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CoolClub.it
Per questi motivi da credenti, praticanti e ferventi del rock abbiamo accolto a braccia aperte la proposta del nostro collaboratore
Gianpaolo Chiriacò. L’idea di un Coolclub.it dedicato al fenomeno delle bande ci è piaciuta subito. Innanzitutto per lo spirito
che anima la rinascita di questo movimento, per il suo essere spontaneo e gioviale, per il suo modo di essere genere al di là dei
generi perché da tutti prende un po’: rock in un certo senso. Con questo spirito trasversale si ripropone un patrimonio antico come
quello delle bande. Ci piaceva, poi, l’idea di poter parlare in modo diverso, nuovo, di tradizione senza abbracciare il tamburello,
ma alla testa di una fanfara. E abbiamo scoperto che parlare di bande è parlare del mondo, di mescolanze e contaminazioni
(quelle vere). Il 31 dicembre a Otranto l’alba del nuovo anno avrà il suono dei popoli, quelli del mediterraneo che si incontrano in
un grande concerto. Ci saranno Cesare Dell’Anna e tutto il suo Albania Hotel ( di cui parliamo a pag. 34) Admir Shkurtaj con i suoi
Talea, Elio e le storie Tese con il coro delle voci Bulgare, i Magnifico e Turbolentza, la fanfara di Tirana e la banda di Lecce. Quale
migliore occasione (fortuita tra l’altro) per parlare di bande. Nella prima parte del giornale troverete un’introduzione al fenomeno
con uno sguardo al passato e al presente e un piccolo censimento di bande e fanfare italiane ( gli esclusi non si sentano offesi).
All’interno, poi, un’intervista a Livio Minafra, direttore della Municipale Balcanica, e quella a Don Pasta che con il suo progetto
Food sound system è riuscito a unire cucina salentina, musica rock e bande. Questo numero di Coolclub.it dura di più, dicembre e
gennaio, una piccola pausa per tirare il fiato. Vi lasciamo alle nostre recensioni, consigliandovi il bellissimo ultimo album degli Arab
strap e il nuovo grande romanzo di Bret Easton Ellis. Usate questo numero di Coolclub.it, se vi va, come una guida all’acquisto
alternativo per un natale rock and roll. Sfogliando queste pagine troverete le nostre interviste, le recensioni e tutti gli appuntamenti
delle prossime settimane. Tutto il collettivo redazionale vi augura buona fine e buon principio e vi da appuntamento a febbraio.
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
Via De Jacobis 42 73100 Lecce
Telefono: 0832303707
e-mail: [email protected]
Sito: www.coolclub.it
Anno 2 Numero 21
dicembre 2005 - gennaio 2006
Iscritto al registro della stampa del
tribunale di Lecce il 15.01.2004 al
n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Collaboratori:
Giancarlo Susanna, Valentina
Cataldo, Sergio Chiari, Davide
Castrignanò, Patrizio Longo, Antonio
Iovane, Rossano Astremo, Rita
Miglietta, Daniele Lala, Fulvio Totaro,
Federico Vaglio, Lorenzo Coppola,
Nicola Pace, Giacomo Rosato, Nino
D’Attis, Luca Greco, Luisa Cotardo,
Emanuele Carrafa, Francesco Lefons,
Camillo Fasulo, Federico Baglivi,
Lorenzo Donvito, Gianpaolo Chiriacò,
Livio Polini, Bob Sinisi, Eugenio Levi,
Nise No, Giancarlo Bruno, Davide
Ruffini, Loris Romano, Dario Quarta,
Carlo Chicco, Patrizio Longo, Anna
Puricella, Giancarlo Greco, Stefania
Azzollini, Silvia Visconti
BANDA, NO BAND
4-5 Bande
Rock
8 Alba dei
popoli
9 Keep Cool
12 Mark Eitzel
14 Bruce
Springsteen
22 John
Lennon
23 Coolibrì
28 Dario
Flaccovio
Editore
29 Be Cool
32 Franco
Galluzzi Livera
34 Food Sound
System
Ringraziamo la redazione di
Blackmailmag.com e Alice Pedroletti
Foto di copertina Andrea Mosso
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Roberto “Demon” Pasanisi
36
Appuntamenti
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione prima del
previsto ma dopo il prevedibile (5
dicembre 2005)
Per inserzioni pubblicitarie:
Cesare Liaci
T 3404649571
[email protected]
38 Fumetti
Nella foto
Rachid
Sannane
}
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Il rock incontra altre culture. Fin qui, niente di nuovo: da ché mondo è
mondo, le culture di origine popolare si sono trasformate, adeguate,
imbastardite per mezzo di riletture, fusioni, contaminazioni e rimescolamenti.
Ed è ancor più vero quando si parla di rock perché, per primo, ha dato
voce alle realtà giovanili, da sempre in continua trasformazione. Passando
dalla liberazione del bacino alla liberazione della mente, dal rifiuto del
sistema alla liberazione dai confini, il popolo giovanile ha trovato volta per
volta il suono più aderente alle sue evoluzioni, e a questo suono ha dato
il nome di rock. Per tale motivo abbiamo deciso di classificare come rock
un fenomeno attuale ma allo stesso tempo antico:
LE BANDE MODERNE
Benché quasi invisibile e (per ora) sconosciuto ai più, esiste da qualche
anno un fermento, uno scambio di idee, collaborazioni e condivisioni.
Ricorda, per struttura e dinamiche, il movimento italiano dei primi anni
Novanta, ma riporta il tutto in una dimensione più solare, conviviale,
festaiola e terzomondista. Ne fanno parte decine di ensemble di strumenti
a fiato, nati nei luoghi più diversi: centri sociali metropolitani, associazioni,
scuole di musica, come esercizio d’assieme o come rifiuto verso gli
studi di conservatorio. Un magma effervescente, i cui esponenti hanno
nomi bizzarri e polivalenti: Titubanda, Fiati Sprecati, Ottoni a Scoppio,
Contrabbanda (rispettivamente da Roma, Firenze, Milano e Napoli) fino
ai più “comuni” Banda Ionica e Municipale Balcanica. Sono gruppi ampi:
arrivano a contenere venti o anche trenta elementi, ognuno con un
ruolo preciso, assegnato democraticamente, utile ma non indispensabile.
Fanfare, quindi, nel vero senso della parola, che hanno abbandonato
gli spartiti classici e hanno fatto della pluralità del repertorio la regola
comune. Al punto che ci si può aspettare di tutto, dall’immancabile ritmo
balcanico ai tanghi di Piazzolla, da Watermelon Man di Herbie Hancock
ai canti partigiani.
È una storia recente, con meno di dieci anni di vita, eppure affonda le
radici in un terreno di due secoli fa. Un movimento contemporaneo e,
per ora, underground (o di nicchia, ma fa differenza nel
mondo del rock?). Deve ancora trovare un suo spazio nel
mainstream odierno, e non è detto che sia destinato a
emergere com’è successo per le posse, però è già
“un genere”: coinvolge centinaia di persone, e
una quantità di compagini, collegate in una
rete attiva e solidale.
Si domanderà a questo punto il lettore in
pieno stile Celentano: ma tutto questo è
rock? La risposta è disagevole: il fatto è
che il linguaggio del rock ha smesso da
tempo di
concentrarsi su chitarra distorta e batteria
fragorosa. Come si è detto, il rock ha rotto gli argini
del suo mondo di appartenenza e, allargandosi
a trecentosessanta gradi, ha abbracciato
tradizioni diverse. Il predominio del chitarrista,
bello e dannato, è venuto meno; al suo
posto, teen-agers e ventenni hanno
iniziato a cimentarsi nell’apprendimento
di altri strumenti, tra cui anche qualche
faticoso e (im)popolare strumento a
fiato. Clarinetti, sassofoni, tromboni, tube,
inoltre, a differenza della chitarra, hanno
conservato un certo fascino itinerante,
vagabondo, non conformista, che il
rock glorioso possedeva a quintali - e
BANDE
che ora, impettito, ha perso. Se a tutto ciò si aggiunge
un intento politico e decisamente new global, si può
capire come siano nate queste formazioni, libere di
girovagare per festival o per assolati paesini di provincia,
trasmettendo la gioia del far musica e un sentimento di
totale partecipazione sonora.
LA STORIA
Il termine banda, tra i vari significati, fa riferimento a
quei complessi di strumenti a fiato e percussioni che
hanno caratterizzato un’esperienza antica e fantastica,
meridionale e contadina. Dedite alla riproposizione
del repertorio classico, e operistico in particolare, le
bande «di paese» hanno avuto il merito di portare
in tutti i villaggi i fasti della
musica
italiana
dell’ottocento. In occasione
delle
feste
patronali, dei riti della settimana
santa,
o
anche solo laddove qualche
morto si poteva permettere
un corteo funebre - per non
parlare di figure romantiche
quali poveracci avidi che
risparmiavano una vita
solo per avere la banda
al proprio funerale
- ci si imbatteva
facilmente
in
personaggi
con divise
stravaganti,
dal modo di
suonare unico ed
emozionante. Intorno
alle bande, poi, nel corso di un
secolo e mezzo, si è addensato un
alone di serietà un po’ cialtrona, un
concentrato di aristocrazia e teatralità,
un simbolo di riscatto abborracciato e
grossolano. La banda è anche diventata
un’istituzione dell’Italia unita, e un’icona: compositori
importanti hanno scritto per bande, e maestri di banda
sono diventati compositori famosi (Pietro Mascagni, ad
esempio, era maestro di banda a Cerignola in provincia
di Foggia). Né si tratta di una particolarità nostrana:
orchestre di fiati sono diffuse in tutto il mondo, nelle culture
CoolClub.it
ROCK
popolari. Ed è una esperienza che, ovunque, profuma
di esotismo, di stregoneria, di quel fascino irresistibile
dovuto alla capacità di soffiare musica dentro aggeggi
luccicanti - del resto, secondo la leggenda, il numero
di bandisti colpevoli di fuitine è stato altissimo, secondo
solo a quello dei circensi. Nel mondo delle fanfare era
in gioco la capacità delle popolazioni più povere e
disadattate di rielaborare il complesso di canoni e valori
della cultura dominante, per integrarli con i propri e
creare qualcosa di completamente
nuovo, sporco e multiforme.
FANFARE D’OGGI
Nonostante la distanza temporale, le nuove
bande si innestano nel filone storico. Tra giovani
esaltati (forse anche spaventati) dalla complessità
del mondo musicale moderno, dalle mille correnti
eterogenee, e dal fascino di questo
costume
ancora esistente, si è fatta strada
la voglia
di suonare insieme. Cosicché il
bisogno di essere cosmopoliti,
di
abbandonarsi
al
nomadismo per qualche
mese l’anno, ha portato
all’accrescimento
e
alla diffusione del
fenomeno. Le bande
popolari e giovanili si
sono allora confrontate
e riconosciute nel corso
delle manifestazioni, dei
social forum, dei festival
degli artisti di strada.
Da lì alla realizzazione di
iniziative autonome il passo
è stato breve. Un esempio ne
è “la Sbandata”, appuntamento
annuale delle «bande di strada»,
che nell’edizione di quest’anno ha
portato a Roma una dozzina di gruppi
europei (oltre agli italiani, c’erano la
francese Fanfare Des Kadors, la Express Brass
Band da Monaco di Baviera, e la Slavina
Balcanica).
Le bande in campo contribuiscono a ridisegnare
una nuova geografia musicale, localizzata
e globale a un tempo. Il primo passo
talvolta è la riscoperta di un costume
popolare, come è successo per la
Banda Ionica con i riti della settimana
santa in Sicilia; in altre occasioni
invece è il contrario: l’amore per una
musica di origine lontana innesca un
desiderio di emulazione che finisce
per confondersi con un lontano
retaggio, un inspiegabile senso di
appartenenza, a cui si dà voce. Ma se la
partenza è in qualche modo confinata, le
fanfare d’oggi possono arrivare ovunque: il
repertorio si allarga, abbraccia tutti gli universi
musicali, e le collaborazioni internazionali
si infittiscono, quasi ad affermare la
migrazione (da sud a nord e da nord a
sud) come un bisogno per la stessa
sopravvivenza - emblematico, in
questo senso, il caso dei salentini
Opa Cupa.
Eppoi l’interesse verso organici
ampi, e più in generale verso gli
strumenti a fiato, si è ampliato negli
ultimi anni ed è stato condiviso
all’interno di svariati campi musicali.
A smuovere il terreno è arrivata per
prima la valanga balcanica. Grazie al
successone di “Underground”, si è diffusa
una passione per quella musica presentata
nei film di Kusturica (vedi art. a pag. 31). Un suono
scoppiettante, rapido, incalzante eppure chiaro, diretto e malinconico a
un tempo. Senza attendere troppo, nacquero le prime contaminazioni: il
famoso Live in Volvo di Capossela, in cui spicca la presenza della Kočani
Orkestar, o la Bella Ciao suonata il Capodanno del 2000 dai Modena City
Ramblers e dall’orchestra di Goran Bregovic (l’intellettuale simbolo della
riscoperta della musica balcanica).
Inoltre, esistevano già contesti in cui ottoni e ance non erano affatto
sconosciuti, anzi. Gruppi reggae come gli Africa Unite e i Pitura Freska,
superata la fase “posse”, avvicinarono le masse al quel particolare
sound, e ancor di più ha fatto negli ultimi anni Roy Paci, con la sua
esuberanza e il suo virtuosismo di trombettista. Nel frattempo, c’ha messo
del suo la musica cubana, capace di conquistare ampi strati sociali,
dall’intellettualoide cinefilo irretito da “Buena Vista Social Club” al
playboy coatto che vede nel latinoamericano la chiave del suo
successo.
E quanti esempi ci sarebbero in tempi di world-music! Alla fine
del racconto, però, val la pena di notare come questi stimoli
sonori disparati si siano incontrati con la tradizione italiana
della banda, come ognuno di questi abbia lasciato semi
nel fertile terreno giovanile. Semi che sono poi cresciuti
all’interno di bande giovanili e popolari e nei loro repertori
sfaccettati, eterodossi, meticci. Espressione colorata,
vivace, estemporanea, com’è sempre stato il rock.
Gianpaolo Chiriacò
Band contest
Cortei, rassegne, raduni, fusioni e
confusioni assortite hanno portato
le fanfare a incontrarsi e crescere.
Vi presentiamo qui alcune di
queste bande italiane e una
parte dei loro lavori discografici.
È un piccolo spaccato di un
quadro ampio e variegato;
un’indicazione
minima
per
incominciare ad appassionarsi
a questa moderna tradizione.
Un contest amichevole, che
accoglie formazioni diverse per
strumentazione,
repertorio
e
orientamento artistico, ma simili
per entusiasmo e passione.
IL PAPÀ IDEALE
Banda Città Ruvo Di Puglia
La Banda
Enja
Pino Minafra, uno dei principali
animatori
della
scena
culturale italiana, trombettista
d’avanguardia e docente di
conservatorio, è il cuore e la
mente di questo progetto. La
sua opera di rivalutazione del
ruolo delle bande è iniziata circa
un ventennio fa, insieme alla
Banda Città Ruvo di Puglia, e il
frutto del lavoro svolto è stato
trasferito in questo cd doppio,
pubblicato nel 1997. Disc One è
una registrazione del “repertorio
classico” (da La donna è mobile
a Nessun dorma); il Two, invece,
contiene composizioni originali
per un’orchestra di fiati e una
squadra di importanti solisti – tra
cui Lucilla Galeazzi, Gianluigi
Trovesi e Michel Godard. Il suono
è straodinariamente moderno,
ricchissimo ma mai affettato. Un
CoolClub.it
prodotto consigliabile a chiunque
si trovi alla ricerca di timbri inauditi
nell’universo attuale saturo e
intasato.
LA PRIMA SBANDATA
Ottoni a Scoppio
La storia della prima banda di
strada inizia nel 1986. Armati di
strumenti e voglia di “muoversi”,
i militanti-musicisti degli Ottoni
a Scoppio si sono ritrovati ad
affrontare
momenti
difficili
ma significativi. A Sarajevo
avviano cortei improvvisati per
le vie della città. Si recano in
Palestina, negli stessi giorni in cui
le truppe israeliane assediano la
sede dell’autorità palestinese,
si rifugiano a Ramallah per poi
entrare a Betlemme suonando.
Nelle loro esecuzioni itineranti
prediligono canzoni di lotta e di
resistenza provenienti da tutte le
parti del mondo.
I VIRTUOSI
Kočani Orkestar Meets Paolo
Fresu & Antonello Salis
Live
Il Manifesto
Un incontro fra All Stars. La
Kočani compendia il meglio
delle fanfare macedoni (spessore
ritmico, abilità dei solisti, dolore e
rabbia), mentre gli astri di Paolo
Fresu e Antonello Salis brillano
tra le stelle più luminose del jazz
europeo. Un tale ensemble si può
abbandonare così a viaggi aperti
e liberi. Non solo irruenti, ma
anche belli e lirici come Papigo,
un tema lento su cui Salis cuce un
assolo preziosissimo. Variazioni Sul
Ballo chiude un cerchio ideale:
un brano popolare sardo riscritto
da un jazzista e interpretato
da una banda macedone.
Contaminazione allo stato puro,
il senso più autentico delle
orchestre popolari del nuovo
millennio.
LO SPETTACOLO BANDISTICO
La Banda Improvvisa
Lesamoré
Materiali Sonori
Ogni traccia di questo disco
è stata registrata dal vivo in
contesti differenti, tra il marzo del
2003 al settembre 2004. La Banda
Improvvisa sarebbe la filarmonica
Giuseppe Verdi di Loro Ciuffenna
(Arezzo) e un manipolo di esperti
musicisti - ci sono anche Daniele
Sepe e Auli Kokko. La potenza
sonora degli arrangiamenti è
impressionante, con una quantità
di variazioni e sfumature tale da
far venire in mente le orchestre
“serie”. È un po’ come ascoltare
la banda che dalla cassarmonica
suona Serenata Alla Carpinese,
Padrone Mio di Matteo Salvatore
o una delle inarrivabili creazioni di
Brassens: Les Amoreux Des Bancs
Publics.
L’IMPEGNO POLITICO
Titubanda
Sette
Propria
Nata negli ambienti dei centri
sociali romani, la Titubanda lancia
una sfida culturale e politica in
antitesi al mercato: imbracciare
gli strumenti per riappropriarsi
della musica e di quel senso di
condivisione che ne è il corollario.
Abituata a suonare in ogni
situazione e in ogni circostanza,
la Titubanda trova dal vivo la
sua dimensione più felice, una
sorta di professionismo di strada
coinvolgente e fascinoso. Il suono
del disco è poco brillante, ma
propone un viaggio ideologico
attraverso brani di autori e
compositori diversi, esempi, tutti in
qualche modo rappresentativi, di
culture e personalità coraggiose.
Da
Bregovic
a
Domenico
Modugno, dai King Crimson a
Roberto De Simone, da Charles
Mingus a Khaled.
LA BANDA MEDICA
Banda Roncati
A partire dal 1992 ci sono
bande perfino nelle cliniche.
L’occupazione
di
strutture
sanitarie ha anche battezzato la
formazione: Banda Roncati, dal
nome dell’ospedale psichiatrico
bolognese in cui il gruppo di
strumentisti si è fatto strada con
fiati,
percussioni,
melodiche
e fisarmoniche. Da lì sono poi
arrivate numerose partecipazioni
a
festival
e
compilation
(Transmigrazioni del Manifesto,
tra le altre), e si è fatto strada una
scaletta articolata, contaminata
da jazz e sigle tv.
LA FRANGIA NOMADE
Acquaragia Drom
Mister Romanò
Finisterre
È uno degli esempi più fulgidi della
corrente “zingara” della musica
italiana.
Violino,
organetto,
clarino e tamburello riscrivono in
chiave gitana motivi storici come
Recerche la Titina. L’approccio
è certamente meno orchestrale
rispetto alle altre formazioni
segnalate,
ma
l’attitudine
nomade del gruppo rende bene
l’idea di banda di strada. La
voglia di far festa, di arrivare al
mattino con la musica, porta a
mescolare allegria alla voce del
clarinetto basso, l’improvvisazione
alla malinconia dei Rom, senza
tetto ovunque malvoluti. Alla
jam-session partecipano alcuni
protagonisti silenziosi della musica
italiana,
semisconosciuti
ma
decisivi: Nando Citarella, Paolo
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Modugno, Aldo De Scalzi.
IL CIRCOLO MEDITERRANEO
Opa Cupa
Hotel Albania
11-8 Records
Dopo l’immediatezza di Live in
Contrada Tangano, arriva il nuovo
disco della compagine di Cesare
Dell’Anna. Un lavoro ancora
più studiato, aperto e intenso
del precedente. Dalle finestre
dell’Hotel Albania ci si affaccia
su tutto il mediterraneo, dal
Magreb ai Balcani, e il panorama
complessivo diventa qualcosa
di originale, ibrido al 100%. Per
riuscire a mettere insieme così
tante culture e mentalità ci vuole
un leader deciso e ingegnoso
come il trombettista salentino.
Se poi ognuno dei componenti
(uno per tutti: Riccardo Pittau)
possiede
qualità
eccellenti,
il gioco è fatto e si aprano le
danze. Si inizia con le dirompenti
Ligenziana e Karavia, si passa per
l’affresco composito e suggestivo
di Stelle Salenti e si finisce, sudati
e contenti, con Balkan Games e
Yaske in Albania Hotel.
GLI INSULARI
La Banda Ionica
Una collaborazione tra Fabio
Barovero (Mau Mau) e Roy Paci,
un’idea portata avanti con
l’aiuto di musicisti altamente
qualificati. Nel corso della sua
esistenza, la Banda Ionica ha
avuto come fine la riscoperta
delle composizioni legate ai riti
della settimana santa - nel primo
cd, Passione; l’elaborazione di
un corpus di brani originali e di
tradizionali siciliani rivisitati - nel
secondo disco, Matri Mia, con
la partecipazione di Vinicio
Capossela, Cristina Zavalloni e altri
ancora -; ed è infine sfociato in
un progetto parallelo, la Banda di
Avola, che nel frizzante ‘A Banna!
riporta alla luce marce gioiose e
allegre risalenti al periodo tra le
due guerre mondiali.
NOTE TRAMANDATE
Ambrogio Sparagna e la Bosio
Big Band
Vorrei ballare
Finisterre
Non è il sound tipico delle fanfare,
fondato sul fragore dei fiati
appena mitigato dalla nasalità
dei clarinetti, tuttavia il maestro
di Maranola mette in atto una
riappropriazione culturale simile
a quella delle bande moderne.
E il materiale di partenza
diventa, quindi, soltanto una
scusa per restituire un’atmosfera
e uno strumento (l’organetto)
alle nostre orecchie. Lo stile è
quello che abbiamo imparato
a riconoscere nel corso delle
ultime due edizioni della Notte
della Taranta: melodie semplici,
leggere ma dalla grande forza
evocativa. Il ruolo di condottiero,
poi, non è mai invasivo, e mira
piuttosto a mantenere vivo
il
fuoco
dell’interpretazione.
Ambrogio Sparagna è anche
cantante, e intona, sul fondale
creato dell’organico, versi dalla
consistenza impalpabile, quasi
fiabesca.
FANFARA & FRACASSO
Contrabbanda
Contrabbanda
Polosud
Poteva mancare l’ala napoletana
nel
fenomeno
vecchio
e
nuovo delle bande giovanili?
Certamente no. L’espressione
partenopea fatta di ance e
ottoni si chiama Contrabbanda:
musicisti
giovanissimi
che,
nonostante
l’accentuata
e
genetica
attitudine
allo
schiamazzo, si muovono precisi
e molto ben inquadrati. Il merito
è di Luciano Russo (ideatore,
fondatore, direttore e guida dei
contrabbandieri), e delle sortite
di famigerati banditi quali Daniele
Sepe, Auli Kokko e Roberto Del
Gaudio. Il clima di quest’opera
prima oscilla tra popolare e
popolaresco - due categorie ben
poco distinte nella città di San
Gennaro - ma accarezza anche
il pop con i colorati arrangiamenti
di Is This Love e Ob-la-di Ob-ladà, e la svolazzante Azzurro. Del
resto la Contrabbanda è una
fanfara con tutti i crismi, che può
permettersi di eseguire con finezza
anche pagine “impegnative” del
novecento musicale come 8 e
1/2 di Nino Rota.
WASTING GANG
I Fiati Sprecati
Caciarona
e
libertaria,
un’organizzazione vivace benché
raffazzonata e un suono spesso
confuso ma vigoroso. Questa la
formazione fiorentina dei Fiati
Sprecati, sul sito fiatisprecati.
it si possono assaggiare alcune
realizzazioni, ma, affermano, dal
vivo sono un’altra cosa. (Nella
foto di sfondo)
GLI APPRENDISTI
Stradabanda
Più che altro…mica tanto!
Propria
Tra i vari meriti che la Scuola
Popolare di musica del Testaccio
ha collezionato nel corso di circa
trent’anni d’attività, c’è anche
quello di aver dato i natali a
questa banda. Sorta nel 1998
come un esperimento didattico,
si
è
sviluppata
attraverso
numerose
partecipazioni
a
festival fino alla realizzazione, nel
marzo di quest’anno, di Più che
altro…mica tanto! L’amalgama
manca ancora di robustezza, ma
compensa con una gran dose
d’ironia. Inoltre, è evidente una
piacevole attenzione verso la
salvaguardia del sapore originale
delle
tessiture
bandistiche,
riportato in pezzi d’ogni tipo, da
Basin Street Blues a una gustosa
riproposizione del classico dance
I Will Survive, fino ad arrivare a
Branduardi e Battiato.
IL FUTURO
Municipale Balcanica
Foua
Ethnoworld Records
La breve carrellata chiude dove
era iniziata: all’interno della
famiglia Minafra. Livio (veedi
intervista a pag. 33), il figlio di
Pino, infatti, con la sua Municipale
Balcanica rappresenta il futuro
del fenomeno bandistico, e non
solo perché i componenti sono
tutti giovani ancorché abilissimi,
ma anche perché la tensione a
inserire elementi sempre nuovi e
diversi è massima. Le tracce più
interessanti, peraltro, sono proprio
quelle originali, frutto della
fantasia di Livio, un Daniele Sepe
pugliese, in cui tutto si condensa
in qualcosa di assolutamente
innovativo.
Gianpaolo Chiriacò
CoolClub
.it
31 Dicembre 2005 - Otranto
La lunga alba dei popoli
Sono passati dieci anni
dagli accordi di Dayton
che, il 21 novembre 1995,
posero fine alla guerra in
Bosnia Erzegovina, anche
se un percorso di pace
reale, soprattutto riguardo
all’esperienza interculturale
della
ex-Jugoslavia
non
appare
ancora
compiuto. La Provincia di
Lecce, l’Istituto di Culture
Mediterranee, il Comune di
Otranto e numerosi partner
nazionali ed internazionali
quali
la
Fondazione
Mediterraneo, la Maison de la
Mediterranée e la Fondazione Le
Tre Culture di Siviglia costruiscono
insieme un contenitore che ospita
una rassegna delle tradizioni,
della cultura popolare, delle
espressioni artistiche dei popoli
del Mediterraneo senza alcuna
esclusione o preclusione. L’Alba
dei Popoli - Otranto Festival ha
preso il via il 25 e 26 novembre con
il convegno La Prossima Europa:
Mediterraneo Adriatico Balcani
1995-2005 a cura di Gianguido
Palumbo e proseguirà sino al 10
gennaio con incontri, convegni,
Magnifico & Turbolentza, nella foto in alto Modena City Ramblers
cinema, musica. Una serie di
rassegne musicali, improntate
all’insegna del dialogo tra i paesi
transfrontalieri
dell’Adriatico,
faranno incontrare le brass band
della ex-Jugoslavia e dell’Albania
con le tradizionali bande musicali
del Salento. Il progetto Banda
Larga metterà a confronto diverse
realtà. La Fanfara di Tirana, una
esaltante novità nella compagine
delle
fanfare
balcaniche
che si distingue rispetto alle
fanfare slave per il linguaggio
musicale ben articolato su un
percorso melodico trascinante e
incalzante, incontrerà la Banda
di Squinzano; la Boban Markovic
Orkestar, tra gli ensemble più
popolari della Serbia e uno dei
più conosciuti ed apprezzati in
Europa, suonerà con la Banda
di Galatina; la Ljiljana Petrovic
Buttler & Mostar Sevdah Reunion
si esibiranno con la Banda di
Lecce. Lilijana Petrovic Buttler è
una delle più popolari cantanti
gitane in attività, al punto che
nessuno ha messo in discussione il
titolo di Madre dell’Anima Gypsy
rivendicato nell’album Mother Of
Gypsy Soul.
La notte di San Silvestro andrà
in scena il grande Concerto
Euromediterraneo per il dialogo
tra le culture. Sul palco un
confronto tra musicisti delle due
sponde del mediterraneo: il
trombettista Cesare Dell’Anna,
che da una decina di anni a
questa parte guarda ad est ed
è diventato il più balcanico
dei salentini, presenterà
i suoi progetti, racchiusi
nell’etichetta Albania Hotel,
Zina e Opa Cupa (vedi art.
a pag. 34); il compositore
e fisarmonicista albanese
ma da anni residente nel
Salento Admir Shkurtaj si
esibirà con i suoi Talea; i Nidi
D’Arac e Yasmin Sannino,
i Modena City Ramblers e
i Magnifico & Turbolentza.
La band slovena, nota
nell’ultimo anno in Italia
per aver firmato la sigla
delle Iene, duetterà con
la Banda di Lecce. Prima
del concerto si terrà una
“Fiaccolata in mare” con
un grosso peschereccio,
di quelli che da Mola di
Bari vengono a pescare
nel Canale d’Otranto per
ricordare tutte le storie di
uomini,
donne,
anziani
e bambini che hanno
attraversato
il
canale
d’Otranto alla ricerca di un
sogno. Per tutti i migranti
che sono stati inghiottiti dal
mare verrà simbolicamente
accesa
una
fiammella
galleggiante. Una lunga
scia di luce accompagnata
dalla musica della Fanfara
di Tirana. Al termine del
concerto, invece, ci sarà
lo spettacolo pirotecnico.
Ulteriori informazioni su www.
provincia.le.it
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge, Italiana, Indie
Arab Strap
The Last Romance
Chemikal Underground
di Osvaldo Piliego
La Scozia si presenta con
svariate atmosfere, è la patria
di colori musicali diversi, di
gruppi come i Belle and
Sebastian, i Mogwai, ma
anche Delgados, Bis, i grandi
Urusei Yatsura. Glasgow, in
particolare, è la culla di questa
scena variegata che ha
invaso e pervaso il mondo con
le sue atmosfere autunnali, le
sue scanzonate ballate e le
aperture più rock. Ai margini
di questa scena, lontani dai
grossi centri, precisamente
da Falkirk, arrivano gli Arab
Strap. Dal 1995 sono uno di
quei gruppi capaci di lasciare
il segno ogni volta che mette
in musica qualcosa, lo hanno
fatto nel corso di questi anni
con sei album che non sono
fatti di semplici canzoni ma di
vita, di letteratura, nichilismo.
La speciale sinergia che scorre tra Aidan Moffat e Malcom
Middleton produce qualcosa
di semplicemente speciale,
immediato, a suo modo unico. Le chitarre di Middleton
cesellano con una chiarezza
e misura i testi clinici, cinici,
romantici e malinconici di
Aidan, l’utilizzo di una timida
elettronica in alcuni precedenti episodi era come una
tela bianca su cui dipingere
emozioni. La formazione a
due, con alterni ospiti a com-
pletare le opere, rende gli
Arab Strap il gruppo dell’intimità, quella tradita, nascosta
violata e offesa. Con questo
nuovo The Last Romance riescono ad andare oltre: oltre
le aspettative, oltre se stessi.
Questo album è diverso, più
rock, conciso (dura poco più
di 35 minuti), suonato ( alcune
batterie sono state registrate dallo stesso Aidan Moffat)
lancinante ma più positivo
allo stesso tempo. La voce di
Moffat è sempre in bilico, tra
melodie accennate e recitati,
Middleton si muove tra arpeggi, feedback, schitarrate. La
cura di alcuni arrangiamenti
quasi orchestrali li rende più
accessibili e per questo non
necessariamente pop ma
semplicemente più godibili.
Dopo le esperienze soliste,
dopo il ritorno a Chemikal Underground, gli Arab Strap tornano insieme, con questo “ultimo romanzo”. Avvincente,
avvolgente, maturo (Confessions of a Big Brother), romantico (Come around and love
me), timido (Don’t ask me to
dance) The Last Romance è
bello come l’innamoramento,
una folgorante manciata di
momenti indimenticabili destinati a consumarsi presto e per
questo da godere al massimo
secondo dopo secondo.
la musica secondo coolcub
KeepCool
10
The Subways
Young For Eternity
City Pavement/Warner
I londinesi The Subways!,
formati da Billy Lunn (voce
e chitarra), Mary-Charlotte
Cooper (voce e basso ma
anche ammirata sex symbol
dell’ultima generazione)
e Josh Morgan (batteria)
si sono fatti le ossa come
supporter di artisti della
scena musicale alternativa
quali Graham Coxon (ex
chitarra dei Blur), The Von
Bondies, The Datsuns e
The (International) Noise
Conspiracy, conquistando
l’attenzione di fans e addetti
ai lavori. Young For Eternity
è il loro album d’esordio,
un riuscito mix di rock
sporco, macchiato di pop
e colorato da un’irrequieta
attitudine punk, come anche
di sfrontatezza e genuina
grinta post-adolescenziale.
In altre parole: rumorose ed
intriganti canzoni che sanno
stregare immediatamente,
che bruciano in una spirale
di invenzioni vulcaniche,
che deragliano fra
colonne di amplificatori in
ebollizione, marchiate a
fuoco da chitarre metalespanse. La pressione ultrasonica sale rapidamente
verso la vetta della scala
metrica del garage-punk
contemporaneo con
The Subways! “Young For
Eternity” è in prima linea
nella competizione “album
dell’anno”! Niente male
per dei ragazzi più o meno
diciottenni provenienti dalla
periferia della capitale
inglese. Certamente gli
Oasis e, perché no, anche i
Nirvana sono da annoverare
tra le influenze del terzetto,
assieme ai soliti Beatles e
Stones, nomi che, a distanza
di anni, continuano a
contraddistinguere il rock
inglese. Energia pura, non
trattenuta, condensata in
12 canzoni per appena 35
minuti di brucianti assalti
sonici. Se non si perdono
per strada risentiremo
sicuramente parlare molto
presto dei The Subways!.
(Camillo Fasulo)
Appaloosa
Non posso stare senza di te
Urtovox
Gli Appaloosa sono tornati!
E hanno chiamato rinforzi.
Dopo l’esordio travolgente
fatto di ritmiche tra il math e
il post, divagazioni con due
bassi in stile primi Tortoise,
l’ironia e il gioco anni 70, il
portento tecnico e sonoro dei
live gli Appaloosa diventano
quattro, cambiano etichetta
e tornano con un nuovo
album da titolo “Non posso
stare senza te”. Restando
fedeli ad alcuni punti forti
del loro sound si lasciano
affascinare dalla tecnologia.
Tra sinth, campioni, drum
machine la loro musica
decolla
Devendra Banhart
Cripple Crow
XL/Self
di Camillo Fasulo
Il vagabondo menestrello Banhart
sta illuminando questo triste mondo
malato. Cripple Crow, va detto
subito, è senza dubbio la sua opera
migliore e, considerato il notevole
spessore delle tre che l’hanno
preceduta, significa che adesso
siamo ad un passo dal capolavoro.
Per Banhart fare dischi è come
un’esperienza culinaria. Si inserisce
una melodia indiana qui o degli
elementi latino-americani là, allo
stesso modo in cui si aggiungono
spezie e odori in un piatto esotico. E
se i suoi primi lavori costituiscono un
personale ricettario, Cripple Crow
è sicuramente la sua prima cena.
Raccolti un po’ di amici in una casa
a Bearsville, Woodstock, (Antony e
CocoRosie tra gli altri ) mr Banhart serve
la sua “sperimentazione acustica”
aggiungendo, al suo apprezzato
folk in bassa fedeltà, accenti
psichedelici,
impressioni
blues,
aperture ad oriente, radici latine,
riflessi country-rock, cori suggestivi
e ispirazioni beatlesiane, il tutto
condito con delle personalissime
riflessioni che tradiscono una visione
del mondo forse un po’ ingenua
ma anche piuttosto maliziosa.
Assaggiare per credere! Da restare
a bocca aperta se pensiamo per un
istante a chi abbiamo di fronte: un
ventiquattrenne protagonista di una
carriera sbalorditiva e non solo un
indiscusso leader dell’alternative-folk
newyorkese.
The Fiery Furnaces
Rehearsing My Choir
Rough Trade
di Livio Polini
I fratelli Eleanor e Matthew Friedberger, in arte Fiery Furnaces, in
quest’ultimo album hanno pensato
di coinvolgere, pensate un po’, la
loro nonna, l’ottantenne Olga Sarantos, direttrice di coro di chiesa.
Fermi come sempre nell’obbiettivo
di spiazzare l’ascoltatore, il talentuoso duo indie-rock di Chicago ci
propone un particolarissimo reading
musicale fatto di aneddoti di vita
personale e familiare, una lunga e
articolata narrazione autobiografica recitata e cantata da Olga, intervallata dalla splendida ed emozionante performance vocale della
nipote Eleanor e da tappeti sonori
di altissima qualità dalle contaminazioni più imprevedibili. Uno scontro
incontro generazionale: suoni di
loop elettronici e strumenti classici,
strumenti elettrici, drum,… I Fiery
Furnaces partirono qualche anno fa
con esordio sfolgorante (alcuni singoli molto creativi, un bel Lp di debutto dal titolo Gallowsbird’s Bark)
e proseguirono con una produzione
molto allettante (come Blueberry
Boat) fino ad un raccolta di singoli,
b-side e rarità pubblicata nei primi
mesi del 2005 , intitolata Ep. Adesso
ci propongono una doppia uscita,
distanziata di qualche mese, che
comincia con questo loro terzo lp,
indubbiamente originale.
Father Murphy
Six musicians getting
unknow
Madcap Collective
di Federico Baglivi
Six Musicians Getting Unknow è il
secondo album dei Father Murphy,
trio formato dal tuttofare della
Madcap Collective e anima del
gruppo, Federico Zanatta, con la
collaborazione di Vittorio Demarin e
Chiara Lee.
Non esistono parole normali per
descrivere il loro incedere notturno
e le loro languide sospensioni di
suoni, inafferrabili e frammentati.
Tredici tracce sghembe e deviate
che navigano nelle acque floride
del lato più oscuro del folk rock, tra
drones e innesti di psichedelia ricchi
di fascino, tracciando un desueto
paesaggio sonoro. A volte visionari,
essenziali, lasciano intuire la grande
intesa tra di loro in uno snodarsi
e incrociarsi di generi. Police , I
was in coma then I woke up and
I asked for a milkshake, Millhouse
e Indie Labels le migliori del lotto,
senza dimenticare la splendida e
assurda ghost track. In generale
forse potrebbe sembrare un ascolto
più facile del disco precedente,
nonostante questo non sfociano mai
nella banalità e sanno essere un’altra
innovazione in un panorama indie
italiano fortunatamente ricco di
“fantastici elementi immaturi che
usano strumenti”. Che tutta questo
rigoglioso paesaggio possa portarci
da qualche parte un giorno.
Nine Horses
Snow Borne Sorrow
Samadhisound
di Livio Polini
Nine Horse è il nuovo interessatissimo
progetto di David Sylvian. In questa
occasione
troviamo
coinvolto
anche l’ex Japan nonché fratello
Steve
Jansen,
il
compositore
elettronico e remixer Burnt Friedman
ed illustri ospiti come il maestro Ryuichi
Sakamoto (al piano), il trombettista
norvegese Arve Henriksen (dei
Supersilent) e la sensazionale voce
della svedese Stina Nordenstam. Le
nove canzoni, tutte composizioni
di lunga durata (solo una sotto i
cinque minuti), hanno il dono di
far viaggiare l’ascoltatore in vari
e vasti territori. Varie anche le
influenze e i generi, dalla musica
world-etno al jazz per finire anche
nel
pop
e
nell’avanguardia
elettronica, il tutto con una facilità
incredibile, con un equilibrio ed
una
coordinazione
esemplare.
Questo
disco,
è
interessante
sapere, risulta cosmopolita in tutto.
Sono accadute infatti delle strane
vicissitudini legate alla produzione:
registrato negli studi americani
di David Sylvian (Samadhisound,
stesso nome dell’etichetta per cui
esce l’album), il demo per evolversi
e completarsi ha viaggiato in lungo
ed in largo per il globo (Philadelphia,
Sidney, Copenhagen, Tokyo, Berlino,
Londra, ecc.) ritardando così la
sua uscita. Snow Borne Sorrow
risulta davvero un lavoro ben fatto,
risulterà piacevole soprattutto agli
ascoltatori attenti.
definitivamente. Centrifuga
tutto e ci restituisce un disco
pieno di rimandi, un puzzle di
rock, surf, funky, psichedelia,
krautrock e chi più ne ha
più ne metta. La colonna
sonora ideale dei nuovi
tempi moderni (ascoltate
Jeff sembra accompagnare
un poliziesco ambientato
su marte) disco da avere
ma anche e soprattutto
da vedere. Non perdete
assolutamente un loro live.
Milaus
JJJ
Black candy
L’attacco sembra far eco
agli ultimi Karate, ritmo
cadenzato quasi funky, poi
le atmosfere si assestano sui
binari dell’indie e tutto scivola
via che è una bellezza.
Con questo JJJ i Milaus si
riconfermano una delle realtà
più interessanti del panorama
underground italiano. Quel
piglio pop che mi ricorda
un po’ gli Hefner misto a
fascinazioni dal retrogusto
noise fanno pensare a molte
cose, tante che alla fine
finisci per arrenderti alla loro
musica piena di intuizioni. C’è
l’ecletticità dei Deus, gruppo
a cui sono affiancati dai
più, lo zampino ai controlli di
Fabio Magistrali ai controlli
(Marta sui tubi, Bugo), ritmo e
dolcezza, rabbia e maturità.
Come se i Motorpsycho
giocassero a fare i Pavement.
John Parish
Once upon a little time
Mescal
Quando si parla di John
Parish si pensa all’uomo
che ha fatto suonare molti
dei nostri dischi preferiti. Lo
leggiamo nei libretti degli
album dei Giant Sand, di
Sparklehorse, Eels in qualità
di produttore, musicista a
seconda dei casi. Non nuova
la sua fascinazione per l’Italia
e la collaborazione con il
nostro Cesare Basile e gli
Afterhours. Ed è proprio con
l’etichetta di questi ultimì che
esce Once upon a little time.
Come se le sue esperienze lo
avessero marchiato, come se
la sua impronta artistica sia
parte determinante dei dischi
in cui ha collaborato. Questo
sembra il percorso solista di
John Parish, una sintesi, intima
e personale, di ciò che le sue
orecchie hanno assorbito
e le sue mani prodotto. Lo
stile di Parish è la risultante
di ciò che ci piace e non
può che essere bellissimo. Le
atmosfere rilassate e dilatate
del suo album lasciano
trasparire a chiare lettere la
caratura del personaggio
che confeziona una serie
di canzoni che hanno la
saggezza di Tom Waits e dei
Giant e la leggerezza di un
Beck acustico e degli Eels.
Uno di quei dischi che può
creare dipendenza ma che
consiglio a tutti, prima e dopo
l’amore.
KeepCool
The Mars Volta
Scabdates
Gsl/ Universal
Chi li ha visti dal vivo
sostiene di aver assistito a
un’esperienza mistica. Nella
versione in studio sono già
una sfida ai confini della
musica, un viaggio che
non tiene conto dei minuti,
dell’anno in corso, delle
normali battute in battere.
I deliri e le impennate
psichedeliche, le lunghe
scivolate anni 70 a far visita
ai Led Zeppelin nel live non
fanno altro che prendere
maggior respiro, lievitare. Può
piacere agli appassionati,
annoiare altri.
Marcho’s
Marcho’s
Macaco Records
Electro- pop scanzonato ma
non stupido, come i Soerba
prima che si sputtanassero, un
piede negli anni 80, la mano
ben salda a una bottiglia di
rosso Marcho’s confeziona
un tormentone che mi
girerà in tesa per i prossimi
tre giorni. Il nuovo inno degli
alcolisti pentiti è mal di testa,
ascoltare per credere.
Uzzolo
Chi è Neruda?
La Piattaforma
Vengono dal mantovano
gli Uzzolo è come attitudine
sembrano subito inserirsi
nei territori del post. Come i
Marlene non hanno potuto
non restare folgorati dal noise
dei Sonic Youth così gli Uzzolo
non possono nascondere
la loro passione per Slint,
Mogway e compagnia
bella. scegliere di cantare
in italiano non è mai una
scelta facile ed è forse l’unico
neo in alcuni frangenti. Ma
ci sono momenti in cui tutto
sembra calibrato e misurato,
in cui gli andamenti sghembi
circolano ipnotici, in cui
il fluire è piacevolmente
irregolare e spezzato. Ci sono
idee e di questi tempi non è
facile. L’ennesima conferma
di una scena in crescita
anche in Italia.
The Wetfinger operation
The Wetfinger operation
Autoprodotto
Una piacevole scoperta, poi
vedi che sono già stati demo
del mese su Rumore, che
vantano un’ottima rassegna
stampa e capisci che è
piuttosto una mancanza. The
Wetfinger Operation si fanno
avanti senza fronzoli e per
questo conquistano subito.
Affascinati dagli anni 80
come dai 90, dai Joy Division
come dai Sonic Youth,
riescono a conciliare melodia
e grinta in album fuori dalle
mode. Chitarre rotanti
orbitano intorno a ritmiche
serrate, cantato asciutto,
incursioni più dissonanti.
Veramente un bel lavoro.
11
Babyshambles
Down in Albion
Rough trade
di Osvaldo Piliego
Ma cosa rimane una volta messi
da parte Pete Doherty, Kate
Moss, la droga, le copertine? I
Babyshambles. La band capitanata
dal nuovo martire del rock esce
con questo Down in Albion ed è
veramente difficile approcciarsi al
disco senza preconcetti. Difficile
ma non impossibile. Messa da parte
Kate che si fa un pippotto, Pete
che se la fa, il clamore di chi vuole
fare di lui la nuova voce di una
generazione rimane la musica. E per
chi si intende di viaggi da fermi non
è un bel trip. Un disco inconsistente
in cui il tentativo di scimmiottare i
Clash si perde dietro una manciata
di buone idee spese male. Pete è
più fuori che mai in tutti i sensi. I cori
da stadio o da sbronza con amici nel
pub dietro casa, alla lunga sanno
di presa in giro. Musicalmente Pete
ruba a se stesso, a suoi ex Libertines,
ai già citati Clash (ci sono anche le
incursioni nel reggae), cita Smiths,
Blur, il punk ?!?, ma senza colpire
mai il bersaglio (vista annebbiata?).
Non è un disco brutto, alla fine dei
conti, ma non merita un quarto
dell’attenzione che ha ricevuto.
Onestamente credo che il rock
and roll sia altrove, lontano dai
flash, e che il punk non sia solo
autolesionismo.
Soulwax
Nite versions
Pias
di Giacomo Rosato
I Soulwax compiono un ulteriore
passo in direzione del loro personalissimo percorso di contaminazione tra rock ed elettronica. Tassello
dopo tassello i fratelli Dewaele si
divertono a rimescolare le carte e
a costruire nuovi intrecci tra i due
progetti paralleli che li vedono protagonisti, al punto che Nite Versions
appare come un disco dei Soulwax
reinterpretato e mixato da 2 Many
Dj’s. L’artwork della copertina e del
booklet riprende con una variante
cromatica il gioco di linee, ombre e
vortici dall’effetto stupefacente (soprattutto nella versione in vinile) del
precedente Any Minute Now, album da cui sono tratte queste “versioni notturne”, ad eccezione dell’omaggio ai Daft Punk di Teachers
(pur con sensibili variazioni nel testo
e nelle citazioni) in apertura del disco. Il suono è ricercato, elegante,
ricco di soluzioni e ulteriormente
impreziosito dalla voce di Nancy
Whang. Due le versioni del singolo
NY Excuse; la prima è una geniale
traccia bastard pop in perfetto stile
2Many Dj’s “sporcata” dal sample di
Funky Town dei Lipps,inc., la seconda è affidata alle mani sapienti del
clan DFA, che si diverte a giocare
tra ritmi tribali, frequenze disturbate
e sonorità da club.
The Fall
Heads roll
Slogan/ Sanctuary
di Giacomo Rosato
La carriera dei Fall rappresenta
ad oggi una delle più fulgide
testimonianze di longevità ed
ispirazione artistica; una produzione
vastissima,
sempre
all’insegna
di una ricerca sonora geniale
e poco avvezza a compromessi.
L’estro creativo di Mark E. Smith
sembra non conoscere pause e
cadute di stile. Appena il tempo
di assaporare e metabolizzare The
Real New Fall Lp, disco ispiratissimo
che celebrava degnamente i
venticinque anni di storia, ed
ecco pronta una nuova perla da
incastonare nella discografia della
band di Manchester. Head Rolls si
apre con una batteria sincopata
e minimale in cui si inserisce
dapprima una voce scarna e
visionaria e in seguito gli strumenti,
ad ampliare e definire il suono.
Midnight in Aspen ha un sapore
quasi esotico con la base ritmica in
primo piano, Early Days of Channel
Fuhrer è una ballata struggente e
sanguigna, mentre il singolo Clasp
Hands fa il verso all’Iggy Pop di Lust
for Life. La voce di Smith domina la
scena muovendosi con disinvoltura
tra calde melodie, rabbia delirante
e intensi recitativi in quattordici
episodi che vanno ulteriormente ad
arricchire un repertorio già ricco di
capolavori.
Sleater- Kinney
The Woods
Sub Pop/Audioglobe
di Camillo Fasulo
Tre ragazzacce visionarie, temerarie
e furibonde ma anche liriche,
intricate ed impegnative. Questo
sono le Sleater-Kinney. Sguardo sul
passato e mani sul presente per
sognare il futuro. Con The Woods
hanno realizzato quel che si può
serenamente definire “il capolavoro
della maturità”.
Sono trascorsi poco più di dieci anni
da quando le ragazze battezzarono
il loro progetto, per loro la band
voleva essere via di fuga da qualsiasi
facile etichetta e, allo stesso tempo,
un’ipotesi di lavoro verso il futuro del
rock indipendente. Non sono stati
anni spesi invano, perché le SleaterKinney sono ancora qui, in splendida
forma e forti di un settimo album
che non può passare inascoltato.
Dieci brani per cinquanta minuti
che esaltano la magnifica attitudine
di queste tre simpatiche ribelli.
Bastano pochi secondi per far
capire a chiunque che le SleaterKinney non rinunceranno mai al
loro rumoroso e visionario punk e
che, assolutamente, non rientra
nelle loro intenzioni abbandonare
gli accidentati sentieri indie per
varcare il casello di una veloce
autostrada per l’alta classifica.
Migliorarsi
e
crescere
senza
rinnegare spontaneità e voglia di
divertirsi: questo è il loro credo. Non
occorre scollegare il cervello per
raggiungere lo scopo.
Why?
Elephant Eyelash
(Anticon)
di Livio Polini
Yoni Wolf aka Why?,
ex-componente dei
cLOUDDEAD, dopo la
scissione del glorioso trio di
Cincinnati, decide di lanciarsi
come i suoi ex compagni in
una nuova carriera solista
(a quanto sembra di tutto
rispetto). Una proposta
spiazzante quella di Why?,
che si propone come
cantautore in quest’opera.
Le influenze delle esperienze
precedenti in questo modo
risultano quasi abbandonate.
Il musicista di Oakland non
si allontana in nessun istante
dalla forma canzone, sceglie
di usare ampiamente chitarra
e pianoforte, mescola fresca
e raffinata elettronica,
ricevendo un buon aiuto in
studio da parte di un gruppo
di musicisti tra cui il fratello
Josiah. Attenzione! L’ascolto
di Elephant Eyelash potrebbe
essere interpretato come
uno schiaffo violento da chi
ha amato i cLOUDDEAD,
come ho già detto parliamo
in questo caso di tutt’altro
genere. Non post hip-hop,
ma un mix di influenze in
stile indiepop che lasciano
vedere somiglianze verso
Beck dei tempi migliori,
i magnifici Pavement, il
cantautorato sconosciuto
ai molti ma di gran valore
di Daniel Johnston. Un buon
disco, scorrevole e piacevole,
di leggerezza, ma anche di
qualità, una compattezza ed
una solidità melodica che
abbaglia e sorprende.
Madonna
Confessions on the dance floor
Warner Bros
di Davide Castrignanò
Un nuovo taglio di capelli,
un bel corpetto nuovo tra
il glitter ed i ’70s, qualche
passo di danza facilmente
apprendibile da parte dei
fans; riappare così sua
eminenza Madonna, la
signora indiscussa della
popmusic, nonché mio
guru personale nella
promozione discografica.
Ogni lancio discografico
con lei si trasforma in una
meticolosa e celebrale
pianificazione di marketing
al punto tale da imporsi una
serie di ancheggiamenti da
far invidia anche a più di
qualche giovane trentenne
(all’anagrafe le ne ha 47!!!).
Miss Ciccone questa
volta, in poco meno di 60
minuti di musica, fa le sue
“confessioni” sul dance floor
con l’obiettivo ben preciso
di mietere proseliti fra i locali
trendy-chic di mezzo mondo.
Un album che probabilmente
non passerà alla storia, ma
dai botteghini dei negozi di
dischi si; e questo basta alla
nostra icona della
comunicazione
mediatica. 12 i pezzi che
KeepCool
12
compongono Confessions
on the dance floor e che di
fatto remiscelano tutto ciò
che è passato sui pavimenti
dei club negli ultimi decenni,
dall’house music ai trend
più gettonati della musica
elettronica mondiale. C’è la
sveglia di Gwen Stefani (What
you waiting for?), qualche
passaggio che richiama
gli Underworld, alcune
reminescenze dei DaftPunk,
sfumature electroclash,
innumerevoli rimandi agli anni
’80, il pop di Kylie Minogue e
così via.
Il disco passa fluido, nel
suo popular chic non
fa una grinza: anonimo,
tranquillizzante e
comprensibile quanto basta
da poter essere piacente
a tutti. E’ inevitabile,
ascoltando l’album, in molti
troveranno almeno un pezzo
che gli farà muovere un
arto, canticchiare il ritornello
o fargli ammettere a denti
stretti “beh, però questo
pezzo è carino!”. Perciò non
resta che prostrarci alla dea
del selfmadewoman e del
discobusiness e sorbirci tutti
i passaggi radio previsti nei
prossimi mesi. Non ci resta
che ballare.
Incognito
Eleven
Dome
Album numero undici per gli
Incognito e a questo punto ci
chiediamo se usciranno mai
con un disco, se non brutto,
quantomeno mediocre;
la risposta sembra proprio
scontata! Ad un solo anno
dal bellissimo Adventures
in black sunshine pochi si
aspettavano un bis così a
breve termine (l’album è
stato pubblicizzato davvero
poco ed è nato come lancio
del tour). Le atmosfere di
questo disco si adeguano
ai tempi con un utilizzo
garbato di drum machine e
synth che, però, continuano
sempre a tenere presente
la strada maestra dell’acid
jazz e del funk più soffice. In
canzoni come Come away
with me o We got the music
gli Incognito sembrano fare
l’occhiolino e tirare una
gomitata di approvazione e
complicità ai Jamiroquai più
houseggianti; uno di questi
pezzi in discoteca? Move
your ass! Ascoltare Baby it’s
all right o Will i ever learn
è come immergersi nella
colonna sonora del più bel
film mai visto e la voce di
Maysa Leak (ritornata
a pieno titolo nella band)
continua a sorprendere
per potenza e dolcezza;
come sempre intensa,
precisa ed espressiva la
sezione fiati; definitivamente
superato, quindi, il periodo
in cui si potevano incontrare
all’interno dell’album alcuni
odiati “riempi disco”. Il
gruppo (in principio nato
come Light Of The World)
continua ad essere guidato
Mark Eitzel
La forza della poesia
di Giancarlo Susanna
Dire che Mark Eitzel - da solo o con i
suoi leggendari American Music Club
- è uno dei più grandi cantautori
americani contemporanei è quasi
scontato. Non lo avevamo mai
visto in concerto e l’appuntamento
al Jailbreak, locale emergente
nel pur vivace circuito romano,
era assolutamente imperdibile.
Cantante e chitarrista eccellente,
oltre che autore dalla poetica
originale ed emozionante, Mark
ha tenuto un concerto bellissimo e
intenso. Esattamente quello (se non
di più) che potevamo aspettarci da
lui. Quella che segue è la trascrizione
fedele della conversazione che
abbiamo avuto con lui un paio
d’ore prima che salisse sul palco.
Pensi che in Europa ci sia più
attenzione per i tuoi dischi e per la
tua musica che negli Stati Uniti?
Credo che in Europa ci sia più
attenzione per l’arte in generale
da parte della gente normale. In
questo senso sì, c’è più attenzione
per la mia musica.
Qual è il paese europeo che ti piace
di più?
L’Italia, ovviamente. (ride)
Tornando alla musica... Qual
è la situazione della musica
indipendente negli Stati Uniti? Non
dev’essere facile fare dischi e farli
passare alla radio.
No. Non ci sono più radio. Dipende
anche da quello che fai. In questo
momento in America piacciono
delle cose mediocri e molti artisti,
pur di avere successo, fanno delle
cose molto semplici. È dura. E d’altra
parte per le etichette indipendenti
è ancora più difficile perché quelli
che una volta avrebbero comprato
i dischi ora li scaricano da Internet.
Questo finirà per uccidere le
piccole etichette. Succede anche
in Europa, non solo in America.
E non bisogna dimenticare che
da noi quello che funziona di più
dal punto di vista commerciale è
l’hip-hop. Se fai altre cose incontri
maggiori difficoltà.
E per i concerti?
È più facile. Per andare da San
Francisco a Seattle ci vogliono
quindici ore di macchina. Diciamo
che la distanza media è intorno alle
dodici ore.
Candy Ass è l’album che stavi
registrando prima della reunion
degli America Music Club?
In parte sì.
È un disco strano. Ci sono delle
classiche canzoni di Mark Eitzel e
degli strumentali.
L’ho fatto un po’ in fretta e ne ha
senza dubbio risentito dal punto
di vista del suono. Ma mi piace. Io
sono cresciuto ascoltando Low di
David Bowie e Brian Eno e mi sono
sempre piaciuti quei suoni.
Non ci avevo proprio pensato...
Io sì! Mi piacciono le cose un po’...
strane.
È un bel disco, completamente
diverso da quello che fai con gli
American Music Club.
La tua attitudine nel modo di
scrivere
cambia
a
seconda
della destinazione delle canzoni,
immagino.
Quando hai un computer e ci lavori
per comporre, è completamente
diverso da quando usi una chitarra
acustica.
Questo vuol dire che tu porti i tuoi
brani al gruppo e glieli fai ascoltare
con la chitarra acustica?
Se gli portassi una di questa canzoni
(indica la copia di Candy Ass che è
sul
tavolo),
il
gruppo
non
avrebbe molto da fare. Sono due
procedimenti differenti e io penso
comunque di essere un autore
migliore con la chitarra acustica.
Per me è una cosa più naturale.
Il computer è uno strumento che usi
da poco tempo.
Dopo Candy Ass ho registrato un
album di soli strumentali, ma nessuno
l’ha voluto ascoltare!
Mi sono divertito a farlo.
È un peccato, perché gli strumentali
di Candy Ass hanno un loro fascino.
Penso per esempio a A Loving Tribute
To My City, con la voce campionata
di una bambina.
La voce l’ho presa dalla radio.
Era una storia perfetta per San
Francisco, perché la bambina ha
un tumore, muore, va in paradiso e
da lì vede il Golden Gate.
Ti è capitato di usare il computer
durante i concerti?
No. Non mi piace il suono. E trovo
anche noioso schiacciare un
bottone e lasciare che il computer
faccia tutto da solo. So che
Aphex Twin si sdraia vicino alle sue
macchine... (ride)
Qual è la tua canzone preferita di
Candy Ass?
Ho avuto un sacco di recensioni
negative per questo disco... Credo
sia Make Sure They Hear, perché
volevo scrivere qualcosa per delle
persone che si sono rovinate, con
la droga o altre cose. Volevo
mandare loro un messaggio di
comprensione... Don’t let them ask
you what you believe (Non far loro
chiedere in cosa credi). È un modo
per dire “credete in qualcosa”.
Gli American Music Club sono in
pausa?
No. Abbiamo appena finito un tour
in America con un’altra band, gli
Spoon. E abbiamo già registrato
cinque canzoni per il prossimo
disco.
dal vulcanico Jean Paul
“Bluey” Maunick sin dal
1981 (anno dell’uscita del
primo album JazzFunk) e
nonostante il pericoloso
passare degli anni, continua
a sfornare prelibatezze
musicali senza pari.
(Giancarlo Bruno)
Vive la Fête
Grand Prix
Surprise 2005
Deve essere per la lingua
francese che insomma, si sa…
ma le “canzoncine” di questo
duo belga ci appaiono
essere estremamente
sensuali. Scavano nell’eredità
elettronica degli anni ’80
e senza prendersi troppo
sul serio Danny Mommens,
ex bassista dei dEUS, e
la sua ragazza Els Pynoo
danno vita quasi per gioco
ad un electro-pop che sa
molto di Stereo Total e che
scivola via leggero senza
troppe complicazioni. In
questo disco, come nei
precedenti, i Vive la Fête
sembrano contenere e
miscelare caratteristiche ed
interessi dei due musicisti ed
unire l’amore per la musica
wave anni ottanta dell’uno
e la fissazione per Serge
Gainsbourg/Jane Birkin
dell’altra. Il risultato sono dei
lavori orecchiabili e senza
troppo senso, gradevoli riffs
di chitarra e un synthpop
che va ascoltato da lontano.
Gli stessi titoli delle tracce
suggeriscono una scelta di
argomenti non propriamente
intellettuale e loro stessi
si definiscono sul sito la
“Formula 1 del kitschpop”.
Alla fine, un gruppo che
ha creato un’immagine
estremamente trendy. Non
a caso -veniamo a saperesono spesso invitati a suonare
durante le sfilate di moda
parigine da stilisti quali
Luis Vuitton e via dicendo.
Altamente stilosi. (Valentina
Cataldo)
KeepCool
13
Fuori tempo, fuori dai canoni,
il nuovo ritmo di Pleo.
Il salentino Pierpaolo Leo, inizia
la sua attività di “musicista
elettronico” nel ‘97 con il
gruppo di rock-avanguardia
L’ Enfance Rouge (band di
Francois
Cambuzat,
vedi
intervista a pag. 16) creando
sonorità granulari e aritmiche
per i loro concerti. Nell’anno
successivo concretizza il primo
lavoro solista, Dyn-Aphonic,
ispirato
alle
esperienze
canadesi sulle mappature
sonore. Dopo una serie fitta
di collaborazioni realizza nel
2001 l’album Before Breakin’
pubblicato dalla fiorentina
Audioglobe Records. Sempre
con l’Enfance Rouge registra
nello stesso periodo il loro
nuovo disco Rostock-Namur,
curando in particolare le
tracce di musica concreta.
Ha partecipato a numerosi
festival di musica elettronica.
Si occupa attualmente anche
di installazioni sonore. È uscito
Unclocked’ il suo ultimo
album.
Com’è nato il progetto di
questo cd?
Era da almeno due anni che
desideravo dar vita ad un
progetto simile. Durante i live
hanno iniziato a prender vita
questi 36 minuti.
Sgretoli le strutture musicali
per ricostruirle. È una tua visione, un
tuo concetto di intendere la musica
stessa?
Diciamo che è un rifiuto ad
intendere la musica nel solito modo,
scandito da un metronomo. Ecco
il perché dello stacco dal tempo.
Voglio allontanarmi da qualsiasi
stereotipo per un’esigenza di libertà
da qualsiasi canone musicale. Tutto
quello che sembra scontato non lo
è, così come ad esempio l’uso quasi
obbligato della batteria standard o
di un qualsiasi strumento omologato
che cerco deliberatamente di
evitare.
Quali sono i tuoi prossimi impegni?
Netmage a Bologna per un
progetto
audio-visivo
con
il
videomaker Claudio Sinatti. Ma per
il futuro è in dirittura d’arrivo anche
una collaborazione con Populous.
Abbiamo quasi finito un disco che
avrà il nome di una neoformazione
vera e propria.
Che impressioni ti ha dato lavorare
con Populous?
Populous mi piace per la sua
semplicità della melodia; cosa che
a me spesso manca; è bravissimo
nella ricerca raffinata di suoni
semplici, ma capaci di dare
emozioni. Ci unisce la passione
comune per la psichedelia e
l’immaginario trasognato, oltre a
voler fare ‘musica elettronica’ con
strumenti assolutamente analogici
quali chitarra, basso, fisarmonica,
per poi filtrarli al computer. Il lavoro
che stiamo portando avanti,
procede in concomitanza con la
mia ricerca di strumenti musicali
elettronici
ma
dall’approccio
puramente analogico.
Una tua passione è realizzare
strumenti musicali, come l’Ondes
Martenot che stai costruendo...
Si, mi appassiona molto costruire
strumenti. Anche questo progetto
rientra nel fine di creare sonorità
nuove e nuovi approcci all’elettronica. L’Ondes Martenot mi sta a cuore
perché mi pare che vada verso una
probabile estinzione pur essendo lo
strumento elettronico dalle capacità espressive nettamente superiore
a tutti gli altri della sua categoria.
Credo che al momento attuale sia
necessario autocostruire strumenti
nuovi. Il mercato offre ancora poco
rispetto alle potenzialità che possono offrire gli strumenti musicali elettronici in termini di “suonabilità”.
Pierpaolo Leo
Unclocked’
Autonomen Records
Lo spartito digitale si avvia in punta
di piedi, come per risvegliarsi da una
fase di letargo ormai terminata. Con
un lento intercedere tra il battere e
levare, la matrice stessa dello spartito
musicale viene destrutturata e, tra
tempo e ritmo, viene scomposta in
particelle piccolissime da riutilizzare
come tanti mattoncini ‘Lego’ con i
quali dar vita a nuove forme.
Questo è ‘Unclocked’, il nuovo
lavoro di Pierpaolo Leo, prodotto per
la Autonomen Records e distribuito
da justlikeheaven; un lavoro
che segue a distanza di due
anni il precedente ‘Before
Breakin’. “Unclocked vuole
discostarsi
dalla
rigidità
del tempo” – si legge nella
presentazione
dell’album
– “al confine tra disordine e
serialità, in un limbo sonoro
che spazia tra l’uno e l’altra”.
Dodici tracce per 36 minuti
di
musica
concettuale,
intellettuale in cui Pierpaolo
gioca con attrezzi e strumenti
elettronici,
sintetizzatori,
campionamenti, programmi
digitali in grado di riprodurre
e costruire musica e strutture
musicali e dove nel bel mezzo
di un programma digitale si
possono rintracciare il rintocco
di una penna che sbatte su
un tavolo o il rumore di una
cardine di una porta o altri
suoni analogici.
Ci si imbatte in un lavoro dove il
compositore diventa acrobata
tra spazi musicali e sfasamenti
temporali in continuo bilico
tra l’improvvisazione sonora
e la ripetizione (ricercata
paradossalmente come una
fonte di sicurezza) ritmicotemporale del suono stesso
che si dilata su sagome
futuriste.
Un disco che ascolto dopo
ascolto si presenta sempre
con qualche novità, tutto
da scoprire, ma sicuramente
di ricerca e adatto ad un
pubblico di nicchia. (D.C.)
KeepCool
14
A working class hero
is something to be
Trent’anni di Born To Run
Correva l’agosto del 1975
quando un giovane Bruce
Springsteen, supportato dalla sua E-Street band, dava
alle stampe un terzo disco
destinato ad avere un peso
innegabile nella musica degli anni ’70 e a spiegare su
tutto il rock a venire una forma di condizionamento palese e a più livelli. Un disco
che consacrerà Springsteen
come una delle più potenti
icone rock dello scorso secolo e al contempo una
delle più vivide e chiare voci
dell’altra America. Per festeggiare l’ importante anniversario l’industria ha fatto
arrivare nei negozi del globo
degli oggetti preziosi ai quali
difficilmente i fan di Bruce
potranno resistere. Il primo è
il classico box commemorativo, con due dvd più il cd di
Born To Run completamente
rimasterizzato, con un libretto di 48 pagine di foto inedite. Il primo dvd immortala
lo storico concerto che la
band tenne all’Hammersmith Odeon di Londra nel ’75,
con una scaletta da far paura
e una qualità
audio e video
più che buona;
il secondo dvd è
un documentario dal titolo Wings for wheels: the
making of ‘Born
to run’. L’altro
prodotto
che
farà la gioia degli aficionados è
Real world. Sulle
strade di Bruce Springsteen, un
bel libro fotografico targato Arcana con foto di Giovanni Canitano
e testi di Ermanno La bianca.
Born to Run è da molti indicato
come il disco più importante
di Bruce, e le canzoni che lo
compongono realizzano una
frattura profonda nel song writing
americano. Meno biblico di The
River, meno oscuro di Darkness
on the Edge of Town, Born To Run
è il ritorno ad un rock autoriale
vero e sanguigno in un momento
di sbornie prog, con il punk
ancora troppo lontano a venire.
Con Born to Run Springsteen
trasforma il rock in melodramma.
Ciononostante, gli eccessi che
avrebbero potuto inficiare il
lavoro globale sono tenuti a
bada da una band al suo apice
e da un autore che comincia a
scrivere storie profondamente
calate nella mitologia americana,
piene di eticità e magia. Il sogno
americano ne esce rinnovato
grazie ad una rilettura di quei temi
cari ai grandi scrittori stelle e strisce,
attualizzati e messi al servizio di un
veicolo potente e diretto come il
rock di matrice ‘automobilistica’
suonato dalla band.
Il tema della fuga resta il perno
centrale per queste storie di
alienazione urbana, dove seguire
la retta via costa fatica e sacrifici.
Lavorare duro per poi correre
nelle strade di notte, in cerca di
riscatto: pur senza le implicazioni
sociali alle quali Springsteen ci
abituerà in seguito, il protagonista
delle canzoni è un working class
hero, l’ultimo credibile che ci ha
regalato la musica americana.
L’iniziale Thunder Road chiarisce
alcuni aspetti della nuova poetica
springsteeniana, toccando vertici
di realismo difficilmente raggiunti
dalla canzone rock: ‘non sei una
bellezza ma mi stai bene’ canta
Bruce, rompendo con la tradizione
che vuole che nelle canzoni tutto
sia perfetto, idilliaco. E ancora,
‘aspetti invano che da queste
strade si levi un redentore/ bene,
io non sono un eroe, è risaputo/
ma tutta la redenzione che ti
posso offrire è sotto il cofano di
questa macchina’. Fino all’epica
chiusura: ‘questa è una città di
perdenti e io me ne sto andando
per vincere’. Difficile adesso
riuscire ad immaginare che effetto
potessero avere queste parole su
un adolescente americano di 30
anni fa. Racconta Martin Scorsese
“ci fu un momento nel 1975 in
cui si sentivano certe canzoni di
Springsteen sparate dalla radio di
qualche macchina o attraverso le
finestre degli appartamenti e non
importa quante volte tu le avessi
ascoltate prima, non perdevano
mai
quell’effetto
tagliente”.
L’impatto fu talmente devastante
a livello di immaginario collettivo
che la Fender moltiplicò le
vendite della sua Telecaster,
che campeggiava fiera
tra le braccia di Bruce
nella celebre cover. La
ritmica
profondamente
urbana, il sax di Clarence
Clemons, le chitarre e le
tastiere creano un suono
certamente debitore al Wall
of Sound di Phil Spector, ma
originale nell’impasto e negli
arrangiamenti,
eccessivi,
pomposi,
traboccanti
di funky e soul e la titletrack è un manifesto del
melodramma rock recitato
da Springsteen, il cui refrain
ancora riecheggia nelle
strade, per una generazione
di
cuori
affamati
di
riscatto. Backstreets è il più
bell’omaggio mai scritto
alle ore piccole, con lui
e lei che ballano sulla
spiaggia di Stockton Wing
con le luci della città a fare
da sfondo. Jungleland è
invece un opera nell’opera,
per dirla come Mike Scott
dei Waterboys: gli archi
concorrono a dipingere un
quadretto sottoproletario in
cui, illuminate dai neon delle
stazioni di benzina, gang di
rock’n’roll si affrontano nei
parcheggi mentre Night,
Meeting Across the River,
She’s the One e Tenth Avenue
Freeze-Out contribuiranno
ad ingigantire il mito.
Leggendarie performance
dal vivo faranno il resto.
Ilario Galati
KeepCool
Extrema
Set the world on fire
Ammonia/V2
Quinto album per gli
Extrema, la band simbolo
del metal made in Italy.
E dopo solo un minuto
di intro è una colata
di chitarre e violenza.
Disco che ci restituisce
da un lato gli Extrema
delle origini, più metal
che mai, e dall’altro un
nuovo lato della band,
quasi stoner in certi
frangenti. Quattordici
nuove tracce tra cui
spiccano una cover dei
Motorhead e una ballad
in stile southern (forse la
prima ad opera della
band). Il resto è coerenza,
tecnica eccelsa, grandi
aperture, riff granitici,
velocità supersoniche
stop and go da togliere il
fiato. Il vagone è sempre
quello del trash metal,
anche se gli Extrema non
sembrano disdegnare
incursioni nel death.
Insieme dal lontano 88
gli Extrema sembrano
non sentire gli anni che
passano e riescono
pur restando fedeli alle
origini a confezionare un
disco che si impone sulla
scena con la dignità e
l’importanza dei colleghi
stranieri. Il 6 Gennaio in
concerto al Candle di
Lecce.
The mistery hall
The Voyager through the
Void
Lion Music
Spazio ai virtuosismi
chitarristici, un piede
nel prog, nel power, per
questa band che sembra
aver fatto tesoro delle
lezioni di Satriani e Dream
Teather. Il primo album
di una band che sembra
aver nel caricatore dei
buoni colpi ma che
deve ancora rodare
l’ingranaggio prima del
confronto con i grandi.
Gospels For The Sick
Scum
Dogjob/Audioglobe
Un disco molto atteso
come un po’ tutte le fusioni
di formazioni pre-esistenti.
In questa formazione
compiono ex componenti
degli Emperor, Turbonegro,
Amen e Mindgrinder. Il
risultato è un’esplosiva
fusione tra black metal
e rock and roll. tutto
sommato un po’ anni
ottanta ma un gioilellino
retrò di ottima fattura.
15
Klimt 1918
Dopoguerra
Prophecy/Audioglobe
di Nicola Pace
Noti alla fine degli anni’90 come
Another Day, dopo un periodo di
stallo la band risorge con il nome di
Klimt1918, con lo scopo di portare
avanti il discorso iniziato, unendo alle
precedenti influenze la componente
death-doom scandinava. I risultati di
questa fusione si concretizzarono in un
demo tape e nel debutto Undressed
Moment , ottenendo ottimi consensi
da stampa e pubblico. Fin qui tutto
sembra essere una storia normale, di
un gruppo di ragazzi che crescono
ed evolvono artisticamente, mai i
Klimt1918 con il presente Dopo guerra
sono una band completamente
diversa dal vicino passato. La
componente metal è messa da
parte per dare spazio a composizioni
che risentono dell’influenza di band
come: U2, Cure, Police. Inoltre non vi
sono elementi di forte contrasto per
cui ci troviamo di fronte brani piatti
e dal canto totalmente monocorde.
I brani sono costruiti benino con
arrangiamenti al di sopra della media,
ma sinceramente non mi trasmettono
alcuna emozione. Ed Infine pongo un
quesito, come mai una etichetta che
ritengo seria come la Prophecy spacci
questa band, ormai artisticamente
profondamente
mutata,
come
gruppo dalla forte componente metal,
facendo così pubblicità illusoria?
Consiglio
comunque l’ascolto di
Dopo Guerra agli amanti del semplice
rock o addirittura del brit-pop.
Steve Hackett
Metamorpheus
Inside Out/Audioglobe
Ed ecco a voi il ritorno di Steve
Hacket, leggendario chitarrista
dei compianti Genesis. Il nuovo
capitolo della sua avventura solista
è dedicata a tutti gli ascoltatori
di buona musica, non è infatti ed
oserei dire purtroppo, un ritorno
ai fasti progressivi ormai messi da
parte. Dopo essersi cimentato in
lavori elettrici ed acustici, questa
volta per esprimere il suo sconfinato
talento artistico, molto comune
ai musicisti dell’era progressiva,
Steve ha scelto la chitarra classica
accompagnandosi con la sola
Underword Orchestra, in cui milita
anche il fratello John. Siamo al
cospetto di un lavoro dove la
chitarra oscura e malinconica si
intreccia con l’organico orchestrale
senza che questa possa prendere
il sopravvento. Ascoltiamo echi di
musica che alle correnti eurocolte
mescola ritmi e sensazioni esotiche,
ma che è priva di qualsiasi accenno
al barocco, elemento che in realtà
ci saremmo aspettati. In realtà le
quattordici tracce costituiscono
i movimenti di una grande
composizione classica con forte
carattere declamatorio da colonna
sonora. E la tristezza e la malinconia
di questa opera, che ti conquista
e che personalmente con il suo
incedere virtuosistico, senza mai
abusare della tecnica, compensa
una scena ormai priva di artisti con
la A maiuscola. (Nicola Pace)
SKW
Alter Ego
Vacation House
Gli SKW si formano a Milano nel 1989
con il nome di Sky Walker , cambiato
successivamente in SKW, fra il 1992-95
registrano tre demo-tape con i quali
ottengono ottime recensioni da parte
della stampa specializzata. Intanto la
band suona in tutta la penisola; viene
finalmente notata e nel 1999 arriva
il debut-cd Techno-logical, seguito
da Connection del 2000. I consensi
aumentano tanto da permettere loro
di suonare da spalla a grandi gruppi
come Soufly ed Amorphis. Nel 2005
arriva finalmente il terzo capitolo della
loro carriera: Alter Ego. Il disco è il
risultato dell’esperienza fatta suonando
nei maggiori locali d’Italia e delle
importanti conoscenze professionali ,
ma soprattutto di una ricerca continua
della propria formula musicale. Tutto
questo ha concretizzato un lavoro
sintesi di potenza, aggressività, voglia di
evoluzione tecnica, senza mai mettere
da parte la vena melodica, basta
pensare agli orecchiabili e allo stesso
tempo potenti ritornelli, memorizzabili
sin dal primo ascolto. Le coordinate
musicali vertono quindi verso un postthrash-metal dalle influenze crossover
e nu-metal, in sintesi modern-metal
(percorso già fatto da altre band
come gli italiani Extrema, il chitarrista T.
Massara è presente in una delle tracce
in qualità di guest). (Nicola Pace)
Shadow Gallery
Room V
Inside Out
di Camillo Fasulo
L’attesa è finita! Ci sono voluti quattro
anni per dare un seguito a Legacy,
ma alla fine eccoli qua gli Shadow
Gallery, immancabilmente pronti
a deliziarci con le loro magnifiche
esposizioni musicali, figlie del prog più
classicamente rock come del metal
più elaborato. Certo, cinque dischi in
studio e zero album dal vivo in tredici
anni di carriera sono davvero pochi e
ciò potrebbe far pensare a una band
povera di idee. Ma così non è, dal
momento che questi signori, finora,
non hanno mai perso occasione per
dimostrare tutto il proprio valore. Sono
grandi musicisti, capaci di trasmettere
emozioni e di impressionare per
la grande creatività che sono in
grado di esprimere. Grazie ad un
marchio di fabbrica ben definito e
ad un songwriting ricco di soluzioni
melodiche accattivanti come di
un’invidiabile tecnica sugli strumenti
gli Shadow Gallery sono sempre
riusciti a distinguersi pur muovendosi
sulle tracce di storici nomi come
Yes, Rush e Kansas. Room V nasce
come la continuazione ideale di
quello che fino ad oggi rimane il
loro capolavoro assoluto, Tyranny
(terzo album, 1998). Quel concept li
portò in cima alle preferenze di tutti
i progsters del pianeta. Oggi Room
V, riprendendone l’idea, li porta
ancora più in alto riuscendo perfino
a far brillare di luce propria le loro
composizioni. Lasciatevi incantare,
ne rimarrete folgorati!
Musica indipendente liberamente scaricabile da internet
di Matteo Serra
[email protected]
Molto spesso le zone periferiche del nostro bel paese
sono quelle che più di tutte
riescono a promuovere iniziative davvero innovative.
In un’ottica di condivisione e
promozione, noi di RadioPAZ
in collaborazione con CoolClub, stiamo portando avanti
un progetto dedicato ad una
nuova forma di promozione
delle idee e della creatività.
Sul nostro sito (http://www.radiopaz.it) è possibile ascoltare
o scaricare liberamente brani
musicali di gruppi emergenti
pugliesi e non; con un semplice sistema di “commento”
viene data la possibilità agli
utenti-ascoltatori di recensire,
commentare o criticare liberamente (e senza censure) ciò
che si è ascoltato.
Tutti i gruppi emergenti saranno poi introdotti a una licenza
Creative Commons al fine di
far conoscere da subito alle
band che esistono possibilità
diverse di produrre contenuti
e soprattutto di condividerli.
Sicuramente non si tratta di
un’iniziativa rivoluzionaria o in
grado di risolvere i tanti problemi legati alle major della
musica o alle leggi italiane
in materia, ma è un piccolo
tentativo che dimostra quanto sia importante il tema della
libera circolazione dei contenuti e quanto sia fondamentale sostenere un approccio
indipendente alla creatività.
Il requisito fondamentale per
poter partecipare è uno solo:
il lavoro non deve essere coperto da diritto d’autore né
registrato presso la SIAE. Una
volta ricevuto il vostro CD,
demo, o mini album, la redazione di RadioPAZ provvederà
a metterlo on-line liberamente scaricabile o ascoltabile sul
sito della radio e sarà aperta
la fase della “Condivisione dei
pareri”: attraverso un sistema
di commento automatico,
come già detto, potrete recensire, criticare e commentare liberamente quanto scaricato o ascoltato.
Per maggiori info
www.radiopaz.it
16
“L’enfance rouge è un gruppo di cosi detto avant-rock,
una definizione che non vuol
dire altro che uno spiccato
piacere per la sperimentazione, dalla composizione all’improvvisazione. Volevamo che
questo nuovo album rispecchiasse i nostri concerti, fisici
e rischiosi, composti come selvaggi”. Il chitarrista-cantante
Francois Cambuzat presenta
così Krško-Valencia ultimo cd
nato dalla creatività del suo
gruppo del quale fanno parte
anche Chiara Locardi (voce,
basso) e Jacopo Andreini
(batteria, ottoni). Un lavoro registrato alla Masseria Torcito di
Cannole in provincia di Lecce
e pubblicato in Francia, Spagna e Italia dalla Wallace Records (www.wallacerecords.
com). È sempre molto interessante discutere di musica
e cultura con Cambuzat. Purtroppo però abbiamo dovuto
“tagliare” qualcosa per motivi
di spazio. L’intervista integrale
è sul sito www.coolclub.it.
Partiamo dal nuovo lavoro.
Ci spieghi il titolo e il suo
contenuto?
Dall’inizio, L’enfance rouge
ha sempre scelto i nomi di
due città attraversate come
titolo per i suoi album. “Krško”
è in Slovenia, “Valencia” è
nella Catalunya spagnola.
Facciamo una media di 80
concerti all’anno, per lo più
fuori Italia. Da dieci anni,
registriamo e pubblichiamo
anche pochi dischi, per scelta.
Allora sai, il titolo di un nuovo
album ci aiuta a marcare
il nostro tempo e la nostra
geografia. Erano tre anni che
non usciva un nuovo lavoro.
Da Rostock-Namur abbiamo
registrato ben quattro album
che abbiamo infine buttato
via. Siamo quel che si dice in
francese “des enculeurs de
mouches”, e non abbiamo
bisogno di pubblicare qualsiasi
cosa per organizzare le nostre
tournée o soddisfare il nostro
ego.
In
copertina
c’è
il
Mediterraneo. Quale pensi
possa essere il ruolo di questa
zona nello sviluppo dell’Europa
culturale e musicale?
Il Mediterraneo è sempre
stato una zona che ci ha
attratti, per questa formidabile
mescolanza e questo largo
scambio di idee ma non
penso che le culture del
Mediterraneo influenzeranno
l’Occidente. Le cosiddette
culture
mediterranee
di
questo lato del Mare Nostrum
sono pressappoco morte
o definitivamente travolte
(vedi quest’orrore che è la
pizzica, checché ne dica
l’Istituto Diego Carpitella) e
l’Occidente europeo è troppo
arrogante, ignorante e pigro
per potere soltanto riflettere
oltre il Budha Bar o Khaled,
più lontano da questa visione
edonistico-turistico
della
cultura mediterranea. Per
quello che ci riguarda, devo
dirti che non compriamo più
dischi rock da almeno sette
KeepCool
Da Krško a Valencia.
Viaggio intorno all’enfance rouge
Intervista a Francois Cambuzat
di Pierpaolo Lala
anni, anzi l’ultimo è forse stato
Spiderland dei Slint. E questo per vari
motivi: o i nostri vari amici europei ci
masterizzanno tutto quello che può
interessarci, o da musicisti siamo
diventati veramente troppo blasé,
analizzando immediatamente ogni
nota, riconoscendone tutti clichè
ed influenze, e non godendone
più l’immediatezza. Per farti capire,
ascoltare ora i Sonic Youth è per me
come essere fan dei Beatles negli
anni 80, ovvero vent’anni dopo.
Posso esserne affezionato, ma non
gli riconosco più né freschezza
né modernità. Gli unici dischi che
compriamo sono quelli difficilmente
reperibili, soprattutto in Italia. Hamza
el Din, Munir Bachir, Abd el Wahab,
Mokhtar al Saïd, Abd el Gadir Salim,
Sheikh Ahmad al-Tûni, come la
Rembetika o l’incredibile serie “Les
Ethiopiques”. Come vedi, la musica
che personalmente ascolto è quasi
esclusivamente
di
provenienza
dall’altra sponda del Mediterraneo.
E veramente non si può dire che si
senta nella nostra musica.
Tu sei francese. Cosa pensi di quello
che sta accadendo nelle periferie?
Penso che ogni rivolta popolare
è comunque un buon segno di
vitalità civile, sopratutto se confronti
quest’avvenimento all’Italia dove
difficilmente si è mai organizzato, se
non una rivoluzione, un vero sciopero
generale per piegare il governo. Me
lo spiego dalla mancanza di senso
civile (res publica) e di cognizione e
volontà di vita in comunità. Guarda
il Salento: un paese magnifico,
dove all’interno delle case tutto
è meravigliosamente pulito ed
ordinato, ma dove fuori casa tutti
se ne fregano altamente. Spiagge
sporchissime, rifiuti ovunque lungo
delle strade mal messe, discariche
abusive in ogni uliveto, scarsa
attenzione all’infanzia, promozione
veloce di cultura facile e volontà
politica di non rischiare, etc…
Dei nostri amici greci, spagnoli e
croati ultimamente in visita hanno
avuto l’impressione che i salentini
cagassero nel proprio salotto, erano
esterrefatti. Poi devo dirti che ne so
veramente troppo poco di questa
rivolta “periferica” francese, come si
compiace la stampa di chiamarla..
Ed ho imparato a diffidare di questi
media, per potere affermare
qualsiasi cosa. Saremo in tour tutto
marzo ed aprile in Francia. Te ne
potrò dire di più al nostro ritorno.
Non si può, ne ci si deve fidare dei
media.
François tu sei anche il direttore
artistico
del
festival
Trasporti
Marittimi,
“festival
itinerante
invernale di musiche trasversali”
(www.trasportimarittimi.net).
Ci racconti l’idea di base e le
sue evoluzioni?
Malgrado
la
creazione
della comunità europea, i
diversi pubblici dell’Unione
rimangono
pressappoco
ignoranti delle realtà culturali
dei loro vicini. Il Festival
Trasporti Marittimi, oltre al
puro
intrattenimento,
ha
l’ambizione di stimolare una
crescita artistica e culturale,
avvicinando,
mediante
la musica, il pubblico ad
altri modi di pensare e
fare
cultura.
L’obiettivo
è anche di impostare un
festival invernale europeo
su scala larga, con una
programmazione e direzione
artistica
culturalmente
valida ed anomala, senza
il richiamo facile di stelle
nazionali o internazionali, ma
fondata sulla comunicatività
e la ricerca di artisti di livello
elevato. Inoltre il Festival
Trasporti Marittimi è l’unico
festival italiano che investe
su una vera comunicazione
europea (30 mila euro in
agenzie e pagine intere
di pubblicità sulla stampa
internazionale).
Il
primo
anno nel Salento abbiamo
registrato 12.000 visitatori, più
di 200 prenotazioni alberghiere
straniere per una settimana
di dicembre, e la visita di 3
direttori artisti dei più grossi
festival europei estivi. Ma
dal secondo anno abbiamo
riscontrato dei problemi con la
Provincia di Lecce, problemi
che pudicamente chiamerò
“malintesi”.
Per
questa
terza
edizione,
malgrado
un protocollo d’intesa, non
abbiamo ancora ricevuto una
risposta. Non penso affatto
che un Ente pubblico debba
finanziare tutto, a vanvera,
ma io pretendo una risposta
civile, negativa o positiva che
sia. Fortunatamente, grazie
alla Regione Puglia il festival
farà tre tappe a Copertino,
Taranto e Bari, i 23, 24 e 25
dicembre. Ma la grossa
parte del festival – quella che
chiamiamo “la vetrina” - si farà
durante sei serate a Pescara,
dove la Regione Abruzzo ha
capito la valenza culturale
e promozionale di questo
progetto. Poi, come ogni
hanno, il festival sarà allora
itinerante in tutta Europa,
quest’anno in più di 30 città
durante il mese di aprile 2006.
Un
commento
sull’Italia
odierna?
Il paese dove l’arte non conta.
Figuriamoci la musica. Fare
il musicista non è mai stato
considerato un mestiere serio,
dalla tua nonna come dal
governo. La maggioranza dei
locali/club non sono pensati
per la musica, con un’acustica
ed un equipaggiamento quasi
sempre pessimi e al di sotto
dello standard europeo.
KeepCool
Titta e le fecce tricolori
Rollerball
New Lm records
Seppur in ritardo rispetto
alla sua uscita segnaliamo
il nuovo album di Titta e le
fecce tricolori. Rollerball
contiene dieci brani del
gruppo bolognese che si
muove sulla scena rock
demenziale da più di dieci
anni (nel 1992 uscì il loro
primo demo The cerebrolesi).
Testi graffianti e ironici
su tematiche varie dalla
televisione ai Superboy,
dagli artisti del cazzo ai
problemi d’amore. Da
segnalare anche il sito con
una rassegna stampa tutta
particolare. Per le produzioni
di questo tipo valgono le
stesse avvertenze usate per i
Compagni di Merengue.
La camera migliore
Cari Miei
Due parole-Edel
Senza paura e senza l’assillo
della critica musona La
camera migliore, gruppo
fiorentino scoperto e prodotto
da Carmen Consoli e dalla
sua Due Parole, propone un
secondo cd decisamente
pop-rock. La voce di
Georgia Costanzo convince
come sono apprezzabili per
fantasia e varietà i testi. Le
quattordici tracce di Cari
Miei, che si chiudono con la
breve title track che funge
da ringraziamenti, alternano
sonorità elettroniche a
poderose chitarre elettriche.
Da ascoltare.
Tiromancino
95-05
Warner
Un doppio cd antologico
non si nega a nessuno.
Figuriamoci a una delle band
più fortunate degli ultimi
anni. Federico Zampaglione
ripercorre la storia dei suoi
Tiromancino dagli esordi
con la y (in principio fu
Tyromancino) sino ai recenti
successi passando per i
cambi di formazione e la
rottura del sodalizio con
Riccardo Sinigallia. Tra i brani
anche due inediti (Della
stessa materia dei sogni
e Tornerà l’estate) e due
vecchie tracce risuonate
e riarrangiate (Conchiglia
e Amore amaro). Il primo
singolo Un tempo piccolo,
rielaborazione di una
canzone di Franco Califano,
è anche il primo video firmato
alla regia da Zampaglione
che l’anno prossimo
dovrebbe esordire dietro
la cinepresa per il film Nero
bifamiliare.
Libra
Il viaggio di zebra
Macaco records
Una bella scoperta i Libra,
che arrivano dolci a
raccontarci il loro viaggio. Ed
arrivano lenti, tra riverberi e
tappeti di moog, canzoni che
sembrano nipoti dei Mercury
Rev più sognanti e cugine
17
Offinalchemike
Ho le mie buone ragioni
Maninalto
di Francesco Lefons
Dopo
l’autoprodotto
Piccola
riflessione su dieci personaggi reali,
gli Officinalchemike tornano con
Ho le mie buone ragioni. Disco
fresco e dinamico, originalissimo
per arrangiamenti e testi. Gli
Officinalchemike sembrano giocare
con la musica, riuscendo a svincolarsi
da un ben catalogabile genere
musicale e dalla stessa formula
canzone. Tecnicamente impeccabili,
le
canzoni
presentano
una
solidissima sezione ritmica sulla quale
l’ecletticità delle chitarre e della
voce (non virtuosa ma decisamente
originale) rimandano il sound del
gruppo ad isteriche ed imprevedibili
soluzioni, che ricordano vagamente
le
bizzarrie
di
Quntorighiana
memoria. Ma, nel caso degli
Officinalchemike, ridurre il discorso
ad una questione musicale sarebbe
limitante e forse inutile. La musica del
gruppo di Mantova è fortemente
legata ad un interessantissimo e
atipico lavoro concettuale, che
poi è l’aspetto più caratterizzante
del disco. Ho le mie buone ragioni
è un concept-album bizzarro e
totalmente libero da qualsiasi clichè
musicale e discografico in senso
stretto. I sessanta minuti del disco
sono suddivisi in campi semantici
e all’ascoltatore viene proposto
un duplice livello di ascolto, uno
organico ed uno disorganico: il
percorso metereopoatico a settori
colorati (dall’inizio alla fine secondo
un ordine prestabilito) o l’ascolto dei
singoli settori in ordine sparso.
En roco
Occhi Chiusi
GreenFogRecords
Mi è piaciuto molto il loro esordio
Prima di volare via, penso tra me e
me, sicuramente apprezzerò anche
il nuovo cd. E infatti Occhi chiusi
è la piacevole conferma della
vena compositiva degli EnRoco.
Approdati dalla Fosbury Records
alla GreenFogRecords, il quintetto
genovese torna con testi accurati,
arrangiamenti
molto
semplici,
chitarre acustiche, violino in evidenza
e un timbro tutto personale che ti fa
pensare a molti ma a nessuno in
particolare. Il lavoro parte già bene
con l’arpeggio e le chitarre decise
de La notte si avvicina e prosegue
con Non dormo mai, Mi risparmio,
il ritmo più veloce de L’odiato, il
quasi leopardiano (con quel titolo
da Operetta morale) Dialogo tra
Galileo e un libero pensatore, Un
mercoledì, Giorni senza fretta (con
un inizio quasi branduardiano), Le
promesse facili (con il suo incedere
lento). Tredici brani brevi e diretti, per
36 minuti circa, che si chiudono con
le sonorità più rock di Non di questa
età. Gli EnRoco sono una buona
notizia per la musica italiana.
La Crus
Infinite possibilità
Warner
di Osvaldo Piliego
Quando si parla di la Crus la
citazione è dietro l’angolo. A
partire dal titolo preso in prestito da
un’opera teatrale di Oscar Milosz,
questo nuovo album è un rincorrersi
di riferimenti letterari, tributi, saluti,
fatti con la grazia delle parole
e quella della musica, che mai
come in questo progetto sembrano
convivere in armonia. Non sono
mai stati solo musica i La Crus,
sono stati un ponte tra la tradizione
dei cantautori e la nuova musica,
lo sdoganamento di una cultura
alta ben vestita di pop, poesia,
letteratura, teatro. Per molti ma
non per tutti, direbbe qualcuno. In
questo nuovo album hanno scelto
di dare forma a tutte le “possibilità”
di una canzone ed ecco che oltre ai
brani questo disco contiene anche
un dvd in cui ad ogni canzone è
associato un video e un racconto
di Leonardo Colombati che scorre
nelle pagine del libretto e ripercorre
i testi delle canzoni. Una veste
originale e affascinante per queste
nuovo album dei La Crus.
Musicalmente il disco rappresenta
la naturale evoluzione di un
progetto che ha la capacità di
sapersi sempre rinnovare, attento
ai nuovi suoni ma allo stesso tempo
classico. La voce di Joe, una delle
voci italiane più suggestive sfiora
nuove tonalità restando calda ed
emozionante come sempre. Storie
di un quotidiano visto con gli occhi
della poesia.
Marquez
L’incredibile storia del
malinteso tra il Dottor
Poto e la banda
dell’acqua minerale
Bluscuro
Leggi il titolo e pensi immediatamente
a un nuovo romanzo dello scrittore
sudamerico (tipo La incredibile e
triste storia della candida Erendira
e della sua nonna snaturata) o
all’ultimo film di Lina Wertmuller (a
chiudere la trilogia dopo Travolti
da un insolito destino nell’azzurro
mare d’agosto e Metalmeccanico
e parrucchiera in un turbine di sesso
e politica). Invece questa storia
è il primo capitolo della nuova
avventura musicale dei Marquez
nati dalla fusione delle esperienze
di Andrea e Antonio Comandini
degli emmevubì e Dario Giovannini
e Michele Bertoni degli Aidoru. Il
risultato è un disco che naviga a
vista tra rock internazionale e musica
d’autore italiana, tra anni ’60 e
prog, tra blues e melodia. Un lavoro
sporco nella esecuzione, per nulla
patinato, suonato con semplicità
(chitarra, basso, batteria, piano)
e senza fronzoli. Nel complesso un
buon cd (nulla di eccezionale sia
chiaro) che però manca del brano
memorabile. Il progetto prevede
anche la nascita dell’etichetta
discografica Bluscuro che produce
questo esordio. Il cd è corredato
da una fiaba illustrata, che dà il
titolo all’album, nella quale vi è una
non tanto velata critica al mondo
discografico italiano.
del nostrano Benvegnù.
Quanto i toni si irrobustiscono
un pelo, sembra di ascoltare
qualcosa degli Afterhours.
Ma i Libra hanno personalità
e lo dimostrano subito con
una grande pop song come
Io resto qui, con tanto di
chitarrina in stile Coldplay
versus U2.
Zeder
Anima
Autoprodotto
Anima il titolo di questa
autoproduzione dei giovani
Zeder. Divisi tra Ferrara e il
Salento appaiono già dalle
prime battute manifesti nelle
intenzioni e le influenze. I
primi nomi che vengono in
mente sono Marlene Kuntz,
afterhours, Litfiba, un certo
rock che ha fatto scuola e
proseliti un po’ ovunque.
La proposta della band
non rimane comunque
nell’anonimato di gruppi
epigoni senza carattere
ma riesce a distinguersi per
grinta e spunti interessanti.
Ben suonate, tutto sommato
ben prodotte queste tracce
sono solo l’assaggio delle
potenzialità di questa band.
Fiub
Brown Sugar
Jestrai
Sembra una presa in giro il
titolo di questo mini dei Fiub.
Rimasti in due fanno il verso
ai White Stripes con questa
manciata di brani dal titolo
Brown Stripes. Rumorosi,
rock and roll, low-fi, tra punk
e stoner, un po’ grunge (
marchio di fabbrica Jestrai) i
Fiub sono scarni ma potenti,
essenziali.
In coda all’album Daytripper
dei Beatles più incazzata
che mai. Un assaggio
interessante, aspettiamo le
prossime portate.
Dorian Gray
Tempi Supplementari
K-factor
La coordata K- factor,
shinseiki, audioglobe fa
riemergere uno dei gruppi più
importanti dell’underground
italiano degli anni 90 italiani:
i Dorian Gray. Questo Tempi
Supplementari recupera
alcuni tra gli episodi più
memorabili della band e una
traccia video con immagini
tratte dalla loro tournè in Cina
( meta pressoché impossibile
a quel tempo per la musica)
. Il disco si apre con una
tiratissima cover di Astronomy
Domine dei migliori Pink
Floyd e prosegue con
alcuni dei brani che hanno
caratterizzato la carriera,
lunga quasi un decennio,
della band. Degno di nota il
remix di La conoscenza del
fatto che sembra uscito dalle
mani di Trent Reznor. Una
testimonianza importante,
un gruppo da non
dimenticare.
KeepCool
18
Riovolt
Sambarama
Irma records
Riovolt altro non è che il
progetto brazilian electro
del produttore compositore
Norbert Kupper (aka nobit).
I tedeschi giungono al loro
secondo album, sempre
per l’etichetta bolognese
Irma records. Questo è
un lavoro che si presenta
con un progetto grafico
accattivante, rigorosamente
ecologico, semplicemente
fantastico. Come il
precedente, Sambarama si
muove sulla digital bossa, ma
questo lavoro è reso più ricco
da diverse collaborazioni.
Ad esempio Lilian Vieira,
già voce negli Zuco 103, è
alle prese con uno dei pezzi
più noti della tradizione
brasiliana Zazueirà di Jorge
Ben, passata anche dalle
parti dell’immensa Elis Regina,
in una versione riletta con
partiture vocali raggianti
e abrasive che decollano
lievemente dentro un
rivestimento electrogroove
al cardiopalmo. L’album
si muove dentro diverse
atmosfere di origine
brasiliana: nella title track
ci ritroviamo assorbiti in
una affascinante e intensa
batucada del terzo millennio;
passiamo poi alla vibrante
Kind of demon stracarica
di soluzioni spy e giungiamo
dentro suoni più sottili e nitidi
di Oracao sem nexo grazie
anche alla meravigliosa voce
della brasiliana Ju cassou.
Prepariamoci ad un inverno
atipico, grazie anche ai suoni
leggeri e caldi dei Riovolt.
(Postman Ultrachic)
Charlie Haden
Not in our name
Verve
Trentacinque anni dopo
lo storico disco a nome
Liberation Music Orchestra,
Charlie Haden e Carla Bley
decidono di rispolverare la
gloriosa sigla per un nuovo
disco colmo di fierezza e
di appartenenza. Certo, i
capelli del contrabbassista
statunitense si sono
imbiancati, anche la Bley non
è più la ragazza scapigliata
di una volta, e il manipolo di
musicisti al loro fianco non
conta solisti d’eccezione
come Gato Barbieri e Don
Cherry ma questo Not in Our
Name dispensa ugualmente
brividi. Si comincia con la
title-track, a firma Haden,
che suona un po’ come una
dichiarazione di guerra: un
arpeggio classico introduce
il suono avvolgente dei fiati
e il tutto ci rimanda proprio
a quel fatidico disco che
ancora si porta appresso
l’urlo sordido dei dannati
della terra. Il Vietnam è
stato sostituito dall’Iraq, la
disperazione e la voglia di
gridare contro l’ingiustizia
ovunque essa venga
perpetrata è la stessa. Molto
riusciti il reggae di This is not
Una generazione
che fa le rivoluzioni
sul divano
Intervista con gli Amari
di Ilario Galati
Gli Amari sono un trio friulano
che ha appena licenziato per la
Riotmaker un quarto disco maturo e
convincente sospeso tra battiti hiphop e testi arguti e poetici, intimi ma
generazionali. Grand Master Mogol
è fatto di suoni molto ‘cheap’ che
si sovrappongono dando così vita a
un contesto nuovo ma al contempo
nostalgico e debitore tanto della
musica d’autore italiana quanto
del sound che imperava negli
anni dell’edonismo reaganiano.
Abbiamo intervistato il Pasta, che ci
racconta genesi, intenti e aspirazioni
del primo combo hip hop che si
ispira a Mogol.
Vorrei cominciare dal titolo del vostro
disco perché credo che esplicare
le due citazioni che contiene possa
essere un buon modo per delineare
la vostra proposta.
Grand Master Mogol è la fusione
tra Mogol, il paroliere più famoso
d’Italia, e Grand Master Flash, il disco
guida dell’hip-hop della vecchia
scuola newyorkese. La fusione delle
due cose dà vita a questo mostro…
e ora che ci penso il titolo ricorda
anche il Grand Mogol, il mentore
delle giovani marmotte (ride).
Immagino però che non sarete
cresciuti solo con la musica leggera
e Grand Master Flash…
Durante la composizione di questo
disco devo dire che alcuni dischi
della ditta Battisti-Mogol sono stati
una notevole fonte di ispirazione.
Comunque nel ‘97 noi abbiamo
cominciato come gruppo hip hop
piuttosto canonico e tutto quello
che abbiamo ascoltato in questi
anni ha prodotto questo risultato.
Leggevo sul vostro bel sito, www.
farraginoso.com, le playlist che
stilate periodicamente e ci ritrovo
molti dischi indie, electro…
Ascoltiamo un po’ di tutto,
senza alcun problema: ci piace
l’elettronica, il pop indipendente,
l’indie contemporaneo che si suona
in Usa e Inghilterra, ma anche il funk,
il soul e la disco.
Gli Amari però non sarebbero
gli Amari senza la componente
letteraria: scrivete dei testi molto
nostalgici anche se raccontano
storie saldamente ancorate alla
contemporaneità. Sarà forse la
grafica del cd ma io mi sento
inghiottito nell’imbuto cosmico degli
anni ’80.
In effetti questo ce lo dicono in
tanti… sicuramente un po’ dipende
dall’ideologia della Riotmaker e
dalla gente che ci gravità intorno
che è parecchio nostalgica. Mettici
pure il suono di qualche videogame,
i colori della cover, l’arcobaleno
che fa molto pop 84 (ride)… in
effetti noi siamo dei gran nostalgici
e colpisci nel segno quando dici
questa cosa perché ci piacciono gli
anni ottanta.
Sfatiamo quindi il mito che quella
decade è stata piuttosto negativa
per la cultura underground?
Decisamente… per noi è stato un
periodo formativo: in quel periodo
ci arrivavano degli input che per
questioni di età non potevamo
comprendere appieno però anni
dopo certe cose ce le siamo
ritrovate dentro. Gli anni ‘80 non
sono stati solo la moda e il kitsch ma
anche una serie di cose che adesso
sinistramente tornano in voga… ma
non butterei via tutto!
Torniamo ai testi, che scrivete tu
e Dario. Come funziona il vostro
momento compositivo per quanto
riguarda le liriche?
Scriviamo in parallelo, a quattro
mani, uno contro l’altro o come
ci viene. Spesso e volentieri i testi
parlano di noi ma per qualche
strana congiunzione astrale li
abbiamo resi piuttosto universali,
nonostante siano spesso in prima
persona…
… Ti faccio queste domande perché
credo che l’attenzione che la critica
specializzata sta rivolgendo al
vostro lavoro sia in parte dovuta
proprio alla componente letteraria:
sono storie nelle quali non è difficile
ritrovarsi.
Beh sì… tieni conto che comunque
quello è il nostro mondo, lo
conosciamo bene e ci permettiamo
di riderci un po’ su. Riguardo questa
attenzione nei confronti dei testi ti
do ragione: noi ci facciamo delle
grandi seghe per quanto riguarda
l’aspetto musicale… per esempio
l’equalizzazione
di un suono
piuttosto che l’elaborazione con il
computer di una chitarra trattata
o di una batteria mentre i testi
sono stati la cosa più naturale del
mondo.
Una domanda che non ha risposta:
io come giornalista mi occupo di
una ambito musicale che è lo stesso
nel quale voi operate che è quello
della musica indie italiana; secondo
te, non rischiamo noi di farci delle
grandi seghe parlando di dischi che
hanno comunque una audience
molto ristretta?
Assolutamente si! Croce e delizia
dell’indie. Si fa un gran parlare di
cose che hanno un mercato molto
piccolo dove gli operatori, i musicisti
e i fruitori, si conoscono tutti per
nome o per nickname su msn (ride).
Bisognerebbe fare un passo indietro
e dire: ok, ho creato una cosa
che è piaciuta, ma bisogna farla
conoscere a più gente possibile,
sennò non ha molto senso.
Comunque, per quanto limitata sia
l’audience in un modo o nell’altro
questi dischi incidono alla lunga sui
gusto generale, anche forse grazie
al web. Sei d’accordo?
È innegabile. Ti dico che noi
abbiamo iniziato la promozione
del disco ignorando i classici canali
e mandando il promo ai blog più
frequentati. Questo ha creato una
curiosità molto fertile. Per dirti, mesi
prima dell’uscita dell’album su
emule o soulseek già si trovava per
intero e questo non può che farci
piacere.
America firmato Metheny e
la fanfara di Blue Anthem, il
cui fraseggio pianistico pieno
di dolore ci ricordano quanto
grande sia la Bley come
compositrice. C’è un bel
pezzo di Frisell e ci sono pure
riletture di Dvorak e Barber
e ancora una volta sono
gli arrangiamenti bandistici
a brillare con Goin’ Home
che diventa una ballad
che lacera mentre l’Adagio
di Barber è uno splendido
finale per un disco carico di
passione. (Ilario Galati)
Dirotta Su Cuba
Jaz
Jazzet
Come possiamo definire
la nostra generazione?
Generazione cocktail?
Generazione lounge?
Generazione cazzeggio?
Quest’ultima calza a pennello
per Jaz. I Dirotta Su Cuba
ritornano sulla scena senza
la oramai solista, Simona
Bencini e con una formazione
completamente nuova
(l’unico membro rimasto del
vecchio gruppo è il tastierista
Rossano Gentili); alla voce
troviamo la giovane e dotata
Marquica che dimostra grinta
e passione insieme ad un
numeroso collettivo formato
da eccellenti musicisti. Il
pezzo più interessante sembra
essere Fantom Beat, una
bella traccia di apertura che
fa sperare in una rinascita
danzereccia italiana; si passa
poi a L’Iguana, il singolo
di punta e più radiofonico
dell’album, melodia
accattivante, arrangiamento
esperto con una forte
e tagliente sezione fiati
(piaciuto Kill Bill eh?). Ultimo
guizzo positivo del disco può
essere Amore Normalissimo
(uno spensierato omaggio
agli amori degli anni ’60). Poi
si scende, inesorabilmente;
l’album scorre con pezzi
che non tolgono e non
aggiungono nulla al
panorama musicale attuale.
Ora sembra prendere in giro
la Giorgia degli ultimi anni; il
testo di Italy sbigottisce (“Son
malato immaginario/mangio
pizza fuori orario/son nato in
Italy”!!!). Apprezzabile il lavoro
svolto per la grafica del
cd, un bel digipack con un
libricino a mò di diario e con
il cd che riprende la forma
di un vecchio 45 giri in vinile.
(Giancarlo Bruno)
KeepCool
Bari, No New York! (parte prima)
Mai titolo fu più azzeccato:
1) perché chissà quando e
se mai a memoria di barese
si è potuti assistere ad una
tale raffica concentrata
di
emozioni
sonore,
che manco a New York
appunto;
2) perché proprio in No
New York - la seminale
compilation prodotta da
Brian Eno nel (non tanto)
lontano 1978 e da poco,
dopo
anni
di
disturbi
intestinali per i collezionisti,
che per possederla erano
costretti alla dura scelta tra
una costosissima versione
giapponese in cd e la
ancor più costosa e rara
versione originale in vinile
della Antilles, sussidiaria
alternative
della
Island
rec., ristampata sia su cd
che su vinile, ad opera
credo di un’etichetta russa
- ritroviamo ben tre degli
artisti che hanno reso così
stupefacente questo mese
d’autunno: Arto Lyndsay,
Lydia Lunch e Ikue Mori (ok,
quest’ultima, che doveva
esibirsi con Zeena Parkins
il 29, ha rimandato il suo
concerto al 20 dicembre,
ma
la
sostanza
non
cambia).
Inizialmente questo dovevavoleva esser un resoconto
di questo tour de force
musicale, ma il tempo e lo
spazio mi hanno convinto
a ripiegare su una più
concisa analisi generale
della situazione, perché la
situazione merita di esser
analizzata e compresa.
Diceva bene Osvaldo Piliego nel suo editoriale del
mese scorso: nonostante i tagli
alla cultura, il problema degli
spazi, i costi di produzione e la
scarsa risposta del territorio, novembre è stato un gran mese.
Quanto promesso dalle tre realtà
più importanti della ‘scena musicale alternativa’ barese è stato
in pieno esaudito. Time Zones,
alla sua ventesima edizione, ha
saputo metter su un cartellone
di tutto rispetto (dimenticando la
orripilante-agghiacciante-disgustosa parentesi di Mauro Pagani,
roba da pentirsi di avere occhi e
orecchie, e di esser nato in questo mondo ingiusto che rende
possibile certi eventi devastanti
per l’animo, in stile punizione divina, e, badate, parlo del Dio del
vecchio testamento) (apro una
seconda parentesi poi per sottolineare lo stupore per l’inaspettata
accoglienza da superstars dedicata alle due sorelline Casady,
le Cocorosie (nella foto) per intenderci, con tanto di ragazzine
scalmanate che urlavano tra un
pezzo e l’altro fino alla ressa che
si è andata a creare sotto al palco durante i bis, che manco per
Paola e Chiara…tutto questo nonostante l’imbarazzante stile cozzalo-rap esibito dalle due e dalla
culona nera che le accompagnava con basi vocali e balletti
alla 50cent, che ha chiuso addirittura con un abbozzo di breakdance così goffo da meritarsi di
esser frustata) (apro una terza
parentesi per ribadire che non mi
sono ancora ripreso dal duro colpo infertomi dalle temibili orazioni
del poeta maledetto Mauro Pagani durante il suo show-piaga),
ricordando in particolare le algide sonorità minimal-elettroniche
di Alva Noto (al secolo Carsten
Nicolai) che accompagnava-
19
di Davide Rufini
no le strimpellate pianistiche di
Sakamoto (nella foto), molto meglio amalgamate dal vivo che su
disco, sebbene nel complesso
un po’ datato come approccio
avanguardistico, e l’elegante
omaggio noir a David Linch e Badalamenti da parte di Lady Lydia
Lunch e la sua band (una soft-nowave?). Ciò nonostante, alcune
critichette non sono mancate,
soprattutto da parte di chi, forse
giustamente, si aspettava qualcosa di più da un così importante
anniversario.
Lo Zenzero, il più importante
contenitore musicale che la
città possiede, sta da parte
sua prendendo
finalmente
una propria strada più sicura
e definita. Dopo alcuni anni di
incertezze, sembra aver deciso
definitivamente di imporsi come
vero e proprio club alternativo,
punto di riferimento per tutti
i pugliesi, e non solo, che
ambiscono a suoni innovativi e
moderni. Se i giovedì, a quanto
pare, sono dedicati alla musica
dance ‘popolare’, e il venerdì
è incentrato più su proposte
di pop-rock nostrano (Paolo
Benvegnù il 21 ottobre, Gazzè
il 4 novembre, Morgan il 18), le
quali, seppur interessanti per
certi versi, sono da considerare
ancora il lato ‘commerciale’ del
loro programma, è il sabato che
si impone come l’appuntamento
settimanale
più
interessante
e significativo: in tali giorni
lo Zenzero inviterà a suonare
tutti i vecchi e nuovi volti della
scena elettronica italiana e
internazionale, attingendo un
po’ da tutti i differenti ambiti e
sottoculture di cui si compone
questo genere. La qual cosa
non può che esser accolta con
enorme piacere. Eppure, proprio i
primi di questi appuntamenti sono
stati i meno riusciti, non tanto
per la qualità delle proposte,
quanto
per
l’evidente
difficoltà nell’inquadrare un
giusto pubblico capace di
dar vita a quella ‘situazione’
senza la quale il ‘popolo
della notte’ barese non
si muove. La strada è di
certo in salita per chi vuole
proporre nuove sonorità,
ma una errata, se non, a
volte, proprio inesistente,
promozione degli eventi non
può di certo esser d’aiuto.
Per la prima volta, dopo
la chiusura del Jimmiz,
c’è nuovamente a Bari
un grande
spazio per
la musica indipendente,
speriamo che né i baresi
né gli stessi organizzatori lo
destinino ad una atroce
decaduta,
sarebbe
un
duro colpo per una città
che è aggrappata con un
filo troppo sottile al flusso
degli eventi artistici-musicali
del resto del pianeta.
D’altra parte, la riuscita,
inevitabile, di certe serate,
come i concerti-eventi degli
Incognito il 27 e dei Blonde
Redhead il 29 novembre,
non deve essere indicativa:
non ci si può aspettare che
una tale realtà promotriceorganizzativa come quella
dello
Zenzero
debba
sostenersi solo grazie e
saltuari appuntamenti ‘a
botta sicura’. La definizione
di un proprio programma
unitario e la vera e propria
creazione di un proprio
pubblico fedele e fiducioso
nelle
proposte,
anche
quando poco conosciute,
si
rendono
dunque
necessarie.
KeepCool
20
Appaloosa
IL SALTO NELL’INDIE
Continua il nostro viaggio alla
scoperta del sottobosco
musicale italiano. Questo
mese è il turno di Urtovox,
etichetta con i piedi in
Toscana, ma con le mani in
giro per lo Stivale e il cuore
nell’indie. Rock. Abbiamo
parlato con Paolo.
Prima di tutto, le presentazioni di rito, chi siete, cosa
portate, dove andate?
Urtovox nasce nel Marzo del
2000 a seguito di un decennale percorso negli anfratti
della scena alternative rock
Italiana.
Fondamentale la frequentazione del CentroMusica
di Modena in occasione del
“RockImpresa 2000”, progetto pilota per la formazione
di competenze specifiche in
campo discografico finanziato dal fondo sociale europeo, che è risultato determinante per l’assetto organizzativo della Label. Urtovox
dimostra già di avere buon
carattere attraverso le prime
produzioni: Elle, Goodmorningboy, Nest, Hogwash, Ultraviolet Makes Me Sick, Vegaenduro, Jokifocu e A Toys
Orchestra. Si caratterizza per
i suoi gusti indie/pop/rock
chitarristico e sonico che la
vorrebbe vicina ad esperienze U.S.A. quali Matador, Domino, BigCat e Touch&Go
dei tempi migliori.
Attraverso un paziente e tenace lavoro di comunicazione è riuscita a tessere importanti relazioni dando vita ad
un network di conoscenze e
rapporti umani e lavorativi
utili per espandere il proprio
operato fuori dai classici
confini dell’alternative italiano guadagnandosi velocemente il riconoscimento
della stampa specializzata
italiana ed estera (e più in
generale della critica...), e
di una buona fetta di pubblico.
Da dove nasce l’idea di
mettere
su
un’etichetta
indipendente?
Desiderio,
passione,
amore,
follia, senso di sfida, voglia
di
orientare
positivamente
il
senso autolesionista che
contraddistingue tutti noi alla
Urtovox.
Quale gusto segue Urtovox? Se ce
n’è uno.
Un gusto puramente emozionale
per tutto ciò che gravita intorno
all’alternative indie rock di matrice
anglofona. Qui in Urtovox abbiamo
tutti più di 30 anni di rock’n’roll sul
groppone e ne abbiamo viste di
cotte e di crude. Pubblichiamo
solo i progetti che ci emozionano.
Ho visto che lavorate molto con
l’estero, molti dei vostri gruppi
cantano in inglese... è una
fascinazione, la convinzione che
il nostro rock sia da esportazione
o cosa?
Crediamo nei pochi aspetti positivi
della globalizzazione.
Neil Young come Lou Reed sono
patrimonio indiscusso dell’umanità, appartengono a tutti. Tutti possono rielaborare le lezioni dei giganti del rock. Non importa se sei
canadese, australiano o italiano.
Per ciò che riguarda la musica
italiana
cantata
in
inglese
preferisco
chiamarla
musica
europea. Cosa sono dEus, Notwist,
Lalipuna,
International
noise
cospiracy, Hives se non band
europee prima che tedesche,
svedesi o scandinave?
Credo che in Italia ci siano progetti
internazionali che conservano
la qualità e la credibilità per
essere portati all’estero con pari
dignità di tante altre bands non
specificatamente americane o
inglesi.
Cos’è e come nasce “Songs for
another place”?
Songs for another place è una
doppia compilation formata da
un cd di band americane e un cd
di band italiane. Le prime sulla scia
della nuova ondata indie folk/alt
country, le seconde invece con
una connotazione più indie. Il tutto
è confezionato in un mega packaging quadrimensionale cartonato
e numerato copia per copia.
La produzione condivisa con
A Toys Orchestra
Awfull Bliss, neo etichetta campana fondata sulla sconfinata
passione e conoscenza di Giulio Pescatori e
Patrizio Marchini. Due
umanoidi fuori dal comune!
La compilation sottolinea l’idea di interscambio, canzoni che creino dei
ponti sui quali la musica possa
viaggiare libera da ogni limitazione culturale e territoriale per permettere che la sua conoscenza,
la sua bellezza possa arrivare ed
essere messa a disposizione di
tutti. Un general intellect che sottolinei quanto bisogno ci sia di
fare in modo che il linguaggio musicale sia vero mezzo produttivo di
comunicazione. La globalizzazione nella sua accezione maggiormente (pro)positiva... Considerare
la musica (e ancor di più certa
musica) come un qualcosa che
non sia necessariamente americana, inglese italiana o giapponese ma che sia invece patrimonio dell’umanità senza legami
strettamente territoriali.... soppiantare la reverenza preferendo la riconoscenza più pura nei confronti
di un mondo musicale, quello propriamente americano, che è stato
linfa vitale per generazioni di musicisti sparsi in tutto il mondo. Non
produzione discografica in senso
stretto ma produzione di comunicazione in senso ampio.
Parlaci un po’ delle vostre
produzioni e delle vostre nuove
uscite.
Le nostre prossime due uscite
sono: Psycho Sun con l’album Silly
Thinghs e Appaloosa con Non
posso stare senza di te.
I primi sono sudore, puzzo di birra
e rock’n’roll ruvido e tagliente se
pur fontamentalmente legato ad
una matrice melodica che rimane
immediatamente
incastonata
nella testa.
Le influenze spaziano dai già citati
Television ai Velvet Underground,
Radio Birdman e Replacement
per arrivare al traguardo dei giorni
nostri alla pari di Strokes, Hives ed
International noise cospiracy.
I secondi invece sono
una
delle
band
più
infuocate
e
travolgenti
del panorama Crossover
noise-dance
strumentale
Italiano.
Dinamite allo
stato puro: ritmi serrati e un
sound incendiario che vi
porterà immancabilmente
a cercarli sui palchi dei
migliori rockclub italiani ed
internazionali.
I figli legittimi di NomeansNo,
Melvins, Don Caballero e
Shellac rielaborati originalmente attraverso certe propensioni Kraftwerk ed Aphex
Twin.
Quali realtà discografiche
segui e apprezzi in Italia e
cosa credi non vada nel
mercato della musica.
Ultimamente ho conosciuto
e molto apprezzato i ragazzi
della Madcap collective di
Treviso, l’etichetta di Franklin
Delano, Father Murfhy, Stop
the wheel e Vittorio Demarin
(videomaker ed appassionato di arti visive veramente
molto promettente).
Apprezzo anche la Unhip
records di Bologna con i suoi
Discodrive e Settlefish e Bar
la muerte che con gli Ovo
mi ha lasciato a ganasce
spalancate per l’impeto
e l’animalismo dadaista e
futurista: rock’n’roll allo stato
puro. La Wallace records
nei cui confronti esprimo
invidia (in senso positivo,
ovviamente) per i Rosolina
Mar, una band veramente
mondiale! Per ciò che
riguarda il mercato italiano
il problema sta nella sua
inesistenza.
Dov’è sto mercato italiano?
KeepCool
21
Billy Talbot: il cuore dei Crazy Horse Cuore a Nudo con Joe dei La Crus
Intervista di Giancarlo Susanna - Foto di Mauro Puddu
Giovedì 22 dicembre @ Cantieri Koreja di Lecce
Il breve tour italiano di Billy
Talbot, bassista e fondatore
con Ralph Molina dei
leggendari Crazy Horse, è
nato dalla vecchia amicizia
che lo lega a Stefano
Frollano
e
Francesco
Lucarelli. Appassionati da
sempre del più classico
suono californiano, i due
sono autori di Crosby Stills
Nash
And
Sometimes
Young, un’opera in tre
volumi pubblicata da un
editore olandese. Quando
Stefano e Francesco hanno
pensato di organizzare
una serata in onore di
Neil Young per il suo
sessantesimo compleanno,
è stato quasi naturale
tentare di coinvolgere
Talbot, che ha appena
pubblicato un disco con
la sua nuova band - Alive
In The Spirit World (Diesel
Motor/Sanctuary)
e
voleva passare un po’ di
tempo in Europa. Di qui
l’appuntamento romano
del Jailbreak, le altre tre
date nella penisola e
un breve giro in Olanda
e Gran Bretagna. Billy
Talbot ha sfoderato una
grinta e un’attitudine da
cantautore,
catturando
l’attenzione del pubblico
con delle canzoni davvero
molto belle. Voce un po’
roca, chitarra acustica e
pianoforte. Non ci vuole
molto a colpire il cuore
di chi ascolta se si ha
qualcosa da dire. Dal set
acustico di Talbot e dal
suo disco si capisce poi
da dove vengano certe
suggestioni dei Crazy Horse
con Neil Young, da dove
arrivi - tanto per fare un
esempio - l’atmosfera di un
capolavoro come Sleeps
With Angels. Consapevole
della sua storia - ci ha
regalato una commovente
I Don’t Want To Talk About
It, scritta dallo sfortunato
Danny Whitten e tratta dal
primo e omonimo LP dei
Crazy Horse - Talbot è stato
Dicembre e gennaio densi di
appuntamenti per la rassegna
Strade Maestre, organizzata dai
Cantieri Koreja in collaborazione
con Provincia di Lecce, Regione
Puglia, Ministero per i Beni e le
Attività Culturali. Il cartellone
attraversa tutte le discipline
artistiche dal teatro, alla danza,
alla musica, alle arti pittoriche
ma soprattutto consolida il
progetto sul territorio regionale
che fa dei Cantieri Koreja campo
privilegiato di sperimentazione
artistica e luogo incontro per
le giovani generazioni. Dopo la
così gentile da voler scambiare
due chiacchiere anche con noi.
Lo ringraziamo ancora una volta
per la sua sensibilità e la sua
cortesia.
Come mai tanto tempo per
realizzare il tuo primo progetto
solista?
In tutti questi anni ho messo ogni
mia energia nei Crazy Horse
e nella collaborazione con
Neil Young. Ho sempre scritto
canzoni, ma sono stato un po’
troppo pigro con le mie cose,
forse perché ero troppo preso
dal gruppo. A un certo punto è
diventato quasi indispensabile
che io facessi ciò che volevo.
Mi interessava molto il concetto
di band. Quello che significa e il
modo in cui agisce. Così mi sono
concentrato sul mio gruppo
e alla fine ho deciso che era
arrivato il momento di mettere
a frutto tutto quello che avevo
imparato negli anni e di fare un
mio disco.
Sei sempre stato il cuore e il leader
dei Crazy Horse, ma ora puoi
finalmente guidare apertamente
una tua formazione.
In un certo senso è vero.
Sono sempre stato l’istigatore
all’interno dei Crazy Horse.
Adesso faccio le mie canzoni
e farò anche dei concerti da
solo suonando piano e chitarra
acustica. Ne sono molto felice.
L’ultimo disco dei Crazy Horse,
Left For Dead, è uscito nel 1990.
Possiamo aspettarcene un altro
nei prossimi mesi?
Credo di no. Lavoreremo con
Neil Young, ma non da soli.
Questo è uno dei motivi per cui
ho deciso di suonare con la mia
band. Con Neil faremo qualcosa
più rock di Greendale, qualcosa
di simile a Ragged Glory.
Qual è il tuo preferito tra gli
album dei Crazy Horse?
Il primo, senz’altro. E subito dopo,
a pari merito, Crazy Moon e Left
For Dead.
Qual
è
il
segreto
della
collaborazione tra i Crazy Horse
e Neil Young? L’amicizia? La
musica?
Persone che suonano insieme.
Le persone sono ciò che conta
veramente.
anni in Italia ha coniugato
più di ogni altro la ricerca
dell’estetica
elettronica
alla canzone d’Autore, sarà
accompagnato dai musicisti
Paolo Milanesi (tromba) e
Fabio Barovero (pianoforte),
fondatore dei Mau Mau e
di Banda Ionica. Questa
formazione in trio acustico,
rileggerà diverse canzoni dei
La Crus, brani dei Mau Mau
e cover da sempre amate
ed alcune mai suonate; il
tutto unito da reading di
sonetti di Shakspeare, stralci
Joe (La Crus), Foto: Alice Pedroletti
produzione della compagnia
leccese Dovevamo Vincere (3 e 4
dicembre) e Creature (mercoledì
7) la rassegna prosegue con Il
figlio di Gertrude del Teatro Stabile
di Calabria (sabato 10). Gli ultimi
due appuntamenti dell’anno
sono dedicati alla musica. Venerdì
16 sul palco la Compagnia
Verdastro Della Monica presenta
A Flower. Il concerto segue il fil
rouge di un repertorio di musica
vocale e strumentale scritta in
grafie non convenzionali e per un
uso non canonico sia della voce
che del pianoforte. Ne risulta una
dimensione musicale in cui gli
elementi del gesto e dello spazio
prendono un rilievo strutturale
creando i presupposti formali
della azione teatrale.
Giovedì 22 i Cantieri Koreja, in
collaborazione con CoolClub,
ospitano il consueto Xmas party.
Alle 21.00 sipario sullo spettacolo
Cuore a Nudo (che il 23 sarà allo
ZenzeroClub di Bari), un’avventura
acustica tra musica e poesia:
dalla nitidezza timbrica al fragile
struggimento, dalle strozzature
delicate alle parole soppesate. La
poesia segue il suono delle parole
e la musica si immerge nella
poesia. Sul palco Mauro Ermanno
“Joe” Giovanardi, il cantante dei
La Crus, il gruppo che in questi
di Pasolini, Pedro Salinas
e molti altri. Un concerto
intimo e raccolto che esce
dai canoni della classica
esibizione live per liberare
sul palco le emozioni
più profonde. A seguire
selezioni musicali a cura di
Robert Passera. Dj dal 1980,
ha navigato tutte le mode
musicali degli ultimi 20 anni,
ed è oggi considerato
tra i dj più autorevoli
della scena easy-listening
italiana. Quando appare
in consolle, si muove tra i
vinili con i gesti misurati di
colui che ha viaggiato nel
tempo per proporre la sua
cocktail-parade di brani e
sonorizzazioni inusuali.
Il nuovo anno si apre con
la festa Befana&co. (6
gennaio alle ore 16:30) e
continua con Lezioni di
piano (venerdì 7 gennaio),
L’ereditiera (sabato 15),
Il mio prometeo - quasi
un’operina rock (venerdì
21) e Premiata ditta Scintilla
(sabato 29).
Xmas Party: Sipario ore
21.00. Ingresso spettacolo
10 euro (solo festa 5 euro).
Info 0832.242000 - www.
teatrokoreja.com.
KeepCool
22
Voglio essere come John
di Giancarlo Susanna
“Io sono Ringo Starr e suono
la batteria”.
“Io sono Paul McCartney e
suono il basso”.
“Io sono George Harrison e
suono la chitarra”.
“Io sono John Lennon.
Anch’io suono la chitarra. A
volte faccio lo scemo”.
Così si presentavano i
Beatles in un programma
radiofonico
della
BBC
all’inizio della loro carriera.
Quattro ragazzi della porta
accanto con il rock nel dna
e l’energia dei ventenni
nel cuore. E John Lennon,
il “capo”, usando il verbo
“to play” nelle sue varie
accezioni
(“suonare”,
ma
anche
“recitare”,
“fare”),
dava
come
avrebbe sempre fatto il suo
segno surreale alle uscite
pubbliche del quartetto.
Nel momento in cui tutto
il mondo ricorda la sua
tragica
scomparsa,
ci
piace ricordarlo soprattutto
così. Motore inarrestabile
dell’invenzione
verbale
e del sense of humour.
Sapiente
manipolatore
dei media. Artista geniale
e dotato di una dialettica
travolgente. Il minestrone
mediatico in cui noi poveri
abitanti
della
penisola
rischiamo sempre più di
affogare farà ancora una
volta i suoi danni - vedi lo
“speciale” andato in onda
il 4 dicembre in seconda
serata a Canale 5. Si farà
confusione tra John e Paul,
quando noi tutti sappiamo
quanto tutti e due tenessero
all’attribuzione di questa o
quella canzone. Si diranno le
solite banalità sulla storia
d’amore tra John e Yoko
Ono. Si dovrà per l’ennesima
volta prendere atto che
quando in questo paese si
parla o si scrive di musica
rock, il pressappochismo e il
qualunquismo la fanno da
padroni.
Senza nessun rispetto per
nessuno. Senza rispetto per chi
ha vissuto in pieno la stagione
dei Beatles e i dieci anni di
Lennon solista. Senza rispetto
per chi non c’era, è nato dopo
il 1980 e da qualcuno dovrebbe
poter imparare. Senza rispetto
per John Lennon.
Quell’8
dicembre
di
venticinque anni fa il gesto
omicida di un folle soffocò con la
violenza la voce più importante
del movimento artistico e di
costume che cambiò la faccia
del mondo nei turbinosi anni
‘60. Fu la vittoria della forza e
delle armi sulla pace e la non
violenza. Anche se le canzoni
di John restano - da “All You
Need Is Love” a “Imagine”
= anche se le sue parole
di speranza e di fiducia nel
genere umano - assolutamente
non retoriche e temprate dal
suo senso dell’umorismo e dalla
sua (auto)ironia - continuano
a risuonare in ogni angolo del
pianeta sulle ali della musica.
Potremmo anzi dire che in
questa epoca di “guerre di
religione”, un testo come
quello di “Imagine” sembra più
attuale che mai.
“Immaginate che non ci sia il
paradiso.
E’ facile se ci provate.
Niente inferno sotto di noi
e sopra di noi soltanto il cielo.
Immaginate che tutta la gente
viva per l’oggi...
Immaginate che non ci siano
stati.
Non è difficile da fare.
Niente per cui uccidere o
morire
e neppure religioni.
Immaginate che tutta la gente
viva la sua vita in pace...
Potete dire che sono un
sognatore
ma non sono il solo.
Spero che un giorno vi unirete
a noi
e che il mondo diventi uno.
Immaginate che non ci sia la
proprietà.
Mi chiedo se riuscite a farlo.
Nessun bisogno di avidità e
fame.
Una fratellanza di tutti gli
uomini.
Immaginate che tutta la gente
si divida tutto il mondo...
Potete dire che sono un
sognatore
ma non sono il solo.
Spero che un giorno vi unirete
a noi
e che il mondo diventi
uno”.
Queste
poche
righe
sono in fondo un segno
di
gratitudine
e
di
consapevolezza. Quanti
di noi scriverebbero su
queste pagine, quanti
di noi si sforzerebbero di
vivere in un certo modo,
se un signore chiamato
John Lennon non avesse
racchiuso nei tre minuti
di questa
canzone le
riflessioni e le analisi di
tanti filosofi e pensatori?
L’hanno chiamato e la
chiamano
Utopia.
Ci
dicono che non è roba
di questo mondo. Ci
esortano a chiuderci nel
nostro orticello di ben
pasciuti occidentali. Ci
spiegano che è meglio
respingere tutto ciò che è
diverso da noi. Continuano
a sostenere la superiorità
del Nord ricco sul Sud
povero.
Ricordare John Lennon e
ascoltare le sue canzoni
vuol dire anche insistere
nel
richiamarci
a
un’Utopia che ci appare
sempre più come l’unica
via di salvezza per la Terra
e per i miliardi di esseri
umani che la popolano.
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Bret Easton Ellis
Lunar Park
Einaudi
di Nino G. D’Attis
È tutto vero, ed è
tutto falso: si potrebbe
riassumere così il quinto
romanzo di Bret Easton Ellis
ottimamente tradotto in
italiano (e a tempo record)
da Giuseppe Culicchia.
Ma sarebbe come non
aver detto niente, questo
è certo. Meglio affrettarsi
ad aggiungere senza
mezzi termini che Lunar
Park è un’opera d’arte di
altissimo livello e, al tempo
stesso,
il
capolavoro
assoluto di uno scrittore
talmente grande non solo
sul piano della notorietà
che, come ha osservato
The Baltimore Sun, ormai
“needs no introduction”.
Verità. Finzioni. Mezze
verità. Confessioni di un
ex ragazzo prodigio degli
anni Ottanta: un viaggio
nei paraggi dell’anima
di Mr. Ellis. L’uomo e lo
scrittore pericolosamente
fusi insieme, ben mescolati
a una folla di facce vere e
inventate: Keanu Reeves,
Robert Downey Jr, David
Duchovny, Jay McInerney
(a proposito: a quando
il suo ritorno in libreria?),
Robert Martin Ellis, Jayne
Dennis e molti altri.
Sono trascorsi sei anni dal
precedente Glamorama
e non credo che nessuno,
detrattori compresi, si
aspettasse un libro del
genere. Non l’epigrafe
tratta da Panama di
Thomas McGuane: “Il
rischio
professionale
di fare di te stesso uno
spettacolo, sulla lunga
distanza, è che a un certo
punto anche tu compri
un biglietto d’ingresso”.
Neanche
la
lunga
introduzione/prologo
aperta dalla frase “Sei
una perfetta caricatura di
te stesso”, incipit doloroso,
obliquo
che
schiude
una piena inarrestabile
di ricordi personali (gli
esordi, la gloria meritata
eppure prematura, gli
eccessi con tanto di
docce di Dom Pérignon
e boliviana da sniffare,
la patente di pornografo
acquisita all’alba dei Novanta).
Meno che mai un romanzo
di romanzi, poiché dentro le
oltre trecento pagine di Lunar
Park trovano posto tanto i
personaggi di American Psycho
(ebbene sì, Patrick Bateman è
tornato!) quanto un omaggio
ad Edgar Allan Poe e allo
Stephen King de La Metà
oscura. Si potrebbe addirittura
leggere il nuovo lavoro di Ellis
come un esperimento di remix
letterario del classico kinghiano:
lo scrittore e i suoi pericolosi
fantasmi di carta in una città del
Nordest sufficientemente vicina/
lontana dalle mille luci di New
York (e dall’epicentro paranoide
post-attacco al World Trade
Center). Citazioni da Cujo e
Shining, un party di Halloween
con colonna sonora che passa
per Time of the Season degli
Zombies e Superstition di Stevie
Wonder, ospiti travestiti da Anna
Nicole Smith, vassoi di nachos,
capsule di Super Vicodin, Xanax,
Zyprexa.
Ellis artefice di satire feroci: il
tossico, il padre inaffidabile
che descrive un’America di
bambini,
teenagers,
adulti
dipendenti dagli psicofarmaci;
una nazione vittima di mostri
partoriti dal suo stesso ventre:
“Ovunque
si
vendevano
giubbotti antiproiettile, perché a
un tratto erano comparsi nugoli
di cecchini; la polizia militare
che stazionava a ogni angolo
non dava alcun conforto, e
le telecamere di sorveglianza
si rivelavano inutili. C’era un
numero talmente alto di nemici
senza volto – all’interno del
paese e all’estero – che nessuno
sapeva contro chi stessimo
combattendo o perché.” E poco
più avanti: “Jayne desiderava
crescere figli dotati, disciplinati,
ambiziosi, ma aveva paura
praticamente di tutto: dei pedofili,
dei batteri, dei fuoristrada (ne
possedevamo uno), delle armi,
della pornografia, della musica
rap, dello zucchero raffinato, dei
raggi ultravioletti, dei terroristi, di
noi stessi.”
Ellis, scrittore che riflette sul
significato dell’atto creativo:
dal privato al pubblico, in una
cornice che è quella della
ghost story ma con un nucleo
23
centrale in cui, proprio come
in King, è il processo della
scrittura ad essere oggetto di
una dissezione critica attuata
col bisturi dell’autobiografia.
“The “truest” book I’ve written,
in terms of the majority of events
that happened”, dice l’autore.
Ad una prima parte vertiginosa
quanto l’intero Glamorama,
con
punte
ferocemente
(auto)ironiche - incluso un
quarto capitolo dedicato al
fantomatico romanzo porno
dall’improbabile
titolo
Figa
minorenne – seguono i toni
drammatici che accompagnano
la
discesa
dell’irrequieto
personaggio Bret nell’angoscia
che gli scatena la scoperta
della paternità. Bret, figlio di
un padre assente, scomparso
nel 1992 in circostanze poco
chiare. Bret, genitore famoso
dell’undicenne Robby, ragazzino
introverso quasi sempre chiuso
in una stanza “(…) arredata
secondo un tema spaziale:
decalcomanie di pianeti e
comete e lune erano incollate su
tutte le pareti per dare l’illusione
di fluttuare in un cielo nero nello
spazio profondo.” È in descrizioni
come questa che si nasconde
lo straziante significato del titolo:
straziante perché per la
prima volta, lo scrittore
Ellis tocca tasti segreti,
particolarmente delicati,
e riesce a commuovere
i suoi lettori fino alle
lacrime.
Ieri si manifestava cinico,
distaccato; oggi ripensa
l’umano
conservando
una visione disperata
della
società
alla
maniera del Ballard di
Crash e di Millennium
people, del Mailer de
I Duri non ballano. Lo
scrittore è nudo, Lunar
Park è un dono. Mi
auguro soltanto che
Bret Easton Ellis abbia
mentito spudoratamente
quando ha parlato di
questo libro come il
suo ultimo romanzo,
l’opera che dovrebbe
precedere la sparizione dello
scrittore sul lato oscuro della
luna.
Coolibrì
24
Mikael Niemi
Popular Music
Flamingo
Ovvero: quando la Svezia
non è solo Stoccolma. Essere
un ragazzo in Svezia negli
anni ’60, a quanto pare,
non è per niente facile.
Soprattutto se si cresce a
Pajala, un piccolo villaggio
nel Nord del Paese, talmente
sperduto da “non apparire
nemmeno sulle cartine
geografiche”, e considerato
più finlandese che svedese. Il
giovane Matti, protagonista
del romanzo, sente su di sé
tutto il fascino dell’avvento
della modernità come
le strade sterrate del suo
villaggio accolgono l’arrivo
dell’asfalto, luccicante ed
incandescente. Per Matti
ed il suo strano amichetto
Niila (che parla una lingua
totalmente inventata,
finché non si scopre che in
realtà è l’esperanto, e che
lo ha addirittura appreso
attraverso la radio!) il nuovo
mondo arriva nella persona
di Elvis Presley e del suo rock
sensuale, e soprattutto con la
scoperta di un EP dei Beatles,
una rarità per i ragazzi del
paese. La loro vita cambia,
e cambia la percezione del
mondo. I ragazzi sognano di
creare una rock band, ma
anche l’idea di avere per
casa una chitarra è per i loro
padri blasfema, soprattutto
troppo effeminata. Gli
uomini di Pajala sono infatti
educati a pane, carne di
renna e superalcolici, e se
un ragazzo non fa propria
la mentalità del taglialegna
è perduto. La via di fuga, il
Sud civilizzato e sicuramente
più liberale, tenterà allora
i ragazzi, perché Pajala
comincerà a stargli davvero
stretta. L’autore descrive
meravigliosamente quell’età
critica che porta Matti ed i
suoi amici dall’adolescenza
all’età adulta, scandendo i
capitoli con delle didascalie
da romanzo di formazione,
e offrendoci tante piccole
avventure (come ad esempio
l’esilarante sfida di velocità
tra l’autobus della scuola e
il maestro di musica, bizzarro
corridore alla cui mano
destra mancano tutte le dita
tranne il pollice e che ha uno
strano odore che fa impazzire
i cani), strani incantesimi nel
bosco, gare di sopportazione
d’alcool tra ragazzi con
conseguenti collassi collettivi,
lavori estivi come sterminatori
di topi, prove di canto e
prove di baci, per arrivare
poi ad una conclusione
malinconica, tenera, ma
forse prevedibile. Perché chi
lascia il proprio paese, prima
o poi, vivo o morto, ci ritorna.
(Anna Puricella)
Radu Mihaileanu - Alain
Dugrand
Vai e vivrai
Feltrinelli
È stato pubblicato in
concomitanza dell’omonimo
Antonio Pascale
Passa la bellezza
Einaudi
di Eliana Forcignanò
All’improvviso accade qualcosa
che ti costringe a voltarti indietro,
ad attraversare il passato, a disfare il
fardello dei ricordi e confrontarsi con
essi. Confrontarsi con il mutamento,
perché molti personaggi coinvolti
nel nostro passato ruotano ancora
nell’orbita del presente, sebbene
diversi, migliorati o peggiorati,
evoluti o regrediti o, semplicemente,
diversi. Il passato s’intreccia con il
presente: una fastidiosa malattia alla
pelle, un padre di settantadue anni
che, sia pur inconsapevolmente,
si sforza di recuperare il rapporto
con il figlio ormai adulto e padre
a sua volta di un bambino da
crescere, da educare, una moglie
con i piedi sin troppo per terra,
scettica sui vagheggiamenti della
poesia, amici che le rispettive mogli
hanno preferito abbandonarle per
andare alla ricerca di una seconda
giovinezza, fra le braccia di un’altra
donna. Ecco, la vita di Vincenzo,
il protagonista del romanzo di
Antonio Pascale: una vita non
così eccezionale – nel senso di
“far eccezione” -, se non fosse
per una fastidiosa eruzione della
pelle consistente in “bolle ovali e
ricoperte di piccole squame”. Cosa
da nulla o malattia mortale? I medici
si aggrappano alla tesi “stress”,
approfittando dell’abuso che di
questa parolina si fa nella società
contemporanea e ha inizio la via
crucis: somministrazione di farmaci,
consulti, ricovero, visite di parenti e
amici in vena di consigli, fra i quali
il più originale è, senza dubbio,
quello di zio Arturo, innamorato
di una colf polacca e afflitto da
una fastidiosa dermatite alla pelle
che lo ha costretto ad andare da
uno psicanalista. “Bisogna fare il
collegamento interno. - dice lo
zio – Quando non parla la mente,
parla il corpo e la pelle è il nostro
confine”. Alla fine, Vincenzo decide
di ascoltare i consigli paterni e si
sottopone alle cure termali, ma, nel
periodo in cui è malato, cambia
qualcosa dentro di lui, perché la
malattia, sovente, si traduce in uno
strumento che aiuta a guardare
oltre e più a fondo, aiutando chi
ne è afflitto a mettere a fuoco ciò
che prima si è sempre ignorato pur
avendolo sotto gli occhi. La malattia
è la chiave d’accesso a un percorso
di formazione che l’individuo può
essere chiamato ad affrontare in
qualunque momento della sua
vita: certo, si tratta di una strada
che intraprendiamo e seguiamo
con paura, dolore, afflizione, ma
vale la legge greca del pathei
mathos, “conoscenza attraverso la
sofferenza”. Nel caso di Vincenzo,
i suoi problemi di salute sono più
noiosi che gravi, dunque è lecito
viverli con l’ironia che caratterizza
l’atteggiamento del protagonista.
Ironia e leggerezza sono i toni
peculiari dell’intera narrazione che,
per questo e per lo stile colloquiale,
riesce godibile ai lettori.
film, in questi giorni nelle sale,
ed è un libro di luoghi e di
viaggi, di storia, di amore.
Stile documentaristico
linguaggio mitico ed
umoristico si fondono, proprio
come nel film, per dar voce
a delle pagine di storia non
molto conosciute, quelle
dei Falasha (ebrei neri) ed
il loro epico viaggio verso
Gerusalemme: la cosiddetta
“operazione Mosè”. E la
storia di un bambino, etiope,
nero, cristiano, si innesta in
questa macro-storia di un
popolo. Si racconta della sua
“fortuna” di lasciare il Sudan
per andare in Israele, della
sua chance di trovare una
via di fuga. Vai vivi diventa
gli dice la mamma quando
lo obbliga a partire. Vai vivi
diventa sono le tre parti del
libro, che corrispondono
allo sradicamento dalla sua
terra e dall’amore materno,
all’adolescenza e tutto ciò
che essa porta con sé, e
all’età adulta, la crescita
insieme e grazie agli altri.
“Questo libro raccoglie tutto
il materiale che non è stato
possibile inserire nel film per
ovvie ragioni di lunghezza
- ci spiega l’autore-regista
- ma non sarebbe stato
giusto omettere parte dei
racconti che il popolo degli
ebrei etiopi mi ha fatto con
estrema franchezza e fiducia.
Non volevo tradirli”. E non li
ha traditi. È tutto in questo
libro. (Valentina Cataldo)
U
n
a
galleria di
personaggi
(Emiliano
Zapata,
Pancho
Villa, Diego
Rivera, Tina
Modotti,
Edward Weston, Manuel Rodrìguez
Lonzano, il Doctor Alt) che
costruisce in un sapiente intreccio
narrativo, glorie e derive d’uomini
e donne, vicende d’artisti e di
rivoluzionari, che mischiano il crudo
della guerra a sublimi momenti
d’erotismo, di scalmanate passioni
col pennello e la pistola a portata
di mano e di pensiero. Un Messico
d’amore e morte che negli anni
venti divenne sponda di utopia
artistica e di un eccentrico vitalismo
che sperimentava la rivolta, il
cambiamento, il costruire che scosse
le fondamenta della cultura, della
politica e della morale. La Città del
Messico irripetibile e memorabile
degli anni venti, mostrava al
mondo un volto spregiudicato, pur
racchiudendo nelle sue viscere
strati di pervicace oscurantismo,
realizzava quella rivoluzione che
incrinava pregiudizi consolidati,
che mettevano in discussione i
rapporti tra uomo e donna, tra sfera
politica e sfera privata, tra arte e
commercializzazione.
AA.VV.
Brandelli d’Italia
Chimienti Editore
Il tema è semplice e, direbbe
qualcuno, addirittura banale.
In quale stato si trova la
repubblica italiana dopo
circa 4 anni di governo della
Casa delle Libertà e del
premier Silvio Berlusconi?
La risposta potrebbe essere
altrettanto semplice ma,
in questo Brandelli d’Italia,
non banale. A cimentarsi
nella elencazione delle
malefatte berlusconiane
sono cinque personaggi
molto diversi tra loro che
analizzano con linguaggio
e strumenti diversi cinque
settori toccati dall’azione
dell’esecutivo. Si parte con il
giornalista ed eurodeputato
Giulietto Chiesa che parla
de La virtualizzazione del
reale e la fucina delle
illusioni. Il magistrato Nicola
Colaianni firma L’eversione
costituzionale, l’astrofisica
Margherita Hack presenta
La cultura del modello
aziendale, Nerio Nesi,
economista e parlamentare
già presidente della BNL e
ministro del lavoro, delinea
Il declino dell’economia
italiana. Chiude il filosofo
Gianni Vattimo che ragiono
intorno a La democrazia
verso l’asfissia. Un libro da
barricata ma serio, ricco di
ragionamenti e di proposte
per il futuro del paese. (P.L.)
Pino Cacucci
Nahui
Feltrinelli
di Mauro Marino
“Malgrè tout” è questo il titolo!
“Malgrado tutto” un magnifico
fantasma può tornare al respiro,
riassaporare la gloria, se la scrittura
ridona forma alla vita, lo evoca nei
ricordi, nutrendo la giusta memoria,
ciò che è meritato: malgrado tutto!
Così fa Pino Cacucci, riscattando
dall’oblio una straordinaria figura
di donna per dar ritmo e forma ad
una grande storia di anime in rivolta
contro il mondo e contro se stesse,
guidate da un sogno di libertà tanto
alto da essere imprendibile.
È folgorante l’incipit di questo
‘romanzo di vita’, il personaggio
che si delinea ci lascia sospesi
nella curiosità. Con le ali mutilate
e il cuore rattrappito, Nahui vaga
senza meta per le strade di una
città che l’aveva vista incontrastata
regina. Gli occhi persi nel vuoto, i
capelli biondi ormai stopposi, i vestiti
consunti, il trucco eccessivo, l’aria
di chi ha perso tutto dopo aver
posseduto tutto. Ah! quegli occhi:
inconfondibili, unici al mondo.
Adesso s’accecano, aiutando il sole
a sorgere e accompagnandolo
nel suo quotidiano paseo fino al
tramonto. Ma prima, prima ne
avevano rapiti di sguardi! Attoniti
di fronte alla bellezza di Nahui Olìn Carmen Mondragòn Valseca, figlia
d’un generale inventore di armi nel
Messico della Revoluciòn – smisurati,
verde smeraldo, morbosamente
attraenti come bocche di vulcani.
Coolibrì
Giuseppe Genna
L’anno Luce
Marco Tropea Editore
Giuseppe Genna accantona
la scrittura di genere e
con essa manda in letargo
l’ispettore Guido Lopez, il
personaggio seriale dei suoi
thriller, dopo che lo stesso si è
incarnato nella serie tv Suor
Jo. L’anno luce è definito
nella seconda di copertina il
primo romanzo neoborghese
italiano. Definizioni a parte,
L’anno luce è un romanzo
di un iperrealismo talmente
smodato da sciogliersi
come burro sfrigolante su
padella rovente. Ed ecco
il Mente, un manager
quaranta-cinquantenne
dalle smodate ambizioni. Il
Mente è un dirigente della
Komtel Italia, una società
di telecomunicazioni, sotto
l’assedio di compratori inglesi
che mirano al controllo delle
comunicazioni della nostra
nazione. La moglie Maura
non riesce ad avere figli
anche se tenta più volte la
fecondazione artificiale. Una
sera il Mente trova Maura
riversa sul suo letto. Sembra
morta. Ma in realtà è in una
sorta di coma psichico. Le
ragioni? L’amante minorenne
della moglie, autore del
folgorante Capolavoro
Misterioso, si è suicidato
nella sua vasca da bagno.
Mentre il protagonista sta
preparando materiale per
la riunione più importante
della sua vita la moglie
verrà inseminata da un
maniaco in ospedale. Per
l’ottenimento del possesso
della Komtel si muovono non
solo compratori inglesi, i quali
conoscono i segreti più oscuri
dei dirigenti della società
italiana, grazie al lavoro
sporco del Faccendiere,
ma anche il Vaticano,
incarnato, nelle pagine del
romanzo, da un Cardinale
che conosciamo molto bene.
Oggi Papa. Accanto a questi
protagonisti compaiono
icone immarcescibili
del nostro immaginario
contemporaneo, da
Michael Jackson, al playboy
Gigi Rizzi, dalla cagnolina
spaziale Laika al Michael
Douglas di Wall Street, senza
dimenticare lo scrittore Uwe
Johnson e il suo infernale
Jahrestage. Genna si muove
abilmente nelle trame dense
di questo torbido intreccio,
mixando fiction televisiva e
tragedia classica. Ritroviamo
il Mente alla fine del suo
lungo viaggio, quando la
tragedia è oramai montata,
nella struggente lettera a
Maura, dall’incipit che strazia:
“Maura, amore mio, mio
amore, è trascorso un anno
da che te ne sei andata.
Un anno luce. Un anno per
me di strazio. Sono straziato,
Maura”. La tragedia che
si compie in L’anno luce è
individuale,
certo, riguarda il Mente e il
crollo di quella marzialità
25
Michael Cunningham
Giorni memorabili
Bompiani
di Elisa de Portu
In una delle interviste condotte e
pubblicate da Francesca Borrelli
in Biografi del possibile (Bollati e
Boringhieri) Michael Cunningham
afferma “Se dico che questo romanzo
riguarda lo sviluppo dell’industrialismo
e del trascendentalismo in America
nessuno avrà voglia di leggerlo, ma di
questo si tratta”. E in effetti in questo libro
dell’autore, già premio Pulitzer con The
Hours (Le ore) riemerge l’ossessione per
la fisicità e la disgregazione del corpo
bilanciato continuamente da uno
spirito sempre teso alla purificazione
dalla materia. Come se la risposta a
una modernità fatta di macchine,
ordigni esplosivi, e tecnologie sempre
più aggressive sia un pensiero astratto,
un’anima immanente, una soluzione,
insomma, che non fa parte di questo
mondo. Lucas, Simon e Cathrine sono
i protagonisti dei tre racconti lunghi
che compongono Giorni memorabili:
tre storie ambientate in tre periodi
storici distanti 150 anni l’uno dall’altro
e in cui questi personaggi ritornano
con vesti sempre nuove, in una sorta
di reincarnazione. A tenere insieme le
tre novelle è la voce suggestiva del
poeta Walt Witman sempre presente
nel testo e attraverso il quale in modi e
con suggestioni differenti i personaggi
parlano (ricalcando in questo modo
la formula già collaudata in The
Hours con la voce di Virginia Wolf). La
prima novella, dunque, ambientata
in una New York dell’Ottocento
è una riflessione/denuncia sulla
disumanizzazione
della
società
industriale: Lucas a soli tredici anni
prende il posto in fabbrica lasciato
dal fratello Simon, schiacciato da una
macchina, dentro la quale lo stesso
Lucas è convinto che la sua anima
continui a vivere. Questa idea di
sconfitta della società industrializzata
continua poi nella seconda parte:
Cat è una poliziotta che, in un clima
di tensione appena successivo all’11
settembre, tenta di contrastare una
banda di bambini kamikaze, il cui
scopo è sconvolgere un mondo
per loro ormai invivibile. Nell’ultima
storia siamo, invece, in un futuro
post-atomico, dove “simuli” e alieni
partono alla ricerca di nuovi luoghi da
colonizzare, dopo aver abbandonato
una terra ormai in macerie. Giorni
memorabili, quindi, nasce come
un trittico di enorme suggestione,
dove trovano spazio tre generi
completamente diversi (il romanzo
gotico, il thriller e la fantascienza),
ma dove ad emergere è soprattutto
la drammaticità del sacrificio, della
perdita di sé e la fuga spirituale da un
presente dove non sembra esserci più
spazio per l’Uomo. Così, per quanto in
certi punti risulti vagamente astratto e
troppo ambizioso, non si può negare
che in tutte le storie che compongono
Giorni memorabili ad affascinare sia
soprattutto la capacità visionaria di un
autore come Cunningham, ancora
capace in modi inaspettati di restituirci
emozioni di amarezza e commozione
sulla condizione umana.
Osvaldo Capraro
Né Padri Né Figli
E/O
di Massimo Lafronza
- In che squadra giochi adesso?
- E dove devo giocare
- Non volevi diventare calciatore?
- Don Pa’, dove cazzo devo andare
io.
Mino, canuto giovane, ha l’oro
nei piedi, ma su di sé il fardello
di quell’arida storia di sangue,
violenza, indifferenza, di guerre
d’onore, d’omertà e vuoto sociale
tristemente normalizzato dai militari
al tempo dell’Operazione Primavera.
“…dove cazzo devo andare io”:
apatica voce che parla di un
destino già banalmente descritto.
Mino è il più bravo sul campo
di calcio, ma viene inghiottito,
masticato e vomitato dall’onnivora
e classista realtà della strada. E
il suo deuteragonista Don Paolo
come si muoverà tra le affamate
strade del quartiere Paradiso?
Anche la sua una storia già nota:
inerme, non potrà che tentennare
di fronte ad una vita cui nessun l’ha
preparato in seminario. La vicenda,
nei suoi ridondanti scenari, evolve a
spezzoni, proiettando il lettore verso
una sensazione di instabilità emotiva.
I capitoletti che inquadrano la
vita del giovane Mino sono la vera
forza narrativa del libro intero. In
quelle pagine il narratore si lascia
assorbire dalla psiche del ragazzino,
ragiona e scrive semplicemente
e in assoluto accordo con
quell’incompletezza
cerebrale.
I
congiuntivi
si
disarticolano
nell’imperfezione
temporale,
ricalcando l’abito mentale di
un bambino; in egual modo la
vicenda narrata trova il suo motore
immobile in questa stessa intrinseca
imperfezione. A Don Paolo, figlio
di un Verbo assolutamente votato
alla perfezione, non resterà che
errare stancamente negli osceni
costumi locutori della strada, e
provare a vivere. Alla fine di tutta
questa ‘finzione’, il mondo appare
molto più reale. La storia, in sé, è
semplice, alle volte banale. Ma
sembrerebbe
che
l’esordiente
romanziere non abbia intenzione
di raccontare nulla di proposito, e
che voglia, piuttosto, impregnarci di
realtà problematiche e atmosfere
invasive. Un romanzo crudo, talvolta
crudele, che non illude mai. Tutto il
resto è noir (mediterraneo).
che sembra caratterizzarlo
nelle prime pagine, ma è
anche collettiva, poiché
il Mente è la parte di quel
tutto composto da uomini
privi di scrupoli pur di poter
raggiungere i loro sporchi
obiettivi. Il Mente ottiene ciò
che vuole, prende il posto
del Profeta, è amministratore
delegato della Komtel,
ma l’assenza di Maura è
struggente. Oltre ogni cosa.
(Rossano Astremo)
AA.VV.
Corto Testo. Istantanee sulla
città
Edita
Venti brevi racconti di giovani
scrittori esordienti, narrati sul
palcoscenico della propria
città; questo è ‘Corto-testo,
istantanee sulla città. Il libro
nasce sull’onda del concorso
letterario per scrittori inediti
promosso da Edita, società
editoriale di Lecce, nella
primavera del 2005 con
lo scopo ben preciso di
dar voce a passioni, sogni,
ambizioni e tentazioni
di ventenni e trentenni
attraverso una veloce
istantanea sullo sfondo del
territorio urbano da loro
vissuto. Sono così nate venti
storie, simili alle immagine
fluide di un cortometraggio,
di amori e dolori, di vita e
sentimenti, di attese e di
slanci in avanti. Venti ritratti
del proprio mondo che
cambia tra domande su
un futuro incerto e desideri
mai assopiti di lottare per
i propri ideali e valori. Tra
pensieri in libertà e riflessioni
alla luce di un proprio
giardino segreto custodito
con cura, vengono descritte
aspirazioni che raccontano
di vie, piazze, mura e natura
con lo sguardo del proprio
animo. Sono racconti di
paure, di personaggi sempre
pronti a spiccare il volo, ma
profondamente ancorati
al proprio nido. Il lettore si
immerge in atteggiamenti,
modi di essere, tipologie
umane diverse che nutrono
e traggono al tempo
stesso linfa dagli odori, dai
colori, dalla materia di cui
si caratterizza la propria
città; questa diventa musa,
sfondo, rifugio e trappola
nell’esistenza di ognuno,
sempre in bilico tra la strada
da cercare, quella percorsa e
quella che la storia di ognuno
vorrebbe far imboccare.
Storie individuali di sensazioni
universalmente condivise
che ritraggono il desiderio
profondo di volersi sentire vivi
in ciò che si è, per ciò che si è
stati e per quello che si potrà
essere. (G.C.)
AA.VV.
Parola plurale.
Sessantaquattro poeti italiani
fra due secoli
Luca Sossella Editore
di Rossano Astremo
È da poco uscita Parola
plurale. Sessantaquattro
Coolibrì
26
poeti italiani fra due secoli,
subito diventata un caso
come titola l’articolo a piena
pagina di “La Repubblica”
a firma di Enzo Golino.
Si tratta di un’antologia
curata da otto giovani
critici, Giancarlo Alfano,
Alessandro Baldacci, Cecilia
Bello Minciacchi, Andrea
Cortellessa, Massimiliano
Manganelli, Raffaella
Scarpa, Fabio Zinelli, Paolo
Zublena, che dichiarano:
“Il nostro è un gesto forte,
costruito in cinque anni di
lavoro intenso”. Ed è una
sfida sia editoriale che
commerciale per il prezzo
incredibilmente basso e
per la mole del volume. Da
sempre la scrittura in versi
è parte importante del
nostro immaginario, ma da
troppo tempo mancava una
raccolta della produzione più
recente che fosse estesa e,
insieme, affidabile. Negli ultimi
trent’anni non sono mancate
antologie autorevoli, ma
hanno tralasciato le ultime
generazioni di poeti; al
contrario delle antologie “di
tendenza”, che sono però
programmatiche e talvolta
settarie. Troppo arduo, per
un singolo, abbracciare
il vastissimo raggio della
produzione attuale. Perciò
questa antologia si propone
all’insegna della pluralità:
tanto degli autori, quanto
di chi li seleziona. Non più
un umorale Minosse, ma un
individuo partecipe di una
comunità; portatore di una
responsabilità singolare e
collettiva. Plurale come i
lettori ai quali il libro s’indirizza.
I giovani critici sopra elencati
(nati tra il 1966 e il 1973) si
sono spartiti 64 autori, nati
tra il 1945 e il 1975, firmando
– oltre agli ampi “cappelli” a
ciascun autore – otto diverse
introduzioni dedicate a
Claudio Cugusi
Call Center
Fratelli frilli edizioni
Il sottotitolo di questo libro indagine
sui call center è: gli schiavi elettronici
della new economy, parole forti che
potrebbero infastidire le aziende
serie che lavorano in questo settore,
ma non è di loro che si parla nelle
cento pagine del testo. Sembra
che in Italia siano quattrocentomila
gli addetti ai call center, nuovi
operai nelle fabbriche immateriali
della new economy. Diplomati o
laureati, con contratto o irregolari,
vittime del mobbing e dei contratti
a termine, costretti a lavorare senza
mai poter lasciare la postazione,
gratificati infine con paghe irrisorie
frutto di alchimie matematiche ed
improbabili percentuali. Per effetto
di ciò il lavoratore è costretto a una
marginalità sociale che si traduce
nel gravare ancora sulla famiglia
d’origine e nell’impossibilità di
progettare seriamente il proprio
futuro.
Per la seconda volta nella storia
economica è l’azienda Ford a
precorrere i tempi e nel 1968, per
fare fronte ai reclami dei propri
clienti, apre il primo call center il
cui numero inizia per 800 e che da
questo momento sarà il prefisso
universale degli attuali numeri
verdi.
Nell’epoca
globalizzata,
emblematico è il boom dell’India,
dove
settecentomila
giovani
dai diciotto ai ventisei anni
esaminare aspetti e problemi
presentati da un corpus
vario quanto vasto, che
occupa più di mille pagine.
Il volume è aperto da un
quadro storico e concluso da
un’esaustiva bibliografia.
parlano inglese con accento
americano e lavorano ai servizi
di
information
technology
di
compagnie internazionali ad un
costo decisamente inferiore dei
loro colleghi europei, ma almeno
loro
incrementano
realmente
l’occupazione. In Italia la Asl di
Milano ha avviato un’indagine
da cui è emerso che gli operatori
di call canter sono affetti da
numerosi disturbi psicofisici e che, al
crescere della rigidità organizzativa,
crescono i disturbi. Sempre in
Italia, senza criminalizzare la libertà
d’impresa, si assiste ad una vera
pioggia di contributi alla formazione
professionale
e
finanziamenti
verso le aziende fornitrici di servizi
telefonici. Ma questo miraggio
da new economy sembra non
arricchire nessuno dato che le
aziende chiudono sempre con
bilanci in rosso e gli operatori a
rischio di salute vengono mal pagati
e privati dei diritti fondamentali
che spetterebbero ai lavoratori. In
questo crogiuolo di tipico stampo
made in Italy il mercato detta le sue
regole, i lavoratori le subiscono e lo
Stato resta a guardare.
Pino Bertelli
Cinema dell’eresia
NdaPress 2005
John Perkins
Confessioni di un sicario dell’economia
Minimum fax
Vigo,
Bunuel,
Rocha, Pasolini,
Fassbinder,
Debord,
Trier,
sette registi per
sette modi di
rivoluzionare
lo
schermo.
Attraverso l’analisi
della produzione
cinematografica
e delle controverse esistenze di questi
colossi
della
cinepresa,
l’autore
effettua un viaggio appassionante
negli “incendiari dell’immaginario”.
Filo conduttore nell’accostamento di
questi intellettuali, artisti, registi, poeti o
carogne sovversive secondo i differenti
punti di vista, è la passione con cui
hanno sfidato nell’arco del ‘900 la
società dello spettacolo, i suoi dogmi e
le sue ipocrite censure. Anticonformismo
e anarchismo visivo a volte pagato a
caro prezzo ma incisivo al punto da
scrivere pagine indelebili della storia del
cinema, peccato che nella storiografia
cinematografica “ufficiale” molti registi
vengano dimenticati o relegati all’idea
di avanguardia artistica. È per questo
che i film di Debord ed altri sono confinati
a poche visioni di poeti dello sguardo.
Sono opere che decostruiscono gli eroi
spazzatura dell’idolatria, della cultura
e della merce e gridano che la miseria
intellettuale e sociale dell’immaginario
planetario poggia sulle barricate che
da tempo un manipolo di predoni ha
eretto contro l’umanità.
Si tratta dell’autobiografia di John
Perkins,
ufficialmente economista
capo in una grossa
società di consulenza
finanziaria
di Boston di fatto
“sicario dell’economia”. Non si tratta di un ruolo orwelliano o di un personaggio nato dalla
fantasia del Terry Gilliam di “brazil”. Il
sicario, in campo economico è una
sorta di agente segreto ben pagato il
cui scopo è ottenere miliardi di dollari
da tutti i paesi del globo, e farli passare
nelle tasche delle multinazionali e delle
famiglie che le gestiscono. Il metodo
principale per ottenere il successo è
l’ingerenza sulle politiche nazionali dei
paesi in via di sviluppo al fine di rendere
attuabili piani economici che avvantaggino le corporation ed il governo
americano.
In preda ai rimorsi di coscienza dovuti
a dieci anni di falsi in bilancio, elezioni
truccate estorsioni ed ulteriori metodi
economici poco ortodossi, sulla scia
degli sconvolgimenti e pentimenti da
11 settembre Perkins dismette i panni
di servitore dell’impero e diviene paladino degli sfruttati realizzando questo
romanzo denuncia che in America è
già un bestseller e c’è da scommetterci
lo diventerà anche in Europa prima che
esca la produzione cinematografica
già in lavorazione.
Tabula Rasa rivista di
letteratura invisibile
Besa
È molto ricco di racconti,
poesie, riflessioni e illustrazioni
il quarto numero (autunno
inverno 2005/2006) della
rivista di letteratura invisibile
Tabula rasa curata da
Tommaso De Lorenzis,
Mauro Marino, Luciano
Pagano, Lorenzo Valle. La
novità più interessante di
questo numero è di certo
costituita dalla presenza,
sulla stessa rivista, di realtà
che hanno promosso, negli
ultimi anni differenti modi di
approccio e relazione nei
confronti dell’editoria e della
scrittura, da autore a editore
e viceversa, gettando un
ponte tra editoria digitale
e tradizionale, nel segno
del copyleft. Sono presenti
iQuindici, i lettori residenti
della Wu Ming Foundation,
con sei racconti pubblicati su
Inciquid tra il 2004 e il 2005,
autori dei quali sono Alberto
Riggettini, Ezio Tarantino,
Davide L. Malesi, Andrea
Iori, Marco Biazzetti ed
Emanuele Faconti, assieme
a questi racconti vengono
pubblicati quattro racconti
inediti scritti da giovani autori
(Lorenzo Valente, Luciano
Pagano, Manila Benedetto
e Lelio Semeraro). La sezione
dedicata alla critica vede
la presenza di interventi
collezionati da Tommaso De
Lorenzis e Luciano Pagano.
La sezione dedicata alla
poesia è curata da Mauro
Marino, operatore culturale
e direttore della collana di
poesia della Besa Editrice,
POET/BAR, che negli ultimi
anni ha avuto modo di
pubblicare l’esordio di diversi
giovani poeti. La rivista, nella
versione cartacea distribuita
in Italia da PDE (300 pagine al
prezzo di 7,00€), contiene le
illustrazioni di Efrem Barrotta
(BigSur).
Coolibrì
La gang dei Senzamore
Ascoltando Radio Capital
ci si può imbattere nelle sua
voce, girovagando in libreria
l’occhio può cadere sulla
copertina del suo esordio
letterario. Antonio Iovane,
trentenne giornalista romano,
collaboratore di Coolclub.
it, approda alla narrazione
con La gang dei Senzamore
da poco uscito per Barbera
Editore. Un volume di undici
racconti scritti con uno stile
molto “metropolitano”.
Perché hai voluto raccontare
con un linguaggio così
diretto?
Volevo
raccontare
la
barbarie con strumenti e
linguaggio della barbarie.
Una generazione che ha
perso la “cultura” dell’Eros è
una generazione di barbari.
L’io narrante di Lubiana dice:
«delle cose sappiamo dire
solo che sono belle o brutte.
Vita al grado zero». Ecco, i
protagonisti di questo libro
vivono al grado zero della
civiltà. Il sesso, per loro, è
un bene di consumo. Non
conoscono vie traverse, sono
privi del gusto dell’attesa,
della relazione. Questi stimoli,
chiaramente, non arrivano dal
nulla. È la barbarie che viene
dal Mondo che parla ai miei
27
Intervista a Antonio Iovane
Barbera editore
personaggi. La realtà fa leva sui loro
istinti più bassi e li manda in corto
circuito. Non voglio dire che esista
una generazione così. Voglio dire di
più: in tutti c’è una parte di questo
corto circuito. Mi piaceva l’idea
di scriverci sopra quell’indagine
che si chiama narrazione. Volevo
raccontare una porzione di realtà
attraverso la merce del sesso.
Mi sembra un libro costruito in
modo televisivo o cinematografico.
Questo è un merito infatti leggendo i
racconti mi vengono in mente luoghi,
persone, facce, mazzapicchi, culi!
È vero, c’è molta televisione perché
i pensieri e le azioni dei protagonisti
sono televisivi. Se ci pensi prima
si guardava la televisione perché
quelli che stavano nella scatola
comunicavano qualcosa a chi stava
a guardare. E chi stava guardare ne
sapeva di meno di quelli dall’altra
parte. Adesso nella scatola ci trovi te
stesso alla ricerca della consolatoria
conferma della tua normalità. E
quando non ci si riconosce si tenta
la via dell’emulazione e si scambia
la televisione per la realtà. Come fa
Ottone, che davanti a Rai 1 sogna
le ragazze di Miss Italia e preso
da una voglia di riscatto per un
modello al quale non si potrà mai
avvicinare, decide di vagare per
Roma alla ricerca della sua Miss tra
le prostitute della città. Ottone si
serve del linguaggio parlato dalla
televisione per rispondere a quel
modello. E infatti, quando deve
scegliere la sua prostituta, scarta le
altre dicendo: Per te Miss puttana
finisce qui.
La terza domanda è sulla ispirazione
(quesito che non si può negare ad
un esordiente). Quali sono (se ce ne
sono) i tuoi punti di riferimento?
Ho nel cuore Philip Roth e nel
cervello Gadda. Il primo ti insegna a
osare, a guardare al mondo come
a una grande narrazione. Gadda
(soprattutto quello della Cognizione
del dolore) ti insegna che la
conoscenza è nel linguaggio e nel
suo ordito. C’è poi Kafka, Thomas
Mann, Pirandello, Giorgio Caproni. E
poi ci sono autori italiani grandissimi
e sottovalutati. Adoro per esempio
il primo Luigi Malerba, quello
del Protagonista o del Serpente.
Oppure Specchio delle mie brame
di Alberto Arbasino: un manuale di
scrittura straordinario. Se mi chiedi
un pensatore ti dico Gunther Anders
col suo L’uomo è antiquato.
Considerato che il tuo lavoro
principale è quello del giornalista,
quanto ti sei affidato alle storie
di cronaca e quanto ai racconti
diretti dei tuoi amici (o alle tue
esperienze)?
Ti dico cosa mi ha raccontato
un giorno un amico: “Stavo
passeggiando vicino al Colosseo.
Vedo un uomo che ero sicuro di
conoscere. Ne ero proprio certo,
però non mi ricordavo dove l’avevo
incontrato. Però lo avevo visto e,
forse, frequentato. Così stavo per
andarlo a salutare quando mi sono
ricordato. Era l’attore di un film
porno”. Una delle storie è nata
così. Agli amici devo il gusto
vertiginoso del paradosso,
che se lo prendi sul serio
diventa letteratura. Quando
hai spesso a che fare con la
cronaca, poi, impari a ridurre
lo stupore e ad aumentare la
comprensione. Se vuoi sapere
quanto c’è di autobiografico
ti rispondo: tutto, perché se
non vivo quello che scrivo,
scrivo male. Che poi lo abbia
vissuto o meno nella realtà
secondo me è un particolare.
(P.L.)
Coolibrì
28
Dario Flaccovio Editore
via E. Oliveri Mandalà, 35
90146 Palermo
Tel. 091 202533
www.darioflaccovio.it
Gialloteca
Nata nel 2002 con i primi due
volumi è diretta a partire dal
2003 da Raffaella Catalano.
La collana include romanzi e
antologie di genere giallo e
noir.
Tempora
Dal 2004 include romanzi
che non rientrano in un filone
specifico o che rappresentano
una commistione fra vari
generi.
Fuori Collana
La
produzione
comincia
nel 2005 con alcuni romanzi
mainstream – Il giardino della
delizie di Giacinta Caruso,
La porta degli innocenti di
Valter Binaghi, Resurrectum
di Gianfranco Nerozzi, E i
morti non sanno di Gaia
Servadio, Il viaggio di Aelin
di Egle Rizzo e il romanzo Le
piste dell’attentato di Loriano
Macchiavelli
illustrato
a
fumetti da Gianni Materazzo.
I fuori collana spaziano dal
thriller al romanzo a sfondo
storico o d’attualità, dalla
fantasy all’horror.
LA TECNICA DELLA NARRAZIONE
La doppia natura della Dario
Flaccovio Editore è lampante sin
dalla home page dell’agevole sito
internet. Una scrivania con oggetti
vari e con un libro aperto. “per la
professione” a sinistra, “per il tempo
libero” a destra. Dario Flaccovio
Editore nasce a Palermo nel 1980
e da allora opera nel campo
della letteratura tecnica. Nel 2002
inaugura la collana Gialloteca, ora
giunta al suo diciottesimo volume,
e nel 2004 Tempora, una collana
di narrativa non vincolata a generi
e mode, che ospita romanzi fuori
dagli schemi; i fuori collana sono,
invece, romanzi mainstream diretti
a un pubblico più ampio possibile.
Dal febbraio 2005 la casa editrice si
avvale della consulenza editoriale di
Luigi Bernardi (scrittore, traduttore,
giornalista, editore). A coordinare il
lavoro di tutti i settori è la direttrice
editoriale Marisa Dolcemascolo.
“La narrativa si è aggiunta alla
produzione tecnica già esistente”,
sottolinea
Raffaella
Catalano,
editor e responsabile della collana
Gialloteca, “e che continua. È grazie
al retroterra solido della tecnica
e della manualistica che la casa
editrice ha potuto intraprendere la
sfida della narrativa, sostenendola
con mezzi economici adeguati
e con una struttura organizzativa
in grado di gestire l’ampliamento
dell’attività”.
E i risultati si vedono. “La casa editrice,
a differenza di altre”, prosegue
Raffaella, “si prodiga con vari mezzi
nella promozione: pubblicità, un
buon numero di copie omaggio alla
stampa, partecipazione alle fiere,
presentazioni su tutto il territorio
italiano, distribuzione capillare. E la
risposta dei critici, dei lettori e dei
librai è positiva e migliora di giorno
in giorno”. Ma nonostante il buon
momento della Dario Flaccovio
Editore i problemi di una piccola
casa editrice restano. “Essere
una casa editrice medio-piccola,
almeno per quanto riguarda il
nostro settore narrativa, che è il più
“giovane”, significa avere difficoltà
a imporsi sul mercato, lottare per
rendersi “visibili” sui banchi delle
librerie e tramite le recensioni sui
giornali, diventare credibili per i
distributori nazionali, per i librai e per
i lettori. Di fatto, dal 2002 a oggi, di
credibilità e di visibilità ne abbiamo
conquistata tanta. Questo perché,
come obiettivo primario, tendiamo
a produrre libri di qualità, sia dal
punto di vista dei contenuti che della
“confezione” (cura del testo e delle
copertine). Una scelta vincente è
stata, finora, quella di dedicarci
soltanto agli autori italiani, molti dei
quali esordienti o emergenti, ma
sempre dotati di buon talento e di
grandi potenzialità”. Una attenzione
e una cura del prodotto che ha
portato ben tre autori della casa
editrice palermitana tra i quindici
finalisti del Premio Scerbanenco
per il miglior romanzo giallo/noir
dell’anno. Si tratta del lombardo
Valter Binaghi con La porta degli
innocenti, del campano Massimo
Siviero con Vendesi Napoli e del
calabrese Gianfrancesco Turano
con Ragù di capra. L’altra carta
vincente della Dario Flaccovio
Editore è rappresentata dalla rete.
“Il sito www.darioflaccovio.it è un
ottimo strumento di promozione
dei nostri titoli”, conclude la editor,
“delle novità, degli appuntamenti
a cui la casa editrice partecipa,
che siano fiere o presentazioni di
singoli autori. Di recente abbiamo
inaugurato una newsletter che
raggiunge cinquantamila utenti
e adesso il sito è utile anche dal
punto di vista commerciale per la
narrativa, mentre lo è da sempre per
i libri tecnici. Di recente abbiamo
messo on line l’archivio di tutti i nostri
autori, con biografie e immagini,
mentre da sempre esistono la
sezione Filodiretto (presente in
ogni pagina dedicata ai singoli
romanzi) che offre la possibilità di
contattare direttamente gli scrittori,
la sezione Recensioni e quella delle
Presentazioni, entrambe aggiornate
in tempo reale, oltre a uno spazio
per la stampa dal quale scaricare
schede informative, copertine dei
libri e fotografie degli autori; gli
abstract di ogni libro sono anch’essi
scaricabili e il sito offre tanti altri servizi
per il pubblico”. Forse non è un caso
anche quest’anno Dario Flaccovio
Editore, come era già accaduto nel
2004, si piazza in cima alla classifica
dei siti di editoria più visitati d’Italia,
sia per quanto riguarda il settore
della narrativa che per quello della
tecnica e manualistica secondo
i dati rilevati da Alexa dall’inizio
del 2005 a oggi. La casa editrice
palermitana - per numero di visite
al suo sito www.darioflaccovio.it
- si colloca alla posizione numero
56.342 della classifica mondiale,
quindi risulta prima rispetto a tutti gli
altri editori italiani.
Alcune domande sul giallo
a Raffaella Catalano
Il giallo classico è un
romanzo “a chiave” che
deve accompagnare il
lettore verso la soluzione
di un “caso” (un delitto,
una
scomparsa,
ecc.)
disseminando
ad
arte
la narrazione di indizi
che possano far calare
il
lettore
stesso
nei
panni
dell’investigatore,
fornendogli
tutti
gli
elementi per venire a capo
dell’enigma.
Di
questi
tempi, però, il giallo italiano
è anche un’opportunità per
calare il mistery nelle diverse
realtà regionali del nostro
paese.
Negli ultimi anni in Italia è
nato (o meglio si è affermato)
un nuovo fortunato filone
giallo
e
noir.
Perché
secondo lei dopo anni di
confino nella “letteratura di
genere” il giallo ha subito
questa trasformazione?
Forse perché finalmente è
chiaro il concetto che un
buon romanzo è un buon
romanzo e che un giallo
o un noir non devono
essere penalizzati a causa
di un’etichetta inutile: se
raccontano una bella storia
hanno la stessa dignità
della letteratura cosiddetta
“alta”.
Telefilm,
film,
romanzi,
racconti,
trasmissioni
televisive. Pare che la gente
sia sempre più appassionata
al crimine. La letteratura
rispecchia questa realtà?
Lo ha detto lei stesso. C’è
un grande interesse per il
mistero, per il delitto. Nel
campo della narrativa, lo
dimostra il successo degli
autori che si dedicano al
giallo e al noir. E alle case
editrici arriva un numero
sempre
crescente
di
proposte di romanzi mistery
anche da parte degli
aspiranti scrittori.
Il giallo, secondo lei, svolge
un ruolo sociale?
Non mi sento di fare
valutazioni così impegnative.
Però una cosa che in
qualche modo ha a che
fare con un piccolissimo ma
significativo cambiamento
posso
segnalarla:
mi
consta che autori diventati
popolarissimi fra la gente
(magari anche grazie agli
sceneggiati televisivi tratti
dai loro romanzi), come
Camilleri, abbiano spinto
anche chi non aveva mai
preso un libro in mano a
entrare in libreria e a scoprire
il fascino della lettura.
Be Cool
Due amici, la loro passione per la
musica e un sogno: quello di lasciare
il proprio Paese per realizzare le
ambizioni di sempre. Questo lo
scenario su cui si muovono Ruy e Tito,
giovani musicisti cubani che vivono
di espedienti in una Havana solare e
apparentemente senza problemi. Il
primo vive con sua nonna, mentre Ruy
ha due figli e una moglie, Caridad, di
cui è profondamente innamorato ma
il loro rapporto, ormai logoro e vittima
di una profonda incomunicabilità,
sembra destinato a esaurirsi. A un
certo punto però tutto sembra
andare per il verso giusto: presi dai
preparativi per il loro primo concerto,
riescono a conoscere due produttori
spagnoli giunti sull’Isola in cerca di
talenti da lanciare in Europa. La vita
che hanno sempre sognato sembra
oramai ad un passo, ma è proprio
in quel momento che le reciproche
convinzioni sembrano sgretolarsi. Un
sapiente mix di commedia, ritmo e
sentimento caratterizza questo film
frizzante, ben diretto e soprattutto
poco
prevedibile,
dall’ottima
colonna sonora (in Spagna al quinto
posto degli album più venduti) e dalle
interpretazioni sincere ed azzeccate.
Inoltre i colori di Cuba, l’allegria che
tradizionalmente vi si respira sono
presenti e acclimatanti, ma per una
Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico
il cinema secondo coolcub
volta quasi misurati, rispettati. Come
a dire che non è tutto lì, come recita
uno dei protagonisti quando dice
che “questo è il miglior Paese del
mondo per perdere tempo”, anche
se non è detto che tutti vogliano
farlo. Habana blues stupisce non solo
per la confezione, ma anche perché
riesce a rappresentare bene la voglia
di sognare e di evadere nascosta in
ognuno di noi, per la sensibilità e la
cura che manifesta nell’affrontare
situazioni facilmente banalizzabili.
Difficile parlare di Cuba senza toccare
la politica, del tutto impossibile parlare
di politica a Cuba. E questo Zambrano
lo evidenzia in un modo tutto
speciale, grazie ad un’attenta quanto
intelligente analisi socio-culturale che
lascia trasparire l’angoscia e l’amore
che caratterizzano da sempre il
rapporto con le proprie radici. Tutto
il resto va da sé e quando non
bastano una buona sceneggiatura e
bellezze latine a fare un capolavoro,
di sicuro servono a rendere godibile
e appassionante quanto basta un
film di nicchia e poco pubblicizzato
come questo. Non serve aggiungere
altro per una pellicola che chi ama la
musica non dovrebbe assolutamente
perdere e che chi sogna ad occhi
aperti in fondo conosce già. A suo
modo il film più rock dell’anno.
Benito Zambrano
Habana blues
Warner Bros
di C. Michele Pierri
29
Be Cool
30
Tsai Ming Liang
Il gusto dell’anguria
Dopo tre inattesi premi
all’ultima Berlinale arriva
anche nelle nostre sale il
controverso e immaginifico
“Il gusto dell’anguria” del
cinese Tsai Ming Liang. in
tempo di grave siccità la
televisione cerca di suggerire
diversi metodi per risparmiare
acqua e propone di bere
succo d’anguria al posto
dell’acqua. Ma ognuno ha
i suoi metodi per procurarsi
l’acqua: Shiang-chyi
raccoglie le bottiglie vuote
e le riempie con l’acqua
rubata nei bagni pubblici,
Hsiao-kang, un attore porno,
si arrampica sui tetti in piena
notte per farsi un bagno
nella poca acqua che trova
nei cassoni. Sopravvivere è
difficile, ma la solitudine è
ancora più dura. Un prodotto
di nicchia per chi ama il
cinema orientale.
John Irvin
L’educazione fisica delle
fanciulle
A quattro anni dal suo ultimo
lavoro John Irvin torna con un
film dal sapore retrò intitolato
“L’educazione fisica delle
fanciulle” e che vede la
presenza di Jacqueline Bisset
e Enrico Lo Verso. La storia,
ambientata in Turingia tra la
fine dell’Ottocento e i primi
del Novecento, ruota intorno
a sei fanciulle sedicenni, ospiti
fin dall’infanzia in un lussuoso
collegio dove apprendono
danza, musica e buone
maniere, sotto la guida di
istitutrici intransigenti e severe.
Ma l’adolescenza è anche
un periodo di scoperte che
neanche lo stretto controllo
degli adulti può riuscire a
frenare. Audace ma riflessivo.
Jim Jarmush
Broken Flowers
Un cast d’eccezione (Bill
Murray, Sharon Stone e
Jessica Lange) per un regista
di culto come Jim Jarmush
(“Coffee and cigarettes”,
“Daunbailò”) e il suo “Broken
flowers”, da dicembre nei
cinema. Semplice l’intreccio:
Don Johnston, single incallito,
è stato appena lasciato
dalla sua ultima conquista,
Sherry. Mentre si affligge per
la sua solitudine, gli arriva
una lettera anonima che lo
informa che ha un figlio e la
ricerca comincia. Da non
perdere.
Jean-Pierre e Luc Dardenne
L’enfant
Freschi di Palma d’oro
all’ultimo Festival di Cannes,
i fratelli Jean-Pierre e Luc
Dardenne approdano nelle
sale con il film che gli è
valso il prestigioso premio, il
drammatico “L’enfant”. Il
racconto verte su Bruno,
Sonia e il figlio che hanno
appena avuto. Lui, 20 anni,
Paul Haggis
Crash – contatto fisico
Filmauro
di Dario Quarta
In una Los Angeles
prenatalizia
e
meltin’ pot, si incontrano/scontrano
le vite di una casalinga snob e
del marito procuratore, di due
amanti/poliziotti, di una recluta
“buona” e di un altro “cattivo”, di
un regista nero e della moglie, di
un fabbro latinoamericano, di un
commerciante iraniano con la sua
famiglia, di due ladri di automobili,
di una coppia coreana e...Crash! Il
titolo è azzeccatissimo: automobili e
“incidenti”, in un modo o nell’altro,
dominano le storie. È un gran
film, per tutto quello che riesce a
comunicare, e per gli interrogativi
che si trascina. Una ricca carrellata
di personaggi per una serie di
vicende e incontri concatenati o
intrecciati in una Los Angeles grande
nelle inquadrature, ma piccola
come un paesino per la quotidianità
narrata. Bianchi, neri, gialli, ispanici,
arabi; incontri, incidenti, famiglie,
amori, carriera; tutto segnato dal
confronto tra razze, e persone. È
un film che parla dei pregiudizi e
di tolleranza; della generosità degli
intolleranti e delle “paure” di chi
razzista non è. Tutto, ed il contrario
di tutto, in un continuo incrociarsi di
vicende (alla maniera di America
Oggi di Robert Altman) che
avvincono e convincono. Funziona
la colonna sonora, funzionano le
sorprese, funzionano
i
personaggi,
funzionano gli attori.
Terry Gilliam
I fratelli Grimm e
l’incantevole strega
Buena Vista
di C. Michele Pierri
Vendicarsi delle proprie paure
ad anni di distanza è possibile.
Dimostrarlo è l’obiettivo di Terry
Gilliam che con le storie dei Grimm
ha passato una brutta infanzia.
In questo film infatti l’ex Monty
Python con la solita ironia e con
l’aiuto dell’inedita coppia Heath
Ledger-Matt Damon pensa bene
di rendere i fratelli più conosciuti
dai bambini protagonisti del
mondo che loro hanno sempre
raccontato, con tutti i problemi che
questo comporta. Nel racconto
i due, imbroglioni di professione,
saltano da un villaggio all’altro
truffando popolani creduloni con
le loro storie di mostri da loro stessi
inventate. Ma la truffa ha vita breve
e le autorità li mettono alle strette:
risolvere un caso spinoso o sarà
pena di morte. A complicare le
cose una strega (Monica Bellucci)
e i loro problemi si moltiplicano. Ne
esce fuori un film dai due volti: da
un lato visionario e paradossale
com’è nella consueta cifra del
regista, dall’altro forse troppo
scontato e semplicistico. In fin
dei conti un lavoro godibile, ma
che sicuramente lascerà l’amaro
in bocca a chi ama Gilliam e ha
imparato a conoscerlo per perle
come Brazil o La leggenda del
re pescatore, solo per citarne
alcuni. Ma se è questo che passa
il convento bisogna accontentarsi.
In fondo di Gilliam ce n’è uno solo.
Simon Shore
Cose da fare prima
dei 30
Warner Bros (DVD)
Inizia la lista delle
cose da fare prima
dei trenta anni e già sai che molti
voteranno per il sesso a tre ma che
probabilmente nessuno riuscirà nel
lussurioso intento. La commedia
dolce e amara firmata dal
britannico Simon Shore ruota attorno
al mondo del calcio. Un gruppo
di sei amici da venti anni gioca
con la stessa squadra fondata dal
patrigno di uno di loro ormai malato
e impossibilitato a seguire le partite.
I calciatori dilettanti dell’Atletico
Greenwich si apprestano a disputare
la cinquecentesima partita della
storia e qualcuno sente l’esigenza di
appendere le scarpette al chiodo
(le mogli stressano ovunque...). Ma
il calcio, in realtà, è solo il pretesto
per raccontare storie di amore e
di amicizie, segreti e bugie, figli in
arrivo e tradimenti, cose nascoste
da tempo e sentimenti castrati. Tra
trasferte fantozziane e gare rinviate
per i più svariati motivi le scene di
calcio giocato sono pochissime.
Non mancano momenti comici e
battute interessanti. Un film che in
Italia non ha avuto molto successo
al botteghino e che adesso esce in
Dvd. Raccomandato a chi non si
vuole arrendere alle responsabilità
della vita adulta. (Pedroso)
Luca Guadagnino
Melissa P
Sony Pictures
di C. Michele Pierri
Prima ancora di scrivere so già che
l’impietoso popolo di Coolclub
non mi perdonerà mai questa
recensione. Come so che parlare
di un film scritto e pensato per
adolescenti può facilmente risultare
banale. Ma forse non è così. Lungi
da me trovare giustificazioni di
sorta per quello che considero un
film scontato, noioso e se vogliamo
anche inutile, ma una cosa è certa:
Melissa P è un prodotto che bene
rappresenta i nostri tempi. Nato
da un caso letterario (100 colpi
di spazzola prima di andare a
dormire), questa pellicola prodotta
dalla coppia Neri-Amendola cerca
di schivare polemiche decisamente
più grandi di lei. È un lavoro
mediocre? D’accordo, ce ne sono
tanti. Fa male al cinema italiano?
Non più di un film dei Vanzina. Allora
cos’è che dà così fastidio, anche
solo al pensiero di vederlo? Sono
fermamente convinto che proprio
perché figlio di un vero diario di
una vera adolescente Melissa P dia
fastidio a molti. Troppe le domande
che la gente si pone. Ma davvero
le nostre figlie sono così? (i genitori);
ma davvero siamo diventati così? (i
figli). E se la comprensione di se stessi
parte da un esame di coscienza,
toccare nervi scoperti non può
che essere doloroso, anche se lo
si fa involontariamente come in
questo caso. In parole povere non
vedetelo. Ma rifletteteci su.
vive di piccoli affari poco
legali che combina con i
suoi amici; lei ha 18 anni.
Ma questa sarà la prima
occasione di affrontare la
vita in un modo diverso. Per
chi vuole tenersi aggiornato.
Peter Jackson
King Kong
Dopo la saga tratta dal
capolavoro fantasy di Tolkien
“Il signore degli anelli”, il
neozelandese Peter Jackson
attinge a piene mani dalla
storia del cinema con
questo suo “King Kong”
che rappresenta il secondo
remake dell’originale del
1933. La storia è nota e
racconta di un gruppo
di esploratori e cineasti
indipendenti che hanno
in progetto di girare un
documentario. Recatisi
nell’Isola del Teschio a largo
di Sumatra, attirati dalla
credenza che lì vi sia un
gigantesco e pericoloso
gorilla chiamato Kong, una
volta giunti a destinazione
si rendono conto che non si
tratta di una leggenda, ma il
mostro esiste realmente.
Xiaoshuai Wang
Shangai dreams
A metà fra storia e fiction
questo film di Xiaoshuai
Wang. Durante gli anni
sessanta, sotto la spinta
del governo cinese, molte
famiglie lasciarono le grandi
città per stabilirsi nelle regioni
povere, con lo scopo di
sviluppare l’industria locale.
Una ragazza di diciannove
anni, per volere del padre,
si troverà ad affrontare un
difficoltoso distacco dalla
vita che aveva fino ad allora
conosciuto, fatta di amici e
di primi amori, per trasferirsi a
Shangai. Premio della Giuria
all’ultimo Festival di Cannes.
Luc Jacquet
La marcia dei pinguini
Forte di incassi milionari in
mezzo mondo, arriva anche
in Italia il documentario
francese “La marcia dei
pinguini”. Cavalcando l’onda
lunga di un genere che
mai come adesso gode di
ottima salute e popolarità,
Luc Jacquet racconta le
peripezie che conducono
il pinguino imperatore
a percorrere migliaia di
chilometri e a patire fame
e stenti pur di mettere al
mondo dei piccoli pennuti.
Nel doppiaggio nostrano
la voce narrante di Fiorello.
Godibile ed interessante allo
stesso tempo.
Finché la banda suona…
Cinema e bande musicali
31
di C. Michele Pierri
Come sempre la storia si
ripete. E se fino a pochi anni
fa tutto ciò che era popolare
poteva apparire noioso e
addirittura da abolire adesso
è di gran moda. A questo
meccanismo non sfugge il
cinema che tra corsi e ricorsi
vede salire nuovamente
le quotazioni delle Bande
Musicali, icona popolare per
eccellenza. Semplice moda
o recupero vero di ciò che
in precedenza aveva detto
molto? Arduo rispondere
anche se il cinema ha
sempre avuto un feeling
particolare con la musica e
ancora di più con le bande,
spesso presenti in passato.
A partire dal cinema
italiano degli anni d’oro.
Nel film di Comencini Pane,
Amore e Gelosia del 1954,
il Maresciallo interpretato
da Vittorio De Sica, si
congratula con il maestro
della banda musicale per
la bella esecuzione, sintomo
di una sincera ammirazione
per chi portava l’allegria
nella vita grigia e semplice
dei ceti più disagiati. A
metà degli anni Cinquanta
la banda musicale appare
già come uno strumento di
diffusione musicale, così la
ricorda il cinema comico
di quegli anni. E non è un
caso che la banda fosse
presente
maggiormente
in film leggeri o comunque
dal
seguito
popolare.
Borghesi
e
aristocratici
infatti
tendevano
a
snobbare
quello
che
ritenevano un semplice
quanto
deprecabile
fenomeno folkloristico da
feste e sagre per il volgo, da
non prendere troppo sul serio a
differenza della lirica e della più
tradizionale musica classica. Una
vera rivoluzione in questo senso
la compie il regista slavo Emir
Kusturica (nella foto a destra),
la cui storia cinematografica è
permeata da un accurato lavoro
di ricerca e proposta di temi
musicali cari al suo popolo. Anche
Kusturica suona e lo si intuisce
facilmente. Nel 1986 si unisce in
via provvisoria alla No Smoking
Orchestra, band che mescola
sonorità zingare a ritmi rock,
entrandone definitivamente a far
parte nel 1998 come chitarrista.
I suoi lavori, caratterizzati da un
mix musicale nato dalla frontiera
balcanica e dall’incrocio delle
tradizioni ortodossa, cattolica
e musulmana che popolano
la zona, fanno della “banda”
un tratto distintivo e addirittura
necessario al racconto. Ma tale
lavoro non sarebbe potuto essere
svolto senza l’aiuto di una figura
fondamentale, quella di Goran
Bregovic (in basso). Il sodalizio
con il musicista comincia quasi
da subito, vista la comunione
di intenti e l’amicizia che li
accomunavano. Il suo lavoro
migliore, o almeno più apprezzato,
sia per sonorità che per influenze
rimane senza dubbio Ederlezi (che
dà anche il titolo al cd-antologia
delle colonne sonore di Bregovic)
e tutta la colonna sonora de Il
tempo dei Gitani (Kusturica, 1989).
Giusto il tempo di altri due film
(Underground, Arizona dream) e
il legame si rompe. Ma Kusturica
non rinuncia ad un meccanismo
collaudato e nel successivo
Gatto nero, gatto bianco è
ancora la banda, che con il
tema di Bubamara attraversa
l’intero film, a farla da padrona.
C’è la banda quando il nonno
ubriacone esce dall’ospedale,
c’è la banda quando alla vigilia di
un matrimonio il nonno “muore”,
almeno
momentaneamente.
Questo dà in un certo senso
un’idea forte e tangibile di
come sia impossibile scindere
emozioni, anche quotidiane,
dalla familiarità dell’orchestra di
paese. Il percorso continua nel
2001, quando dividendosi tra
cinepresa e chitarra, il regista
bosniaco realizza Super8 Stories,
documentario
sulla
musica
balcanica, girato e suonato
assieme ai No Smoking. E se in
questo Kusturica ha avuto un
ruolo di rilancio, c’è un cinema,
come quello italiano, che anche
per tradizione, sembra averne
raccolto l’eredità e recepito
i segnali. Già nel 1996 infatti
Francesca Archibugi ha girato
uno splendido documentario,
intitolato La strana storia di
Banda Sonora, in cui restituisce
alla
banda
quella
dignità
che in passato aveva perso a
scapito di generi più “alti”. Nel
lavoro, diretto a Chianciano e
provincia, affermati jazzisti (Enrico
Rava, Enzo Pietropaoli, ecc.)
incontrano la Banda musicale del
luogo, lavorando e producendo
assieme. E dimostrando che
la musica non conosce titoli e
confini. Ma neanche la Puglia
sta a guardare. Il caso più
emblematico è senza dubbio
quello di Pippo Mezzapesa,
regista bitontino, che sulla banda
e su un suo inadatto componente
ci ha addirittura fatto un corto,
Zinanà (nome dei piatti orchestrali
in dialetto barese), vincendo
il David di Donatello nel 2004.
Soffia dunque un vento nuovo,
che fa della tradizione qualcosa
da raccontare e di cui andar
fieri. Anche al cinema. E non
rimane che adeguarsi e seguire
con attenzione quello che fra
pochi mesi potrebbe essere già
vecchio. Perché la banda è
tornata a suonare, ma le sue note
potrebbero presto non udirsi più.
L’orchestra di Piazza
Vittorio vista da Agostino
Ferrente
Non è propriamente un
banda ma è il gruppo
più multietnico che
l’Italia abbia mai avuto.
L’Orchestra di Piazza
Vittorio è un ensemble
composto da venti
musicisti provenienti
da comunità e culture
diverse, ognuno coi
suoi strumenti ed il suo
bagaglio di musica
popolare. L’ideatore e
aspirante direttore artistico
di questa orchestra
è Mario Tronco degli
Avion Travel. Il regista
Agostino Ferrente in Prove
d’Orchestra racconta il
percorso che ha condotto
alla nascita del gruppo.
Attraverso gli ostacoli, le
delusioni, le frustrazioni,
la burocrazia, il razzismo,
ma anche le speranze, le
soddisfazioni, gli incontri
e soprattutto la musica,
questo film racconta
la storia di una grande
scommessa musicale
e profondamente
umana. L’idea è quella
di raccontare una storia
vera facendo incontrare
e scontrare due linguaggi
cinematograficamente
opposti: il realismo
essenziale del
documentario e lo
sfarzo fantasioso
del musical. info@
orchestradipiazzavittorio.it
32
Intervista a Franco Galluzzi Livera: un viaggio nell’arte
di Osvaldo Piliego
In occasione della sua mostra
presso la libreria Ergot a Lecce il 17
dicembre, abbiamo incontrato
l’artista Franco Livera.
Nel 1984 entra in possesso
della sua prima fotocamera e
frequenta l’Accademia di Belle
Arti di Lecce. Tra la fine degli
anni ottanta ed i primi anni
novanta fa esperienza a Roma
con Bruno Ceccobelli ed Emilio
D’Elia e si dedica ad una ricerca
personale.
Nel 1993 fonda insieme ad
Antonio Galluzzi il progetto
Interzone,
sviluppato
fino
al 1998. Risalgono a questo
periodo le collaborazioni con
musicisti e videomakers italiani
e la partecipazione, in veste
di coordinatore, alle due
edizioni di Pixel, rassegna di
cinema in video ospitata dal
comune di Torchiarolo (Br).
Successivamente ha inizio una
nuova ricerca sulle possibilità
performative del corpo umano
che lo porta a dar vita alla
“struttura aperta” Bluefactory,
spazio
fisico/mentale
nel
quale far convivere nuove
contaminazioni.
Presto interverrai con un tuo
lavoro all’interno di Ergot, di che
cosa si tratta?
Una mia amica lo ha definito
un lavoro molto Linchiano. In
sostanza è una proiezione che
avviene in una valigia, un po’
come fece Duchamp con il
suo museo portatile, ho creato
questa struttura in cui all’interno
di una porzione di campana di
vetro avviene la proiezione di
un mio lavoro dal titolo Ballet
rouge. Questa campana è a sua
volta inserita all’interno di una
valigia che diventa un oggetto
d’arte trasportabile, in osmosi
con i saltimbanchi, un richiamo
al viaggio che è presente come
tema anche nel video, ballet
rouge è in fondo un viaggio
interiore.
Il tutto è accompagnato dalle
musiche di Mauro Ingrosso.
All’interno dello spazio Ergot
ci saranno anche due mie
foto tratte da una sequenza,
sono porzioni di corpo che si
abbracciano.
C’è legame tra le foto e il video,
tra i due lavori?
Il legame è psicologico. In
entrambi i lavori c’è la voglia di
andare in profondità. Mi rendo
conto che in ogni mio lavoro,
sia foto, sia video, anche se sono
rappresentate delle modelle, in
un certo senso rappresento me
stesso. I miei sono un po’ come
degli autoritratti, in un certo
senso autobiografici.
Perché hai scelto di lavorare
con il corpo?
Perché è l’unica cosa che mi
appartiene veramente. La body
art è quella parte dell’arte del
900 che mi interessa. Io lavoro
con il corpo ma sono interessato
all’essenza. Una volta una
modella prima di venire in
laboratorio mi chiese. “Cosa
devo portare? E io le risposi:
“porta la tua anima”.
Raffiguri solo te stesso e donne,
perché?
Perchè la donna è la mia
controparte, mi completa.
Perchè la fotografia?
Non la fotografia ma quello
che posso fare attraverso
la fotografia, il video è un
estensione. Io non faccio
la fotografia, attraverso la
fotografia esprimo concetti.
Qual è il tuo rapporto con la
musica?
È sempre un problema, per
questo per i miei lavori mi affido
a dei professionisti. In generale la
musica è fondamentale, ascolto
sempre musica quando lavoro,
mi piacciono molto i Massive
Attack e la musica sinfonica.
CoolClub
.it
L’aniMa balcanica della MUniciPale
33
Intervista a Livio Minafra di Gianpaolo Chiriacò
Pianista, fisarmonicista, scrittore, leader della Municipale Balcanica
nonché autore di un disco in piano solo acclamato dalla critica
internazionale, Livio Minafra, a soli ventitre anni, rappresenta già una
felice sintesi tra le mille anime musicali pugliesi, espressione di un artista
talentuoso e di una sensibilità vigile.
Livio, come nasce la municipale balcanica?
Per errore, come i bambini! Infatti si voleva fare una band che
omaggiasse Fred Buscaglione e poi si è andati sul balcanico! E il bello
è che man mano ci si è accorti che quella musica non era così lontana
da noi, anzi, ci apparteneva, come pure la musica degli zingari, o
quella ebraica, o quella francese. Il tema era diventato il Mediterraneo,
con la sua pelle, per così dire, Sud-icia! Un’avventura non prevista, ma
che quando è partita, è stata ‘na bomba per le vite di ciascuno. Oggi
ciascuno dei componenti della Municipale è solare grazie al gruppo.
Ci mettiamo tutta l’anima, soprattutto quella più radicale e libera.
Quanto contano, per voi, le musiche popolari?
Non è la musica popolare che conta per noi. È l’approccio della musica
popolare che ci affascina. La spontaneità, la sovente amatorietà
democratica del poter fare popolare. La possibilità di unire la ricerca
delle radici geografiche alla ricerca di nuove radici, da conoscere
e sintetizzare. Diciamo che il popolare e la free music sono oggi le
musiche che più di altre non trascurano la propria individualità, anzi, la
esaltano. Ma non esiste un genere per noi. Semmai un’appartenenza
geografica, ma anche quella è “solo” il punto di partenza. Il genere è
il genere umano, non è uno scaffale della Feltrinelli! Voglio sottolineare
che oggi la musica popolare è la musica dal e del mondo. E come
tale non è museificabile, semmai salvaguardabile. Voglio dire che
è indispensabile conservarla e perpetuarla ma che essa stessa ha
necessità di incontrarsi con altre culture per essere viva. E che siano
incontri nati spontaneamente. Non a tavolino, se no è solo fenomeno.
Quanto è importante suonare dal vivo i vostri strumenti?
Abbiamo bisogno di comunicare. Secondo me per comunicare si
deve sudare. Gli strumenti ci aiutano in questo. E poi ci aiuta anche
l’improvvisazione libera, la possibilità di gridare, cantare, danzare,
imbarazzarsi, cazzeggiare, provare gioia e dolore attraverso il proprio
strumento.
In questo numero di Coolclub.it ci stiamo interrogando su cosa significhi
“banda” oggi. Cos’è per te una banda? Il percorso di ricerca svolto da
tuo padre (Pino Minafra) ti ha influenzato in qualche modo?
La banda è l’orchestra del meridione d’Italia. Ne è l’anima musicale
più colta, o perlomeno lo era. Oggi è un fenomeno in decadenza e
che serve a guadagnare la giornata (30, 40 euro). Invece è un territorio
da esplorare e onorare ancora. E non con schifosi arrangiamenti di
Blue Moon o la Macarena, ma con materiali originali e nuovi nati per
banda. Così hanno fatto Alessandro e Antonio Amenduni; così hanno
fatto Antonio ed Ernesto Abbate. Hanno amato la banda e scritto
marce sinfoniche, allegre, funebri, di bellezza tale che lo stesso Puccini
le ha osannate più volte. E poi la banda è un fenomeno sociale. Porta
gratuitamente la musica nelle piazze. Toglie dalla strada tanti ragazzini
per insegnar loro la musica, la vita, al posto magari di una pistola
giocattolo. Li toglie al degrado e alla noia. Noi oggi però crediamo
che la banda sia un’orchestra mal riuscita, che sia solo un-za-zà e
stonature. Ed è come quando ci vergogniamo, per esempio, dei nostri
prodotti tipici e poi negli Stati Uniti costano un occhio della faccia,
e poi i tedeschi ne vanno matti. Il Sud subisce esso stesso il celebre
proverbio: nemo propheta in patria.
Esiste, in Italia, un movimento sotterraneo fatto di bande popolari?
Esistono due tipologie di banda in Italia: quella rigorosa e classica,
e quella anarchica. Ti ho già parlato della banda classica e del
suo prestigio che spero
riconquisti.
Le
bande
anarchiche, invece, sono
un fenomeno diffuso in tutta
Europa. E anche in Italia,
da sempre un po’ speciale
rispetto alle altre nazioni,
nel bene e nel male. Non
bisogna soffermarsi sul lato
formale ed “erroriale” di
queste bande. Non perché
lascino
a
desiderare,
ma perché non è un
dato
né
interessante
né
fondamentale.
Fondamentale
è
qui
lo spirito, la capacità
democratica
di
unire
ragazzi alle bande, senza
leader e senza guide. Balza
infatti una poeticità carica,
incazzata
e
felliniana,
assolutamente
unica
è
ben più alta e nobile della
pulizia formale classica (pur
bella). Il fatto solo che mi fa
incazzare è che queste bande sono così pure di spirito, e allo stesso
tempo anticapitaliste, che sono disorganizzate alla follia. Mai un cd,
mai partecipazioni in festival di un certo tipo. Solo strade, scioperi e
centri sociali. Questo mi fa rabbia perché riduce il raggio di azione
delle bande che invece meriterebbe tanto di più.
A che livello è un movimento politico?
Politico a livello puro. Idealista, filantropo e a tratti anarco-socialista
quando pure marxista! Ma non è brutto che con tutto questo si prenda
posizione politica. È slancio puro, autentico e sincero.
Avete partecipato al Vote for Vendola, ma cosa pensi a riguardo della
situazione culturale pugliese?
Fiorente, vivace, curiosa e, nel suo, unica. Da far invidia ad altre
regioni. Poi sulla gestione della cultura meriterebbe un’intervista mio
padre, Pino Minafra. È un capitolo troppo grosso e trascurato. Diciamo
che nel paese dell’arte si pensa ancora che l’industria sia l’unico cuore
vero. Ignoranza becera. Eppure l’economia con la Cultura ci va a
nozze, non va a nozze con l’ignoranza la Cultura, e nemmeno con
il capitalismo selvaggio, come lo definiva Pasolini. Il problema è che
non la si pensa proprio. Cultura è il protocollo di Kyoto, l’agricoltura
biologica (meglio quella biodinamica), i padri Comboniani, e poi ci
sono gli artigiani dell’arte (a torto chiamati artisti). La cultura è il colore
che l’uomo dà alla vita e al pianeta. Mi sembra che invece vadano di
moda il grigio e le pellicce.
La musica (Municipale Balcanica, Sud Ensemble, Canto General,
i concerti in piano solo), oppure la letteratura, su quali vie pensi di
continuare in futuro?
Sono abituato ad esprimere in tutti i modi. Esprimere fa sì che la malattia
(le durezze della vita) diventino benattia (la possibilità di far tesoro della
tristezza e creare positivo). Continuerò su queste strade. Le emozioni le
trovo esplorando in profondità i progetti che ho creato o dei quali sono
partecipe. Mi interessano meno le idee che nascono, si realizzano e poi
muoiono per farne posto a delle altre. Oggi ho queste cose e ci gioco
con senso di fantasia e protezione! Poi…vediamo!
CoolClub
.it
Le altre culture della 11/8 Records
Food sou
34
Se nel Salento parli di musica balcanica
e di contaminazioni sonore e culturali
non puoi che pensare al trombettista
Cesare Dell’Anna (nella foto) e a tutto
ciò che ruota attorno alla sua casa/
laboratorio. L’Albania Hotel è ormai una
sede operativa, una sala di registrazione,
un luogo di passaggio e di incontro
dove chi passa ha un interesse comune
o la curiosità/necessità di scambiare le
proprie esperienze. Da questa esperienza
è nata la Undici ottavi Records (11/8),
una giovane etichetta indipendente che
vuole offrire l’insieme dei servizi di cui una
produzione musicale e artistica in genere
necessita, a partire dalle fasi di produzione,
organizzazione,
fino
all’assistenza
marketing ed alla tutela legale. Si tratta
di un progetto che aspira a diventare un
vero e proprio network, costruito come
struttura orizzontale tra diverse situazioni
che mantengono comunque, autonomia
creativa e produttiva. Oltre a Cesare, che
cura la direzione artistica, 11/8 Records ha
visto nei suoi fondatori il regista Lorenzo
Bassano, riconosciuto in Italia e all’estero
che cura la parte creativa, e Marinella
Mazzotta, specializzata nel diritto d’autore
che cura il management e l’ufficio legale.
“Ci pare importante sottolineare che il
progetto costituisce la naturale evoluzione
della “casa/laboratorio Albania Hotel”, il
laboratorio di produzione e organizzazione
artistica che si è fatto conoscere ed
apprezzare con largo riscontro sul territorio
italiano e non, creando importanti contatti
e circuiti artistici”, sottolinea Marinella. “Il
nostro sguardo è rivolto alle culture “altre”,
a ciò che soprattutto la musica sa unire:
ritmi e melodie di terre lontane e vicine, di
esperienze indelebili nelle nostre memorie
che ci ricordano che siamo tutti figli di
un’unica umanità. Questo spiega le varie
collaborazioni, con musicisti di varie etnie,
tese a sensibilizzare l’opinione pubblica
nei confronti della cultura della tolleranza
e dello scambio ed il coinvolgimento
di artisti di fama internazionale coinvolti
quotidianamente con realtà ai margini,
come Miloud Oukjli che con la sua
fondazione “Parada” porta avanti il
progetto di recupero dei ragazzi nelle
strade di Bucarest”.
In soli due anni di vita 11/8 Records ha
realizzato le produzioni Core dei Tax
Free, Hotel Albania degli Opa Cupa,
Tecnopizzica dei Tarantavirus e Zina,
mentre i progetti sperimentali di jazz
elettronico DD3 e My Miles sono di
prossima uscita. Ultimamente sono
usciti anche alcuni videoclip, sempre
per la regia di Lorenzo Bassano,
delle musiche di Opa Cupa e Zina,
che saranno presentati entro la fine
dell’anno.
“Un’attenzione particolare del nostro
lavoro”, prosegue Marinella, “è rivolta
alla valorizzazione e riattualizzazione
della musica e composizioni per banda.
Questo non meraviglia se si pensa che
Cesare ha impugnato la tromba quando
aveva solo 7 anni per andare in giro in tutta
la Puglia, tra processioni e feste paesane.
Da ciò la sua naturale propensione ad
inserire nei propri repertori arrangiamenti
bandistici. L’esempio più evidente è il
gruppo Opa Cupa composta da ottoni dal
sapore di festa salento-balcanica. Nei live
la band ospita sul palco bande locali, artisti
e giocolieri che intervengono con numeri
di grande impatto scenico. I repertori
suonati sono in parte originali (scritti da
Cesare) ed in
parte provenienti
dalla tradizione
bandistica
salentina eseguiti
in stile balcanjazz”.
Oltre
all’esperienza
personale, 11/8
Records ha un
documentato
archivio di ricerca
ed
interviste
effettuate
sul
territorio, al fine
di salvaguardare
una delle più fertili
ed
interessanti
t r a d i z i o n i
musicali.
Intervista a Don Pasta
Don Pasta, al secolo Daniele De Michele, è un
dj-economista, appassionato di gastronomia
che prova ad unire le sue passioni e conoscenze
con il progetto “Food sound system, manuale
politico di gastronomia musicale”. Nasce come
dj in Salento, da dieci anni suona regolarmente a
Roma, dove vive.
Chi è Don Pasta?
Un addetto al tempo libero che di tempo per sé
ne ha sempre poco, ma prova a fare in modo che
sia a sufficienza per godere dei rapporti umani,
per far nascere da essi parole di cucina e musica.
Perfetta fu la definizione di Postman Ultrachic, che
mi disse “Daniele, tie sì retrò.. e comu tutti li retrò
sì futurista”. Il nome Don pasta me lo diede un
senegalese in un bar africano dove teoricamente
facevo il dj, ma passavo molto più tempo in
cucina a preparare la pasta per tutti quanti. Da
allora è un nome che mi porto appresso divertito
in ricordo dei mie anni parigini.
Cibo e musica in accoppiate ardite, un gioco di
ricordi che riaffiorano attraverso diversi sensi, la
chiave di Food Sound system è questa?
L’idea del parlare di cibo e musica è nata
molto naturalmente, forse perché entrambe
rappresentano dei momenti che uno dedica a se
stesso. Riflettendoci, sono effettivamente attività
che aiutano a riappropriarsi del proprio tempo,
rubato dalle mille urgenze della vita, come in
Momo di Micael Ende, dove il tempo delle persone
veniva rubato e fumato dagli uomini grigi. Così
per me è stato assolutamente naturale creare
qualcosa a partire dai ricordi, come la corsa verso
la posta di Otranto per prendere il pacco di vinili
acquistato per corrispondenza da Sweet Music
con le ultime uscite dei Pixies, dei Jesus and Mary
Chain, degli Smiths e le orecchiette mangiate a
casa di fretta prima di
immergersi nella voce
di Morrisey e nelle
chitarre in feedback
dei fratelli Reid.
Da dove nasce l’idea?
Ho ascoltato musica
sin da piccolo, quando
entrai nella stanza di
mio fratello e le note
di London Calling dei
Clash cambiarono il
mio approccio con
il mondo. In Salento
negli anni ottanta
c’era
veramente
poco da fare e così la
mia stanzetta divenne
un luogo di viaggi
e
proiezioni
verso
CoolClub
.it
und System
mondi lontanissimi, come la Londra di Brixton,
lo Studio One di Kingston dove Bob Marley e
Peter Tosh inventavano il reggae, l’atmosfera
rarefatta dei bar fumosi dove deragliava la
voce di Tom Waits. Questa ricerca solitaria e
appassionata si confondeva con i ritmi blandi dei
pasti familiari, infiniti, poveri e allo stesso tempo
ricchi di piacere. Probabilmente lì nacque questa
propensione alla riflessione solitaria e alla cura
dell’immaginazione.
Alla fine Food sound system, non è un libro di
musica, non è un ricettario, non una raccolta di
racconti. È tutto questo insieme, o cosa?
Di fondo nel libro cibo e musica rappresentano
lo strumento narrativo per parlare della mia
vita. Ho usato le modalità di preparazione di un
piatto come uno strumento per intraprendere
un discorso più esteso sul mangiare, inteso come
origine, territorio, consumo critico dei beni della
terra. Il connubio di questi ingredienti si compie
tra righe che raccontano il mio percorso ormai
decennale di dj in giro per l’Europa, tra il Salento,
Roma, Barcellona e Parigi. Cosicché in questo libro
si può trovare di tutto, dalle recensioni dei miei
dischi preferiti alle ricette salentine, scritte sotto lo
sguardo vigile della nonna o ai luoghi dove ho
vissuto, Roma, Parigi e ovviamente il Salento. Di
35
fondo Food Sound
System
racconta
soprattutto del mio
modo di godere dei
piaceri e dell’arte
del mangiare, del
sentire musica, del
viaggiare. I legami
tra le canzoni e i piatti
sono assolutamente
soggettivi e i dischi
di cui parlo sono
raramente attuali e
rispecchiano i miei
gusti onnivori che
vanno dal punk al
reggae, dal jazz alla
bossanova.
É anche uno spettacolo...ce ne parli?
Visto che questo è un progetto nato per gioco,
una volta ideato è divenuto l’origine di tantissime
nuove idee.. mi sono ritrovato a salire su un
palco per la prima volta senza neanche essermi
veramente reso conto della portata della cosa,
visto che per dieci anni ero ben nascosto dalla
consolle da dj e non andavo .. è il caso di dirlo..
in pasto al pubblico!!! L’idea come dicevo è
venuta molto naturalmente
perché i testi si prestavano
in modo particolare alla
lettura,
avendo
una
struttura quasi da canzone
pop. Ho invitato il gruppo
della Mescla di Napoli a
rielaborare le canzoni di
cui parlavo (da Coltrane
ai Ramones, passando
per Miles Davis e Lou
Reed) e una serie di registi
(professionisti e non) a
filmare la preparazione
dei piatti in questione
(dalla focaccia di cicorie
al pulpo gallego). Lo
spettacolo è l’unione di
tutte queste cose; io leggo,
la Mescla suona e dietro di
noi scorrono le immagini di
questi piatti prelibati.
Nei tuoi spettacoli sei
accompagnato
dalla
Mescla, ce ne parli?
Per parlare della Mescla
bisognerebbe vederli in
azione a Napoli.. dove
si riuniscono in alcune
occasioni a suonare in
grandi feste, che durano giorno e notte. È un
collettivo di musicisti fondato nell’autunno del
1999 come un progetto musicale con un organico
non fisso e spesso numerosissimo. Il repertorio
prende spunto dalla tradizione musicale
dell’intero bacino mediterraneo (rom, klezmer,
balcanica e dell’Italia meridionale) rielaborata in
una chiave rock, scanzonata e ruspante, adatta
ai mercati popolari, a pranzi senza pause e feste
bucoliche. Con la loro banda hanno suonato
per strade, mercati, campagne in Slovenia,
Bosnia, Hercegovina, Croazia, Ungheria, Francia
e Spagna.
Come sei arrivato a Food Sound Sytem, ci parli
un po’ di te?
Food sound system è indubbiamente il sunto della
mia storia e delle mie passioni. Probabilmente
ho cominciato a scrivere per la necessità di
sottopormi alla bellezza dell’atto creativo. Nel
farlo non c’era pretesa artistica, piuttosto una
volontà di trasformazione della propria realtà
interna, attraverso un movimento di immagini,
suoni e parole. Scrivendo però il pensiero ha
preso forma, la scrittura è diventata racconto e
donpasta un narratore di favole.
Un libro, un piatto e un disco che consigli ai lettori
di Coolclub e perché.
Come libro direi Ricette Immorali di Montalban,
perché è con lui che per la prima volta ho potuto
apprezzare il piacere di leggere di cucina. Come
disco senza dubbio London Calling, che mi ha
insegnato l’importanza di amare tutta la musica
senza barriere tra punk, reggae, funk, jazz. A
vent’anni di distanza ha ancora un suono fresco è
un disco senza tempo, direi. Sul piatto preferito mi
metti in crisi, ma alla fine opto per la parmigiana
salentina, quella pesante e piena di polpettine.
Di fondo è un piatto molto complesso che però
al gusto conserva una incredibile armonia, grazie
alla dolcezza delle melanzane.
CoolClub.it
ogni martedì - musica
Jam sassion jazz al Willy Nilly di Squinzano (Le)
ogni mercoledì – musica
High fidelity al Caffé Letterario
Il nuovo appuntamento in musica del Caffé
Letterario di Lecce si chiama High Fidelity. Ogni
settimana un dj diverso si alternerà in consolle per
selezionare un personale percorso alla scoperta
di un genere musicale, un periodo, una etichetta
o un gruppo.
ogni sabato – musica
Open bar sino alle 00.30 al Willy Nilly di Squinzano
(Le)
I dj di Coolclub all’Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
sabato 10 - musica
Marco Parente alla Saletta della cultura di
Novoli (Le)
Neve Ridens è il nuovo “doppio” lavoro del
cantautore napoletano Marco Parente. Non un
album doppio e neppure una sequenza rigorosa,
ma due lavori assolutamente diversi per umore,
suoni e atmosfere (vedi intervista del numero di
ottobre). L’appuntamento rientra nella rassegna
Tele e Ragnatele. Inizio ore 21.30 – ingresso 7 euro.
Info 347 0414709 – [email protected].
Postman Ultrachic all’Istanbul Café di Squinzano
(Le)
Houria Aïchi. Canti sacri d’Algeria (Le voci
dell’anima. Occidente oriente) presso la Chiesa
del Salvatore a Bari
sabato 10 – teatro
Il figlio di Gertrude ai Cantieri Koreja di Lecce
La rassegna Strade Maestre prosegue con questo
spettacolo del Teatro Stabile di Calabria. Il figlio
di Gertrude è un progetto nato con Julia Varley,
attrice dell’Odin Teatret di Eugenio Barba dal
1976: un giovane dialoga da solo con le persone
Al Meeting delle etichette
indipendenti premiati i vincitori
di Click Note fotografiche e
Icc - Italian Cover Contest 2005
Il barese Francesco De Napoli,
con il suo lavoro con i Quarta
Parete, è il vincitore della
IV edizione del concorso di
immagini musicali Click Note
Fotografiche, organizzato dal
MEI - Meeting delle etichette
indipendenti 2005 e dallo Studio
Alikè in collaborazione con Next
Exit, Venus, Self Distribuzione
e Coolclub.it. De Napoli si
è distinto per l’originalità
dei lavori e per la cura e la
ricerca nell’attuazione delle
sue idee. Marco Calcinaro,
per l’importanza sociale delle
immagini (new orleans/house
of blues) e per l’originalità di
alcuni scatti, ha conquistato
invece il premio speciale
assegnato da Alikè. La prima
che hanno significato qualcosa nella sua vita.
Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7 euro).
Info 0832.242000 - www.teatrokoreja.com.
domenica 11 – musica
Rosolina mar ai Sotterranei di Copertino (Le)
lunedì 12 – musica
Stefano Bollani al teatro Politeama Greco di
Lecce
martedì 13 – musica
Stefano Bollani all’Orfeo di Taranto
IG al Teatro Politeama Greco di Lecce
Nato dall’incontro fra Gianni Maroccolo poliedrica
figura delle italiche avanguardie musicali (Litfiba
- Csi – Pgr) e Ivana Gatti, giovane cantautrice
bresciana, IG è uscito il 10 ottobre con Resta. IG
indossa i colori tenui della delicatezza: melodie
rarefatte ed ipnotiche, ballate fluide e quiete,
impreziosite talvolta da note impetuose ed affilate.
A metà strada tra il passato ed il futuro della
scena elettro-pop nostrana. Atmosfere intimiste,
di passioni inconfessabili, carnalità, sentimenti
oscuri. Con una voce che accarezza, delicata
e avvolgente. Sperimentando continuamente.
L’appuntamento, organizzato da Rebel Sound
e Arci, è al Teatro Politeama di Lecce. Inizio ore
21.30. Ingresso 10 euro.
Noa acustic band & solis string quartet presso la
Chiesa di San Paolo a Bari
La cantante israeliana Noa si presenta in una
veste che mette particolarmente in risalto le
sue grandi doti vocali e ne evidenzia bene la
vena nostalgica. L’appuntamento rientra nella
rassegna Le voci dell’anima. Occidente oriente
ideata da Antonio Princigalli ed organizzata da
Princigalli Produzioni con l’Assessorato alle Culture
e Religioni del Comune di Bari.
martedì 13 – cinema
Buffalo Soldiers al Santalucia di Lecce
mercoledì 14 - cinema
Private al Cinema Elio di Calimera (Le)
mercoledì 14 - musica
Ludovico Einaudi e Mercan Dede Chiesa di San
Marcello di Bari
mercoledì 14-giovedì 15 – teatro
Napoli milionaria al Teatro Politeama Greco di
edizione dell’ICC - Italian Cover
Contest 2005, il primo concorso
nato per premiare le migliori
copertine fotografiche di cd, è
andata invece alla copertina
del cd “Kill the ghost” dei The
Jans realizzata da Kris Reichert e
Anna Di Pierno (Tube Records).
Il Premio della Critica è andato
invece a Marco Bellotti per il suo
lavoro “Prodotto da mia madre”
(N3 Music) “per l’originalità,
la creatività e la cura nella
costruzione di un’immagine
che ironizza sul titolo del disco
e per aver dimostrato ottime
capacità artistiche anche in un
ambito lontano dalla musica
come la fotografia”. Ulteriori
info www.alike.it
A destra una delle foto di
Francesco De Napoli.
Lecce
da mercoledì 14 a domenica 18 – teatro
Antonio Albanese in Psicoparty al Teatro Piccini
di Bari
giovedì 15 dicembre - cinema
Quo vadis baby al Dbdessai di Lecce
Tickets all’Antoniano di Lecce
giovedì 15 - musica
Jazzin Rocking Project ( coverband di Rock
progressive ) all’Heineken Green Stage di Tricase
(Le)
venerdì 16 dicembre - teatro
A flower ai Cantieri Koreja di Lecce
La Compagnia Verdastro Della Monica presenta,
per la rassegna Strade Maestre, A flower,
concerto scenico di Francesca Della Monica e
Stefano Bozolo. Il concerto segue il fil rouge di
un repertorio di musica vocale e strumentale
scritta in grafie non convenzionali e per un uso
non canonico sia della voce che del pianoforte.
Ne risulta una dimensione musicale in cui gli
elementi del gesto e dello spazio prendono un
rilievo strutturale creando i presupposti formali
della azione teatrale. Sipario ore 20.45. Ingresso
10 euro (ridotto 7 euro). Info 0832.242000 - www.
teatrokoreja.com.
venerdì 16 - musica
Rough trade night all’Istanbul Café di Squinzano
(Le)
Una serata dedicata al rock d’oltremanica
con i dj della casa discografica Rough trade. In
consolle si alterneranno Ben Ayres, chitarrista dei
Cornershop, James Endicott, Richie e Dr Kiko. Il dj
set, organizzato da Coolclub, è all’Istanbul Café
di Squinzano. Ingresso 5 euro. Info www.cooclub.
it – 0832303707. Inizio ore 23.00.
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CoolClub.it
Coro del patriarcato russo di Mosca “Peresvet”
(Le voci dell’anima. Occidente oriente) presso la
Basilica di San Nicola di Bari
sabato 17 – musica
Rough trade night allo ZenzeroClub di Bari
domenica 18 - musica
Giovanni Lindo Ferretti e Gianluca Petrella (Le
voci dell’anima. Occidente oriente) presso la
Chiesa di San Sabino a Bari
lunedi 19 dicembre - musica
Giovanni Lindo Ferretti e Paolo Fresu presso la
Chiesa di San Sabino a Bari
Un ascolto in dimensione verticale: dalla terra al
cielo. Un ascolto interiore, voragine e vertigine, in
quello spazio indefinibile, se non per negazione,
che sta tra l’orecchio, il cuore e la mente, l’anima
e lo spirito. Responsorio d’Avvento è un progetto
di Giovanni Lindo Ferretti voce con Paolo Fresu,
tromba. L’appuntamento rientra nella rassegna
Le voci dell’anima. Occidente oriente.
martedì 20 – musica
Zeena Parkins e Ikue Mori (TimeZones) al Vallisa
di Bari
Djivan Gasparyan (Le voci dell’anima. Occidente
oriente) presso la Chiesa Mater Ecclesiae a Bari
mercoledì 21 - musica
Ensemble Palazzo Incantato presso la Chiesa del
SS Redentore di Bari
sino a mercoledì 21 dicembre – arte
Nulla da dipingere: nulla da scolpire di Pasquale
Pitardi nel foyer dei Cantieri Koreja di Lecce
giovedì 22 - musica
Cuore a nudo (vedi intervista a pag. 21)+ Robert
Passera ai Cantieri Koreja di Lecce
Rumorerosa + L’aura allo ZenzeroClub di Bari
Shank all’Heineken Green Stage di Tricase (Le)
venerdì 23 - musica
Coolclub Night al Candle di Lecce
Rumorerosa + L’aura al Planet di Lequile (Le)
Roy Paci & Aretuska al Lido San Giovanni di
Gallipoli (Le)
sabato 24 - musica
Insintesi all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
domenica 25 – musica
Postman Ultrachic all’Istanbul Café di Squinzano
(Le)
lunedì 26 - musica
Ballati al Candle di Lecce
Negramaro a Casarano (Le)
H-nito fun all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
mercoledì 28 – musica
Festa del Fuoco a Zollino (Le)
Linea 77 al Candle di Lecce
giovedì 29 - musica
Psycho Sun al Candle di Lecce
Super Reverb all’Heineken Green Stage di Tricase
(Le)
La band guidata da Jessy Maturo presenterà
i brani tratti dall’album Solo Rock’n’Roll (Info
www.super-reverb.it). I Super Reverb a marzo
suoneranno sul palco del prestigioso Cavern
Club di Liverpool, il locale dove hanno iniziato
a suonare i Beatles e attraverso il quale sono
passati tutti i nomi più importanti del panorama
musicale mondiale: Chuck Berry, Eric Clapton,
Queen, Rolling Stones, B.B. King, Brian Adams, The
Who... solo per citarne alcuni.
Sud Sound System - Ghetto eden al Lido San
Giovanni di Gallipoli
Dj War all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
venerdì 30 – musica
Uccio Aloisi, Pino Zimba & Zimbaria, Kumenéi,
Antonio Amato e Alessia Tondo al Planet di
Lequile (Le)
Ska Combat all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
37
gennaio
domenica 1 - musica
Mama Roots all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
lunedì 2 – musica
Giorgio Tuma all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
mercoledì 4 - musica
Kosmik all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
giovedì 5 – musica
A toys orchestra all’Istanbul Café di Squinzano
(le)
Muzak all’Heineken Green Stage di Tricase (Le)
venerdì 6 – teatro
Befana & Co. ai Cantieri Koreja di Lecce (dalle
16.30)
venerdì 6 – musica
Baustelle allo ZenzeroClub di Bari
Extrema al Canlde di Lecce
Applepie all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
sabato 7 - musica
Tob Lamare all’Istanbul Café di Squinzano (Le)
Lezioni di piano ai Cantieri Koreja di Lecce
Un concerto teatrale dedicato all’opera di Jane
Campion e Michael Nyman per la regia di Carlo
Bruni è il primo appuntamento dell’anno per la
Rassegna Strade Maestre dei Cantieri Koreja.
Questo lavoro nasce dal desiderio di condividere
la passione per un film e per la musica che lo
anima; di rievocare l’origine semplice, misteriosa
e travolgente di una passione amorosa. Un
posto lontano, un uomo, una donna muta a
lui promessa, un amante e l’emozione di un
improvviso, potentissimo vincolo a cui non si può
sfuggire. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto
7 euro). Info 0832.242000 - www.teatrokoreja.
com.
giovedì 12 - musica
Peppe O Blues (chitarrista napoletano tra i più
importanti del panorama del Blues italiano con
all’attivo innumerevoli collaborazioni da Buddy
Miles a Steve Ray Vaughan) all’Heineken Green
Stage di Tricase (Le)
venerdì 13/sabato 14 - teatro
L’ereditiera ai Cantieri Koreja di Lecce
Il Nuovo Teatro Nuovo (Teatro Stabile di
Innovazione di Napoli) presenta L’ereditiera
di Annibale Ruccello e Lello Guida per la regia
Arturo Cirillo.
giovedì 19 - musica
Cool Plecs ( coverband di classici del rockblues
al femminile ) all’Heineken Green Stage di
Tricase (Le)
sabato 21 - teatro
Il mio prometeo - quasi un’operina rock ai Cantieri
Koreja di Lecce
La Compagnia Piccolo Parallelo di Romanengo
presenta Il mio prometeo - quasi un’operina rock.
Di una probabile trilogia di Eschilo dedicata a
Prometeo, conosciamo solamente il Prometeo
incatenato. Quando si parla di Prometeo di
solito si pensa all’aquila che ne va a mangiare,
a seconda delle versioni, fegato o cuore. Con
il Prometeo incatenato, siamo ancora alla fase
precedente, quando Terrore, Dominio ed Efesto
vanno, per ordine di Zeus, ad inchiodare con
catene e ceppi di acciaio il traditore Prometeo
alle rocce di Scizia. Lo spettacolo lascia le belle
parole del testo e trasporta tutto negli anni 70.
L’esplosione delle bande
rock e delle rock star.
Quelle che facevano il
personaggio e quelle che
lo erano. Sipario ore 20.45.
Ingresso 10 euro (ridotto 7
euro). Info 0832.242000 www.teatrokoreja.com.
lunedì 23 - teatro
Daniele Luttazzi in Come
uccidere causando
inutili sofferenze al Teatro
Socrate di Castellana
Grotte
giovedì 26 - musica
Suoth Mamma
all’Heineken Green
Stage di Tricase (Le)
La redazione di
CoolClub.it non
è responsabile di
eventuali variazioni o
annullamenti.
Gli altri appuntamenti
News e corsi
Sold out con Carlo Chicco su www.coolclub.it
Sold out lo storico pro- Per segnalazioni:
gramma di Controradio [email protected]
(Bari 97.300 - Bari Sud
97.200) condotto da
Carlo Chicco compie 10 anni! L’appuntamento
è dal lunedì al venerdì dalle 18.30 alle 19.30 in collaborazione con la rinomata rivista Blow Up e con
dei partner d’eccezione.
L’Urlo di Galati
Ogni mercoledì, dalle 21 alle 22.30, su
PrimaVeraRadio (107.3 e 98.0 per Taranto, 95.1
per Lecce) va in onda l’Urlo – settimanale di
musica (+o-) indipendente italiana condotto da
Ilario Galati.
Arezzo Wave
Avete tempo sino al 15 dicembre per iscrivervi
ad Arezzo Wave. Per partecipare al bando di
concorso basta spedire il materiale a uno degli
oltre 200 punti di raccolta (antenne) in tutte le
regioni d’Italia elencati sul sito www.arezzowave.
com. Ogni regione avrà 1 o 2 band vincitrici (a
seconda della grandezza del territorio) che potrà
esibirsi durante la prossima edizione di Arezzo
Wave Love Festival che si terrà dall’11 al 16 Luglio
2006. Per info Coolclub 0832303707.
TeatriDiPosa e FuoriScena
La PrometeoVideo di Silene Mosticchio, in
collaborazione con il comune di Tricase,
continua la sua proposta di servizi sul territorio
con un progetto ambizioso di formazione
nell’ambito del Cinema e del Teatro: TeatriDiPosa
e FuoriScena. Anima del progetto di formazione
è il direttore artistico della Prometeo, l’attore e
regista salentino Ippolito Chiarello. I corsi avranno
inizio a gennaio e si concluderanno a giugno.
Agevolazioni e rilascio dichiarazioni per crediti
scolastici e universitari. Info Cell. 347.47.41.759 Tel. 0833.772209 [email protected].
Dj Kosmik conquista Face Off
Sino al 15 di gennaio è possibile votare il video
del dj salentino Kosmik, vincitore della tappa
di Bari del contest “Face off 2005”. In palio la
possibilità di andare al “hot summer jam festival”
di New York! Per sostenere Kosmik http://www.
timtribu.it/faceoff
CoolClub segnala una bella iniziativa degna di
essere citata, ovvero quella di un ragazzo (Edoardo
Pellegrino) che ha coinvolto la sua classe, I Liceo
Classico dell’Istituto Marcelline ed il III Liceo
Linguistico del medesimo istituto, nell’adozione
a distanza di un bambino tramite la Fondazione
Aiutare I Bambini. È raro che tali iniziative vengano
da singoli ragazzi piuttosto che da istituzioni.
CoolClub.it
38
La natura ambigua dei manga
di Roberto Cesano
Qualche giorno fa ho ascoltato in radio
un dibattito tra Sergio Bonelli, nome
storico del fumetto italiano, nonché
proprietario dell’omonima casa editrice,
e Luca Raffaelli, critico fumettistico e
fondatore della mostra-mercato Roma
Comics, all’interno del programma
Sumo. Questa trasmissione radiofonica
è strutturata in una discussione tra due
‘esperti’ con opinioni opposte su un
determinato tema; nel caso specifico il
tema era il seguente: “Tex Willer” contro
i manga??! Ovvero il rappresentante
più longevo del fumetto popolare
italiano contro un’indefinita “schiera” di
serie nipponiche. Già tale presupposto
non mi ha entusiasmato, ma ho avuto
l’opportunità di sentire anche di
peggio dai due contendenti, in termini
di luoghi comuni sui manga. E ciò che
m’appare gravissimo è che siano stati
degli addetti ai lavori a pronunciarsi,
evidenziando un’impreparazione totale
su questa fetta importante del mercato
fumettistico. I lettori di comics sono
consapevoli, infatti, che i manga oggi
trainano le tirature delle case editrici,
in un panorama alquanto desolato
a livello economico. Naturalmente il
fatto che un certo tipo di fumetti venda
non è una garanzia di qualità, tuttavia
esso dovrebbe spingere gli addetti ai
lavori a porsi delle domande invece
che rifiutarsi, come dichiarava Bonelli a
Sumo, di avere qualche curiosità su di
essi. In effetti dalle parole di Bonelli non
si evinceva alcun giudizio sui manga e
Sandman
sulle loro caratteristiche; al contrario
l’editore si dichiarava consapevole dei
dati di vendita e rispettoso nei confronti
dei prodotti del Sol Levante. Però sentir
paragonare Hayao Miyazaki a Disney
mi ha fatto comprendere quanto egli
fosse impreparato su quest’importante
realtà. Il nocciolo della questione è
questo: l’atteggiamento di Sergio
Bonelli è ancora molto diffuso in Italia
dove, ripeto, il seguito dei manga è
numerosissimo.
Sin dalla loro apparizione negli anni ’80
in Italia, preceduta dall’invasione degli
anime dei tardi anni ’70, i manga sono
stati accusati di essere visivamente
poveri e standardizzati; di presentare
tematiche e situazioni violente ed
efferate, oltre che di essere così radicati
nel proprio contesto socio-culturale
da risultare incomprensibili per un
occidentale. Dopo circa un decennio
il parco-testate giapponese delle
maggiori case editrici, come la Panini
e la Star Comics, si era enormemente
ampliato grazie al consenso dei lettori
italiani. Come mai? Il motivo del
successo delle testate nipponiche risiede
proprio nelle critiche ricevute: i manga
presentano una varietà di stili grafici
lontanissimi dalla tradizione statunitense
ed europea ed hanno una visione più
adulta del fumetto in quanto mezzo
espressivo. In Europa, tranne che in
Francia, e negli States questo medium è
stato liquidato per decenni come “roba
per ragazzi”; al contrario, in Giappone
i manga sono parte integrante del
background culturale dei suoi abitanti,
e sono realizzati per ogni tipo di target
generazionale e sociale. Sono, dunque,
dei
prodotti
narrativamente
più
adulti e sfaccettati rispetto ai comics
popolari occidentali, concepiti quasi
esclusivamente per un pubblico di
adolescenti; in molti manga la sessualità
non è nascosta né censurata, poiché
è una sfumatura dell’esistenza umana;
i personaggi sono tridimensionali e non
incanalati nel dualismo bene/male.
Immaginatevi un Peter Parker (L’Uomo
Ragno) adolescente che deve districarsi
da una tempesta ormonale per una
procace fanciulla e confrontarsi con
nemici che esulano dai cliché classici
sui malvagi. Bisogna ammettere che la
cultura orientale differisce nettamente
da quella occidentale, e il fumetto ne
è una naturale estensione. Tuttavia,
si può affermare senza remore che il
fumettomane si sente maggiormente
rispettato da opere nelle quali non è
trattato come un decerebrato con
un’imperitura sindrome di Peter Pan.
Potrei, adesso, parlare specificamente
del fondamentale contributo che
gli anime hanno dato al campo
dell’animazione mondiale, ma non lo
farò perché è argomento troppo esteso.
Comunque negli USA e nel resto del
mondo autori e case editrici se ne sono
resi conto da un pezzo, adeguandosi ai
gusti dei lettori. Il giovanissimo direttore
artistico della Marvel Comics, Joe
Quesada, ha creato una linea editoriale
nella quale autori come Nihei (Blame) e
Kia Asamiya (Dark Angel, Silent Möbius)
si sono cimentati con i personaggi storici
della Casa editrice americana. Il divo
Neil Gaiman (Sandman) ha celebrato
il decennale della propria serie dando
alle stampe un volume che si fregia
delle tavole pittoriche dello straordinario
Yoshitaka Amano. Auspichiamo che
accada la stessa cosa in Italia, senza
tralasciare i meriti che gente come Bonelli
e personaggi come “Tex” posseggono.
In fondo tradizione ed alterità possono
convivere con ottimi risultati.
Blame