Schizzo di studio di Claudio Ambrosini
per Dai Filò di Zanzotto,
trittico per quattro voci di donna e pianoforte
composto nel 2003.
Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
2
VeneziaMusica e dintorni
Anno VIII – n. 43 – novembre / dicembre 2011
Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004
Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004
ISSN 1971-8241
Direttore editoriale: Giuliano Segre
Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano
Direttore responsabile: Leonardo Mello
Caporedattore: Ilaria Pellanda
Art director: Luca Colferai
Redazione: Camilla Crosta, Veronica Tabaglio,
Giulia Zennaro
Segreteria di redazione: Erica Molin
Redazione e uffici: Dorsoduro 3488/U – 30123 Venezia
tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939
e-mail: [email protected]
[email protected]
web: www.euterpevenezia.it
VeneziaMusica e dintorni
è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004
Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),
Cesare De Michelis, Mario Messinis, Ignazio Musu,
Giampaolo Vianello
In copertina, I sette peccati capitali
secondo Ricardo Bartís, Calixto Bieito, Romeo Castellucci,
Jan Fabre, Rodrigo García, Jan Lauwers
e Thomas Ostermeier alla Biennale Teatro 2011.
Editore: Euterpe Venezia s.r.l.
Euterpe Venezia è una società strumentale
della Fondazione di Venezia che si occupa dello studio,
della produzione e della gestione di processi e interventi
formativi, di ricerca e di presenza nel campo delle arti
e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite
alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo e
alle discipline a esse correlate
Presidente: Gianpaolo Fortunati
Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo
Consiglieri: Mariano Beltrame, Mario Geymonat,
Eugenio Pino
La Fondazione di Venezia è presieduta da Giuliano Segre
Consiglio generale: Giorgio Baldo, Franco Bassanini,
Vasco Boatto, Francesca Bortolotto Possati,
Riccardo Calimani, Carlo Carraro,
Anna Laura Geschmay Mevorach, Mario Geymonat,
Gianni Mion, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza,
Amerigo Restucci, Franco Reviglio, Giovanni Toniolo
Questo numero è stato realizzato
grazie alla collaborazione di Massimo Contiero,
Andrea Estero, Claudio Ambrosini, Stefania Lora,
Barbara Fusconi, Francesca Borsato, Giuliano Gargano,
Valentina Medda, Adriana Stradella, Maria Laura Conte,
Cristina Dossi, Emanuela Caldirola, Elena Casadoro,
Barbara Fusconi, Adriana Vianello, Andrea De Marchi,
Andreina Forieri, Paolo Maier, Barbara Montagner,
Annalisa Ricevuti, Andrea Benesso
Stampa: Tipografia Crivellari 1918
Via Trieste 1, Silea (Tv)
Raccolta pubblicitaria: Luciana Cicogna
347 6176193 – [email protected]
Nicoletta Echer
348 3945295 – [email protected]
Tiratura: 3000 copie
Uscita bimestrale
Editoriale
eneziaMusica e dintorni nasce nel novembre
del 2004, e dunque con questo numero entra nel suo
ottavo anno di attività. Cogliamo quest’occasione per
ringraziare chi – la Fondazione di Venezia e la sua società strumentale Euterpe, che è dall’inizio il nostro editore – ci ha permesso in passato e permette tuttora, pur in momenti così difficili sul piano economico e finanziario, di continuare il nostro
lavoro con la consueta autonomia e libertà.
V
Le pagine di approfondimento del Focus sono tutte incentrate sulle rassegne della Biennale, in particolare sugli ultimi
festival della musica e del teatro, che si sono susseguiti in laguna tra settembre e ottobre. Per raccontarli abbiamo scelto
dieci «sguardi», per forza di cose diversi e tra loro complementari: dieci critici di orientamento culturale e generazioni
differenti colgono gli elementi salienti delle due manifestazioni, esprimendo un giudizio sia sull’ideazione complessiva che
sulle singole proposte. Questo «spazio critico», oltre a riunire personalità di livello nazionale, si propone anche un’altra finalità: creare le premesse per quella che nei prossimi tempi sarà la nostra nuova inchiesta «corale», il cui centro di indagine
verterà proprio sulla critica e sulla sua funzione al giorno d’og-
Con l’obiettivo di divenire sempre più leggibile e maneggevole, la rivista presenta qualche cambiamento grafico e si snellisce nella foliazione, passando da 96 a 80 pagine. Quella che
resta immutata è invece l’impostazione di base, ormai collaudata, che ha tra i suoi obiettivi primari il racconto delle arti dal
vivo, in un’epoca dove i confini tra forme espressive sono sempre più labili e in un territorio che giorno dopo giorno dimostra di essere fertile e vitale. Con questo numero, inoltre, iniziano a collaborare giovani e promettenti redattrici, che nel
corso del 2010 hanno portato a termine, con un ottimo risultato, l’esperienza formativa di «Artefici», il magazine dedicato alle arti e totalmente ideato e costruito dai ragazzi iscritti a Giovani a Teatro e all’iniziativa per le scuole denominata
«Leggere la scrittura».
Particolare importanza ricoprono questa volta le pagine di
apertura, dove pubblichiamo un inedito del Cardinale Angelo Scola, scritto per la nostra rivista quando era ancora Patriarca di Venezia: attraverso una serie di «appunti» l’attuale
Arcivescovo di Milano riflette con la consueta acutezza e profondità sul cruciale rapporto tra esperienza estetica ed esperienza spirituale.
gi, considerando in primo luogo gli ambiti legati direttamente allo spettacolo dal vivo ma coinvolgendo nella discussione
anche tutte le altre arti.
Da segnalare infine, oltre alle tante sezioni tematiche, anche
un dettagliato excursus sulla nuova edizione delle Esperienze
di Giovani a Teatro. Reduce dall’importante riconoscimento dell’Associazione Nazionale critici di Teatro – il Premio
della Critica 2011, consegnato lo scorso 17 ottobre alla Pergola di Firenze – il gruppo di lavoro della Fondazione di Venezia che si occupa di arti sceniche ha ideato e confezionato una
considerevole serie di iniziative, tutte collegate tra loro dal filo rosso del tema-guida prescelto, «Essere umani», e in grande maggioranza destinate alle fasce più giovani della nostra
popolazione, dalla scuola primaria alla secondaria superiore.
Oltre alla celebre «non scuola» di Marco Martinelli, un po’
il simbolo di quest’edizione, molte altre sono le offerte formative targate gat, per l’occasione raccontate dagli stessi artisti coinvolti.
Chiudo queste poche righe augurando a tutti i nostri lettori delle buonissime feste e dando loro appuntamento al gennaio 2012. ◼
di Leonardo Mello
L’avaro di Molière secondo il Teatro delle Albe
(foto di Claire Pasquier).
3
sommario
4
3
Editoriale
8
Illimpidisci il nostro cuore
Appunti su «esperienza estetica ed esperienza di fede»
+ Angelo card. Scola
focus on
10 Dieci racconti per la Biennale (Musica e Teatro)
di Leonardo Mello
10 Mario Messinis
12 Dino Villatico
16 Paolo Petazzi
17 Mario Gamba
19 Enrico Girardi
20 Maria Grazia Gregori
22 Renato Palazzi
24 Roberta Ferraresi
25 Antonio Audino
27 Roberto Canziani
8
Il Cardinale Angelo Scola
svolge una riflessione
sul rapporto
tra esperienza estetica
ed esperienza di fede
all’opera
28 La Fenice secondo Cristiano Chiarot
a cura di Leonardo Mello
29 Ortombina: «La Fenice parte da Sinopoli»
a cura di Ilaria Pellanda
30 Il «Trovatore» onirico e surreale di Lorenzo Mariani
a cura di Giulia Zennaro
31 Riccardo Frizza dirige l’opera di Verdi
a cura di Veronica Tabaglio
32 Sul «Trovatore»
di Massimo Contiero
10 - 27
Le Biennali
Musica e Teatro
raccontate
e interpretate
attraverso lo sguardo
di dieci diversi
critici italiani
sinfonica
33 La stagione sinfonica della Fenice
di Ilaria Pellanda
34 Alexander Lonquich per la Società veneziana di concerti
di Vitale Fano
35 I concerti d’autunno degli Amici della Musica
di Paolo Cattelan
36 A Gidon Kremer il «Rubinstein – Una vita nella musica» 2011
di Ilaria Pellanda
37 L’ottava edizione di Ex Novo Musica
di Claudio Ambrosini
38 I nuovi concerti dell’Agimus Venezia
di Ilaria Pellanda
38 Le Sonate di Mozart per gli Amici della Musica di Padova
di Filippo Juvarra
39 Marc Minkowski dirige Bruckner e Poulenc
di Mirko Schipilliti
30 - 32
33
Continuano i «Virtuosismi» del Bru Zane
di Andrea Oddone Martin
41 «Castelli e Ville in Musica» da Manfredini a Beethoven
di Ilaria Pellanda
45
sommario
40 5
l’altra musica
42 Bob Dylan e Mark Knopfler: un incontro in musica
di Guido Michelone
43 Il «soul» di Lenny Kravitz sbarca a Treviso
a cura di John Vignola
44 Ivano Fossati approda al Malibran
Un ritratto dell’artista firmato da Giò Alajmo
a cura di Leonardo Mello
45 Ai Frari è di scena Vinicio Capossela
di Giovanni Greto
46 Nella «Casa 69» dei Negramaro
di Tommaso Gastaldi
47 I trent’anni in musica di Calicanto
di Sergio Garbato
47 I Beatles secondo la Magical Mystery Orchestra
di Leonardo Mello
48 Sex Mob e Endangered Blood al Fondamenta Nuove
di Enrico Bettinello
48 Le mondariso di Anguillara
di Gualtiero Bertelli
50 Padova Jazz Festival 2011
di Ilaria Pellanda
48
Gualtiero Bertelli
continua la sua narrazione
degli anni settanta,
momento assai fertile
per la ricerca
etnomusicologica
e per lo studio
del canto popolare
prosa
51 Giovani a Teatro vince il Premio della Critica 2011
di Fabio Achilli
52 Le nuove Esperienze di Giovani a Teatro
di Leonardo Mello
51 - 61
52 Essere umani
di Cristina Palumbo
53 «Capire il teatro» affronta la scuola primaria
di Gianni De Luigi
54 Il Laboratorio di Musica Creativa
di Alvise Seggi
Tornano le Esperienze
di Giovani a Teatro,
quest’anno dedicate
prevalentemente
a bambini e adolescenti.
Gli artisti coinvolti
illustrano i propri percorsi
laboratoriali
55 Alcuni pensieri su «Romeo e Giulietta»
di Massimo Munaro e Chiara Elisa Rossini
55 Copyleft/Copyright, strategie concrete per corpi e suoni
di Laura Moro
57 Il lavoro sul video di «Scratch»
di Elisa Dal Corso e Silvia Gribaudi
58 Zanzotto e la genesi di «Parlami ancora»
di Stefania Felicioli
59 «Sonori sguardi», laboratorio per riflettere sul suono
di Paolo Calzavara
59
sommario
6
60 «La città che pianta gli alberi» di Tam Teatromusica
di Flavia Bussolotto
60 «Preparare i docenti»
di Mafra Gagliardi
61 Albe a Venezia
(tra «Avaro» e non scuola)
di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari
63 La poesia di Zanzotto si fa carne
di Ilaria Pellanda
64 Vitaliano Trevisan secondo Pagliai & Gassman
di Stefania Taddeo
65 «Orlando – Orlando» di Stefano Pagin vince il Premio Off
di Filomena Spolaor
65 Alcune note sullo spettacolo
di Stefano Pagin
63
Stefania Felicioli
è ideatrice e interprete unica
di «Parlami ancora»,
uno spettacolo
diretto da Stefano Pagin
e costruito attorno
alla parola poetica
di Andrea Zanzotto
dintorni – arte
66 Pier Luigi Pizzi si divide tra teatro e arte
a cura di Leonardo Mello
67 Art Enclosures 2011
di Ilaria Pellanda
68 Gli «artisti per Noto» a Palazzo Grimani
di Camilla Crosta
68 Ricardo Rico, scultore
a cura di Leonardo Mello
68
dintorni – cinema
69 Strauboscopie all’Isola di San Giorgio
di Francesca Bianchi
carta canta – libri
70 Le recensioni
di Giuseppina La Face Bianconi
71 Il «Goldoni» memorabile di Siro Ferrone
di Leonardo Mello
commenti
71 Un territorio per Capitale
Per Venezia (con il Nordest) capitale europea della Cultura 2019
di Andrea Porcheddu
in vetrina
73 74 Per Giovanni Morelli
interventi di Jean Starobinski e Massimo Contiero
75 Gustav Mahler: tre casette per comporre
di Piero De Martini
79 Andrea Zanzotto (1921 – 2011)
71
Andrea Porcheddu
analizza
le dinamiche
centro/periferia
con particolare
attenzione
a Venezia e al Nordest
Alla Cini la Biblioteca di Luigi Squarzina
a cura di Arianna Silvestrini
75
Fondazione Teatro La Fenice
Stagioni 2012 e 2012-2013
lirica
e balletto
2012
2013
Stagione lirica 2012
Teatro La Fenice
21 / 24 / 26 / 28 gennaio 2012
Lou Salomé
musica di Giuseppe Sinopoli
prima rappresentazione italiana
personaggi e interpreti principali
Lou Salomé Ángeles Blancas Gulín
maestro concertatore e direttore Lothar Zagrosek
regia, scene e costumi Facoltà di Design e Arti
IUAV di Venezia
tutors Luca Ronconi, Franco Ripa di Meana,
Margherita Palli, Vera Marzot
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
nel 30° anniversario della prima rappresentazione assoluta
e nel 10° anniversario della morte di Giuseppe Sinopoli
Teatro La Fenice
16 / 19 / 21 / 24 / 26 / 28 febbraio
1 / 3 marzo 2012
Così fan tutte
musica di Wolfgang Amadeus Mozart
personaggi e interpreti principali
Fiordiligi Maria Bengtsson
Guglielmo Markus Werba / Alessio Arduini
Ferrando Marlin Miller / Leonardo Cortellazzi
Don Alfonso Andrea Concetti / Luca Tittoto
maestro concertatore e direttore
Antonello Manacorda
Stefano Montanari
regia Damiano Michieletto
scene Paolo Fantin
costumi Carla Teti
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Teatro La Fenice
Teatro La Fenice
La traviata
musica di Georges Bizet
personaggi e interpreti principali
Il conte Rodolfo Giovanni Battista Parodi
Amina Jessica Pratt
Elvino Shalva Mukeria
maestro concertatore e direttore Gabriele Ferro
regia Bepi Morassi
personaggi e interpreti principali
José Stefano Secco / Luca Lombardo
Carmen Béatrice Uria Monzon /
Katarina Giotas
Micaëla Alexia Voulgaridou / Virginia Wagner
maestro concertatore e direttore
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Omer Meir Wellber
regia Calixto Bieito
scene Alfons Flores
costumi Mercè Paloma
Teatro Malibran
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
27 / 29 aprile
4 / 8 / 10 maggio 2012
Powder Her Face
musica di Thomas Adès
prima rappresentazione a Venezia
personaggi e interpreti principali
La duchessa Olga Zhuravel
Il direttore dell’hotel Nicholas Isherwood
La cameriera Zuzana Marková
maestro concertatore e direttore Philip Walsh
regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Orchestra del Teatro La Fenice
allestimento Teatro Rossini di Lugo di Romagna
e Teatro Comunale di Bologna
con il contributo della Fondazione Amici della Fenice
Teatro La Fenice
11 / 12 / 13 / 16 / 18 / 19 / 23 / 24 / 26 / 27 / 29
maggio 2012
La bohème
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
in coproduzione con Gran Teatre de Liceu di Barcellona
Teatro Massimo di Palermo e Teatro Regio di Torino
con il contributo del Circolo La Fenice
Teatro La Fenice
6 / 8 / 11 / 13 / 15 luglio 2012
1 / 2 / 4 / 5 / 9 / 13 / 15 / 19 / 20 / 22 / 26 / 28 / 30
settembre 2012
musica di Giuseppe Verdi
personaggi e interpreti principali
Violetta Valéry Patrizia Ciofi
Alfredo Germont Antonio Poli
Giorgio Germont Giovanni Meoni
maestro concertatore e direttore Diego Matheuz
regia Robert Carsen
scene e costumi Patrick Kinmonth
coreografia Philippe Giraudeau
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Teatro La Fenice
14 / 16 / 18 / 21 / 23 / 25 / 27 / 29 settembre 2012
Rigoletto
musica di Giuseppe Verdi
L’elisir d’amore
personaggi e interpreti principali
Il duca di Mantova Celso Albelo
Rigoletto Dimitri Platanias
Gilda Desirée Rancatore
personaggi e interpreti principali
Adina Desirée Rancatore
Nemorino Celso Albelo
maestro concertatore e direttore Diego Matheuz
regia Daniele Abbado
scene e costumi Alison Chitty
coreografia Simona Bucci
musica di Gaetano Donizetti
maestro concertatore e direttore
Omer Meir Wellber
regia Bepi Morassi
scene e costumi Gian Maurizio Fercioni
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
allestimento Fondazione Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
allestimento Fondazione Teatro La Fenice
musica di Giacomo Puccini
(Die Dreigroschenoper)
libretto di Bertolt Brecht
musica di Kurt Weill
Marcello Seung-Gi Jung
Mimì Kristin Lewis
Musetta Francesca Sassu
personaggi e interpreti principali
Mackie Messer Massimo Ranieri
Jenny delle spelonche Lina Sastri
Polly Peachum Gaia Aprea
Daniele Callegari
regia Francesco Micheli
scene Edoardo Sanchi
costumi Silvia Aymonino
Francesco Lanzillotta
regia Luca De Fusco
scene Fabrizio Plessi
costumi Maurizio Millenotti
coreografia Alessandra Panzavolta
Carmen
musica di Vincenzo Bellini
La sonnambula
personaggi e interpreti principali
Rodolfo Gianluca Terranova /
maestro concertatore e direttore
Teatro La Fenice
21 / 22 / 23 / 24 / 26 / 27 / 28 / 29 / 30 giugno
1 / 7 / 10 / 12 luglio 2012
7 / 8 / 9 / 10 / 11 marzo 2012
L’opera da tre soldi
Teatro La Fenice
21 / 24 / 28 aprile
17 / 20 / 22 / 25 maggio 2012
Khachatur Badalian
maestro concertatore e direttore
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Orchestra del Teatro La Fenice
allestimento Teatro Stabile di Napoli e Napoli Teatro Festival
Per informazioni, prenotazioni e acquisto biglietti
Information and ticket booking
call center Hellovenezia (+39) 041.2424
www.teatrolafenice.it
F ONDAZIONE T EATR O L A F ENICE
Illimpidisci
il nostro cuore
8
Appunti su «esperienza estetica
ed esperienza di fede»
+ Angelo card. Scola
N
el livello sempre civilmente alto degli interventi del Cardinale Angelo Scola, sia nelle risposte che la figura pubblica sa dare al luogo del suo impegno, sia anche – e vi è entusiasmo nel coglierlo per chi vi è
esterno – nel suo magistero ecclesiale, traspare una lettura attenta al contorno. Quel «paesaggio» talvolta fisico, talvolta
mistico, ovvero e comunque sempre culturale che ci circonda
ed incorpora il credente nell’esistente.
A questo riferimento esistenziale è facile dare la definizione
che accompagna la cultura occidentale dalla prima metà del
Settecento, da quando cioè Johann Joachim Winckelmann
estrasse dal garbuglio filosofico allora prevalente la nozione
del «bello nell’arte», come
elemento distintivo della lettura della realtà circostante.
B ello è quanto vediamo,
se lo comprendiamo e per
comprenderlo ci vuole poco:
«l’umiltà e la semplicità sono
le due vere sorgenti della bellezza». Si riferiva al manufatto artistico l’archeologo tedesco, forse troppo colpito dalla fisicità del marmo trasformato in figura. Ma il suo tema epistemologico era sviluppato proprio negli anni
che il Cardinale ha recentemente richiamato intorno al
ruolo scientifico di una grande figura del medesimo periodo. L’attenzione del Cardinale alla «Theory of moral sentiments» di Adamo Smith,
cioè all’evidenza dell’empatia che lega gli uomini nel loro essere relazionali, consente di unire insieme ai nessi fra loro
anche la dipendenza dal contesto. Esso è bello per capacità di
arte, per cultura di chi lo legge, ma anche per natura (e volontà?) originaria. Tutto si riunifica nei moti dell’animo ed ecco
perché l’arte illimpidisce i cuori.
La nostra rivista è lieta ed onorata di aver avuto dall’allora
Patriarca di Venezia queste riflessioni che pubblichiamo oggi
proprio perché non rappresentano un commiato da quella Venezia che guida la nostra intitolazione, ma esprimono quella
lunga mano che attraverso i chilometri ci consente di stringere quella dell’Arcivescovo di Milano.
Giuliano Segre
Direttore Editoriale
1. Il 3 marzo 2002, in occasione dell’inizio del mio ministero come Patriarca di Venezia, citai alcuni versi di una poesia di Ezra Pound che esprimevano, con un’intensità da me
irraggiungibile, il «contraccolpo» di ciò che stavo vivendo:
«O Dio [...] la mia strada hai segnato/[...] E la bellezza di questa tua Venezia/M’hai rivelata, [...]/O Dio, quale grande gesto di bontà/Abbiamo fatto in passato/E dimenticato,/Che tu
ci doni questa meraviglia/ Sì, la gloria dell’ombra/Della tua
Bellezza ha camminato/Sull’ombra delle acque in questa tua
Venezia./ [...] O Dio …/Illimpidisci il nostro cuore [...]» (Ezra
Pound, 1885-1972, Litania notturna, in: Poesie scelte, Mondadori, Milano 1960).
Venezia, 8 maggio 2011
Una bellezza fragile e struggente che ammutolisce e non si
stanca di attrarre ogni giorno migliaia di persone da tutto il
mondo. A Venezia è il mondo a venire da noi, come ci fece notare con indimenticabili parole Giovanni Paolo II visitandola nel 1985. La nostra città possiede infatti una vocazione singolare. Una forza ad un tempo centripeta e centrifuga per cui
tutta l’umanità si riversa da noi e la nostra città continua a parlare a tutta l’umanità.
Cosa cercano da noi le folle dei visitatori più diversi per razza, lingua, cultura e religione? Solo le gloriose vestigia di un
passato? E noi cosa offriamo loro? Una memoria museale e
storica che consente una pausa di puro godimento estetico nel
ritmo spesso affannato di una vita un po’ asfittica?
2. Ci aiutano a trovare tracce per una risposta convincente
e mobilitante alcune osservazioni di Benedetto XVI nell’incontro con gli artisti dello scorso 21 novembre: «L’autentica bellezza… schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio
profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso
l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esi-
stere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la
pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito,
questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza
è per entusiasmare al lavoro,/il lavoro è per risorgere”». La bellezza desta la nostra fame e sete di eternità, rivelando l’ineliminabile dimensione spirituale dell’uomo.
3. Niente forse come l’arte, quando è autentica, ci mette davanti alla inesauribile, testarda «sporgenza» della realtà rispetto ad ogni illusoria pretesa da parte dell’uomo di comprenderla (comprendere, nel suo etimo latino, è sinonimo di
catturare) dentro le proprie triangolazioni mentali. La stoffa
ultima della realtà, infatti, è il Mistero. O per essere più pre-
Mestre, 3 settembre 2011
cisi, rubando una fulminante intuizione agostiniana, la res
(la consistenza della realtà) è la Trinità. Tutto il resto sono signa. Così, annodando in un legame indissolubile l’eterno e il
temporale, l’arte si fa eco potente di quella logica sacramentale, che è il supremo metodo della rivelazione dell’Unitrino
all’uomo. E dallo sguardo di quest’ultimo traspare un cuore
vigile, che dentro il visibile sa scrutare l’Invisibile. L’Essere si
dona all’uomo, in una compagnia totale e permanente.
4. L’arte è strumento formidabile di auto-rivelazione dell’anima, irriducibile ad ogni tentativo di spiegarla in termini
scientifici, neanche in quelli sofisticati delle neonate neuroscienze. La natura enigmatica dell’uomo, quest’essere segnato
dalla finitudine eppure irriducibilmente assetato di infinito,
è «salvata» dall’arte. Non è vero, come pensava Nietzsche –
e rielaborando il nichilismo nicciano, anche Heidegger – che
dall’interno della finitudine è impossibile puntare all’Infinito, non è vero che il tempo è puro limite, non è vero che lo spa-
zio è solo impedimento. Finitudine, tempo e spazio sono forma. Nel tempo si dà l’eterno. Nello spazio limitato la totalità. Nel finito, l’Infinito. L’opera d’arte si può considerare, in
un certo senso, come un «sacramentale», un gesto espressivo dell’umana creatività che nel frammento veicola il tutto.
5. «Gesù Cristo, in quanto uomo, utilizza tutto l’apparato espressivo umano dell’esistenza storica – dalla nascita alla
morte – in tutte le età, le condizioni, le situazioni individuali e
sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio (possiede la natura divina), ma Egli non è Colui che Egli esprime, cioè il Padre (è differente, nel Suo essere personale, dalla persona del Padre). Paradosso incomparabile che costituisce il punto originario dell’estetica cristiana e quindi di ogni estetica!» (Hans Urs von Balthasar, Gloria 1, Jaca Book, Milano 1975, 20). Queste parole di von Balthasar, che come è noto ha fatto della percezione della forma (estetica) il punto di partenza privilegiato della
sua riflessione, mettono immediatamente in evidenza il grande paradosso che caratterizza l’arte. Balthasar lo spiega a partire dall’esperienza archetipica di Gesù Cristo. Egli, il Figlio
di Dio fattosi uomo, «tota Sui ipsius praesentia ac manifestatione» (“col fatto stesso della presenza e della manifestazione di
sé”) - come dice il n. 4 della Dei Verbum – è ciò che esprime e
contemporaneamente non è Colui che Egli esprime e che pure costituisce la Sua Origine eterna: il Padre, fons totius divinitatis. L’arte è forse l’esperienza umana in cui questa insuperabile polarità si manifesta in modo più acuto.
6. Il nesso tra arte e liturgia non è estrinseco, ma profondo,
in un certo senso è un nesso costitutivo. La liturgia ci fa considerare le due dimensioni spazio-temporali in cui l’uomo vive.
Anzitutto il tempo: la liturgia si gioca nel presente. L’Eucarestia, che ne è il cuore, lo mostra in maniera luminosa. Uomini
e donne, bambini e vecchi, lasciano le loro case e, in un istante preciso del tempo, si riuniscono in un luogo (spazio) in cui
si rende presente l’Avvenimento di Gesù Cristo morto e risorto. Ma questo presente vive sempre attraverso una presa di distanza: deve rinviare al passato, cioè al dramma del Golgota,
per essere capito come presente. Senza questa distanza la liturgia non eviterebbe la riduzione a magìa – pretesa di trasporre meccanicamente nel tempo ciò che non è trasponibile – o
ad idolatrìa – pretesa del soggetto di catturare con il proprio
sguardo il mistero stesso di Dio –. Invece la necessaria apertura del presente all’Avvenimento della morte e resurrezione
di Gesù, ben situato nel tempo, fa vivere il presente come spalancato sul futuro. I cristiani si radunano nel tempio (spazio) a
celebrare quell’atto perché il futuro dipende da quell’atto. In
un qualche modo l’irruzione finale dell’eternità è anticipata
in quell’atto. ◼
9
focus on / I racconti della Biennale
10
Dieci racconti
per la Biennale
(Musica e Teatro)
C
di Leonardo Mello
osa resta di un festival teatrale, o di una rassegna musicale, una volta che la settimana di programmazione è terminata, e i teatri (o più generalmente i
luoghi) in cui ha preso vita tornano a essere chiusi? In tempi
fortunati (non questi) una testimonianza importante è rappresentata dai cataloghi, che pure, necessariamente, vengono dati alle stampe prima che la manifestazione abbia inizio. Certo,
la tecnologia aiuta a preservarne la traccia, magari con una registrazione radiofonica o con una videoripresa, che passa rapidamente sul web: ma questi supporti non vanno al di là del puro materiale documentario, perché non possono per loro natura dare conto dell’hic et nunc proprio dello spettacolo dal vivo. E comunque forniscono un’informazione per forza di cose parcellizzata, che non permette alcun elemento di riflessione sul contesto generale in cui ciascuna singola esperienza artistica è inserita.
Lo strumento principale perché rimanga memoria di queste
manifestazioni – a beneficio di chi c’era e può esprimere un’opinione con cognizione di causa, ma anche e soprattutto di chi
non c’era, e che può così crearsela – resta però ancora quello della recensione, o meglio delle molte recensioni che di quel particolare evento vengono prodotte e pubblicate. In un momento storico in cui la critica (tutta la critica, non soltanto quella
teatrale o musicale) vede compressi e spesso negati gli spazi a
lei storicamente destinati, almeno all’interno dei tradizionali mezzi d’informazione, abbiamo voluto chiedere a dieci giornalisti di settore (cinque per la musica, cinque per il teatro) di
offrire il proprio sguardo sulle ultime Biennali, susseguitesi tra
settembre e ottobre e dirette rispettivamente da Luca Francesconi e Álex Rigola. Ne è emersa una narrazione a più voci, interessante sia nelle convergenze che nelle dissonanze. Un mosaico a dieci tessere che propone altrettanti racconti, e che vuole essere la prima tappa di una riflessione sulla critica contemporanea, sulla sua funzione, e sulle sue evoluzioni/involuzioni,
che ci vedrà impegnati nel prossimo futuro. Buona lettura. ◼
Mario Messinis
Biennale Musica
L
uca Francesconi ama titoli sofisticati, come
«Mutanti». Tralascio le escursioni ideologico-speculative care al direttore artistico; preferisco tradurre il termine nella sua accezione più facile, ossia come «mutazione»,
come trapasso dalla tradizione dell’avanguardia a oltre l’avanguardia attraverso il ricorso esorbitante alle tecnologie. Peraltro le mutazioni nella Biennale Musica non hanno avuto un
ruolo preponderante. Solo alcuni concerti hanno affrontato
una linea eversiva come allargamento delle possibilità sonore e l’assimilazione delle tempeste foniche del rock. Due complessi hanno seguito particolarmente questa strada. Il RepertorioZero, cui è stato assegnato nientemeno che il Leone d’argento, ha presentato nuove composizioni giovanili per strumenti elettrici (dal timbro ispido suonando gli archi senza cassa armonica) con una elettronica invadente e scomposta, ove
si escluda un brano a suo modo lirico per violoncello elettrico
di Andrea Alessandrini. C’erano anche i notissimi Different
Trains di Steve Reich, la cui esecuzione mancava di mordente
e non definiva il costruttivismo minimalista dell’autore. Ben
più significativo il concerto dell’Ictus Ensemble. Il formida-
bile esibizionismo di questo complesso emerge nello spettacolare potere creativo degli interpreti, al di là della creatività
compositiva. Spicca una passionalità viscerale nella spasmodica affinità fonica con il rock. Ma si ha la nostalgia per il rock
«storico» degli anni sessanta-settanta. C’è naturalmente
un’eccezione: il celebre Trash di Fausto Romitelli conferma,
dopo un decennio, l’importanza di un musicista che si è accostato alla «popular music» con rigore formale, cui spesso
gli autori della nuova sperimentazione rinunciano. Il concerto dell’Ictus era drammaturgicamente ben articolato, con al
centro le strepitose canzoni degli anni trenta di Harry Partch,
splendidamente trascritte e attualizzate, e una poesia sonora
di Schwitters rivissuta in maniera sensazionale dal canto recitato di Michael Schmidt di una follia dadaista. Al confronto
degli indemoniati strumentisti del gruppo belga, gli interventi elettronici dell’ircam sembravano di placida compostezza. In realtà il laboratorio parigino ha raggiunto una assoluta
perfezione tecnologica. Solisti prodigiosi dialogano con il live electronics. Si ammira, oltre al compiaciuto accademismo
di Ian Maresz, Interno rosso con figure per fisarmonica ed elettronica di Francesca Verunelli che esplora, sulla linea dell’ultimo Nono, una estatica sottigliezza timbrica.
Al di fuori delle esperienze tecnologiche si riapre il discorso
sull’esotismo sia negli aspetti esornativi, come nelle idee originali. Il belga Wim Henderickx rievoca il mito di Medea in un
lungo lavoro teatrale, ridotto e senza il testo parlato, eseguito in forma di concerto. I vocalizzi dovrebbero illustrare i diversi stadi emotivi della tragedia, ma la vocalità è di una ripetitiva prolissità. Le edulcorate melopee strumentali traducono in musica di consumo il folclore indiano. Invece la coreana
Unsuk Chin in Gougalon, un paesaggio della periferia cinese,
evoca l’estremo Oriente con accattivante fascino: la Cina come fantomatica e illusoria presenza. La malinconia umbratile della Chin è stata sentita con singolare finezza dall’Ensemble dell’Orchestra Nazionale della Rai, diretto da Fulvio Angius, che ha offerto anche tre prime assolute: lo «schumanniano» Timor panico di Giorgio Colombo Taccani, un oleografico Quintetto dello svedese Staffan Storm e un retorico
Concerto per oboe di Massimo Botter.
Riemergono periodicamente, come nel concerto dell’Orchestra Mitteleuropa diretto da Andrea Pestalozza, le tentazioni del poema sinfonico anche in pagine apparentemente
aggiornate, come in Collagène dello svedese Olofsson che cerca di conciliare le suggestioni del rock con nostalgie tardoromantiche. L’orchestrazione sontuosa ma anche prevedibile, si
notava nel sinfonismo di
Pa s q u ale Corrado e
Vittorio
Zago. Il
pensiero
concettuale del Conce r to pe r
pianoforte, 24 strumenti e carillons di Clementi, recentemente
scomparso, suonava anche più avvincente in un
contesto esibito: un
capola-
pensioni teatrali nel segno di una espressività diretta. Vladimir Gorlinsky rilegge Varèse attraverso Cage con aggressiva
invadenza. Purtroppo non ho sentito il concerto dei Sentieri Selvaggi.
Il teatro è confinato ai margini della rassegna, con un progetto a più voci ideato da una iniziativa europea, brevi pagine
di quattro autori che si svolgono senza soluzione di continuità. La impaginazione scenico-registica è molto notevole nella
sua ascetica essenzialità tra Beckett e Bob Wilson. La musica
è prosciugata, a momenti rinunciataria. Il
secondo titolo di Mischa Käser spicca
per i toni ironico-grotteschi, ispirati ai testi taglienti di Thomas Bernhard, al centro dell’idea registica; l’ultimo di Filippo Perocco è
di una distillata rarefazione.
Il Leone d’oro alla carriera è
stato opportunamente assegnato a Peter Eötvös, compositore e
direttore poliedrico, prediletto per un quarto di
secolo da Stockhausen e da Boulez. Peraltro non c’è traccia in lui del pensiero di questi autori. Le sue idee
sono fel icemente retro-
tegoria del godibile. Ma in San Michele emerge un memorabile epilogo con una melodia gotica di Machaut, interpretata
dall’angelico tenore Muillon.
Complessivamente una Biennale riuscita, anche perché in
larga parte dedicata a novità dell’ultima generazione. Luca
Francesconi è un musicista curioso colto ed intelligente e meriterebbe di essere riconfermato. Mi chiedo tuttavia perché si è
rinunciato ad un regolare catalogo (le belle note di Enrico Girardi sono francobolli stenografici).
Resta aperto il quesito fondamentale della eventuale sostituzione di Paolo Baratta, uno dei presidenti più autorevoli, sotto
il duplice profilo organizzativo e culturale, che la Biennale abbia avuto dai tempi della riforma dello statuto. La proposta del
Ministro Galan, di massimo rigore berlusconiano, è caduta
su Giulio Malgara, notoriamente non interessato ai problemi
culturali (ma sostenuto dal rettore dell’Università di Ca’ Foscari). Sono i vizi del cosiddetto aziendalismo che sta distruggendo le istituzioni culturali italiane. Ora attendiamo il verdetto della Commissione Cultura che purtroppo ha un valore
meramente consuntivo. Come reagirà il Ministro? ◼
(per gentile concessione di «Classic Voice»)
Sopra, Ictus Ensemble.
A sinistra, Vladimir Tarnopolski.
Nella pagina a fronte, Francesca Verunelli.
11
focus on / I racconti della Biennale
spettive con una forte vicinanza a Bartók e alla musica popolare ungherese, e qualche sporadico ricordo di Ligeti. Ha diretto l’Orchestra della Radio di Baden-Baden (eccellente soprattutto nelle sezioni dei fiati) rivelando le sue doti di interprete nel modo con cui ha drammatizzato in chiave espressionista la Suite di danze di Bartók. Invece l’immacolato Agon di
Stravinsky mancava di lucida trasparenza. Il Concerto per due
pianoforti e Replica per viola trascorrono da un «meccanico»
bartokismo alla ombrosa elegia: Eötvös ha idealmente intuito
ciò che è rimasto incompiuto nel Concerto per viola di Bartók.
La «Vogata Rituale» conclusiva è stato un omaggio alla ca-
Biennale Musica
voro sfingeo come elogio della interiorità.
Giungono i nuovi autori russi con cinque prime italiane, eseguite dal magnifico Studio per la Nuova Musica diretto da
Igor Dronov. Informazione utilissima sulla situazione dell’avanguardia russa. Interessano i musicisti della generazione di
mezzo. Faraj Karaev con l’ipnosi mistica di un brano dedicato a Crumb e Vladimir Tarnopolski in Chevengur per voce e
orchestra, che aggiorna la tradizione rapsodica moscovita e le
memorie della Lady Macbeth di Mcensk di Šostakovič: forse
l’opera più caratterizzata della rassegna veneziana. I trentenni guardano un po’ ingenuamente all’Occidente, ma con pro-
Biennale Musica
focus on / I racconti della Biennale
12
Dino Villatico
ispersasi l’ultima eco dell’ultimo suono nell’aria opaca della laguna, dalle barche che procedono
lentamente verso San Michele, Stefano Ballon artifex
dell’artefatto incantesimo – ma il terzo millennio non sembra
un’era di magia – probabilmente solo dentro la tomba di Igor
Stravinsky1, dove il corteo funebre si arresta – morte dell’arte?
o morte nell’Italia, nell’Europa, nel mondo, delle primavere
soffocate? –, resta racchiuso il segreto di quale chiave possa dischiudere le stanze del nuovo opificio musicale che potremmo
chiamare oggi laboratorio della «nuova musica». Certo, l’impressione generale, tratta dall’ascolto dei brani eseguiti in questa Biennale 2011, «Mutanti», una settimana densa d’incontri e di ascolti, è proprio che, almeno in Italia, i mutanti non
ci sono, non c’è anzi nessuna mutazione da trenta o forse quarant’anni a questa parte. Il paese non ristagna solo nell’industria, nel commercio, nella ricerca, ristagna anche nell’archi-
rizia della classe politica italiana – si vorrebbe dire, anzi, dalla
colpevole insipienza o dalla miopia, ormai decennali, con cui
da destra e da sinistra è amministrata in Italia la cultura: mi
scuso, sovvenzionata! quasi come fosse un’elemosina. Altrove,
per esempio in Francia, si dice più correttamente finanziata, la
differenza terminologica è sintomo di una differenza culturale. Ebbene, ciononostante, alla fine degli ascolti, e con in testa
un turbinoso rovello di delusioni e di domande, a restare impressa nel ricordo è soprattutto l’impressione, a dir poco paralizzante, di una specie di paralisi della fantasia, di una defezione del coraggio intellettuale, ma anche dello scatto emotivo, di una umiliante resa della voglia di rischiare, che sembrano possedere come un démone epidemico quasi tutti i giovani musicisti italiani (non tutti, per nostra fortuna, ma la maggior parte), divenuti spudoratamente timidi, impavidamente
prudentissimi, esperti e raffinati calcolatori dello spazio più ridotto possibile, attenti a non travalicare la sensibilità ombrosa delle vecchie ma ancora agguerrite accademie, a non oltrepassare i limiti di un modello straconfermato dall’uso, i dog-
tettura, nella pittura, nella riflessione storica e filosofica, e infine nella musica. A scappare non sono solo medici, fisici, matematici, chimici, ingegneri: sono anche artisti, architetti, pittori, musicisti, e perfino galleristi se oggi la galleria più in di
New York è tenuta da un milanese al quale Milano aveva chiuso tutte le porte. Tuttavia la considerazione da fare su questo
fenomeno è un’altra: da sempre artisti e scienziati hanno viaggiato per il mondo, Pitagora da Samo a Crotone, Cartesio da
Parigi a Stoccolma, Leonardo da Milano alla corte di Francia,
Paisiello da Napoli a San Pietroburgo. Ma se dall’Italia l’esodo verso il resto del mondo è consistente, come mai un esodo
simmetrico da molto tempo non si attua dal mondo all’Italia?
come mai un Josquin des Près, un Poussin oggi non verrebbero a Roma, un Johann Christian Bach a Milano? Nel campo
scientifico stiamo ancora peggio: se le nostre università educano cervelli appetiti dal resto del mondo, come mai dal mondo
altri cervelli non arrivano nelle nostre università? Ma torniamo alla Biennale Musica di quest’anno.
Una rassegna di pochi giorni, certo, non è lo specchio della
molteplice realtà musicale del mondo di oggi, non basterebbe
a documentarcene una settimana di concerti e non basterebbe il misero badget destinato alla rassegna veneziana dall’ava-
mi e i tic di un insegnamento testardamente subito da più di
trent’anni. Del resto, nel momento in cui i giovani dell’Africa
settentrionale, del Medio Oriente, dell’Europa, e perfino degli usa s’infiammano, che fanno i giovani italiani? aspettano
la grazia del potente di turno, al governo e nelle istituzioni, o
scappano. Oppure, in caso che esplodano indesiderati tafferugli, mettono le mani avanti, «non sono stato io, io sono contro la violenza», per tema di essere anch’essi tacciati di violenti, da qui l’elenco miserevole di migliaia di distinguo. Accondiscendenza e disponibilità al compromesso forse secolari, se
rileggere oggi Petrarca non consola, anzi sconforta, perché il
male antico era stato già individuato dal grande poeta, che se
ne doleva e se ne indignava (sì! se ne indignava!) con disincanto e amarezza. Né il suo odierno ammiratore, anche lui poeta, Andrea Zanzotto, pur troppo anche lui emigrato, e ahinoi
per lidi da cui non si ritorna, ci parla con voce non diversa: anzi, con voce ancora più aspra, che registra, enumera, descrive,
depreca i segni di una devastazione ancora più grande e profonda, visibile a occhio nudo perfino nell’ormai devastatissimo paesaggio padano, e devastato proprio da coloro che alzano a propria bandiera l’appartenenza a un’inesistente e mai
esistita Padania. Devastazione che non deturpa solo il paesag-
1 Così si firmava lui stesso. Scrivere Stravinskij, per rispettare l’odierna traslitterazione dal russo, è tradire la sua volontà. Igor Stravinsky, del resto, sta scritto sulla sua
tomba, a Venezia, nel cimitero di San Michele.
L’inizio della Vogata rituale
che ha concluso la Biennale Musica.
D
due pianoforti del 2007, in prima esecuzione italiana, ai pianoforti Andreas Grau e Götz Schumacher, e Replica, per viola e
orchestra, del 1998, viola solista Geneviève Strosser. Ringraziando Paolo Baratta, Presidente della Biennale, il compositore ungherese ha citato i versi, bellissimi, di un madrigale di Gesualdo da Venosa, il diciannovesimo dal Sesto Libro:
Al mio gioir il ciel si fa sereno,
Il crin fiorito il Sole a i prati inaura.
Danzano l’onde in mar al suon de l’aura,
Cantan gli augei ridenti,
Scherzan con l’aria i venti.
Così la gioia mia versando il seno
Io d’ogni intorno inondo
E fo, col mio gioir, gioioso il mondo.
Il nome di Gesualdo – e per chi conoscesse lo straordinario
madrigale, insolitamente consonante appunto perché gioioso, un nome che calzava come pochi alla situazione – non poteva non richiamare alla memoria il nome di Stravinsky, che
proprio a Venezia, il 27 settembre 1960, al Teatro La Fenice,
eresse un monumento musicale al principe compositore. Le
miserie dell’Italia di oggi non offuscano dunque gli splendoPeter Eötvös, tra Luca Francesconi e Paolo Baratta,
riceve il Leone d’oro.
Un peu profond ruisseau calomnié la mort2 .
2 Un poco profondo ruscello calunniato la morte.
13
focus on / I racconti della Biennale
ri dell’Italia di un passato che sembra lontano solo per gli italiani, ma che per molti, invece, fuori dell’Italia, è ancora vivo e
presente. La forma del madrigale fu scelta, del resto, da Eötvös
per dare forma, nel 1998, all’Opéra di Lione, alla rappresentazione delle Tre sorelle, da Cekov, quasi una sorta di omaggio al
madrigale drammatico di Orazio Vecchi e Adriano Banchieri. Il concerto si apriva nel nome di Béla Bartók, la Tanz-Suite del 1923, e di Igor Stravinsky, Agon, composto tra il 1953 e
il 1957. Le due partiture sembrano rispecchiarsi: una misurazione lucida del tempo, una scansione geometrica, eppure imprevedibile del respiro musicale: una riflessione sul ritmo, che
si fa riflessione sul pulsare della vita e, dunque, anche, sull’ineluttabilità della morte. La lucidità della scrittura, in entrambe le partiture, sospende la percezione del battito tra riconoscimento di un ritmo familiare e la sorpresa, per non dire l’ansia, di una pulsazione sconosciuta. Ma la lezione è preziosa: l’astrattezza, la geometria della scrittura, non soffocano, non devono soffocare, l’emozione del pensiero che sgorga dal suono.
Non sapevamo ancora che i concerti che avremmo ascoltato
nei giorni seguenti avrebbero confermato, per contrasto o per similitudine, l’esperienza di quel primo ascolto, confermato soprattutto la necessità dell’obbligo, pena l’aridità superflua o l’arabesco accademico: l’emozione cacciata dalla porta, infatti,
si vendica e rientra dalla finestra con
la maschera della noia. Non c’è questo rischio con le musiche di Eötvös.
Il Concerto per due pianoforti innalza il virtuosismo strumentale a flusso di una fantasia che rompe gli argini, ma senza mai perdere il controllo
dell’eruzione: non si nasce per caso
nella terra di Liszt. Di tutt’altra pasta
la pagina seguente, Replica. Scarna,
quasi dura, un’invenzione prosciugata all’essenza del lamento, del grido.
La viola implora, piange, urla, senza
pudore. Che altro può dire un padre
il cui figlio si uccide giovanissimo?
Sta qui la grande lezione di Eötvös:
non mascherare il dolore, ma se mai
denudarlo, gettarlo disarmato in faccia all’ascoltatore, ma senza retorica, senza enfasi, ridotto all’osso, all’inesprimibile lamento. Che cosa rispondere a chi non c’è più? La musica riflette immagini distorte in uno specchio ch’è andato in frantumi, dice lo stesso compositore, ma l’originale di quell’immagine non c’è più. Ma allora anche la musica di oggi – quella che sola dovrebbe chiamarsi contemporanea, e non quella
di un secolo fa che ancora ci si ostina a dire contemporanea –
può comunicare affetti, come nel Barocco, emozioni come tra
i romantici? Forse il punto centrale della questione sta in quel
«può», nella possibilità, cioè, di trasmettere qualcosa che non
sia solo l’immagine della propria forma, del proprio farsi durante la durata dell’ascolto. Ma siamo poi sicuri che, per esempio, il Pli selon pli di Boulez non comunichi che la propria fattura, che si tratti solo di musica raggelata? Anche il silenzio del
soprano, nell’ultimo pannello del polittico, Tombeau, prima
di pronunciare – si badi! pronunciare, non intonare – l’ultima
parola del bellissimo verso di Mallarmé? Il soprano ha cantato
fino a quel momento, ma quell’ultima parola la sillaba, la sussurra, come fosse una parola impossibile da intonare, una parola in cui la musica finisce.
Biennale Musica
gio, e soprattutto il paesaggio padano (se Sparta piange, però,
Messene non ride: lo scempio del paesaggio meridionale della penisola è, se possibile, ancora più turpe), ma nel paesaggio
tale deturpazione, anzi corruzione, deformazione, sono forse
leggibili come segnali, o piuttosto sintomi, di una più terribile malattia, e cioè come il segno di una interiore, forse irreversibile e irredimibile, devastazione culturale. La cronaca del disfacimento è presto fatta. Se bastasse una cronaca a individuare i sintomi del male per ipotizzarne una cura, o addirittura
una guarigione, ma non si spera tanto o sperarlo confina con
la pazzia. Tiremm innanz.
È bastato l’ascolto delle musiche della prima giornata, a farci capire dove la grande musica è di casa e come si fa a scrivere e suonare grande musica. L’apertura della rassegna, infatti, è stata entusiasmante. Dedicata com’era al Leone d’oro alla
carriera del lv Festival Internazionale di Musica Contemporanea: Peter Eötvös. Alla testa della Südwestrundfunk Sinfonieorchester Baden-Baden und Freiburg, lo stesso Eötvös ha
diretto due tra le sue più recenti composizioni, il Concerto per
focus on / I racconti della Biennale
14
Il canto si arresta alla parola «calomnié», c’è una pausa, e pianissimo, un sussurro impercettibile, la voce dice: «la
mort». La pausa – espressione musicale del silenzio – segna,
con una sorta di madrigalismo, il varco del ruscello. Non diversamente, ma perfino più duramente, il silenzio si fa madrigalismo della morte all’arrestarsi del respiro di Melisande,
nella partitura che apre il Novecento, Pelléas et Mélisande di
Debussy. Ma lì non è nemmeno una pausa, che non è ancora
silenzio, ma resta respiro musicale, no, lì è vero silenzio, il negativo del suono, una corona sulla stanghetta che divide le battute. Il lamento della viola,
in Replica, sembra anch’esso, alla fine, arrestarsi su
quell’abisso. Che dire mai a una voce scomparsa,
che cosa rispondere al figlio che si è tolto dalla vista del padre? Da Debussy a Eötvös passando per
Boulez? e indietro a Gesualdo, «io tacerò, ma nel
silenzio mio / ... / griderà poi per me la morte ancora»? Eccoci tornati al discorso di ringraziamento
tenuto da Eötvös, prima del concerto, per il conferimento del Leone d’oro alla carriera. Ai madrigalismi della partitura un ancora più eloquente madrigale che sostituisce il discorso. La musica, direbbe Debussy, – e la poesia, aggiungiamo – comincia
dove finiscono le parole. La musica, del resto, non
ha mai fatto altro, già dai tempi di Machaut:
Biennale Musica
pe cose per risultare efficace, ma possa e debba affidarsi allo
sviluppo coerente di una sola idea, come in questo caso l’uso
delle sordine. Anche il secondo concerto del laboratorio ircam sembra essere stato interessante. Ma pur troppo quel
giorno non ci sono andato. Peccato, perché i compositori erano italiani, e tra essi si eseguiva un pezzo di Andrea Agostini,
che sembra abbia confermato l’impressione positiva offerta
dal pezzo suonato dal violoncellista di RepertorioZero, Giorgio Casati. Non una delusione, ma la conferma di un vuoto di
Et musique est une science
Qui veut qu’on rie et chante et dence3.
Il Leone d’argento è stato assegnato all’ensemble
di giovani musicisti milanesi RepertorioZero.
«Per la ricerca innovativa» dice la motivazione:
«che vuole andare oltre l’esperienza delle avanguardie tradizionali». Fosse vero! Pur troppo la loro serata è apparsa alquanto deludente. Non basta
l’amplificazione elettronica a surrogare la mancanza di fantasia. Se si esclude O-zone per violoncello
elettrico solo di Andrea Agostini, e naturalmente i
brani di Stockhausen tratti da Licht, le musiche
non sembravano proporre intuizioni inedite. Sembra quasi che i giovani compositori, soprattutto
italiani, abbiano paura del suono determinato, del
lavoro sugli intervalli, e si affidino pertanto ad abusate fasce sonore puramente materiche, quando già
Ligeti insegna che una fascia può essere il risultato
di un vorticoso, minutissimo, gioco contrappuntistico. Non è più il momento! «Torniamo all’antico, e sarà un progresso» direbbe Verdi. Dove l’antico è il lavoro contrappuntistico sugli intervalli.
Sembra invece che i compositori italiani abbiano
paura del contrappunto, o, chi sa, non lo sentano né familiare
né percorribile. Ma lo conoscono poi davvero? L’imbarazzante Patchwork-Opera (sic!) Privo sarò del cielo e de l’inferno (ancora Orfeo!) offerto nel chiostro del Conservatorio Benedetto Marcello da un folto gruppo di musicisti guidati nella costruzione dell’opera da Corrado Pasquotti e Paolo Zavagna,
farebbe supporre un interessato o distratto disinteresse. Ma il
Conservatorio veneziano è stato per altri versi coinvolto invece in un interessantissimo laboratorio organizzato dall’ircam di Parigi. L’Europa entra nelle aule del Conservatorio
come un vento nuovo che spazza ogni vecchiume accademico
e sbugiarda ogni conato pseudoavanguardistico. Metallics per
tromba ed elettronica, del 2001, di Yan Maresz, che è anche il
coordinatore del laboratorio, è una dimostrazione di come la
concezione di un brano non abbia bisogno di affastellare trop3 Francese antico: ciò spiega le differenze di scrittura.
pensiero il concerto di Sentieri Selvaggi, diretto da Carlo Boccadoro. Se all’accademia degli epigoni delle avanguardie storiche debba contrapporsi la banalità di musiche sedicenti alternative, perché più gradite al pubblico, siamo perduti. Ci è stata inflitta perfino una spiega prima dei pezzi, per sentirsi dire,
come fosse una scoperta, una nuova invenzione, che le «trasformazioni» del tema di partenza (a propowsito di Kick, di
Steve Martland, basato su una melodia popolare inglese del
Seicento) appaiono come un esempio nuovo di mutanti musicali. Oddio! E noi che pensavamo che la variazione fosse un’arte antichissima, praticata già dai primi cantori cristiani, e prima ancora dagli auleti greci. Ma può darsi che le denominazione di «Mutanti», imposta da Luca Francesconi a questa Biennale, abbia suggerito a Sentieri Selvaggi un adattamento terminologico opportuno: o cogliessero la palla al balzo per adattarvi le musiche eseguite, mutazioni, trasformazioni, musiche
che apparivano piuttosto un cofanetto preconfezionato e scartato sul momento. Ma se così stanno le cose, allora tanto vale
siasmante è stata offerta dallo Studio per la Nuova Musica di
Mosca. I sei pezzi proposti sono tutti originalissimi, anche
quando adottano tic storici delle avanguardie occidentali, riproposti e reinventati con freschezza e vivacità. E colmi di ironia. Del resto la musica di un paese che è un caos non può che
proporre l’immagine del caos. Ma appunto l’immagine, la
spazializzazione, la formalizzazione, il controllo del caos, non
il caos. Olga Bochihina, Faraj Karaev, Aleksej Sioumak, Nikolaj Khrust, Vladimir Tarnopolski ci hanno sorpreso, commosso, divertito. Ma è stato soprattutto il giovanissimo Vladimir Gorlinsky (nato nel 1984) a sorprenderci, entusiasmarci,
travolgerci, perfino quando ci sfidava con gesti dada o tipici
del futurismo, che riesce a rinnovare come appena inventati.
Speriamo di riascoltarli presto. E non in una singola serata. Se
non altro, per confermare o confutare la prima impressione.
Infine, come ogni anno, la Biennale si chiude con uno spettacolo teatrale (il giorno prima della vogata in laguna). Geblendet (accecato) ideato da Thierry Bruhel, e realizzato dalla
Biennale di Venezia in collaborazione con Musik der Jahrhunderte Stuttgart e Musicadhoy Madrid. Sono cinque racconti
brevissimi di Thomas Bernhard, tratti dall’Imitatore di voci
(Der Stimmenimitator). Quattro compositori, Michael Beil,
Due immagini di Geblendet.
15
focus on / I racconti della Biennale
Blinded, Mischa Käser, Nachrichten, Manuel Hidalgo, Geblendet, e Filippo Perocco, Occhi, nur noch, compongono
quattro brevi atti del «teatro musicale in cinque atti» immaginato da Bruhel, tra i primi due e gli ultimi s’inserisce come
«intermezzo» l’esecuzione delle Sei bagatelle op. 9 di Webern. Sono cinque quadri diversissimi, in comune un’estrema
astrazione del gesto, sia teatrale che musicale. Un attore, Christian Brückner, un controtenore, Daniel Gloger, dei Neue Vocalisten, una voce bianca, Vincent Frisch, rappresentano in
qualche modo le tre età della vita: si pensa a Klimt, ma anche
ai musici del Giorgione. Il quartetto d’archi Diotima, con
estrema discrezione, offre il sostegno strumentale. Ciascuna a
suo modo la musica di ogni atto appare intensa, meditata, concentratissima. Fino alla più astratta di tutte, quella di Filippo
Perocco, senza gli strumenti, affidata al solo sussurro, quasi
impercettibile, dell’attore e ai conati di canto del controtenore e della voce bianca. In questo estremo prosciugamento della materia
sonora Perocco sembra volgersi
indietro, sfidare la concentratissima scrittura
di Webern,
e oltrepassarne l’aforistica ellissi
spingendosi
qua si nel
t e r r it o r i o
dell’afasia,
come se solo
da un bagno
salutare di
silenzio si
potesse ricominciare a
ripensare la
musica. E
così si ritorna all’inizio: sembra
quasi che il
messaggio più profondo di questa rassegna, l’ultima disegnata da Luca Francesconi, sia di ricominciare a pensare l’oggi da
una pagina bianca, la musica da un silenzio che cancelli l’orgia
di suoni superflui da cui è afflitto l’uomo contemporaneo, in
aereo, nei supermercati, in metropolitana, nei negozi, e dagli
ingombranti, indigesti agglomerati sonori con cui ci assordano cinema, radio e televisione, come se dovessimo guarire
dall’inquinamento acustico che ci soffoca, e respirare l’aria
trasparente di un contrappunto finalmente riconquistato. Il
modello potrebbe essere, chi sa, Magister Leoninus o Perotinus. Avremmo molto da imparare dal loro fastidio dell’inutile e del superfluo. ◼
Biennale Musica
proporre Giovanni Allevi. Almeno l’appartenenza è più esplicita. Né più luce arrecava il concerto diretto dal pur bravissimo Andrea Pestalozza a capo dell’Ensemble da camera
dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della rai. Non a caso il
pezzo più interessante, anche se astuto, è apparso Gougalon
(Scenes from a Street Theatre) della coreana Unsuk Chin. Sugli italiani Giorgio Colombo Taccani e Massimo Botter stendiamo un velo di oblio. Le intenzioni, infatti, non si traducono in fatti. Michaël Levinas ci ha regalato, al pianoforte,
un’interpretazione convincente di quattro studi di Ligeti, e
travolgente di tre studi composti da lui stesso (1992). Peccato,
invece, che l’op. 111 di Beethoven non apparisse troppo meditata. Eppure l’accostamento della musica di Beethoven alla
musica delle avanguardie del Secondo Novecento è un’idea
che suggerisce molte considerazioni, se perfino nei Klavierstücke di Stockhausen è possibile riconoscere riflessi del pensiero
(non dello stile!) beethoveniano. Ma la serata veramente entu-
Biennale Musica
focus on / I racconti della Biennale
16
Paolo Petazzi
I
l titolo «Mutanti», proposto dal direttore Luca
Francesconi per la sua quarta edizione della Biennale Musica, andava inteso in senso ampio, non solo in quello di
un recente scritto di Baricco: «mutanti» anche come artefici di coraggiose aperture innovative rispetto al proprio tempo.
Soltanto così il termine si può riferire alla presenza dell’ultimo Beethoven o allo stesso Peter Eötvös (1944), il Leone d’oro alla carriera del 2011, che è stato per alcuni anni collaboratore di Stockhausen e dal 1979 al 1991 direttore dell’Ensemble InterContemporain, ma che nella sua attività compositiva
si riferisce a radici lontane da Stockhausen come da Boulez. In
Italia, a differenza che in altri paesi europei, è meno noto come compositore che come direttore d’orchestra, e nemmeno
il successo delle sue opere teatrali (finora cinque, a partire da
Tre sorelle, Lione 1998) ha suscitato qualche curiosità presso
le pigre istituzioni del nostro paese. A Venezia ha diretto nella serata inaugurale della Biennale una delle eccellenti orchestre radiofoniche tedesche, quella di Baden Baden e Friburgo,
proponendo un omaggio a Bartók (Suite di danze), una delle meraviglie dell’ultima stagione di Stravinsky, Agon, e due
propri lavori, il Concerto per due pianoforti e Replica per viola e orchestra. Proprio perché molto diversi tra loro, questi due
pezzi danno un’immagine molto viva e interessante delle qualità del compositore-direttore, della ricchezza «di pensiero e
pratica musicale» che si fonda sulla sua duplice attività (come
sottolinea anche la motivazione del Leone d’oro). Soprattutto
nel Concerto il rapporto con la lezione di Bartók è esplicito, già
nel vistoso rilievo del dialogare tra i pianoforti e gli strumenti a percussione. Il Concerto è la rielaborazione per due pianoforti (gli impeccabili Andreas Grau e Götz Schumacher) e orchestra, compiuta nel 2007, di un pezzo del 2005, CAP-KO,
dove al posto del secondo pianoforte c’era una tastiera digitale. Nelle cinque parti del pezzo si succedono con brillante fantasia e scatenato virtuosismo forti esplosioni di energia, indugi meditativi con funzione di contrasto, vitalissima eccitazione, invenzioni coinvolgenti, che rivelano una latente evidenza «teatrale».
Un carattere interiorizzato si riconosce nel mesto lirismo di
Replica (1998) per viola e orchestra, una pagina lenta, immersa in un clima di congedo, a tratti cupamente drammatica, dove si ammirano i rapporti che via via si creano tra il monologare della viola solista (la bravissima Geneviève Strosser) e diversi strumenti dell’orchestra, in sapienti combinazioni di colori.
Accanto al Leone d’oro c’era anche quest’anno un Leone
d’argento riservato ai giovani: è stato assegnato al complesso
RepertorioZero per la sua ricerca su nuovi strumenti e mezzi
tecnologici, tesa a rinnovare radicalmente il repertorio, come
dice il nome del gruppo.
Come negli anni scorsi una serata di teatro musicale era realizzata insieme con Musik der Jarhunderte Stuttgart e Musicadhoy Madrid: portava un titolo generale, Geblendet (Accecato) e coinvolgeva quattro compositori diversi, il tedesco Michael Beil (1963), lo svizzero Mischa Käser (1959), lo spagnolo Manuel Hidalgo (1956) e l’italiano Filippo Perocco (1972).
Non si capisce bene chi e perché li abbia messi insieme, inserendo come brevissimo interludio le Bagatelle di Webern.
Probabilmente Thierry Bruehl, che firma «ideazione e regia»
e crea uno spettacolo di raffinato minimalismo. Elementi unificanti sono anche il controtenore Daniel Gloger, la voce bianca Vincent Frisch e l’attore Christian Brückner. Fondamentale anche il Quartetto Diotima, cui tuttavia Perocco ha dovuto rinunciare. Altro elemento unificante dovrebbero essere i testi di Thomas Bernhard, perché alcuni suoi folgoranti, brevissimi racconti sono
recitati nel corso dei pezzi di
Käser (7), Hidalgo (3), Perocco (1). Beil, se ho capito bene,
si serve di altre fonti. I quattro
lavori sono brevi e fra loro diversi: ogni compositore a suo
modo inquadra gli interventi
dell’attore con musiche ricche
di ironia (nel caso di Käser)
o vicine al silenzio (Perocco).
Lo spettacolo si svolge con
una sua logica interna, sostanzialmente astratta, le musiche
sono di qualità diversa, Bernhard è lasciato al bravissimo
attore e inserito in un contesto in complesso poco pertinente. Ci sarebbero molte curiosità cui avrebbe potuto rispondere solo un
decente programma di sala: anche quest’anno alla Biennale Musica
si è fatta la
deplorevole scelta di
NON fornire un adeguato apparato informativo, indispensabile e destinato a restare come
utile documenta-
perso fra l’altro la conclusione con la «Vogata Rituale – Cultura in memoriam» all’isola di San Michele), c’erano i due
concerti dell’ircam, in modo particolare per la presenza di
giovani italiani che hanno trovato a Parigi possibilità negate dalla situazione chiusa della nostra vita musicale. Citerei
ad esempio la fantasia di Francesca Verunelli (1979) nel rivisitare con le possibilità dell’elettronica uno strumento come
la fisarmonica, esplorato nelle sue potenzialità con grande finezza. Daniele Ghisi (1984) evoca Cirano di Bergerac usando una frase di Rossana (Comment pouvez-vous lire à present?
Il fait nuit) come titolo del suo suggestivo pezzo per saxofono
ed elettronica.
Da ricordare anche i concerti diretti da Andrea Pestalozza
(Oloffson, Clementi, Corrado, Scelsi, Zago) e da Marco Angius (Chin, Colombo Taccani, Botter, Storm, Adès). Nel concerto diretto da Andrea Pestalozza tra le cose meno note si
possono citare Collagène dello svedese Kent Olofsson (1962),
la cui radici sono nel rock progressivo, o Inciso di Pasquale
Corrado (1979), dalla scrittura molto brillante. Tra gli autori
già affermati o scomparsi significative le presenze nella Biennale 2011 di lavori di Aldo Clementi, Crumb, Levinas, Ligeti,
Xenakis, Scelsi, Romitelli, Unsuk Chin, Adès. ◼
A sinistra, Studio for New Music Moscow.
A destra, George Crumb.
Nella pagina a fronte: sopra, RepertorioZero; sotto, Daniele Ghisi.
S
e non muore, il Festival di Musica Contemporanea
della Biennale, l’anno prossimo ci si rivede. Nuovo direttore? Non si sa. Orientato a destra, come il (minacciato) nuovo presidente dell’istituzione? Non è detto. Si parla
di morte dopo l’edizione numero 55 non solo per il finale funerario a San Michele – peraltro suggestivo e decorato di belle musiche (il vecchio Stravinsky, uscito dalla fossa come si augurava Fausto Amodei a proposito dei morti di Reggio Emilia, ha battuto tutti e lo aveva già fatto nella serata d’apertura) – ma proprio per via di una certa aria di povertà e di stenti che si respirava nelle giornate dal 24 settembre all’1 ottobre.
Povertà di budget e di
allestimenti. Di idee?
Risposta ardua: alcune idee c’erano, a intermittenza. Però ci si
è divertiti quest’anno,
si è stati coinvolti e sollecitati. Qui e là. Andando a spiluccare un
pezzo e poi l’altro tra
i vari concerti. Difficile trovare l’occasione tutta di piacere e
prestigio: la monografia, la serata con un tema individuabile che
fosse significativa per
davvero.
L’eccezione? Eccola.
Senza tanti giri di parole: la serata più bella,
di gran lunga più bella,
del festival. È stata quella con protagonista lo Studio for New
Music di Mosca. Qui il direttore artistico in scadenza, Luca
Francesconi, ha fatto un colpo grosso. Ha pescato un cenacolo
di compositori, e il relativo splendido Ensemble, che costituisce un fortissimo segnale di fervore culturale, vivacità, spregiudicatezza, pensiero dissenziente. L’ex Grande Orso Rosso
sprigiona, quindi, grande musica non allineata. Nonostante
l’orrido Putin al potere, nonostante un regime che agli intellettuali migliori del paese riserva l’assassinio. Grande musica
mutante, sintonizzata sulle trasformazioni sociali-antropologiche in atto, libera dai dogmi delle scuole e dei sistemi, eppure ricca di sapienza e di capacità di riflessione. Quella che il titolo del festival, «Mutanti», prometteva.
Sappiamo troppo poco della musica d’oggi sul pianeta Russia, comprendendovi le repubbliche ex-sovietiche, per renderci conto di quanto lo Studio for New Music moscovita rappresenti un clima culturale diffuso, non solo musicale. Oppure sia un’isola felice. Certo non si attarda a rimestare le tradizioni nazionali e il folclore e nemmeno a rifondare il romanticismo o a crogiolarsi nella nuova/vecchia spiritualità. Queste
sono le prerogative degli autori portati all’attenzione mondiale dalle politiche del produttore discografico Manfred Eicher
con la sua ecm. I vari Silvestrov, Mansurian, Kancheli, Pärt. I
compositori mutanti dello Studio non si allacciano nemmeno
a Gubaidulina o Schnittke. Probabilmente rispettano e ammirano, com’è giusto, tutti questi importanti autori, diversissimi tra loro. Ma sono su altre lunghezze d’onda. Sono globalisti, dire che guardano all’Occidente e alla sua radicalità musicale, storica e non, sarebbe limitativo. Battitori liberi in cerca di nuova costituzione. Con ricca formazione. Ecco che cosa sono Vladimir Tarnopolski, Faraj Karaev, Alexey Sioumak,
Vladimr Gorlinsky, Nikolay Khrust e Olga Bochihina.
Peccato che l’unica donna del gruppo, in un festival po-
17
focus on / I racconti della Biennale
Mario Gamba
Biennale Musica
zione. Per ogni serata i testi erano limitati a quaranta righe,
senza eccezioni: una presa in giro non degna dell’importanza
dell’istituzione (e senza colpa alcuna di chi ha dovuto metterle insieme). Per un catalogo decente sarebbe valsa la pena di rinunciare a un paio di concerti, per esempio al tedioso Lamento di Medea del belga Wim Henderickx.
Di molti altri sarebbe stato giusto lasciare memoria anche
attraverso un catalogo adeguato. Per esempio hanno suscitato
vivo interesse gli autori russi presentati dallo Studio for New
Music Moscow diretto da Igor Dronov, in particolare Vladimir Tarnopolski (1955) con il suo Chevengur (2001) per soprano e ensemble su testi di Andrej Platonov (autore del romanzo che dà il titolo al pezzo).
Senz’altro da ricordare, tra le cose che ho potuto seguire (ho
Biennale Musica
focus on / I racconti della Biennale
18
vero (di nuovo!) di firme femminili – soltanto quattro, e la
classifica di genere vede al primo posto Eva Reiter, al secondo Francesca Verunelli, al terzo e al quarto (distanziate) Bochihina e Christina Athinodorou –, si sia mostrata ben lontana dalla frizzante/pensosa inventiva di tutti i suoi compagni.
Grazioso il suo Unter der Kuppel hervor (2009), tutto processi imitativi faciletti: giusto per una festa di comari. È Tarnopolski l’animatore dello Studio? Di sicuro è il fondatore. Ha
cinquantasei anni ma Karaev ne ha dodici di più, magari è solo
un simpatizzante e non un militante, magari è un ospite di riguardo. Tarnopolski è stato maestro, proprio nel senso di corso di studi, di Gorlinsky e di Khrust, i due più giovani (ventisette e ventinove anni), i due rumoristi, uno dadaista/futurista/situazionista (Ultimate Granular Paradise, 2008), l’altro tutte queste cose ma meno ribalderia e più propensione
elettronica (Eugenica. Italianishe concerto, 2009). Visto che la
personalità magnifica di Tarnopolski è piuttosto orientata alla reinvenzione delle avanguardie e neoavanguardie europee,
all’utilizzo dei depositi seriali in vista di inedite costellazioni
di punti sonori o brevi nuclei sonori (Chevengur, 2001), non
che sbeffeggiavano le rispettabili signore democrat di Se non
ora quando durante la grande parata anti-mister B del 13 febbraio. Una forma-pastiche con citazioni arcaiche-romantiche
e propositi descrittivi. Ma che equilibrio e maestria in questo
gioco pericoloso! Crumb a Venezia a tenere compagnia con
difficoltà alla sparuta pattuglia dei nordamericani, vivi o defunti. Vecchio vizio, pare cronico, della Biennale Musica questo del cordone sanitario eretto per tener lontani i compositori yankee. L’eurocentrismo integralista domina storicamente questa rassegna, Francesconi l’ha, se possibile, accentuato.
Eppure l’America musicale è un vero allevamento di mutanti. Oltre a Crumb, un assaggetto poco saporito dell’immenso
vagabondo Harry Partch nel concerto dell’Ictus Ensemble e
due volte Steve Reich nei concerti di Sentieri Selvaggi (buona
versione di Double Sextet) e di RepertorioZero (pessima versione di Different Trains): tutto qui.
E le novità assolute? Le due che si sono contese la palma della migliore sono di tutto rispetto. E non potrebbero essere più
diverse, pur avendo in comune il ristretto organico di archi.
Una del tutto acustica di Claude Lenners (tre parti di Zen
si può certo dire che gli allievi siano stati influenzati dal maestro. No, questi moscoviti vanno per la loro strada, realizzano
la famosa insorgenza trasformativa delle singolarità nella moltitudine, per stare al lessico filosofico/politico di Gilles Deleuze e Antonio Negri.
Sioumak è il costruttore metodico di un esito rivoltoso del
suo brano per ensemble Illusion of Concerto (2006). L’accelerando di cellule sonore concomitanti e sovrapposte può far venire alla mente uno scontro di piazza corale (ma non unisonico, non compatto, non pianificato) che sia stato anticipato
da attente riflessioni. Quanto a Karaev, invece, si è in presenza di un nuovo, nuovissimo Che fare. Disteso/pacato il suo A
Crumb of Music for George Crumb, lavoro che il compositore
ha scritto nel 1985 per ritornarci poi varie volte fino al 2004.
Un fermo clima di raccoglimento nella riproposizione di linee
melodiche dilatate e variate di volta in volta, con dentro improvvisi scoppi di voci, come l’irrompere di passioni disordinate nel pragmatico e persino malinconico discorso sulla possibile strategia sonora di ampia memoria e ampia visione.
George Crumb, appunto. Omaggiato da Karaev. C’era anche lui tra i protagonisti del festival. Col suo Black Angels che
non è un’opera nuova (è del 1970 e lo spunto extramusicale
viene dall’inferno della guerra in Vietnam) ma in compenso
è apparsa molto attuale con gli archi elettrificati del Quartetto della Fenice. Musica spudorata, musica «indecorosa e libera» come si proclamavano le ragazze con gli ombrellini rossi
Archiv), affidata al sapientissimo Quartetto della Fenice, per
l’occasione diventato trio, è risuonata come un soliloquio desolato, un misuratissimo (spoglio) inquieto ricercare con grande maestria e intensità emozionale. L’altra eloquentemente
elettrica di Jean-François Laporte (Soul Screams) è stata eseguita dall’Electric String Quartet di RepertorioZero. Cultura
hard-rock e noise alle spalle, sovracuti lancinanti, rombi, echi
free nell’anima, un crescendo assordante e tumultuoso magnificamente orchestrato con una sensibilità e una inventiva timbrica notevolissime. Per una volta, si può dire che la Biennale Musica ha mascherato bene la povertà in fatto di inediti. ◼
A sinistra, Harry Partch.
A destra, Steve Reich.
stival di musica d’oggi, dove si ritrovano quasi sempre gli stessi musicisti, le stesse scuole, le stesse idee. Alla sua quarta e ultima Biennale in veste di direttore artistico, Luca Francesconi
ha insomma saputo portare una ventata di novità, riaprire le
dogane un po’ chiuse a parrocchia dello scrivere musica oggi.
L’occasione gliel’ha fornita il tema stesso della Biennale, lo
sguardo a quelli che il compositore milanese definisce «Mutanti»: gente di confine, artisti ai margini, voci isolate e magari confuse ma certamente originali, musicisti irrequieti che
non si accontentano dello status quo, che battono sentieri accidentati ma vergini, che sanno che la musica non coincide necessariamente con l’orizzonte umano e sociale comune, chi
perché crede ancora nei valori della ricerca e della sperimentazione, chi perché mosso da una particolare urgenza espressiLuca Francesconi (foto di Mauro Fermariello).
19
focus on / I racconti della Biennale
C
laude Lenners (1956), Kent Olofsson (1962), Pasquale Corrado (1979), Vittorio Zago (1967), Giuseppe Chiari (1926), Giuseppe Cardini (1940), Wim
Henderickx (1962), Carlo Ciceri (1980), Yann Robin (1974),
Franck Bedrossian (1971), Roque Rivas (1975), Steve Martland (1959), Christina Athinodorou (1981), Olga Bochihina
(1980), Alexey Sioumak (1976), Nikolaj Khrust (1982), Vladimir Gorlinsky (1984), Daniele Ghisi (1984), Harry Partch
(1901), Eva Reiter (1976), Kurt Schwitters (1887), Hikari
Kiyama (1983): non si inizia un articolo con un elenco di nomi. Però l’elenco medesimo dice già molto dell’ultima edizione della Biennale Musica. Qualche lettore dirà che questo o
quello sono già apparsi nella propria play-list di ascoltatore di
musica nuova. Ma la verità è che si tratta di musicisti largamente sconosciuti in Italia. Autori diversi tra loro per provenienza geografica, storia, formazione e cultura, di cui non c’era traccia nei «soliti», e a dir la verità, un po’ imbalsamati fe-
va (che non significa possedere una determinata strategia comunicativa), chi appunto perché «ingenuo» nella sua condizione di isolato.
Naturalmente, il filo rosso della «mutazione» – non fosse
termine abusato, si potrebbe dire dell’essere «alternativi» –
reca con sé personalità, attitudini e sensibilità le più disparate,
e produce esiti contraddittori. Ma era tanto tempo che in una
rassegna di musica nuova non si sentivano sonorità così nuove, che non si vedevano nuove tecniche strumentali di produzione del suono, che non si percepiva un sfruttamento così radicale della tecnologia. Questa Biennale ha fatto capire che, a
fianco di un manierismo professionale ma accademico, ci sono giovani e meno giovani autori che hanno ritrovato il gusto
di passare ore e ore a sperimentare le infinite risorse di un computer, esecutori capaci di ampliare il vocabolario delle tecniche strumentali. Ha fatto capire che un’esperienza all’ircam
di Parigi non è una voce tra le tante di un curriculum ma una
occasione formidabile di ampliare la tavolozza dei suoni e il
modo di produrli. Ha fatto capire che in Russia ci sono musicisti capaci di rappresentare la loro realtà umana e sociale senza cadere nelle
pastoie del vittimismo new-age.
Ha fatto capire
che gli orientali non hanno più
complessi d’inferiorità nei confronti della tradizione europea
e sanno governare la tecnologia con un’abilità e una padronanza disarmante. Ha fatto capire che per essere colti e raffinati non è necessario produrre solo soffi e glissandi ma si può anche saturare lo
spazio acustico creando sonorità telluriche
e magmatiche e
che queste ultime possono avere un devastante
impatto drammatico (Romitelli docebat).
Il prezzo di tutto ciò lo si paga, va da sé. Alcune proposte d’ascolto – inutile dire quali – si sono rivelate deludenti o inconcludenti. Allargare il vocabolario non significa saperlo anche
sfruttare. Un certo virtuosismo esecutivo può rimanere fine a
se stesso. Ma di musiche interessanti se ne sono ascoltate eccome, musiche che interrogano perché in relazione con il tempo
presente e con le sue contraddizioni. ◼
Biennale Musica
Enrico Girardi
Biennale Teatro
focus on / I racconti della Biennale
20
Maria Grazia Gregori
A
l di là della curiosità, del piacere di avere assistito a una vera e propria Biennale, a un festival internazionale come da tempo non si vedeva sui palcoscenici
della città veneziana, quel che ci resta davvero di questa Biennale 2011 è innanzi tutto la sorpresa (ma di alcuni già lo si sapeva) di poterci confrontare con una generazione di talenti veri, che sono riusciti a mitigare qualche delusione. Peccando di
un qualche narcisismo mi è sembrato di cogliere in questa manifestazione la conferma di una scelta personale che è stata la
bussola del mio modo di pensare e di guardare il teatro come
luogo necessario in cui possa esprimersi un creatore, in questo caso un regista, in grado di filtrare, di prevedere, di condividere le spinte della società. La Biennale 2011è stata, infatti,
la Biennale dei registi, giovani e meno giovani leoni della scena europea e mondiale, realmente creatori in quanto non solo
in grado di mettere in scena con tutti i crismi uno spettacolo,
ma proprio inventandosi una via personale ai testi, in certi ca-
si drammaturghi di se stessi e soprattutto con l’autorità di coagulare un vero gruppo attorno a sé. L’incontro con una generazione di teatranti che va dai trentasette ai cinquantadue anni, che ha scelto, magari dopo qualche delusione, di stare giù
dal palcoscenico invece che su, di filtrare le proprie idee attraverso un’invenzione critica piuttosto che attraverso un personalismo attoriale sfrenato, è stata per me l’ulteriore conferma della necessità indiscussa della regia a qualsiasi latitudine,
in qualsiasi ambito di ricerca compresa quella della cosiddetta
scrittura collettiva. La bella notizia, dunque, è che all’interno
di questo festival inventato da Álex Rigola e fortissimamente voluto dal Presidente Paolo Baratta, ci si è trovati di fronte
all’invenzione di nuovi linguaggi, di nuovi rapporti ricercati
con un pubblico sempre numerosissimo, in larga parte giovane che ha anche affollato gli incontri mostrando il desiderio
di conoscere da vicino il percorso personale di questi artisti, la
loro via alla creazione, il senso di una presenza scenica, in cer-
ti casi spiazzante, del tutto originale.
In questa Biennale non a tema dove semmai il tema neanche tanto segreto era quello dei Laboratori di formazione, in questa pluralità di personaggi come sempre succede in un festival, il filo rosso unificante estremamente
discreto ma importante è stato dunque il percorso, il lavoro del e sul teatro, il laboratorio delle idee che questi artisti hanno saputo mettere in campo con lucidità disarmante. Lasciando però agli spettatori lo spazio altrettanto creativo di scoprire da vicino i meccanismi, le spinte creative
di un evento teatrale come, per esempio, è successo nella verifica vera e propria di questo lavoro compiuto con
attori scelti sul posto e con i quali si è lavorato nel corso dell’anno. Quei «Sette peccati capitali» del tutto nuovi
disseminati nel panorama veneziano, sorta di viaggio per
uno spettatore nomade e interessato che ci ha permesso
di cogliere il senso, l’incidenza in alcuni casi più profonda, in altri più sfumata, di un modo di lavorare, di creare
al di fuori del privilegio del proprio gruppo: un vero lavoro da «maestri».
Tornando al programma principale cioè agli spettacoli portati da questi registi con i loro rispettivi gruppi e teatri, non tutto ci è sembrato avere lo stesso valore anche
se i nomi in campo erano fra i più importanti di quelli che
offre la scena mondiale, almeno all’interno di una generazione (che in realtà ne accomuna due), del tutto intenzionata a riempire il gap di conoscenza, di potere che la
separa dai grandi maestri della scena internazionale che
oggi veleggiano ben oltre i sessant’anni. Per essere chiari: ho amato l’Amleto di Ostermeier, la grinta feroce, iconoclasta di Jan Fabre che in Prometheus si rivela grande artista totale mescolando le invenzioni visive alle ossessioni
degli attori nello scontro e nell’incontro spesso impossibile dei personaggi e dei corpi; la svolta di Romeo Castellucci che in Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, parte dal vioPrometheus Landscape ii di Jan Fabre.
da Stefan Kaegi, vincitore del Leone d’argento, Bodenprobe Kasachstan, nato dalle informazioni di chi abbia vissuto
l’esperienza del petrolio con testimonianze raccolte lungo
la catena del gigantesco oleodotto kasacho segna un momento di stallo nell’affascinante work in progress di questo gruppo. Vorrei invece segnalare quella che è stata per
me un’autentica scoperta: l’argentino Ricardo Bartís e il
suo Sportivo Teatral, un gruppo che lavora sul corpo, sul
ritmo, sulla contrapposizione fra i sessi e che fa con ironia e intelligenza, attraverso la metafora di uno sport, in
questo caso la boxe (El Box è il titolo dello spettacolo), un
racconto della vita e delle attese di un futuro che non ci
sarà, anzi di un futuro del quale una generazione si sente
derubata. E se il grande Nadj presenta qui un Woyzeck perfetto, dalle strepitose luci espressioniste, mentre in sce-
momentaneamente accidentato della parola ma anche la
perfezione disperata di una borghesia fasulla, in disfacimento come nel magnifico John Gabriel Borkman di Ibsen
e che nell’opera più famosa e più violentata di Shakespeare trova assonanze inquietanti e ironiche con la nostra realtà. E dove il rifiuto del protagonista verso il suo destino
che non riesce mai a trasformarsi in ribellione concreta
e consapevole viene dilatato dal regista al di là dei secoli
e dei generi grazie all’uso del mezzo cinematografico, un
doppio della realtà vissuta dai personaggi, una realtà che
si guarda e si analizza, ma senza trovare in sé la forza del
cambiamento che Ostermeier proietta sui nostri giorni,
così colmi di scontento, orrore e disincanto. ◼
Il Woyzeck di Josef Nadj.
21
focus on / I racconti della Biennale
na agiscono attori simili a un pugno di marionette biomeccaniche, di fantocci kantoriani che ci risucchiano in
un universo inquietante (uno spettacolo che però ha ormai quindici anni, lontano dalle rarefazioni attuali) e Virglio Sieni continua nel suo lavoro che va oltre i generi sia
nell’espressività che nella realizzazione, Jan Lauwers e la
sua Needcompany pur nella fedeltà a un rigore formale
ci presentano un cammino che ci pare ormai superato e
non certamente perché in qualche modo vi si sviluppi l’idea che il personale è politico e che dunque attraverso il
teatro si possa realizzare una superiore responsabilità, la
sola cosa che ci permette di essere liberi, ma proprio per
come il linguaggio di questo artista si insinui e in qualche
modo prevarichi i contenuti senza raggiungere il culmine creativo.
In fin dei conti il discorso più violentemente e artisticamente generazionale ci è venuto proprio da un classico come l’Amleto di Ostermeier, Leone d’oro a Venezia,
di cui avevamo già avuto modo di vedere non solo l’approccio violento dei corpi in grado di riempire lo spazio
Biennale Teatro
lento iperrealismo dei rapporti padre-figlio nel corso di
una malattia terminale per trasferirlo con la stessa intensità nel rapporto ambivalente e ambiguo che abbiamo con
il Figlio di Dio, il cui volto che giganteggia sul fondo della scena è quello del Cristo di Antonello da Messina. Diseguale anche se intrigante mi è sembrato invece Muerte y reencarnación en un cowboy di Rodrigo García dove dopo una prima parte fisica al cubo un po’ fine a se stessa, si
è passati alla seconda: un racconto inquietante e coinvolgente che non capisci dove voglia andare a parare, ma che
ti costringe a pensare e che non può lasciare indifferenti.
Decisamente deludente, almeno per me, come un saggio
di stile del tutto esteriore, mi è invece sembrato Desaparecer di Calixto Bieito, con qualche frettolosità paragonato a Quentin Tarantino, costruito attorno a testi di Edgar
Allan Poe e di Robert Walser da una pianista performer
e da un attore feticcio del cinema spagnolo, Juan Echanove, che andavano ognuno per conto loro. E, pur all’interno di un lavoro di grande interesse, fortemente collettivo, lo spettacolo messo in scena per i Rimini Protokoll
Biennale Teatro
focus on / I racconti della Biennale
22
Renato Palazzi
N
on ho avuto modo di seguire tutti gli spettacoli
presentati a questo Festival di Venezia. Il mio sguardo è dunque necessariamente limitato. Da quanto ho
visto, però, posso dire di averlo trovato complessivamente un
buon festival, tornato a un livello internazionale elevato, certamente superiore a quello delle ultime edizioni. Al di là della
qualità dei singoli spettacoli – che va inquadrata caso per caso
– erano comunque presenti alcuni dei registi più importanti
del momento. E questo, in un certo senso, ha costituito a mio
avviso il principale pregio, ma anche il principale limite del
programma messo a punto da Álex Rigola.
Mi spiego meglio: proprio questa sorta di aggiornata panoramica su un certo numero di talenti illustri, autentiche star
del rinnovamento teatrale degli ultimi anni, tutti debitamente in voga, tutti portatori di linguaggi dalla forte carica di rot-
tura col passato, mi ha dato l’impressione di una scelta di campo decisa ma forse un po’ facile, orientata a dei percorsi provocatori ma sostanzialmente collaudati. Ne abbiamo avuto delle conferme, non delle scoperte inattese. Si è puntato su un’offerta prestigiosa, sui risultati di una generazione teatrale oggi
affermata, più che su un progetto meditato che, come l’ormai
paradigmatica Biennale di Romeo Castellucci, evidenziasse
soprattutto delle correnti di ricerca e suggerisse dei temi di riflessione su certe tendenze del teatro.
Non voglio dire, con questo, che il programma sia stato costruito a tavolino, come a volte negli anni scorsi è sembrato
avvenire al Napoli Teatro Festival Italia. Credo, anzi, che Rigola abbia opportunamente invitato soprattutto degli artisti
che gli piacciono o gli assomigliano, degli spettacoli nei qua-
li lui probabilmente si riconosce. È tuttavia mancata, forse anche per motivi economici, l’idea caratterizzante, la creazione
che vedi qui in esclusiva e non potresti vedere da nessun’altra
parte, che è ciò che poi distingue un vero festival da una comune «vetrina» di spettacoli.
Per quanto riguarda i vari titoli in sé, mi pare che sia stata soprattutto la Biennale di Ostermeier, nel segno di quell’Amleto che non per nulla l’ha inaugurata: un bell’Amleto, un grande spettacolo da ricordare, molto forte, molto a effetto, molto
coinvolgente. Non so se si sia trattato anche di una grande regia (ammesso che la distinzione abbia ancora significato), nel
senso di una profonda lettura interpretativa del testo, che aggiunga qualcosa alla conoscenza che abbiamo di esso, come era
stato, per restare in ambito veneziano, l’Otello di Nekrosius.
Personalmente amo molto Jan Fabre: ho quindi assistito con
notevoli aspettative al suo Prometheus Landscape II, che mi è
parso affascinante a vedersi, ma davvero di difficile decifrazione. In un primo istante era prevalso addirittura un impulso di
rifiuto nei confronti di una composizione piuttosto confusa,
dove era arduo capire chi stesse estinguendo la fiamma liberatoria, e chi fossero invece le vittime della brutale repressione.
Poi, col passare dei giorni, mi è capitato spesso di ripensare allo
spettacolo, che mi ha lasciato degli interrogativi, il che è sempre segno della vitalità di una proposta i cui effetti non si esauriscono all’uscita dal teatro.
Ho francamente detestato Isabella’s Room di Jan Lauwers,
che ho trovato vecchio, pieno di sorrisini e ammiccamenti. Al
contrario di altri, mi ha fatto invece piacere conoscere direttamente il lavoro del capofila dei drammaturghi argentini, RiHamlet secondo Thomas Ostermeier
(foto di Arno Declair).
Sopra,
El Box di Ricardo Bartís
(foto di Andrés Barragán).
A destra,
Muerte y reencarnación en un cowboy
di Rodrigo García
(foto di Christian Berthelot).
focus on / I racconti della Biennale
23
Biennale Teatro
cardo Bartís: non è un regista raffinatamente estremo come gli altri,
non pratica particolari rivoluzioni stilistiche, il suo teatro è ispido,
vecchiotto, ma in El Box mi è parso
di cogliere un sentimento vero, carne e sangue della sua terra, calore e
passione umana e politica.
Ho sentito giudizi molto negativi
su Rodrigo García, una presa di distanze – dopo tanto successo – che
era quasi di prammatica. Io non riesco più a ragionare in questi termini, è meglio questo, era meglio l’altro. Secondo me un artista come
García ha un percorso tanto definito e ha tanto inciso sulle dinamiche
complessive della scena che la sua
opera va valutata nell’insieme, indipendentemente dalla singola scena del singolo spettacolo. Qui ho
comunque preferito la parte meramente corporea a quella verbale: e
non mi sembra che certe situazioni
mostrate solo in video, come quella
dell’uccisione della brioche, fossero
tali da lasciare indifferenti.
In definitiva, mi sembra che forse
questa Biennale abbia lasciato il segno, più che con quanto ci ha mostrato sera per sera, con le sue iniziative per così dire collaterali, i laboratori, gli incontri coi registi,
Young Italian Brunch, la panoramica sulle realtà emergenti italiane. Anche in questo caso va precisato che tutti gli spettacoli presentati erano stati già visti, che questa carrellata non ha riservato nuove sorprese: ma l’iniziativa è servita soprattutto a garantire ai cinque
gruppi selezionati un riconoscimento istituzionale e una valorizzazione su scala nazionale.
Molto utile è stato infine, dal mio
punto di vista, lo stage guidato da
Andrea Porcheddu che ha dato voce alle opinioni e alle analisi della
giovane critica, legittimando e portando pienamente alla luce i fermenti di un settore giustamente
scalpitante nel rivendicare più salde prospettive per il proprio impegno intellettuale. ◼
Biennale Teatro
focus on / I racconti della Biennale
24
Roberta Ferraresi
Una Biennale oltre il secolo breve della regia
ui palcoscenici dell’Arsenale o del Goldoni, in questa Biennale Teatro, più che vedere «soltanto» spettacoli, si sono potute accarezzare tante diverse idee di teatro,
che hanno saputo stuzzicare e spostare le sicurezze del pubblico. L’opportunità che ha segnato l’edizione 2011 sta, forse, nel clima di incontro e confronto che il direttore Álex Rigola ha saputo creare, riunendo a Venezia la varietà delle culture teatrali occidentali, anche con la ricca offerta di laboratori, il programma di incontri pomeridiani, le mattine di conferenza sulla scenografia. Fra la grande e varia peculiarità di ogni
spettacolo, un tratto comune è evidente: tutti gli artisti in programma sono registi, nel senso più stretto e «tradizionale» –
con figure come Castellucci o Fabre le virgolette sono d’obbligo – del termine; così, incontrare ogni sera lavori tanto diffe-
S
renti, diventa qui un’occasione per fare i conti con la situazione attuale del teatro di regia. Se la figura del regista nacque, come tutti i ruoli di mediazione, in coincidenza a quella profonda trasformazione socioculturale che vede l’avvento del moderno sistema del lavoro capitalista, che ne è ora del suo ruolo e delle sue funzioni? Oggi che il precariato si radica e il modello è quello partecipativo della rete; che crollano muri e banche, certezze e interi Stati – che ne è del «manager» del palcoscenico? Le regie, pur raffinatissime e solide, in programma alla Biennale paiono ribollire nella ricerca di una soluzione che
rilanci le istanze autoriali per approdare a nuove forme estetiche e politiche. I segni, moltissimi, si trovano un po’ ovunque
e curiosamente riecheggiano di sera in sera – dalla Spagna al
Belgio, dai lavori più maturi a quelli emergenti. Il primo tratto
comune è solidamente concettuale, e si ritrova nell’intenso la-
vorio intorno all’archetipo dell’eroe, sia esso classico (Prometeo), teatrale (Amleto, Woyzeck) o contemporaneo (i cowboy
di García, la boxe di Bartís). Ma l’utilizzo di tale «mitologia»
è tutto fuorché didattico; e anzi, riattivata, diventa innesco
sovversivo: come a fare i conti coi limiti della propria cultura,
ma in senso più interrogativo che dogmatico. Per Bieito la risposta è nell’astrazione, Bartís lavora all’elevazione della monumentalità quotidiana entro i canoni del dramma, García
rimaneggia sapientemente i limiti tra realtà e finzione in una
originale forma di straniamento. Mentre su tutt’altro registro
si muovono le tendenze mitteleuropee: lì il punto di vista unico esplode in una vertigine di prospettive multiple e simultanee, azioni frantumate e continuamente delocate; la maniacale stratificazione di segni e di sensi deborda dal palcoscenico e
sembra invocare – in Ostermeier, Fabre o Lauwers – una consistente partecipazione dello spettatore. «Fuck Freud», ripeteva fino allo sfinimento il prologo-manifesto nel Prometheus
di Jan Fabre, come a segnare la necessità di emancipazione del-
la fruizione rispetto alle grandi tradizioni ermeneutiche imposte dal Novecento occidentale. Altro elemento che ritorna
è il tentativo, spesso ironico, di scardinare i limiti della finzione teatrale, lavorando sui confini fra realtà e rappresentazione; il proposito, anche qui, sembra essere attivato nell’ottica
di stabilire un rinnovato rapporto con lo spettatore, rivendicando la profonda (non-)autenticità della condizione performativa e, con essa, la condivisione del processo creativo. È accaduto in tutti quei casi tesi a rompere la magia teatrale: esemDa sinistra a destra, e nella pagina a fronte,
tre spettacoli della sezione «Young Italian Brunch»:
Aure di Teatropersona,
Grimmless di Ricci/Forte (foto di Daniele e Virginia Antonelli)
e Sei gradi di Santasangre (foto di Laura Arlotti).
ti parte di una creatività vivacissima che, pur sfuggendo ogni
volta ai tentativi di categorizzazione (generazionali, geografici o estetici che siano), condivide il merito di aver saputo portare a teatro un pubblico nuovo – e ha rinnovato questa scommessa proprio nei giorni di festival, con un tutto esaurito quotidiano nonostante l’orario anomalo (a pranzo) e il decentramento del Fondamenta Nuove rispetto agli spazi Biennale. ◼
A destra, Bodenprobe Kazachstan di Rimini Protokoll,
regia di Stefan Kaegi (foto di Dorothea Tuch).
S
ono molti gli interrogativi sulla scena contemporanea che balzano agli occhi, avendo avuto l’occasione di osservare in pochi giorni il lavoro di alcuni dei registi più importanti del momento, com’è accaduto alla Biennale Teatro. Ma la questione cruciale, affrontata e risolta in vario
modo da questi nomi illustri, infondo rimane sempre la stessa: come può il teatro raccontare la realtà? Interrogativo reso più scottante visto che quello che ci circonda è sempre più
contraddittorio e difficile da comprendere. Senza dimenticare che il palcoscenico si trova circondato da quell’universo globale e medializzato sempre più invadente, dove gli schermi di
vari tipi e dimensioni ci rimandano quotidianamente gli in-
finiti frammenti delle tante tensioni internazionali, dei conflitti bellici, delle problematiche sociali. E quindi il teatro, che
può apparire più povero di mezzi rispetto alla comunicazione
virtuale, deve inventarsi per forza di cose una sua ragione e legittimarla attraverso una continua invenzione di modi, di stili, di atteggiamenti creativi. Ma è certo interessante che continui a farlo, e che anzi ci tenga a rivendicare il suo privilegiato ruolo di agorà, di luogo di incontro e di dibattito dal vivo.
Le risposte che ogni artista fornisce al problema sono, dunque, totalmente diverse una dall’altra, ognuna delle compagnie presenti propone una sua attenzione particolare a un tema incombente della nostra realtà contemporanea, ma la-
25
focus on / I racconti della Biennale
Antonio Audino
Biennale Teatro
plare è la scena-chiave del Concetto di volto di Castellucci, in
cui un attore sottolinea, svelandolo, il «trucco» spettacolare.
Ma anche tutte le volte (frequentissime) in cui vi è una figura
di mediazione, una sorta di «primo spettatore» che concretizza il rapporto fra scena e platea – come Jan Lauwers stesso
nel suo Isabella’s Room. Condivisione dell’autorialità con il
pubblico; demistificazione della finzione teatrale; frammentazione e policentricismo, reiterazione e ciclicità... Sembra –
dentro e fuor di Biennale – che la grande tradizione registica novecentesca sia andata a frantumarsi contro i cortocircuiti del postmoderno.
Tutta un’altra storia – in senso stretto, vista l’anomalia italiana nel teatro di regia – è la risposta dei gruppi italiani, programmati nel «festival nel festival» Young Italian Brunch.
Ed è stato prezioso poter vedere insieme le risposte alla crisi (della regia, dell’Occidente) dalla parte dei grandi artisti e
da quella di ensemble certo meno maturi, ma forse proprio
per questo forti di tutta un’altra spinta (estetica, politica): tut-
Biennale Teatro
focus on / I racconti della Biennale
26
vora poi all’elaborazione di una chiave scenica originale che
ne illustri le linee, ne racconti il cupo intreccio, che sia capace
di rimandare ai tanti riflessi sulla collettività o sugli individui
di quel particolare tema analizzato. Da questo punto di vista
la risposta più radicale e innovativa è senza dubbio quella dei
giovani tedeschi della compagnia Rimini Protokoll con Bodenprobe Kazachstan, dove la dimensione rappresentativa si
assottiglia fino a scomparire. Così il regista Stefan Kaegi non
«mette in scena» ma porta in scena persone realmente legate alle vicende odierne del Kazakistan, l’angolo più ricco del
mondo se non altro per i giacimenti petroliferi. Davanti a noi
operai che hanno lavorato alle estrazioni, camionisti, operatori economici del settore che espongono frammenti semplici e
diretti delle loro biografie, senza mai calcare su accenti drammatici, descrivendo la pura quotidianità che basta da sola a far
emergere il profilo di una terra in cui le potenzialità di ricchezza si trasformano in prevaricazione e oppressione, con un netto distacco tra chi fa le regole e chi le subisce. Con video altret-
zione realistica è labilissima, e, proprio nelle pieghe più sottili di quel racconto e soprattutto in una calcolatissima tensione ritmica dei dialoghi, il regista e gli attori fanno balenare coloriture grottesche e lievissime tonalità poetiche, sospendendo tutto in un sogno che naviga tra desiderio e quotidianità e
che sconfina in più punti oltre una esatta pantografia del reale.
E anche Thomas Ostermeier gioca su due piani, offrendo allo spettatore un Amleto che in fondo non ci dice molto di più
della tormentata figura del principe danese, ma che riesce a innervare tutta l’azione di una violenza e di una durezza che appartiene all’oggi, dove il volto livido e grottesco del potere si
mostra nei suoi tratti più biechi e più attuali, tanto che la metateatralità del testo non può che stralunarsi in clownerie, come se il nostro tempo avesse ormai inglobato una dimensione
assurda e grottesca oltre ogni limite.
Ma certo visti in rapida successione anche il pensiero e l’azione scenica di Rodrigo García e di Romeo Castellucci creano un potente cortocircuito. Entrambi assestati su un’ansia
tanto oggettivi e ingenui sufficienti a mostrare le misere condizioni di lavoro e di vita in quello che è invece un Eldorado
contemporaneo. Sembra puntare alla stessa concretezza di visione, ma con modalità del tutto opposte, il belga fiammingo Jan Lauwers con la sua Needcompany e il lavoro Isabella’s
Room, ma qui è tutto teatro, anche se con un continuo smontaggio dell’immedesimazione. Infatti anziché rappresentare
la storia di un’anziana donna cieca il regista ce la fa raccontare
da un folto gruppo di attori, giacché per lui esporre il percorso di una vita significa scomporne le dinamiche, evidenziarne le contraddizioni in una sorta di dibattito pubblico, arrivando persino a mostrare, attraverso due attori, le reazioni dei
due opposti globi cerebrali. Già perché, usciti dagli anni in cui
era il corpo con le regole della sua fisiologia a sedurre gli artisti
della scena e dell’arte contemporanea, oggi la direttrice sembra rivolgersi alla neurologia, scartando comunque la psicanalisi. Lo afferma Jan Fabre che però compone il suo Prometheus
Landscape ii ancora su linee «postmoderne» (anche in questo caso la definizione è sua) di allusioni simboliche e rimandi
criptici che fanno smarrire lo spettatore in un universo di segni, e proprio questa chiave sembra la più debole nel voler riportare durezze e violenze del mondo contemporaneo.
Ci pensa l’argentino Riccardo Bartís a offrirci una scheggia
di teatro vecchia maniera con il suo El Box che inganna volontariamente gli spettatori portandoli in quella modesta abitazione di Buenos Aires dove vive una campionessa di pugilato
ormai a riposo presa a rievocare i suoi passati trionfi. Ma la fin-
etica e di prospettiva di pensiero disegnano il loro teatro in
modi opposti, come accade per la scena rude dei due cowboy
dell’argentino-madrileno e per le algide calligrafie del cesenate, dove però le due direttrici opposte scandagliano entrambe,
come in un teorema filosofico trattato per assurdo, il più profondo dell’essenza dell’uomo, per scoprire possibili bagliori di
umanità e di moralità, e per riportare in superficie quel senso
profondo dell’essere cancellato dalla brutalità del presente. ◼
Isabella’s Room di Jan Lauwers (foto di Eveline Vanassche).
settoriali, la scuola, l’industria, la società civile e le amministrazioni locali. Modello che ha tra l’altro permesso una significativa crescita professionale interna.
La scelta di operare nel settore delle performing arts come
dicevo non è casuale, la storia teatrale italiana, la forte tradizione veneta, lo strumento teatro capace di una forte valenza
didattica sotto molti punti di vista: crescita personale, conodi Fabio Achilli
scenza del proprio corpo, il confronto e la relazione con gli altri. Conoscere e capire culture diverse. La capacità delle perelicemente stupito e orgoglioso del prestigioforming arts di interagire con il più ampio mondo dei saperi e
so premio riconosciuto alla Fondazione, mi sono chiedelle espressioni artistiche. La consapevolezza che «lo spettasto quale, oltre a una proposta culturale di qualità e a
colo» è punto di arrivo di molteplici lavori tecnici e artistici,
dei numeri incredibili, sia stato il fattore vincente del progetuna lunga fatica. «Il teatro può» (uno dei nostri motti) queto, provo a sintetizzarlo: la cultura è un investimento di lunga
sto e tanto altro.
gittata, non paga nel breve, parte da lontano, dalla formazioNon solo in Giovani a Teatro si concretizza l’agire della Fonne che deve sedimentare nel tempo. La cultura non deve essedazione nelle performing arts. Il sostegno alla Fenice, la Fonre un evento, uno spot, la cultura deve essere un’abitudine, un
dazione di Venezia è il primo socio privato. Con la Fondaziouso quotidiano.
ne Fenice è stata costituita la società Fest che si occupa della gestione dei servizi aggiuntivi e marketing del
teatro. La scuola di pedagogia di Vasil’ev, giunta al terzo anno, formare i formatori, questo l’obiettivo della scuola, formazione permanente
con ampia provenienza
internazionale dei partecipanti ai corsi. Tra le
iniziative promosse dalla Fondazione, e non ultima, la rivista sulla quale sto impropriamente
scrivendo, strumento di
approfondimento e informazione del settore
teatrale.
Lungo e ampio il percorso della Fondazione di Venezia a sostegno
del teatro, i tanti collaboratori coinvolti ogni anno nell’organizzazione
e gestione del progetto, i
tanti compagni di viagGiovani a Teatro non è un
gio di questi primi 10 anLa motivazione
evento. È una tournée lunga noni (2012), personaggi di
dell’Associazione
Nazionale
ve anni. È un festival del teafama e giovani alle pridei Critici di Teatro
tro che dura otto mesi all’anno.
me armi, operatori pubNon è nato per caso.
blici e privati. Con tutPer la Fondazione di Venezia
ti loro ma soprattutto
Straordinario nell’intuizione e nelle forme della pratica,
si tratta del riconoscimento a un
con i 60.140 ragazzi che
Giovani a Teatro è un progetto – giunto ormai al nono anno
nuovo modello di sostegno alla
hanno partecipato e vis– sempre stimolante su più fronti, per gli spettatori, per gli
cultura e al territorio, attraverso
suto teatro abbiamo vinartisti, sapendo suscitare vasta adesione, diffuso entusiasmo
una propria progettualità, trato il Premio della critica
nel pubblico, anche nuovissimo, e tra gli operatori teatrali.
Con la stessa Fondazione di Venezia certo assai lieta per il
sversale ai settori d’intervento,
2011. ◼
continuo, proficuo dialogo con tanti giovani e i centri culturali
capace di aggregare più soggetti,
del territorio veneziano e non solo. Biglietti a costo ridotto,
coordinandone le attività, adotcorsi di drammaturgia e scrittura critica, la sperimentazione
tando una filosofia imprenditodi una rivista per lo spettacolo dal vivo, articolate proposte per
riale nell’approccio organizzatila scuola e così via, sempre vigile, attento, prezioso lo sguardo
vo, consolidando le attività prosulle poetiche della contemporaneità con il coinvolgimento di
gettuali secondo una visione di
singoli artisti e compagnie di grande valore. Tra le molteplici
medio e lungo termine. Creanproposte anche la scuola di pedagogia di Vasil’ev cui hanno
do le condizioni per sviluppare
partecipato docenti di vasta fama e allievi di ogni parte
rapporti e collaborazioni interd’Italia.
Nel consegnare questo premio ci si augura che Giovani a Teatro
possa diventare modello per altre realtà, fino a comporre reti
Il momento della premiazione
che favoriscano, come a Venezia, questa emozionante crescita
alla Pergola di Firenze.
del pubblico e del sapere teatrale.
F
51
Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012
Giovani a Teatro
vince il Premio
della Critica 2011
«Essere umani»
52
Le nuove Esperienze
di Giovani a Teatro
R
di Leonardo Mello
itornano le Esperienze di Giovani a Teatro,
come di consueto articolate in svariati progetti e diffuse a rete nel nostro territorio provinciale. Pur nel noto clima di difficoltà economiche, la Fondazione di Venezia e
la sua società strumentale Euterpe si sono sforzate di garantire un programma di alto livello, che vede come punta di diamante la «non scuola» di Marco Martinelli (cfr. pp. 61-62 e
vmed n. 38, p. 77), impegnata sia nel benestante centro storico che in un’area periferica come Asseggiano.
Il riconoscimento ottenuto dall’Associazione Nazionale dei
Critici di Teatro, che al complesso del progetto Giovani a Teatro ha assegnato il Premio della Critica 2011, arriva, tempestivo, a confermare il valore di realtà guida di quest’iniziativa, la
sua esportabilità ben al di fuori dei confini del veneziano – un
frammento della motivazione, auspica che gat «possa diventare modello per altre realtà, fino a comporre reti che favoriscano, come a Venezia, questa emozionante crescita del pubblico e del
sapere teatrale» . Ma conferma implicitamente anche l’alto livello
di consapevolezza dello staff ideativo e organizzativo, che nel corso degli anni ha lavorato a costruire con sempre maggior precisione un disegno coerente e unitario,
a cominciare dalla ricerca, talvolta
impegnativa, di un tema unificante
(quest’anno è il felice e stratificato
sintagma «Essere umani»).
L’edizione 2011-2012 presenta
però delle caratteristiche in parte innovative. Grande attenzione è
infatti rivolta alle nuove generazioni: infanzia e adolescenza, pur non
esaurendo il ventaglio delle proposte, divengono interlocutrici privilegiate, punti di riferimento cui destinare, appunto, un nutrito fascio
di Esperienze. Ne consegue, ovviamente, una più stretta relazione con gli istituti scolastici, dalla
materna alla secondaria superiore,
compresi molti dei loro docenti. Ecco allora che, non potendo dar conto di tutti i laboratori programmati, nelle pagine che seguono abbiamo fatto una selezione indicativa, che va dal lavoro con i bambini dell’asilo a quello con il
periodo magmatico e turbolento dell’adolescenza. E per rendere più interessanti queste descrizioni abbiamo chiesto agli
stessi artisti di raccontarci le motivazioni da cui sono partiti e
le metodologie che utilizzeranno. (Per ogni informazione pratica consultare il sito: www.giovaniateatro.it). ◼
Essere umani
E
di Cristina Palumbo
ssere umani» è il tema ispiratore scelto per la
stagione 2011-2012 di Giovani a Teatro. È un invito che cerca di stimolare giovani e giovanissimi
a ri-conoscersi esseri umani e a riconoscere l’altro, a considerare l’altro considerando se stessi, a cercare sintonia ed equilibrio con la natura – minacciata sempre più da disastri provocati nel segno di un progresso ormai insostenibile – ma anche
a soffermarsi su cosa contraddistingue l’umano, mettendosi
in posizione di «ascolto». Per intraprendere questo percorso
verso una nuova comune sensibilità del contemporaneo serve
uno sguardo puro, innocente come quello che accende il gioco dei bambini o il talento degli artisti.
Il progetto quest’anno propone occasioni per condividere e
dare voce alla vitale energia «umana» e alla creatività, capaci
di smuovere anima e coscienze verso un pensiero comune che
metta l’arte tra le priorità di chi desidera la crescita culturale
di una comunità. In questa prospettiva si è ampliato e rafforzato l’obiettivo di coinvolgere nell’esperienza culturale dal vivo le giovani generazioni.
«
Oggi più che mai l’opinione pubblica è pressata dall’idea che
la cultura e lo spettacolo dal vivo siano superflui e debbano
essere evasione, intrattenimento, passatempo e non pensiero, coscienza, creazione. E che investimento sia produrre e soprattutto soldi, mentre Giovani a Teatro investe nell’arte, nel
pensare, nello scoprire, nell’inventare. Perseguendo una rinnovata idea di Cittadinanza Attiva di cui bambini, ragazzi e
giovani – e con loro insegnanti e genitori – possono essere protagonisti trovando nell’incontro con le arti dal vivo la pratica
e le regole dello stare insieme, il rispetto e la cura di sé e dell’altro, la solidarietà e la sussidiarietà di essere simili, lo stupore
e la consapevolezza del bello e del vero, la forza e il coraggio
dell’immaginazione e della creatività, l’armonia tra sé e con
gli altri, tra interno e esterno, tra fisico, emotivo e razionale,
tra ascolto e sguardo, tra interiore e materiale. ◼
di Gianni De Luigi
C’
è un duplice vantaggio nell’insegnare: mentre si insegna si impara! Diceva Roland Barthes:
«Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne
viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa e questo si chiama cercare». Perché «Capire il Teatro (l’arte dello spettatore bambino)» alla scuola materna o, meglio, scuola della prima infanzia? Con quali finalità? Perché il teatro? Mi sono posto queste domande, proprio per chiarire a me e a chi mi leggerà i come e i perché del portare ai bambini questa esperienza.
Per rispondere a questi interrogativi vorrei mettere in evidenza l’importanza e la delicatezza di affrontare i piccoli spettatori nella loro prima infanzia. A più riprese mi sono rivolto a
questo tipo di scuola dal 1978 in poi, scoprendo
molti degli strumenti per la preparazione degli
attori. Proprio per ciò a questi ultimi, come mediatori, propongo innanzi tutto un Master dove vengono sradicate gran parte delle convinzioni in cui indubitabili maestri, applicandole, sono
stati fraintesi. Gli attori devono partire dalla loro disponibilità ad informarsi, studiando e sperimentando le teorie di grandi scienziati e pedagoghi come Piaget, Vayer, Francesco Tonucci, il
grande e unico Gianni Rodari.
Capire le tappe evolutive del bambino permette agli attori di risalire alla propria infanzia, confrontare i ricordi, i condizionamenti. Ad esempio, osservando le reazioni emotive dei bambini
gli attori colgono come dai tre ai cinque anni si
fatica a scoprire l’organizzazione spaziotemporale, e come loro stessi l’abbiano persa per strada. I lavori di epistemologia genetica, e particolarmente quelli di Piaget, dimostrano che questo avviene solo a partire dall’esperienza vissuta,
con la partecipazione attiva della motricità corporea, e solo dopo si potranno elaborare le strutture fondamentali del pensiero astratto. Ecco come scoprire
l’unità e la globalità della persona umana. Oggi il corpo umano è esposto ma non capito. Ecco come scoprire le tappe evolutive del bambino, senza agire da adulto educatore e senza alcuna volontà di addomesticamento. Lasciarlo libero spettatore dello spettacolo vivo, libero di assistere alla nascita del suo
spettacolo, dove lui è testimone dei trucchi e dei gesti che vengono costruiti davanti ai suoi occhi. Quello che il bambino organizza a poco a poco, partendo dal suo corpo, è il suo mondo,
che confronta con quello dell’attore-personaggio. Si pensi che
il lattante non distingue le percezioni che gli vengono dal di
dentro da quelle che gli vengono dal di fuori ed è già spettatore
contemporaneo elettroaddomesticato. Il suo primo compito,
che è anche la base degli attori, è prendere coscienza dei limiti del «me» e del «non me». Più avanti il bambino si metterà in rapporto con l’immagine della madre, l’attore con quella del regista. All’inizio parla in terza persona per evitare di fare confusione. Così l’attore quando comincia ad affrontare il
personaggio. Più tardi, verso i tre, quattro anni trova il pronome «Io», identificazione che sarà compiuta all’età dei sei anni. Parallelamente, durante questo periodo organizza e struttura il suo corpo, distingue gli uni dagli altri: la sua testa, le sue
gambe, le sue braccia, i suoi piedi, più tardi il suo tronco, il suo
Gianni De Luigi durante un incontro di «Capire il teatro».
petto, il suo ventre, la sua schiena, le sue ginocchia, i suoi gomiti. Ma l’infante non resta fermo nel suo corpo, entra in relazione con il mondo degli oggetti e dei suoni e soprattutto con il
mondo degli altri. È a partire dall’organizzazione del suo corpo da questa immagine coerente di sé e in riferimento ad essa che va a poco a poco a ingrandire lo spazio che lo circonda.
Qui avviene la reciprocità con i giovani attori che confrontano il loro essere corpo nel passato, nel presente e nel futuro.
Tutto questo si deve opporre a quelle trasmissioni televisive
dove i bambini sono usati come cavie per adulti bambini e genitori osceni! Trasmissioni come «Ti lascio una Canzone» o
ancora «Io Canto».
Non si può rimanere nelle trincee intellettuali, cosa aspetta queste nuove generazioni! Qui non si tratta di libero arbitrio! Da un indagine risulta che per sette studenti universitari su dieci la casa del Grande Fratello e l’Isola dei famosi sono
la massima aspirazione.
Nove su dieci vorrebbero lavorare in tv davanti o dietro
i riflettori. Devo citare per finire un articolo di Aldo Grasso: «Ma Maria De Filippi è più maestra del famoso maestro
Manzi degli anni cinquanta-sessanta («Non è mai troppo tar-
di»)? La televisione delle origini è stata pedagogica e formativa, autentica alfabetizzazione, e se non tutti potevano avere
un televisore era anche un rito collettivo al bar o in patronato.
Bisognerebbe seguire “Amici” in tutte le sue declinazioni, per
capire che mai come ora la televisione insegue il sogno dell’insegnamento e di ogni propedeutica (avere una occasione di lavoro), attraverso lezioni di canto, ballo e recitazione, e insieme
intende esplicare metodi educativi (avere successo nel mondo
dello spettacolo), non riconosce pedagogie ufficiali, né materie inutili (come filosofia o storia del teatro e dell’arte) né voti, né debiti o crediti formativi. Si veste di “scuola democratica” dove tutti possono dire la loro, allievi, genitori, amici. Paradossalmente la tv (almeno quella generalista) funziona oggi come Istituzione. L’Istituto De Filippi si propone di educare a servire il mondo dello spettacolo, l’abbietto piacere di annullarsi da professionisti della tv ».
Bisognerà affrontare la scuola della prima infanzia con IpodIpad-Play Station-Internet-FaceBook e via dicendo… ◼
53
Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012
«Capire il teatro»
incontra
la scuola materna
«Essere umani»
54
Il Laboratorio
di Musica Creativa
I
di Alvise Seggi
l Laboratorio di Musica Creativa si rivolge agli
studenti della scuola secondaria di primo grado (ex scuole medie). Alla base c’è l’idea di promuovere un approccio
alla musica che valorizzi la creatività e le singole soggettività,
esulando dai tradizionali schemi di insegnamento.
I tre insegnanti coinvolti, cioè il sottoscritto, Jennifer Cabrera e Moulayé Niang, si muoveranno dalle esperienze e dai
background dei ragazzi, per portare alla loro attenzione, attraverso un percorso divertente e olistico, le infinite possibilità di
linguaggio dell’improvvisazione musicale.
I ragazzi impareranno, soprattutto, attraverso la loro immaginazione e creatività.
Un secondo e fondamentale aspetto dell’approccio del laboratorio, è quello della sua focalizzazione nel gruppo e nelle dinamiche d’interazione al suo interno. L’intenzione è quella
di incoraggiare i partecipanti a creare insieme della musica,
all’interno dell’ambiente scolastico, sicuro e familiare.
I ragazzi saranno guidati alla pratica strumentale attraverso
l’improvvisazione, la composizione, la conoscenza del contesto storico e l’apprendimento di brani e ritmi di repertori
musicali diversi. Si spazierà dalle musiche popolari europee ai
canti e ritmi africani.
Il canto e l’utilizzo delle percussioni saranno strumentali allo sviluppo di una sensibilità ritmica e di tutte quelle capacità fisiche, mentali e umane necessarie per la musica d’insieme.
Altra caratteristica metodologica del percorso didattico è la
trasmissione orale, in luogo di quella scritta.
I ragazzi saranno invitati all’ascolto dei brani, verrà chiesto loro di osservarne il movimento ritmico, comprenderlo a
fondo, memorizzarlo e infine riprodurlo con la sola voce e movimento del corpo. In questa fase acquisteranno la comprensione simultanea di diversi dati musicali: altezze, durate, accenti, fraseggio
e strutture.
Dopo aver acquisito le informazioni relative al
brano con la voce e con il corpo, agli studenti verrà
chiesto di affrontarne la realizzazione per mezzo di
strumenti musicali.
Le esperienze didattiche dei tre insegnanti coinvolti – Jennifer Cabrera, cantante e ballerina,
Moulayé Niang, percussionista, e me, contrabbassista e compositore – confluiranno, dunque, in un
approccio multidisciplinare, per il quale voce, suono e movimento del corpo formeranno un unicum
eseguito dai ragazzi in modo del tutto spontaneo.
Il laboratorio, oltre ai consueti strumenti musicali, ne utilizzerà come fonte sonora anche altri creati con materiali di recupero: carta, legno, plastica, corde, contenitori e quant’altro verrà reperito
dai ragazzi.
La costruzione del proprio strumento musicale
aiuta a conoscere meglio il processo grazie al quale
esso produce suono e la gamma delle sue possibilità. Il fatto, invece, di creare uno strumento da materiali di recupero, aiuta a sviluppare maggiori sensibilità e ricettività in relazione al mondo esterno.
Sapere che un tubo di gomma può trasformarsi in un flauto, o che una scopa può diventare una
spazzola da batteria, aiuterà i ragazzi a percepire la
realtà circostante come una maggiore fonte di stimoli e di possibilità.
In conclusione, il Laboratorio di Musica Creativa si propone di promuovere nel preadolescente, in
coerenza con i suoi bisogni formativi, l’acquisizione del piacere di esprimersi e di proporsi musicalmente. Si propone di aiutarlo a sviluppare un personale gusto estetico e la capacità di esercitare un
giudizio critico.
Il nostro laboratorio infine non è riconducibile
a una mera esperienza didattica musicale. È altresì un luogo dove lo stare bene con sé e con gli altri
rappresenta un valore da perseguire. Un momento
di crescita dove si impara a operare scelte consapevoli e dove ci si impegna a realizzarle.
Impegno e coinvolgimento nell’improvvisazione all’interno di un gruppo rappresenteranno, quindi, non solo un percorso didattico, ma anche un’importante esperienza umana e
sociale di condivisione. ◼
Alvise Seggi.
S
di Massimo Munaro e Chiara Elisa Rossini
i può leggere Romeo e Giulietta come il dramma shake- «I cinque sensi dell’attore»,
speriano che più direttaun laboratorio
mente mette in scena il monper il liceo «Ugo Morin»
di Mestre
do visto da occhi giovani.
Il mondo di Romeo e Giu- Dallo studio di Romeo e Giulietlietta, di Tebaldo e Mercu- ta nasce il laboratorio «I cinque
zio, è tutto bianco o tut- sensi dell’attore», ideato e coordinato registicamente da Massito nero, è tutto Capuleti o mo Munaro, curato da Chiara
tutto Montecchi, è tutto Elisa Rossini e Diana Ferrantin
amore e magia o violenza e e indirizzato al triennio del Lirabbia.
ceo Scientifico «Ugo Morin».
In questo mondo gli adul- Tema centrale del lavoro sarà la
ti non appaiono che come tragedia shakesperiana, analizprincipi censori, come por- zata e indagata nelle sue relaziocon la contemporaneità e con
tatori di valori antichi, im- ni
la realtà odierna, secondo l’usuaprescindibili, schemi e re- le procedura del gruppo di Rovigole vecchie e immutabi- go, riproposta in termini laborali, rancori dei tempi passati. toriali dopo il grande successo
E allora inevitabile arriva la
dell’Edipo dei Mille.
trasgressione, una ribellione che non si traduce in una contestazione esplicita, ma in un
amore proibito, che è forse il più alto gesto politico e di rivolta
che questi due giovani potessero compiere.
Romeo e Giulietta sono giovani, e quella che li muove è una
febbre di vita, in quello stato adolescente in cui tutto appare
possibile, in cui ci sembra che effettivamente la vita sia aperta
e che tutto possa cambiare.
Le loro passioni sono eccessive, totalizzanti, violente. Così il loro amore, improvviso. Così l’odio tra le
due fazioni, mortale. Tutto
il rancore e la rabbia si concentrano in un nemico: l’altro. Ecco allora che bisogna
fare capannello, squadra, e
la violenza sembra l’unica
cosa che possa tenere unito un gruppo contro l’altro,
l’unico strumento di sfogo e
di azione possibile nei confronti del mondo.
Ma queste enormi passioni dicotomiche, amore
e guerra, arrivano a toccarsi e a sciogliersi solo perché i
due protagonisti sono mossi dal coraggio, dalla follia e
dalla spensieratezza dell’adolescenza. E come sempre
accade, per risolvere ciò che
sembra impossibile risolvere è necessario compiere un
sacrificio: i due giovani eroi
hanno persa la vita, ma in cambio hanno vinto la partita costringendo le loro famiglie e l’intera comunità ad una riconciliazione. ◼
L’Edipo dei Mille del Teatro del Lemming
( foto di Chiara Elisa Rossini).
C
di Laura Moro
opyleft e copyright come yin e yang della
cultura web: sono i poli tra cui si sviluppa la tensione creativa delle nuove generazioni. Il giovane artista
di domani, intrinsecamente legato alla disponibilità di informazioni a cui attingere attraverso la rete, si allena fin da tenera età a premere «ctrl + c e ctrl + v». Anche il semplice fatto
di coltivare i propri gusti musicali abitua ben presto alla parola download, a maneggiare ed editare informazioni a proprio
piacimento. Alle associazioni mentali dell’utente si affiancano subito «associazioni web»: finestre e links che si aprono
automaticamente, in definiva, una disponibilità di informazioni senza precedenti. Così, oltre alla biografia dell’autore,
nelle prime pagine di una opera di domani, forse sarebbe interessante e curioso pubblicare la cronologia del suo portatile.
Ad influenzare più o meno coscientemente un nuovo artista ce ne sono altri mille, precedenti e contemporanei; le opere
d’arte e d’intelletto, si sa, ispirano altre opere. Se da una parte
è doveroso difendere la propria firma d’autore, da sempre, copiare, è «rendere pubblico». Soprattutto se le fonti sono riconosciute, è la cultura, anche quella passiva che nasce dal ricevere informazioni ad esserne arricchita.
Colpisce la notizia recente della causa in corso «Anne Teresa De Keersmaeker VS Beyoncè» aperta dalla coreografa
belga, dove la stessa rivendica l’abuso non concesso e non citato del proprio materiale coreografico all’interno di un video musicale della cantante pop. Ne consegue un’interessante «spread» per dirla in termini di social network di un nome dell’arte contemporanea quanto mai
significativo per gli esperti del settore, ma
molto poco noto in altri ambiti. Si tratta di un caso come tanti altri, ma parlando di danza contemporanea e cultura mediatica, ci sembra quanto mai calzante, sia
che i movimenti e le idee di Anne Teresa siano stati deliberatamente copiati, sia
che si tratti di poco più di una coincidenza da ascrivere piuttosto al sedimentarsi
di un certa estetica di movimento.
L’immediatezza e disponibilità delle informazioni creata dal web, la possibilità
di raccogliere e conservare quantità notevoli di dati in modo facile ha creato una
«biblioteca» tale, per cui creare oggi diviene spesso un lavoro di selezione e struttura, in cui l’autore è un architetto di elementi già esistenti, più che un chimico o
un alchimista. Ma in che rapporto sono
allora biografia d’autore e i suoi percorsi desktop? Formazione e informazione,
territorio e rete web.
Se l’ispirazione a creare, a scoprire, a dedurre poteva e può nascere in completa
solitudine, guardando l’orizzonte, la mela che cade, l’ermo colle, non nascerà anche aprendo uno dei link a random? È
corretto o solo retrogrado attribuire all’orizzonte, alla mela,
al colle, valenza poetica, demiurgica maggiore rispetto ad una
bellissima canzone, ad un capolavoro dell’immagine, ad un
cortometraggio, ad un’opera altrui?
Ma la domanda che preme è: Che fine ha fatto l’orizzonte
in tutto ciò?
55
Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012
Alcuni pensieri
Copyleft/Copyright,
su «Romeo e Giulietta» strategie concrete
per corpi e suoni
«Essere umani»
56
Poetiche dell’orizzonte a Cavallino Treporti
Con queste ed altre domande Art(h)emigra Satellite incontrerà il gruppo di giovanissimi (Scuole Medie) di Cavallino
Treporti per la durata di dodici settimane, durante il Laboratorio «Copyleft/ Copyright», tenuto dagli stessi fondatori di
Art(h)emigra: la sottoscritta, danzatrice e coreografa, e Matteo Cusinato, tecnico audio e musicista impegnato nella creazione di partiture per suoni concreti.
Un occhio di riguardo al contesto, all’ambiente come im-
pronta che forma, un orizzonte vicino e reale, quello della propria terra d’origine, versus Google Earth: la linea del mare, nel
caso di Cavallino Treporti, e sarà in riva al mare che si terrà la
performance di restituzione a fine progetto.
Fil rouge del laboratorio, minimo comune denominatore tra
mondo reale e web, le pressioni di entrambi rispetto alla definizione di essere umano nella continua tensione da parte di un
giovane a distinguersi dal resto, incluse le proprie origini, e
dagli altri e quella ad uniformarsi; l’esigenza costante di «essere uno» ed «essere parte di». L’ io-branco, da una parte, le
«compagnie», i social network, le squadre, i fun club e l’ioindividuo, unico ed originale, ma anche singolo e separato.
«Copyleft/ Copyright» è un progetto in cui la messa in scena diviene didattica, protagonisti i ragazzi stessi come inventori di nuove poetiche. Parleremo quindi del web e del mare e
lo faranno i ragazzi andando a caccia dei suoni concreti della propria Terra-Acqua creando il proprio strumento musicale originale usando tecnologia e realtà, andremo a caccia di gesti e gestacci, di atteggiamenti e pose, studieremo il vocabolario fisico del bullo e della bella, per inventare una grammatica di movimento che accolga ironizzando anche gli stereotipi
della multimedialità di massa da cui siamo spesso influenzati
inconsapevolmente.
«Copyleft – copyright» continua l’avventura di
Art(h)emigra Satellite iniziata nel 2008 quando un
gruppo di artisti «a corto di spazi performativi» decide di usare qualsiasi luogo in Veneto (ex discoteche,
capannoni, fabbriche attive) per la serie omonima di
performance dedicata alla composizione estemporanea musica – danza e al dialogo creativo, spesso in
collegamento streaming con altri luoghi europei e
collettivi omologhi. Si tratta dei musicisti e danzatori di «T(h)emigra Ensemble», fondato e composto
insieme alla sottoscritta da artisti italiani attivi e in
molti casi residenti all’estero, accomunati dal desiderio di fare arte nella propria terra. L’iniziativa approda lo scorso anno a Giovani a Teatro, con due spettacoli ed un laboratorio al Teatro Fondamenta Nuove, dove già centrale, all’interno del percorso, è l’uso
web come strumento d’arte e cultura.
Contemporaneamente, Art(h)emigra Satellite inizia a dialogare con un ambito diametralmente opposto: i gruppi di anziani, di varie case di riposo del Veneto che seguono i laboratori «Atletica del gesto».
Nascono due progetti-spettacolo : Col Tempo, in collaborazione con il musicista Mauro Martinuz, dedicato all’universo femminile e SPAESE con l’omonima partitura per suoni concreti e voci creata da
Matteo Cusinato. SPAESE porta in scena ventidue
«neo-attori del corpo» di età compresa tra i sette e i
novantaquattro anni d’età.
Subito dopo nasce «Natura artis magistra», serie
di laboratori in cui lo spettacolo incontra i luoghi e i
suoi abitanti, sviluppandosi in creazioni che sono avventure radicate, nate a partire dall’ambiente stesso,
piuttosto che da un’idea artistica o tematica a priori.
Di recente Matteo ed io abbiamo focalizzato ulteriormente la nostra ricerca espressiva sulla relazione
tra l’artista in scena e il suo contesto, con il progetto
«anCòr, 1 min. di assolo ad libitum con numero variabile ospiti speciali» in cui danza e musica di ricerca
incontrano gli abitanti e le figure tipiche di un luogo
particolare, di volta in volta diverso. ◼
Laura Moro con Paolo Bertoncello in anCòr (studio).
Foto di Valeria Cusinato.
U
di Elisa Dal Corso e Silvia Gribaudi
n laboratorio con gli adolescenti significa prima di tutto ascoltare il nuovo, sostenendo la costruzione del nuovo linguaggio fisico che il giovane
porta con sé. Ascoltare significa già creare una relazione in cui
i ragazzi si appropriano di uno spazio comunicativo partendo
dal loro linguaggio.
«Scratch» è un laboratorio indirizzato ai giovani dai quattordici ai diciassette anni volto alla realizzazione di una performance di VideoAction e di un videoclip. Consiste nell’attingere dal mondo giovanile sia quelli che sono i contenuti
dell’essere adolescenti, con tutte le contraddizioni tipiche di
questa età, le insofferenze e le inquietudini ma anche i piaceri
e i divertimenti, sia quelli che sono i mezzi comunicativi utilizzati dai giovani stessi, dal gesto amicale alle pratiche sportive
estreme come la brekdance, lo skate e la bmx, alla
giocoleria, eccetera. Un
laboratorio per entrare in
contatto, conoscere e conoscersi nel linguaggio
del contemporaneo, della sopravvivenza che i ragazzi esprimono, riscoprire i luoghi di aggregazione dei giovani e i nuovi codici di comunicazione fisica.
Il progetto vedrà la partecipazione di due danzatrici, Silvia Gribaudi ed
Elisa Dal Corso, che cureranno in particolare gli
aspetti di movimento, relazione, gesto e comunicazione espressiva del corpo, di Enrico Lucchese,
musicista e compositore con cui i ragazzi assaggeranno qualche nozione di composizione elettronica e con il quale progetteranno la colonna sonora della performance, e
di Fiorenzo Zancan, videomaker, che li accompagnerà attraverso l’uso della videocamera, alla realizzazione del videoclip.
Tale équipe lavorerà con i ragazzi attingendo al loro mondo,
sia in termini di idee e tematiche da toccare, sia in termini di
strumenti fisici, musicali e immaginifici da utilizzare, per realizzare un videoclip concordato fin dalle prime fasi con loro,
da diffondere e utilizzare per una performance finale di interazione video.
«Scratch» si pone come obiettivo di riuscire attraverso le
interviste e il lavoro con i ragazzi a far emergere da loro le tematiche per loro più rilevanti, cercando di andare in profondità rispetto a quelli che sono gli interessi generali e di «moda», per indagare il mondo sotterraneo che alberga dentro di
loro in una fase di costruzione e riconoscimento del sé. Ciò
che interessa portare alla luce e rendere condivisibile attraverso la forma artistica – e in particolar modo quella «protetLa performance Wait, da un’idea di Silvia Gribaudi
(foto di Andrea Macchia).
ta» dalla mediazione video, è proprio il fermento individuale di una fase dell’età strategica per il riconoscimento del proprio sé e della propria collocazione nel mondo, nella famiglia
e quindi nella società. Il tutto attraverso i codici messi a punto proprio dai ragazzi, da quelli fisici a quelli verbali, all’immaginario e al mondo di segni e simboli creati per e dai ragazzi. Il progetto nello specifico si svilupperà in tre fasi a partire da questo novembre per concludersi ad aprile 2012; in un
primo step l’équipe individuerà i luoghi di aggregazione informale dei giovani attraverso l’indagine e il confronto con le
strutture, istituzionali e non, adibite alle attività giovanili, come la scuola, le associazioni sportive e culturali, l’assessorato
alle politiche giovanili e così via per poter quindi identificare i
luoghi di aggregazione spontanea e informale, con l’obiettivo
di incontrare diversi tipi di gruppi come per esempio writers,
emo, punk, ecc. Da qui si procederà con una raccolta di informazioni nella quale individuare le tematiche che i ragazzi stessi porteranno come più interessanti e di loro rilevanza, e mettere a fuoco quindi la direzione del laboratorio.
Il secondo step sarà la realizzazione del laboratorio stesso,
che consiste in dieci incontri di tre ore ciascuno, nelle quali si
lavorerà fisicamente, musicalmente e attraverso la realizzazione di materiali video, per la costruzione della performance.
Lo scopo concreto del laboratorio è quello di realizzare un
video con i ragazzi coinvolti nelle interviste e/o altri ragazzi attraverso un confronto sulle tematiche emerse nel primo step,
in modo tale che siano gli stessi fruitori a prendere consapevolezza delle loro necessità ed esigenze.
Ultima fase consisterà nella realizzazione della performance
di VideoAction nella quale i ragazzi interagiranno fisicamente con la proiezione dei video girati in collaborazione e in accordo con il videomaker e che li vedranno come protagonisti
e ideatori al tempo stesso. ◼
57
Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012
Il lavoro sul video
di «Scratch»
«Essere umani»
58
Zanzotto e la genesi
di «Parlami ancora»
H
o conosciuto Andrea Zanzotto circa venticinque anni fa
quando, in occasione di uno spettacolo in cui dovevo recitare una
sua lunga poesia, mi dedicò un
po’ del suo tempo per insegnarmi
la pronuncia corretta di quella sua
lingua-dialetto, allora ancora misteriosa per me, nonché la melodia di una canzoncina che dovevo
eseguire e che risuonava dalla sua
memoria di bambino. Di quello
spettacolo ricordo soprattutto la
mia tachicardia che mi rimbombava nel cervello e che imponeva
con invadenza e indiscrezione il
ritmo alla poesia. Forse fu la soggezione nei confronti del poeta
che mi ascoltava in platea, forse il
terrore che la memoria mi tradis-
fali delle librerie. Ora è diverso, anche se la sua opera continua
a incutere reverenziale timore. Eppure la sua poesia, impegnativa e folgorante allo stesso tempo, consente vari livelli di fruizione riuscendo a toccare le corde più varie dei suoi lettori.
Nel mio caso toccò il cuore e il mio scrigno ludico: due aspetdi Stefania Felicioli
ti che considero primari. Lascio agli esperti tutti gli altri. Tuttora leggere le poesie di Zanzotto mi appaga, quasi un’ipnosi sonora e interiore, una sensazione che credo corrisponda a ciò che
prova uno strumentista che, innamoratosi di uno spartito, sente il
«La poesia di Zanzotto attraversa le arti»
bisogno irrefrenabile di suonarlo.
un progetto per il liceo «Montale»
di San Donà di Piave
È la forza della grande poesia. Per
Ispirato al lavoro di Stefania Felicioli, che in Parlami an- questo ho dovuto-voluto suonare
cora ha costruito uno spettacolo teatrale (diretto dal bravo ancora attraverso il mio povero e
Stefano Pagin, cfr. p. 63) a partire dalla parola di Zanzotto, nobile strumento che è l’arte teaè nato il progetto «La poesia di Zanzotto attraversa le ar- trale. Zanzotto, infine, mi appare
ti», ideato da Cristina Palumbo e Leonardo Mello e desti- come limpida figura di maestro in
nato al Liceo Classico «Eugenio Montale» di San Donà di un momento come l’attuale privo
Piave. Prendendo spunto dalla messinscena di Parlami an- di punti di riferimento. Egli mi si
cora, analizzata e raccontata agli studenti dagli stessi artisti,
è stato immaginato un percorso in più stazioni che – senza offre – quasi compagnia esistenfare ricorso a esperienze verticali ed ex cathedra – mettes- ziale – come àncora importante
se in relazione le liriche del maestro di Pieve di Soligo ad al- contro le odierne derive: riccheztre espressioni artistiche. Un iter a tappe che, a partire dal- za che dovrebbe essere a portata di
le poesie di Zanzotto, incontrerà, oltre al teatro, momen- mano di ogni giovane. La sua arte,
ti di improvvisazione sonora e grafica (in digitale), per poi il suo pensiero continueranno ad
affascinarmi per la sua instancagiungere al cinema e all’arte figurativa.
bile ricerca della verità, per il suo
se (era una poesia molto lunga), eppure, superata la crisi «cardiaca», ricordo con chiarezza che cominciai a galleggiare piacevolmente sulle parole e sui versi che mi abbracciavano amichevoli e quasi voluttuosi. Era la forza della grande poesia. Dopo quell’esperienza cominciò la mia curiosità per Zanzotto,
ma, se è vero che la poesia, almeno in quest’epoca, è considerata un’arte specialistica e di nicchia, quella di Zanzotto mi
sembrava esserlo ancora di più. Quella sensazione era rafforzata anche da una mera questione di accessibilità, poiché i suoi
libri non mi sembravano propriamente traboccare dagli scaf-
essere controcorrente anche nella controtendenza, per il suo
sgusciare via di continuo dalle classificazioni, per il suo isolamento comunicante caratteristico solo di grandi che, citando
non casualmente Emily Dickinson, hanno potuto «sentire la
vita con entrambe le mani» e farla sentire anche agli altri. ◼
Stefania Felicioli in Parlami ancora.
(foto di Alberto Brescia).
N
di Paolo Calzavara
ella nostra quotidianità spesso si dà scarsa importanza alle componenti sonore e acustiche in
cui siamo immersi, come se si trattasse di un «sottofondo scontato» di cui ci si accorge solo quando viene a mancare; una «texture invisibile» sulla quale poggiano le immagini del mondo che per abitudine, pigrizia o apprendimento,
siamo soliti vivere prevalentemente attraverso la vista.
Personalmente il suono lo cerco, ne ho bisogno. Ciò che mi
attrae di più è la capacità evocativa che esso possiede, il suo potere di farti rimanere dove sei portandoti altrove, nelle situazioni e luoghi più consueti, nell’immaginazione o nei più intimi pensieri. Una chiave di accesso a sé e ciò che ci circonda capace di offrire occasioni d’incontro con la realtà e spunti critici altrimenti non percorribili.
Nell’ambiente sonoro in cui siamo inclusi, ogni evento uditivo, sia esso naturale o meno, non si lega solo all’oggetto che ne
è fonte originaria, ma si costituisce di emozioni, di sentimenti, di elementi molto personali; si accompagna a vissuti, immagini e pensieri di luoghi, situazioni, esperienze. Il suono, nella sua naturalezza o plasmato creativamente, può quindi diventare riflessione, racconto o addirittura poesia, senza parole. Una lingua diffusa e ampiamente condivisa, espressione artistica capace di comunicare esperienze e idee superando molte distanze culturali.
Mettere in pratica con un gruppo di giovani un percorso che
sensibilizzi all’ascolto scegliendo come oggetto d’indagine il
suono dell’ambiente che ci circonda significa condividere la
ricerca e affinare una tecnica su un materiale che diviene immediatamente un linguaggio e un «idioma sonoro» comune
su cui è possibile riflettere, da cui spesso emergono nuovi elementi che ci stupiscono, nuove possibilità di accesso alla conoscenza e alla comprensione della realtà, ma con cui è anche
Paolo Calzavara.
possibile reinventare nuovi paesaggi, immaginare altre realtà.
È da queste premesse che nasce «Sonori Sguardi» il laboratorio che condurrò all’interno delle Esperienze di Giovani a Teatro, un percorso rivolto ai giovani attraverso il quale attivare curiosità e stimolo critico partendo dall’ascolto, dallo sviluppo della sensibilità nei confronti del suono e
dall’osservazione del territorio, sfruttando le possibilità date dalle nuove tecnologie, i linguaggi e le tecniche della musica elettroacustica.
La proposta emerge anche dallo scambio e dal confronto con gli educatori dell’équipe territoriale della Municipalità di Chirignago-Zelarino, area in cui si svolgerà il laboratorio, che vedono in questo percorso una possibile risposta
per incontrare i bisogni espressi dai giovani con cui lavorano.
L’équipe di educatori, sempre presente durante il percorso in
un’azione di coordinamento e supporto organizzativo e logistico, avrà modo di utilizzare il laboratorio come strumento
in più nella relazione diretta con i ragazzi sulla base delle proprie progettualità.
L’intento principale del progetto è quello di esplorare, osservare e analizzare il territorio in cui si vive in un processo di rilettura estetica e di rielaborazione creativa mediante
la raccolta e il successivo trattamento di documentazione sonora e fotografica; attraverso il lavoro di
gruppo, il materiale raccolto darà origine a una soundscape composition collettiva, su cui sarà montata una composizione fotografica.
Si parte dall’idea di sfruttare le nuove
tecnologie digitali come strumento per
mettere in atto un’esperienza creativa che
non richieda specifici prerequisiti tecnici
e che possa essere realizzata con elementi condivisi e alla portata dei ragazzi coinvolti. Per mantenere minima la soglia di
accessibilità, dando maggior valore alla
qualità dell’esperienza piuttosto che alla
formazione tecnica, per le riprese d’ambiente si ipotizza anche l’uso di periferiche digitali di consumo che, diffuse tra i
più giovani e da essi quotidianamente utilizzate, permettono di eseguire registrazioni audio e d’immagini a volte anche
di discreta qualità e sono estremamente
portatili, consentendo di registrare e fotografare anche al di fuori degli incontri
di laboratorio.
Mediante la sperimentazione e l’apprendimento di procedimenti della musica contemporanea ed elettroacustica, con conseguente arricchimento delle competenze sugli strumenti e sulle tecniche
utilizzate, «Sonori Sguardi» vuole essere soprattutto un’esperienza estetica che favorisca l’acquisizione di punti di vista differenti e l’interazione fra più codici, la conoscenza di forme
d’espressione artistica lontane da quelle generalmente proposte, sollecitando la capacità critica e di pensiero fondamentali
in un’epoca dominata dai mass media e incentivando la partecipazione agli eventi estetici e culturali.
Punto di partenza e di riferimento costante sarà l’ascolto come esperienza attiva, aspetto fondamentale dell’esplorazione
e interpretazione del dato sonoro, ambientale o musicale che
sia, strumento d’indagine sulla realtà che ci circonda, su di
noi, sull’essere umani. ◼
59
Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012
«Sonori sguardi»,
laboratorio
per riflettere sul suono
«Essere umani»
60
«La città
che pianta gli alberi»
di Tam Teatromusica
I
di Flavia Bussolotto
n occasione dell’Anno Internazionale delle Foreste proclamato dall’onu per il 2011 il progetto
«La città che pianta gli alberi» vuole far riflettere bambini e adulti sull’importanza del patrimonio ambientale per la
vita del nostro pianeta, utilizzando il teatro e la letteratura come strumenti di conoscenza.
A Elzéard Bouffier, «l’uomo che piantava gli alberi», è dedicato il nostro progetto. Conosciamo l’opera di quest’uomo
solitario attraverso il libro di Jean Giono. Sappiamo che con
tenacia e generosità ha seminato per trent’anni trasforman-
do un deserto in foresta. Il nostro desiderio attraverso «La
città che pianta gli alberi» è ambizioso: vorremmo seminare
con i linguaggi dell’arte e creare conoscenza, per poter raccogliere nel tempo rispetto per la vita. I linguaggi artistici proprio perché parlano con passione e comunicano alla mente attraverso la potente esperienza delle emozioni possono contribuire a creare una nuova visione del mondo, a sensibilizzare
verso comportamenti rispettosi della diversità, dell’ambiente, della convivenza. Nel progetto tutto ruota attorno alla visione di uno spettacolo teatrale, Canto dell’Albero, che ho realizzato insieme a Michele Sambin, anni fa, liberamente tratto
dal libro di Giono. Con lo spettacolo abbiamo voluto parlare
ai bambini – ma anche agli adulti – di natura. È importante
accorgerci che esiste, è importante sapere che attraverso lei noi
viviamo, è importante sapere che ne facciamo parte. E abbiamo scelto di parlarne attraverso la bellezza,
è un paesaggio estetizzante quello che viene creato sulla scena, perché riconosciamo
alla bellezza la forza di una comunicazione
positiva. Cinque repliche di Canto dell’Albero saranno offerte ai bambini delle scuole primarie di Mestre e Venezia, una replica
sarà dedicata alle famiglie, preceduta dalla
lettura di alcuni brani del libro di Giono,
un’altra ai soli insegnanti.
Ad alcune classi delle scuole primarie che
vedranno lo spettacolo sarà data la possibilità di partecipare ai percorsi di approfondimento previsti nel progetto: un primo incontro è dedicato a un breve percorso espressivo: partendo dalla lettura in classe di brani dell’Uomo che piantava gli alberi di Jean Giono, ai bambini verrà proposto di agire alcune azioni teatrali ispirate allo spettacolo e al ciclo vitale dell’albero. Con l’aiuto di un giardiniere nel secondo incontro i bambini del primo ciclo della scuola primaria faranno esperienza della semina e del concetto di dedizione come base per una crescita futura. I bambini
del secondo ciclo invece, con l’aiuto di un
esperto di botanica, saranno accompagnati nella scoperta delle piante che popolano
il nostro territorio.
Proprio perché riconosciamo all’arte la
capacità di creare coscienza critica e sensibile, una parte del progetto è dedicato agli
insegnanti e al loro delicato ruolo di mediatori nell’incontro del bambino con i
linguaggi teatrali e vedrà Mafra Gagliardi,
studiosa di cultura infantile e del rapporto
tra scuola e teatro, condurre un seminario
dal titolo Nella bocca dell’immaginazione,
la scena teatrale e lo spettatore bambino. ◼
Il canto dell’albero (foto di Elena Bazzolo).
S
di Mafra Gagliardi
e diciamo che il teatro è formativo, dobbiamo farlo come diciamo che è salutare una bella nuotata e non un’iniezione di calcio». Parola di Gian Renzo Morteo, uno dei massimi studiosi di educazione e teatro. E
invece spesso la scuola sembra privilegiare l’aspetto «iniezione»: mette l’accento cioè sul contenuto di uno spettacolo per
utilizzarlo in chiave didattica («fate il riassunto!»). Ma il teatro quando entra nella scuola significa molto di più: corrisponde all’irruzione dell’arte nel processo educativo, a una esperienza provocatoria suscitatrice di stupore, a un intreccio di linguaggi che alterano gli abituali schematismi cognitivi e portano a deragliare dai percorsi consueti della percezione. Al linguaggio denotativo, proposto abitualmente dalla scuola, si sostituisce un
linguaggio connotativo, affidato alla metafora, alla metonimia,
al simbolo. A un sapere classificatorio si sostituisce un’ambiguità fantastica in cui non vi è un rapporto univoco tra significante e significati.
Non si può quindi adottare – in particolare nei confronti di
uno spettacolo visionario e poetico come Il canto dell’albero – i
consueti percorsi di tipo logico/denotativo, perché non consentono di accogliere tutte le componenti emotive, percettive, immaginative che caratterizzano l’opera e che – se accolte nel loro spessore – introducono alla sfera della creatività. Si sta infatti diffondendo a livello pedagogico l’idea che esista una forma
di creatività – per così dire – «passiva» propria di chi fruisce di
un’esperienza estetica e ne viene stimolato in tutte le sue potenzialità. Purtroppo la nostra cultura che ha alle spalle una pratica artistica millenaria non ha ancora introdotto nella scuola una
valida pedagogia dell’arte, tant’è che molti insegnanti si trovano
sprovvisti di ogni strumento quando affrontano con i loro alunni un’esperienza di tipo estetico. Risulta importante perciò una
preparazione dei docenti, in quanto insostituibili mediatori tra
i loro alunni e l’esperienza teatrale.
A questo scopo è stato progettato un laboratorio in due incontri, con l’obiettivo di dare agli insegnanti la possibilità di sperimentare il ruolo di spettatore in prima persona, al di fuori di
schemi intellettualistici e preoccupazioni didattiche, attraverso
una rappresentazione dello spettacolo, riservata esclusivamente a loro, prima che vi accompagnino i loro alunni. Potranno così sperimentare l’immediatezza e la ricchezza delle percezioni
e delle emozioni suscitate dalla scena, riscoprendo un atteggiamento di disponibilità totale nei suoi confronti, simile a quella
infantile. Successivamente, una pratica di brainstorming porrà le
basi per un incontro con l’autrice dello spettacolo. Potrà verificarsi così uno stimolante scambio di punti di vista e di approfondimento della lettura dello spettacolo stesso: le strade dell’ermeneutica possono aprirsi verso percorsi ulteriori.
Si tratta insomma di indurre un atteggiamento ricettivo nei
confronti dello spettacolo, che dai docenti passerà ai loro alunni, i quali saranno guidati a cogliere nell’opera – attraverso una
serie di proposte – quegli stimoli, quelle suggestioni, quelle metafore che possono innescare processi creativi negli spettatori.
Perché «leggere la rappresentazione teatrale, imparare a leggerla, non è solo affinare un consumo artistico, ma inscriversi in
un’invenzione produttiva» (Paul Ricoeur).
A distanza di una decina di giorni dalla visione dello spettacolo e dall’attività svolta con i propri alunni, i docenti torneranno
a incontrarsi per analizzare insieme i materiali raccolti: un’occasione per rendersi conto della risposta della propria classe, per
confrontarsi con i punti di vista dei colleghi, per formulare progetti più complessi.
Insomma, una salutare «nuotata» (per riprendere la metafora di Morteo) nei golfi dell’immaginario, seguendo i suoni, i colori, le visioni suscitate dalla magia del teatro. ◼
«
Albe a Venezia
61
(tra «Avaro» e non scuola)
L
di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari
e Albe tornano a Venezia. Dopo un decennio, o
quasi. Tornano con Eresia della felicità a Venezia, prodotto dalla Fondazione di Venezia, che metterà insieme
sulla scena tanti adolescenti di diversi istituti tecnici di Asseggiano e del liceo Marco Polo, a giocare da ottobre a fine marzo con i versi incendiari di Vladimir Majakovskij, e per felice coincidenza tornano anche al Goldoni nella stagione dello
Stabile, dall’11 al 15 gennaio, con L’avaro di Molière. Sarà un
modo a noi caro di stare, so-stare in una città, lasciando una
traccia forse più profonda, legando il lavoro della compagnia
all’attività con gli adolescenti, relazionandoci con loro come
guide nei laboratori e come attori sul palco.
Venezia e Ravenna sono legate da sempre: dalla Storia, dallo stesso mare, da una comune vocazione che guarda a oriente.
Dall’essere città di visioni antiche, dove l’immaginario si plasma sullo specchio labirintico dell’acqua e dei suoi riflessi. Invitati dall’allora direttore della Biennale Teatro, Giorgio Barberio Corsetti, realizzammo negli anni a cavallo del secolo il
«Cantiere Orlando», un cantiere di opere e laboratori sui poemi cavallereschi del nostro Rinascimento, dal Morgante del
Pulci all’Orlando innamorato del Boiardo, dal Baldus di Teofilo Folengo all’Isola di Alcina, reinvenzione di Nevio Spadoni in lingua romagnola della maga ariostesca. Indimenticabile il laboratorio tenuto nell’isola di San Giorgio con una squadra di giovanissimi attori venuti da tutt’Italia e che dieci anni
dopo sono alla testa di compagnie e scuole teatrali, realizzato
dentro una onirica piscina senz’acqua e tutta mosaicata, circondata da luminose vetrate: un vero palazzo di Alcina, magico come quello che campeggia nell’Orlando furioso.
E anche quello su Molière è stato un cantiere di lavoro, sviluppato nell’arco del 2010: gli autori sono in genere per noi
L’avaro di Molière,
regia di Marco Martinelli per il Teatro delle Albe.
(foto di Claire Pasquier).
Giovani a Teatro: le Esperienze 2011 - 2012 / prosa
«Preparare» i docenti
prosa
62
degli universi a più strati che amiamo indagare in più direzioni. Dopo il detto Molière, prodotto dal Manège di Mons, una
drammaturgia originale che reinventava l’infanzia di Molière, il suo nascere al teatro nella turbolenza delle Fiere popolari, abbiamo affrontato L’avaro come un testo scomodo nel
suo essere risaputo fino alla noia, nell’aver visto parecchi allestimenti in cui il burbero Arpagone era solo una innocua macchietta, dimentichi della crudeltà con cui l’autore ne ha disegnato la vicenda. L’avaro è una commedia sul denaro in cui il
denaro non c’è. Se ne parla sempre, ma non c’è. Meglio: non si
vede. È invisibile, come un dio. È il dio di quella miserabile religione di cui Arpagone è l’officiante. È un fantasma che circola tra gli esseri umani in carne e ossa. È sottoterra, sepolto
in giardino. Visibili sono gli esseri umani, anche troppo. Cercano di nascondersi gli uni agli occhi degli altri, ma non ce la
fanno. Il privato e il pubblico, il segreto e lo spiattellato, sono
inesorabilmente confusi. Non è possibile nessun genere di intimità. Nella «casetta» di Arpagone, tutti spiano tutti. Co-
me nella casa del Grande Fratello.
Questa visione ci ha aperto le maglie del testo; ci ha permesso un ingresso in profondità, la possibilità di rileggere il «classico» in una direzione inedita. Dentro questa casa-scena che
porta in sé il riflesso della società, è emersa la figura di Arpagone-Ermanna con il microfono in mano, voce del padrone,
potere avido e burattinesco. Lo spazio si è fatto allegoria di un
mondo, del nostro mondo, del vivere incivile degli italiani di
inizio millennio. L’avaro è tutto questo insieme, il fantasma di
Molière che prende a calci la nostra mancanza di democrazia
e di vita autentica. In questo prendere a calci, il disegno della
luce è fondante: la vicenda è svelata, alla lettera, da una sintassi della luce che alterna periodi di luce piena, che straborda in
sala, in cui sono immersi attori e spettatori, a voragini di tenebre profonde, in cui i viventi sono larve appena accennate, fantasmagorie. La luce ci rivela che stiamo mostrando insieme i
due poli indivisibili: l’esteriore, la società, ma anche l’interiore, l’intimo della nostra anima.
Guardiamole da vicino, queste maschere. Arpagone è l’avido, l’ossesso. E gli altri? Non si tratta di leggere al nero Molière, lo si sa da un pezzo, Molière è cupo come la notte, come
il manto di Scaramouche, e soprattutto in questa commedia
che Copeau definiva «la più dura, la più cattiva». Prendiamoli uno a uno, a partire dai giovani: Valerio è un ipocrita dichiarato, teorizza la necessità del «leccare» il potente di turno,
a fin di bene s’intende. Cleante è un cinico vanesio, sogna di
uccidere il padre ed ereditarne il capitale (e l’avarizia). Elisa e
Mariana sono le vittime più o meno consenzienti, più o meno
silenziose, dentro a una condizione subalterna che accettano
passivamente. Frosina e Saetta, servi che ambiscono al denaro del padrone. Tutti desiderano lo scettro del potere, nel nostro caso quel microfono che amplifica la «voce del padrone»,
tutti vorrebbero sostituire il cupo signore di quella casa, o accomodarsi a fianco di un nuovo reggente. Arpagone è un piccolo sovrano con la sua corte popolata di larve, la sua voce troneggia, ma a differenza di Macbeth non verrà sgozzato, dato
che il finale non può che essere lieto, e qui è fin troppo di maniera, con modi che echeggiano i finali posticci e avventurosi di tanta tradizione, e alle nostre orecchie richiamano molto
da vicino i ricongiungimenti familiari che ci ammannisce in
serie la televisione.
Forse solo Mastro Giacomo prova a portare una nota diversa: la tenerezza della ragione. In altre commedie di Molière sono le serve che cercano di far ragionare il loro maniaco, ossessivo padrone. Ma la nota apparentemente diversa di Mastro
Giacomo nasce da un impasto di pavidità, rassegnazione, invidia, che la rende alla
fin fine poco credibile.
Se tutti spiano tutti, tutti sognano tutti. In questa
commedia tutta cose, concretezza, cifre, calcoli, c’è
un fondo misterioso. Che
forse è questo essere sdoppiati (tranne Arpagone), fra
ciò che si dice di essere e ciò
che si è. Il mistero sta forse
in quel che sogniamo di noi,
in come sogniamo gli altri.
Nel potere che il nostro corpo subisce, che il nostro corpo esercita, fin dentro ai sogni, quelli notturni e quelli
a occhi aperti. I fantasmi dei
sogni. I simulacri. I fantasmi dei corpi. Ma appunto
non è un simulacro, un fantasma, l’invisibile dio denaro al centro di ogni frase? In principio era il soldo. E accanto
al soldo, prima o dopo, il sesso, l’eternità in forma di prostituzione. Dietro Molière, fa capolino Sade. Meglio, è Molière che
occhieggia divertito dietro la plumbea prigione di Sade.
Se il denaro è la «prostituta universale», come non può non
essere un potenziale bordello questa casa-casetta-palazzo di
Arpagone? A dispetto del suo puritanesimo economico, lo è.
La modalità di reclutamento di Mariana da parte di Frosina è
antica come il mondo, e sempre attuale.
Se tutti sono avidi e avari, è sorprendente il monologo di Arpagone che chiude il quarto atto. Nel suo andamento psichico,
in quel parlarci nel buio, dal buio: «Povero mio denaro, amico mio caro... se tu non ci sei... è finita per me, non so che cosa fare al mondo». Arpagone ci parla come un innamorato. Il
malvagio estrae dalla sua perdita, dalla sua ferita, degli accenti toccanti. Ricevendo risatine, commiserazione e qualche impensabile sentimento di tenerezza, chiede al buio della platea
di essere «resuscitato».
Da due stagioni portiamo in giro il nostro Avaro per l’Italia.
Non abbiamo alterato la traduzione di Cesare Garboli, e i cinque atti ci sembrano scritti ieri. Oggi. ◼
L’avaro di Molière,
regia di Marco Martinelli per il Teatro delle Albe
(foto di Claire Pasquier).
VeneziaMusica e dintorni
80
Bimestrale di musica e spettacolo
Come abbonarsi:
tramite versamento sul conto corrente postale n. 62330287
oppure
con bonifico bancario anche via internet iban IT 44 J 07601 02000 000062330287
indicando la causale del versamento
Prezzo unitario: 5 euro
Abbonamento ordinario a sei numeri: 25 euro
Abbonamento sostenitori a sei numeri: 40 euro
Per informazioni:
tel.
041 2201932
fax
041 2201939
[email protected]
webwww.euterpevenezia.it
Dove va il teatro pubblico? (parte seconDa)
Abbado – Ambrosini – Angelini – Barbieri – Bettinello – Bevilacqua – Bino – Cagli – Capitta – Carlotto – Castellani/Raimondi
Cherubini – Chiarot – Colombo – Curino – Dall’Ongaro – De Capitani – De Ana – Dellbono – De Martino – Donati
Estero – Fedele – Fofi – Foletto – Gallarati – Gallina – Girardi – Girondini – Juvarra – Lanza Tomasi – Malaguti – Malosti
Mancuso – Mangolini – Marchiori – Martone – Menni – Messinis – Minardi – Munaro – Musu – Nanni – Orselli – Pacor
Paganelli – Pastore – Ponte di Pino – Ricci/Forte – Rizzardi – Saravo – Segre – Solbiati – Syxty – Vacchi – Vacis – Vallora – Vlad
Anno VIII - gennaio / febbraio 2011 - n. 38 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - marzo / aprile 2011 - n. 39 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - maggio / giugno 2011 - n. 40 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - luglio / agosto 2011 - n. 41 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - settembre / ottobre 2011 - n. 42 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
Anno VIII - novembre / dicembre 2011 - n. 43 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241
VeneziaMusica e dintorni è acquistabile presso la redazione (Dorsoduro 3488/u, Venezia) e nei seguenti punti distributivi: Libreria Al Capitello,
Cannaregio 3762, Venezia; Libreria Cafoscarina, Dorsoduro 3259, Venezia; Libreria Goldoni, San Marco 4742, Venezia; Bookshop del Teatro
La Fenice, San Marco 1965, Venezia; Bookshop della Scuola Grande di San Rocco, San Polo, Venezia; Libreria Ub!k, Corso del Popolo 40,
Treviso; Bookshop del Teatro Olimpico, Stradella del Teatro 8, Vicenza.
Dove va il teatro pubblico? (parte prima)
Alberti – Alonge – Augias – Barberio Corsetti – Barbiani – Battistelli – Beltrametti – Bentivoglio – Bentoglio – Bernardi
Bianconi – Bossini – Brunetti – Bussotti – Cacciari – Cappelletto – Castellucci – Cavalcoli – Celestini – Cirillo – Cognata – Cordelli
De Incontrera – De Luca – De Luigi – De Michelis – De Simone – Donin – Erba – Escobar – Ferrone – Francesconi – Gassman
Gleijeses – Gregori – Guccini – La Ruina – Latella – Lavia – Le Moli – Lievi – Lissner – Longhi – Marinelli – Martinelli/Montanari
Mazzonis – Merlo – Montecchi – Moreni –Morelli – Mosca – Napolitano – Nicolodi – Nieder – Ortombina – Palazzi – Palumbo
Pestelli – Petazzi – Pinamonti – Pizzi – Porcheddu – Punzo – Puppa – Purchia – Quaglia – Repetti – Restagno – Rossi – Russo
Sambin – Santanelli – Scabia – Servillo – Tiezzi – Trevisan – Tutino – Valenti – Ventrucci – Vergnano – Vianello – Villatico – Violante
Le collaborazioni di questo numero
• Fabio Achilli (p. 51) – Direttore della Fondazione di • Roberta Ferraresi (pp. 24.25) – Critico teatrale
Venezia
• Mafra Gagliardi (pp. 60-61) – Scrittrice – Studiosa di
• Claudio Ambrosini (p. 37) – Compositore – Fondatore
cultura infantile
dell’Ex Novo Ensemble
• Mario Gamba (pp. 17-18) – Critico musicale
• Antonio Audino (pp. 25-26) – Critico teatrale
• Sergio Garbato (p. 47) – Critico musicale
• Gualtiero Bertelli (pp. 48-49) – Cantautore
• Tommaso Gastaldi (p. 46) – Giornalista freelance
• Enrico Bettinello (p. 48) – Giornalista – Critico
musicale – Direttore artistico del Teatro Fondamenta • Enrico Girardi (p. 19) – Critico musicale
Nuove
• Maria Grazia Gregori (pp. 20-21) – Critico teatrale
• Francesca Bianchi (p. 69) – Studiosa di cinema
• Giovanni Greto (p. 45) – Critico musicale
• Flavia Bussolotto (p. 60) – Attrice di Tam
Teatromusica
• Silvia Gribaudi (p. 57) – Coreografa – Danzatrice
• Laura Moro (p. 55) – Coreografa – Danzatrice
– Direttrice artistica della compagnia di danza
contemporanea «i.c.p. Il Corpopensante» e di
«T(h)emigra Ensemble, collettivo danza – musica»
• Massimo Munaro (p. 55) – Regista – Fondatore del
Teatro del Lemming
• Stefano Pagin (p. 55) – Regista
• Renato Palazzi (pp. 22-23) – Critico teatrale
• Cristina Palumbo (p. 52) – Consulente per le iniziative
teatrali Euterpe Venezia - Fondazione di Venezia
• Paolo Petazzi (pp. 16-17) – Critico musicale
• Andrea Porcheddu (pp. 71-72) – Critico teatrale
– Docente di Metodologia della critica allo iuav di
• Paolo Calzavara (p. 59) – Artista sonoro
• Filippo Juvarra (p. 38) – Direttore degli Amici della
Venezia
Musica di Padova – Docente al Conservatorio «Cesare
• Roberto Canziani (p. 27) – Critico teatrale
Pollini» di Padova
• Chiara Elisa Rossini (p. 55) – Attrice del Teatro del
Lemming
• Paolo Cattelan (pp. 35-36) – Musicologo – Presidente • Giuseppina La Face Bianconi (p. 70) – Ordinario
degli Amici della Musica di Venezia
di Musicologia e Storia della musica e Direttore del • Mirko Schipilliti (p. 39) – Musicista – Critico musicale
Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università
• Massimo Contiero (p. 32 e p. 73) – Musicologo –
di Bologna
• Alvise Seggi (p. 54) – Contrabbassista – Compositore
Direttore del Conservatorio «Benedetto Marcello» di
Venezia
• Andrea Oddone Martin (p. 40) – Critico musicale
• Arianna Silvestrini (p. 74) – Giornalista freelance
• Elisa Dal Corso (p. 57) – Danzatrice
• Gianni De Luigi (p. 53) – Regista – Fondatore
dell’Istituto per la Commedia dell’Arte Internazionale
• Piero De Martini (pp. 75-77) – Designer e Architetto –
Studioso di musica – Scrittore
• Vitale Fano (p. 34) – Musicologo (Università di
Padova)
• Stefania Felicioli (p. 58) – Attrice – Regista
• Marco Martinelli (pp. 61-62) – Regista – Fondatore del • Filomena Spolaor (p. 65) – Giornalista freelance
Teatro delle Albe
• Stefania Taddeo (p. 64) – Giornalista freelance
• Mario Messinis (pp. 10-11) – Critico musicale
• John Vignola (p. 43) – Critico musicale
• Guido Michelone (p. 42) – Docente di Storia del jazz
all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e al • Dino Villatico (pp. 12-15) – Critico musicale
Conservatorio «Antonio Vivaldi» di Alessandria –
Critico musicale
• Ermanna Montanari (pp. 61-62) – Attrice – Fondatrice
del Teatro delle Albe