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MEN'S STYLE
http://www.menstyle.it/cont/musica/musica/0806/0900/my-brightest-diamond.asp
Ritorna Shara Worden, in arte My Brightest Diamond, la cantante polistrumentista del Michigan. Le sue radici
affondano in un terreno jazz. La sua formazione è classica, ma mescola anche cabaret, pop, cantautorato e
opera.
Quest'artista eclettica, che dichiara d'ispirarsi a Tom Waits, Jeff Buckley, Peter Gabriel, Bjork e Radiohead,
nel suo ultimo lavoro, A Thousand Shark's Teeth, omaggia Maurice Ravel e cita Colette.
Un timbro da soprano per una voce modulata con estrema sapienza, arricchita da un tappeto d'archi e
arrangiamenti curati al millesimo.
VITAMINIC
http://www.vitaminic.it/category/dischi/page/2/
Quell’unica volta che ho visto Sufjan Stevens dal vivo, a Parigi, si accompagnava a Annie Clark, ovvero St.
Vincent. Mentre la ascoltavo, rapita, i miei pensieri andarono a Sara Worden, ovvero My Brightest Diamond.
Mi dispiacque per lei. Che, come Annie, aveva abbandonato “l’uomo degli esordi” per scrivere da sola, per
scrivere dischi all’ombra di nessuno. Lei che era nata con Sufjan, un po’ come Annie (che, però, aveva un
passato nei Polyphonic Spree), ma aveva meno talento.
Non ho mai creduto in My Brightest Diamond, dalla prima volta che l’ho sentita. Bring Me the Workhorse, il
suo debutto, era un bel disco, ma neppure la più bella delle sue canzoni ha retto per più di un mese. È ovvio
che non si è qui per quantificare la “tenuta”, ché sarebbe ridicolo, oggi. Non è neppure questione di
intensità, ché di essere intense, le canzoni di Sara sono intensissime, con quella voce di velluto che si fa
strada tra gli arrangiamenti e i serif immaginari delle parole che svolazzano tra le note. L’unica ragione per
cui è possibile che i suoi dischi non superino mai la soglia di un apprezzamento di maniera è che il
virtuosismo dei gorgheggi e i continui passaggi tra il pieno e il vuoto manchino di tensione. Tra loro. Non
verso qualcos’altro.
Non è che My Brightest Diamond non “tenda”: anzi. Vuol essere una P.J. Harvey (rigorosamente periodo To
Bring You My Love) più eclettica; gli sforzi sembrano orientati all’inserimento di una certa dose di avant in un
folk piuttosto semplice e, certo, di buona fattura. A Thousand Shark’s Teeth fa quel che faceva il disco
precedente sotto questo punto di vista (ma anche su altri): ogni canzone ricerca, ossessiva, la finitezza, il
baricentro tra l’anima di songwriter e quella di sperimentatrice. Si gioca con la gola, soprattutto, ma anche
con gli archi, con le marimba, le chitarre.
Ecco, allora, che si ritorna a Sufjan. A quando lo vidi con St. Vincent. Forse non è giusto insistere sul
paragone, ma la sensazione è che le due muse del più grande cantautore americano degli ultimi cinque anni
siano finite a fare la stessa musica, con esiti e percorsi differenti. L’una ce l’ha fatta. L’altra annaspa ancora,
anche in un secondo lavoro così composito e torbido, che ricorda le melodie di Angelo Badalamenti e non a
caso sfuma il nero in mille tonalità impossibili.
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ROCKSHOCK
http://www.rockshock.it/news.asp?id=3292
Shara Worden mette nell’inebriante A Thousand Shark’s Teeth il suo sapere musicale, fatto di mille piccole
sfumature, cura del particolare e gusto per l’accostamento timbrico. Un disco tutto da esplorare dove Shara
unisce passato e presente, lasciando spazio al piacere di emozionarsi.
A Thousand Shark’s Teeth è il progetto sviluppato nel corso degli ultimi anni dalla cantante e
multistrumentista americana Shara Worden che, dapprima insieme al quartetto d’archi Osso e poi con una
cerchia di musicisti d’estrazione rock, ha dato vita a questo splendido album sotto l’insegna My Brightest
Diamond.
Un disco che la Worden si ritaglia addosso come un abito da sera pronto per le occasioni speciali, e dove
riesce a mettere in evidenza sia le sue radici ben piantate nella cultura jazzistica (Bass Player) che la basilare
formazione classica (Goodbye Forever). Una narrazione a tratti appena accennata (If I were Queen) dove a
colpire è la sua voce sottile, sussurrata, che poi prende forma e guadagna in sostanza (To Pluto’s Moon) per
via di una duttilità che denuncia stoffa e consapevolezza dei propri mezzi. L’album dà indizi di profondità
espressiva nell’opener Inside a Boy e in From the Top of the World, e trova in To Pluto’s Moon la sua
ragione d’esistere grazie a una sovrapposizione di piani sonori emozionante, pensata in ogni nota, ma non
per questo priva di spontaneità. Gli archi a volte stridono, poi avanzano vellutati, creando sfondi ideali per la
vocalità di Shara: il tutto risuona tormentato, mutevole, teatrale.
A Thousand Shark’s Teeth non è un disco facile, è semplicemente fatto di musica sensibile, se vogliamo
complessa, ma mai noiosa. La Worden si dimostra artista capace di elevarsi sia nell’interpretazione che nella
composizione, un donna in grado di competere ad alti livelli, impegnata anche in altri progetti musicali: bella
e brava a tal punto che anni fa di lei si sarebbe detto “da sposare”. (8.5/10)
SENTIREASCOLTARE
http://www.sentireascoltare.com/CriticaMusicale/Monografie/MyBrightestDiamond.htm#tho
Con un curriculum già nutrito alle spalle (collaborazioni con Sufjan Stevens tra gli altri), Shara Worden alias
My Brightest Diamond arriva al secondo album dopo l’esordio del 2006 (Bring Me The Workhorse). Qualcosa
è cambiato, se la polistrumentista americana ha sentito il bisogno di tornare alle sue origini, contaminando in
chiave decisamente orchestrale il pop rock con cui l’avevamo conosciuta sino ad ora.
A Thousand Shark's Teeth è in realtà un progetto coevo al primo disco; l’idea originaria era infatti quella di
realizzare un intero album con un quartetto d’archi, idea che si è via via trasformata negli anni,
mantenendone la base e arricchendosi poi dal punto di vista sonoro, in un chamber pop stratificato con
occasionali inflessioni rock, arrangiato dalla stessa artista.
L’opener Inside A Boy è una ballad sostenuta che celebra l’incontro tra archi e chitarre ed è uno dei pochi
brani che può riportare al passato; per il resto si assiste ad omaggi agli studi operistici della Nostra (la
citazione in chiave chamber di un’opera sull’infanzia di Maurice Ravel in Black And Costaud, pezzo che
assume via via un mood sempre più drammatico e oscuro, a metà strada tra Carla Bozulich e Scott Walker);
poi dialoghi tra gli archi nella maggior parte dei brani, sostenuti dalla profonda e dinamica voce di soprano di
Shara, a suo agio in ballad e pezzi più movimentati, come nel crescendo metallico e atmosferico di The Ice &
The Storm, nelle circonvoluzioni vocali e sonore di To Pluto’s Moon, ballata classica tra Nina Simone e Bjork,
quest’ultima evocata in più di un’occasione. E ancora contaminazioni sonore alla Peter Gabriel, echi di Tom
Waits dalle parti di Alice, inflessioni Jeff Buckley per l’intensità del canto, fascinazioni sonore Cocteau Twins.
Ma in fondo in questo sophomore album la Worden si dimostra piuttosto sicura dei propri mezzi, finendo col
non assomigliare a nessuna delle sue fonti ispirative, consce e inconsce. C’è un’impronta fortemente
personale in questo un disco in cui My Brightest Diamond assomiglia deliziosamente solo a se stessa.
Bentornata dunque. (7.5/10)
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KDCOBAIN
http://www.kdcobain.it/pagine/recensioni/mybrightestdiamondathousand.htm
Recentemente notavo un piacevole affollamento di cantautrici femminili nel panorama internazionale più o
meno underground. Dopo il successo ottenuto dall'ultimo album di Joan As Police Woman anche My
Brightest Diamond (alias Shara Worden) torna ad ammaliarci con la sua straordinaria potenza emotiva. Lo
stile di questa artista è sempre stato in bilico tra realtà e sogno e questa volta ci ha messo ancora più
impegno a catturarci nella sua tela, riuscendoci perfettamente. Già dalle prime note di "Inside a boy" il
viaggio dimensionale di Shara prende inizio catapultandoci nelle sue visioni.
L'esperienza sui palchi assieme a Sufjian Stevens ha lasciato una grande impronta nello stile di My Brightest
Diamond, tanto da sembrare talvolta il suo alterego femminile, ma nell'approccio cantautorale della Worden
c'è anche molto Jeff Buckley e lo si può sentire in brani come "Something of an end" o "To Pluto's moon". "A
thousand shark's teeth" è un disco che si lascia scoprire piano piano ma una volta travolti dalla sua potenza
sarà difficile venirne fuori.
STORIA DELLA MUSICA
http://www.storiadellamusica.it/My_Brightest_Diamond__A_Thousand_Shark%27s_Teeth_(Asthmatic_Kitty__,_2008).p0-r1588
Diciamo la verità, la si aspettava un po’ tutti con i bastoni in mano, questa povera ragazza. Figlia di musicisti
giramondo, diplomata in canto classico alla Texas Woman's University, un disco autoprodotto a Mosca,
collaborazioni con la compositrice Australiana Padma Newsome, tour in giro per il mondo accanto, tra gli
altri, a The Decemberists e capo-cheerleader negli “Illinoisemakers” di Sufjan Stevens. Un curriculum che, se
non proprio antipatia, suscita quantomeno invidiosa ammirazione.
Come se non bastasse, avevamo scoperto che il primo disco solista di Shara Worden (“Bring Me The
Workhorse” – 2006), creato praticamente nei ritagli di tempo concessi dalla lenta gestazione di “A Thousand
Shark’s teeth”, era un buon album rock, a metà strada tra i Portishead e la P. J. Harvey di qualche anno fa.
“A Thousand Shark’s teeth” parte dalle intuizioni di “Bring Me the Workhorse”, ma la direzione è
completamente diversa. L’impressione è che il vero disco d’esordio sia questo, che sia questo il luogo dove
confluiscono tutte le esperienze della trentaquattrenne di New York. Anche la ricchezza della strumentazione
(fiati e soprattutto archi come se piovesse, oltre a chitarre, basso, batteria, marimba, xilofono, arpa ..) ed il
dispiego di mezzi (più di quaranta le persone impegnate, tra musicisti, produttori e ingegneri del suono)
rivelano l’importanza data a quest’opera dall’ autrice stessa.
“Inside a boy” è una bella apertura, resa potente da una voce che impareremo ad amare.
Anche troppo potente se, con un po’ di sforzo, il cantato finale può far venire in mente sonorità classicmetal. Molto meglio “Ice & the storm”, cassa in quattro, pulsazioni ritmiche e aperture voce/archi da brivido.
Si fanno apprezzare anche gli approcci elettro-isolazionisti di “Like a sieve” e soprattutto di “Apples”, nei
quali Shara dimostra di aver assimilato bene la lezione di Bjork. Un po’ vezzosa quando gioca a fare Edith
Piaf (“If I were queen”), la polistrumentista americana si rivela nobile quando si tuffa nel dramma teatrale:
“Black & Costaud”, forse il pezzo migliore del disco, sembra nato dalla penna di Anthony & The Johnsons per
la voce di Diamanda Galas. Verso la fine dell’album torna lo spettro dei Portishead (“To pluto’s moon”, “Bass
Player”), ma è la sensazione bianco ghiaccio dell’intera opera che spinge l’ascoltatore a non distogliere
l’attenzione, a cercare di cogliere i dettagli (l’intro delizioso di “Goodbye forever”, il crescendo sospeso di
”The diamond”) di una prova di forza la cui vittoria ci viene gridata in faccia da una delle voci più affascinanti
di tutto il panorama musicale odierno.
Forza, mettiamo via i bastoni. Ci vuole ben altro per scalfire un diamante così puro. (4/5)
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ONDAROCK
http://www.ondarock.it/recensioni/2008_mybrightestdiamond.htm
Coi capelli corvini raccolti in crocchie e creste o distesi su onde e trecce, seduta sui pioli d’una scala a libro,
le gambe composte e incrociate come quelle d’una scolaretta sotto il banco, con la veste nera e i coturni che
spiccano sullo sfondo come le impronte d’un ragno su un tappeto di cenere color seppia: Shara Worden se
ne sta immobile, in copertina, col mantice disteso e la prima nota impressa, congelata, sulle labbra
socchiuse, come la ruota di bicicletta di Duchamp, arrovesciata sul suo sgabello bianco. Lei che a una vita di
frontiera, sempre in bilico, spersa fra il nulla e l’addio, ormai dovrebbe essersi abituata: una famiglia di
musicisti girovaghi che era solita migrare, periodicamente, dopo una manciata di primavere, da una parte
all’altra degli Stati Uniti, l’Università del Texas e poi New York City, con la sua prima band, gli Awry, in
Australia con Padma Newsome o sui Grandi Laghi con Sufjan Stevens.
Lei che c’aveva già stupiti con effetti speciali nel barocchismo fiabesco e crepuscolare del suo debutto, “Bring
Me To The Workhorse” (2006): fiori d’arancio per l’ indie-rock di scuola femminile, le gemme operistiche da
musical di Jerome Kern, gli arrangiamenti d’archi alla Henry Mancini e i Portishead sperduti in un bosco di
fate. Che poi aveva allungato il miracoloso, acerbo equilibrio di quelle sedici canzoni nel brodo trip-hop del
remix “Tear It Down” (2007). Che per tutto il 2007 e buona parte del 2008 ha spartito i palchi del mondo
libero con gente come i Decemberists, i National, St. Vincent e Devotchka, oltre che con l’ “Illinoiser”, suo ex
mentore.
Si rifà viva ai primi di giugno e come una rondine fa il nido nel nuovo “A Thousand Shark’s Teeth”, il
sophomore, il secondo album che “è sempre il più difficile nella carriera d’un artista”, quello su cui il
chiacchiericcio dei cenacoli indie t’aspetta subdolamente al varco.
Inizialmente concepito come un opera neo-classica per il suo quartetto d’archi (Rob Moose, Oliver Manchon,
Marla Hansen, Maria Jeffers), il progetto è in realtà vecchio di almeno sei anni, durante i quali ha
attraversato infinite revisioni, stadi di gestazione ed influenze endemiche, fino a giungere alla forma attuale.
Nonostante il lavorio ininterrotto, sufficientemente omogenea: meno ritmica, meno rock, più orchestrale,
soffusa, sognante rispetto alla tumultuosa miscellanea dell’esordio.
Da “Il Mago di Oz” ad “Alice Nel Paese Delle Meraviglie”, stesse atmosfere ombrose, algide, ambivalenti, in
entrambi i casi, asessuate.
La prima “Inside A Boy”, sorta di trait d’union con il disco precedente, può trarre in inganno: battito postpunk ansioso, mestruale, sincopato, con il basso in evidenza e la chitarra gracchiante su cui s’adagiano archi
e voce, con volute da romanza in cui acuti pazzeschi s’alternano a frasi smozzicate. “The Ice & The Storm” e
“From The Top Of The World”, introducono partiture downtempo gracili e calibratissime: la prima, con
l’andamento affannoso e i melismi della strofa che culminano nello straordinario allungo del ritornello, dove
Shara sembra voler abbracciare con l’ugola l’intero occhio del ciclone sinfonico che la contorna; la seconda:
una melodia pop più dolce e spaesata, sferzata dal contrabbasso e dall’archetto, una fanciulla scarmigliata
ed infreddolita che garrisce, dalla sua ascesa tempestosa, nell’eco d’una valle innevata. “If I Were Queen”,
sospesa fra contrappunti trip-hop (cassa, drum machine e contrabbasso), atmosfere da cafè chantant (la
voce di Shara) e arie da parlour ballad Vittoriana (pianoforte e archi). “Apples”, upbeat a tempo di samba cui
si sovrappone, più acuta che mai, la solita romanza, refrattaria e appartata come in un collage avant-pop.
“Black & Costaud” è un piccolo gioiello di sincretismo fra bistrot boulevardien e cabaret weimariano, fra Edith
Piaf e Lotte Lenya, una Diamanda sedata e (quasi) convertita al bel canto.
“To Pluto’s Moon”, altro capolavoro personale, mescola un arpeggio celtico all’orchestrazione molle, viscosa,
noir del metro “portishediano”, con una splendida melodia d’archi e un ritornello che mette i brividi. “Bass
Player” coniuga, sul tempo di jazz pulsato dal basso, escrescenze “Weilliane”(clarinetto e vibrafono) e
melodie tzigane (archi e ottoni). “Goodbye Forever”, un atto unico espressionista che raggela, sulla ritmica
slegata e appena percettibile, la sua lugubre melodia; “Like A Sieve”, sinfonia “concreta” (ritmica synth,
scalfiture di larsen e bordoni in sottofondo) che contrappunta una piéce alla Judy Garland; “The Brightest
Diamond”, mescola latebre dark-wave a un accompagnamento cameristico degno di un noir di Sjodmak.
Shara, distaccandosi dalle sue “nuove” ascendenze indie per abbracciare i “vecchi” studi di musica classica,
gioca a nascondersi e non rende mai le cose troppo facili all’ascoltatore, al quale richiede pazienza,
imparzialità e una certa capacità di abbandonarsi all’ebbrezza di “audiovisioni” avvizzite, strusciate, curve,
impaurite. Ma è laddove l’ombra è più nera che il sole batte più forte.
E il diamante vi risplende come pochi. (7/10)
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PAG. 31
KALPORZ
http://www.kalporz.com/recensioni/thousand-shark-s-teeth-my-brightest-diamond.htm
Continuo ad ascoltare questi mille denti di squalo, e l’unica espressione che insiste a bussarmi mente è
drama queen. Shara Worden è sì regina del melodramma, ma non come se fosse una diva capace di
incantare teatri affollati: assomiglia piuttosto a una donna con una voce appassionata eppure distante, che
canta rannicchiata in un angolo della scena, davanti a una platea vuota.
Le sue canzoni, colme di archi e di voci fluttuanti, non si lasciano mai catturare davvero: sanno abbagliarti,
nel preciso istante in cui le ascolti, per poi sparire, e aspettarti di nuovo nascoste nel buio.
Nate assieme alle canzoni del bellissimo “Bring me the workhorse”, quelle di “A thousand shark’s teeth”
rappresentano il lato più classicheggiante del talento di My Brightest Diamond. Il rock ossuto delle prime,
qui, rimane solo nella splendida “Inside a boy” d’apertura: apertura di fiaba, un basso indomabile, elettricità
sospesa fino al grido finale, liberatorio, potente. Una meraviglia, che trascolora subito nei terreni più eterei
nella foresta di suoni brillanti di “The ice & the storm”, per poi farsi avvolgere definitivamente dagli archi.
Ed è a quel punto che tutto diventa volutamente schivo, difficile, poco aperto: affascinante, certo, ma
inavvicinabile. Anche nei momenti dove una chitarra torna a farsi sentire – nel soul oscuro di “From the top
of the world”, o nell’ossessività stritolante e impalpabile di “To Pluto’s moon” – l’orchestrazione sembra
soffocare tutto.
Non riesci ad avvicinarlo, questo disco. E si rimane lì, a sentirsi quasi in colpa perché non si sa apprezzare
fino in fondo un album che sa far convivere Maurice Ravél (il testo di “Black & Costaud”) con i sample oscuri
di Tricky, ardite architetture d’archi con una voce che sembra letteralmente volare.
“A thousand shark’s teeth” ha la bellezza di un’opera d’arte in un museo. Ti può commuovere fino alle
lacrime, ma ti lascia frustrato: non riuscirai mai a toccarla, a farla davvero tua, tutta quella bellezza.
ALLABOUTJAZZ
http://italia.allaboutjazz.com/php/article.php?id=2888
Alla prova del suo nuovo lavoro, dopo l'ottima accoglienza del disco di debutto, Bring Me the Workhorse, la
cantautrice My Brightest Diamond [al secolo Shara Worden] si conferma musicista sensibile e non banale,
sebbene il filone nel quale si inserisce, quello di un cantautorato avant dai tratti obliqui, sia piuttosto intasato
di proposte, in particolare nel settore femminile.
A Thousand Shark’s Teeth è infatti un disco particolarmente curato nelle tante forme sonore che attraversa,
nato attorno a un quartetto d'archi e sviluppato poi con l'apporto di molti musicisti e strumenti, dalle
percussioni all'arpa, dall'elettronica al coro. Ci vuole una manciata di ascolti per entrare in sintonia con i tanti
dettagli delle canzoni, dall'iniziale “Inside a Boy” alle aperture sognanti di “From the Top of the World”, per
familiarizzare con la linea narrativa della Worden, che si muove nella più lirica quotidianità.
Non tutto è originalissimo e non tutto imperdibile [nella seconda parte certe cose sono tirate un po' per le
lunghe e certi bjorkeggiamenti già sentiti], ma non si può negare al lavoro una complessiva evocatività che
trova nelle diverse soluzioni sonore il veicolo espressivo più idoneo. Fascinosamente complesso. (3/5)
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INDIE-EYE INTERVIEW
http://www.indie-eye.it/recensore/2008/08/intervista-a-my-brightest-diamond/
Il giorno dopo la sua applauditissima apparizione solista sul palco di Frequenze Disturbate a Urbino abbiamo
partecipato alla breve conferenza stampa che Shara Worden ha tenuto prima di lasciare l’Italia per delle date
in Nord America. Abbiamo avuto modo di apprezzare la sua simpatia e disponibilità, nell’attesa di rivederla in
concerto a Milano il 29 settembre, stavolta accompagnata da un quartetto d’archi. [Foto di Francesca
Pontiggia; per il foto set completo del concerto di My brightest Diamond del 9 agosto 2008 al Frequenze
Disturbate di Urbino, è necessario cliccare qui!! ]
Possiamo definire il tuo concerto di ieri una “performance vocale”?
Penso di sì. Ho iniziato tanti anni fa e ho speso davvero molto tempo nell’elaborare gli arrangiamenti
vedendoli come un mezzo importante per il songwriting, mentre in una performance da sola questi vengono
sostituiti dalla voce, che assume molta più importanza.
Quando hai scoperto la tua voce?
Fin da bambina; i miei genitori e i miei nonni erano musicisti, quindi ho iniziato a cantare e interessarmi di
musica fin da una giovanissima età.
Pensi che la musica possa essere un mezzo per agire sulle coscienze, riguardo a argomenti correlabili alla
politica?
Sicuramente penso che la musica possa aumentare la nostra consapevolezza in molti modi; ci sono molti
esempi, a partire da Bob Dylan che ha usato la sua arte per trasmettere messaggi, fino a Thom Yorke, che
nei suoi dischi esprime la sua preoccupazione per l’ambiente investigando sulla nostra relazione con la
natura.
Parliamo degli Stati Uniti. Sta accadendo qualcosa di interessante lì?
Sono molto eccitata da quello che sta succedendo a New York. Ci sono molti artisti, per esempio Annie Clark
con cui ho duettato ieri, Joan As Police Woman che ho visto venerdì in Germania o Antony & The Johnsons,
che conosco, che formano una scena musicale davvero molto interessante.
Che tipo di attenzione dai alla scena musicale europea? Pensi che la scena americana sia lontana rispetto ad
essa?
No, non lo penso. Per esempio la mia nuova band preferita sono i tedeschi Einsturzende Neubauten, non
riesco a smettere di ascoltare i loro dischi. Inoltre sono molto influenzata da musicisti britannici, da Peter
Gabriel ai Radiohead. Anche se alcuni dicono che sono sopravvalutati io li adoro. D’altronde se mi piace
qualcosa o qualcuno mi ci dedico completamente. Penso che dobbiamo portare gente verso la nostra scena,
perché voglio avere una lunga vita come musicista. Per anni non abbiamo capito cosa stesse accadendo nel
rock’n’roll, si puntava all’essere cool e sexy, ma credo che si debba cercare molto di più, e infatti amo gruppi
che nella musica cercano qualcosa in più.
Altre band europee che ti piacciono?
Amo PJ Harvey; un’altra band che adoro sono i The Knife, e naturalmente i Portishead.
Con quali artisti ti piacerebbe collaborare?
Nei miei sogni ci sarebbe Morten Harket degli A-ha, ho avuto una cotta per lui per molto tempo.
In un mondo ideale, a chi vorresti suonare di supporto?
Tom Waits
E chi vorresti avere di supporto?
Nel tour che farò questo autunno ci sarà Clare and The Reasons, una mia cara amica di Brooklyn. Lei suona
con accompagnamento di archi, come me, così faremo delle serate insieme. >>> SEGUE
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>>> SEGUE
Quali sono i 3 dischi più importanti della tua vita?
Oggi direi Nina Simone “Live In Concert”, “Grace” di Jeff Buckley e “Purple Rain” di Prince.
Qual è il motivo della crisi della musica? Il file sharing o gli errori delle case discografiche?
Io sono un artista indipendente perché voglio avere libertà di sperimentare; comunque gran parte delle band
che adoro sono su major e in qualche modo sono riuscite a trovare una via per fare quello che vogliono fare
senza imposizioni, quindi non credo che le major facciano poi così tanto male alla creatività. Per quanto
riguarda il file-sharing penso che sia meraviglioso perché ti porta a scoprire musica di ogni genere, ma come
artista tutto quello che ho è il mio lavoro, quindi oltre un certo limite diventa sicuramente dannoso.
Hai dei progetti futuri?
Ho appena finito di registrare un brano per una compilation di tributo ai Soft Cell, una cover di “Tainted
Love”.
Come è stato il concerto di ieri sera qui a Urbino?
Ieri è stato molto emozionante, specialmente quando ho suonato con Annie Clark, una grande amica e
un’ottima musicista; in generale suonare in una location del genere è stato bellissimo, alzavo lo sguardo e
restavo a bocca aperta per la bellezza del luogo.
Qualcosa riguardo ai tuoi 2 dischi: la composizione dei brani ha avuto luogo più o meno nello stesso periodo,
ma ci sono differenze sia negli arrangiamenti, sia nei testi. A cosa sono dovute queste differenze?
Le canzoni di “A Thousand Shark’s Teeth” sono state scritte lungo un periodo di 6 anni e ho lavorato sugli
arrangiamenti praticamente dal 2004 fino all’autunno dello scorso anno. La mia intenzione finale era di
sperimentare nel songwriting, inserendo elementi della chanson francese, oppure da compositori classici
come Debussy e Ravel.
Perché hai scelto Berlino per una parte della registrazione del disco?
Semplicemente perché il mio batterista viveva lì. Ho amato molto la città, ho trovato davvero un clima
interessante, vivace.
Hai in programma un album di remix anche per “A Thousand Shark’s Teeth”? Come sarà?
Sì, è in programma. 3 diversi artisti remixeranno alcune canzoni, sarà una bella compilation.
Su una compilation della Stereogum dedicata ai Radiohead è apparsa la tua cover di “Lucky”? Perché la
scelta è caduta su quella canzone e come è stato registrarla?
Ovviamente amo “Ok Computer”. Ho accettato subito appena mi è giunta la proposta; poi è stato molto
difficile registrare un brano che era già stato reso in maniera perfetta nella versione originale.
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