musica «indecorosa e libera» come si proclamavano le ragazze con gli ombrellini rossi Archiv), affidata al sapientissimo Quartetto della Fenice, per l’occasione diventato trio, è risuonata come un soliloquio desolato, un misuratissimo (spoglio) inquieto ricercare con grande maestria e intensità emozionale. L’altra eloquentemente elettrica di Jean-François Laporte (Soul Screams) è stata eseguita dall’Electric String Quartet di RepertorioZero. Cultura hard-rock e noise alle spalle, sovracuti lancinanti, rombi, echi free nell’anima, un crescendo assordante e tumultuoso magnificamente orchestrato con una sensibilità e una inventiva timbrica notevolissime. Per una volta, si può dire che la Biennale Musica ha mascherato bene la povertà in fatto di inediti. ◼ A sinistra, Harry Partch. A destra, Steve Reich. stival di musica d’oggi, dove si ritrovano quasi sempre gli stessi musicisti, le stesse scuole, le stesse idee. Alla sua quarta e ultima Biennale in veste di direttore artistico, Luca Francesconi ha insomma saputo portare una ventata di novità, riaprire le dogane un po’ chiuse a parrocchia dello scrivere musica oggi. L’occasione gliel’ha fornita il tema stesso della Biennale, lo sguardo a quelli che il compositore milanese definisce «Mutanti»: gente di confine, artisti ai margini, voci isolate e magari confuse ma certamente originali, musicisti irrequieti che non si accontentano dello status quo, che battono sentieri accidentati ma vergini, che sanno che la musica non coincide necessariamente con l’orizzonte umano e sociale comune, chi perché crede ancora nei valori della ricerca e della sperimentazione, chi perché mosso da una particolare urgenza espressiLuca Francesconi (foto di Mauro Fermariello). 19 focus on / I racconti della Biennale C laude Lenners (1956), Kent Olofsson (1962), Pasquale Corrado (1979), Vittorio Zago (1967), Giuseppe Chiari (1926), Giuseppe Cardini (1940), Wim Henderickx (1962), Carlo Ciceri (1980), Yann Robin (1974), Franck Bedrossian (1971), Roque Rivas (1975), Steve Martland (1959), Christina Athinodorou (1981), Olga Bochihina (1980), Alexey Sioumak (1976), Nikolaj Khrust (1982), Vladimir Gorlinsky (1984), Daniele Ghisi (1984), Harry Partch (1901), Eva Reiter (1976), Kurt Schwitters (1887), Hikari Kiyama (1983): non si inizia un articolo con un elenco di nomi. Però l’elenco medesimo dice già molto dell’ultima edizione della Biennale Musica. Qualche lettore dirà che questo o quello sono già apparsi nella propria play-list di ascoltatore di musica nuova. Ma la verità è che si tratta di musicisti largamente sconosciuti in Italia. Autori diversi tra loro per provenienza geografica, storia, formazione e cultura, di cui non c’era traccia nei «soliti», e a dir la verità, un po’ imbalsamati fe- va (che non significa possedere una determinata strategia comunicativa), chi appunto perché «ingenuo» nella sua condizione di isolato. Naturalmente, il filo rosso della «mutazione» – non fosse termine abusato, si potrebbe dire dell’essere «alternativi» – reca con sé personalità, attitudini e sensibilità le più disparate, e produce esiti contraddittori. Ma era tanto tempo che in una rassegna di musica nuova non si sentivano sonorità così nuove, che non si vedevano nuove tecniche strumentali di produzione del suono, che non si percepiva un sfruttamento così radicale della tecnologia. Questa Biennale ha fatto capire che, a fianco di un manierismo professionale ma accademico, ci sono giovani e meno giovani autori che hanno ritrovato il gusto di passare ore e ore a sperimentare le infinite risorse di un computer, esecutori capaci di ampliare il vocabolario delle tecniche strumentali. Ha fatto capire che un’esperienza all’ircam di Parigi non è una voce tra le tante di un curriculum ma una occasione formidabile di ampliare la tavolozza dei suoni e il modo di produrli. Ha fatto capire che in Russia ci sono musicisti capaci di rappresentare la loro realtà umana e sociale senza cadere nelle pastoie del vittimismo new-age. Ha fatto capire che gli orientali non hanno più complessi d’inferiorità nei confronti della tradizione europea e sanno governare la tecnologia con un’abilità e una padronanza disarmante. Ha fatto capire che per essere colti e raffinati non è necessario produrre solo soffi e glissandi ma si può anche saturare lo spazio acustico creando sonorità telluriche e magmatiche e che queste ultime possono avere un devastante impatto drammatico (Romitelli docebat). Il prezzo di tutto ciò lo si paga, va da sé. Alcune proposte d’ascolto – inutile dire quali – si sono rivelate deludenti o inconcludenti. Allargare il vocabolario non significa saperlo anche sfruttare. Un certo virtuosismo esecutivo può rimanere fine a se stesso. Ma di musiche interessanti se ne sono ascoltate eccome, musiche che interrogano perché in relazione con il tempo presente e con le sue contraddizioni. ◼ Biennale Musica Enrico Girardi Biennale Teatro focus on / I racconti della Biennale 20 Maria Grazia Gregori A l di là della curiosità, del piacere di avere assistito a una vera e propria Biennale, a un festival internazionale come da tempo non si vedeva sui palcoscenici della città veneziana, quel che ci resta davvero di questa Biennale 2011 è innanzi tutto la sorpresa (ma di alcuni già lo si sapeva) di poterci confrontare con una generazione di talenti veri, che sono riusciti a mitigare qualche delusione. Peccando di un qualche narcisismo mi è sembrato di cogliere in questa manifestazione la conferma di una scelta personale che è stata la bussola del mio modo di pensare e di guardare il teatro come luogo necessario in cui possa esprimersi un creatore, in questo caso un regista, in grado di filtrare, di prevedere, di condividere le spinte della società. La Biennale 2011è stata, infatti, la Biennale dei registi, giovani e meno giovani leoni della scena europea e mondiale, realmente creatori in quanto non solo in grado di mettere in scena con tutti i crismi uno spettacolo, ma proprio inventandosi una via personale ai testi, in certi ca- si drammaturghi di se stessi e soprattutto con l’autorità di coagulare un vero gruppo attorno a sé. L’incontro con una generazione di teatranti che va dai trentasette ai cinquantadue anni, che ha scelto, magari dopo qualche delusione, di stare giù dal palcoscenico invece che su, di filtrare le proprie idee attraverso un’invenzione critica piuttosto che attraverso un personalismo attoriale sfrenato, è stata per me l’ulteriore conferma della necessità indiscussa della regia a qualsiasi latitudine, in qualsiasi ambito di ricerca compresa quella della cosiddetta scrittura collettiva. La bella notizia, dunque, è che all’interno di questo festival inventato da Álex Rigola e fortissimamente voluto dal Presidente Paolo Baratta, ci si è trovati di fronte all’invenzione di nuovi linguaggi, di nuovi rapporti ricercati con un pubblico sempre numerosissimo, in larga parte giovane che ha anche affollato gli incontri mostrando il desiderio di conoscere da vicino il percorso personale di questi artisti, la loro via alla creazione, il senso di una presenza scenica, in cer- ti casi spiazzante, del tutto originale. In questa Biennale non a tema dove semmai il tema neanche tanto segreto era quello dei Laboratori di formazione, in questa pluralità di personaggi come sempre succede in un festival, il filo rosso unificante estremamente discreto ma importante è stato dunque il percorso, il lavoro del e sul teatro, il laboratorio delle idee che questi artisti hanno saputo mettere in campo con lucidità disarmante. Lasciando però agli spettatori lo spazio altrettanto creativo di scoprire da vicino i meccanismi, le spinte creative di un evento teatrale come, per esempio, è successo nella verifica vera e propria di questo lavoro compiuto con attori scelti sul posto e con i quali si è lavorato nel corso dell’anno. Quei «Sette peccati capitali» del tutto nuovi disseminati nel panorama veneziano, sorta di viaggio per uno spettatore nomade e interessato che ci ha permesso di cogliere il senso, l’incidenza in alcuni casi più profonda, in altri più sfumata, di un modo di lavorare, di creare al di fuori del privilegio del proprio gruppo: un vero lavoro da «maestri». Tornando al programma principale cioè agli spettacoli portati da questi registi con i loro rispettivi gruppi e teatri, non tutto ci è sembrato avere lo stesso valore anche se i nomi in campo erano fra i più importanti di quelli che offre la scena mondiale, almeno all’interno di una generazione (che in realtà ne accomuna due), del tutto intenzionata a riempire il gap di conoscenza, di potere che la separa dai grandi maestri della scena internazionale che oggi veleggiano ben oltre i sessant’anni. Per essere chiari: ho amato l’Amleto di Ostermeier, la grinta feroce, iconoclasta di Jan Fabre che in Prometheus si rivela grande artista totale mescolando le invenzioni visive alle ossessioni degli attori nello scontro e nell’incontro spesso impossibile dei personaggi e dei corpi; la svolta di Romeo Castellucci che in Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, parte dal vioPrometheus Landscape ii di Jan Fabre. da Stefan Kaegi, vincitore del Leone d’argento, Bodenprobe Kasachstan, nato dalle informazioni di chi abbia vissuto l’esperienza del petrolio con testimonianze raccolte lungo la catena del gigantesco oleodotto kasacho segna un momento di stallo nell’affascinante work in progress di questo gruppo. Vorrei invece segnalare quella che è stata per me un’autentica scoperta: l’argentino Ricardo Bartís e il suo Sportivo Teatral, un gruppo che lavora sul corpo, sul ritmo, sulla contrapposizione fra i sessi e che fa con ironia e intelligenza, attraverso la metafora di uno sport, in questo caso la boxe (El Box è il titolo dello spettacolo), un racconto della vita e delle attese di un futuro che non ci sarà, anzi di un futuro del quale una generazione si sente derubata. E se il grande Nadj presenta qui un Woyzeck perfetto, dalle strepitose luci espressioniste, mentre in sce- momentaneamente accidentato della parola ma anche la perfezione disperata di una borghesia fasulla, in disfacimento come nel magnifico John Gabriel Borkman di Ibsen e che nell’opera più famosa e più violentata di Shakespeare trova assonanze inquietanti e ironiche con la nostra realtà. E dove il rifiuto del protagonista verso il suo destino che non riesce mai a trasformarsi in ribellione concreta e consapevole viene dilatato dal regista al di là dei secoli e dei generi grazie all’uso del mezzo cinematografico, un doppio della realtà vissuta dai personaggi, una realtà che si guarda e si analizza, ma senza trovare in sé la forza del cambiamento che Ostermeier proietta sui nostri giorni, così colmi di scontento, orrore e disincanto. ◼ Il Woyzeck di Josef Nadj. 21 focus on / I racconti della Biennale na agiscono attori simili a un pugno di marionette biomeccaniche, di fantocci kantoriani che ci risucchiano in un universo inquietante (uno spettacolo che però ha ormai quindici anni, lontano dalle rarefazioni attuali) e Virglio Sieni continua nel suo lavoro che va oltre i generi sia nell’espressività che nella realizzazione, Jan Lauwers e la sua Needcompany pur nella fedeltà a un rigore formale ci presentano un cammino che ci pare ormai superato e non certamente perché in qualche modo vi si sviluppi l’idea che il personale è politico e che dunque attraverso il teatro si possa realizzare una superiore responsabilità, la sola cosa che ci permette di essere liberi, ma proprio per come il linguaggio di questo artista si insinui e in qualche modo prevarichi i contenuti senza raggiungere il culmine creativo. In fin dei conti il discorso più violentemente e artisticamente generazionale ci è venuto proprio da un classico come l’Amleto di Ostermeier, Leone d’oro a Venezia, di cui avevamo già avuto modo di vedere non solo l’approccio violento dei corpi in grado di riempire lo spazio Biennale Teatro lento iperrealismo dei rapporti padre-figlio nel corso di una malattia terminale per trasferirlo con la stessa intensità nel rapporto ambivalente e ambiguo che abbiamo con il Figlio di Dio, il cui volto che giganteggia sul fondo della scena è quello del Cristo di Antonello da Messina. Diseguale anche se intrigante mi è sembrato invece Muerte y reencarnación en un cowboy di Rodrigo García dove dopo una prima parte fisica al cubo un po’ fine a se stessa, si è passati alla seconda: un racconto inquietante e coinvolgente che non capisci dove voglia andare a parare, ma che ti costringe a pensare e che non può lasciare indifferenti. Decisamente deludente, almeno per me, come un saggio di stile del tutto esteriore, mi è invece sembrato Desaparecer di Calixto Bieito, con qualche frettolosità paragonato a Quentin Tarantino, costruito attorno a testi di Edgar Allan Poe e di Robert Walser da una pianista performer e da un attore feticcio del cinema spagnolo, Juan Echanove, che andavano ognuno per conto loro. E, pur all’interno di un lavoro di grande interesse, fortemente collettivo, lo spettacolo messo in scena per i Rimini Protokoll Biennale Teatro focus on / I racconti della Biennale 22 Renato Palazzi N on ho avuto modo di seguire tutti gli spettacoli presentati a questo Festival di Venezia. Il mio sguardo è dunque necessariamente limitato. Da quanto ho visto, però, posso dire di averlo trovato complessivamente un buon festival, tornato a un livello internazionale elevato, certamente superiore a quello delle ultime edizioni. Al di là della qualità dei singoli spettacoli – che va inquadrata caso per caso – erano comunque presenti alcuni dei registi più importanti del momento. E questo, in un certo senso, ha costituito a mio avviso il principale pregio, ma anche il principale limite del programma messo a punto da Álex Rigola. Mi spiego meglio: proprio questa sorta di aggiornata panoramica su un certo numero di talenti illustri, autentiche star del rinnovamento teatrale degli ultimi anni, tutti debitamente in voga, tutti portatori di linguaggi dalla forte carica di rot- tura col passato, mi ha dato l’impressione di una scelta di campo decisa ma forse un po’ facile, orientata a dei percorsi provocatori ma sostanzialmente collaudati. Ne abbiamo avuto delle conferme, non delle scoperte inattese. Si è puntato su un’offerta prestigiosa, sui risultati di una generazione teatrale oggi affermata, più che su un progetto meditato che, come l’ormai paradigmatica Biennale di Romeo Castellucci, evidenziasse soprattutto delle correnti di ricerca e suggerisse dei temi di riflessione su certe tendenze del teatro. Non voglio dire, con questo, che il programma sia stato costruito a tavolino, come a volte negli anni scorsi è sembrato avvenire al Napoli Teatro Festival Italia. Credo, anzi, che Rigola abbia opportunamente invitato soprattutto degli artisti che gli piacciono o gli assomigliano, degli spettacoli nei qua- li lui probabilmente si riconosce. È tuttavia mancata, forse anche per motivi economici, l’idea caratterizzante, la creazione che vedi qui in esclusiva e non potresti vedere da nessun’altra parte, che è ciò che poi distingue un vero festival da una comune «vetrina» di spettacoli. Per quanto riguarda i vari titoli in sé, mi pare che sia stata soprattutto la Biennale di Ostermeier, nel segno di quell’Amleto che non per nulla l’ha inaugurata: un bell’Amleto, un grande spettacolo da ricordare, molto forte, molto a effetto, molto coinvolgente. Non so se si sia trattato anche di una grande regia (ammesso che la distinzione abbia ancora significato), nel senso di una profonda lettura interpretativa del testo, che aggiunga qualcosa alla conoscenza che abbiamo di esso, come era stato, per restare in ambito veneziano, l’Otello di Nekrosius. Personalmente amo molto Jan Fabre: ho quindi assistito con notevoli aspettative al suo Prometheus Landscape II, che mi è parso affascinante a vedersi, ma davvero di difficile decifrazione. In un primo istante era prevalso addirittura un impulso di rifiuto nei confronti di una composizione piuttosto confusa, dove era arduo capire chi stesse estinguendo la fiamma liberatoria, e chi fossero invece le vittime della brutale repressione. Poi, col passare dei giorni, mi è capitato spesso di ripensare allo spettacolo, che mi ha lasciato degli interrogativi, il che è sempre segno della vitalità di una proposta i cui effetti non si esauriscono all’uscita dal teatro. Ho francamente detestato Isabella’s Room di Jan Lauwers, che ho trovato vecchio, pieno di sorrisini e ammiccamenti. Al contrario di altri, mi ha fatto invece piacere conoscere direttamente il lavoro del capofila dei drammaturghi argentini, RiHamlet secondo Thomas Ostermeier (foto di Arno Declair). Sopra, El Box di Ricardo Bartís (foto di Andrés Barragán). A destra, Muerte y reencarnación en un cowboy di Rodrigo García (foto di Christian Berthelot). focus on / I racconti della Biennale 23 Biennale Teatro cardo Bartís: non è un regista raffinatamente estremo come gli altri, non pratica particolari rivoluzioni stilistiche, il suo teatro è ispido, vecchiotto, ma in El Box mi è parso di cogliere un sentimento vero, carne e sangue della sua terra, calore e passione umana e politica. Ho sentito giudizi molto negativi su Rodrigo García, una presa di distanze – dopo tanto successo – che era quasi di prammatica. Io non riesco più a ragionare in questi termini, è meglio questo, era meglio l’altro. Secondo me un artista come García ha un percorso tanto definito e ha tanto inciso sulle dinamiche complessive della scena che la sua opera va valutata nell’insieme, indipendentemente dalla singola scena del singolo spettacolo. Qui ho comunque preferito la parte meramente corporea a quella verbale: e non mi sembra che certe situazioni mostrate solo in video, come quella dell’uccisione della brioche, fossero tali da lasciare indifferenti. In definitiva, mi sembra che forse questa Biennale abbia lasciato il segno, più che con quanto ci ha mostrato sera per sera, con le sue iniziative per così dire collaterali, i laboratori, gli incontri coi registi, Young Italian Brunch, la panoramica sulle realtà emergenti italiane. Anche in questo caso va precisato che tutti gli spettacoli presentati erano stati già visti, che questa carrellata non ha riservato nuove sorprese: ma l’iniziativa è servita soprattutto a garantire ai cinque gruppi selezionati un riconoscimento istituzionale e una valorizzazione su scala nazionale. Molto utile è stato infine, dal mio punto di vista, lo stage guidato da Andrea Porcheddu che ha dato voce alle opinioni e alle analisi della giovane critica, legittimando e portando pienamente alla luce i fermenti di un settore giustamente scalpitante nel rivendicare più salde prospettive per il proprio impegno intellettuale. ◼ Biennale Teatro focus on / I racconti della Biennale 24 Roberta Ferraresi Una Biennale oltre il secolo breve della regia ui palcoscenici dell’Arsenale o del Goldoni, in questa Biennale Teatro, più che vedere «soltanto» spettacoli, si sono potute accarezzare tante diverse idee di teatro, che hanno saputo stuzzicare e spostare le sicurezze del pubblico. L’opportunità che ha segnato l’edizione 2011 sta, forse, nel clima di incontro e confronto che il direttore Álex Rigola ha saputo creare, riunendo a Venezia la varietà delle culture teatrali occidentali, anche con la ricca offerta di laboratori, il programma di incontri pomeridiani, le mattine di conferenza sulla scenografia. Fra la grande e varia peculiarità di ogni spettacolo, un tratto comune è evidente: tutti gli artisti in programma sono registi, nel senso più stretto e «tradizionale» – con figure come Castellucci o Fabre le virgolette sono d’obbligo – del termine; così, incontrare ogni sera lavori tanto diffe- S renti, diventa qui un’occasione per fare i conti con la situazione attuale del teatro di regia. Se la figura del regista nacque, come tutti i ruoli di mediazione, in coincidenza a quella profonda trasformazione socioculturale che vede l’avvento del moderno sistema del lavoro capitalista, che ne è ora del suo ruolo e delle sue funzioni? Oggi che il precariato si radica e il modello è quello partecipativo della rete; che crollano muri e banche, certezze e interi Stati – che ne è del «manager» del palcoscenico? Le regie, pur raffinatissime e solide, in programma alla Biennale paiono ribollire nella ricerca di una soluzione che rilanci le istanze autoriali per approdare a nuove forme estetiche e politiche. I segni, moltissimi, si trovano un po’ ovunque e curiosamente riecheggiano di sera in sera – dalla Spagna al Belgio, dai lavori più maturi a quelli emergenti. Il primo tratto comune è solidamente concettuale, e si ritrova nell’intenso la- vorio intorno all’archetipo dell’eroe, sia esso classico (Prometeo), teatrale (Amleto, Woyzeck) o contemporaneo (i cowboy di García, la boxe di Bartís). Ma l’utilizzo di tale «mitologia» è tutto fuorché didattico; e anzi, riattivata, diventa innesco sovversivo: come a fare i conti coi limiti della propria cultura, ma in senso più interrogativo che dogmatico. Per Bieito la risposta è nell’astrazione, Bartís lavora all’elevazione della monumentalità quotidiana entro i canoni del dramma, García rimaneggia sapientemente i limiti tra realtà e finzione in una originale forma di straniamento. Mentre su tutt’altro registro si muovono le tendenze mitteleuropee: lì il punto di vista unico esplode in una vertigine di prospettive multiple e simultanee, azioni frantumate e continuamente delocate; la maniacale stratificazione di segni e di sensi deborda dal palcoscenico e sembra invocare – in Ostermeier, Fabre o Lauwers – una consistente partecipazione dello spettatore. «Fuck Freud», ripeteva fino allo sfinimento il prologo-manifesto nel Prometheus di Jan Fabre, come a segnare la necessità di emancipazione del- la fruizione rispetto alle grandi tradizioni ermeneutiche imposte dal Novecento occidentale. Altro elemento che ritorna è il tentativo, spesso ironico, di scardinare i limiti della finzione teatrale, lavorando sui confini fra realtà e rappresentazione; il proposito, anche qui, sembra essere attivato nell’ottica di stabilire un rinnovato rapporto con lo spettatore, rivendicando la profonda (non-)autenticità della condizione performativa e, con essa, la condivisione del processo creativo. È accaduto in tutti quei casi tesi a rompere la magia teatrale: esemDa sinistra a destra, e nella pagina a fronte, tre spettacoli della sezione «Young Italian Brunch»: Aure di Teatropersona, Grimmless di Ricci/Forte (foto di Daniele e Virginia Antonelli) e Sei gradi di Santasangre (foto di Laura Arlotti). ti parte di una creatività vivacissima che, pur sfuggendo ogni volta ai tentativi di categorizzazione (generazionali, geografici o estetici che siano), condivide il merito di aver saputo portare a teatro un pubblico nuovo – e ha rinnovato questa scommessa proprio nei giorni di festival, con un tutto esaurito quotidiano nonostante l’orario anomalo (a pranzo) e il decentramento del Fondamenta Nuove rispetto agli spazi Biennale. ◼ A destra, Bodenprobe Kazachstan di Rimini Protokoll, regia di Stefan Kaegi (foto di Dorothea Tuch). S ono molti gli interrogativi sulla scena contemporanea che balzano agli occhi, avendo avuto l’occasione di osservare in pochi giorni il lavoro di alcuni dei registi più importanti del momento, com’è accaduto alla Biennale Teatro. Ma la questione cruciale, affrontata e risolta in vario modo da questi nomi illustri, infondo rimane sempre la stessa: come può il teatro raccontare la realtà? Interrogativo reso più scottante visto che quello che ci circonda è sempre più contraddittorio e difficile da comprendere. Senza dimenticare che il palcoscenico si trova circondato da quell’universo globale e medializzato sempre più invadente, dove gli schermi di vari tipi e dimensioni ci rimandano quotidianamente gli in- finiti frammenti delle tante tensioni internazionali, dei conflitti bellici, delle problematiche sociali. E quindi il teatro, che può apparire più povero di mezzi rispetto alla comunicazione virtuale, deve inventarsi per forza di cose una sua ragione e legittimarla attraverso una continua invenzione di modi, di stili, di atteggiamenti creativi. Ma è certo interessante che continui a farlo, e che anzi ci tenga a rivendicare il suo privilegiato ruolo di agorà, di luogo di incontro e di dibattito dal vivo. Le risposte che ogni artista fornisce al problema sono, dunque, totalmente diverse una dall’altra, ognuna delle compagnie presenti propone una sua attenzione particolare a un tema incombente della nostra realtà contemporanea, ma la- 25 focus on / I racconti della Biennale Antonio Audino Biennale Teatro plare è la scena-chiave del Concetto di volto di Castellucci, in cui un attore sottolinea, svelandolo, il «trucco» spettacolare. Ma anche tutte le volte (frequentissime) in cui vi è una figura di mediazione, una sorta di «primo spettatore» che concretizza il rapporto fra scena e platea – come Jan Lauwers stesso nel suo Isabella’s Room. Condivisione dell’autorialità con il pubblico; demistificazione della finzione teatrale; frammentazione e policentricismo, reiterazione e ciclicità... Sembra – dentro e fuor di Biennale – che la grande tradizione registica novecentesca sia andata a frantumarsi contro i cortocircuiti del postmoderno. Tutta un’altra storia – in senso stretto, vista l’anomalia italiana nel teatro di regia – è la risposta dei gruppi italiani, programmati nel «festival nel festival» Young Italian Brunch. Ed è stato prezioso poter vedere insieme le risposte alla crisi (della regia, dell’Occidente) dalla parte dei grandi artisti e da quella di ensemble certo meno maturi, ma forse proprio per questo forti di tutta un’altra spinta (estetica, politica): tut- Biennale Teatro focus on / I racconti della Biennale 26 vora poi all’elaborazione di una chiave scenica originale che ne illustri le linee, ne racconti il cupo intreccio, che sia capace di rimandare ai tanti riflessi sulla collettività o sugli individui di quel particolare tema analizzato. Da questo punto di vista la risposta più radicale e innovativa è senza dubbio quella dei giovani tedeschi della compagnia Rimini Protokoll con Bodenprobe Kazachstan, dove la dimensione rappresentativa si assottiglia fino a scomparire. Così il regista Stefan Kaegi non «mette in scena» ma porta in scena persone realmente legate alle vicende odierne del Kazakistan, l’angolo più ricco del mondo se non altro per i giacimenti petroliferi. Davanti a noi operai che hanno lavorato alle estrazioni, camionisti, operatori economici del settore che espongono frammenti semplici e diretti delle loro biografie, senza mai calcare su accenti drammatici, descrivendo la pura quotidianità che basta da sola a far emergere il profilo di una terra in cui le potenzialità di ricchezza si trasformano in prevaricazione e oppressione, con un netto distacco tra chi fa le regole e chi le subisce. Con video altret- zione realistica è labilissima, e, proprio nelle pieghe più sottili di quel racconto e soprattutto in una calcolatissima tensione ritmica dei dialoghi, il regista e gli attori fanno balenare coloriture grottesche e lievissime tonalità poetiche, sospendendo tutto in un sogno che naviga tra desiderio e quotidianità e che sconfina in più punti oltre una esatta pantografia del reale. E anche Thomas Ostermeier gioca su due piani, offrendo allo spettatore un Amleto che in fondo non ci dice molto di più della tormentata figura del principe danese, ma che riesce a innervare tutta l’azione di una violenza e di una durezza che appartiene all’oggi, dove il volto livido e grottesco del potere si mostra nei suoi tratti più biechi e più attuali, tanto che la metateatralità del testo non può che stralunarsi in clownerie, come se il nostro tempo avesse ormai inglobato una dimensione assurda e grottesca oltre ogni limite. Ma certo visti in rapida successione anche il pensiero e l’azione scenica di Rodrigo García e di Romeo Castellucci creano un potente cortocircuito. Entrambi assestati su un’ansia tanto oggettivi e ingenui sufficienti a mostrare le misere condizioni di lavoro e di vita in quello che è invece un Eldorado contemporaneo. Sembra puntare alla stessa concretezza di visione, ma con modalità del tutto opposte, il belga fiammingo Jan Lauwers con la sua Needcompany e il lavoro Isabella’s Room, ma qui è tutto teatro, anche se con un continuo smontaggio dell’immedesimazione. Infatti anziché rappresentare la storia di un’anziana donna cieca il regista ce la fa raccontare da un folto gruppo di attori, giacché per lui esporre il percorso di una vita significa scomporne le dinamiche, evidenziarne le contraddizioni in una sorta di dibattito pubblico, arrivando persino a mostrare, attraverso due attori, le reazioni dei due opposti globi cerebrali. Già perché, usciti dagli anni in cui era il corpo con le regole della sua fisiologia a sedurre gli artisti della scena e dell’arte contemporanea, oggi la direttrice sembra rivolgersi alla neurologia, scartando comunque la psicanalisi. Lo afferma Jan Fabre che però compone il suo Prometheus Landscape ii ancora su linee «postmoderne» (anche in questo caso la definizione è sua) di allusioni simboliche e rimandi criptici che fanno smarrire lo spettatore in un universo di segni, e proprio questa chiave sembra la più debole nel voler riportare durezze e violenze del mondo contemporaneo. Ci pensa l’argentino Riccardo Bartís a offrirci una scheggia di teatro vecchia maniera con il suo El Box che inganna volontariamente gli spettatori portandoli in quella modesta abitazione di Buenos Aires dove vive una campionessa di pugilato ormai a riposo presa a rievocare i suoi passati trionfi. Ma la fin- etica e di prospettiva di pensiero disegnano il loro teatro in modi opposti, come accade per la scena rude dei due cowboy dell’argentino-madrileno e per le algide calligrafie del cesenate, dove però le due direttrici opposte scandagliano entrambe, come in un teorema filosofico trattato per assurdo, il più profondo dell’essenza dell’uomo, per scoprire possibili bagliori di umanità e di moralità, e per riportare in superficie quel senso profondo dell’essere cancellato dalla brutalità del presente. ◼ Isabella’s Room di Jan Lauwers (foto di Eveline Vanassche). settoriali, la scuola, l’industria, la società civile e le amministrazioni locali. Modello che ha tra l’altro permesso una significativa crescita professionale interna. La scelta di operare nel settore delle performing arts come dicevo non è casuale, la storia teatrale italiana, la forte tradizione veneta, lo strumento teatro capace di una forte valenza didattica sotto molti punti di vista: crescita personale, conodi Fabio Achilli scenza del proprio corpo, il confronto e la relazione con gli altri. Conoscere e capire culture diverse. La capacità delle perelicemente stupito e orgoglioso del prestigioforming arts di interagire con il più ampio mondo dei saperi e so premio riconosciuto alla Fondazione, mi sono chiedelle espressioni artistiche. La consapevolezza che «lo spettasto quale, oltre a una proposta culturale di qualità e a colo» è punto di arrivo di molteplici lavori tecnici e artistici, dei numeri incredibili, sia stato il fattore vincente del progetuna lunga fatica. «Il teatro può» (uno dei nostri motti) queto, provo a sintetizzarlo: la cultura è un investimento di lunga sto e tanto altro. gittata, non paga nel breve, parte da lontano, dalla formazioNon solo in Giovani a Teatro si concretizza l’agire della Fonne che deve sedimentare nel tempo. La cultura non deve essedazione nelle performing arts. Il sostegno alla Fenice, la Fonre un evento, uno spot, la cultura deve essere un’abitudine, un dazione di Venezia è il primo socio privato. Con la Fondaziouso quotidiano. ne Fenice è stata costituita la società Fest che si occupa della gestione dei servizi aggiuntivi e marketing del teatro. La scuola di pedagogia di Vasil’ev, giunta al terzo anno, formare i formatori, questo l’obiettivo della scuola, formazione permanente con ampia provenienza internazionale dei partecipanti ai corsi. Tra le iniziative promosse dalla Fondazione, e non ultima, la rivista sulla quale sto impropriamente scrivendo, strumento di approfondimento e informazione del settore teatrale. Lungo e ampio il percorso della Fondazione di Venezia a sostegno del teatro, i tanti collaboratori coinvolti ogni anno nell’organizzazione e gestione del progetto, i tanti compagni di viagGiovani a Teatro non è un gio di questi primi 10 anLa motivazione evento. È una tournée lunga noni (2012), personaggi di dell’Associazione Nazionale ve anni. È un festival del teafama e giovani alle pridei Critici di Teatro tro che dura otto mesi all’anno. me armi, operatori pubNon è nato per caso. blici e privati. Con tutPer la Fondazione di Venezia ti loro ma soprattutto Straordinario nell’intuizione e nelle forme della pratica, si tratta del riconoscimento a un con i 60.140 ragazzi che Giovani a Teatro è un progetto – giunto ormai al nono anno nuovo modello di sostegno alla hanno partecipato e vis– sempre stimolante su più fronti, per gli spettatori, per gli cultura e al territorio, attraverso suto teatro abbiamo vinartisti, sapendo suscitare vasta adesione, diffuso entusiasmo una propria progettualità, trato il Premio della critica nel pubblico, anche nuovissimo, e tra gli operatori teatrali. Con la stessa Fondazione di Venezia certo assai lieta per il sversale ai settori d’intervento, 2011. ◼ continuo, proficuo dialogo con tanti giovani e i centri culturali capace di aggregare più soggetti, del territorio veneziano e non solo. Biglietti a costo ridotto, coordinandone le attività, adotcorsi di drammaturgia e scrittura critica, la sperimentazione tando una filosofia imprenditodi una rivista per lo spettacolo dal vivo, articolate proposte per riale nell’approccio organizzatila scuola e così via, sempre vigile, attento, prezioso lo sguardo vo, consolidando le attività prosulle poetiche della contemporaneità con il coinvolgimento di gettuali secondo una visione di singoli artisti e compagnie di grande valore. Tra le molteplici medio e lungo termine. Creanproposte anche la scuola di pedagogia di Vasil’ev cui hanno do le condizioni per sviluppare partecipato docenti di vasta fama e allievi di ogni parte rapporti e collaborazioni interd’Italia. Nel consegnare questo premio ci si augura che Giovani a Teatro possa diventare modello per altre realtà, fino a comporre reti Il momento della premiazione che favoriscano, come a Venezia, questa emozionante crescita alla Pergola di Firenze. del pubblico e del sapere teatrale. F 51 Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 Giovani a Teatro vince il Premio della Critica 2011 «Essere umani» 52 Le nuove Esperienze di Giovani a Teatro R di Leonardo Mello itornano le Esperienze di Giovani a Teatro, come di consueto articolate in svariati progetti e diffuse a rete nel nostro territorio provinciale. Pur nel noto clima di difficoltà economiche, la Fondazione di Venezia e la sua società strumentale Euterpe si sono sforzate di garantire un programma di alto livello, che vede come punta di diamante la «non scuola» di Marco Martinelli (cfr. pp. 61-62 e vmed n. 38, p. 77), impegnata sia nel benestante centro storico che in un’area periferica come Asseggiano. Il riconoscimento ottenuto dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, che al complesso del progetto Giovani a Teatro ha assegnato il Premio della Critica 2011, arriva, tempestivo, a confermare il valore di realtà guida di quest’iniziativa, la sua esportabilità ben al di fuori dei confini del veneziano – un frammento della motivazione, auspica che gat «possa diventare modello per altre realtà, fino a comporre reti che favoriscano, come a Venezia, questa emozionante crescita del pubblico e del sapere teatrale» . Ma conferma implicitamente anche l’alto livello di consapevolezza dello staff ideativo e organizzativo, che nel corso degli anni ha lavorato a costruire con sempre maggior precisione un disegno coerente e unitario, a cominciare dalla ricerca, talvolta impegnativa, di un tema unificante (quest’anno è il felice e stratificato sintagma «Essere umani»). L’edizione 2011-2012 presenta però delle caratteristiche in parte innovative. Grande attenzione è infatti rivolta alle nuove generazioni: infanzia e adolescenza, pur non esaurendo il ventaglio delle proposte, divengono interlocutrici privilegiate, punti di riferimento cui destinare, appunto, un nutrito fascio di Esperienze. Ne consegue, ovviamente, una più stretta relazione con gli istituti scolastici, dalla materna alla secondaria superiore, compresi molti dei loro docenti. Ecco allora che, non potendo dar conto di tutti i laboratori programmati, nelle pagine che seguono abbiamo fatto una selezione indicativa, che va dal lavoro con i bambini dell’asilo a quello con il periodo magmatico e turbolento dell’adolescenza. E per rendere più interessanti queste descrizioni abbiamo chiesto agli stessi artisti di raccontarci le motivazioni da cui sono partiti e le metodologie che utilizzeranno. (Per ogni informazione pratica consultare il sito: www.giovaniateatro.it). ◼ Essere umani E di Cristina Palumbo ssere umani» è il tema ispiratore scelto per la stagione 2011-2012 di Giovani a Teatro. È un invito che cerca di stimolare giovani e giovanissimi a ri-conoscersi esseri umani e a riconoscere l’altro, a considerare l’altro considerando se stessi, a cercare sintonia ed equilibrio con la natura – minacciata sempre più da disastri provocati nel segno di un progresso ormai insostenibile – ma anche a soffermarsi su cosa contraddistingue l’umano, mettendosi in posizione di «ascolto». Per intraprendere questo percorso verso una nuova comune sensibilità del contemporaneo serve uno sguardo puro, innocente come quello che accende il gioco dei bambini o il talento degli artisti. Il progetto quest’anno propone occasioni per condividere e dare voce alla vitale energia «umana» e alla creatività, capaci di smuovere anima e coscienze verso un pensiero comune che metta l’arte tra le priorità di chi desidera la crescita culturale di una comunità. In questa prospettiva si è ampliato e rafforzato l’obiettivo di coinvolgere nell’esperienza culturale dal vivo le giovani generazioni. « Oggi più che mai l’opinione pubblica è pressata dall’idea che la cultura e lo spettacolo dal vivo siano superflui e debbano essere evasione, intrattenimento, passatempo e non pensiero, coscienza, creazione. E che investimento sia produrre e soprattutto soldi, mentre Giovani a Teatro investe nell’arte, nel pensare, nello scoprire, nell’inventare. Perseguendo una rinnovata idea di Cittadinanza Attiva di cui bambini, ragazzi e giovani – e con loro insegnanti e genitori – possono essere protagonisti trovando nell’incontro con le arti dal vivo la pratica e le regole dello stare insieme, il rispetto e la cura di sé e dell’altro, la solidarietà e la sussidiarietà di essere simili, lo stupore e la consapevolezza del bello e del vero, la forza e il coraggio dell’immaginazione e della creatività, l’armonia tra sé e con gli altri, tra interno e esterno, tra fisico, emotivo e razionale, tra ascolto e sguardo, tra interiore e materiale. ◼ di Gianni De Luigi C’ è un duplice vantaggio nell’insegnare: mentre si insegna si impara! Diceva Roland Barthes: «Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa e questo si chiama cercare». Perché «Capire il Teatro (l’arte dello spettatore bambino)» alla scuola materna o, meglio, scuola della prima infanzia? Con quali finalità? Perché il teatro? Mi sono posto queste domande, proprio per chiarire a me e a chi mi leggerà i come e i perché del portare ai bambini questa esperienza. Per rispondere a questi interrogativi vorrei mettere in evidenza l’importanza e la delicatezza di affrontare i piccoli spettatori nella loro prima infanzia. A più riprese mi sono rivolto a questo tipo di scuola dal 1978 in poi, scoprendo molti degli strumenti per la preparazione degli attori. Proprio per ciò a questi ultimi, come mediatori, propongo innanzi tutto un Master dove vengono sradicate gran parte delle convinzioni in cui indubitabili maestri, applicandole, sono stati fraintesi. Gli attori devono partire dalla loro disponibilità ad informarsi, studiando e sperimentando le teorie di grandi scienziati e pedagoghi come Piaget, Vayer, Francesco Tonucci, il grande e unico Gianni Rodari. Capire le tappe evolutive del bambino permette agli attori di risalire alla propria infanzia, confrontare i ricordi, i condizionamenti. Ad esempio, osservando le reazioni emotive dei bambini gli attori colgono come dai tre ai cinque anni si fatica a scoprire l’organizzazione spaziotemporale, e come loro stessi l’abbiano persa per strada. I lavori di epistemologia genetica, e particolarmente quelli di Piaget, dimostrano che questo avviene solo a partire dall’esperienza vissuta, con la partecipazione attiva della motricità corporea, e solo dopo si potranno elaborare le strutture fondamentali del pensiero astratto. Ecco come scoprire l’unità e la globalità della persona umana. Oggi il corpo umano è esposto ma non capito. Ecco come scoprire le tappe evolutive del bambino, senza agire da adulto educatore e senza alcuna volontà di addomesticamento. Lasciarlo libero spettatore dello spettacolo vivo, libero di assistere alla nascita del suo spettacolo, dove lui è testimone dei trucchi e dei gesti che vengono costruiti davanti ai suoi occhi. Quello che il bambino organizza a poco a poco, partendo dal suo corpo, è il suo mondo, che confronta con quello dell’attore-personaggio. Si pensi che il lattante non distingue le percezioni che gli vengono dal di dentro da quelle che gli vengono dal di fuori ed è già spettatore contemporaneo elettroaddomesticato. Il suo primo compito, che è anche la base degli attori, è prendere coscienza dei limiti del «me» e del «non me». Più avanti il bambino si metterà in rapporto con l’immagine della madre, l’attore con quella del regista. All’inizio parla in terza persona per evitare di fare confusione. Così l’attore quando comincia ad affrontare il personaggio. Più tardi, verso i tre, quattro anni trova il pronome «Io», identificazione che sarà compiuta all’età dei sei anni. Parallelamente, durante questo periodo organizza e struttura il suo corpo, distingue gli uni dagli altri: la sua testa, le sue gambe, le sue braccia, i suoi piedi, più tardi il suo tronco, il suo Gianni De Luigi durante un incontro di «Capire il teatro». petto, il suo ventre, la sua schiena, le sue ginocchia, i suoi gomiti. Ma l’infante non resta fermo nel suo corpo, entra in relazione con il mondo degli oggetti e dei suoni e soprattutto con il mondo degli altri. È a partire dall’organizzazione del suo corpo da questa immagine coerente di sé e in riferimento ad essa che va a poco a poco a ingrandire lo spazio che lo circonda. Qui avviene la reciprocità con i giovani attori che confrontano il loro essere corpo nel passato, nel presente e nel futuro. Tutto questo si deve opporre a quelle trasmissioni televisive dove i bambini sono usati come cavie per adulti bambini e genitori osceni! Trasmissioni come «Ti lascio una Canzone» o ancora «Io Canto». Non si può rimanere nelle trincee intellettuali, cosa aspetta queste nuove generazioni! Qui non si tratta di libero arbitrio! Da un indagine risulta che per sette studenti universitari su dieci la casa del Grande Fratello e l’Isola dei famosi sono la massima aspirazione. Nove su dieci vorrebbero lavorare in tv davanti o dietro i riflettori. Devo citare per finire un articolo di Aldo Grasso: «Ma Maria De Filippi è più maestra del famoso maestro Manzi degli anni cinquanta-sessanta («Non è mai troppo tar- di»)? La televisione delle origini è stata pedagogica e formativa, autentica alfabetizzazione, e se non tutti potevano avere un televisore era anche un rito collettivo al bar o in patronato. Bisognerebbe seguire “Amici” in tutte le sue declinazioni, per capire che mai come ora la televisione insegue il sogno dell’insegnamento e di ogni propedeutica (avere una occasione di lavoro), attraverso lezioni di canto, ballo e recitazione, e insieme intende esplicare metodi educativi (avere successo nel mondo dello spettacolo), non riconosce pedagogie ufficiali, né materie inutili (come filosofia o storia del teatro e dell’arte) né voti, né debiti o crediti formativi. Si veste di “scuola democratica” dove tutti possono dire la loro, allievi, genitori, amici. Paradossalmente la tv (almeno quella generalista) funziona oggi come Istituzione. L’Istituto De Filippi si propone di educare a servire il mondo dello spettacolo, l’abbietto piacere di annullarsi da professionisti della tv ». Bisognerà affrontare la scuola della prima infanzia con IpodIpad-Play Station-Internet-FaceBook e via dicendo… ◼ 53 Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 «Capire il teatro» incontra la scuola materna «Essere umani» 54 Il Laboratorio di Musica Creativa I di Alvise Seggi l Laboratorio di Musica Creativa si rivolge agli studenti della scuola secondaria di primo grado (ex scuole medie). Alla base c’è l’idea di promuovere un approccio alla musica che valorizzi la creatività e le singole soggettività, esulando dai tradizionali schemi di insegnamento. I tre insegnanti coinvolti, cioè il sottoscritto, Jennifer Cabrera e Moulayé Niang, si muoveranno dalle esperienze e dai background dei ragazzi, per portare alla loro attenzione, attraverso un percorso divertente e olistico, le infinite possibilità di linguaggio dell’improvvisazione musicale. I ragazzi impareranno, soprattutto, attraverso la loro immaginazione e creatività. Un secondo e fondamentale aspetto dell’approccio del laboratorio, è quello della sua focalizzazione nel gruppo e nelle dinamiche d’interazione al suo interno. L’intenzione è quella di incoraggiare i partecipanti a creare insieme della musica, all’interno dell’ambiente scolastico, sicuro e familiare. I ragazzi saranno guidati alla pratica strumentale attraverso l’improvvisazione, la composizione, la conoscenza del contesto storico e l’apprendimento di brani e ritmi di repertori musicali diversi. Si spazierà dalle musiche popolari europee ai canti e ritmi africani. Il canto e l’utilizzo delle percussioni saranno strumentali allo sviluppo di una sensibilità ritmica e di tutte quelle capacità fisiche, mentali e umane necessarie per la musica d’insieme. Altra caratteristica metodologica del percorso didattico è la trasmissione orale, in luogo di quella scritta. I ragazzi saranno invitati all’ascolto dei brani, verrà chiesto loro di osservarne il movimento ritmico, comprenderlo a fondo, memorizzarlo e infine riprodurlo con la sola voce e movimento del corpo. In questa fase acquisteranno la comprensione simultanea di diversi dati musicali: altezze, durate, accenti, fraseggio e strutture. Dopo aver acquisito le informazioni relative al brano con la voce e con il corpo, agli studenti verrà chiesto di affrontarne la realizzazione per mezzo di strumenti musicali. Le esperienze didattiche dei tre insegnanti coinvolti – Jennifer Cabrera, cantante e ballerina, Moulayé Niang, percussionista, e me, contrabbassista e compositore – confluiranno, dunque, in un approccio multidisciplinare, per il quale voce, suono e movimento del corpo formeranno un unicum eseguito dai ragazzi in modo del tutto spontaneo. Il laboratorio, oltre ai consueti strumenti musicali, ne utilizzerà come fonte sonora anche altri creati con materiali di recupero: carta, legno, plastica, corde, contenitori e quant’altro verrà reperito dai ragazzi. La costruzione del proprio strumento musicale aiuta a conoscere meglio il processo grazie al quale esso produce suono e la gamma delle sue possibilità. Il fatto, invece, di creare uno strumento da materiali di recupero, aiuta a sviluppare maggiori sensibilità e ricettività in relazione al mondo esterno. Sapere che un tubo di gomma può trasformarsi in un flauto, o che una scopa può diventare una spazzola da batteria, aiuterà i ragazzi a percepire la realtà circostante come una maggiore fonte di stimoli e di possibilità. In conclusione, il Laboratorio di Musica Creativa si propone di promuovere nel preadolescente, in coerenza con i suoi bisogni formativi, l’acquisizione del piacere di esprimersi e di proporsi musicalmente. Si propone di aiutarlo a sviluppare un personale gusto estetico e la capacità di esercitare un giudizio critico. Il nostro laboratorio infine non è riconducibile a una mera esperienza didattica musicale. È altresì un luogo dove lo stare bene con sé e con gli altri rappresenta un valore da perseguire. Un momento di crescita dove si impara a operare scelte consapevoli e dove ci si impegna a realizzarle. Impegno e coinvolgimento nell’improvvisazione all’interno di un gruppo rappresenteranno, quindi, non solo un percorso didattico, ma anche un’importante esperienza umana e sociale di condivisione. ◼ Alvise Seggi. S di Massimo Munaro e Chiara Elisa Rossini i può leggere Romeo e Giulietta come il dramma shake- «I cinque sensi dell’attore», speriano che più direttaun laboratorio mente mette in scena il monper il liceo «Ugo Morin» di Mestre do visto da occhi giovani. Il mondo di Romeo e Giu- Dallo studio di Romeo e Giulietlietta, di Tebaldo e Mercu- ta nasce il laboratorio «I cinque zio, è tutto bianco o tut- sensi dell’attore», ideato e coordinato registicamente da Massito nero, è tutto Capuleti o mo Munaro, curato da Chiara tutto Montecchi, è tutto Elisa Rossini e Diana Ferrantin amore e magia o violenza e e indirizzato al triennio del Lirabbia. ceo Scientifico «Ugo Morin». In questo mondo gli adul- Tema centrale del lavoro sarà la ti non appaiono che come tragedia shakesperiana, analizprincipi censori, come por- zata e indagata nelle sue relaziocon la contemporaneità e con tatori di valori antichi, im- ni la realtà odierna, secondo l’usuaprescindibili, schemi e re- le procedura del gruppo di Rovigole vecchie e immutabi- go, riproposta in termini laborali, rancori dei tempi passati. toriali dopo il grande successo E allora inevitabile arriva la dell’Edipo dei Mille. trasgressione, una ribellione che non si traduce in una contestazione esplicita, ma in un amore proibito, che è forse il più alto gesto politico e di rivolta che questi due giovani potessero compiere. Romeo e Giulietta sono giovani, e quella che li muove è una febbre di vita, in quello stato adolescente in cui tutto appare possibile, in cui ci sembra che effettivamente la vita sia aperta e che tutto possa cambiare. Le loro passioni sono eccessive, totalizzanti, violente. Così il loro amore, improvviso. Così l’odio tra le due fazioni, mortale. Tutto il rancore e la rabbia si concentrano in un nemico: l’altro. Ecco allora che bisogna fare capannello, squadra, e la violenza sembra l’unica cosa che possa tenere unito un gruppo contro l’altro, l’unico strumento di sfogo e di azione possibile nei confronti del mondo. Ma queste enormi passioni dicotomiche, amore e guerra, arrivano a toccarsi e a sciogliersi solo perché i due protagonisti sono mossi dal coraggio, dalla follia e dalla spensieratezza dell’adolescenza. E come sempre accade, per risolvere ciò che sembra impossibile risolvere è necessario compiere un sacrificio: i due giovani eroi hanno persa la vita, ma in cambio hanno vinto la partita costringendo le loro famiglie e l’intera comunità ad una riconciliazione. ◼ L’Edipo dei Mille del Teatro del Lemming ( foto di Chiara Elisa Rossini). C di Laura Moro opyleft e copyright come yin e yang della cultura web: sono i poli tra cui si sviluppa la tensione creativa delle nuove generazioni. Il giovane artista di domani, intrinsecamente legato alla disponibilità di informazioni a cui attingere attraverso la rete, si allena fin da tenera età a premere «ctrl + c e ctrl + v». Anche il semplice fatto di coltivare i propri gusti musicali abitua ben presto alla parola download, a maneggiare ed editare informazioni a proprio piacimento. Alle associazioni mentali dell’utente si affiancano subito «associazioni web»: finestre e links che si aprono automaticamente, in definiva, una disponibilità di informazioni senza precedenti. Così, oltre alla biografia dell’autore, nelle prime pagine di una opera di domani, forse sarebbe interessante e curioso pubblicare la cronologia del suo portatile. Ad influenzare più o meno coscientemente un nuovo artista ce ne sono altri mille, precedenti e contemporanei; le opere d’arte e d’intelletto, si sa, ispirano altre opere. Se da una parte è doveroso difendere la propria firma d’autore, da sempre, copiare, è «rendere pubblico». Soprattutto se le fonti sono riconosciute, è la cultura, anche quella passiva che nasce dal ricevere informazioni ad esserne arricchita. Colpisce la notizia recente della causa in corso «Anne Teresa De Keersmaeker VS Beyoncè» aperta dalla coreografa belga, dove la stessa rivendica l’abuso non concesso e non citato del proprio materiale coreografico all’interno di un video musicale della cantante pop. Ne consegue un’interessante «spread» per dirla in termini di social network di un nome dell’arte contemporanea quanto mai significativo per gli esperti del settore, ma molto poco noto in altri ambiti. Si tratta di un caso come tanti altri, ma parlando di danza contemporanea e cultura mediatica, ci sembra quanto mai calzante, sia che i movimenti e le idee di Anne Teresa siano stati deliberatamente copiati, sia che si tratti di poco più di una coincidenza da ascrivere piuttosto al sedimentarsi di un certa estetica di movimento. L’immediatezza e disponibilità delle informazioni creata dal web, la possibilità di raccogliere e conservare quantità notevoli di dati in modo facile ha creato una «biblioteca» tale, per cui creare oggi diviene spesso un lavoro di selezione e struttura, in cui l’autore è un architetto di elementi già esistenti, più che un chimico o un alchimista. Ma in che rapporto sono allora biografia d’autore e i suoi percorsi desktop? Formazione e informazione, territorio e rete web. Se l’ispirazione a creare, a scoprire, a dedurre poteva e può nascere in completa solitudine, guardando l’orizzonte, la mela che cade, l’ermo colle, non nascerà anche aprendo uno dei link a random? È corretto o solo retrogrado attribuire all’orizzonte, alla mela, al colle, valenza poetica, demiurgica maggiore rispetto ad una bellissima canzone, ad un capolavoro dell’immagine, ad un cortometraggio, ad un’opera altrui? Ma la domanda che preme è: Che fine ha fatto l’orizzonte in tutto ciò? 55 Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 Alcuni pensieri Copyleft/Copyright, su «Romeo e Giulietta» strategie concrete per corpi e suoni «Essere umani» 56 Poetiche dell’orizzonte a Cavallino Treporti Con queste ed altre domande Art(h)emigra Satellite incontrerà il gruppo di giovanissimi (Scuole Medie) di Cavallino Treporti per la durata di dodici settimane, durante il Laboratorio «Copyleft/ Copyright», tenuto dagli stessi fondatori di Art(h)emigra: la sottoscritta, danzatrice e coreografa, e Matteo Cusinato, tecnico audio e musicista impegnato nella creazione di partiture per suoni concreti. Un occhio di riguardo al contesto, all’ambiente come im- pronta che forma, un orizzonte vicino e reale, quello della propria terra d’origine, versus Google Earth: la linea del mare, nel caso di Cavallino Treporti, e sarà in riva al mare che si terrà la performance di restituzione a fine progetto. Fil rouge del laboratorio, minimo comune denominatore tra mondo reale e web, le pressioni di entrambi rispetto alla definizione di essere umano nella continua tensione da parte di un giovane a distinguersi dal resto, incluse le proprie origini, e dagli altri e quella ad uniformarsi; l’esigenza costante di «essere uno» ed «essere parte di». L’ io-branco, da una parte, le «compagnie», i social network, le squadre, i fun club e l’ioindividuo, unico ed originale, ma anche singolo e separato. «Copyleft/ Copyright» è un progetto in cui la messa in scena diviene didattica, protagonisti i ragazzi stessi come inventori di nuove poetiche. Parleremo quindi del web e del mare e lo faranno i ragazzi andando a caccia dei suoni concreti della propria Terra-Acqua creando il proprio strumento musicale originale usando tecnologia e realtà, andremo a caccia di gesti e gestacci, di atteggiamenti e pose, studieremo il vocabolario fisico del bullo e della bella, per inventare una grammatica di movimento che accolga ironizzando anche gli stereotipi della multimedialità di massa da cui siamo spesso influenzati inconsapevolmente. «Copyleft – copyright» continua l’avventura di Art(h)emigra Satellite iniziata nel 2008 quando un gruppo di artisti «a corto di spazi performativi» decide di usare qualsiasi luogo in Veneto (ex discoteche, capannoni, fabbriche attive) per la serie omonima di performance dedicata alla composizione estemporanea musica – danza e al dialogo creativo, spesso in collegamento streaming con altri luoghi europei e collettivi omologhi. Si tratta dei musicisti e danzatori di «T(h)emigra Ensemble», fondato e composto insieme alla sottoscritta da artisti italiani attivi e in molti casi residenti all’estero, accomunati dal desiderio di fare arte nella propria terra. L’iniziativa approda lo scorso anno a Giovani a Teatro, con due spettacoli ed un laboratorio al Teatro Fondamenta Nuove, dove già centrale, all’interno del percorso, è l’uso web come strumento d’arte e cultura. Contemporaneamente, Art(h)emigra Satellite inizia a dialogare con un ambito diametralmente opposto: i gruppi di anziani, di varie case di riposo del Veneto che seguono i laboratori «Atletica del gesto». Nascono due progetti-spettacolo : Col Tempo, in collaborazione con il musicista Mauro Martinuz, dedicato all’universo femminile e SPAESE con l’omonima partitura per suoni concreti e voci creata da Matteo Cusinato. SPAESE porta in scena ventidue «neo-attori del corpo» di età compresa tra i sette e i novantaquattro anni d’età. Subito dopo nasce «Natura artis magistra», serie di laboratori in cui lo spettacolo incontra i luoghi e i suoi abitanti, sviluppandosi in creazioni che sono avventure radicate, nate a partire dall’ambiente stesso, piuttosto che da un’idea artistica o tematica a priori. Di recente Matteo ed io abbiamo focalizzato ulteriormente la nostra ricerca espressiva sulla relazione tra l’artista in scena e il suo contesto, con il progetto «anCòr, 1 min. di assolo ad libitum con numero variabile ospiti speciali» in cui danza e musica di ricerca incontrano gli abitanti e le figure tipiche di un luogo particolare, di volta in volta diverso. ◼ Laura Moro con Paolo Bertoncello in anCòr (studio). Foto di Valeria Cusinato. U di Elisa Dal Corso e Silvia Gribaudi n laboratorio con gli adolescenti significa prima di tutto ascoltare il nuovo, sostenendo la costruzione del nuovo linguaggio fisico che il giovane porta con sé. Ascoltare significa già creare una relazione in cui i ragazzi si appropriano di uno spazio comunicativo partendo dal loro linguaggio. «Scratch» è un laboratorio indirizzato ai giovani dai quattordici ai diciassette anni volto alla realizzazione di una performance di VideoAction e di un videoclip. Consiste nell’attingere dal mondo giovanile sia quelli che sono i contenuti dell’essere adolescenti, con tutte le contraddizioni tipiche di questa età, le insofferenze e le inquietudini ma anche i piaceri e i divertimenti, sia quelli che sono i mezzi comunicativi utilizzati dai giovani stessi, dal gesto amicale alle pratiche sportive estreme come la brekdance, lo skate e la bmx, alla giocoleria, eccetera. Un laboratorio per entrare in contatto, conoscere e conoscersi nel linguaggio del contemporaneo, della sopravvivenza che i ragazzi esprimono, riscoprire i luoghi di aggregazione dei giovani e i nuovi codici di comunicazione fisica. Il progetto vedrà la partecipazione di due danzatrici, Silvia Gribaudi ed Elisa Dal Corso, che cureranno in particolare gli aspetti di movimento, relazione, gesto e comunicazione espressiva del corpo, di Enrico Lucchese, musicista e compositore con cui i ragazzi assaggeranno qualche nozione di composizione elettronica e con il quale progetteranno la colonna sonora della performance, e di Fiorenzo Zancan, videomaker, che li accompagnerà attraverso l’uso della videocamera, alla realizzazione del videoclip. Tale équipe lavorerà con i ragazzi attingendo al loro mondo, sia in termini di idee e tematiche da toccare, sia in termini di strumenti fisici, musicali e immaginifici da utilizzare, per realizzare un videoclip concordato fin dalle prime fasi con loro, da diffondere e utilizzare per una performance finale di interazione video. «Scratch» si pone come obiettivo di riuscire attraverso le interviste e il lavoro con i ragazzi a far emergere da loro le tematiche per loro più rilevanti, cercando di andare in profondità rispetto a quelli che sono gli interessi generali e di «moda», per indagare il mondo sotterraneo che alberga dentro di loro in una fase di costruzione e riconoscimento del sé. Ciò che interessa portare alla luce e rendere condivisibile attraverso la forma artistica – e in particolar modo quella «protetLa performance Wait, da un’idea di Silvia Gribaudi (foto di Andrea Macchia). ta» dalla mediazione video, è proprio il fermento individuale di una fase dell’età strategica per il riconoscimento del proprio sé e della propria collocazione nel mondo, nella famiglia e quindi nella società. Il tutto attraverso i codici messi a punto proprio dai ragazzi, da quelli fisici a quelli verbali, all’immaginario e al mondo di segni e simboli creati per e dai ragazzi. Il progetto nello specifico si svilupperà in tre fasi a partire da questo novembre per concludersi ad aprile 2012; in un primo step l’équipe individuerà i luoghi di aggregazione informale dei giovani attraverso l’indagine e il confronto con le strutture, istituzionali e non, adibite alle attività giovanili, come la scuola, le associazioni sportive e culturali, l’assessorato alle politiche giovanili e così via per poter quindi identificare i luoghi di aggregazione spontanea e informale, con l’obiettivo di incontrare diversi tipi di gruppi come per esempio writers, emo, punk, ecc. Da qui si procederà con una raccolta di informazioni nella quale individuare le tematiche che i ragazzi stessi porteranno come più interessanti e di loro rilevanza, e mettere a fuoco quindi la direzione del laboratorio. Il secondo step sarà la realizzazione del laboratorio stesso, che consiste in dieci incontri di tre ore ciascuno, nelle quali si lavorerà fisicamente, musicalmente e attraverso la realizzazione di materiali video, per la costruzione della performance. Lo scopo concreto del laboratorio è quello di realizzare un video con i ragazzi coinvolti nelle interviste e/o altri ragazzi attraverso un confronto sulle tematiche emerse nel primo step, in modo tale che siano gli stessi fruitori a prendere consapevolezza delle loro necessità ed esigenze. Ultima fase consisterà nella realizzazione della performance di VideoAction nella quale i ragazzi interagiranno fisicamente con la proiezione dei video girati in collaborazione e in accordo con il videomaker e che li vedranno come protagonisti e ideatori al tempo stesso. ◼ 57 Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 Il lavoro sul video di «Scratch» «Essere umani» 58 Zanzotto e la genesi di «Parlami ancora» H o conosciuto Andrea Zanzotto circa venticinque anni fa quando, in occasione di uno spettacolo in cui dovevo recitare una sua lunga poesia, mi dedicò un po’ del suo tempo per insegnarmi la pronuncia corretta di quella sua lingua-dialetto, allora ancora misteriosa per me, nonché la melodia di una canzoncina che dovevo eseguire e che risuonava dalla sua memoria di bambino. Di quello spettacolo ricordo soprattutto la mia tachicardia che mi rimbombava nel cervello e che imponeva con invadenza e indiscrezione il ritmo alla poesia. Forse fu la soggezione nei confronti del poeta che mi ascoltava in platea, forse il terrore che la memoria mi tradis- fali delle librerie. Ora è diverso, anche se la sua opera continua a incutere reverenziale timore. Eppure la sua poesia, impegnativa e folgorante allo stesso tempo, consente vari livelli di fruizione riuscendo a toccare le corde più varie dei suoi lettori. Nel mio caso toccò il cuore e il mio scrigno ludico: due aspetdi Stefania Felicioli ti che considero primari. Lascio agli esperti tutti gli altri. Tuttora leggere le poesie di Zanzotto mi appaga, quasi un’ipnosi sonora e interiore, una sensazione che credo corrisponda a ciò che prova uno strumentista che, innamoratosi di uno spartito, sente il «La poesia di Zanzotto attraversa le arti» bisogno irrefrenabile di suonarlo. un progetto per il liceo «Montale» di San Donà di Piave È la forza della grande poesia. Per Ispirato al lavoro di Stefania Felicioli, che in Parlami an- questo ho dovuto-voluto suonare cora ha costruito uno spettacolo teatrale (diretto dal bravo ancora attraverso il mio povero e Stefano Pagin, cfr. p. 63) a partire dalla parola di Zanzotto, nobile strumento che è l’arte teaè nato il progetto «La poesia di Zanzotto attraversa le ar- trale. Zanzotto, infine, mi appare ti», ideato da Cristina Palumbo e Leonardo Mello e desti- come limpida figura di maestro in nato al Liceo Classico «Eugenio Montale» di San Donà di un momento come l’attuale privo Piave. Prendendo spunto dalla messinscena di Parlami an- di punti di riferimento. Egli mi si cora, analizzata e raccontata agli studenti dagli stessi artisti, è stato immaginato un percorso in più stazioni che – senza offre – quasi compagnia esistenfare ricorso a esperienze verticali ed ex cathedra – mettes- ziale – come àncora importante se in relazione le liriche del maestro di Pieve di Soligo ad al- contro le odierne derive: riccheztre espressioni artistiche. Un iter a tappe che, a partire dal- za che dovrebbe essere a portata di le poesie di Zanzotto, incontrerà, oltre al teatro, momen- mano di ogni giovane. La sua arte, ti di improvvisazione sonora e grafica (in digitale), per poi il suo pensiero continueranno ad affascinarmi per la sua instancagiungere al cinema e all’arte figurativa. bile ricerca della verità, per il suo se (era una poesia molto lunga), eppure, superata la crisi «cardiaca», ricordo con chiarezza che cominciai a galleggiare piacevolmente sulle parole e sui versi che mi abbracciavano amichevoli e quasi voluttuosi. Era la forza della grande poesia. Dopo quell’esperienza cominciò la mia curiosità per Zanzotto, ma, se è vero che la poesia, almeno in quest’epoca, è considerata un’arte specialistica e di nicchia, quella di Zanzotto mi sembrava esserlo ancora di più. Quella sensazione era rafforzata anche da una mera questione di accessibilità, poiché i suoi libri non mi sembravano propriamente traboccare dagli scaf- essere controcorrente anche nella controtendenza, per il suo sgusciare via di continuo dalle classificazioni, per il suo isolamento comunicante caratteristico solo di grandi che, citando non casualmente Emily Dickinson, hanno potuto «sentire la vita con entrambe le mani» e farla sentire anche agli altri. ◼ Stefania Felicioli in Parlami ancora. (foto di Alberto Brescia). N di Paolo Calzavara ella nostra quotidianità spesso si dà scarsa importanza alle componenti sonore e acustiche in cui siamo immersi, come se si trattasse di un «sottofondo scontato» di cui ci si accorge solo quando viene a mancare; una «texture invisibile» sulla quale poggiano le immagini del mondo che per abitudine, pigrizia o apprendimento, siamo soliti vivere prevalentemente attraverso la vista. Personalmente il suono lo cerco, ne ho bisogno. Ciò che mi attrae di più è la capacità evocativa che esso possiede, il suo potere di farti rimanere dove sei portandoti altrove, nelle situazioni e luoghi più consueti, nell’immaginazione o nei più intimi pensieri. Una chiave di accesso a sé e ciò che ci circonda capace di offrire occasioni d’incontro con la realtà e spunti critici altrimenti non percorribili. Nell’ambiente sonoro in cui siamo inclusi, ogni evento uditivo, sia esso naturale o meno, non si lega solo all’oggetto che ne è fonte originaria, ma si costituisce di emozioni, di sentimenti, di elementi molto personali; si accompagna a vissuti, immagini e pensieri di luoghi, situazioni, esperienze. Il suono, nella sua naturalezza o plasmato creativamente, può quindi diventare riflessione, racconto o addirittura poesia, senza parole. Una lingua diffusa e ampiamente condivisa, espressione artistica capace di comunicare esperienze e idee superando molte distanze culturali. Mettere in pratica con un gruppo di giovani un percorso che sensibilizzi all’ascolto scegliendo come oggetto d’indagine il suono dell’ambiente che ci circonda significa condividere la ricerca e affinare una tecnica su un materiale che diviene immediatamente un linguaggio e un «idioma sonoro» comune su cui è possibile riflettere, da cui spesso emergono nuovi elementi che ci stupiscono, nuove possibilità di accesso alla conoscenza e alla comprensione della realtà, ma con cui è anche Paolo Calzavara. possibile reinventare nuovi paesaggi, immaginare altre realtà. È da queste premesse che nasce «Sonori Sguardi» il laboratorio che condurrò all’interno delle Esperienze di Giovani a Teatro, un percorso rivolto ai giovani attraverso il quale attivare curiosità e stimolo critico partendo dall’ascolto, dallo sviluppo della sensibilità nei confronti del suono e dall’osservazione del territorio, sfruttando le possibilità date dalle nuove tecnologie, i linguaggi e le tecniche della musica elettroacustica. La proposta emerge anche dallo scambio e dal confronto con gli educatori dell’équipe territoriale della Municipalità di Chirignago-Zelarino, area in cui si svolgerà il laboratorio, che vedono in questo percorso una possibile risposta per incontrare i bisogni espressi dai giovani con cui lavorano. L’équipe di educatori, sempre presente durante il percorso in un’azione di coordinamento e supporto organizzativo e logistico, avrà modo di utilizzare il laboratorio come strumento in più nella relazione diretta con i ragazzi sulla base delle proprie progettualità. L’intento principale del progetto è quello di esplorare, osservare e analizzare il territorio in cui si vive in un processo di rilettura estetica e di rielaborazione creativa mediante la raccolta e il successivo trattamento di documentazione sonora e fotografica; attraverso il lavoro di gruppo, il materiale raccolto darà origine a una soundscape composition collettiva, su cui sarà montata una composizione fotografica. Si parte dall’idea di sfruttare le nuove tecnologie digitali come strumento per mettere in atto un’esperienza creativa che non richieda specifici prerequisiti tecnici e che possa essere realizzata con elementi condivisi e alla portata dei ragazzi coinvolti. Per mantenere minima la soglia di accessibilità, dando maggior valore alla qualità dell’esperienza piuttosto che alla formazione tecnica, per le riprese d’ambiente si ipotizza anche l’uso di periferiche digitali di consumo che, diffuse tra i più giovani e da essi quotidianamente utilizzate, permettono di eseguire registrazioni audio e d’immagini a volte anche di discreta qualità e sono estremamente portatili, consentendo di registrare e fotografare anche al di fuori degli incontri di laboratorio. Mediante la sperimentazione e l’apprendimento di procedimenti della musica contemporanea ed elettroacustica, con conseguente arricchimento delle competenze sugli strumenti e sulle tecniche utilizzate, «Sonori Sguardi» vuole essere soprattutto un’esperienza estetica che favorisca l’acquisizione di punti di vista differenti e l’interazione fra più codici, la conoscenza di forme d’espressione artistica lontane da quelle generalmente proposte, sollecitando la capacità critica e di pensiero fondamentali in un’epoca dominata dai mass media e incentivando la partecipazione agli eventi estetici e culturali. Punto di partenza e di riferimento costante sarà l’ascolto come esperienza attiva, aspetto fondamentale dell’esplorazione e interpretazione del dato sonoro, ambientale o musicale che sia, strumento d’indagine sulla realtà che ci circonda, su di noi, sull’essere umani. ◼ 59 Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 «Sonori sguardi», laboratorio per riflettere sul suono «Essere umani» 60 «La città che pianta gli alberi» di Tam Teatromusica I di Flavia Bussolotto n occasione dell’Anno Internazionale delle Foreste proclamato dall’onu per il 2011 il progetto «La città che pianta gli alberi» vuole far riflettere bambini e adulti sull’importanza del patrimonio ambientale per la vita del nostro pianeta, utilizzando il teatro e la letteratura come strumenti di conoscenza. A Elzéard Bouffier, «l’uomo che piantava gli alberi», è dedicato il nostro progetto. Conosciamo l’opera di quest’uomo solitario attraverso il libro di Jean Giono. Sappiamo che con tenacia e generosità ha seminato per trent’anni trasforman- do un deserto in foresta. Il nostro desiderio attraverso «La città che pianta gli alberi» è ambizioso: vorremmo seminare con i linguaggi dell’arte e creare conoscenza, per poter raccogliere nel tempo rispetto per la vita. I linguaggi artistici proprio perché parlano con passione e comunicano alla mente attraverso la potente esperienza delle emozioni possono contribuire a creare una nuova visione del mondo, a sensibilizzare verso comportamenti rispettosi della diversità, dell’ambiente, della convivenza. Nel progetto tutto ruota attorno alla visione di uno spettacolo teatrale, Canto dell’Albero, che ho realizzato insieme a Michele Sambin, anni fa, liberamente tratto dal libro di Giono. Con lo spettacolo abbiamo voluto parlare ai bambini – ma anche agli adulti – di natura. È importante accorgerci che esiste, è importante sapere che attraverso lei noi viviamo, è importante sapere che ne facciamo parte. E abbiamo scelto di parlarne attraverso la bellezza, è un paesaggio estetizzante quello che viene creato sulla scena, perché riconosciamo alla bellezza la forza di una comunicazione positiva. Cinque repliche di Canto dell’Albero saranno offerte ai bambini delle scuole primarie di Mestre e Venezia, una replica sarà dedicata alle famiglie, preceduta dalla lettura di alcuni brani del libro di Giono, un’altra ai soli insegnanti. Ad alcune classi delle scuole primarie che vedranno lo spettacolo sarà data la possibilità di partecipare ai percorsi di approfondimento previsti nel progetto: un primo incontro è dedicato a un breve percorso espressivo: partendo dalla lettura in classe di brani dell’Uomo che piantava gli alberi di Jean Giono, ai bambini verrà proposto di agire alcune azioni teatrali ispirate allo spettacolo e al ciclo vitale dell’albero. Con l’aiuto di un giardiniere nel secondo incontro i bambini del primo ciclo della scuola primaria faranno esperienza della semina e del concetto di dedizione come base per una crescita futura. I bambini del secondo ciclo invece, con l’aiuto di un esperto di botanica, saranno accompagnati nella scoperta delle piante che popolano il nostro territorio. Proprio perché riconosciamo all’arte la capacità di creare coscienza critica e sensibile, una parte del progetto è dedicato agli insegnanti e al loro delicato ruolo di mediatori nell’incontro del bambino con i linguaggi teatrali e vedrà Mafra Gagliardi, studiosa di cultura infantile e del rapporto tra scuola e teatro, condurre un seminario dal titolo Nella bocca dell’immaginazione, la scena teatrale e lo spettatore bambino. ◼ Il canto dell’albero (foto di Elena Bazzolo). S di Mafra Gagliardi e diciamo che il teatro è formativo, dobbiamo farlo come diciamo che è salutare una bella nuotata e non un’iniezione di calcio». Parola di Gian Renzo Morteo, uno dei massimi studiosi di educazione e teatro. E invece spesso la scuola sembra privilegiare l’aspetto «iniezione»: mette l’accento cioè sul contenuto di uno spettacolo per utilizzarlo in chiave didattica («fate il riassunto!»). Ma il teatro quando entra nella scuola significa molto di più: corrisponde all’irruzione dell’arte nel processo educativo, a una esperienza provocatoria suscitatrice di stupore, a un intreccio di linguaggi che alterano gli abituali schematismi cognitivi e portano a deragliare dai percorsi consueti della percezione. Al linguaggio denotativo, proposto abitualmente dalla scuola, si sostituisce un linguaggio connotativo, affidato alla metafora, alla metonimia, al simbolo. A un sapere classificatorio si sostituisce un’ambiguità fantastica in cui non vi è un rapporto univoco tra significante e significati. Non si può quindi adottare – in particolare nei confronti di uno spettacolo visionario e poetico come Il canto dell’albero – i consueti percorsi di tipo logico/denotativo, perché non consentono di accogliere tutte le componenti emotive, percettive, immaginative che caratterizzano l’opera e che – se accolte nel loro spessore – introducono alla sfera della creatività. Si sta infatti diffondendo a livello pedagogico l’idea che esista una forma di creatività – per così dire – «passiva» propria di chi fruisce di un’esperienza estetica e ne viene stimolato in tutte le sue potenzialità. Purtroppo la nostra cultura che ha alle spalle una pratica artistica millenaria non ha ancora introdotto nella scuola una valida pedagogia dell’arte, tant’è che molti insegnanti si trovano sprovvisti di ogni strumento quando affrontano con i loro alunni un’esperienza di tipo estetico. Risulta importante perciò una preparazione dei docenti, in quanto insostituibili mediatori tra i loro alunni e l’esperienza teatrale. A questo scopo è stato progettato un laboratorio in due incontri, con l’obiettivo di dare agli insegnanti la possibilità di sperimentare il ruolo di spettatore in prima persona, al di fuori di schemi intellettualistici e preoccupazioni didattiche, attraverso una rappresentazione dello spettacolo, riservata esclusivamente a loro, prima che vi accompagnino i loro alunni. Potranno così sperimentare l’immediatezza e la ricchezza delle percezioni e delle emozioni suscitate dalla scena, riscoprendo un atteggiamento di disponibilità totale nei suoi confronti, simile a quella infantile. Successivamente, una pratica di brainstorming porrà le basi per un incontro con l’autrice dello spettacolo. Potrà verificarsi così uno stimolante scambio di punti di vista e di approfondimento della lettura dello spettacolo stesso: le strade dell’ermeneutica possono aprirsi verso percorsi ulteriori. Si tratta insomma di indurre un atteggiamento ricettivo nei confronti dello spettacolo, che dai docenti passerà ai loro alunni, i quali saranno guidati a cogliere nell’opera – attraverso una serie di proposte – quegli stimoli, quelle suggestioni, quelle metafore che possono innescare processi creativi negli spettatori. Perché «leggere la rappresentazione teatrale, imparare a leggerla, non è solo affinare un consumo artistico, ma inscriversi in un’invenzione produttiva» (Paul Ricoeur). A distanza di una decina di giorni dalla visione dello spettacolo e dall’attività svolta con i propri alunni, i docenti torneranno a incontrarsi per analizzare insieme i materiali raccolti: un’occasione per rendersi conto della risposta della propria classe, per confrontarsi con i punti di vista dei colleghi, per formulare progetti più complessi. Insomma, una salutare «nuotata» (per riprendere la metafora di Morteo) nei golfi dell’immaginario, seguendo i suoni, i colori, le visioni suscitate dalla magia del teatro. ◼ « Albe a Venezia 61 (tra «Avaro» e non scuola) L di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari e Albe tornano a Venezia. Dopo un decennio, o quasi. Tornano con Eresia della felicità a Venezia, prodotto dalla Fondazione di Venezia, che metterà insieme sulla scena tanti adolescenti di diversi istituti tecnici di Asseggiano e del liceo Marco Polo, a giocare da ottobre a fine marzo con i versi incendiari di Vladimir Majakovskij, e per felice coincidenza tornano anche al Goldoni nella stagione dello Stabile, dall’11 al 15 gennaio, con L’avaro di Molière. Sarà un modo a noi caro di stare, so-stare in una città, lasciando una traccia forse più profonda, legando il lavoro della compagnia all’attività con gli adolescenti, relazionandoci con loro come guide nei laboratori e come attori sul palco. Venezia e Ravenna sono legate da sempre: dalla Storia, dallo stesso mare, da una comune vocazione che guarda a oriente. Dall’essere città di visioni antiche, dove l’immaginario si plasma sullo specchio labirintico dell’acqua e dei suoi riflessi. Invitati dall’allora direttore della Biennale Teatro, Giorgio Barberio Corsetti, realizzammo negli anni a cavallo del secolo il «Cantiere Orlando», un cantiere di opere e laboratori sui poemi cavallereschi del nostro Rinascimento, dal Morgante del Pulci all’Orlando innamorato del Boiardo, dal Baldus di Teofilo Folengo all’Isola di Alcina, reinvenzione di Nevio Spadoni in lingua romagnola della maga ariostesca. Indimenticabile il laboratorio tenuto nell’isola di San Giorgio con una squadra di giovanissimi attori venuti da tutt’Italia e che dieci anni dopo sono alla testa di compagnie e scuole teatrali, realizzato dentro una onirica piscina senz’acqua e tutta mosaicata, circondata da luminose vetrate: un vero palazzo di Alcina, magico come quello che campeggia nell’Orlando furioso. E anche quello su Molière è stato un cantiere di lavoro, sviluppato nell’arco del 2010: gli autori sono in genere per noi L’avaro di Molière, regia di Marco Martinelli per il Teatro delle Albe. (foto di Claire Pasquier). Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 / prosa «Preparare» i docenti prosa 62 degli universi a più strati che amiamo indagare in più direzioni. Dopo il detto Molière, prodotto dal Manège di Mons, una drammaturgia originale che reinventava l’infanzia di Molière, il suo nascere al teatro nella turbolenza delle Fiere popolari, abbiamo affrontato L’avaro come un testo scomodo nel suo essere risaputo fino alla noia, nell’aver visto parecchi allestimenti in cui il burbero Arpagone era solo una innocua macchietta, dimentichi della crudeltà con cui l’autore ne ha disegnato la vicenda. L’avaro è una commedia sul denaro in cui il denaro non c’è. Se ne parla sempre, ma non c’è. Meglio: non si vede. È invisibile, come un dio. È il dio di quella miserabile religione di cui Arpagone è l’officiante. È un fantasma che circola tra gli esseri umani in carne e ossa. È sottoterra, sepolto in giardino. Visibili sono gli esseri umani, anche troppo. Cercano di nascondersi gli uni agli occhi degli altri, ma non ce la fanno. Il privato e il pubblico, il segreto e lo spiattellato, sono inesorabilmente confusi. Non è possibile nessun genere di intimità. Nella «casetta» di Arpagone, tutti spiano tutti. Co- me nella casa del Grande Fratello. Questa visione ci ha aperto le maglie del testo; ci ha permesso un ingresso in profondità, la possibilità di rileggere il «classico» in una direzione inedita. Dentro questa casa-scena che porta in sé il riflesso della società, è emersa la figura di Arpagone-Ermanna con il microfono in mano, voce del padrone, potere avido e burattinesco. Lo spazio si è fatto allegoria di un mondo, del nostro mondo, del vivere incivile degli italiani di inizio millennio. L’avaro è tutto questo insieme, il fantasma di Molière che prende a calci la nostra mancanza di democrazia e di vita autentica. In questo prendere a calci, il disegno della luce è fondante: la vicenda è svelata, alla lettera, da una sintassi della luce che alterna periodi di luce piena, che straborda in sala, in cui sono immersi attori e spettatori, a voragini di tenebre profonde, in cui i viventi sono larve appena accennate, fantasmagorie. La luce ci rivela che stiamo mostrando insieme i due poli indivisibili: l’esteriore, la società, ma anche l’interiore, l’intimo della nostra anima. Guardiamole da vicino, queste maschere. Arpagone è l’avido, l’ossesso. E gli altri? Non si tratta di leggere al nero Molière, lo si sa da un pezzo, Molière è cupo come la notte, come il manto di Scaramouche, e soprattutto in questa commedia che Copeau definiva «la più dura, la più cattiva». Prendiamoli uno a uno, a partire dai giovani: Valerio è un ipocrita dichiarato, teorizza la necessità del «leccare» il potente di turno, a fin di bene s’intende. Cleante è un cinico vanesio, sogna di uccidere il padre ed ereditarne il capitale (e l’avarizia). Elisa e Mariana sono le vittime più o meno consenzienti, più o meno silenziose, dentro a una condizione subalterna che accettano passivamente. Frosina e Saetta, servi che ambiscono al denaro del padrone. Tutti desiderano lo scettro del potere, nel nostro caso quel microfono che amplifica la «voce del padrone», tutti vorrebbero sostituire il cupo signore di quella casa, o accomodarsi a fianco di un nuovo reggente. Arpagone è un piccolo sovrano con la sua corte popolata di larve, la sua voce troneggia, ma a differenza di Macbeth non verrà sgozzato, dato che il finale non può che essere lieto, e qui è fin troppo di maniera, con modi che echeggiano i finali posticci e avventurosi di tanta tradizione, e alle nostre orecchie richiamano molto da vicino i ricongiungimenti familiari che ci ammannisce in serie la televisione. Forse solo Mastro Giacomo prova a portare una nota diversa: la tenerezza della ragione. In altre commedie di Molière sono le serve che cercano di far ragionare il loro maniaco, ossessivo padrone. Ma la nota apparentemente diversa di Mastro Giacomo nasce da un impasto di pavidità, rassegnazione, invidia, che la rende alla fin fine poco credibile. Se tutti spiano tutti, tutti sognano tutti. In questa commedia tutta cose, concretezza, cifre, calcoli, c’è un fondo misterioso. Che forse è questo essere sdoppiati (tranne Arpagone), fra ciò che si dice di essere e ciò che si è. Il mistero sta forse in quel che sogniamo di noi, in come sogniamo gli altri. Nel potere che il nostro corpo subisce, che il nostro corpo esercita, fin dentro ai sogni, quelli notturni e quelli a occhi aperti. I fantasmi dei sogni. I simulacri. I fantasmi dei corpi. Ma appunto non è un simulacro, un fantasma, l’invisibile dio denaro al centro di ogni frase? In principio era il soldo. E accanto al soldo, prima o dopo, il sesso, l’eternità in forma di prostituzione. Dietro Molière, fa capolino Sade. Meglio, è Molière che occhieggia divertito dietro la plumbea prigione di Sade. Se il denaro è la «prostituta universale», come non può non essere un potenziale bordello questa casa-casetta-palazzo di Arpagone? A dispetto del suo puritanesimo economico, lo è. La modalità di reclutamento di Mariana da parte di Frosina è antica come il mondo, e sempre attuale. Se tutti sono avidi e avari, è sorprendente il monologo di Arpagone che chiude il quarto atto. Nel suo andamento psichico, in quel parlarci nel buio, dal buio: «Povero mio denaro, amico mio caro... se tu non ci sei... è finita per me, non so che cosa fare al mondo». Arpagone ci parla come un innamorato. Il malvagio estrae dalla sua perdita, dalla sua ferita, degli accenti toccanti. Ricevendo risatine, commiserazione e qualche impensabile sentimento di tenerezza, chiede al buio della platea di essere «resuscitato». Da due stagioni portiamo in giro il nostro Avaro per l’Italia. Non abbiamo alterato la traduzione di Cesare Garboli, e i cinque atti ci sembrano scritti ieri. Oggi. ◼ L’avaro di Molière, regia di Marco Martinelli per il Teatro delle Albe (foto di Claire Pasquier). VeneziaMusica e dintorni 80 Bimestrale di musica e spettacolo Come abbonarsi: tramite versamento sul conto corrente postale n. 62330287 oppure con bonifico bancario anche via internet iban IT 44 J 07601 02000 000062330287 indicando la causale del versamento Prezzo unitario: 5 euro Abbonamento ordinario a sei numeri: 25 euro Abbonamento sostenitori a sei numeri: 40 euro Per informazioni: tel. 041 2201932 fax 041 2201939 [email protected] webwww.euterpevenezia.it Dove va il teatro pubblico? (parte seconDa) Abbado – Ambrosini – Angelini – Barbieri – Bettinello – Bevilacqua – Bino – Cagli – Capitta – Carlotto – Castellani/Raimondi Cherubini – Chiarot – Colombo – Curino – Dall’Ongaro – De Capitani – De Ana – Dellbono – De Martino – Donati Estero – Fedele – Fofi – Foletto – Gallarati – Gallina – Girardi – Girondini – Juvarra – Lanza Tomasi – Malaguti – Malosti Mancuso – Mangolini – Marchiori – Martone – Menni – Messinis – Minardi – Munaro – Musu – Nanni – Orselli – Pacor Paganelli – Pastore – Ponte di Pino – Ricci/Forte – Rizzardi – Saravo – Segre – Solbiati – Syxty – Vacchi – Vacis – Vallora – Vlad Anno VIII - gennaio / febbraio 2011 - n. 38 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - marzo / aprile 2011 - n. 39 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - maggio / giugno 2011 - n. 40 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - luglio / agosto 2011 - n. 41 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - settembre / ottobre 2011 - n. 42 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 VeneziaMusica e dintorni è acquistabile presso la redazione (Dorsoduro 3488/u, Venezia) e nei seguenti punti distributivi: Libreria Al Capitello, Cannaregio 3762, Venezia; Libreria Cafoscarina, Dorsoduro 3259, Venezia; Libreria Goldoni, San Marco 4742, Venezia; Bookshop del Teatro La Fenice, San Marco 1965, Venezia; Bookshop della Scuola Grande di San Rocco, San Polo, Venezia; Libreria Ub!k, Corso del Popolo 40, Treviso; Bookshop del Teatro Olimpico, Stradella del Teatro 8, Vicenza. Dove va il teatro pubblico? (parte prima) Alberti – Alonge – Augias – Barberio Corsetti – Barbiani – Battistelli – Beltrametti – Bentivoglio – Bentoglio – Bernardi Bianconi – Bossini – Brunetti – Bussotti – Cacciari – Cappelletto – Castellucci – Cavalcoli – Celestini – Cirillo – Cognata – Cordelli De Incontrera – De Luca – De Luigi – De Michelis – De Simone – Donin – Erba – Escobar – Ferrone – Francesconi – Gassman Gleijeses – Gregori – Guccini – La Ruina – Latella – Lavia – Le Moli – Lievi – Lissner – Longhi – Marinelli – Martinelli/Montanari Mazzonis – Merlo – Montecchi – Moreni –Morelli – Mosca – Napolitano – Nicolodi – Nieder – Ortombina – Palazzi – Palumbo Pestelli – Petazzi – Pinamonti – Pizzi – Porcheddu – Punzo – Puppa – Purchia – Quaglia – Repetti – Restagno – Rossi – Russo Sambin – Santanelli – Scabia – Servillo – Tiezzi – Trevisan – Tutino – Valenti – Ventrucci – Vergnano – Vianello – Villatico – Violante Le collaborazioni di questo numero • Fabio Achilli (p. 51) – Direttore della Fondazione di • Roberta Ferraresi (pp. 24.25) – Critico teatrale Venezia • Mafra Gagliardi (pp. 60-61) – Scrittrice – Studiosa di • Claudio Ambrosini (p. 37) – Compositore – Fondatore cultura infantile dell’Ex Novo Ensemble • Mario Gamba (pp. 17-18) – Critico musicale • Antonio Audino (pp. 25-26) – Critico teatrale • Sergio Garbato (p. 47) – Critico musicale • Gualtiero Bertelli (pp. 48-49) – Cantautore • Tommaso Gastaldi (p. 46) – Giornalista freelance • Enrico Bettinello (p. 48) – Giornalista – Critico musicale – Direttore artistico del Teatro Fondamenta • Enrico Girardi (p. 19) – Critico musicale Nuove • Maria Grazia Gregori (pp. 20-21) – Critico teatrale • Francesca Bianchi (p. 69) – Studiosa di cinema • Giovanni Greto (p. 45) – Critico musicale • Flavia Bussolotto (p. 60) – Attrice di Tam Teatromusica • Silvia Gribaudi (p. 57) – Coreografa – Danzatrice • Laura Moro (p. 55) – Coreografa – Danzatrice – Direttrice artistica della compagnia di danza contemporanea «i.c.p. Il Corpopensante» e di «T(h)emigra Ensemble, collettivo danza – musica» • Massimo Munaro (p. 55) – Regista – Fondatore del Teatro del Lemming • Stefano Pagin (p. 55) – Regista • Renato Palazzi (pp. 22-23) – Critico teatrale • Cristina Palumbo (p. 52) – Consulente per le iniziative teatrali Euterpe Venezia - Fondazione di Venezia • Paolo Petazzi (pp. 16-17) – Critico musicale • Andrea Porcheddu (pp. 71-72) – Critico teatrale – Docente di Metodologia della critica allo iuav di • Paolo Calzavara (p. 59) – Artista sonoro • Filippo Juvarra (p. 38) – Direttore degli Amici della Venezia Musica di Padova – Docente al Conservatorio «Cesare • Roberto Canziani (p. 27) – Critico teatrale Pollini» di Padova • Chiara Elisa Rossini (p. 55) – Attrice del Teatro del Lemming • Paolo Cattelan (pp. 35-36) – Musicologo – Presidente • Giuseppina La Face Bianconi (p. 70) – Ordinario degli Amici della Musica di Venezia di Musicologia e Storia della musica e Direttore del • Mirko Schipilliti (p. 39) – Musicista – Critico musicale Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università • Massimo Contiero (p. 32 e p. 73) – Musicologo – di Bologna • Alvise Seggi (p. 54) – Contrabbassista – Compositore Direttore del Conservatorio «Benedetto Marcello» di Venezia • Andrea Oddone Martin (p. 40) – Critico musicale • Arianna Silvestrini (p. 74) – Giornalista freelance • Elisa Dal Corso (p. 57) – Danzatrice • Gianni De Luigi (p. 53) – Regista – Fondatore dell’Istituto per la Commedia dell’Arte Internazionale • Piero De Martini (pp. 75-77) – Designer e Architetto – Studioso di musica – Scrittore • Vitale Fano (p. 34) – Musicologo (Università di Padova) • Stefania Felicioli (p. 58) – Attrice – Regista • Marco Martinelli (pp. 61-62) – Regista – Fondatore del • Filomena Spolaor (p. 65) – Giornalista freelance Teatro delle Albe • Stefania Taddeo (p. 64) – Giornalista freelance • Mario Messinis (pp. 10-11) – Critico musicale • John Vignola (p. 43) – Critico musicale • Guido Michelone (p. 42) – Docente di Storia del jazz all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e al • Dino Villatico (pp. 12-15) – Critico musicale Conservatorio «Antonio Vivaldi» di Alessandria – Critico musicale • Ermanna Montanari (pp. 61-62) – Attrice – Fondatrice del Teatro delle Albe