Musicoterapie in ascolto Archivio 2010 articoli

Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
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Musicoterapie
in ascolto
Archivio 2010
A cura di Giangiuseppe Bonardi
articoli
http://www.musicoterapieinascolto.com/archivio/85-archivio/86-2010-archivio-mia
Gli articoli sono archiviati mensilmente, dal più recente al
più datato
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Indice
4 Converso Astrid, Giorgia ed io: emozioni e sentimenti… vissuti sulla propria
pelle
9 Delogu Chiara, Silenzio
13 Bonardi Giangiuseppe, (a cura di), "Aforismi"... schneideriani!
14 Cavallini Daria, Epilogo dell’esperienza musicoterapica con gli adolescenti
16 Bonardi Giangiuseppe, Il tempo, lo spazio e... la musica
17 Esse Hermann, La via verso l'interiorità
18 Cavallini Daria, Diario di un'esperienza di musicoterapia di gruppo con gli
adolescenti
27 Converso Astrid, Dialoghi ‘silenziosi’ in musicoterapia tra me ed Anna
32 Postacchini Pier Luigi, Spaccazocchi Maurizio, MUSICOTERAPIA: Scientifica
o Umana?
39 Delogu Chiara, Michele predilige la zeta
44 Converso Astrid, Emozioni vissute e condivise nel tempo dell’incontro con
Marcello
49 Converso Astrid, Relazioni sonoro-musicali con Matteo ed Emma in…
musicoterapia
58 Bonardi Giangiuseppe, L’umano e lo scientifico in musicoterapia forse…
possono coabitare in un perfetto equilibrio dinamico
62 Delogu Chiara, Puzze ed emozioni
65 Musica più classe 3
66 Musica più classe 5
66 Musica più classe 4
67 Neri Simona, Ascoltando la musica ‘dolce e amara’ delle mie tonalità emotive
71 Delogu Chiara, Puzza, pazzo, pizza, t’ammazzo, ovvero le parole dell’amore.
73 Converso Astrid, Considerazioni conclusive dell’esperienza musicoterapica con
Giorgia, Marcello, Anna, Emma, Matteo.
76 Bonardi Giangiuseppe, Simboli, musica, terapia...
77 Bonomi Carla, Io, Costantina e la realtà psichiatrica
78 Greco Marina, L’ascolto agli albori del pensiero occidentale
82 Andrello Roberta, Uomo, musica e terapia.
90 Bonomi Carla, Io e Costantina: diario di un’esperienza musicoterapica in ambito
psichiatrico.
92 Bonardi Giangiuseppe, Io sono come ascolto.
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94 Delogu Chiara, La bellezza nascosta: epilogo dell’esperienza musicoterapica con
Michele.
101 Andrello Roberta, Mentre osservo Luca, imparo ad ascoltare me stessa
104 Bonomi Carla, Come è difficile poter osservare il “mondo sonoro” di Costantina
107 Greco Marina, Dall’oblio dell’ascolto alla sua riscoperta
112 Andrello Roberta, Dalla teoria alla prassi: l’intervento musicoterapico con Luca
116 Greco Marina, Il valore dell’ascolto e del silenzio nella società attuale
119 Bonardi Giangiuseppe, Breve lessico dei concetti emotivi
121 Greco Marina, In ascolto... del silenzio
123 Bonardi Giangiuseppe, In ascolto della mia identità...
126 Bonardi Giangiuseppe (a cura di), Maria Clotilde Sieni e le Sonate di Galuppi per
clavicembalo
127 Andrello Roberta, L’osservazione musicoterapica di... Luca
131 Bonomi Carla, Intonare... emozioni
134 Andrello Roberta, Alla ricerca degli “elementi” appartenenti alla dimensione
sonoro musicale di Luca
137 Bonomi Carla, Dal silenzio al risveglio acustico di Costantina
139 Bonardi Giangiuseppe, Dimmi che prassi musico ... terapica fai, ti dirò chi sei...
professionalmente
141 Giangiuseppe (a cura di), La parola, l’opera del M° Boris Porena
143 Le dimensioni sollecitate dall'ascolto: seminario
144 Bonardi Giangiuseppe (a cura di), Il suono, il grido, il lamento... nel pensiero
schnederiano
145 Andrello Roberta, Dall’osservazione di Luca al progetto d’intervento
musicoterapico
147 Bonomi Carla, “L’incantesimo della chitarra”
149 Bonardi Giangiuseppe, In ascolto della dimensione acustica delle... emozioni
150 Andrello Roberta, La lotta dei fantasmi di Luca
153 Greco Marina, La relazionalità come essenza dell’ascolto
158 Andrello Roberta, I dolorosi vissuti di Luca
163 Bonomi Carla, Io e Costantina: l’epilogo dell’esperienza... musicoterapica
164 Bonardi Giangiuseppe, Alla ricerca della dimensione sonoro-musicale della
persona
166 Andrello Roberta, “Io sono una casa senza pareti”
169 Neri Simona, Dalla musicoterapia al ciclone Ali Blu: storia di un strana
avventura
173 Deodato Rosaria, Io, Walter e il mondo dell’autismo
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Gennaio
Converso Astrid, Giorgia ed io: emozioni e sentimenti… vissuti sulla propria pelle
Pubblicato il 30 gennaio 2010 da
http://musicoterapie.over-blog.com/
Con “i miei ragazzi”, per tutto il periodo
del trattamento musicoterapico, ho
vissuto stati emotivi molto intensi che
non si fermavano al singolo momento
della
terapia,
ma
che
mi
accompagnavano durante tutto l’arco
della giornata, a volte, fino alla seduta settimanale successiva.
Sembra paradossale, ma grazie a loro ho imparato molto e mi hanno
insegnato qualcosa di prezioso: ascoltarmi, ascoltare, percepire gli stati
emotivi dell’altro, ma nello stesso tempo a capire anche i miei stati emozionali
con l’altro.
Teoricamente conoscevo il significato della parola “emozione” e del vocabolo
“sentimento”.
Ciò che non sapevo era quanto sia difficile ascoltare, ossia accogliere le
proprie emozioni e i propri sentimenti.
È grazie a Giorgia[1] che ho avuto l’occasione di vivere e riflettere, in modo
approfondito, in merito a questo tema.
Giorgia
Giorgia è una donna di quarant’anni.
Piccola di statura, robusta, occhi nerissimi dallo sguardo molto intenso e
movimenti corporei ripetitivi, stereotipati, precisi, perfetti come se fosse
un’esperta contorsionista.
Primogenita di una famiglia di origini umili, il padre è deceduto e la madre (a
detta della psicologa del centro) vive un intenso conflitto, un attaccamento
simbiotico: si lascia manipolare, la circonda di attenzioni per poi
disinteressarsi completamente della vita “comunitaria” della figlia, si rende
disponibile ai colloqui con la psicologa, ma poi non si presenta.
La cartella clinica riporta: “Trisomia 21, con medio ritardo cognitivo, non
parla (se non è arrabbiata),psicosi simbiotica autistica.”
Fin dalle prime sedute capisco che con Giorgia non sarebbe stato un incontro
facile, per portarla nel contesto musicoterapico dovevo escogitare sempre
qualcosa.
Non mi porgeva la mano, girava la testa dalla parte opposta alla mia e non si
faceva toccare.
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Con l’incitamento da parte degli educatori e la mia insistenza nel chiamarla e
nel spiegarle che doveva venire con me, alla fine Giorgia si alzava dalla sedia e
mi seguiva
sempre con sguardo sfuggente con la testa piegata da un lato.
Solamente, dopo un lungo periodo durato sei mesi, sentito da me come
interminabile, Giorgia mi permise di toccarla, di darle la mano e di salire nell’
”habitat” musicoterapico senza indugi.
Per tutto il primo ciclo di sedute (ventiquattro incontri a cadenza settimanale)
ero oppressa dall’idea di dover fare subito qualcosa per lei, dovevo in qualche
modo aiutarla e sentivo che dovevo farlo subito.
Lei invece rimaneva imperturbabile, in quel suo continuo dondolamento
stereotipato, mi guardava come se fossi io la persona bisognosa di cure.
Ho suonato, cantato, dondolato con lei, parlato, scelto e profuso musiche di
ogni sorta ma, proseguendo gli incontri, più mi accorgevo che ero io a voler
riempire i silenzi, a colmare il vuoto, a voler in qualche modo smuovere la sua
“stasi”.
Lei, al contrario, continuava a rimanere zitta, all’apparenza imperturbabile,
sapeva solo fissarmi e dondolarsi, contorcendosi ogni tanto sulla sedia,
assumendo, con le gambe, posizioni impossibili, non interrompendo mai, il
suo ossessivo ricorso alla toilette.
Tutto questo si protrasse nel tempo, per più di dieci mesi.
Non sapevo cosa stavo facendo e dove stavo andando.
Dopo le vacanze natalizie ripresi il secondo ciclo di trattamento formato
anch’esso da ventiquattro sedute.
Con il ritorno dalla pausa natalizia trovai Giorgia diversa.
Nell’ambiente musicoterapico saliva spontaneamente, e per la prima volta, da
quando avevo iniziato a lavorare nella struttura, Giorgia parlò.
Per tutta la seduta parlò sottovoce, raccontando fatti presumibilmente
inventati, riportando frasi e ridendo.
Com’era possibile che Giorgia, la quale non aveva mai pronunciato parole se
non per proferire bestemmie, parlasse con me?
Ero in panico più di prima.
Cos’era stato l’elemento scatenante?
E perché solo per una seduta?
Non potevo lasciare che fosse un caso isolato dovevo subito agire in modo che
ci fosse un prosieguo.
Decisi di smettere tutto quello che stavo facendo, come strategia d’intervento,
e stabilii una nuova linea d’azione.
Era rischioso, ma decisi di tentare, mi limitai a copiarla a specchio,
concentrandomi sui suoni ambientali e su quelli da lei prodotti, eliminando
l’ascolto di brani musicali.
L’attività era spossante.
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Giorgia non comunicava e continuava il suo maniacale dondolamento
corporeo, inoltre come meccanismo difensivo continuava ad usare il pretesto
della toilette, anche se non rifiutava mai l’ambiente musicoterapico.
Mi sentivo inadeguata per il mio compito, alla fine delle sedute oltre ad avere
dolore fisico mi sentivo debilitata nel mio profondo, ma dovevo in qualche
modo continuare non potevo e non volevo “gettare la spugna”.
Mi ritrovavo a non parlare più, riproducevo tutto quello che faceva lei senza,
apparentemente, ottenere un qualche minino risultato.
Finché un giorno Giorgia decise di parlare, di ridere e di guardarmi mentre
emetteva, delicatamente alcune parole:
“… DORMIRE, DORMIRE, DORMIRE”.
“… PARLARE, PARLARE, PARLARE”.
“MANGIARE, MANGIARE, MANGIARE”.
Quelle parole erano l’eccezionale comunicazione, il portato del suo mondo
interiore.
Risuonavano nella mia mente come fossero tante terzine.
Le cadenze che usava, in modo bisbigliato, mi ricordavano un maestro
d’orchestra che dirige, in silenzio, il passare del tempo delle sue azioni
quotidiane.
Mi stava ripetendo
parole
ascoltate
chissà dove o erano
uno
spiraglio
di
comunicazione?
Le emozioni che ho
provato sono state
molteplici
e
contrastanti tra loro.
Da allora, nell’arco
delle
ventiquattro
sedute, Giorgia parlò solamente in sei incontri, ma per gli educatori, per la
psicologa coordinatrice e per la sottoscritta è stato veramente un punto di
arrivo, un contatto emotivo importantissimo.
In questa prospettiva Giorgia mi ha permesso di compiere alcune riflessioni
inerenti, in particolare, i miei vissuti.
Le emozioni, per me, sono stati dell’anima.
Improvvise fin che vogliamo rispetto ai sentimenti, ma sempre espressivi
della nostra interiorità e che, come tali, collimano con la vita stessa, ci
accompagnano fin dal nostro primo stare al mondo.
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Le emozioni si configurano, dunque, come stati affettivi intensi,
fondamentalmente transitori, ma specchio fedele della nostra parte più
intima e, quindi, più fragile, vulnerabile.
Le emozioni e i sentimenti come esseri umani li percepiamo sempre, in
continuazione, ci siamo abituati.
Il cuore che pulsa, le mani sudate, il respiro affannato, il tremore degli arti
che accompagna, ad esempio, sensazioni di intensa paura, sono correlati
fisiologici molto evidenti dell’emozione.
L’emozione, specialmente se intensa, può infatti provocare alterazioni
somatiche diffuse, sono quindi eloquenti ma parziali traduzioni esterne di un
"dentro" nascosto, segreto, appunto intimo.
Prima del trattamento avevo qualche difficoltà a percepire e discriminare i
miei sentimenti e le mie emozioni, forse perché non mi sono mai soffermata a
distinguere ciò che provavo.
Ho sempre fatto fatica a raccontare ad altri ciò che sentivo. Descrivevo con
dovizia di particolari ciò che mi succedeva, ma poi era molto difficile parlare
delle emozioni che provavo di fronte ad un particolare avvenimento.
In questi due anni di trattamento con Giorgia ho imparato veramente cosa
vuol dire provare un’emozione, capirla, analizzarla e… accettarla.
Grazie ai silenzi di Giorgia, ai suoi sguardi, alle sue stereotipie, sono entrata in
un “altro” mondo, nel suo mondo, dove le regole e le logiche erano dettate da
lei e tutto sembrava alterato.
Io ero lì per lei, ero lì per accogliere e migliorare il suo disagio, ma i miei stati
d’animo i miei disagi da chi erano “presi in consegna”?.
Sempre, secondo la metodica Bonardi[2], dovevo riportare su alcune griglie i
miei vissuti ed è stato molto faticoso.
Ho imparato a concentrarmi su ciò che provavo per poter capire, anche se
lontanamente, cosa provasse chi avevo di fronte.
Non a caso mi sono chiesta se io come terapista provassi paura, per esempio,
per l’inizio di un nuovo lavoro o per l’inizio di un trattamento con una
“nuova” persona e mi rendessi conto e accettassi il mio stato d’animo, la
persona che ha bisogno di cure come vivrà e quale sarà il suo stato d’animo?
Se capisco e accetto il mio stato d’animo forse posso pensare che la persona
possa provare un sentimento altrettanto spiacevole.
Quando suonavo, cantavo, e inondavo la stanza di suoni e musiche, lo facevo
per coprire il mio disagio non quello di Giorgia.
Quando Giorgia scappava dalla stanza e si rifugiava in bagno, provavo mille e
più emozioni: inadeguatezza, disorientamento, impotenza, perplessità,
paura, tensione, rabbia, perché pensavo di non essere all’altezza del compito.
Quando però al ritorno dalla pausa natalizia Giorgia ha parlato, le mie
emozioni sono state di: adeguatezza, benessere, intesa, gioia, sorpresa,
soddisfazione.
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Emozioni molto intense, per poi tornare ad uno stato agitato e confuso
quando si è richiusa a riccio e ho dovuto imitarla a “specchio”.
Scrivere su un foglio i miei sentimenti e le mie emozioni però mi ha aiutata.
Tutto questo mi ha portato a riflettere su quello che ho vissuto e rielaborato.
Non riesco a fare una distinzione netta tra sentimenti ed emozioni, a capire
quali siano sentimenti e quali invece siano emozioni, forse perché credo che
non si possa fare una distinzione.
Sono tuttavia rimasta piacevolmente stupita, di come in una seduta si
possano vivere più stati d’animo contemporaneamente e in contrasto tra loro.
Come ho già esplicato, penso che le emozioni siano istantanee, ciò
nonostante, fugaci.
I sentimenti all’opposto, mutano, cambiano, ma permangono; una volta
ancorati non se ne vanno, rimangono all’interno, nell’animo della persona e
diventano un tutt’uno con essa.
Sono arrivata alla conclusione che poche emozioni si tramutano in
sentimenti.
Dopo aver riflettuto ampiamente su tutto il mio percorso svolto con Giorgia,
le definizioni teoriche, riportate da Devoto/Oli (1989) di emozione, intesa
come “… vivo ed intenso turbamento, provocato da commozione o da
apprensione”[3] e di sentimento considerato come “… momento della vita
interiore pertinente al mondo degli affetti e delle emozioni”[4], mi sono
sembrati poco esaustivi.
Grazie all’esperienza musicoterapica, presa in esame, sono riuscita a capire,
ciò che P. E . Ricci Bitti (1998) afferma in merito all’emozione e al sentimento.
“... la tradizione filosofica da Platone in poi ha sottolineato l’importanza
dell’esperienza e del vissuto emotivo, di come cioè le emozioni siano
elaborate mentalmente e trasformate in affetti, sentimenti,…” “… si è cercato
di evidenziare come nel rapporto interattivo tra l’essere umano, i suoi simili
e, in generale, il mondo esterno vi sia un flusso continuo di emozioni, anche
contrastanti fra loro, che danno vita a passioni, sentimenti i quali segnano
in maniera duratura l’esistenza individuale; dall’altro, si è tentato di isolare
i singoli episodi emotivi, analizzandone soprattutto le manifestazioni
espressivo - motorie… ”[5]
Quanto sopra riportato si avvicina molto a quello che ho provato e ho “toccato
con mano”.
La teoria serve per capire alcuni concetti, ma credo che anche la teoria abbia
dei limiti poiché “se non provi… non potrai mai capire” e questo è successo a
me, rapportandomi con Giorgia.
Lei che, con il suo strano modo di interagire con l’ambiente e gli altri, mi ha
aiutata in una sorta di “lettura interiore”.
Tutti i sentimenti che ho vissuto, provato e cercato di analizzare, alla fine del
percorso si sono tramutati in un sentimento sicuramente di positivo
benessere.
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In due anni di trattamento con una persona con gravi difficoltà comunicative
e relazionali, sono riuscita a “regolare” i miei disagi e i miei entusiasmi.
Un risultato finale, quest’ultimo, certamente per me, soddisfacente e di
fondamentale importanza.
Astrid Converso
[email protected]
[1] Nome di fantasia; in ottemperanza della legge della privacy.
[2] Bonardi G., (2007), Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori,
Mercatello sul Metauro (PU), pag. 40-42.
[3] G. Devoto G. C. Oli “Vocabolario della lingua Italiana” Edizione Euroclub
Italia 1989 pag. 395
[4] Op. cit. Pag. 1073
[5] P. E. Ricci Bitti “Regolazione delle emozioni e arti-terapie” ed. Carocci,
Roma 1998 pag. 15.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Converso Astrid
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Delogu Chiara, Silenzio
Pubblicato il 29 gennaio 2010
“Il silenzio è un incantesimo.”.
*Cecilia Dart-Thornton
Una pagina bianca.
La forma visiva del silenzio che mi ha accompagnato nei lunghi mesi di questo
viaggio[1].
L’incantesimo si rompe ogni volta che i pensieri fanno rumore, risuonano in
me.
Una pagina bianca come la pagina su cui scrivere ciò che verrà.
Keith Jarrett[2] sostiene che dobbiamo essere aperti alle pause (silenzi) in
modo da poterle riempire.
Dobbiamo vedere le pause, abitarci dentro, viverle.
Allora sarà chiaro quale nota suonare dopo, perché sarà quella necessaria.
È all’interno delle pause che c’è la musica, all’interno di quelle pause
pulsanti.
Il silenzio altro non è che un ‘tra’, una parentesi tra quello che c’è stato e ciò
che sarà.
È il qui ed ora.
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È il modo per riconnettersi a sé.
Nel contesto terapeutico è stato per me un contenitore.
Un modo per vivere l’altro, entrare nell’altro.
Sentirlo.
Respirarlo.
Impossibilitata ad agire, ho sofferto per ore, dei famosi ‘perché?’…
I perché sono stati la declinazione del mio silenzio e nessuna certezza.
Dal caos è nato il mondo e dal silenzio sono nati un modo nuovo di osservare,
un modo di accettare, un modo nuovo di sentire l’altro, un modo di sentire
me.
E quando tutto tace, la musica che sento è quella del mio cuore, del mio essere
che pulsa, che vive.
E allora scopro che non sono mai sola.
E che quel silenzio, silenzio non è.
È pace.
È armonia dei sensi, è consapevolezza di sé.
Se all’inizio del mio viaggio ho sofferto del silenzio nel silenzio, ora lo
ringrazio.
Perché senza di esso non avrei potuto capire molte cose.
E quando Michele[3] si è presentato a me, senza pause mi sono sentita
spaventata, intimorita…
Una nuova condizione si presentava a me, alle mie orecchie, a tutto il mio
essere.
Una condizione di saturazione dei suoni e dei rumori. Nessuna pausa, nessun
respiro, nessuna attesa. Tutto pieno, tutto confuso, tutto saturo. Soffocante.
La sfida è stata cercare di dilatare i tempi di produzione del suono e del non
suono. Questo è avvenuto tramite l’utilizzo delle musiche preferite di Michele
e di alcuni mediatori strumentali.
I primi mesi sono trascorsi con tutti i sensi allertati tranne uno: la parola.
Ho dovuto contenere, mai parlare.
È difficile.
Solo occhi a scrutare.
Solo orecchie per ascoltare, pelle per sentire.
La pelle-sonora: un massaggio fono-vibratorio-tattile.
Ho capito cosa significa sentirsi con il proprio corpo-mente e con la propria
pelle-assorbente.[4]
Il termine sinestesia ( sun-aistesis) significa sentire insieme, i sensi
sono intrecciati fra di loro e allora la musica diventa un profumo, un colore,
un gusto.
La pelle, il tatto prende forma in musica.
Il silenzio diventa una armonia sensoriale: i sensi fanno pace fra di loro per
un po’.
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Nel silenzio, all'inizio di questa esperienza, la mente raziocinante non ha
trovato un vero riposo e nell’assenza di un metodo particolare di
autocontrollo, i sentimenti sono stati agitati e confusi.
Una folla di parole si è presentata in libertà sullo schermo
dell’immaginazione, che solo io ho potuto contemplare e sentire come una
colonna sonora in una cuffia: le leggi e le ascolti, e di solito non ti piacciono.
Suonano vuote e persino false.
Ma proprio perché taci, e non sei tenuto a parlare, ti rendi conto che è bene
non pronunciarle, non esporle, e, più che in altre occasioni, le parole non
vanno messe in circolo senza consapevolezza.
Ciascuno deve aderire fino in fondo a ciò che è vero dentro, come il sorriso
alla letizia e alla simpatia, il bacio alla tenerezza e all’amore, il pianto al dolore
e alla compassione.
E a poco a poco mi libero dal fiume traboccante di parole vane, bugiarde,
fuorvianti, demagogiche, interessate, altisonanti, autocompiacenti,
lasciandole cadere come foglie morte, e mi distendo.
Ma è un distendersi difficile, costellato dall’azione.
Ogni bambino che ho incontrato ha un particolare modo di vivere il silenzio.
Dorian[5] riempie lo spazio; Betty[6] sorride e guarda al suo mondo
immaginario; Manuel[7] si avvicina a me e si inchina mimando la scena di un
cavaliere che invita la dama al ballo.
Rita[8] dà le spalle al musicoterapista e si chiude in se stessa. Osservo come
ognuno di loro declina il silenzio a modo suo e lo vive intimamente, come un
tempo per sé, come un tempo di ricostruzione del sé, come una pausa nel
dialogo interiore.
Michele è un bimbo di nove anni, affetto da ritardo mentale medio grave, con
disturbo dello sviluppo ed epilessia mioclonica.
È minuto, magro, ossuto e due occhioni marroni brillano su un dolcissimo
viso. Il sorriso e un profumo di pulito lo accompagnano sempre.
Michele riempie tutti i buchi di silenzio o con la voce, o con gli strumenti,
oppure con il CD.
Perché?
Cosa c’è ‘dentro’ un silenzio?
Il rumore dell’anima?
La difficoltà di non farsi capire?
Cosa lo spinge a non fermarsi mai?
I suoi occhi mi guardano curiosi e intelligenti.
Conservano una brillantezza ballerina e il suo sorriso preannuncia la voglia di
farmi scoprire chi è.
Cerco di entrare in empatia, (dal greco empateia, ossia passione) intesa come
comprensione dell’altro che si realizza immergendosi nella sua soggettività,
senza sconfinare nell’identificazione.
Cerco di capire in modo empatico la sua struttura di riferimento interna.
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Ma mi scontro inesorabilmente con le mie strutture interne. Il mio silenzio lo
vivo serenamente; è la saturazione degli spazi che mi crea qualche problema.
La mia attenzione è costantemente stimolata.
Nel corso delle prime sedute mi sono ritrovata esausta proprio perché
Michele non aveva tempi di pausa, aveva bisogno di riempire in maniera
caotica e rumorosissima ogni istante della seduta.
La mia dimensione sonoro-musicale mi porta a restare in ascolto del mio
silenzio ma, nell’incontrare Michele, questo spazio è venuto meno, e ciò è,
stato frustrante sebbene decisivo per imparare a dilatare i tempi dell’altro, a
vivere uno spazio saturo, a contenere e modellare i suoni.
Michele mi insegna che è necessario accettare l’altro, la parte logorroica
dell’altro, il fiume in piena, la tempesta, perché poi arriva sempre il sereno.
Jerry, un paziente autistico di Ginger Clarkson[9], scrive una poesia alla sua
amica musicoterapeuta.
Una poesia che parla di un silenzio forzato, di un’ anima imprigionata in un
corpo che fatica a parlare.
La ‘quieta contemplazione’, a cui fa riferimento, è quella a cui tento di
arrivare ogni volta che faccio silenzio, che ascolto, che tendo l’orecchio e tutto
il mio essere, verso l’altro e verso di me.
E la verità che incontro parla di luce, parla d’amore, parla di rispetto.
Amici di anima
Torniamo a una vita
Senza sapere bene
Cosa ci aspetta.
Sappiamo che dobbiamo imparare a crescere
E cercare le verità
Della nostra stessa esistenza
La quieta contemplazione rivela segreti
Che ardono nella nostra anima.
Ogni aspetto della nostra vita anela a insegnare.
Profondi legami con le nostre guide spirituali
Ci mostrano il cammino per trovare amici
Che condividano un sentiero d’amore, verità e luce.
Dov’è la vita che mi aspettavo di vedere?
Dov’è la conoscenza che pensavo di acquisire?
Cerca la verità, tienila vicino al cuore
E fanne partecipe quel tuo speciale compagno d’anima.
Allora la luce della comprensione brillerà.
Per sempre mia, amica della mia anima.
Jerry
Chiara Delogu
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[email protected]
*http://it.wikiquote.org/wiki/Cecilia_Dart-Thornton
[1] L’autrice si riferisce all’esperienza musicoterapica vissuta in un centro
riabilitativo.
[2] Keith Jarrett, Il mio desiderio feroce, Socrates, Roma, 1994.
[3] Nome di fantasia, in ottemperanza della legge della privacy.
[4] Maurizio Spaccazocchi, La musica e la pelle, FrancoAngeli, 2004 p. 58.
[5] Nome di fantasia, in ottemperanza della legge della privacy.
[6] Nome di fantasia; in ottemperanza della legge della privacy.
[7] Nome di fantasia, in ottemperanza della legge della privacy.
[8] Nome di fantasia, in ottemperanza della legge della privacy.
[9] Ginger Clarkson, Ho sognato di essere normale, Cittadella editrice, p.131.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Delogu Chiara
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Bonardi Giangiuseppe, (a cura di), "Aforismi"... schneideriani!
Pubblicato il 19 gennaio 2010
“Il suono è la sostanza originaria di tutte le cose, anche là dove non è più percepibile
per l’uomo rdinario1.”. Marius Schneider
“… il grido o la risata rappresentano la musica primordiale che partorisce il
cosmo2.”. Marius Schneider
“Dalla nota originaria delle acque si alzarono in virtù delle frequenze crescenti del
suono il calore, la luce e infine tutto il mondo materiale3.”. Marius Schneider
Con tag Il senso del musicale in musicoterapia
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1
Schneider Marius, Il significato della musica, Rusconi, Milano 1970, p. 33.
Schneider Marius, Il significato della musica, Rusconi, Milano 1970, p. 23.
3
Schneider Marius, Il significato della musica, Rusconi, Milano 1970, p. 59
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Cavallini Daria, Epilogo dell’esperienza musicoterapica con gli adolescenti
Pubblicato il 15 gennaio 2010
Il musicoterapista
- che sia tale attraverso la musica
permette allo spettatore di se stesso
di ri-conoscere e ri-appropriarsi
di quel sé negato
attraverso quello stesso linguaggio musicale che
sul pentagramma delle emozioni
simboleggia i percorsi della nostra vita.
Daria Cavallini
Attraverso la musica, senza saperlo, interpretiamo e raccontiamo noi stessi e,
come un sensibile e preparato direttore d’orchestra riesce a far emergere
l’essenza di un’opera attraverso un linguaggio che ha una sua struttura fatta di
metro, timbro accenti, pause ecc., così il musicoterapista - che sia tale attraverso la musica permette allo spettatore di se stesso di ri-conoscere e riappropriarsi di quel sé negato attraverso quello stesso linguaggio musicale
che sul pentagramma delle emozioni simboleggia i percorsi della nostra vita.
E spettatrice di me stessa sono stata anch’io nell’osservarmi, nel pormi
domande, nell’imparare a ri-conoscere quali emozioni si agitassero dentro di
me, quali fossero autenticamente mie.
È stato un percorso difficile, ricco di emozioni che lottavano tra il desiderio di
fuggire e quello di andare a fondo, tra il bisogno di piangere e quello di
sorridere…
Momenti in cui mi sono chiesta se mai sarei riuscita a prendere contatto con
la mia parte più oscura, se mai sarei riuscita ad “accogliere”, ma so… so di
averlo fatto, o almeno di aver iniziato a percorrere quella strada che più
scenderà verso di me, più verso l’altro mi porterà.
Infine vorrei concludere questo lavoro dando la parola a Viola, una delle
ragazze del gruppo che, un giorno, mi inviò questo messaggio1:
“Posso ritenermi orgogliosa di me stessa.
Ho finalmente messo il primo mattone
per costruire le fondamenta della mia vita.
È nata una nuova Viola.
Grazie.”.
Approfondimenti bibliografici
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Basta ed. musicali, Milano 2000.
“Sally” (Vasco Rossi), testo Vasco Rossi, musica Vasco Rossi e Tullio Ferro,
Emi
Music Publishing Italia, Milano 1996.
“Gli ostacoli del cuore” (Ligabue-Elisa) testo e musica Ligabue – Elisa,
Bimardino Milano 2007.
Riviste Specializzate
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BABELE c/o Associazione Sammarinese degli Psicologi Via Canova,18
Repubblica di San Marino 2007
IMPRONTE – Le dimensioni della psicologia abruzzese –
ALTER EGO Via Paolo Emilio, 7 Roma 2007
[email protected] 2006
www.frasicelebri.it
www.psicopedagogia.it
Sitografia
Daria Cavallini
[email protected]
1L’esperienza è stata proposta nel contributo di Cavallini Daria, Diario di
un'esperienza
di
musicoterapia
con
gli
adolescenti,
http://musicoterapie.over-blog.com/
Con tag Musicoterapia e adolescenza, Cavallini Daria
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Bonardi Giangiuseppe, Il tempo, lo spazio e... la musica
Pubblicato il 12 gennaio 2010 da Musicoterapie in...ascolto http://musicoterapie.overblog.com/
“… Il tempo… è… l’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno4…”. Kant
Lo spazio “… è (la) manifestazione esterna della vita interna5…”.
“La musica è l’espressione acustica (spazio) del proprio mondo interno (tempo).”.
Bonardi G. 2010
4
Citazione tratta da Bonardi G., Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori, Mercatello sul
Metauro (PU) 2007, p. 18.
5
Citazione tratta da Bonardi G., Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori, Mercatello sul
Metauro (PU) 2007, p. 18.
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Giangiuseppe Bonardi
Con tag Il senso del musicale in musicoterapia
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Bonardi Giangiuseppe, La musica è...
Pubblicato il 8 gennaio 2010 da http://musicoterapie.over-blog.com/
“La musica è l’espressione acustica (spazio) del proprio mondo interno (tempo).”.
Bonardi G. 2010
Giangiuseppe Bonardi
Con tag Riflessioni...
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Esse Hermann, La via verso l'interiorità
Pubblicato il 3 gennaio 2010 da Musicoterapie in...ascolto
La via verso l'interiorità
Chi ha trovato la via verso l'interiorità
chi nell'ardore dell'introspezione
ha intuito il nucleo della verità,
sa che ognuno si sceglie Dio e creato
come immagine e parabola soltanto:
per lui ogni agire, ogni pensare
non è che dialogo con la propria anima
che Dio e creato in sé racchiude.
Hermann Esse
Esse Hermann, Sull'anima, Newton & Compton, Roma 1996, pag.61
Con tag Riflessioni..., Hesse Hermann
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Cavallini Daria, Diario di un'esperienza di musicoterapia di gruppo con gli
adolescenti
Pubblicato il 2 gennaio 2010
Lo spazio musicoterapico... vissuto
Gli incontri, a cadenza settimanale, si sono svolti nell’aula del C.I.C. (Centro
di Informazione e Consulenza) che non è molto confortevole per dimensioni e
arredamento, ma è posizionata distante dal cuore dell’edificio per cui il
volume della musica o delle improvvisazioni non disturbavano eventuali
lezioni pomeridiane.
Lo strumentario era composto da conga, jambè, bonghi, metallofono,
xilofono, maracas, bastone della pioggia, bastoncini, cabaza, tamburello,
ghirò e altri piccoli strumenti che mi hanno riportato dal Brasile, tra cui un
birimbao, posizionati al centro del circolo formato dalla disposizione delle
sedie.
Patrizia, Bibiana, Viola
Il gruppo, di cui si tratterà in questo lavoro, era formato da tre ragazze
frequentanti l’ultimo anno di scuola e appartenenti alla stessa classe e per le
quali, nel rispetto della privacy, saranno utilizzati altri nomi:
 Patrizia, diciottenne, ha rivelato di aver iniziato a mostrare la sua
sofferenza (rabbia) in famiglia, con annessi sensi di colpa, a causa di
tensioni familiari aggravate dalle precarie condizioni del padre. Patrizia
tollera malvolentieri la presenza di Viola in classe.
 Bibiana, diciottenne, condivide l’appartamento con una ragazza più
anziana di lei. Ha rapporti sporadici e conflittuali con la famiglia d’origine
e frequenta gruppi sociali “decisamente disinibiti”.
Vive continui sensi di colpa per cui si era decisa ad entrare nel gruppo
dopo i colloqui avuti all’interno del C.I.C., perché voleva capire qualcosa di
più su se stessa.
 Viola, ventenne, ripetente e nuova compagna di Patrizia e Bibiana. Ha
dichiarato di voler capire un po’ meglio le sue dinamiche perché tendeva
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facilmente ad arrabbiarsi e, per questa ragione, ha chiesto di entrare nel
gruppo. È una ragazza piuttosto diffidente e mostra difficoltà relazionali
con coetanei e adulti.
Tutte e tre le ragazze avevano frequentato il C.I.C. e, venute a conoscenza
della possibilità di seguire un percorso musicoterapico, avevano deciso di
aderire alla proposta mia e della dottoressa formando un piccolo gruppo.
Gli incontri prevedevano un’accoglienza sorridente da parte nostra, che
aspettavamo le ragazze nella stanza già predisposta nell’arredamento; era
importante creare un ambiente accogliente che non fosse percepito come
giudicante ma, al contrario, rassicurante nel totale rispetto del segreto
professionale, in particolare per Bibiana – la più problematica delle tre – da
come si evincerà in seguito.
Io conduttore del gruppo: consegne e accoglienza
Il primo incontro fu caratterizzato – in prima istanza – dalla conoscenza del
gruppo con la presentazione di ognuno e la motivazione alla partecipazione e
dall’osservazione, da parte mia, dell’approccio allo strumento, alle sonorità
emergenti e alla loro eventuale integrazione.
Dopo questo primo momento spiegai loro che ci sarebbe stata una prima
parte dedicata ad una piccola improvvisazione e una seconda dedicata alla
verbalizzazione di quanto avvenuto nel rispetto dei tempi e del desiderio di
ognuno di parlarne, dopodiché le invitai a cercare lo strumento che le attirava
di più.
La conclusione della produzione musicale sarebbe avvenuta con un gesto di
chiusura a cerchio delle mani da parte mia.
La “corazza” musicale di Bibiana
Bibiana si alzò per prima e prese la conga mettendosela tra le gambe, si curvò
su di essa e, girando il volto verso la sua sinistra con lo sguardo rivolto a terra,
diede il via proponendo un ritmo binario ad altissima intensità e velocità
media.
Questa posizione e questa modalità sonora caratterizzò tutto il momento
musicale – e tutti gli altri incontri – senza mai permettere a nessuno di
incrociare il suo sguardo fino al decimo incontro.
L’unica variazione era data dalla scelta dello strumento alternata tra la conga
e lo jambé.
La dolcezza musicale di Patrizia
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Patrizia scelse il metallofono, come era già avvenuto nel precedente gruppo di
cui aveva fatto parte, e iniziò a fare accordi di terze e di quarte alternati al
battere tre, quattro volte sul sol e glissati che andavano dai registri gravi a
quelli acuti e viceversa imprimendo una forza centrifuga al movimento.
Ogni glissato terminava con il battente che veniva levato lateralmente verso
l’alto quasi che dal glissato partisse qualcosa spinto verso l’esterno.
Rispetto al percorso precedente manteneva la stessa modalità sonora, ma
diversa era l’intensità che da forte costante era diventata mezzo forte fino a
sfiorare il piano e l’energia investita sullo strumento; i battenti venivano calati
sui tasti con meno forza rispetto a prima, anzi in alcuni momenti, coincidenti
con il piano, sembravano quasi accarezzarli.
Diversa era anche la postura e la mimica del viso: Patrizia non più piegata
verso lo strumento con il volto accigliato e lo sguardo cupo e fisso sui tasti, si
appoggiava rilassata alla spalliera con un lieve sorriso che le aleggiava sul viso
e cercava spesso le altre con lo sguardo, allargandolo quando incrociava il
mio.
Il desiderio musicale di Viola: interagire con Bibiana
Viola si guardò intorno, cominciò ad osservare e toccare alcuni strumenti che,
forse, non aveva mai visto (birimbao, cabaza e ghirò) scegliendo infine lo
jambè.
Lo posizionò tra le gambe appoggiandosi con la schiena alla spalliera della
sedia e iniziò a sfiorarlo con le dita, sembrava quasi accarezzarlo… e, vagando
con lo sguardo su ognuno di noi fino a fermarsi su Bibiana, iniziò a produrre
un piccolo ritmo di quattro quarti a bassissima intensità che riuscii a rilevare
in quanto ero posizionata al suo fianco.
Io, Patrizia, Bibiana e Viola: emozioni musicate ed espresse
Questa produzione durò all’incirca venti minuti durante i quali cercai di
rispecchiare sia la produzione di Bibiana che quella di Viola.
Provai ad entrare in contatto con loro (avevo i bonghi) inserendomi con un
piano – tempo due quarti -ma la prima non me lo permise dato che non
alzava mai lo sguardo, né notai spostamenti anche lievi della postura che
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indicassero comunque un ascolto di altre sonorità, mentre la seconda se ne
accorse e sorridendomi iniziò a rispecchiarmi con un pianissimo aumentando
poi l’intensità.
Patrizia ci ascoltò per qualche secondo, sospendendo la sua produzione,
dopodichè si inserì tra noi.
Era difficile capire quanto emergeva in quanto Bibiana continuava con la sua
altissima intensità però, ad un certo punto ebbi la sensazione che l’aria fosse
carica di suoni ad alta intensità, ma armonici tra loro, sensazione poi
confermata anche dalle altre nella fase verbale.
Al termine ognuna di loro disse di essere stata bene e di aver avvertito quel
momento di produzione comune.
Riflessioni in équipe
Questa modalità si ripeteva incontro dopo incontro e lentamente iniziai ad
avere la sensazione che quei piccoli e brevi attimi di armonie fossero in una
qualche maniera dominate da Bibiana, infatti lei non volgeva mai lo sguardo
verso di noi e continuava a suonare come sempre, per cui pur senza volerlo
eravamo noi che, ad un certo punto, entravamo nel suo ritmo ossessivamente
costante.
Era come se il suo sé si fosse, nel tempo, costituito circondato da cancelli che
racchiudevano la sua sofferenza emotiva disconoscendo il suo esistere con gli
altri.
Quella sofferenza e quella rabbia – probabilmente originatesi nell’infanzia –
emergevano in tutto il loro urlo sonoro attraverso lo strumento che, non più
un mediatore sonoro, diventava prolungamento di se stessa non permettendo
quindi a nessuno di accoglierla, per poi aiutarla ad accogliersi.
Avevo la sensazione di trovarmi in un vicolo cieco, di aver anche noi dato vita
ad una circolarità ripetendo ogni volta le stesse modalità comportamentali e
sonore.
Mi interrogavo su ciò che provavo e se quanto provavo, in termini di
impotenza, stesse ulteriormente bloccando lo sviluppo di una relazione.
Nel frattempo però, nonostante questa modalità si presentasse
sistematicamente, la relazione tra Patrizia e Viola stava lentamente
prendendo vita.
Infatti avevo notato, più di una volta, che le due ragazze si erano offerte
rispettivamente il proprio strumento e che verso il quarto, quinto incontro
avevano iniziato a guardarsi, ad osservare e ad ascoltare l’una quello che
faceva l’altra cercando di sintonizzarsi.
Vi erano piccoli momenti in cui Viola, ad esempio, sospendendo la sua
improvvisazione si volgeva verso Patrizia - chinandosi leggermente verso di
lei - e si poneva al suo ascolto, quindi riprendeva a suonare provando ad
accompagnarla.
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Spesso insieme mi guardavano e guardavano Bibiana intenta a fissare il
pavimento.
È difficile descrivere cosa esprimessero i loro volti… è quell’ineffabile non
traducibile in parole, ma avevo la sensazione che per un attimo sorgesse la
speranza di vedere la compagna incrociare il loro sguardo, speranza che, se
tale era, rimaneva puntualmente delusa ed ecco allora nascere quel momento
di armonia comune a tutte e tre… forse un inconsapevole desiderio di sentirsi
unica cellula?
Parallelamente però le due ragazze, unite in un rifiuto inconsapevole di
Bibiana, si stavano forse trovando.
Guardare e sentire con la pelle!
Quando si lavora con un gruppo capita che un movimento, un lampo negli
occhi di qualcuno, sfugga all’osservazione, ma a volte accade che l’invisibile
agli occhi diventi un “guardare ed un sentire con la pelle” per cui, quasi
richiamati da una forza ci si giri e si colga quell’attimo che ti fa nascere
domande o trovare risposte (ed io me ne ponevo in continuazione di
domande!).
Tutto questo fino al decimo incontro!
Quel giorno Bibiana arrivò e come sempre prese la conga posizionandola tra
le gambe e… non la toccò.
Questo mi lasciò un attimo sorpresa, ma rivolgendomi con lo sguardo verso le
altre ragazze attesi che attaccassero, per poi entrare anche io.
Viola prese lo xilofono e iniziò a dar vita ad una piccola melodia in quattro
quarti su cui Patrizia si inserì con il metallofono partendo dal sol e
muovendosi con la sua modalità sonora sintonizzandosi con Viola e infine io
con lo jambè creavo l’armonia.
Ci guardavamo e i loro sguardi manifestavano piacere per quella
improvvisazione.
Il battente sul naso
Mi posi la prima domanda: “ Sta avvenendo perché Bibiana non suona?” e
mentre stavo cercando una ipotetica risposta volsi lo sguardo verso
quest’ultima che ci fissava con il viso contratto e le braccia strette al petto.
Presi allora un battente e glielo porsi invitandola, lei mi guardò un attimo, lo
prese e con forza me lo diede sul naso!
Provai un forte dolore e d’istinto presi un altro battente calandolo sulla sua
testa o meglio mimando tale gesto perché, in realtà, non impressi forza e
accompagnai il gesto con un sorriso.
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In seguito mi chiesi come mai avessi risposto con quella modalità e credo di
aver, in un certo senso, cercato di rispecchiare il suo gesto (naturalmente
spogliato della violenza), visto che per la prima volta era accaduto qualcosa di
diverso.
Ebbi la netta sensazione che mi avesse scaricato addosso una forte
aggressività, forse per averla invitata, comunque si scusò immediatamente ma
rifiutò categoricamente di unirsi a noi rimanendo ad osservarci fino alla fine.
Credo inoltre che le altre due ragazze abbiano per qualche secondo sospeso
l’esecuzione, per poi ricominciare come niente fosse nel momento in cui le ho
di nuovo guardate cercando di rassicurarle con lo sguardo e la mimica del
viso.
Durante la verbalizzazione Bibiana prese immediatamente la parola e mi
appellò severamente accusandomi di essere sempre disponibile ed
accogliente.
Le risposi che questo, oltre ad essere una mia modalità relazionale, era anche
il mio ruolo in quel contesto.
Non le andò bene e continuò a perseverare nella sua idea pur non trovando
sostegno da parte delle altre.
Dopo quell’incontro cominciò a non venire più adducendo motivazioni,
all’apparenza valide, tipo impegni di studio, di lavoro ecc.
Avevo la certezza che la stavamo perdendo e consultandomi con la dottoressa
decisi, in un certo senso, di stravolgere la dinamica degli incontri.
Musiche ascoltate: emozioni espresse e condivise...
Proposi alle altre, pregandole di comunicarlo anche a Bibiana, di utilizzare al
posto degli strumenti l’ascolto di brani, alcuni proposti da me altri portati
dalle ragazze stesse, chiedendo poi loro di segnare, immediatamente dopo
l’ascolto, su di una scheda – ideata dal prof. Bonardi – le emozioni provate ed
eventualmente aggiungere qualcosa di personale su un altro foglio.
Al termine di questa operazione si sarebbe dovuto riportare verbalmente
quanto esperito e l’incontro si sarebbe poi concluso con un brano di saluto
proposto dalla sottoscritta; in genere si trattava di pezzi formali melodici con
metro lento a medio-basse intensità, lo strumento prevalente era il
pianoforte.
L’intento era quello di contenere quanto emerso precedentemente
restituendo, laddove necessario, una carezza musicale.
Accolsero con piacere l’idea e di nuovo si ricompose il piccolo gruppo di
partenza.
“ Les tambours du Bronx ”
Partii facendo ascoltare un pezzo dal titolo “ Les tambours du Bronx ” che,
nelle sonorità e nel ritmo richiamava la modalità espressiva di Bibiana.
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Al termine, dopo aver compilato la scheda, fu proprio lei la prima a prendere
la parola affermando che le era piaciuto perché le aveva dato grinta ed
energia, ma aggiunse anche che le era venuta l’immagine di un’impiccagione
senza che quest’ultima le suscitasse fastidio o tristezza e concluse dicendo che
era contenta perché questa nuova modalità le piaceva molto.
Patrizia e Viola, invece, non apprezzarono l’evento musicale a causa della
ripetitività del ritmo e, in particolare a Viola, dava un senso di angoscia.
Mi tornarono in mente gli incontri precedenti e il mettersi in sintonia con
Bibiana… forse era quello il motivo per cui ci si sintonizzava con lei?
Forse per non sentire l’angoscia di quel ritmo circolare e dominante?
Forse.
Ad ogni incontro ognuna portava il suo brano da ascoltare e di cui dialogare e
piano cominciò ad emergere un piccolo contatto con il proprio mondo
emozionale, con il proprio senso di inadeguatezza rispetto alle figure
genitoriali, con i propri sensi di colpa per situazioni di vita vissuta che non
venivano raccontate, ma di cui venivano messi in luce ed elaborati i contenuti
emotivi.
 Biagio Antonacci “Le cose che hai amato di più” (Patrizia)
 Elisa e Ligabue “Gli ostacoli del cuore” (Bibiana)
 Vasco Rossi “Sally” (Viola)
 Paolo Meneguzzi “Ti amo ti odio” (Bibiana)
 Gianna Nannini “Grazie” (Viola)
 Braveheart “Tema principale” (Viola)
 Kundalini raccolta “Les tambours du Bronx” (Daria)
 Mia Martini “Gli uomini non cambiano” (Daria)
 Enya “Watermark” (Daria)
 Sakamoto R. “Forbidden colors” (Daria)
 Ennio Morricone “La leggenda del pianista Sull’oceano” Playing love
(Daria)
 Kundalini III “Music to dissapear” (Daria)
Ora, avevo la sensazione che la relazione stesse prendendo forma, che le
ragazze lentamente cominciassero ad accogliere il proprio lato oscuro mentre
anche io, insieme a loro, facevo il mio percorso di musicoterapista e di
persona, ma… dopo sei, sette incontri Bibiana cominciò a manifestare una ’…
forma di condotta agita, nota come “acting out”, considerata una condotta di
fuga di fronte all’affetto (o alla sua rappresentazione), che risulta sgradevole
alla coscienza del soggetto… agendo ci si oppone alla presa di coscienza
evitando così l’insight, l’essere dentro.’1
Di nuovo si riproponeva uno scenario conosciuto: con i suoi ‘agiti’ improvvisi
e forti Bibiana ‘dominava’ tutto il gruppo condizionando il comportamento di
Patrizia e Viola che, probabilmente per celarsi anche a se stesse, tendevano ad
assecondare i suoi atteggiamenti per cui, se Bibiana si addormentava
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parlavano a bassa voce; se improvvisamente si alzava simulando una danza
l’accompagnavano con le mani; se lei diceva che ci voleva una bella sbronza,
mimandone gli effetti, si sbellicavano dalle risate supportando così tutte le
sue azioni.
Pur non reagendo con rimproveri cercavo di riportare l’attenzione su quanto
stavamo facendo con una certa autorevolezza, non scevra di fatica, ma ci sono
stati momenti in cui ho pensato di essere in un vicolo cieco, in cui mi sono
sentita stanca e frustrata.
La mia fantasia era che ci fosse in atto una battaglia tra lei e me, tra lei e ciò
che investiva su di me: una battaglia in cui si contrapponevano strategie di
attacco e di difesa; probabilmente cioè ogni qualvolta Bibiana sentiva che
stava rischiando di entrare troppo dentro se stessa, di contattare quel lato
celato alla sua coscienza emotiva.
In équipe: riflessioni e... scelte
Mi consultai nuovamente con la psicologa, la quale mi consigliò di sfidarla, di
metterla di fronte a qualcosa che parlasse del suo malessere, delle sue
relazioni falsate con gli uomini e con il padre in particolare.
Cominciai così a cercare un evento musicale che contenesse queste
caratteristiche e scelsi “Gli uomini non cambiano “ di Mia Martini…
Il brano, dal metro lento, tratta temi legati al rapporto con il sesso opposto a
cominciare da quello paterno; la voce della cantante roca e sofferente dal mio
punto di vista evidenzia, con maestria, quanto lei stessa sia stata invischiata
in questa dinamica affettiva e relazionale.
Per ultimo, ma non per questo meno importante, ho compreso che è vero che
quando si sceglie un brano si deve cercare di essere obiettivi, ma è altrettanto
vero che in ogni scelta c’è sempre un po’ di noi, come ci ricorda il professor
Bonardi: “ Non si può accogliere l’altro se non si impara prima ad accogliere
se stessi ”.
Sapevo che Viola e Bibiana sarebbero mancate ad un incontro di lì a poco e
scelsi proprio quel giorno per proporre il brano, così Bibiana non si sarebbe
sentita supportata dalle compagne qualora avesse messo in atto un “acting
out”, però ero anche un po’ preoccupata in quanto non potevo ipotizzare la
sua reazione nel trovarsi da sola.
Arrivò invece tranquilla e serena, non so spiegarlo, ma avevo la sensazione
che essere, in un certo senso, al centro dell’attenzione le facesse piacere.
Misi il pezzo e attesi.
Gli uomini non cambiano...
All’attacco della voce della cantante, Bibiana spalancò gli occhi e mi guardò,
non fece un gesto, sembrava inchiodata alla sedia.
Sul suo viso si alternarono espressioni che mi parlavano di lotta tra il
desiderio di scappare e quello di rimanere poi, piano le si inumidirono gli
occhi e lentamente una lacrima iniziò a scendere.
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Non diceva nulla, non si muoveva, solo i suoi occhi nei miei e quelle lacrime.
Percepii la sua sofferenza e me ne dolsi mentre mi risuonava dentro ma
speravo - e ne avevo timore - che forse così avrebbe cominciato a prendersi
per mano.
Trascrivere l’ineffabile a volte è arduo compito, non sempre riuscendo la
parola a trasmettere quel tuo contenuto o quella tua sensazione e forse solo la
musica, che con l’ineffabile dialoga, può farlo.
Al termine non fece nulla, non si mosse, non scrisse…, rimase ancora un po’ in
silenzio ed infine un fiume di parole la travolse.
Raccontò della sua solitudine, del rapporto difficile con il padre di cui aveva
paura, della madre che amava e odiava perché sottomessa al marito, delle
punizioni ingiuste, della sua dipendenza dell’amica Liana che adorava e di
come cominciasse a capire che se da un lato era succube, dall’altro faceva in
modo che gli altri, i ragazzi in particolare, esaudissero le sue aspettative
quando lo desiderava perché questo la faceva sentire forte.
Raccontò del bisogno di bere, di come sotto l’effetto dell’alcol si sentisse libera
di fare ciò che voleva senza condizionamento alcuno…, raccontò, raccontò,
raccontò.
La lasciai “sfogare” fino a quando si calmò e solo in quel momento le feci una
carezza cercando di trasmetterle tutta la tenerezza e la comprensione di cui
ero capace.
Avrei voluto dirle: “ Benvenuta…”, ma tacqui, lasciando che tutto parlasse
tranne… la parola.
Epilogo
Dal quel momento il gruppo si evolse e parallelamente migliorarono anche i
percorsi didattici e le relazioni delle tre ragazze con i compagni e con gli
insegnanti.
L’ultimo incontro fu molto toccante, avevamo la consapevolezza di una strada
percorsa insieme, di aver lasciato qualcosa di noi e di aver preso qualcosa da
ognuno, ma soprattutto di aver iniziato – chi più e chi meno – a percorrere
quella via che porta dentro di noi e che dà senso al nostro esistere.
Patrizia è diventata una ragazza molto più serena, che ha compreso di non
dover sempre sorridere o urlare, ha capito che si può imparare ad esprimere
ciò che si ha dentro affrontando la paura di sbagliare o di non obbedire.
Viola ha imparato a dominarsi, ha ammesso la sua paura di non valere nulla,
di essere gelosa del rapporto del padre con il fratello e di aver avuto
determinati comportamenti perché dietro quelle azioni c’era solo il bisogno di
urlare la propria esistenza e che aveva voglia di essere amata per quello che
era.
Questa consapevolezza l’ha portata a relazionarsi meglio con se stessa e con
gli altri ricevendo gratificazioni sul suo percorso maturativo e scolastico.
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Vorrei anche aggiungere che l’antipatia iniziale di Patrizia verso Viola si è
trasformata in sincero affetto e le due ragazze sono molto unite; questo mi dà
la conferma di come l’altro viene investito di ciò che, in realtà appartiene solo
al nostro vissuto e solo imparando ad accogliere il nostro sé siamo in grado di
accogliere l’altro da sé.
Bibiana ha ancora tanta strada da percorrere, ha appena iniziato, ma qualche
piccolo atteggiamento è cambiato.
Mi rimane la consapevolezza che per lei sarà difficile, ma non impossibile.
A me rimane la certezza di dover sempre più entrare in contatto con il mio
lato oscuro, per accoglierlo ed amarlo così com’è senza dover interpretare
ruoli che, probabilmente, non mi appartengono fino in fondo, perché solo così
posso essere in grado di saper accogliere e rispettare gli altri per ciò che loro
stessi si concedono di esprimere.
Daria Cavallini
[email protected]
1 Marcelli D., Bracconier A. “Adolescence et psychopathologie”, Masson, Paris
1983, trad. It., “Adolescenza e psicopatologia”, Masson, Milano 1996, pag. 95.
Con tag Musicoterapia e adolescenza, Cavallini Daria
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Febbraio
Converso Astrid, Dialoghi ‘silenziosi’ in musicoterapia tra me ed Anna
Pubblicato il 23 febbraio 2010
"E se fosse nella pausa e non nel fischio che i merli si parlano?
Parlarsi tacendo o fischiando è sempre possibile;
il problema è capirsi"[1]
Il silenzio è un segnale indicatore che mostra la via di una realtà profonda,
diversa ed esterna che, il suo contrario, il chiasso, ignora e copre.
Il silenzio può portare sollievo o depressione, e a seconda dei casi, può essere
ricercato o volontario, o può essere subìto contro voglia.
Nel silenzio la mente pensante non trova un vero riposo e nell’assenza di una
maniera particolare di autocontrollo, i sentimenti sono agitati e confusi.
Con Anna (nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy)[2] è
capitato proprio questo: IL SILENZIO. Davanti a questa caratteristica che
Anna usava nel rapportarsi con l’altro da sé, mi ha posto di fronte ad una serie
di domande.
Il silenzio è difficile interpretarlo, è difficile spiegarlo, dice tante cose
profonde e sincere ma allora come ascoltarlo? Che fare? Che cosa significano
questi momenti di silenzio? E, cos’è in fondo, il silenzio? Anna lo usava come
meccanismo di difesa o era un suo modo per comunicarmi qualcosa? Voleva
comunicare disagio, rilassamento, o bisogno?
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Anna
Alta, occhi profondi e molto grandi, Anna era una ragazza di 26 anni, l’ospite
più giovane della comunità. I genitori le tagliavano i capelli molto corti per
evitare che lei li strappasse dalla cute. Leggendo la cartella clinica ho scoperto
la sua diagnosi patologica: “Ritardo mentale da cerebropatia perinatale,
anomalie del comportamento, problemi di respirazione”. Fin nel primo
periodo d’osservazione, Anna mi incuriosiva. Occhi quasi sempre e
apparentemente persi nel vuoto, varie e molteplici stereotipie quali: pulirsi la
bocca con le dita della mano tese passando per il naso, tirando fuori la lingua;
cercare di strapparsi i capelli; accavallare, con scatti agitati, le gambe. Cercava
sempre di intervenire nei discorsi altrui, parlando di tutt’altro, ma
considerato il fatto che aveva difficoltà a parlare, poiché non riusciva a
pronunciare in modo corretto le parole, veniva zittita e lasciata in disparte.
Anna, in quelle occasioni, parlava da sola, sperando che qualcuno le prestasse
attenzione, oppure cadeva in un silenzio che poteva durare tutta la giornata.
Osservandola, ciò che mi trasmetteva era un bisogno particolare di attenzioni
che evidentemente non riceveva dagli altri ospiti. Perplessa e intimorita,
iniziai il mio percorso con Anna, chiedendomi se mi avesse sommerso di
parole o se preferisse parlare anziché suonare gli strumenti proposti. La
prima volta che Anna entrò nell’habitat musicoterapico apparve disorientata,
si sedette guardandosi attorno e attese istruzioni. Le dissi che poteva suonare
tutti gli strumenti, senza chiedere il permesso. Iniziò subito a parlare,
balbettando contenuti senza senso, raccontando della carota che portava al
suo cavallo... dei lavori di taglio e cucito o di strani racconti riguardanti un
corvo nero che si appoggiava su una tomba. Lo strano eloquio era intervallato
dal suono di un piccolo sonaglio verde, formato da cinque campanelle, che
teneva gelosamente tra le mani. All’inizio rimasi sconcertata, ma avendola gia
osservata all’interno della vita collettiva della comunità ed essendo
consapevole del suo modo di agire, mi posi in ascolto, sebbene, il più delle
volte, la sua comunicazione fosse rivolta verso la finestra. Questo “modus
operandi” si protrasse per circa metà anno, continuando ad usare molto il
linguaggio verbale, e poco gli sguardi diretti, il tutto intervallato
dall’incessante suono dei campanellini, suo strumento preferito. In seguito
iniziò a diminuire il tempo delle conversazioni, ma permaneva la voglia di
suonare, servendosi dello stesso strumento suonandolo continuamente, ad
eccezione di quando articolava parole. Perdurava lo sguardo evasivo, stando
molto attenta a dirigerlo nel modo giusto, ossia rivolgendolo verso sé.
Progressivamente iniziò a diminuire il tempo destinato alle comunicazioni
verbali e iniziò “il lungo inverno”.
Il lungo inverno di... Anna
Anna cessò di parlare, di suonare, e seduta sulla sedia, iniziò a guardarmi,
tenendo la testa inclinata su un lato. In un secondo momento, si allontana di
scatto o accavalla le gambe in modo agitato a volte ridendo sommessamente,
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altre volte con lo sguardo adirato come se avesse appena ricevuto un
rimprovero. La chiamavo, provavo a suonare qualche strumento, ma lei non
dava alcun tipo di risposta. Quel silenzio era fastidioso, non riuscivo a
sopportarlo, e non capivo il perché di tanto malessere. Forse avevo paura di
non essere all’altezza del compito? Pensavo di non voler ammettere, a me
stessa, che il cambiamento di Anna lo stavo vivendo come un fallimento
professionale ed emotivo? Se Anna era cambiata era per il mio intervento
erroneo. Se il silenzio mi dava tanto fastidio era perché non riuscivo a
sopportare emotivamente lo stato di disagio di chi mi trovavo di fronte? Più
cercavo di capire il vero perché di tanto fastidio, più provavo irritazione per
Anna che continuava a stare in silenzio, dondolandosi o guardandosi
attentamente le mani, i piedi o qualsiasi altra parte del corpo. Qualche volta,
quando andavo a prenderla, la trovavo con i compagni intenta a ridere,
sorrideva anche a me ma, appena saliva nella stanza, iniziava il mutismo.
Anna continuava a non rispondere agli stimoli esterni; rimaneva seduta con le
sue piccole stereotipie e non comunicava. Quando la interpellavo,
cantilenando il suo nome, si girava, mi guardava per pochi istanti e poi
sorrideva, strizzando gli occhi, in caso contrario continuava a fissarmi con
occhi spenti e con aria interrogativa.
Non era abbastanza, non potevo accontentarmi solo di questo. Il
cambiamento importante arrivò dopo circa due settimane di autoanalisi
introspettiva personale e di “penose” sedute di supervisione. Ormai non
sapevo da che parte iniziare; ero troppo concentrata su me stessa, sui miei
limiti e i miei bisogni, per poter concentrarmi su Anna. Quel giorno Anna
arrivò arrabbiata e scontrosa... era di pessimo umore. Gli stati d’animo di
Anna erano altalenanti ogni giorno, ma erano sempre presenti sia la rabbia
che la gioia. Prima di allora non aveva mai manifestato un solo stato emotivo,
oltretutto, così ben marcato. Pensai che potevo lavorare ben poco con una
persona scontrosa e arrabbiata; in ogni modo ero troppo concentrata sul mio
stato emotivo per poter riuscire a capire i suoi stati d’animo. Sempre più
sconfortata decisi di rimanere anch’io in silenzio; non avevo voglia di fare
niente, mi sentivo sconfitta, senza forze. Rimanemmo per quarantacinque
minuti in silenzio, guardandoci reciprocamente. Anna era molto incuriosita
dal mio silenzio. Nonostante tutto quel silenzio mi giovò. Non sapevo
darmene una ragione ma, al termine della seduta, mi sentivo meglio. Decisi di
continuare su questa linea fino alla chiusura della comunità, prima delle
vacanze estive. Ormai mancavano poche sedute ma mi permisero di capire,
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anche se lontanamente, il mondo di Anna. In silenzio era più facile osservare
il suo comportamento, i suoi atteggiamenti e i suoi sguardi. In silenzio si
percepisce il respiro dell’altro, il battito cardiaco, i ritmi corporei. Continuavo
ad osservarla e, per quanto mi fosse stato possibile, cercavo di eseguire le
stesse sonorità che produceva, per farle capire che ero con lei, che la stavo
ascoltando. Il suo sguardo mutò, iniziò a guardarmi più spesso, e a reggere il
mio sguardo. Il silenzio era il nostro mezzo comunicativo, riuscivamo a
“comunicare” guardandoci o riproducendo gli stessi suoni o gesti. Al termine
delle sedute con Anna mi sentivo sempre rilassata: mi sentivo bene.
Lentamente comprendevo che ero riuscita ad entrare in sintonia con lei. Poco
alla volta, tornando dalle vacanze estive, Anna cominciò nuovamente a
suonare e a parlare, non come prima in modo continuo, ma usando la parola
per formulare frasi che avessero senso e iniziando a rispondere a domande
che le ponevo su quello che mi raccontava. In un’occasione riuscii a capire che
il corvo nero di cui mi parlava tanto era il protagonista di un film che soleva
guardare spesso. Inoltre iniziò a pronunciare: “… Guarda che io ho il cuore
fragile…” “… Sono fragile…”. Ero forse riuscita a raggiungere in qualche
modo il suo intimo desiderio di essere protetta e salvata? In una delle
riunione d’èquipe l’educatrice di riferimento mi fece notare quanto fosse
cambiato il modo di relazionare di Anna; appariva più rilassata nei rapporti
con gli altri e iniziava ad aspettare il proprio turno per prendere parola.
Dovendo fare un bilancio finale, allo stato attuale delle cose c’è ancora molto
lavoro da fare, ha ancora “ricadute silenziose” e, a volte, non vuole proprio
suonare. Utilizza per pochi secondi il primo strumento che le capita vicino,
per poi abbandonarlo, ma sono contenta di essere riuscita a capire in parte il
suo mondo e di aver accettato il silenzio come mezzo di comunicazione
speciale. In ogni seduta con Anna è come se ascoltassi le note del mio e del
suo silenzio… forse è musica? Dovendo riflettere su tutto il caso, in verità
ritengo che il silenzio sia, per l’appunto, silenzio e diviene positivo solo
quando lo si vuole, ossia quando si ha voglia di rivolgere l’ascolto nei riguardi
di se stessi. Dipende dal valore che gli si dà: da qui dipende la contentezza o
l’assillo che proviamo. Quando nella sala regna quel silenzio che, in fondo, é la
cosa più bella di tutte, l’emozione di chi sta in ascolto si espande e ciò è bello e
veramente importante. Così è per me. Bisogna volere fermamente il silenzio,
anche a prezzo di qualche sacrificio, allora lo si ha. Chi non ha sperimentato
almeno una volta il valore del silenzio non può comprendere come se ne possa
star senza. Tuttavia il silenzio non deve essere unicamente esteriore, come
luogo dove nessuno parli e nessuno si muova. Tutto ciò, infatti, si può
benissimo avere con il rumore nell’animo. Il reale silenzio implica che i
pensieri, i sentimenti e il cuore siano in pace. Il reale silenzio deve dominare
lo spirito e penetrare sempre più nel profondo dell’animo, rispecchiandolo. Se
poi si cerca di creare questo silenzio interiore, s’intravede subito che non è
impresa immediata. Non basta quindi volerlo ma, lo si deve esercitare. Penso
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che il silenzio sia essenzialmente l’altra faccia della medaglia, non solo nella
comunicazione, ma più in generale rappresenta un elemento indispensabile
nella percezione sensoriale poiché, nel silenzio, i sensi si acuiscono
maggiormente. Se è vero che il suono fa parte della vita ed è indispensabile,
esso si oppone con forza al silenzio. Ma è anche vero che quest’ultimo è la
base su cui esso si dispone. Sia le parole sia il silenzio trasportano
informazioni precise, realizzate con l’ausilio della comunicazione non verbale,
vale a dire con quel vasto bagaglio di movimenti, gesti ed espressioni di cui il
corpo umano dispone. La postura, l’atteggiamento e i movimenti integrano il
silenzio con tutta una serie di messaggi secondari. A volte, come nel caso di
Anna, il silenzio rappresenta, una strategia comunicativa che, dal punto di
vista di chi la impiega, comporta una controllo quasi inconscio ed impulsivo,
mentre, dal punto di vista di chi la rileva od osserva, richiede uno sforzo
impegnativo per evitare di mal interpretarla. Penso che il silenzio sia uno
strumento che, se mal gestito e mal controllato, può produrre effetti negativi.
Esso rappresenta una comunicazione nella stessa misura in cui lo è una
discussione animata e, saperla usare nel modo corretto, non è da tutti. Il
silenzio rappresenta quindi, paradossalmente, una grande comunicazione.
Nel silenzio, i nostri sensi sono concentrati su quello che esprime il corpo,
quando fa affiorare l’anima e non la parola. Si può comunicare col nostro
silenzio, quando rispecchiamo col nostro corpo la comunicazione corporea
che l’altro esprime in modo non verbale. Questo ho fatto con Anna e penso mi
abbia aiutato molto nella relazione. Sicuramente sono ancora lontana dal
saper usare bene questo “strumento di comunicazione”, ma credo di aver
acquisito che, a volte, si dicono molte più cose con il silenzio che non in un
mondo inondato da suoni.
Astrid Converso
[email protected]
[1] Padovani A., Bottero E., Pedagogia della musica: orientamenti e proposte
didattiche per la formazione di base, Guerrini e associati, Milano, 2000.
[2] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Converso Astrid
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Postacchini Pier Luigi, Spaccazocchi Maurizio, *MUSICOTERAPIA: Scientifica o
Umana?
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Pubblicato il 17 febbraio 2010
Con questo scritto ci permettiamo di esprimere alcune considerazioni,
maturate nel lungo corso degli anni che ci hanno visti coinvolti come docenti
formatori nel mondo professionale della musicoterapia. I tanti anni di lavoro
nel settore, i costanti interscambi fra docenti e allievi, i tanti testi, articoli e
saggi scritti e letti, i tanti convegni nazionali e internazionali presenziati, le
tante tesi sostenute come relatori e le altrettante criticate come contro
relatori, ci hanno portato a credere che, forse, la “postura” teorico-scientifica,
o meglio ancora sarebbe dire: i vari modelli scientifici che le tante scuole di
musicoterapia italiane e straniere, che le varie teorie scientifiche indicate da
isolati gruppi di lavoro o addirittura da singoli operatori (musicoterapisti e
musicoterapeuti), sono teorie che, crediamo, stiano sempre più rischiando di
apparire altisonanti, appesantite, cariche di un sapere che spesso, invece di
sintonizzarsi con le prassi, si allontana da queste, si trasforma in costrutto
teorico incoerente, in un sapere che molto spesso impoverisce le stesse
pratiche che dovrebbe, logicamente e con coerenza, sostenere. In queste
nostre osservazioni e considerazioni non c’è assolutamente nessuna
intenzione di offendere nessuno (scuole, docenti, operatori, ecc.), c’è solo un
grande e appassionato invito ad una vera e propria importante riflessione
sulla base di questo che crediamo possa essere un principio di base: per
dimostrare valore, ogni vita, come ogni azione quotidiana o professionale,
ha bisogno di praticare coerenza, e la coerenza è visibile in tante cose e
quindi anche nel rapporto fra prassi e teoria. Siamo convinti che questo
rapporto, in musicoterapia, nelle musicoterapie, abbia sempre mostrato un
certo conflitto, poca linearità, quasi a voler far emergere, speriamo
involontariamente, un’azione teorica limitata o a volte forse troppo
ingigantita. Ecco quindi di seguito il nostro pensiero, le nostre riflessioni,
sbagliate o corrette che siano per il lettore.
Il problema
Da anni il mondo della musicoterapia si sta impegnando per disegnarsi
addosso un abito sempre più scientifico. È il bisogno di rivestire le sue tante e
diverse prassi con modelli o criteri scientifici che purtroppo, molto spesso,
non le sono propri e forse nemmeno pertinenti, poiché le sue molte e
variegate pratiche non sempre e non obbligatoriamente riescono a trovarsi in
sintonia con teorie che cercano di contenerle e sostenerle e che, di frequente,
sono riprese o interamente condivise da paradigmi esterni al mondo della
musicoterapia stessa. A volte si potrebbe pure parlare di una vera e propria
condotta schizofrenica fra il fare e il sapere in musicoterapia, in cui il sapere
viene molto spesso indicato come un lineare tracciato teorico collegato alle
prassi, come un leitmotiv è collegato intrinsecamente alla sua opera. No, non
è sempre e nemmeno così evidente! Questa intrinseca relazione fra prassi e
condotta scientifica, si potrebbe esasperare ancor di più se poi si tratta di un
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fare che è davvero intrinseco all’umano, al bisogno umano, alle relazioni
umane che, appunto, proprio perché umane non possiamo pretendere che
siano, di conseguenza, obbligatoriamente scientifiche, cioè nel senso che
comunemente diamo alla parola scienza. E la musicoterapia è una di queste, è
prima di tutto una prassi, una buona prassi almeno giudicando le operatività
più diffuse e note. In breve ci sentiamo di proporre una serie di domande che
mettono in evidenza il problema fra teoria e prassi nell’esperienza in
musicoterapia e che, anche se non troveranno delle vere risposte in questo
scritto, speriamo almeno che possano funzionare come stimolo per un
dibattito, per uno scambio di idee sulle reali possibilità che la terapia musicale
ha di essere o di attribuirsi il valore di pratica scientifica:
 Quanta coerenza esiste fra l’impianto teorico e l’applicazione pratica
della musicoterapia nei suoi vari settori di applicazione (neurologia,
neuropsichiatria, psichiatria, età evolutiva, terza età, gravidanza,
oncologia, malattia terminale, gestione del dolore, ecc.)?
 In termini più specifici, tanto per indicare alcune note scuole, sulla
base di quale criterio scientifico è possibile sostenere il concetto di ISO
musicale benenzoniano?
 Sulla base di quale criterio scientifico è possibile parlare di
musicoterapia creativa nel metodo Nordoff-Robbins?
 La musicoterapia è scientifica come prassi o diventa tale solo sulla
base della formulazione di criteri applicativi che si rifanno più a teorie
che, a volte, non le sono nemmeno proprie?
 La musicoterapia, visto che esiste in modo tangibile come buona
prassi, ha bisogno di scientificità per se stessa o piuttosto perché ha
l’ardire di essere riconosciuta in alcuni ambiti della sfera ufficiale della
medicina?
 E ancora, perché attribuire anche forzatamente un principio di
scientificità quando le prassi in musicoterapia risultano essere
umanamente corrette?
 Se lo scopo della musicoterapia consiste nella ricerca del bene della
persona e se le sue buone prassi sono utili all’uomo, perché spingere il
suo saper fare verso una sapere teorico che di frequente non gli si
addice?
 E infine, ma è così impensabile una musicoterapia che si attesta
semplicemente su un fare e sulla formulazione di un sapere
umanamente corretti?
 Ecc.
Con queste e altre possibili domande che sono semplici per quanto coerenti e
motivate, vorremmo tentare di promuovere una visione delle prassi in
musicoterapia come un insieme di tanti modi di fare che piuttosto di essere
sostenuti da principi teorico-scientifici “forzati” o “imposti”, siano sorretti da
una corretta applicazione secondo i più comuni criteri di umanità, secondo i
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più semplici ed onesti mezzi e modi che la conoscenza, rac-colta dal cumulo di
prassi, mette a disposizione dell’operatore, sia esso musicoterapista o
musicoterapeuta. In altri termini, se la scienza si avvale di una forte credenza
dei principi generali di un determinato campo del sapere, la prassi in
musicoterapia si avvale della sua esperienza, della sua conoscenza, del suo
stile relazionale, della applicazione di uno stretto rapporto fra qualitàquantità della materia sonoro-musicale e qualità-quantità dello specifico e
ben determinato bisogno umano. La correttezza applicativa del fare in
musicoterapia non ha bisogno di una teoria forzata, quanto piuttosto di una
costante com-prensione e re-visione del rapporto fra il cliente, il terapeuta e il
mezzo sonoro-musicale utile in quella sola, unica e umana relazione.
È umano
È un bisogno dell’uomo tentare di tradurre in criteri logici, in pensieri
coerenti le proprie esperienze, le proprie pratiche, il proprio saper fare in
sapere più o meno teorizzabile, definibile come un ragionato insieme di
espressioni che possano dimostrare un’avvenuta riflessione, una accurata
meditazione, un’attenta analisi utile per valutare quanto e come quel fare sia o
no passato attraverso il filtro del dire, del definire, del com-prendere. È insito
in ogni uomo, in ogni cultura, il passaggio o meglio ancora la traduzione di
una condotta del fare in condotta del capire, sintetica, riflessiva,
raccoglitrice, analitica, modellatrice, che a diversi gradi, quantitativi e
qualitativi, può anche definirsi pensiero teorico, corpus teorico.
Metodo scientifico VS Buone prassi
Crediamo però che ci siano dei distinguo da fare tra il bisogno di riflettere e di
sintetizzare in scientia (termine latino per dire conoscenza) e il brutto
costume di applicare anche a buone prassi l’etichetta di metodologie
scientifiche, di paradigmi scientifici che avrebbero il compito di sostenere il
valore di prassi e che, essendo già buone prassi, non avrebbero proprio alcun
bisogno di essere marchiate come azioni scientificamente corrette. Senza
addentrarci negli studi sulla scientificità della scienza (es. quelli di Thomas
Kuhn[1] ed altri) che ci confermerebbero, tanto per citare qualche aspetto:
 la labilità stessa del paradigma come concetto di base,
 la forte credenza di una comunità in una matrice disciplinare che non
sempre può definirsi storicamente e geograficamente scientifica,
 gli strumenti e mezzi scientifici da utilizzare,
 i principi filosofici e metodologici,
 ecc;
possiamo dire che esistono delle pratiche umane che, proprio perché umane,
vivono della loro pertinente caratteristica: unicità, varietà di bisogni, di
modalità, di mezzi e di modi di fare e che, proprio per questa natura umana,
non possono affidarsi ad una metodologia unica, standardizzata, ripetibile in
più occasioni, quasi come una ricetta medica o, se vogliamo, di cucina. Infatti,
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tanto per fare un esempio banale, la stessa aspirina non fa gli stessi effetti a
due diverse persone che accusano lo stesso male, come la stessa ricetta di
cucina preparata in due diverse case non offre lo stesso identico risultato sia
in termini di gusto che in termini di appagamento della fame a due persone se
pur ugualmente affamate. Alcune volte abbiamo la netta impressione che certi
principi metodologici applicati dalle tante scuole di musicoterapia siano quasi
più scorretti e meno coerenti delle tante culture sciamaniche che da secoli
hanno applicato la musica per curare i loro simili in stato di sofferenza. Se si
pensa che la parola sciamano deriva dal tunguso-mancese (Russia, lago
Bajkal) saman, originata dal verbo sa (che vuol dire sapere come nel francese
savoir, nello spagnolo saber) e che dunque ci si affida ad una antica
conoscenza o scientia, ci viene da pensare che a volte la musicoterapia non
voglia avvalersi proprio del suo sapere, di una sua conoscenza motivata da
buone prassi e che, al contrario, preferisca appellarsi a saperi extra, purché
ritenuti o creduti come forti principi metodologico-scientifici. E inoltre giusto
sapere che pure le parole inglesi witch e wizard (strega, stregone e maga,
mago) derivano da una radice indoeuropea che significa vedere o sapere (che
ritroviamo anche nel latino videre, nel tedesco wissen che vuol dire sapere) e
che dunque alla base di queste pratiche popolari si intravedeva il senso di
saggezza, di pratica condotta da un uomo saggio, da una donna saggia. Che la
musicoterapia manchi di saggezza, in questo non affidarsi alla formulazione
di teorie e conoscenze proprie? Che la musicoterapia abbia forse paura delle
sue conoscenze acquisite negli anni? Che ci sia forse, da parte della
musicoterapia, il timore di affidarsi alle proprie conoscenze acquisite dal
momento che si appella alla credenza scientifica? Leo Rutheford definisce lo
sciamanesimo come un sistema di non credenze che si avvale della profondità
della valorizzazione della conoscenza acquisita nel superamento delle prove:
“La conoscenza funziona, supera le prove e resiste al tempo, si rivela
dall’interno, diversamente dalle credenze che si acquisiscono dall’esterno,
dagli altri. Le guerre si combattono per affermare credenze, dogmi e
dottrine, mai per la conoscenza.” [2] Perché allora non dare più fiducia alle
proprie conoscenze, perché non modellizzare[3] le proprie prassi, perché non
credere alle buone prassi che maturano nel tempo e con il tempo, piuttosto
che “ammalare” il proprio fare con credenze scientifiche non proprie, con
l’applicazione di criteri teorici che molto spesso non sono in sintonia con
quello che ha di per sé una scientia, ovvero una conoscenza che si preferisce
occultare piuttosto che farla emergere nella più sincera, onesta e umana
chiarezza?
Alla ricerca forzata di un paradigma
Una cosa è riflettere nel tentativo di ordinare al meglio le proprie prassi, e
un’altra è forzare il proprio saper fare per costringerlo ad incanalarsi dentro
un paradigma scientifico che ben poco ha in comune con quelle prassi e che,
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di conseguenza, si dà forma ad una falsa relazione che sta in piedi solo nella
mente di chi l’ha promossa o all’interno del gruppo dei “credenti”. Questa
falsa relazione, nel momento in cui si attesta come base teorico-scientifica,
marchia l’operatore musicale terapeutico di un falso saper essere che può
quindi rendere critica e criticabile la sua stessa figura professionale globale.
Nella nostra cultura occidentale europea sembra manifestarsi, sempre con
più frequenza, un vizio che potremmo definire con il termine di patologia
della mentalità scientifica: tutto quello che si pratica ha ragion d’essere solo
se si appoggia ad un modello scientifico pre-costituito, che funzioni come un
vero e proprio sostegno teorico, pensiero giustificante di un determinato
insieme di prassi, comportamenti, osservazioni, relazioni, redazioni, mezzi,
materiali, setting, ecc. È anche vero, purtroppo, che sembrano “vendersi”
meglio le proprie prassi all’interno di un pacchetto teorico-scientifico che, più
di altri, si avvale di una forte credenza da parte di una determinata comunità
o del gruppo di addetti ai lavori.[4] Come è altrettanto vero che ogni forma di
prassi, ha bisogno di tradursi pure in una riflessione, in un pensiero che tenta
di ordinare, almeno coerentemente e con dignità umana, un modello
comportamentale, un insieme di mezzi e di materiali, uno stile operativo e
relazionale, ecc. Quindi tentare di raccogliere in criteri onesti e lineari il
nostro fare è cosa utile purché non sia azione forzata, costretta, che serva solo
a “vestire” chissà di quale scientificità ciò che umanamente avrebbe
comunque lo stesso valore, senza per altro “sporcarsi” di teorie e paradigmi
inutili, poco coerenti e corretti, dunque dis-umani. Una cosa è cercare di
rendere sempre più corrette le nostre prassi e un’altra cosa ancora è
“colorare” il nostro fare con assunti teorici, con finte coerenze che non
provengono, non emergono realmente dal nostro reale operato. Secondo noi
ogni scuola di musicoterapia, oggi che è ancora in tempo, dovrebbe rileggere
con assoluta libertà e semplicità d’animo, i suoi basamenti teorici, le sue
modellizzazioni, le sue teorizzazioni e chiedersi davvero, a mente sgombra e
non colta da “falsa credenza”, quanto la sua “architettura teorizzante” sia in
accordo con le sue prassi. Indossare abiti che non sono stati tagliati su
misura, anche se questi sono belli e ricchi, è comunque mostrarsi per quelli
che non siamo. E se a volte il corpus, il saper fare risulta povero non lo è
perché è povera la sua prassi, ma perché lo impoverisce il suo abbigliamento
teorico, quell’aurea che “colora” troppo ma che, nello stesso istante, “sporca”
pure troppo la coerenza, l’umana sanità mentale che deve intercorrere fra il
sapere teorico e il fare pratico. È questo il momento, crediamo, anche
coraggioso ma altrettanto bello e liberatorio, per “scrollarsi” di tutti gli
apparati teorici e metodologici che non sono palesemente in accordo con la
nostre prassi in musicoterapia. È questo il momento di far “evaporare” quel
pro-fumo teorico che rischia di far “puzzare”, nel tempo, la credibilità di una
professione così difficile per quanto così umana (il nostro saper essere). È
questo il momento di darsi una teoria, se pur semplice, se pur elementare, ma
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corretta, in sintonia, dedotta veramente dal fare e non dalle più ufficiali scuole
di credenza e nemmeno da teorie esterne che possono sostenere un angolo o
un sol punto di una ben più articolata pratica musicale terapeutica.
Continuare a “sporcare” le prassi musicoterapeutiche con teorie improprie,
con modellizzazioni iper-articolate, con schemi osservativi iper-minuziosi (su
tematiche a volte marginali), con teorie o analisi del sonoro-musicale a volte
banali e altre volte cariche di astruse e inutili complessità, ecc…, significa
continuare a dare una idea irreale e impropria delle professionalità in
musicoterapia, a mostrare incoerenze che prima o poi, come un boomerang, si
rivolgeranno contro il mondo musicale terapeutico. La correttezza, la sanità
professionale e mentale di una scuola (intesa sia come mentalità che come
una vera e propria istituzione di formazione) si reggono sulla coerenza, sulla
sincerità, e quindi, anche inevitabilmente, sulla giusta e interconnessa
relazione fra prassi e teoria.
Scientia descendit in mores
Se è vero il detto latino che dice: la conoscenza si traduce in consuetudini e
che ora possiamo anche riformulare con il pensiero si manifesta attraverso i
suoi prodotti, attraverso le sue prassi, è dunque altrettanto vero che le
prassi, i prodotti del fare umano contengono un pensiero, sono espressioni
di conoscenza. Una conoscenza che a volte, alcuni non sanno estrarre, ma che
di fatto è lì presente, implicita, da esternare. Ecco allora perché un insieme di
comportamenti non può venir giustificato attraverso una forzatura teorica,
attraverso una costrizione che impone di interpretare un determinato saper
fare come prassi sostenuta da un modello scientifico precostituito. Ogni
pratica, ogni condotta attiva, se analizzata con coerenza e pulizia mentale,
nasconde i suoi principi, i suoi criteri, le sue metodiche, la sua ragion d’essere.
E una volta analizzata una prassi, e giunti pure ad una sua definizione di
scientia (di conoscenza), non per ciò, abbiamo il diritto o l’obbligo di definirla
come condotta che può avvalersi del marchio di scientificità. Quindi
superando la patologia della mentalità scientifica, anche se non abbiamo
l’obbligo di definire il nostro fare un fare scientifico, sapremo comunque con
sicurezza di essere, sul piano professionale, molto più corretti nel nominare
quel fare per quello che è, e cioè: quell’insieme di prassi che, nella loro
applicazione, permette di ottenere un determinato risultato, in quel
determinato contesto e con quei determinati soggetti. Poi, come abbiamo già
detto, se si tratta di una prassi che lavora con la diversità, che è tra l’altro
insita nell’uomo e tanto più nell’uomo diversamente abile, se si lavora con una
materia aperta e vibrante come il suono e la musica, se si opera sulla base di
prassi musicali che possono mutare di soggetto in soggetto a seconda delle
sue dot-azioni, si comprende pure come una veste di rigida scientificità possa
addirittura risultare umanamente e logicamente “antiscientifica”.
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Musicoterapia umanamente corretta
È dunque umano ed è corretto cercare di interpretare il proprio fare, le
proprie condotte, ma è altrettanto disumano e scorretto volerle “vendere” per
quelle che non sono. Le buone prassi sono efficaci e giuste anche senza quel
patologico marchio di falsa scientificità, impressa come una griffe sull’habitus
professionale che indossiamo. Intendendo per habitus, l’habĕo, cioè quello
che è stato da noi acquisito grazie all’esperienza. Da tutto ciò possiamo e
vogliamo sperare che il rapporto fra il buon saper fare e buon saper essere
della professionalità terapeutica possa, prima possibile, ri-formarsi con
coscienza, dal latino conscièntia, formato da cum e scìre che significano
essere consapevoli, cònsci. Si tratta di avere coscienza, di affrontare il
rapporto prassi-teoria con una forte presa di coscienza e di conoscenza, che
poi si traduce in quella reale consapevolezza di ciò che stiamo facendo, di ciò
che sta avvenendo in noi e negli altri. La musicoterapia non ha alcun bisogno
di appellarsi a scuole di scienza tout-court, ma ai tratti pertinenti di una conscièntia, cosciente e consapevole, dunque logica e coerente. La terapia
musicale non può far altro che affidarsi a quel cognòscere che permette di far
emergere dall’esperienza cosciente la dote di selezione del bene e del male, del
giusto e dell’ingiusto, del sano e dell’insano, del fare e del dire. Non può
esistere al mondo una terapia musicale che si affida ad una cultura che vuol
rendersi occulta, tendente cioè ad occùlere, a sottrarre con un velo agli occhi
altrui, a nascondere! Un incoerente rapporto fra prassi e teoria porta, nel
tempo e inevitabilmente, ad occultare la stessa coscienza professionale degli
operatori, dei formatori, rendendoli in-coscienti, i-gnari, mancanti di quella
consapevolezza che invece richiede una umana professione come quella di cui
stiamo trattando. È un obbligo di tutte le figure professionali di questo
settore: fare in modo che la musicoterapia non sia ignobile (dal lat. in
privativo e gnòbilem, nòbilem, conosciuto e nobile) e che quindi s’avvicini
sempre più ad acquisire una nobile conoscenza, cioè ad assumere quella
consapevolezza e quella coscienza che possono renderla sempre più coerente,
più logica, più sana, quindi più gnòbile e nobile. Ecco perché è giusto
scendere dal piedistallo di una falsa o pesante scientificità, per salire su
quello, ancora più alto, di una corretta umanità.
Pier Luigi Postacchini, Maurizio Spaccazocchi
*Contributo pubblicato in:
http://www.progettisonori.it/spaccazocchi/Musicoterapia/index.htm
[1] Cfr. Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino,
1999; Le rivoluzioni scientifiche, Il Mulino, Bologna, 2008, ecc.
[2] Rutheford L., Sciamanesimo, Ed. Armenia, Milano, 1996, p. 16.
[3] Noto fu il tentativo di modelizzazione svolto da Mauro Scardovelli sulle
prassi della musicoterapeuti Giulia Cremaschi, le cui prime riflessioni sono
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presenti in Scardovelli M., Il dialogo sonoro, Cappelli, Bologna, 1992, pp. 125136.
[4] In questi casi, quando la credenza è solo forte credenza senza rapporti con
una buona prassi, la distinzione fra musicoterapia e setta musicoterapeutica è
davvero labile.
Con tag Riferimenti teorici di musicoterapia, Postacchini Pier Luigi, Spaccazocchi
Maurizio
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Delogu Chiara, Michele predilige la zeta
Pubblicato il 13 febbraio 2010
Michele[1] predilige le parole che vibrano con la “z”.
La “z” rientra nel gruppo delle consonanti fricative alveolari sonore, ciò, da un
punto di vista puramente articolatorio, significa che l’aria deve passare
attraverso una fessura piuttosto stretta producendo una certa ‘frizione’.
Sono consonanti che si possono prolungare nel tempo e per questo si
chiamano anche ‘continue’.
La qualità alveolare, invece, descrive la posizione della lingua che si avvicina
appunto agli alveoli.
Mi domando come e cosa questo suono in particolare possa suscitare in
Michele.
Siamo entrati più in confidenza. Spesso Michele mi dice “t’ammazzo” “pazzo”
“puzzo” “pizza”. È attratto dalle “z”. Comincia ad articolare meglio le parole.
Si fa strada nella comunicazione verbale. Non è più così interessato al
sottofondo sonoro. Sembra più attivo, più vispo, più felice, meno
addormentato. Canta, cerca di parlare. Si è instaurato tra noi il ‘dialogo-gioco
sulle puzze’. Mi annuso e annuso alcuni oggetti: lui ride, di gusto.
Il suo divertimento lo porta a trovare un mediatore sonoro che è direttamente
il suo corpo.
Michele è consapevole del ritmo, è molto attento, riesce ad articolare bene le
cellule ritmiche e le contestualizza nel metro. Ma non riesce ad applicarle nel
parlato.
Si vergogna?
Abbassa lo sguardo, cambia direzione. Evita il confronto. Perché?
Perché non parla?
Cosa lo trattiene?
Perché conosce il turpiloquio e invece il bel parlare non lo stimola affatto?
Nell’ultimo ciclo di sedute (18-27) sceglie, decide cosa fare, come fare.
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Sono piena di interrogativi irrisolti: cosa lo spinge a emettere suoni e rumori
con il suo corpo?
È il primordiale che risuona in lui?
Non è forse anche questa una musica?
Non sono forse le nostre prime musiche che ci accompagnano sin dalla
gestazione?
I gorgoglii, il battito del cuore, i movimenti tellurici dell’intestino, la vita.
Sin dalle prime sedute Michele esprime questa particolare attenzione per la
consonante “Z” messa in relazione con le puzze da lui prodotte.
A volte questi peti sono sonori, soprattutto quando è felice, mentre se sono
reiterati diventano sibilanti e infine sordi.
Difficoltosi. Si sforza, diventa paonazzo. E non smette fino a quando non si è
liberato. A volte sono addirittura immaginari e sono quelli che lo divertono
meno.
Mi mostra il suo ventre, quello che c’è dentro.
Solleva la maglietta.
Si avvicina e indica la mia pancia.
Mi invita a seguire questo ‘modus musicandi’.
Michele durante tutte le nostre ventisette sedute ha trovato il modo di trovarsi
sempre a contatto del mobile dove è posto il lettore CD. Mi sono sempre
domandata il perché di questo interesse.
Un giorno, spinta dalla curiosità, mi sono seduta accanto a lui e finalmente ho
capito: le vibrazioni della musica toccavano tutto il mio corpo. Lo stesso
mobile diventava un mediatore del suono.
Leggendo l’affascinate libro di Ginger Clarkson[2], ho scoperto che una delle
pazienti della musicoterapeuta provava piacere stando vicina al registratore,
perché sentiva gli strumenti vicini.
Il corpo fragile, nervoso e magrissimo di Michele si rilassa a contatto del
mobile dove è poggiato il lettore CD.
Così il mio tentare di portare l’attenzione di Michele verso i mediatori sonoromusicali da lui scelti (una conga, un piatto, due maracas) era forse già
avvenuta, inserendo le musiche preferite nel lettore CD, che è diventato parte
integrante della seduta.
Michele mi regala qualcosa che ha dentro di sé, che è dentro di sé, che gli
appartiene. E forse consciamente o inconsciamente sa che posso conoscere.
Perché ne ho esperienza.
Anche io vivo con i miei linguaggi del corpo.
Convivo con i miei battiti.
Dove finisco io e dove inizia il mio cuore?
Non c’è confine.
E se i suoi rifiuti, i suoi dentro fossero metafore di ciò che vive emotivamente?
O forse mi piace pensare che questa è una lettura poetica di qualcosa che è
all’ordine del giorno, della quotidianità di tutti noi esseri viventi?
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Ma la vita non è forse poesia?
Mi chiedo se questo linguaggio sia così diverso e scontato. Non esistono
differenze anche nell’emissione di un rutto, di un peto, e non è differente a
seconda di ciò che si pensa, di chi ci sta ascoltando, di chi pensiamo non
ascolti?
E Michele cosa mi vuole comunicare?
Felicità?
Tensione?
Ansia?
Ma in questo gioco di risate, di condivisione, di ilarità c’è un messaggio per
me: un messaggio che parla di semplicità, di purezza, di gioco, di unione.
Chi ha deciso che quelli non sono suoni? L’uomo con i suoi dogmi.
Esiste un dentro colmo di immagini sonore che abbiamo raccolto e
raccogliamo durante la nostra esistenza e che ci dimentichiamo di
assecondare e di ascoltare, come spesso capita con le emozioni… emo-azioni:
azioni che ci portano verso qualcosa, qualcuno. Forse che quel qualcosa che
tanto cerchiamo fuori non sia già dentro di noi e reclami di uscire con tutta
allegria e semplicità? Che l’insegnamento di Michele sia quello di liberarsi,
ascoltarsi, viversi senza giudizi? Chi ha deciso che ciò che produciamo
dall’interno è così sconveniente? Ma non è forse naturale? E allora che
bisogno ha di essere nascosto? Che esca e si liberi e ci liberi. In fondo
liberandoci facciamo posto ad altro nella ruota della vita che conserva il suo
significato più bello: tutto scorre (panta rei).
Le mie percezioni allora cambiano: un altro regalo di Michele è quello di
vivere sinceramente le mie puzze. Espressione del mio interno che si
manifesta nell’esterno.
Un simbolo ne è il derivato.
Che è anche il mio punto di arrivo e di partenza. Mettere insieme il mio
dentro con il mio fuori. La parola d’ordine diventa accettare.
Tutti cerchiamo di fondere il corpo con l’evento musicale e se fosse il
contrario?
Cioè desiderare di fondere il musicale che c’è in noi?
Il piacere di vibrare con tutto il corpo.
E se l’essere umano tendesse a musicare ciò che sente dentro e la musica non
fosse altro che la traduzione di movimenti interni dei pensieri e degli organi?
E gli organi non sono altro che i pensieri in forma di prosa e la loro musica
poesia?
La musica come estensione del divino che permea l’umano, per ricordarci la
connessione con un tutto più grande, infinito.
Se i bimbi desiderano fin da piccoli incorporare gli oggetti, per conoscerli,
forse che Michele fa fuoriuscire per farsi conoscere? Se l’incorporazione fosse
un modo per trasferire conoscenza, forse la de-corporazione diventa
altrettanto nobile per far emergere il proprio io. Se mangiamo i suoni, perché
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non potremmo anche defecarli? Renderli qualcosa di aereo o liquido o
corposo, materico, provandone un immenso piacere. Perché il processo è
quello dell’attraversamento all’interno del nostro sé. Che attraversi per
fuoriuscire o per entrare, sempre attraverso è.
E se la paziente autistica di Ginger Clarkson [3] afferma che gli starnuti fanno
fuoriuscire i sentimenti tristi, i peti non potrebbero assumere lo stesso senso
catartico? Lo stesso desiderio di far uscire sentimenti pesanti o fastidiosi
potrebbe essere la spiegazione di quei sonori, sordi, fruscianti e difficoltosi
peti.
I suoni possono acquisire valenze simboliche dalla loro connessione con la
gestualità fonatoria e con la mimica articolatoria.
Il campo privilegiato della manifestazione del fonosimbolismo è quello delle
esperienze sensoriali. Il simbolismo fisionomico si appoggia costantemente su
quello sinestesico, utilizzando processi di trasformazione metaforica o
sintomatica.
I suoni prelinguistici hanno sempre valenze espressive, valenze che
generalmente perdono, una volta inseriti nel sistema linguistico, che ha
adottato il principio dell’arbitrarietà, ma che sono pronte ad emergere quando
il significato e la funzione della parola lo consentono.
Anche il singolo fonema è una costellazione di tratti e il privilegiamento
dell’uno o dell’altro può dar luogo ad esiti espressivi differenti e talvolta
opposti.
Ciò che caratterizza il fonosimbolismo è il modo di funzionamento. Sia esso a
servizio dell’espressione emotiva o della denotazione o conazione. Il
fonosimbolismo si identifica per il ricorso al modo analogico di utilizzare il
mezzo linguistico rispetto a quello digitale o arbitrario.
Dumas[4] ha esaminato quali mutamenti le varie emozioni provocano nella
voce umana, mostrando come esse influiscano sul volume, sull’altezza,
sull’allungamento o accorciamento dei suoni, sulla posizione degli accenti.
Trojan[5] classifica le varie forme di emozione con due principali tipi di
funzioni organistiche: “ergotrope”, attività rivolte verso l’esterno,
“trofotrope”, connesse con il riposo, il godimento e la rigenerazione delle
energie. A questi tipi di funzioni sono associate tonalità emotive diverse.
Gli indicatori acustico-articolatori del contenuto emotivo che ci interessano
sono:
 pressione espiatoria e tensione della muscolatura articolatoria.
 le vocali vengono accorciate e le consonanti allungate, l’intonazione
assume l’andamento dello staccato, cioè durezza e aggressività rivolta
all’esterno;
 il registro di petto appare legato all’autoaffermazione, all’imposizione, al
dominio sull’altro;
 quando la qualità di fiato è elevata segnala una forte eccitazione
psichica nel parlante o il suo essere sopraffatto dall’emozione.
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I sentimenti ostili possono tradursi in manifestazioni in forma più sottile,
tagliente, punzecchiante.
Il disgusto, la ripugnanza, il ribrezzo, appaiono modellati sui tipici gesti
eversivi e sulle mimiche espressive che accompagnano la percezione di odori e
sapori cattivi.
C’è riferimento all’attività olfattiva (rifiuto di ciò che puzza, che è
maleodorante) e a quella gustativa (rifiuto di ciò che ha cattivo sapore).
Un ulteriore gesto mimico nel quale trovano espressione i vissuti negativi di
rifiuto, condanna, insofferenza, disprezzo è quello consistente nell’espulsione
del fiato, come nelle onomatopee “uffa”, “fu”.
Tale gesto può esprimere simbolicamente un atto aggressivo.
Soffiare addosso all’oggetto del disprezzo, può essere letto come desiderio di
proiettare all’esterno un contenuto interno penoso e rifiutato. E nel viaggio
con Michele gli sbuffi sono stati oggetto di quotidiani incontri, la sua tensione
nel petto, il suo percuotere fortemente con il battente sulla conga,
accompagnando il ritmo con un urlo che viene dalla gola e dal petto.
Nel dantesco canto XXI tutto diventa carne, sangue, sofferenza, materia, tatto
e odore, voglia di scappare, pericolo fisicamente incombente. Un esempio
assoluto di traduzione in termini poetici di ciò che ci spaventa ed è
sgradevole.
Dante ha paura, Virgilio appare più tranquillo, tende a fidarsi.
I lessi dolentici riportano all’immagine dei cuochi, brutale e triviale
immagine. Preludio del più sconcio segnale di partenza che sia possibile
udire. Preparato dalla lingua stretta tra i denti dei diavoli a simulare il rumore
del peto. Poi nessuna simulazione, peto vero.
Michele, come Dante, vive il suo personale inferno puzzolente e lo esprime
con i suoni duri della “z” e con sonori peti diabolici, che dividono ciò che è da
scartare, per armonizzare, forse, un caos interiore.
Chiara Delogu
[email protected]
[1] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[2] Ginger Clarkson, (1998), Ho sognato di essere normale, Cittadella editrice
Assisi, p. 100.
[3] Ginger Clarkson, (1998), Ho sognato di essere normale, Cittadella editrice
Assisi, p. 138.
[4] Dumas, La vie affective, Presses Universitaires de France, Paris 1948.
[5] Trojan, Der ausdruuck von stimme und sprache. Eine phonestische
laustilistik, Verlag W. Maudrich, Wien 1948.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Delogu Chiara
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Converso Astrid, Emozioni vissute e condivise nel tempo dell’incontro con Marcello
Pubblicato il 9 febbraio 2010
Nonostante che all’apparenza sembrasse una persona gentile e sorridente,
Marcello[1] non si lasciava avvicinare da nessuno.
Per tutto il primo ciclo dei trattamenti musicoterapici (un anno), Marcello si
manteneva lontano dagli strumenti e da me in modo tale che non lo potessi
toccare nemmeno accidentalmente.
Se durante i trattamenti lo sfioravo casualmente, lui immediatamente si
ritraeva, si girava dall’altra parte o si allontanava dalla sedia, come se volesse
scappare.
Suonava alcuni strumenti musicali, variandoli in continuazione, scegliendo
ora i tamburi, ora i sonagli con anelli, oppure percuoteva le piastre dello
xilofono.
Gli strumenti li prendeva con una tale rapidità che a fatica riuscivo a
osservare il suo spostamento.
Non mi guardava mai in volto.
Se provavo a guardarlo alzava gli occhi al cielo sbuffando, ridendo,
guardandomi di sbieco come per farmi capire che non era pronto, non in quel
momento.
Probabilmente il contatto visivo, per lui, era ancora troppo intenso.
Chiaramente mi sentivo angosciata per il suo comportamento, non riuscivo ad
entrare nel suo “guscio”.
Se stavamo suonando o ascoltando musica, o “accompagnando” un brano
musicale che avevo deciso di far ascoltare, Marcello interrompeva
continuamente l’attività, parlando di tutt’altro, raccontandomi cosa aveva
mangiato a pranzo o dove doveva andare al termine della giornata
“comunitaria”.
Io non sapevo che fare.
Mi sembrava, “tutto”, una grande perdita di tempo.
Marcello era fin troppo loquace.
Ero sempre più in allerta, ormai era passato un anno e la situazione non
accennava a migliorare, sentivo il mio lavoro un completo fallimento, e più
continuavano queste sedute di “vuoto terapeutico e vuoto musicale”, più il
tempo con lui diventava insostenibile, e mi ritrovavo a guardare l’orologio
ogni dieci minuti.
Non ero ancora riuscita a “comprenderlo”, c’erano molti aspetti di lui che mi
erano oscuri.
Sapevo che in lui c’era molto, ma non sapevo qualitativamente determinarlo.
Non c’era nessuna “scintilla d’intesa”, nessuna “lampadina accesa”.
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Se non c’era la musica come supporto, iniziava a parlare incessantemente, di
tutto ciò che aveva fatto; che faceva e che avrebbe fatto nel corso della
giornata.
Anche se c’era musica agiva in uguale maniera, ma la frequenza dell’eloquio si
riduceva.
Talvolta, con il capo chino, percuoteva due tamburi, suonandoli con tanta
veemenza che avevo timore che si facesse male.
Non riuscivo a farlo smettere nemmeno, catturandolo con il suono di qualche
strumento.
Mi sentivo inadeguata.
Ero arrivata alla conclusione che sicuramente alla base del mio intervento ci
fosse qualcosa che non andava.
Sapevo che Marcello aveva una sua musica preferita, un cantautore preferito,
ma lui non se lo ricordava.
Tramite la psicologa, chiesi alla famiglia, non molto collaborante,
informazioni inerenti i gusti musicali di Marcello.
Dopo un interminabile tempo ottenni ciò che per me in seguito si trasformò in
“oro colato” .
A Marcello piaceva moltissimo Adriano Celentano, ma non sapevo quale fosse
la sua canzone preferita.
Provai subito a proporgli numerosi ascolti e vidi subito che il suo interesse
iniziò a mutare, a crescere.
Mi guardava in modo differente, come se avessi trovato la prima di una lunga
serie di “serrature d’accesso” per mettermi in comunicazione con lui.
Tutto questo non bastava, finiva la canzone, e lui tornava nel suo stato di
ombrosa diffidenza.
Pensavo che fosse tutto tempo sprecato, lui non collaborava, io non riuscivo,
se non attraverso minime cose, ad entrare in contatto con lui.
Non mi sentivo all’altezza del compito, l’attesa era snervante, soprattutto nei
confronti del personale comunitario.
In sede d’équipe ogni volta che si presentava il “caso” clinico di Marcello, mi
sentivo a disagio, potevo dire che da quando avevo iniziato era rimasto tutto
immutato?
Che non ero riuscita ad aprire una “piccola breccia” nella sua dura corazza?
Che dopo tutto questo tempo non si riscontrava nessun tipo di risultato?
Nel frattempo continuavo a provare con innumerevoli proposte musicali
inerenti Celentano, fino a quando trovai la fatidica canzone: il brano che
avrebbe cambiato il processo musicoterapico: “Quello che non ti ho detto mai”
(di Celentano A., Mogol e Bella G.).
Durante l’audizione, per la prima volta, Marcello iniziò a canticchiare
qualcosa guardandomi negli occhi.
Furono piccoli, brevi momenti, ma molto intensi.
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La cosa che mi incuriosì più di tutte fu il testo, così particolare e anche
leggermente ambiguo.
Nella canzone si parla dell’amore tra un uomo e una donna, certo, ma quando
la cantava Marcello, sembrava che la cantasse al fratello morto.
Così, per la prima volta si confidò e mi parlò di suo fratello; di come era morto
e di quando sarebbe andato al cimitero con la madre a trovarlo.
Rimasi allibita, Marcello si stava confidando con me?
“Avevo il cuore che batteva a mille”.
Non solo, ma Marcello aveva paura.
In particolare era terrorizzato che il tempo potesse scorrere inesorabilmente,
giungendo verso la morte.
Ogni volta che si avvicina il suo compleanno manifestava uno stato di
profondo malessere: si incupiva e ripeteva incessantemente, quasi fosse una
stereotipia: “… sono vecchio… il tempo passa, … arriverà la morte… tutti
invecchiano prima o poi vero?”
Prima non c’era alcun modo di rassicurarlo.
Lentamente, con dolcezza e pazienza, sono riuscita a stabilire anche un
minino dialogo dove riuscivamo a parlare non solo del fratello, ma anche di
altre tematiche a lui particolarmente care e, in particolare, il tempo e la
morte.
Sono riuscita a rassicurarlo e penso che mi abbia ascoltato poiché le sedute
successive si prospettarono in modo molto diverso.
Non si alzava continuamente per raggiungere la finestra, ma rimaneva più
vicino a me senza allontanarsi di scatto e usava gli strumenti in maniera
costruttiva.
La paura di invecchiare era sempre presente, ma in modo maggiormente più
contenuto.
In una incontro d’équipe, la psicologa manifestò la sua soddisfazione,
rivelando come le sedute di musicoterapia fossero state d’aiuto a Marcello.
Era nota a tutti l’irruenza di Marcello, ma da quando aveva iniziato il
trattamento con me la sua aggressività era diminuita.
La Psicologa mi disse che aveva notato che Marcello aveva imparato a
riversare la sua collera non più sulle persone, ma sugli oggetti.
Al riguardo, la collega raccontò un episodio da lei vissuto in prima persona.
In uno scatto d’ira, Marcello aveva cercato di colpire la psicologa e alcuni
ragazzi della comunità, ma, all’ultimo momento, scaricò la sua collera
colpendo gli armadietti.
Il fatto in sé poteva essere letto come un episodio accidentale, ma il fatto
eccezionale e “nuovo” era la canalizzazione della scarica aggressiva di
Marcello.
Mi venne subito in mente l’attività che avevo cercato di fare con lui.
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Suonavamo tamburi, bonghi e cembali, cercando, quando Marcello li
percuoteva, di imitare la sua forza, per poi incanalarla e riportarla da un
livello meno intenso.
Quindi tutto questo tempo non era andato perso?
Quindi in tutto questo tempo lui mi aveva seguito?
Io avevo avuto forse troppa poca pazienza; non avevo saputo aspettare i suoi
tempi?
Doveva essere andata così, perché nonostante fossi poco paziente e l’attesa
ogni volta era pesante da sopportare, non mi sono mai stancata di stargli
vicino, ho sempre cercato di dare il massimo, e non mi sono mai arresa.
Le sedute finirono poco prima della pausa estiva e, all’ultimo incontro,
Marcello mi fece un regalo davvero prezioso, che mi lasciò senza parole… una
cosa che penso non facesse da molto tempo soprattutto nell’ambiente della
comunità…:
mi abbracciò.
Riflettendo sul mio percorso a fianco di Marcello, mi sono giunti in mente i
mille dubbi, i mille interrogativi sul tempo, sull’ attesa e sulla pazienza.
La percezione che abbiamo del tempo determina profondamente il nostro
modo di agire.
A volte si percepisce il passare del tempo come più rapido per cui "il tempo
vola", significando che la durata appare inferiore a quanto è in realtà; al
contrario accade anche di percepire il passare del tempo come più lento "non
finisce mai".
Il primo caso viene associato a situazioni piacevoli, o di grande occupazione,
mentre il secondo si applica a situazioni meno interessanti o di attesa (noia),
quest’ultimo mi ricorda molto il mio incessante guardare l’orologio per
constatare la fine dell’incontro.
A volte avvertiamo in modo più o meno rapido il passaggio del tempo, ma il
tempo non può essere toccato, e ovviamente non emette né suoni né odori.
Del tempo si può parlare in molti modi, il tempo ci trasforma continuamente.
Mutano le nostre fattezze e anche dentro di noi avvengono continui
cambiamenti.
Forse la vera saggezza sta nel porsi dalla parte del bisogno, che muta di
continuo, cercando di risolverlo in modo adeguato alle esigenze umane,
dando per scontato che ad ogni bisogno risolto se ne porrà un altro.
In tal senso il tempo che bisogna vivere è solo il presente.
È proprio nel “qui” ed “ora”, nel “presente”, dell’incontro musicoterapico che
vivevamo, nella lunga fase iniziale, la nostra dimensione temporale.
Paradossalmente, io e Marcello eravamo intenti a cercare il nostro tempo: “…
la forma del senso interno, ossia l'intuizione di noi stessi e del nostro stato
interno…”[2](E. Kant).
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Solo nella seconda fase del trattamento con Marcello quando, grazie
all’adozione della canzone di A. Celentano “Quello che non ti ho detto mai”,
abbiamo condiviso il tempo, e Marcello ha comunicato i suoi sentimenti.
Ciò è stato raggiunto poiché “… nessuna delle cose più grandi si realizza di
colpo, non più di quanto accada per un grappolo d’uva o un fico.
Se mi dici che desideri un fico, ti rispondo che bisogna dargli tempo.
Lasciare che l’albero fiorisca, poi che faccia il frutto, e poi che questo
maturi.”[3] (Epitteto)
Quando alla fine l’albero matura, ottieni i frutti, non importa se la stagione è
stata dura, se l’inverno è stato rigido; se il terreno è buono e fertile basta avere
pazienza e alla fine il frutto lo ottieni, e devo dire che il mio frutto è maturato.
Con Marcello ho imparato ad avere pazienza, a saper aspettare, a dare un po’
di tempo alle persone che mi circondano, perché ho capito che non tutti
hanno gli stessi archi temporali determinati.
A volte bisogna sedersi e aspettare poiché “… Il tempo spiegherà tutto.
È un chiacchierone, e non ha bisogno di essere interrogato per parlare.”[4]
(Euripide)
Ripensando al processo terapeutico intrapreso con Marcello, posso affermare
che è stata un’esperienza difficile.
Per me che mi baso molto sul contatto fisico, trovarmi di fronte ad una
persona che non tollera il contatto, mi ha subito destabilizzata.
Lavorare con una persona che si allontana fisicamente o mentalmente e non é
più presente, ma si colloca in un altro luogo, mi ha fatto rivalutare tutto il mio
lavoro sin dal principio.
È stato bello constatare come una persona cresce e matura anche grazie a te,
che si apre, si confida e in qualche modo riesce a incanalare i suoi problemi
attraverso strumenti che tu hai fornito.
In tutto questo le tre parole chiave sono: TEMPO, ATTESA e PAZIENZA.
Non tutte le attese sono angoscianti, e molte non lo sono affatto, ma la
semplice consapevolezza della necessità della conclusione ci mette in uno
stato di tensione, ogni volta che la conclusione tarda rispetto alle nostre
aspettative.
Riuscire a capire quando è il momento di fermarsi, di attendere, e invece
quando è il momento di ripartire, non è semplice.
Capire i propri bisogni e quelli dell’altro, capire quando entrare in gioco, e
quando starsene in “panchina”.
Professionalmente sono cresciuta molto a fianco di Marcello, non credevo di
riuscire ad ottenere questi risultati.
Bisogna tuttavia saper ascoltare, registrare ogni passo, ogni piccolo, malgrado
apparentemente inutile, segno, solo così si potrà disporre di tutti gli strumenti
necessari per aiutare l’altro.
Astrid Converso
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[email protected]
[1] Nome di fantasia; in ottemperanza alla legge della privacy.
[2] Kant E. “Critica della Ragion pura”, sesta edizione, Laterza, Bari, 1977,
pag. 77.
[3] Epitteto “Massime di saggezza per la vita di tutti i giorni” Newton &
Compton Editori, 2003, pag. 67/68
[4] Euripide “Massime di saggezza per la vita di tutti i giorni” Newton &
Compton Editori, 2003, pag. 76
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Converso Astrid
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Marzo
Converso Astrid, Relazioni sonoro-musicali con Matteo ed Emma in… musicoterapia
Pubblicato il 23 marzo 2010
“È impossibile non comunicare,
perché ogni comportamento è comunicazione,
invia un messaggio agli altri,
che lo si voglia oppure no.
Nella comunicazione si stende la relazione,
vale a dire che la relazione con l'altro
è già implicita nella stessa realtà umana.” [1]
L’idea che abbiamo di noi stessi, la nostra identità, ciò che consideriamo che
gli altri pensino di noi si organizzano, pezzo dopo pezzo, in tutti gli scambi di
parole e azioni che abbiamo con gli altri esseri umani.
È di fondamentale importanza saper ascoltare i propri interlocutori per poter
dare risposta in modo appropriato altrimenti l'altro non risponde, non c’è un
feedback adeguato alla sua comunicazione.
Quando si comunica, soprattutto se si comunica in modo personale e
profondo, è molto importante ricevere una reazione adatta.
Se ciò non accade, l’altro può ritrarsi e cessare di comunicare.
Tuttavia, trovare una via di comunicazione che faciliti la sintonia, che
permetta di relazionarsi “sulla stessa lunghezza d’onda” non è semplice,
soprattutto, se interagiamo con persone che hanno problemi a livello di
relazione.
Matteo ed Emma[2] mi hanno ‘insegnato’ il vero significato della relazione
con l’altro da sé e cosa comporta una relazione: offrendo, accogliendo e, nel
medesimo istante, ascoltando.
È forse “l’insegnamento” più importante che ho acquisito da questa
esperienza, sebbene i risultati che vorremmo ottenere, a volte, non
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pervengono o non giungono subito ed è proprio in quei momenti che si deve
cercare di insistere.
Matteo, io e la relazione... musicale
Matteo, all’inizio dell’intervento musicoterapico, aveva 38 anni e presentava
questa diagnosi patologica: “Insufficienza Mentale di Grado medio – grave.
Dislessico”.
Matteo appariva molto agitato, incapace di stare fermo, in perenne
movimento, con scatti delle gambe quasi stereotipati che muoveva
incessantemente.
Manifestava molta aggressività che “sfogava” sui compagni, qualora venisse
provocato o offeso.
Dall’aspetto piacevole, Matteo sapeva di essere attraente e, per questo motivo,
capita spesso che si pavoneggiasse all’interno della comunità.
Nonostante esercitasse un certo fascino sulle compagne, Matteo manifestava
problemi relazionali con gli ospiti della comunità.
Gli
ospiti
maschili,
gelosi,
molte
volte
lo
insultavano,
chiamandolo:“Borghese”.
In quei frangenti Matteo diventa molto aggressivo e oltre ad offendere
minacciava gestualmente i suoi “offensori”.
Durante l’osservazione scopro che Matteo gradiva esclusivamente solo
musica da discoteca e non sopportava
la musica classica che definiva: “Musica da suore”.
Quindi non avevo indicazioni precise sulla “sua musica del cuore[3]”.
Matteo viveva solo con i genitori, i fratelli erano felicemente coniugati.
Viveva un rapporto di amore odio con la madre , la quale lo dominava, lo
controllava e non tollerava che Matteo potesse avere relazioni di tipo
sentimentale.
La stessa, agli inizi dell’anno passato, richiese dall’ASL una progressione
dell’invalidità del figlio, facendo sprofondare il morale di Matteo e creando in
lui una forte depressione.
La prima volta che Matteo entrò nell’ ”habitat” musicoterapico era
disorientato; si guardava attorno e rimaneva in piedi avvicinandosi agli
strumenti.
Gli faccio presente che non doveva sentirsi obbligato a fare alcunché oppure,
se avesse voluto, poteva suonare gli strumenti che erano posizionati in terra.
Dopo un’iniziale incertezza Matteo decise di sedersi e iniziare a suonare.
Come primo strumento scelse il tamburo, e io, adattandomi, presi un
tamburello con i sonagli ma, in cuor mio, sentivo che qualcosa non
“funzionava”.
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Avendolo osservato attentamente ero consapevole della sua forte aggressività
ma non avrei mai pensato che arrivasse ad esprimerla, in modo quasi
lacerante, sugli strumenti.
Fin dalla prima seduta iniziò a percuotere in modo assordante il tamburo ma,
essendo appunto la prima seduta, si fermò solo a quello strumento.
Successivamente dà inizio ad una sorta di “concerto solistico” stridente,
completo di tutti gli strumenti presenti.
Non riuscivo a contenerlo, l’intensità era talmente forte che gli strumenti
volano via, danneggiandoli come il battente in ferro del triangolo che si spezza
a metà.
Lui sembrava apparentemente calmissimo sorrideva e sembrava che si
divertisse.
Come se non bastasse, se si stancava di suonare, lasciava gli strumenti a terra
e iniziava a parlare, raccontandomi la sua giornata in ogni minimo dettaglio,
bloccando anche la mia esecuzione sonora.
Provavo a fargli ascoltare musica da discoteca, sapendo che era il suo genere
preferito, ma il clima peggiorava.
Rimanevo sconcertata, impaurita e mi sentivo inadeguata al compito.
“Cosa faccio?”
“Come mi comporto?”
“Devo bloccare il suo bisogno di sfogo o devo permettergli di liberare la
propria energia.”
“Gli strumenti che danneggia e rompe li devo riparare o devo sostituirli con
strumenti nuovi per evitare che si rispecchi in qualcosa di “spezzato, e
riparato?”
È stato un anno molto faticoso sia dal punto di vista emotivo che da quello
fisico.
Verso la fine delle sedute, Matteo è giunto a suonare in atteggiamento
aggressivo anche nei miei confronti.
In quel momento, nonostante Matteo mi provocasse dolore e lividi, rimasi
calma e cercai di accogliere la sua aggressività, facendogli capire che gli
strumenti che stava suonando non erano esclusivamente a sua disposizione,
ma anche altri ragazzi ne facevano uso e, per questo motivo, non avrebbe
dovuto danneggiarli.
Matteo rispose sorridendo e balbettando:”Tanto li aggiusti con i tuoi soldi, a
me non interessa, io sono ospite della comunità e a me non li fanno
pagare”.
La mia calma stava per esaurirsi, non solo per come si atteggiava e rispondeva
ma anche perché capivo di non essere in grado di fermarlo.
Le domande che subissavano la mia mente erano molteplici:
“Come posso essere una brava terapista se provo rabbia nei confronti di un
ragazzo con così tanti problemi?”
“Perché non riesco a provare tenerezza per un ragazzo così disagiato?”
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In riunione d’équipe la psicologa mi suggerii che se Matteo avesse continuato
a spezzare gli strumenti potevo comunicarlo alla famiglia che avrebbe
provveduto a risolvere la situazione.
In cuor mio sapevo che gli stati di disagio vissuti da Matteo in famiglia erano,
per lui, insostenibili.
Decisi di gestire la situazione a modo mio, “lasciandomi guidare dal mio
istinto”.
Nella seduta successiva Matteo si
presentò con il telefonino acceso
e si mise a parlare con una
ragazza.
Lo richiamai e successivamente
Matteo si accomodò sulla sedia,
iniziando
a
suonare
ossessivamente tutto ciò che
trovava nella stanza.
Ero
arrabbiata,
stanca
e
demoralizzata, sentivo che in
qualche modo dovevo esprimere,
paradossalmente,
i
miei
sentimenti
e,
quasi
senza
rendermene conto, iniziai ad imitarlo, coprendo i suoi effetti acustici,
colpendo ripetutamente un bongo di legno.
Matteo iniziò a calmarsi, quasi spaventato dalla mia veemenza, si ritrasse e
ridusse l’intensità della sua produzione di sonora.
Cosciente di quello che stava accadendo, iniziai anch’io a diminuire l’intensità
d’esecuzione, variando anche l’agogica, ora decisamente più lenta.
Così, gradualmente iniziammo a suonare insieme, guardandoci negli occhi.
Al termine dell’interazione
sonoro – musicale chiesi a Matteo
di
chiudere
gli
occhi
e,
contemporaneamente, gli proposi
l’ascolto di una musica di
Vangelis: “Main theme from
“Missing”
per
rilassarlo
e
concludere così la seduta.
In quel mentre Matteo si fermò;
mi guardò e si mise a ridere con una risata quasi isterica.
Ad un tratto diventò rosso e con un filo di voce pronunciò una parola che alle
mie orecchie risuonò come un ringraziamento.
Durante gli incontri successivi Matteo era più tranquillo; rispettava i tempi
d’esecuzione strumentale.
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A termine di ogni incontro proponevo sempre l’ascolto di qualche brano
“rilassante”, per placare la sua energia così “scalpitante” (Vangelis: Main
theme from “Missing”; Ennio Morricone “The legend of the Pianist;, Carla
Bruni “Quelqu'un m'a dit”; Enya “The memory of trees”).
Ora riusciamo ad avere un’interazione musicale condivisibile che presenta
ancora una marcata aggressività ma, in qualche modo, riusciamo a
rielaborala.
Matteo mi ha insegnato a liberarmi da tutti quegli gli schemi mentali che
generalmente, in quanto normodotati, utilizziamo nelle relazioni altrui, dove
se ci sentiamo provocati e attaccati, tendiamo a creare uno scudo per
salvaguardarci da quello che ci rigetta l’altro.
Matteo aveva bisogno solo di qualcuno che fosse in grado di accogliere il suo
“rabbioso” dolore.
Un dolore suonato e risuonato in me e, finalmente, compreso placato.
Solo allora abbiamo potuto interagire musicalmente, stabilendo così una
relazione molto delicata e coinvolgente, dal momento che è sempre, prima di
tutto, una relazione tra due universi emozionali.
Ho imparato che Matteo, è un “sensibilissimo radar” delle emozioni, degli
stati d’animo, molto bravo nel leggere con chiarezza dentro l’altro da sé.
Matteo è in grado di cogliere ogni mia reazione emotiva, leggendo il
“linguaggio del corpo”, cogliendo le variazioni di tonalità e d’intensità della
voce.
Matteo cercava disperatamente di agganciarmi e provocarmi al fine che io
potessi ascoltare accogliere il suo malessere conflittuale.
Comprendere e superare un conflitto, spesso, permette di rinnovare e
migliorare una relazione.
Il conflitto ci interpella sulla capacità che abbiamo di relazionarci con gli altri
e ci svela insieme l’autenticità o la falsità, la profondità o la superficialità del
rapporto con noi stessi.
Crescere nella competenza relazionale ed emotiva significa potenziare la
nostra capacità di modulare, di sviluppare tale rapporto in vista del nostro e
dell’altrui benessere.
Relazioni musicali con… Emma
Emma era una donna di 41 anni.
La cartella clinica riportava: “Cerebropatia di probabile origine
dismetabolica”.
Emma parlava e si vestiva come una bimba, adorava i cartoni animati e, ogni
piccolo o grande oggetto, che in qualche modo riporti disegni o frasi di cartoni
animati, doveva essere suo.
Proveniva da una famiglia difficile.
Si riscontravano problemi con la madre che trascurava l’igiene della figlia.
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Questo fatto, a volte, allontanava i compagni per l’odoraccio che Emma
emanava.
Emma aveva anche un fratello disabile, ricoverato in un altro istituto.
La psicologa mi rese noto che, probabilmente, Emma ha vissuto in famiglia
violenze sessuali.
Durante l’osservazione non avevo colto particolari problematiche, e
nonostante l’aspetto e il linguaggio infantile, mi incuriosii subito il suo
passatempo preferito: leggere riviste di enigmistica e risolvere i cruciverba.
All’apparenza sembrava una ragazza tranquilla,
che, molto diligentemente, ascoltava le istruzioni che arrivavano dagli
educatori.
Con tutte queste premesse, la accolsi nell’habitat musicoterapico.
Nonostante l’organizzazione accogliente dell’ambiente musicoterapico, Emma
mostrò una tensione emotiva.
Iniziò da subito a girare intorno allo spazio sonoro-relazionale in maniera
ossessiva: raccoglieva qualche strumento da terra e poi iniziava,
strimpellandolo, a ruotare attorno alla stanza.
Io rimanevo seduta sulla sedia, seguendola con lo sguardo e cercando di
suonare qualcosa con lei ma i miei sforzi sembravano vani.
Inoltre le sedute erano caratterizzate da una pressante richiesta, da parte di
Emma, di ascoltare musiche poiché dimostrava di non sopportare il silenzio o
comunque, il solo suono prodotto dagli strumenti musicali presenti non le era
sufficiente.
Se tardavo ad accendere il registratore Emma mi chiedeva: “Dov’è la
musica?” e poi ancora: “La radio è rotta?”.
Gli stati emotivi che provavo erano molteplici, mi sentivo inadeguata e non
sapevo cosa fare.
“Se il tempo della seduta era caratterizzato dalla presenza di musica emessa
continuamente, con Emma che suonava, estraniandosi, come potevo gestire
la terapia?”.
Mi ritrovavo con una ragazza che non solo non rimaneva seduta, ma che non
volgeva neanche lo sguardo nella mia direzione.
Riflettei: “Se Emma voleva musica come “sottofondo rassicurante”, potevo
creare una cassetta a tempo.”
Preparai una musicassetta al cui interno, le tracce sonore erano intervallate
da uno spazio di silenzio, della durata di circa un minuto.
Emma dopo un iniziale rifiuto, si adattò e iniziò a suonare anche durante i
silenzi ‘emessi’ dalla cassetta.
Nonostante questo però, Emma continuava a relazionarsi con una grossa
quantità di strumentini musicali quasi a sottolineare la difficoltà di trovare il
giusto mediatore attraverso il quale “raccontarsi” e rapportarsi con me.
Per quasi sei mesi proposi all’ascolto sempre la stessa cassetta “spaziotempo”.
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Le musiche da me scelte, che avrebbero portato ad alcuni miglioramenti,
erano racchiuse nel lato a ed erano:
 Piove (Jovanotti);
 Tshiribim (Crescere con il canto 2. ,pag. 74, 75.);
 Il cielo è sempre più blu (Rino Gaetano);
 Gli uccelli volano (Franco Battiato);
 Cleptomania (Sugar Free);
 I bambini fanno Oh (Povia);
 Che Idea (Flaminio Maphia).
In principio pareva che Emma non provasse interesse per le musiche che
avevo deciso di proporre all’ascolto, ma poco alla volta iniziò a sedersi sulla
sedia di fronte a me e a suonare canticchiando.
Un giorno Emma mi disse che la sua musica preferita era: “Gli uccelli volano”
di Franco Battiato, così cercavo di proporla all’ascolto.
Iniziò a prendere confidenza con la stanza e con me.
Quando aveva il tamburo in mano lo avvicinava agli occhi e cercava di
guardarmi attraverso la membrana così da stabilire, seppur in modo
passeggero, un contatto visivo.
Mi sentivo adeguata al compito, poiché ero riuscita a fare sedere Emma sulla
sedia di fronte alla mia e perché ora Emma stava cercando di relazionarsi.
Mi sentivo sulla strada giusta, tuttavia non era abbastanza.
In qualche modo Emma stava cercando un contatto, ma era discontinuo e
capitava ancora che si mettesse a girare attorno allo spazio sonororelazionale.
Il passo successivo arrivò verso la fine del secondo ciclo di sedute.
Avevo acceso la cassetta Emma stava cercando di relazionarsi con me,
guardandomi attraverso il tamburo quando, all’improvviso, sulle note della
canzone “Cleptomania” abbassò lo strumento; mi guardò dritta negli occhi e
ad alta voce ripeté alcune frasi della canzone, suscitando in me un grande
interesse “relazionale”.
“Cleptomania”
Sono affetto da un morbo incurabile
il mio difetto è un istinto incontrollabile
se ti vedo devo averti fra le mie mani
Liquidato da ogni dottore
"no rimedio" queste le parole
ma la mia cura potresti essere tu
prima o dopo i pasti non importa
due tre volte al giorno si mi bastano per sperare
aiutami a guarire da questa mia malattia
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affetto da una strana forma di cleptomania
voglio averti mia
solamente mia
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Ora che non ho più via d'uscita
ora che ogni porta è stata chiusa
apri almeno le tue gambe verso me
prima o dopo i pasti non importa
due tre volte al giorno si mi bastano per volare
aiutami a guarire da questa mia malattia
affetto da una strana forma di cleptomania
voglio averti mia
solamente mia
già sto meglio se ti tengo fra le mie mani
sto guarendo se ti tengo tra queste mani
aiutami a guarire da questa mia malattia
affetto da una strana forma di cleptomania
voglio averti mia
solamente mia
Rimasi molto sorpresa, finalmente il contatto c’era stato, mi aveva guardato
negli occhi e aveva chiesto aiuto.
Mi sentii al settimo cielo, ma subito mi porsi alcune domande:” E ora che
faccio?” “Si aspetta il mio aiuto, cosa posso fare di più per aiutarla, per non
deludere la fiducia che ha riposto in me?”
Continuai ad insistere sulla cassetta tempo-spazio, cambiando alcune canzoni
per variare il repertorio.
Trovammo nella musica per bambini Tshiribim[4]: un legame di costruzione
per una relazione positiva.
Mediante questo brano Emma riusciva a guardarmi e a ballare sulle note
ascoltate.
Emma, a livello relazionale, è migliorata, tuttavia permane ancora la
pressante richiesta di musica come sottofondo e, per quanto ora ci sia il
contatto visivo, esso è discontinuo.
Al di là delle definizioni scientifiche delle parole e degli scritti sull’argomento,
relazione e comunicazione sono gli elementi principali nella nostra vita
quotidiana.
La relazione è un legame, un vincolo tra due o più persone.
La relazione è qualcosa che in se stessa possiede finalità migliorative dei
rapporti.
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Con Emma e Matteo, ho avuto due differenti tipi di relazione, in genere
proiettiamo sugli altri ciò che non vediamo di noi stessi, o ciò che rappresenta
il nostro punto debole.
È stato difficile, entrare in relazione con due persone con difficoltà e,
contemporaneamente, cercare di leggere dentro se stessi per riuscire a capire
l’altro e poterlo aiutare.
“Non camminare davanti a me, potrei non seguirti; non camminare dietro
di me, non saprei dove condurti; cammina al mio fianco e saremo sempre
amici”[5]
Questa citazione, credo, sia un’altra espressione che ben definisce un modo di
relazionarsi, la parità.
Non solo, quindi, il riconoscimento e il rispetto dell’altro, ma anche della sua
natura, della sua unicità, della sua libertà.
Una cosa che ho imparato è che rapportarsi, significa essere in grado di
accettare quella dose di incertezza associata
all’evolversi, lasciare che le cose scorrano, vivere nel presente quel che esso è
in grado di offrire, mettendo da parte la paura che l’insicurezza,
l’impossibilità di tenere tutto sotto controllo comportano.
Sapersi relazionare adeguatamente implica la capacità di stare soli con se
stessi.
Molti, come Emma e Matteo, per sfuggire a se stessi hanno bisogno dell’altro.
Il bisogno, al contrario, del desiderio, provoca dipendenza, che induce un
vissuto di insicurezza, nei confronti di se stessi, e di dipendenza nei riguardi
degli altri.
La cosa più importante di tutte però è riuscire a comunicare con e attraverso
la musica, riuscire a capire attraverso i suoni prodotti, cosa l’altro ci vuole
comunicare, e agire di conseguenza, stando attenti a non prevaricare, con le
proprie necessità, l’altro.
Attraverso la musica può nascere di tutto, è un “adesivo relazionale”, che aiuta
a stringere e sviluppare rapporti.
Quando la parola è di troppo, la musica diventa protagonista!
Astrid Converso
[email protected]
[1] Paul Watzlawick “Pragmatica della Comunicazione Umana, studio dei
modelli interattivi delle patologie e dei paradossi”, Roma, Astrolabio
Ubaldini, 1971.
[2] Nomi di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[3] Gaita D. “Il pensiero del cuore”, Milano, Bompiani, 1991.
[4] M. Spaccazocchi, Crescere con il canto 2. Progetti Sonori. Pesaro
Urbino. 2004, pag. 74, 75. “Il brano è un canto Yiddish, più
precisamente un canto ebraico appartenente al movimento mistico
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popolare del Chassidismo che ebbe una vasta diffusione nel 1700 in
Polonia e Ucraina per poi scomparire quasi del tutto agli inizi del
secolo XIX.”
[5] Anonimo cinese.
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Bonardi Giangiuseppe, L’umano e lo scientifico in musicoterapia forse… possono
coabitare in un perfetto equilibrio dinamico
Pubblicato il 14 marzo 2010 da Musicoterapie in... ascolto http://musicoterapie.overblog.com/
Il contributo in merito allo scientifico e all’umano in musicoterapia[1] mi ha
sollecitato una profonda riflessione sul mio modo di farla. Dopo innumerevoli
anni di prassi musicoterapica con adulti, adolescenti e bimbi, perlopiù
compromessi dal punto di vista relazionale, ripenso con piacere al percorso
intrapreso. Vent’anni fa, in Italia, il termine musicoterapia evocava in noi,
speranzosi neofiti, innumerevoli quesiti cui non trovavamo risposte. Assisi era
il fulcro in cui le idee di alcuni pensatori confluivano in un corso di studi che
si prefiggeva di dare un volto disciplinare a questa prassi. Rammento con
piacere le interminabili discussioni, anche accese, che facevano da sottofondo
alle torride e scanzonate serate assisane di noi studenti. Così di giorno
ascoltavo le lezioni dei docenti, ora colleghi, nel pomeriggio frequentavo i
laboratori e la sera…, tra frizzi e lazzi, ci chiedevamo, rumorosamente, che
cosa fosse la musicoterapia. Non ci ponevamo il problema se la musicoterapia
fosse scientifica o umana perché in realtà nessuno sapeva che cosa fosse. Così
arrivai alla conclusione che per comprendere la musicoterapia dovevo
semplicemente… farla. Iniziò in quel modo la mia avventura musicoterapica
che mi dischiuse le porte della disabilità gravissima e grave. Conobbi un
mondo insolito, forse parallelo, dove le poche teorie psicologiche che avevo
faticosamente acquisito andavano in frantumi perché, lì, non funzionavano e,
le acquisizioni musicali, così duramente apprese in anni di conservatorio,
vacillavano allorché mi trovavo ad ascoltare una musica fatta non con regole
tonali ma con altre che non conoscevo. Ero contento perché finalmente mi
trovavo in una realtà in cui le certezze si infrangevano, ma, ben presto, mi resi
conto che quelle persone, gravemente compromesse, ponevano
quotidianamente domande alle quali dovevo dare almeno una risposta.
Come? In che modo? Ovviamente elaborando un nuovo percorso. Così dalla
felicità iniziale passai ben presto alla preoccupazione poiché ero ben
consapevole che nessuno aveva le idee chiare al riguardo, tantomeno io.
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Spinto dall’empirismo titubante, mi lanciai in quell’avventura che generò la
mia prassi musicoterapica, ora pubblicata[2]. Sì, la musicoterapia che faccio è
una prassi che utilizza la musica[3], che appartiene alla persona, per riattivare
il processo relazionale ridotto o interrotto. Nella definizione riportata dichiaro
apertamente la dimensione umana del mio operare allorquando sottolineo
che non interagisco con pazienti o utenti ma con persone che hanno una loro
irrinunciabile dimensione sonoro-musicale. Per relazionarmi con loro debbo
quindi conoscere la loro essenza acustica al fine di trovare quegli aspetti
musicali che permettano a entrambe di poter interagire. Rivolta a persone che
hanno una diagnosi patologica ben precisa di ritardo mentale gravissimo o
grave, la realizzazione della prassi musicoterapica promana, sostanzialmente,
dal citato orientamento teorico di riferimento, dal quale derivano le fasi di
realizzazione della stessa:
 il colloquio (conoscenza della dimensione sonoro-musicale della
persona);
 l’osservazione ambientale (conoscenza della dimensione sonoromusicale abitualmente vissuta dalla persona);
 l’osservazione musicoterapica (conoscenza dei problemi: temporale,
spaziale, relazionale eventualmente vissuti dalla persona e
individuazione dei mezzi musicali atti ad affrontarli);
 il trattamento individuale (intervento specifico sul/i problema/i
rilevato/i in osservazione musicoterapica unitamente ai mezzi musicali
individuati ritenuti idonei ad affrontare il problema/i);
 il trattamento di gruppo (intervento specifico volto a migliorare le
capacità relazionali nel contesto del piccolo gruppo mediante il medium
musicale).
Lentamente, articolando la mia prassi di lavoro in fasi, ho elaborato un
metodo corredato da strumenti (schede di rilevazione, ecc.) creati ad hoc.
Pertanto a ben guardare, la mia prassi musicoterapica assume ora una
dimensione scientifica poiché è formata dall’unione di un metodo e degli
strumenti per raggiungere il fine prefissato (la relazione) e, per questa
ragione, la posso considerare, a tutti gli effetti, una metodica[4]. È una
metodica, non una metodologia, poiché è un percorso specifico elaborato
appositamente per le persone che hanno quel tipo di diagnosi patologica.
Riflettendo ulteriormente mi sento di affermare che, nella mia prassi,
entrambe le dimensioni, l’umana e la scientifica, coabitano. Umana perché
l’espressività e la relazione musicale[5] sono dimensioni essenzialmente
connaturate alle persone che le vivono; scientifica perché il modo di
procedere non è casuale ma ben delineato in fasi consequenziali documentate
in schede di rilevazione quantitative e qualitative che testimoniano
l’evoluzione storica del processo terapeutico intrapreso. In questa prospettiva
l’umano e lo scientifico convivono perché la musicoterapia è una realtà
dinamica complessa, ossia un ritmo che scaturisce dal dualismo dei fenomeni
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contrastanti che la caratterizzano: la dimensione dell’incontro (l’umano) e la
sua rappresentazione oggettivabile (lo scientifico). La prassi musicoterapica
è, e vive, solamente se la dimensione umana (realmente vissuta) e quella
scientifica (testimonianza oggettiva dell’incontro) rimangono in equilibrio
dinamico stabilendo una vitale osmosi. È chiaro che se uno dei fenomeni
soverchia l’altro, la realtà musicoterapica cessa di essere tale e diventa
un’altra cosa ma non è più musicoterapia: può diventare attività musicale che
fa bene o si trasforma in una perfetta ricerca scientifica fine a se stessa. Il
dualismo apparente (soggettivo/oggettivo) lo ritroviamo non solo nel termine
musicoterapia ma anche nei parametri fondamentali che la caratterizzano: il
tempo, lo spazio, la relazione che dischiudono la dimensione emotiva che le
appartiene. Possiamo oggettivare il tempo, lo spazio e la relazione ma non
possiamo nasconderci il fatto che queste dimensioni sono da noi,
essenzialmente, vissute[6], dischiudendo quindi la soggettività dell’incontro
così intriso di sensazioni, emozioni, sentimenti, tonalità emotive, affetti
categoriali e vitali, ecc. che volenti o nolenti dobbiamo, per poterla fare,
ascoltare[7]. Il mio argomentare mi porta inevitabilmente a pensare che
debba accettare la presenza simultanea e dinamica delle due dimensioni,
sapendo bene che qualcosa è scientificamente oggettivabile ma qualcos’altro
non lo è, però, stranamente, la musicoterapia funziona, anche se non utilizzo
modelli teorici di riferimento ufficialmente riconosciuti, mentre rimango
sempre alla ricerca di contributi disciplinari altri (il pensiero
schneideriano[8] in particolare), nella convinzione che mi siano d’aiuto a
ricercare le chiavi di lettura dei fenomeni complessi che vivo ogni giorno in
mancanza di una conoscenza musicoterapica specifica che me li chiarisca
meglio.
Giangiuseppe Bonardi
[email protected]
[1] Postacchini P. L., Spaccazocchi M., (2010), MUSICOTERAPIA: Scientifica
o
Umana?,
http://musicoterapie.over-blog.com/article-pier-luigipostacchini-maurizio-spaccazocchi-musicoterapia-scientifica-o-umana45160123.html
[2] Bonardi G., (2007), Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori,
Mercatello sul Metauro (PU).
[3] Bonardi G., (2008), Le pratiche che utilizzano la musica: analogie e
differenze, http://musicoterapie.over-blog.com/article-22299545.html
[4] “Gli specifici modi di procedere e i relativi strumenti di indagine vengono
definiti metodiche.”, in: Porzionato G., (1993), Lineamenti di metodologia
della ricerca scientifica in ambito musicale, Quaderni della SIEM n 4,
Ricordi, Milano, Pag. 82.
Bonardi
G.,
(2009),
Modelli
o
metodiche
musicoterapiche?
http://musicoterapie.over-blog.com/article-36638712.html
Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
61
[5] Bonardi G., (2009), La musica è tempo-spazio vissuto e oggettivo,
http://musicoterapie.over-blog.com/article-la-musica-e-tempo-spaziovissuto-e-oggettivo-di-giangiuseppe-bonardi-39135897.html
[6] Bonardi G., (2009), La prassi musicoterapica è essenzialmente tempospazio
vissuto,
http://musicoterapie.over-blog.com/article-bonardigiangiuseppe-la-prassi-musicoterapica-e-essenzialmente-tempo-spaziovissuto-40367964.html
[7] Bonardi G., (2009), Tempo, spazio, vissuti, http://musicoterapie.overblog.com/article-tempo-spazio-vissuti-di-giangiuseppe-bonardi38872899.html
[8]Bonardi G., (2008), Marius Schneider e la... Musicoterapia!,
http://musicoterapie.over-blog.com/article-24493424.html
Con tag Riferimenti teorici di musicoterapia, Bonardi Giangiuseppe
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Delogu Chiara, Puzze ed emozioni
Pubblicato il 10 marzo 2010
“Le emozioni sono in rapporto
con gli organi di evacuazione,
perché le emozioni sono rifiuti.”.
Aristotele[1]
Michele[2] percuote lievemente la conga. E inizia il nostro gioco di sguardi.
Mi provoca, vuole vedere dove voglio arrivare. E poi d’improvviso un peto.
Sonoro. Una risata maliziosa e negli occhi un guizzo di magia. Michele c’è. È lì
mi sta regalando un pezzo aereo di sé. Quel suo essere così minuto, fragile,
magro e ossuto, parla di sé, quel bimbo è capace di decidere come, quando e
perché. Mi destabilizza e dentro di me, quel suono rompe il silenzio che ci
divide. Di fronte a lui mi sento piccola e uguale. Vibriamo per simpatia come
due viole d’amore, perché ci riconosciamo, perché riconosco l’umano e
l’ironico che c’è in lui. Non siamo tanto dissimili. Mi sta comunicando
simpatia, (sun-patere), patire con, partecipo con lui di lui e di un noi. Le sue
puzze, sono i suoi suoni sonori e triviali. Leggo il grottesco che mi abita e
partecipo con tutta la mia umanità, con tutto il mio essere materia. Ad oggi
sono divertita ripensando a quanto mi accade. Divertita perché il messaggio è
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fuori dagli schemi, clownesco e irriverente. Gli occhi che brillano di furbizia e
un sorriso sdentato mi accompagnano. Quanto è meraviglioso il volto
dell’intelligenza e il volto del cuore. Senza regole, senza schemi, senza
costrizioni.
“Fra tutte le cose generate da questo mondo, non ve n’è alcuna che sia di per
sé impura: ditevi soltanto che il vostro cuore dispone della libertà di
accettare o respingere tutte le manifestazioni della vita a seconda delle sue
capacità di sublimazione. Persino gli escrementi generati da ogni cibo denso
non meritano disprezzo alcuno, non appena se ne comprende la funzione:
essi non sono sporcizia ma trasformazione, non sono decadenza ma
piuttosto un potenziale di rigenerazione. Essi sono il supporto di ciò che
consente alla natura fisica di perpetuarsi e di trovare, in seguito, un certo
equilibrio. Lo stato di marcescenza e di decomposizione è una fase
necessaria nella meravigliosa avventura della Vita che viene offerta, ma non
appena la prossimità fisica di questo evento sfiora la vostra vista, vi sentite
in imbarazzo. Se la materia in decomposizione, di per se stessa, non è affatto
vile, essa non va comunque mischiata da vicino a ciò che vive alla luce del
sole; vedete infatti che una pianta muore se le sue radici conoscono un
contatto diretto con il letame. Il giusto atteggiamento è quello della corda,
che da sempre vi viene tesa fra due cime.”[3]
In questo senso vivo e ascolto le puzze-suoni di Michele. Come qualcosa che
attraversa, che lascia, fuoriesce, perché fa parte di un’emozione. Esse stesse
sono emozioni.
Dogana[4] sostiene che una teoria proposta per chiarire l’origine del
linguaggio è quella mimico-gestuale. Secondo tale teoria esisterebbe un
rapporto naturale tra i suoni emessi e lo stato organistico attivato da
particolari vissuti emotivi: il suono sarebbe una specie di traduzione vocale
del gesto e le sue qualità acustiche sarebbero in qualche modo isomorfe con le
qualità mimiche in cui si esprime l’azione.
Osservo Michele e scopro che è sempre in tensione. L’esercizio mentale che
mi impongo è quello di immedesimarmi in lui per cercare di capirlo meglio e
scopro che entrano in gioco le sinestesie. Il corpo percepisce i suoni, i suoni
avvengono per parlare di una tensione, del coraggio di dire in maniera
differente.
L’odio e l’aggressività, caratterizzate da una mimica contratta, tesa,
spasmodica, si traducono in espressioni verbali in cui predominano i suoni
“duri”, quali le occlusive sorde e le fricative.
Secondo Platone, nel Cratilo, i fonemi S, PS, F, Z equivalgono a aspetti
specifici dei referenti, ciò vale a dire, che i fonemi in questione equivalgono a
sensazioni di soffio e moto, mentre per Court de Gebelin, le sibilanti S/Z
richiamano a fischi e sibili. Grammont coniuga le due riflessioni e definisce
una fonetica impressiva caratterizzata da rumori di soffio, sibilo e ronzio e
una fonetica espressiva, caratterizzata da velocità e levigatezza. Se per i
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cratiliani il fonosimbolismo sarebbe un fenomeno primario, autoctono, insito
per natura nelle caratteristiche della sostanza fonica, quindi universale e
necessario, per Saussure il fonosimbolismo è un fenomeno secondario,
dipendente dal senso. È il significato a creare i valori espressivi e così ne
deriva la teoria secondo cui uno stesso suono può assumere simbolismi
differenti a seconda del contesto semantico in cui è inserito.
Dogana, inoltre, propone una classificazione dei fatti fonosimbolici:
prelinguistico o fonetico , a cui attribuiamo valori espressivi a singoli fonemi
o gruppi di fonemi non ancora strutturati in un significante linguistico;
linguistico o fonologico, che riguarda le onomatopee e le parole espressive;
poetico o fonoestetico, dove i fenomeni espressivi sono spesso creati
autonomamente dal poeta, mediante l’orchestrazione e il gioco delle
allitterazioni. Secondo questa lettura Michele privilegia fatti fonosimbolici
prelinguistici, sottolineando con suoni duri e peti le tensioni emotive.
La prospettiva gestaltica sostiene che i caratteri espressivi sono fin dall’inizio
e autoctonamente presenti nelle configurazioni percettive al pari delle qualità
primarie e secondarie. I fatti espressivi vengono dunque percepiti come
qualsiasi altro dato percettivo e lo scambio tra interno ed esterno, tra
soggettivo e oggettivo, che in essi viene alla luce e da cui traggono il
significato, si fonda non su una estrinseca ed arbitraria aggiunta di senso, ma
su un intimo e strutturale isomorfismo tra i due livelli dell’esperienza. Le
corrispondenze sinestesiche derivano quindi da analogie strutturali o
isomorfiche, che vengono colte in forma immediata. Ciò ci porta a definire le
differenti forme di espressività fonetica:
simbolismo ecoico, il suono richiama a qualche aspetto sonoro del designato,
come le onomatopee; simbolismo sinestesico, quando il suono evoca
caratteristiche dei designati pertinenti ad altre modalità sensoriali;
simbolismo fisionomico, quando il suono evoca caratteristiche emotive e
psicologiche.
È proprio nel simbolismo fisionomico, che secondo me, Michele dimostra
tutta la sua voglia di esprimere il non verbale e forse anche il verbale.
Le qualità di un suono hanno diverse polarità quali acuto grave, forte debole,
dolce aspro, vivo morto, leggero pesante, pungente soffice, sordo risonante…
secondo tale prospettiva, le qualità acustiche dei fonemi possiedono in se
stesse certe qualità espressive, e se tali qualità venissero applicate anche alle
puzze di Michele, cosa ne verrebbe fuori? Su questo simbolismo primario si
innestano altre traduzioni sinestesiche: piccolo è isomorfo a leggero, sottile…
E a livello fisionomico ciò che è piccolo, leggero e luminoso è percepito come
delicato, grazioso, gentile, fine.
“La reazione emozionale corporea resta in ogni caso una traccia ineludibile
inscritta nel vissuto corporeo del paziente e comunque comunicata nella
relazione empatica.” [5]
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Secondo quanto proposto da vari autori il rapporto tra struttura musicale ed
emozioni evocate si può classificare secondo alcuni parametri musicali.
A noi interessano le espressioni di rabbia, che vedono protagonisti questi
parametri musicali:
 metro rapido;
 livello sonoro alto;
 contrasti relativamente aspri tra note lunghe e corte;
 assenza di rallentando finale;
 articolazione per lo più non legata;
 attacchi molto secchi;
 timbro brusco;
 note distorte.
Michele nelle sue espressioni tipicamente musicali dimostra di far parte di
questa categoria. Le sue puzze assumono caratteristiche differenti a seconda
delle giornate. Se per la produzione musicale, il leit motiv è la rabbia,
manifestata attraverso i parametri musicali sopraccitati, per quanto riguarda i
peti, questi assumono caratteristiche diverse di volta in volta: possono essere
fragorosi se iniziali e spontanei; silenziosi quando ci guardiamo negli occhi;
improvvisi per farmi uno scherzo; sibilanti per raccontare l’ansia, faticosi se
indotti volontariamente.
E l’intensità del forte e del debole varia in prossimità del desiderio di
comunicare con me. È il processo dinamico delle emozioni, che si coniuga in
modi diversi ogni volta.
Chiara Delogu
[email protected]
[1] Aristotele, Sull’anima, Adelphi, Milano 1992.
[2] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[3] Anne e Daniel Meurois-Givaudan, L’incontro con lui, Amrita, p. 98.
[4] Dogana F., Suono e senso, Franco Angeli, Milano, 1998.
[5] Postacchini P. L., Postfazione a Ginger Clarkson, “Ho sognato di essere
normale”, Cittadella Editrice, Assisi 2006, p. 166.
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Musica più classe 3
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Pubblicato il 4 marzo 2010
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Musica più classe 5
Pubblicato il 4 marzo 2010
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Musica più classe 4
Pubblicato il 4 marzo 2010
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Aprile
Neri Simona, Ascoltando la musica ‘dolce e amara’ delle mie tonalità emotive
Pubblicato il 26 aprile 2010
“ Il grande dolore soltanto,
quel lungo,
lento dolore
che vuole tempo
[…]
costringe
[…]
a discendere
nelle nostre
ultime profondità
[…].
Dubito
che un tal dolore
“renda migliori”;
eppure so che esso
ci scava in profondo
[…].
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Non vorrei alla fine
che passasse sotto silenzio
la cosa più importante:
da tali abissi,
da tale grave malanno
[…]
si torna indietro rinati,
con la pelle cambiata
[…]
con i sensi più giocondi
con una seconda più pericolosa
innocenza nella gioia,
più fanciulli e al tempo stesso
cento volte più raffinati
di quanto mai per
l’innanzi ci fosse accaduto.
[1](F. NIETZSCHE, la gaia scienza)
Torno a casa alla sera dal lavoro, tutto il giorno la musica di altri ha
volteggiato e suonato intorno a me, dentro di me. Mi sento impoverita,
svuotata, sfinita; mi sento arricchita, felice… sfinita. Le emozioni contrastano
in un vortice senza fine. Entro in macchina e accendo la mia musica ma poi la
spengo subito, voglio gustare l’odore, il sapore, il suono del silenzio, voglio
sentire risuonare dentro me i ricordi, le voci, i visi di chi oggi è passato e dar
spazio alle domande che lentamente dal cuore salgono su fino alla ragione.
Sento che ho dato tanto ma non basta, o forse basta perché non posso dare
tutto… nessuno ci chiede di dare tutto e ogni cosa ci chiede di assaporarne il
limite e sapere “che il limite è fondamentale perché la vita degli altri non è
nelle nostre mani soltanto, non siamo artefici del loro destino, non è mai del
tutto nelle nostre mani la soluzione di una situazione difficile. Ma occorre
fare attenzione a non scambiare questa accettazione del limite con la
rassegnazione o il fatalismo. Al contrario è corretta l’accettazione del limite
solo quando si accompagna all’assunzione della responsabilità di fare tutto
ciò che è nelle nostre possibilità.”[2] (V. Iori 2009). È così che questa
esperienza da terapista comincia a farsi largo nella mia vita e le sue sfumature
prendono i colori e i suoni di tutte le tonalità emotive. Sto davanti ai volti di
chi ogni giorno viene da me e da me si aspetta qualcosa… cosa? Tutto chiede,
tutto domanda e so che non posso essere indifferente a questo. “Lo sguardo
del cuore è irrinunciabile nelle esperienze d’aiuto, perché solo dalla
risonanza emotiva scaturisce la responsabilità del “farsi prossimi” e del
prendersi cura.”[3] (V. Iori 2009). Osservo la mia crescita, osservo il mio
cuore e cerco di dare una definizione a quanto mi accade e mi accorgo che per
vedere è necessario togliere il velo dei tanti pregiudizi che mi circondano e
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degli stereotipi che offuscano il senso e il significato delle cose. Lo sguardo di
chi incontro ogni giorno e ogni giorno chiede aiuto da me e dal mio lavoro di
musicoterapista mi provoca non mi lascia indifferente verso ciò che appare o
verso ciò che viene alla luce, non mi lascia indifferente di fronte al
FENOMENO (dal greco phainomenon) dandomi la possibilità di guardare
alla realtà per come mi appare togliendo tutto ciò che è per scontato, vano,
inutile lasciando che il sentire non sia intrappolato dai pregiudizi. “Vedere è
allora accorgersi dell’altro la cui presenza (da sein) non è insignificante, ma
costantemente ci interpella a corrispondere e condividere le responsabilità
della relazione. Così si presentano infatti le esperienze professionali dell’aver
cura: sempre nuove e sempre da inventare “(Iori 2009) [4]. Non possiamo
essere indifferenti di fronte al fatto che l’essere umano vive costantemente in
qualche stato emotivo, ma non sempre ne è consapevole, cerchiamo di
dominare le tonalità emotive ma non ci riusciamo e il come rimane
misterioso, anche quando cerchiamo di dominarle con la ragione. Ripenso al
volto di Franca[5], non mi chiede altro che ridare dignità alle sue emozioni e
la sua modalità per farlo passa attraverso il canto, attraverso la sua poesia, mi
chiede di ascoltarla, mi chiede di accoglierla, come lei cita in una delle sue
innumerevoli poesie…
ASCOLTAMI
Ti parlo e tu mi guardi
Ti sento e tu mi parli
Io ascolto nel tuo sorriso
Una luce dentro me sussurra
Ascoltami perché fai parte di me,
perché ogni volta che ti penso
è come se vivessi dentro un sogno.
Ascoltami o musa,
perché del tuo fardello pesante,
io possa diventare cieca.
Ti vedo e tu mi ascolti,
ti parlo e non rispondi
io ascolto nel tuo sorriso
una luce dentro me sussurra
ascoltami perché fai parte di me,
perché ogni volta che ti penso
è come se vivessi dentro un sogno.
[6](Franca, poesie, edizione inedita)
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Mi vengono in mente le parole di Borgna quando sottolinea che “non c’è cura
se non si sa cogliere cosa ci sia in un volto, in uno sguardo, in una semplice
stretta di mano, e infondo se non si sia capaci di sentire il destino dell’altro
come il nostro proprio destino” (Borgna 2001) [7]. A volte mi sembra che sia
Franca, e tutti gli altri ragazzi che curo, ad accogliere me e così l’esperienza
dell’empatia diventa quotidianità ma ha il suo prezzo.
Sono esposta alle emozioni che la quotidianità del mio lavoro impone:
commozione, rabbia, frustrazione, gioia, tenerezza, insofferenza, disgusto e
l’infinita gamma delle tonalità emotive.
“Possiamo comprendere la risonanza del sentimento dell’altro in noi e
condividere la sua umanità soltanto se abbiamo compreso la nostra
umanità. Stare presso l’altro implica, quale condizione necessaria e in un
certo qual modo inevitabile, imparare a stare presso di sé. (Iori 2009) [8].
Edith Stein afferma che “comprendere empaticamente significa “rivivere”
(Nach-erleben) il vissuto dell’altro: lasciar risuonare in sé qualcosa che
originariamente non è proprio ma altrui. L’empatia è un’esperienza “ non
originaria” (in quanto il dolore o la gioia appartengono originariamente
all’altro) che si può tuttavia conoscere dall’interno attraverso un processo di
immedesimazione nella situazioni dell’altro (Stein 1998) [9]. L’ascolto
empatico ci rinvia a noi stessi perché si tratta di una comprensione “dal di
dentro” e, attraverso l’immedesimazione, rende comprensibili i vissuti degli
altri solo grazie all’esperienza vissuta comune (Miterleben), alla
partecipazione affettiva e non attraverso il pensare” (Jasper) [10].
Continuo il mio viaggio ripenso a quanto ho dato a quanto ho ricevuto; le
emozioni dei miei assistiti risuonano in me, sento il bisogno di fermarmi per
non essere travolta dal fluire delle cose, per cercare le risposte giuste, per
esercitare una scelta per andare verso una consapevolezza emotiva
indispensabile nel mio, nel nostro lavoro. Posso fare di più… ho fatto tutto
quanto era nelle mie possibilità, ecco il dubbio, allora occorre riconoscersi
poveri di certezze e tuttavia aperti al poter-essere, anche nel rischio del
fallimento, “significa essere bisognosi di apprendere ed abitare anche il
negativo, ad accettare e comprendere anche i lati oscuri della propria vita”
(Rossi 2006) [11]. Anziché tacere le parole della vita emotiva come ostacolo
alla professionalità, “è necessario coltivarle come “cuore” della relazione per
“sentire” la prossimità dell’altro e rispettarne la dignità. Diventare cuori
pensanti, secondo l’espressione di Etty Hillesum [12]. Il “cuore pensante”
assume la responsabilità nei confronti dell’Altro che non può essere accolto
con la ragione ma con l’etica. Attraverso la decisione e la scelta, ascolta
l’appello che viene dall’altro per richiamarmi alla mia responsabilità”
(Lévinas) [13].
Tutto risuona tutto parla, sono arrivata, spengo la macchina entro in casa
cosciente che nulla passa inosservato e che il mio limite è anche la mia forza è
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lo slancio vitale verso il futuro che ci “svela l’esistenza dell’avvenire, che gli
dà un senso, che l’apre o lo crea davanti a noi” (E. Minkowski) [14].
Simona Neri
[email protected]
[1] Iori V., Il sapere dei sentimenti, Franco Angeli, Milano 2009, pag. 67.
[2] Iori V., Op. cit, pag. 29.
[3] Iori V., Op. cit, pag. 12.
[4] Iori V., Op. cit, pag 9.
[5] Nome di fantasia in ottemperanza alla legge della privacy
[6] Dalle poesie di Franca (nome di fantasia in ottemperanza alla legge della
privacy) poesia inedita.
[7] Borgna E., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001, pag. 190.
[8] Iori V., Op. cit, pag. 31.
[9] Stein E., Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1998, pag. 89.
[10] Iori V., Op. cit., pag. 32.
[11] Rossi B. , Avere cura del cuore, Vita e Pensiero, Milano 2006, pag. 109.
[12] Hillesum Etty, Diario 1941-43, Adelphi, Milano 2002.
[13] Lévinas E., Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980, pag. 218.
[14]Minkowski E., Il tempo vissuto, Einaudi, Torino 1971, pag. 38.
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Delogu Chiara, Puzza, pazzo, pizza, t’ammazzo, ovvero le parole dell’amore.
Pubblicato il 22 aprile 2010
È pacifico che
tutte le passioni ricadono
sotto il dominio della pazzia.
Infatti il contrassegno per cui
il pazzo si distingue dal savio
è che l’uno si lascia
governare dalle passioni,
l’altro dalla ragione.
Erasmo da Rotterdam,
Elogio della pazzia.[1]
Le parole sono unità del linguaggio umano istintivamente presenti alla
consapevolezza dei parlanti. Quotidianamente abbiamo a che fare con le
parole, ma ciò che vale per una lingua non necessariamente vale per un’altra.
La linguistica, a tutt’oggi, non è riuscita a definire la nozione di parola una
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volta per tutte. Così la nozione di parola fonologica, non coincide con quella
morfologica o sintattica.
Verrebbe da pensare che, anche nel caso di Michele, che continua a ripetere le
stesse parole che presentano una similitudine fonetica, ci siano diversi gradi
di nozione delle parole reiterate.
Le parole sorgono primariamente per la designazione delle cose fisiche e
concrete e solo successivamente sono portati a significare le cose della mente
e dell’anima.
Ed è qui che entra in gioco l’isomorfismo tra suono e senso: il significante può
rivelarsi come una trasposizione fonosimbolica di certe configurazioni visive o
motorie, che accompagnano un determinato contenuto emotivo. Per esempio
Michele[2] dice “t’ammazzo”, espressione di odio e aggressività, in
concomitanza con l’irrigidimento dell’intero organismo nell’atteggiamento
che si predispone all’attacco. Le consonanti fricative e affricate riproducono i
vari rumori sibilanti di fischio, sibilo, ronzio, nonché quelli aerei, che mi
portano a riflettere sul desiderio di eliminare anche fisicamente,
matericamente le parole.
La componente sibilante, tipica dei suoni percepiti come penetranti e
taglienti, nella cui produzione sono spesso implicate azioni molto veloci,
assorbe la mia attenzione.
Dumas[3] è uno dei pochi psicologi che ha trattato dell’espressione fonetica
delle emozioni. Ha infatti esaminato quali mutamenti le varie emozioni
provocano nella voce umana, mostrando come esse influiscano sul volume,
sull’altezza, sull’allungamento o accorciamento dei suoni, sulla posizione degli
accenti.
Rifletto: Michele utilizza parole con toni acuto e grave, sono presenti rotture e
percussioni, rimbombi e risonanze, vibrazioni e attriti, sibili e ronzii, di
altezze, timbro e intensità diverse, con una predominanza di spigolosità,
velocità e durezza.
Forse Michele rimuove simbolicamente da sé, con le parole, i concetti di
“t’ammazzo”, riferiti a se stesso in terza persona e a me, di “pazzo”, di “pizza”
(suo cibo preferito) e di “puzza”. Forse che le puzze lo liberano dalla pazzia?
Non è dato sapere. Ciò che è certo è che l’universo delle “Z” è una
costellazione affascinante che cattura la mia attenzione e l’oralità di Michele.
Ciò che dà piacere e/o fastidio non sono le cose ma le parole, le parole insite
in queste.
Come suggerì Zarathustra, ciò che rende le cose rigeneranti sono i nomi e i
suoni loro conferiti. Basta una sola parola a trasformare il principe in un
ranocchio. Non sono necessarie streghe. Il corpo ha una filosofia sua propria.
Per il corpo la realtà non è esattamente ciò che noi in genere indichiamo con
questo nome. Non è qualcosa di dato. È piuttosto il risultato di un’operazione
alchemica, in cui alle parole si aggiunge una materia senza nome. Così si crea
il suo mondo. Questo e solo questo è ciò che si dà al corpo da mangiare.
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Guimaraes Rosa[4] rivelò di avere grande dimestichezza con la saggezza del
corpo dicendo che tutto è reale, perché tutto è inventato. E Norman O.
Brown[5] sostiene che “siamo fatti di sogni…” e allora quello che vomitiamo,
facciamo fuoriuscire dal nostro corpo non è una cosa, ma i brutti sogni, gli
incubi evocati dalla parola stregata.
Chiara Delogu
[email protected]
[1] Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, Bur, Milano 2004.
[2] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[3] Dumas, La vie affective, Presses Universitaires de France, Paris 1948.
[4] Guimaraes Rosa, Grande sertao, Feltrinelli, Milano 1988.
[5] Norman Brown, Love’s Body, Vintage Books, New York 1966.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Delogu Chiara
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Converso Astrid, Considerazioni conclusive dell’esperienza musicoterapica con
Giorgia, Marcello, Anna, Emma, Matteo*.
Pubblicato il 18 aprile 2010
L’esperienza vissuta mi ha consentito di poter riflettere in merito ad alcune
tematiche particolari che caratterizzano qualsiasi azione musicoterapica,
ossia vivere, ascoltare le emozioni, le relazioni sonoro-musicali, le attese e i
silenzi.
Il lavoro svolto in circa due anni non può sicuramente dirsi concluso, mi ha
comunque indicato la strada da seguire.
Credo che questo percorso, non dovrebbe mai finire in quanto il senso del
mio lavoro è quello di cercare di migliorare e di aiutare (terapia) le persone
disabili, bisognose di cure per “l’anima”.
Un aspetto molto interessante del mio lavoro è stata la necessità di dovermi
confrontare con una realtà difficile e non alla portata di tutti.
In questa situazione l’intervento musicoterapico doveva coordinarsi con altre
persone con professionalità diverse cercando di collaborare al meglio
(équipe), imparando anche nel concreto, a lavorare per progetti e obiettivi.
Non da ultimo ho potuto constatare che tutti i cambiamenti, per poter essere
attuati, e non rimanere dei bei progetti teorici, necessitano di un forte
coinvolgimento emotivo: non si può imporre a nessuno il cambiamento: deve
essere il singolo a crederci.
Il cambiamento deve arrivare, innanzitutto, da noi.
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Se noi stessi, come terapisti non ci crediamo, e ciò implica intanto un forte
coinvolgimento, è impossibile riuscire ad attuarlo.
Sono stati due anni particolarmente difficili, dove però sono riuscita a
comprendermi e a comprendere meglio gli altri.
La scoperta paradossale è avvenuta al termine dell’esperienza quando mi
sono resa conto che sono stati “i miei ragazzi” ad avermi insegnato qualcosa
e, forse, qualcosa ho insegnato io a loro.
Nello specifico con:
 Giorgia ho imparato a riconoscere e a gestire le mie emozioni per poi
poter supportare, gestire e aiutare quelle altrui;
 Marcello ho imparato ad aspettare, ad avere pazienza, a prendere
coscienza delle tempistiche del prossimo, e a non pretendere niente
subito, a trasmetter sicurezza in modo da far sentire l’altro a proprio
agio;
 Anna ho appreso il vero significato del silenzio, e mi ha fornito gli
strumenti per saperlo usare e saperne trarre mezzi di comunicazione
adeguata;
 Emma ho capito l’importanza di una relazione sonora, fatta di sguardi
di intesa, di “musica d’insieme” per creare e comunicare. Se un ritmo si
produce contemporaneamente, ma, manca lo sguardo reciproco, non
si può affermare di avere una interazione sonora;
 Matteo ho avuto più difficoltà. L’aggressività latente di Matteo
dovrebbe essere analizzata a fondo. Posso considerarlo quasi come il
mio primo insuccesso, dove per arrivare a delle conclusioni ci sono
voluti due anni pieni e, non sono ancora del tutto risolti i suoi
“atteggiamenti” aggressivi. Sicuramente, come in tutti i casi, ci sono
componenti esterne che influiscono su questi ragazzi “problematici”,
ma con Matteo ci sono difficoltà di relazione molto profonde, non solo
all’interno dell’habitat musicoterapico o comunitario, ma anche nella
vita di tutti i giorni.
Attualmente sto collaborando con l’équipe per migliorare le condizioni di
Matteo, aiutandolo a sentirsi partecipe e indispensabile per la vita
comunitaria.
Guardandomi indietro e, ripensando ai due intensi anni di lavoro che ho
compiuto, posso affermare di essere soddisfatta.
Ero partita con tante paure e incertezze, che la sola teoria non può eliminare
e, alla fine del percorso, mi riscopro piena di entusiasmo e carica di buoni
insegnamenti che non avrei mai pensato potessero arrivare proprio da chi
necessita di cure.
Approfondimenti bibliografici
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ISMEZ,1993.
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Urbino. 2004, pag. 74, 75.
Approfondimenti discografici
 Celentano “Quello che non ti ho detto mai”.
 Vangelis “ Main theme from “Missing” ”.
 Ennio Morricone “The legend of the Pianist”.
 Carla Bruni “Quelqu'un m'a dit”.
 Enya “The memory of trees”.
 Jovanotti “Piove”.
 Tshiribim.
 Rino Gaetano “Il cielo è sempre più blu”.
 Franco Battiato “Gli Uccelli”.
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Sugar Free “Cleptomania”.
Povia “I bambini fanno Oh”.
Flaminio Maphia “Che idea”.
Astrid Converso
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Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Converso Astrid
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Bonardi Giangiuseppe, Simboli, musica, terapia...
Pubblicato il 11 aprile 2010
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Maggio
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Bonomi Carla, Io, Costantina e la realtà psichiatrica
Pubblicato il 31 maggio 2010
Dove vive Costantina? L’iniziale conoscenza di Costantina é avvenuta nella
stanza del refettorio del reparto, situata in fondo al lungo corridoio, durante
l’osservazione ambientale. L’osservazione ambientale avveniva con cadenza
settimanale, della durata di un’ora, precisamente dalle ore 10,15 alle ore 11,15.
Scelsi il refettorio come luogo d’osservazione, perché era l’unica stanza dove
Costantina trascorreva la maggior parte della giornata. Nel locale piuttosto
disadorno c’erano otto tavoli con relative sedie (quattro per ogni tavolo). Ogni
ospite aveva il suo posto fisso. Sette tavoli con sedie al centro della stanza ed
uno con la sedia, un po’ più in là dalle altre ospiti. Sotto il televisore,
posizionato in alto sulla parete, si sedeva Costantina. La stanza era ben
illuminata da luce naturale, grazie alla presenza di numerose finestre (otto).
Precedentemente, il personale del reparto era stato avvertito del mio arrivo e
del lavoro che avrei svolto all’interno della stanza. Era la prima volta che
entravo nel reparto, ma, soprattutto, era la prima volta che mi trovavo nel
refettorio. Ricordo perfettamente l’immagine del mio primo incontro con
Costantina, ad indicarmela fu l’infermiera. Costantina era seduta al suo
posto, sola. La ragazza era piuttosto massiccia; aveva i capelli corti neri e
scompigliati, mentre le labbra sporgenti formavano un “tragico” broncio.
Aveva le braccia incrociate sul petto, strette l’una contro l’altra. Il capo chino
ed i suoi occhi fissavano le sue gambe. Era la prima volta che entravo nel
refettorio e sentivo il mio cuore battere forte. No, non era paura, ero
emozionata. Finalmente era giunta l’ora da me tanto attesa. Non potevo
nascondermi le mie iniziali preoccupazioni. Le domande che mi ponevo erano
diverse. Fra le tante, una in modo particolare occupava la mia mente… “È
giusto far qualcosa, quando la persona non lo chiede?”. Quando vidi
Costantina, molte delle mie preoccupazioni svanirono. Ai miei occhi apparve
una ragazzina straordinariamente timida e triste, aveva un’innocente
espressione d’intensa dolcezza. Il mio arrivo nel refettorio non passò
inosservato, le ospiti presenti si avvicinavano chiedendomi il nome, alcune
mi porgevano la mano per salutarmi ed altre ancora mi guardavano, o mi
toccavano. All’interno della stanza scelsi, come punto d’osservazione, lo
spazio vicino all’ingresso. Potevo osservare tutto, senza essere invadente né
per le ospiti, né per il personale infermieristico. Lo scenario che mi si
presentava ogni volta davanti ai miei occhi non era fra i più felici: si sentiva
un leggero e persistente odore sgradevole, si udiva un brusio di fondo, dove
però era possibile distinguere il chiacchiericcio delle ospiti, del personale
infermieristico, pianti, grida, risate, scricchiolii di sedie e l’audio del televisore
sintonizzato sulla replica di un programma televisivo. Costantina non si
accorse subito del mio arrivo. Era lì seduta… assorta nei suoi pensieri. Io ero
seduta non molto distante da lei. Pian piano Costantina si accorse della mia
presenza e, sebbene chiusa in sé stessa, mi lanciava sguardi occasionali e
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furtivi. Ad un tratto vidi Costantina alzarsi e dirigersi verso me con la sua
andatura lenta e dai movimenti goffi. Si avvicinò e mi chiese, con voce tenera
ed un marcato accento dialettale: “Che fai, perché sei venuta?”. Sentivo il mio
cuore arrivare in gola, mentre nel frattempo le rispondevo, dicendole: “Sono
venuta a trovarvi, sei contenta?”. Costantina, che nel frattempo fissava il mio
viso, accennando un sorriso, appoggiò la sua mano sulla mia spalla e rispose:
“Sì”. Nel corso delle tre sedute Costantina è apparsa d’umore estremamente
instabile. C’erano momenti in cui si mostrava calma e sorridente, mentre, un
attimo dopo, era triste ed intrattabile. Nei miei confronti però si dimostrava
sempre "ben disposta". Alla fine delle tre sedute mi resi conto che cominciavo
a voler bene a quella ragazza. Provavo un affetto spontaneo, eppure tanto
intenso. Costantina, sia pur per brevi momenti, si relazionava con le altre
ospiti, con me e con il personale, a livello: verbale, visivo e tattile. Le sue
richieste erano soprattutto volte al soddisfacimento di bisogni personali.
Chiunque incontrasse, Costantina chiedeva: la pizza, il caffè, oppure bracciali,
orecchini, collane... Alle domande che le erano poste, la fanciulla rispondeva
in modo generalmente pertinente ed eseguiva le richieste fatte. In altre
circostanze si opponeva verbalmente. Costantina, all’interno del refettorio,
preferiva rimanere eretta vicino all’ingresso, mentre i suoi occhi fissavano la
porta del reparto sita in fondo al lungo corridoio…
Carla Bonomi
[email protected]
Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
Con tag Musicoterapia e psichiatria, Bonomi Carla
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Greco Marina, L’ascolto agli albori del pensiero occidentale
Pubblicato il 24 maggio 2010
Socrate, precursore dell’ascolto
Una riflessione sull’ascolto posto in relazione con l’origine del pensiero
occidentale impone un doveroso punto di partenza: Socrate. Il filosofo greco,
infatti, rappresenta una sorta di spartiacque rispetto al passato: la rivoluzione
da lui compiuta nel campo della conoscenza è tale che il periodo che lo
precede è generalmente indicato nella storia della filosofia come pensiero presocratico. In cosa consiste questa sorta di “rivoluzione gnoseologica”?
L’indagine filosofica fino ad allora si era occupata e preoccupata della ricerca
della verità. Socrate persegue lo stesso obiettivo, ma ciò che lo
contraddistingue e che fa sì che egli sia posto all’origine del pensiero
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occidentale, basato sulla razionalità e sull’astrazione[1], sono i due capisaldi
del suo peculiare modo di filosofare: il dialogo e la professione di ignoranza. Il
dialogo socratico (da dialéghesthai, conversare, ragionare con) è un
innovativo strumento/metodo per arrivare all’intuizione della verità, basato
su quella che il filosofo definisce maieutiké tèchne, ovvero la maieutica che,
nell’antica Grecia, era l’arte esercitata dalle levatrici, le odierne ostetriche: “La
mia arte di maieutico in tutto è simile a quella delle levatrici, ma ne
differisce in questo, che essa aiuta a far partorire uomini e non donne e
provvede alle anime generanti e non ai corpi. Non solo, ma il significato più
grande di questa mia arte è ch’io riesco, mediante di essa, a discernere, con
la maggior sicurezza, se la mente del giovane partorisce fantasticheria e
menzogna, oppure cosa vitale e vera. E proprio questo io ho in comune colle
levatrici: anche io sono sterile, sterile in sapienza; e il rimprovero che già
molti mi hanno fatto che io interrogo gli altri, ma non manifesto mai, su
nulla, il mio pensiero, è verissimo rimprovero. Io stesso, dunque, non sono
affatto sapiente né si è generata in me alcuna scoperta che sia frutto
dell’anima mia. Quelli, invece, che entrano in relazione con me, anche se da
principio alcuni d’essi si rivelano assolutamente ignoranti, tutti, poi,
seguitando a vivere in intima relazione con me, purché il dio lo permetta
loro, meravigliosamente progrediscono, com’essi stessi e gli altri”[2].
Socrate, figlio dell’abilissima levatrice Fenarete, utilizza il termine maieutica
in senso traslato per meglio descrivere la tipologia di relazione che intercorre
nei suoi dialoghi fra lui e il suo interlocutore: “quelli che conversano con me
… assomigliano alle partorienti … passano notti e giorni pieni di
inquietudine e di angoscia ... Questa sofferenza la mia arte sa placare ...”[3].
Per quale motivo gli interlocutori di Socrate sono pieni di inquietudine e di
angoscia? In quale modo il filosofo si prende cura di loro e soprattutto come
fa cessare la loro sofferenza? Chiunque dialoghi con Socrate è all’oscuro di
due fondamentali verità che lo riguardano: è inconsapevole di essere
ignorante; è inconsapevole di possedere in potenza la capacità di giungere
all’intuizione della sua verità, ovvero di capire in cosa consista per lui il
méghiston agathón, il sommo bene[4]. La genialità della maieutica socratica
consiste nel fatto che Socrate non impone il suo punto di vista ai suoi
interlocutori né consegna loro una verità data e precostituita come fino ad
allora avevano fatto i filosofi suoi predecessori, primi fra tutti i sofisti. Socrate
si prende cura di colui che dialoga con lui attraverso l’ascolto; il suo, però, è
un ascolto attivo; i suoi interventi nel dialogo sono puntuali, dimostrano la
fallacia dell’altrui ragionamento (élenchos, confutazione), sottolineando ogni
più piccolo e apparentemente insignificante vuoto logico (aporìa) nel discorso
dell’interlocutore; questi viene incalzato con piccole e brevi frasi a cui deve
necessariamente rispondere in modo altrettanto breve (katà brachù
dialéghestai) ed è disorientato dall’ironia del maestro, ovvero dall’apprendere
che Socrate stesso si professa ignorante[5]. Questo modo di procedere nei
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dialoghi da parte del filosofo greco attiva nel suo interlocutore una riflessione,
una sorta di trasformazione che lo indurrà a mettere fuori da sé un suo
pensiero, una sua verità: solo in questo modo egli ne potrà essere consapevole
e potrà dunque interiorizzarli. Così Socrate dice a Teeteto: “Sospetto che tu
sia interiormente gravido; affidati, dunque, a me che sono figlio di una
levatrice e ostetrico io stesso, e impegnati a rispondere a quello che io ti
domando, così come sei capace di fare”[6]. Nel dialéghestai socratico,
dunque, Socrate è l’abile levatrice mentre il suo interlocutore è la partoriente.
Attraverso l’ascolto e il dialogo, ovvero con la sua arte dialettica, Socrate aiuta
il suo interlocutore a liberare “l’anima dall’illusione del sapere e in questo
modo a curarla (corsivo in grassetto di chi scrive) al fine di renderla idonea
ad accogliere la verità”[7]. Qual è, dunque, l’elemento decisivo perché ci sia il
‘travaglio’ e dunque possa venir fuori, nascere il mondo interiore degli
interlocutori del filosofo greco? La disposizione all’ascolto, “espressione di un
lògos che non è soltanto un dire ma soprattutto un ascoltare”[8]. Anche
Tomatis, che così tanto ha studiato l’ascolto, riconosce l’importanza del
metodo socratico: “Socrate è all’ascolto dell’altro. Presta attenzione anche
alle parole degli dei. Inoltre si pone in ascolto di se stesso. Con l’orecchio
aperto, si impegna arditamente nel campo dell’ascolto e vi resta sempre
fedele.”[9] L’ascolto è l’anima della maieutica socratica: “l’interlocutore
ascoltante entra a far parte del pensiero nascente di chi parla. Ma chi
ascolta può <entrare> soltanto in un modo tanto paradossale quanto
impegnativo: <uscendo>, facendosi da parte e facendo spazio”[10]. Farsi da
parte è l’unica via perché il mondo interiore dell’altro possa venire alla luce.
Farsi da parte, però, non significa lasciare l’altro solo, ma, al contrario,
contenerlo con il proprio spazio interiore: è “il ragionare dialogico e
maieutico che, dunque, ascolta, accoglie e consente di vivere”[11].
Naturalmente, affinché il proprio spazio interiore possa disporsi ad ascoltare
e accogliere quello nascente dell’altro, è indispensabile conoscerlo a fondo. È
pertanto indispensabile disporsi innanzi tutto all’ascolto di se stessi: “Saggio
fra i saggi, Socrate è un ascoltatore modello. È il primo a capire che non vi
può essere condivisione senza conoscenza di sé.”[12] Il procedere dialogico di
Socrate non prescinde, dunque, dalla previa conoscenza di sé. Al di là della
celebre professione della propria ignoranza e del monito ghnôthi sautòn[13],
“conosci te stesso”, una delle caratteristiche più significative del pensiero di
Socrate è la sua relazione con il dáimon interiore a cui egli presta ascolto[14].
Che cos’è questo dáimon? È una voce interiore che gli parla incessantemente
e che gli impedisce di compiere una determinata azione quando sta per
compierla e che lo spinge alla continua ricerca della verità attraverso il
dialogo e il confronto con gli altri, attività che, come abbiamo visto prima,
sono considerate dal filosofo tò méghiston, la cosa più importante. La voce
interiore che parla a Socrate e che gli dice ciò che non è da fare ha come
“unica preoccupazione la salute dell’anima”[15]. Nel ragionare dialogico e
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maieutico di Socrate, ascoltare l’altro non significa far posto alla vis
linguistica dell’altro, ma significa innanzi tutto elaborare la capacità di
ascoltare se stessi, per consentire poi che l’altro possa essere ascoltato,
accolto[16]. L’essere parla, dunque, dentro ciascuno di noi e ciascuno
dovrebbe porsi in ascolto di se stesso e del proprio essere. L’incapacità a
questo tipo di ascolto non può che determinare “l’oblio dell’essere”[17]. Agli
albori del pensiero occidentale, l’ascolto sembra essere, in definitiva, la chiave
di accesso alla conoscenza di sé, dell’altro e della verità: “l’ascoltare è la via
regia imboccata dal desiderio di conoscere”[18].
Marina Greco
[email protected]
[1] “... (Aristotele) dice che due cose possono essere legittimamente attribuite
al filosofo ateniese: le “argomentazioni induttive” e il “definire
universalmente””. Giannantoni G., Storia della fiolosofia, vol. III, Casa
Editrice Dr. Francesco Vallardi, Società Editrice Libraria, Milano 1975, pag.
117.
[2] Platone, Teeteto, 150, a-d, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G.Reale,
Rusconi, Milano 1991, pag. 201-202. Platone, allievo di Socrate, nei suoi
numerosi dialoghi ha voluto lasciare una traccia scritta del pensiero e dell’arte
dialettica del suo maestro, non avendo questi scritto nulla.
[3]Platone, Teeteto, 151, a-b, ibid.
[4] Come Platone scrive nell’Apologia (XXXVIII, a), per Socrate il bene più
grande, il méghiston agathón appunto, consiste nel discutere, ragionare,
conversare ogni giorno sulla virtù, nel far ricerche su se stesso e sugli altri. Per
lui una vita che non sia animata da questa ricerca e da questa indagine
continua è indegna di essere vissuta.
[5] “In questa dissimulazione di ignoranza consiste essenzialmente la
famosa “ironia” socratica”, Giannantoni G., op. cit. pag.129. Questa docta
ignorantia socratica è proprio la consapevolezza di non sapere: “so di non
sapere” è il celebre motto di Socrate (sùnoida, in greco significa proprio “conso”, cioè so con me stesso, sono con-sapevole). Questa sorta di ossimoro si
spiega con un aneddoto della vita di Socrate raccontato da lui stesso nella
Apologia di Platone (21, b-e): la sacerdotessa dell’Oracolo del tempio di
Apollo a Delfi, la Pizia, aveva individuato in lui l’uomo più sapiente di Atene.
Socrate ne fu stupito in quanto si era sempre professato ignorante e proprio la
consapevolezza di non sapere lo spingeva alla ricerca della conoscenza. Iniziò,
così, a dialogare con tutti coloro che avevano fama di essere dotti per
dimostrare che la Pizia si era sbagliata. Attraverso il suo metodo, però,
Socrate si rese conto che la sapienza di quei dotti era in realtà solo
presunzione di sapere. Comprese solo allora la Pizia: era lui il più sapiente
perché era l’unico a sapere di non sapere e dunque consapevole della propria
ignoranza.
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[6] Platone, Teeteto, 151,c.
[7] Reale G.- Antiseri D., Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Vol. I,
Editrice La Scuola, Brescia 1983, pag. 68.
[8] Corradi Fiumara G., Filosofia dell’ascolto, Jaca Book, Milano 1985, pag.
188.
[9] Tomatis A., Ascoltare l’universo. Dal big bang a Mozart, Baldini &
Castoldi, Milano, 2005, pag. 210.
[10] Corradi Fumara, op. cit. pag.189.
[11] Corradi Fumara, op. cit., pag. 174.
[12] Tomatis A., Ascoltare l’universo, cit., pag. 210.
[13] Socrate invita i suoi interlocutori a seguire il motto inscritto sul tempio di
Delfi: “Ghnôthi sautòn”. Tale motto è stato interpretato in vari modi.
Potremmo qui riassumere dicendo che è un invito a conoscere se stessi e i
propri limiti prima di procedere alla conoscenza di ciò che è altro da sé, e che
la verità (il méghiston agathón, il sommo bene) si deve cercare in se stessi.
[14] Cfr. Corradi Fumara, op. cit., pag.167 e segg.
[15] Corradi Fumara, op.cit., pag. 171.
[16] All’origine del nostro pensiero occidentale, dunque, non solo la
conoscenza dell’altro da sé, ma “la ricerca dell’identità personale sembra
addirittura coincidere con l’ascolto del proprio messaggio interiore”,
Corradi Fumara, op.cit., pag. 172.
[17] “Stando ad Heidegger, “l’oblio dell’essere” caratterizza la traiettoria del
pensiero metafisico occidentale da Platone a Nietzsche”, Corradi Fumara,
op.cit., pag. 254.
[18] Mancini R., L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Ediz.
Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pag. 221.
Con tag L'ascolto in musicoterapia, Greco Marina
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Andrello Roberta, Uomo, musica e terapia.
Pubblicato il 17 maggio 2010
Il bisogno di definizioni
Definire la musicoterapia non è facile, al riguardo Bruscia, una delle figure
più autorevoli nel panorama musicoterapico internazionale, afferma che
“saper definire la musicoterapia è parte integrante del bagaglio culturale di
un musicoterapeuta” [1].
Definire la musicoterapia è necessario per acquistare credibilità, perché
consente di inquadrarla all’interno di confini teorici, pratici ed euristici che le
siano propri, indipendentemente dal legame con altre discipline.
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Le definizioni “… rappresentano un effettivo strumento di informazione per
chi non è del campo; sollevano questioni e problemi fondamentali per i
professionisti della materia; tracciano i limiti della pratica clinica, della
teoria e della ricerca; specificano il corpo della conoscenza che deve esserci
nella materia; stabiliscono un’identità professionale; rivelano le opinioni
soggettive di chi parla; riflettono gradi di sviluppo individuale e collettivo; e
forniscono un contesto per la comunicazione tra musicoterapeuti.”
(Bruscia)[2]
Analizzando le definizioni di musicoterapia che vari autori hanno formulato, è
possibile osservare come queste sottendano innanzitutto diversi modi di
concettualizzare l’uomo;
non solo perché la musica “gioca un ruolo importante nella vita di ogni
giorno… e la maggior parte delle persone riconosce il potere della musica
nell’influire sulle emozioni…”[3], ma soprattutto perché qualsiasi intervento
musicoterapico coinvolge l’uomo, e, in primis, il rapporto uomo-suono.
L’uomo
L’essere umano è complesso: i suoi comportamenti, il suo stato di salute fisica
e mentale, i suoi stati d’animo, sono la risultante di interazioni tra sé ed il
contesto ambientale e socio-culturale in cui egli vive.
Una tendenza diffusa, quando si cerca di definire l’uomo, è quella di muoversi
nella direzione della semplificazione del complesso, anche a rischio, talvolta,
di essere piuttosto riduttivi. È anche per questo motivo che tra i vari modi di
concepire l’essere umano c’è chi sottolinea la sua dimensione biologica
(comportamentismo, modello medico e psicoanalisi), chi quella psichica
(psicologia umanistica) e chi ancora quella sociale (psicologia sistemica)
trascurando le altre e cadendo, per così dire, nella “trappola” di una visione
unilaterale.
Nel panorama psicologico sono tradizionalmente presenti due modi
contrapposti di concettualizzare l’essere umano: quello comportamentistico e
quello umanistico.
Secondo il punto di vista di Ruud, all’origine di queste due diverse
impostazioni c’è la filosofia cartesiana che, affermando il dualismo mentecorpo, prelude ad una concezione dell’uomo più centrata sulla considerazione
del corpo (oggetto), oppure della mente (soggetto).
La differenza sostanziale tra queste due posizioni si può riassumere in questi
aspetti:
i comportamentisti rifiutano ciò che non è direttamente osservabile, perché
non oggettivamente verificabile; in questo modo spogliano l’uomo di tutte le
caratteristiche della sua essenza umana e lo paragonano all’oggetto di studio
delle scienze naturali, in quanto, sulla base del pensiero di Lock, ritengono
che esso riceva passivamente gli stimoli del mondo esterno.
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Gli umanisti, invece, sulla base degli assunti della filosofia esistenzialista e in
particolar modo sul concetto di Heidegger di “Dasein”, “esserci”, che
racchiude il senso dell’esistenza umana, si contrappongono alla concezione
deterministica e biologica dell’uomo (che caratterizza anche la psicoanalisi ed
il modello medico) e lo definiscono in termini di persona. L’enfasi è quindi sul
soggetto attivo e su alcuni temi quali linguaggio, pensiero, capacità di
scelta, abilità di comunicare, responsabilità, autorealizzazione, affetto,
spontaneità, crescita, etc., trascurati sia dal comportamentismo, sia dalla
psicoanalisi.
La concettualizzazione dell’uomo condivisa da coloro che appartengono a
questa impostazione è definita dai cinque postulati fondamentali di
Burgental[4]:
1. “… quando si parla di uomo, lo si intende come persona, non come
organismo;
2. l’uomo vive la sua esistenza in un contesto umano;
3. l’uomo è cosciente;
4. l’uomo ha capacità di scelta;
5. l’uomo è intenzionale; nelle sue scelte dimostra le sue intenzioni”.
Al di là della differenza di posizioni, una critica che Ruud[5] rivolge alla
psicologia umanistica ma che può essere estesa anche al comportamentismo,
alla psicoanalisi e al modello medico, è il fatto che tutta l’attenzione è posta
sul soggetto, mentre non sono presi in considerazione né il mondo esterno,
né le condizioni materiali di vita.
Si avverte la mancanza, per avere una visione “a tutto tondo” di ciò che l’uomo
è, della considerazione del fatto che egli vive e interagisce con il contesto
ambientale e socio-culturale del quale fa parte.
Una posizione che cerca di andare oltre la “contrapposizione” fra concezioni
comportamentistiche e umanistiche della persona, prendendo in
considerazione anche gli aspetti da queste trascurati, è la teoria cognitivosociale della personalità.
Il modo di concettualizzare l’essere umano trae origine da due considerazioni
principali:
la prima è il concetto chiave di questa teoria, ossia che è sempre presente un
processo di interazione tra l’organismo e l’ambiente, pertanto il
comportamento ha origini sociali; la seconda è l’importanza data alle
cognizioni, ovvero ai processi di pensiero nel funzionamento umano.
Ne discende che “le persone sono considerate capaci di orientare
attivamente la propria vita e di apprendere modelli complessi di
comportamento in assenza di ricompense”.[6]
Siamo quindi di fronte ad un modo di intendere l’essere umano che ne
consente una visione più completa, integrando aspetti che, se considerati
separatamente, non rendono giustizia della sua complessità.
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Partendo dalla critica di Ruud e considerando i punti di vista dei diversi
orientamenti psicologici, si può quindi affermare che l’uomo si caratterizza
per il fatto di possedere sia una dimensione biologica, l’organismo, in virtù
della quale prendiamo atto dei processi fisiologici, organici e biologici che
avvengono al suo interno, sia psichica, fatta di capacità di pensiero, di
linguaggio, di processi psicologici interni (motivazioni, emozioni, intenzioni)
di costrutti psicologici (il sé, l’identità, la personalità)[7] etc., che fanno
dell’uomo una persona e un soggetto attivo con un proprio senso di autoefficacia, una propria autostima, un senso morale, etc., sia sociale,
caratterizzata da continui processi di interazione con l’ambiente circostante e
da una fitta rete di interscambi significativi con le altre persone.
Queste tre componenti, in continua interazione, si influenzano
reciprocamente e sono la base da cui muovere per comprendere gli stati
d’animo, i comportamenti, le condizioni di salute fisica e mentale , etc. che ne
sono una diretta manifestazione.
Da un punto di vista musicoterapico, le tre dimensioni descritte
rappresentano il nucleo originario del paradigma uomo-suono.
In quanto “essere sociale”, inserito all’interno di uno specifico contesto
culturale, l’uomo viene a contatto con le sonorità ambientali e le musiche che
caratterizzano la sua area geografica e la sua etnia.
Grazie alle strutture neurofisiologiche, l’uomo interagisce con “l’ambiente
sonoro-musicale”, dando luogo a peculiari reazioni fisiologiche, sensoriali,
emotive e cognitive.
Da questa continua interazione nasce quella che Bonardi definisce la
dimensione sonoro - musicale della persona, ossia “… l’insieme eterogeneo
delle sonorità ambientali (naturali, tecnologiche, familiari) e delle musiche
(strutture ritmiche, melodie, canti, brani musicali) iscritto nel patrimonio
mnemonico di una persona. Il patrimonio mnemonico, formante la D.S.M. è
la risultante delle peculiari modalità di interazione (percezione ed
espressione) elaborate dalla persona nei riguardi dell’habitat acusticomusicale di appartenenza.”[8]
La musica
In armonia con il concetto di uomo presentato precedentemente, la musica
può essere definita come l’insieme di suoni organizzati sulla base delle regole
stabilite da una determinata cultura, pertanto essa è contemporaneamente un
fenomeno culturale.
Una posizione unica, in questo senso, è quella di Marius Schneider, il quale
sostiene l’esistenza di “… una musica naturale, la cui dinamica non dipende
né da un metro convenzionale né da un programma estetico elaborato da
una determinata cultura. Costituiscono tale musica i suoni che l’uomo emette
spontaneamente, sia come espressione del ritmo interiore della propria
persona, sia come imitazione dei suoni della natura…” [9].
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Parimenti Schneider afferma l’esistenza di una musica “artistica”, che
soggiace ad un processo estetico ed è quindi elaborata da una peculiare
cultura.
Al riguardo Leydi afferma che “… in ogni comunità culturalmente distinta e
socialmente organizzata…, esiste un particolare “modo” di espressione
sonora, un vero e proprio “stile” che realizza l’intero fenomeno musicale in
una fondamentale unità…”[10], pertanto “… le forme naturalmente assunte da
linguaggio e musica differiscono da cultura a cultura… ed il fatto che vi siano
delle forme differenti fa sì che le persone che hanno familiarità con una certa
forma sono spesso incapaci di affrontare adeguatamente le altre.”[11]
La possibilità di attribuire ai suoni un significato è quindi vincolata alla
cultura, che in questo senso agisce da filtro e nel contempo da mediatore nella
relazione uomo-suono, facendo della musica un’espressione polisemica, cioè
in grado di rivelare significati diversi a popoli e a sub-culture differenti.
La musica diventa allora per la mente umana un codice simbolico che assume
molto spesso un significato extra-musicale. Una delle ipotesi più diffuse è
infatti quella secondo la quale “le sequenze musicali denotano, o stanno per,
certi stati emotivi”[12], permettendo di rappresentarsi mentalmente oggetti
che non sono presenti nel mondo esterno e di dare loro una “forma” , (
definita da Kramer come “… l’ordine e la struttura con la quale l’espressione
artistica concretizza le esperienze … e … ci dà la possibilità di riconoscere, far
emergere e padroneggiare l’esperienza interna.”[13]) che ne consenta un più
facile accesso alla coscienza.
“… Il linguaggio musicale può… quindi… in qualche modo facilitare la
conoscenza dei vissuti emotivi predisponendone l’organizzazione strutturale
e favorendone il controllo da parte dell’individuo.”[14] Questo gli consente di
diventare capace “… di confrontarsi con la realtà, di provare emozioni,
sentimenti, per quanto a volte possano essere spiacevoli o sconvolgenti,
senza perdere la possibilità di pensare[15] e “… di porre le basi per “… una
maggiore capacità comunicativa tra individuo e gruppo … che assicura una
… maggiore probabilità di sopravvivenza ad entrambi.”[16]
In questo senso la musica diventa un canale espressivo e una forma di
linguaggio non verbale che, in un contesto relazionale, svolge l’importante
ruolo di mediatore tra due persone, attivando o riattivando modalità
comunicative che consentono la nascita di un primo contatto, quale preludio
di una possibile relazione.
Il rapporto uomo-suono prende quindi forma all’interno di uno specifico
contesto culturale e coinvolge caratteristiche fonologiche, sintattiche, e
semantiche della musica, ma ciò che in prima battuta rende possibile
l’interazione tra questi due sistemi, consentendo alla musica di esercitare una
qualche influenza sulla persona, è il complesso apparato neurofisiologico
dell’uomo, mediante il quale si realizzano la percezione e l’espressione sonora
e musicale.
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La terapia
In un’opera inedita in Italia, “Los caminos de la Musicoterapia”, E. Ruud[17]
sostiene che i diversi procedimenti musicoterapici sono vincolati alle usuali
tendenze dei concetti di terapia di orientamento: biologico, comportamentale,
psicodinamico, umanistico -esistenziale e della teoria della comunicazione,
che a loro volta corrispondono a differenti orientamenti filosofici. “Anche se il
fine ultimo della musicoterapia è quello di farsi disciplina a sé stante fino ad
ora è stato necessario costruire i processi che stanno alla base della
musicoterapia su teorie dominanti in psicologia e nella filosofia di altri
trattamenti.”[18]
L’etimologia del termine “terapia” è incerta, tuttavia si è soliti definirla
secondo la sua radice greca “therapeia” che significa assistere, aiutare o
trattare.
Tuttavia “terapia” è, nel nome musico-terapia, il secondo elemento e assume
il significato di “metodo di cura”.[19]
L’attenzione cade su tre aspetti: il significato di assistere, aiutare o trattare,
implica la presenza di una persona bisognosa d’aiuto e di una che sia disposta
ad aiutare; il “metodo” richiama un “… modo formale di procedere…”[20] e in
questo contesto lo si può intendere come un intervento sistematico, che ha
carattere di continuità per un certo periodo di tempo (in questo senso è un
processo), che avviene in un luogo e con degli scopi da raggiungere mediante
l’applicazione di particolari tecniche; la cura implica la realizzazione di un
cambiamento specifico nel paziente, infatti, “… per aver luogo la terapia, il
terapeuta deve agire in qualche modo sul cliente per produrre un effetto o un
cambiamento di qualche tipo”.[21]
In sintesi, quindi, si può intendere con terapia ”… l’insieme di mezzi
organizzati che vengono posti in opera al fine di curare e possibilmente
guarire le malattie…”, là dove “curare” significa “… ripristinare una
condizione di armonia psicofisica, se questa c’era, o costruirne una nuova, se
non c’era…”[22]
Nel contesto musicoterapico tutto questo si traduce in un processo
sistematico di intervento che coinvolge uno o più pazienti, a seconda che la
terapia sia individuale o di gruppo, uno o due terapeuti (terapeuta e
coterapeuta), un setting, costituito da una stanza con adeguati arredi e una
certa disposizione degli strumenti, da un contratto tra il terapeuta ed il
paziente o da chi ne ha la responsabilità, dalle regole, dal calendario e dagli
orari degli incontri.
La sistematicità, nel senso di metodicità che fa sì che l’intervento possa
configurarsi come terapeutico, richiede che questo si svolga sulla base di un
progetto che viene steso dopo una fase di osservazione durante la quale sono
raccolti i dati e le informazioni necessarie alla conoscenza dei pazienti e in
particolare dell’ambiente sonoro musicale nel quale vivono e in funzione della
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quale vengono definiti gli scopi che si tenterà di raggiungere mediante
l’utilizzo della musica, secondo le tecniche previste dal metodo che si intende
applicare.
La musicoterapia
Riprendendo la distinzione che Bruscia[23] fa tra Musicoterapia e
musicoTerapia, intendendo con la prima tutti quei progetti terapeutici nei
quali la musica assume un ruolo prioritario e può essere considerata
terapeutica di per se stessa e, con la seconda, le situazioni nelle quali la
musica assume un ruolo importante di facilitazione nel contesto di un lavoro
basato sullo sviluppo della relazione tra terapeuta e paziente, è possibile
individuare due modi diversi di intendere la musicoterapia: quando si fa
maggior riferimento al corpus teoretico dell’area psicoterapeutica, la
musicoterapia è intesa come psicoterapia; se invece l’enfasi è più sulla
didattica, sulla pedagogia e sulla semiologia musicale, la musicoterapia
assume i caratteri dell’animazione musicale.
Partendo però dall’accostamento dei due nomi di cui si compone la parola
musicoterapia, si individua una terza connotazione, secondo la quale la
musicoterapia è a tutti gli effetti MusicoTerapia, ossia l’area in cui si realizza
l’interazione tra le discipline musicologiche e quelle legate alla terapia, senza
che l’una prevalga sull’altra.
In questo modo “… dall’incontro fra la componente musicale e quella
terapeutica, si origina un linguaggio specifico e diverso da quello delle
componenti di partenza… questa concezione di musicoterapia… riconosce
l’importanza del mediatore sonoro e, al tempo stesso, l’importanza di
collocare quest’ultimo in un’adeguata, ma non standardizzabile, cornice
costituita dalla relazione terapeuta-paziente…”[24]
In questa terza accezione e sulla particolare concezione di uomo, musica e
terapia esplicata, nasce una delle possibili definizioni di musicoterapia, alla
quale corrisponde, sul piano operativo, un particolare modo di fare
musicoterapia.
La musicoterapia è quindi l’applicazione sistematica della musica, partendo
dalla dimensione sonoro musicale della persona (paziente) a dal rispetto delle
sue capacità musicali, allo scopo di attivare una comunicazione che, agendo a
livello non verbale, consente l’espressione di aspetti e parti di sé che
solitamente non emergono e pone così le basi per lo sviluppo della relazione
tra la persona (paziente) ed il terapeuta, favorendo al contempo l’integrazione
organica, emozionale, comportamentale, comunicativa, motoria e sociale
della persona.
Roberta Andrello
[email protected]
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[1]BRUSCIA KENNETH E., Problemi di definizione, in Definire la
Musicoterapia, Gli Archetti, 1989, trad. it. di F. Bolini, pp. 15-17.
[2] BRUSCIA KENNETH E., op. cit. p. 17.
[3] BRUSCIA KENNETH E., op. cit. p. 15.
[4]RUUD EVEN, La tendencia humanista-existencial en musicoterapia, in
Los Caminos de la Musicoterapia, Ed. Bonum, pp. 96-97.
[5]RUUD EVEN, op. cit. p. 113.
[6]PERVIN LAWRENCE A., JOHN OLIVER P., La teoria cognitivo-sociale:
Bandura e Mischel, in La Scienza della Personalità, Raffaello Cortina Editore,
1997,ed. it. a cura di G. Porzionato, p. 412.
[7]NUCCI LARRY, La struttura della scuola e della classe e lo sviluppo
sociale dei bambini, in Manuale della scuola dell’obbligo: l’insegnante e i suoi
contesti, Franco Angeli, 1999, a cura di F. Zambelli e G. Cherubini, p. 218.
8BONARDI GIANGIUSEPPE, Sul concetto di musicoterapia, in “ Brescia
Musica“, Anno IX, n. 44 - Dicembre, Bimestrale di informazione e cultura
musicale, Brescia, 1994, p. 21.
[9]SCHNEIDER MARIUS, Il significato della musica, Rusconi, 1970, pp. 9697.
[10]LEYDI ROBERTO, La musica dei primitivi, Il Saggiatore, Milano, 1961.
[11]SLOBODA JOHN A., Musica, linguaggio e significato, in La mente
musicale, Il Mulino, 1988, ed. it. a cura di R. Luccio, p. 52.
[12]SLOBODA JOHN A., op. cit. p. 109.
[13]KRAMER EDITH, Arts as Therapy with Childrens, Schochen Books, New
York, 1971, in Wilma Cipriani, Esperienza estetica e cura in arte-terapia, in
Regolazione delle emozioni e arti- terapie, Carocci, 1988, a cura di P. E. Ricci
Bitti, p. 71.
[14]CATERINA ROBERTO, Musica e regolazione delle emozioni, 1997, in
Emozioni e musicoterapia, Quaderni di musica applicata, n. 20, PCC,1997, pp.
31-32.
[15]CATERINA ROBERTO; La regolazione delle emozioni, in Regolazione
delle emozioni e arti- terapie, Carocci, 1988, a cura di P.E. Ricci Bitti, p. 34.
[16]Ibid.
[17]RUUD EVEN, Los caminos de la Musicoterapia, Ed. Bonum, p. 15.
[18]RUUD EVEN, Music Therapy and its Relationship to Current Treatment
Theories, St. Louis, Missouri: Magnamusic-Baton, 1980, p. 1, in L. Bunt, op.
cit. p. 16.
[19] ZINGARELLI NICOLA, Terapia, in Vocabolario della lingua italiana,
1995.
[20]PORZIONATO GIUSEPPE, Lineamenti di metodologia della ricerca
scientifica in ambito musicale, in Memoria musicale e valori sociali, Ricordi,
Milano, 1993, a cura di J. Tafuri, p. 82.
[21]BRUSCIA KENNETH E., Definire la musicoterapia, in Definire la
Musicoterapia, Gli Archetti, 1989, trad. F. Bolini, p. 49.
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[22]POSTACCHINI P. L., RICCIOTTI A., BORGHESI M., Il terapeutico in
musicoterapia, in Lineamenti di musicoterapia, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1997, pp. 60-64.
[23]BRUSCIA KENNETH E., op. cit. p. 49.
[24]POSTACCHINI P.L., RICCIOTTI A., BORGHESI M., Le strategie
d’intervento, in Lineamenti di musicoterapia, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1997, p. 103.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Andrello Roberta
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Bonomi Carla, Io e Costantina: diario di un’esperienza musicoterapica in ambito
psichiatrico.
Pubblicato il 10 maggio 2010 da http://musicoterapie.over-blog.com/
L’esordio dell’esperienza musicoterapica
Tra le innumerevoli persone presenti nell’ente psichiatrico, il Primario del
reparto mi propose di intervenire con Costantina[1], in considerazione del
fatto che era la più giovane ospite del reparto. Pur riconoscendo alla
musicoterapia risultati positivi, la proposta d’intervento mi fu affidata con un
atteggiamento di “sfida”. In tal senso il Primario mi disse laconico: “È un
caso difficile, vediamo cosa si riesce ad ottenere con la musicoterapia”.
Sebbene un po’ preoccupata, ero contenta poiché finalmente potevo vivere,
“mettere in pratica”, ciò che avevo solamente studiato.
Quale musicoterapia?
Nel realizzare la prassi musicoterapica ho dovuto, giocoforza, scegliere, con
difficoltà, ma in ogni caso scegliere, un orientamento epistemologico che fosse
per me motivo ispiratore del mio modo di “fare” musicoterapia. La lettura di
K. Bruscia[2], di P. L. Postacchini[3], E. H. Boxill[4] e, in particolare, di G.
Bonardi[5] ha influenzato il mio modo d’agire, aiutandomi a scegliere, un
metodo, una strada da percorrere. Con fatica ho scelto, come modello teorico
di riferimento, la metodica musicoterapica relazionale, ideata da
Giangiuseppe Bonardi. La scelta è stata motivata dal fatto che potevo
avvalermi di una metodica, utilizzata da un decennio con persone aventi
ritardo mentale grave e gravissimo, applicabile alla situazione a me
prospettata. Sinteticamente, la metodica procede teoricamente da una
definizione del concetto di musicoterapia dal quale ne consegue
l’articolazione di tre fasi prassiche ben definite ed è altresì corredata da
strumenti di rilevazione e di valutazione dell’intero processo musicoterapico
(schede di rilevazione). In questa prospettiva, per Bonardi, il termine
musicoterapia indica: “La ricerca, l’osservazione, l’analisi e l’adozione del
sonoro e del musicale appartenente al soggetto (musica) al fine di aiutarlo
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(terapia) ad esperire una “ nuova” situazione d’ascolto, non solamente
incentrato sul di sé, ma sui poli ( sé e l’altro da sé) del processo
relazionale”[6]. Il processo musicoterapico è quindi articolato in tre fasi: “la
ricerca, l’osservazione ambientale e musicoterapica, la prassi
individuale.”[7] Nel realizzare l’intervento musicoterapico, non ho applicato
pedissequamente il metodo, ma ho cercato di assimilarlo, adattandolo, per
quanto fosse possibile, al mio modo d’operare. Un’esperienza musicoterapica
ampiamente caratterizzata dalla dimensione sistematica, evolutiva, dinamica
e vitale del processo terapeutico intrapreso. In questa prospettiva gli aspetti
tecnici dell’azione musicoterapica, in particolare le finalità e i parametri (gli
indicatori) di ogni fase, traspaiono dalla lettura dell’esperienza, fornendo al
lettore le chiavi interpretative del lungo, biennale, storico, processo
terapeutico.
Carla Bonomi
[email protected]
[1] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[2]Bruscia Kenneth (1993), “ Definire la musicoterapia”, Ismez, Roma.
Bruscia Kenneth (1995), “Casi clinici di musicoterapia” (bambini ed
adolescenti), Ismez, Roma.
Bruscia Kenneth (1995), “Casi clinici di musicoterapia (adulti)”, Ismez, Roma.
[3]Postacchini Pier Luigi, Ricciotti Andrea, Borghesi Massimo, (1998),
“Lineamenti di musicoterapia”, Carocci, Roma.
[4]Boxill Edith Hillman, “La musicoterapia per bambini disabili”, Ed. Omega,
Torino, 1991.
[5]Bonardi Giangiuseppe, (2002), “Osservazione e prassi in musicoterapia”,
Dispensa, Corso Quadriennale di Musicoterapia, Pro Civitate Christiana,
Assisi.
[6] Bonardi Giangiuseppe, (2002), “Osservazione e prassi in
musicoterapia”, Dispensa, Corso Quadriennale di Musicoterapia, Pro Civitate
Christiana, Assisi, pag. 6.
[7] Bonardi G. op. cit. pag. 6.
Con tag Musicoterapia e psichiatria, Bonomi Carla
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Bonardi Giangiuseppe, Io sono come ascolto.
Pubblicato il 5 maggio 2010 da http://musicoterapie.over-blog.com/
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Che cosa sollecita in noi l’ascolto di un evento musicale ?
Durante l’ascolto:
 proviamo sensazioni corporee (dimensione corporea);
 viviamo emozioni, sentimenti (dimensione emotiva);
 evochiamo ricordi, colori, immagini, pensieri, vissuti spirituali, ecc.
(dimensione analogica);
 riconosciamo le componenti formali dell’evento musicale percepito
(dimensione sintattica).
L’ascolto musicale favorisce in noi la riscoperta e l’accoglienza delle nostre
dimensioni:

corporea;

emotiva;

analogica;

sintattica.
Perché ascoltiamo in questo modo?
Ascoltiamo in questo modo perché, verosimilmente, il nostro sistema uditivo è
interconnesso con altri organi che coinvolgono, di fatto, tutto il nostro corpo-mente.
In particolare, la membrana timpanica si tende quando ascoltiamo suoni di debole
intensità e di alta frequenza, mentre si allenta alla presenza di suoni di forte intensità
e alle basse frequenze.
Il timpano è innervato dal X paio dei nervi cranici, ossia dal nervo “vago” che da solo
controlla il sistema neurovegetativo o somatico.
Il nervo “vago” è sollecitato quando ascoltiamo suoni bassi e di forte intensità poiché
la membrana timpanica, per proteggere l’orecchio, si allenta.
In questa prospettiva l’informazione uditiva può arricchirsi di sensazioni corporee
sollecitate dal nervo “Vago”, già a livello timpanico.
Grazie alle innervazioni del martello con il “trigemino” (V paio dei nervi cranici) e
della staffa, con il VII paio dei nervi cranici, l’informazione uditiva può sollecitare i
muscoli masticatori (martello – “trigemino”) e i muscoli facciali e pellicciai del collo
(staffa – VII - laringe).
L’integrazione del sistema uditivo e il corpo è altresì avvalorata dall’interazione che
sussiste tra l’apparato del Corti, situato nell’orecchio interno, il vestibolo e il
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cervelletto, organi preposti al controllo di tutti i muscoli del corpo (vestibolo)
dell’equilibrio (vestibolo, cervelletto) e del movimento (cervelletto).
Proseguendo il percorso, grazie all’interazione del lemnisco laterale con la
formazione reticolare, volta prevalentemente a modulare lo stato di coscienza,
l’informazione uditiva può concorrere ad attivarlo o ad attenuarlo.
Grazie alle interazioni che si stabiliscono anatomicamente tra i corpi genicolati
mediali, il talamo (assolve funzioni cognitive e motorie), l’ipotalamo (presiede alle
funzioni mentali che condizionano le emozioni, la vita vegetativa e il sistema
motivazionale) e il sistema limbico o ippocampo partecipa alle connessioni tra i
processi emozionali, mnestici e cognitivi).
Il musicale percepito può ora sollecitare nell’ascoltatore, l’attivazione di processi
mentali di tipo: cognitivo, emozionale, mnestico, motivazionale.
Finalmente il musicale giunge nello stadio finale di ricezione e di elaborazione, ossia
nell’area 41 di Hescl. Quest’area discrimina tutte le altezze che formano il musicale
percepito.
Dopo, il musicale giunge nelle aree secondarie degli emisferi destro e sinistro.
Nelle aree secondarie dell’emisfero destro i gruppi di stimoli acustici eseguiti
simultaneamente e le serie di suoni aventi altezze e strutture ritmiche differenti, sono
discriminati con esattezza.
Nelle aree secondarie dell’emisfero sinistro (dominante), i suoni linguistici sono
analizzati e sintetizzati.
Finalmente l’informazione musicale giunge al termine del suo viaggio, ossia nelle
aree terziarie.
Le aree terziarie hanno una funzione integrativa dell’informazione uditiva con quelle
provenienti dagli altri analizzatori.
È ragionevole presupporre quindi che, nell’elaborazione finale di quanto percepito
dall’ascoltatore, non c’è solamente il contenuto squisitamente musicale, ma anche
altri carichi di: sensazioni corporee, emozioni, sentimenti, ricordi, immagini, forme,
colori…
Ripensando a quanto esposto, in particolare, al percorso percettivo preso in esame,
l’informazione acustica non viene recepita e trasmessa in modo esclusivamente
musicale, ma si integra con altre informazioni somatiche, viscerali, corporee derivanti
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dalle sollecitazioni compiute durante il tragitto considerato, delineando in tal modo la
nostra soggettività d’ascolto.
In questa prospettiva non è la musica in sé che ha contenuti extra musicali ma sono io
che, in relazione al mio sistema ricettivo (corpo-mente), grazie alla musica percepita,
conosco le mie dimensioni d'ascolto.
Pertanto, è legittimo affermare...
IO SONO COME... ASCOLTO
e, verosimilmente,
L’ALTRO DA ME ASCOLTA IN UN MODO DIVERSO DAL MIO.
Giangiuseppe Bonardi
Con tag L'ascolto in musicoterapia, Bonardi Giangiuseppe
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Delogu Chiara, La bellezza nascosta: epilogo dell’esperienza musicoterapica con
Michele.
Pubblicato il 1 maggio 2010
“Il bello è lo splendore del vero.”.
Platone[1]
“La maggior parte di voi, amici miei, accosta alle rive di questo mondo
portandosi nella stiva la vecchia nozione di interruzione, separazione e
decadimento che si chiama ‘morte’. Così, fin dal primo vagito, già è impressa
un’idea di sconfitta… eppure: è forse una lotta per l’uomo inspirare ed
espirare? Dai due continenti della Vita nascono le forze complementari della
respirazione cosmica e sarebbe inutile ribellarsi contro il viaggio dell’aria
che vi entra nei polmoni per poi uscirne, contro la saggezza del sole che si
mette in ombra dietro quella della luna: ciò che temete è la trasformazione,
l’atto stesso della distensione che consente di abbandonare il bordo della
piscina.”[2]
L’idea della dicotomia è profondamente sbagliata, perché tutto è uno. Il
simbolo (ancora simboli!) del tao ne è l’esempio, simbolo perfetto: l’armonia
degli opposti, perché non c’è acqua senza fuoco, femminile senza maschile,
notte senza giorno, sole senza luna, bene senza male. Non c’è piacere senza
sofferenza e viceversa, solo capendo ciò, godi del piacere ed accetti la
sofferenza. Ciò che è sconveniente e relegato nell’ambito del non detto, del
non accettato e del nascosto, fa parte del nostro mondo interiore e il bello e il
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buono, (calos cai agazos), in definitiva, non è altro che la somma di tutto ciò
che è anche brutto e cattivo per convenzione.
Il mondo interiore è costellato da rifiuti e scarti, che spesso vengono nascosti
e oscurati, mentre nel mondo del non verbale questi assumono un chiaro e
degno linguaggio espressivo-emotivo.
“Nulla è separato da null’altro. Nessuno è perdente o vincitore nella vita.
Non avrebbe senso, giacché la vita è una. Noi siamo il tutto in cui buono o
cattivo, giusto o ingiusto non hanno esistenza alcuna, eccezion fatta per
quella che noi stessi conferiamo loro. Sta a noi dare alla vita i colori che ci
piacciono, quelli che vogliamo veder sbocciare tutto intorno a noi.”[3]
E in definitiva non si è mai obiettivi perché si sceglie di guardare la realtà,
mentre sarebbe auspicabile capirla con l’intuito.
Galimberti, in un articolo comparso su D di Repubblica il 27 agosto 2005,
provoca così: “Mi è sempre più difficile capire l’arte contemporanea perché
troppi sono gli artisti, opportunamente incoraggiati dai critici, che
equiparano l’amore per l’arte all’amore per le sensazioni, riducendo così
l’opera d’arte a qualcosa che deve stupire, dove lo spettatore, lungi
dall’essere ek-statico, cioè "fuori di sé", sta davanti all’immagine con la
passività opaca (mascherata dalle parole che ha imparato dai critici) di chi
è in attesa di emozioni.
Sarebbe necessario portare l’arte all’altezza della forza, dove in gioco sono le
figure della vita, della morte, del sacrificio. Sarebbe necessario sottrarla alle
parole consuete con cui la concimano i critici, grandi evacuatori, prezzolati
per produrre emozioni là dove in gioco non è il solletico dei sensi ma, come
dice Coomaraswamy: "La grandezza del rito sacrificale dove lo spettatore è
strappato alla sua personalità abituale allo scopo di divenire un dio per la
durata di un rito e tornare in sé soltanto a rito compiuto, quando l’epifania
giunge al termine e il sipario si cala". La bellezza, infatti, non è nulla di
consolante e di riposante, perché a produrla è il lavoro della madre nella
generazione, il lavoro di Dio nella creazione. Io penso che all’arte, che nella
sua radice "ar" custodisce il senso del "fare", penso che alla poesia, che
rinvia al greco poiein, che vuol dire "produrre", completa quel
accompagnare le cose nel loro farsi e nell'abbandonarle quando sono fatte.
Qui è il dolore della creazione che l'artista conosce. Qui è il senso di quel
energheia, di cui parlava Aristotele, che metteva a capo all'ergon, all'opera,
congedandosi da lei. A me pare che di questo congedo non sono capaci gli
artisti d’oggi quando mettono in scena le opere della natura che essi non
hanno creato e poi le raccolgono in cataloghi, un po’ come le ordinate truppe
degli Achei, di cui Omero prega le Muse di dargli il katalogos (catalogos). E
così l’arte rinuncia alla ricerca sua propria che è quella di scoprire le
intenzioni della madre, il ventre di Dio. Desiderio dei segreti dell’assoluto.
Insistenza sul luogo cruciale dove lo sguardo immobile del pensiero si fissa
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sulla mobilità dell'esperienza alla ricerca del simbolo che mette assieme
(sun-ballein) i contrari.
La bellezza della particolarità, la bellezza del mistero che si cela dietro ad un
simbolo, dietro ad una parola lanciata come un sasso nello stagno.
E se la musica è un’estensione di varie dimensioni dell’umano, le dimensioni
dell’umano non possono essere musica?
Tutti gli strumenti dell’arte (materia, colori) sono ricavati dalla terra e lo
sguardo artistico dovrebbe riuscire a scorgere che cosa si compone quando
la terra aduna e che cosa si scompone quando la terra rilascia. Il respiro
della terra. La terra, infatti, anche quando va alla deriva si riserva di
tornare in sé. Qui finisce la possibilità della descrizione, perché al logos e al
suo cosmo succede il caos, lo sbadiglio della terra, che divora tutte le
cosmologie e tutti gli ordini che gli uomini tentano di dare alle cose
dispiegate sulla terra. La terra, infatti, non ha solo un sopra dove si
edificano le opere (d’arte). La terra ha anche un sotto che non è esposizione
ma disposizione, nel senso forte di chi dispone dell'essere e del non essere di
tutte le cose. L’arte dovrebbe occuparsi della disposizione della terra e
compiere qui il suo gioco che è quello della flessione dell'inflessibile. L’arte,
infatti, conosce la flessione, la preghiera dell’artista, che chiede alla solidità
della terra di piegarsi allo strumento. Fu così che l'arte governò
l’artigianato, e fu così che, in epoche ancora non assediate dalla tecnica,
l’artigianato divenne con gli alchimisti luogo di conoscenza, trasformazione
del vile in prezioso, dove a trasformarsi erano tanto gli elementi che
approdavano all'opus quanto l’anima dell’operatore, non quando contempla
la sua opera, ma quando la genera, e poi se ne congeda, provando il
disinteresse di Dio che dimentica la creazione del mondo.”.
Vivo Michele come il creatore di un’opera d’arte che genera e rilascia, a
dimostrazione che esiste, c’è, decide.
L’angelo superbo, Lucifero, “colui che porta la luce”, prima di essere il figlio
perduto, portava con sé la luce della conoscenza e come primo essere
spirituale era in grado di riconoscere con chiarezza i limiti delle polarità
interiori spirituali. Egli credette di essere in grado di assorbire la Divinità e di
poter, di conseguenza, assumere in sé come essere creato e quindi finito,
l’infinito stesso. Il finito, però , non potrà mai comprendere l’infinito e così
Lucifero perse la posizione corretta, si allontanò dal centro. Sorse un conflitto,
una separazione delle parti, da cui deriva il nome “diavolo” (dià-ballo), colui
che divide. In quest’ottica la parte più umana di noi è quella diabolica, quella
che divide, scinde, separa e ha bisogno di costruzioni articolate, mentre quella
divina si occupa di vivere e sentire, di armonizzare questa scissione con
l’amore.
Ora la musica, secondo me, ha questo potere, quello di unire il diviso, quello
di armonizzare, quello di riconnetterci con le nostre parti ‘divine’.
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L’angelo è dentro ognuno di noi, instancabilmente abbracciato al demone e si
fanno compagnia, e noi cerchiamo di armonizzarli attraverso la bellezza, la
musica.
Una musica che collega il divino con l’umano, il sacro con il profano, la
poesia con il corpo.
Michele[4] non scinde tra musica del suo corpo e musica prodotta con gli
strumenti, Michele è egli stesso musica. Non parla, perché non ha bisogno di
parlare, si fa capire attraverso i gesti. Partecipa di una forza incredibilmente
comunicativa. Michele è angelo, colui che annuncia un modo diverso di
comunicare. E che nella sua divinità mi permette di unire i contrari, di
rappacificarmi, di accordarmi come uno strumento stonato, come l’angelo con
il suo demone.
Da Platone a Hillman vi sono filosofi e psicologi che sostengono e diffondono
l’idea dell’unicità e irripetibilità di ogni singolo individuo, invitandoci a
trovare la nostra più vera natura. Prima della nascita, l’anima di ciascuno di
noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un
compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro.
Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di
essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra
immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del
nostro destino.
Il mio daimon mi ha portato fino a Michele, per raccontarmi di occhi sinceri,
di una musica dell’anima, di una musica interiore, lontana da regole,
schemi, sintassi e forme. Solo viva e genuina, spontanea e vera.
I filosofi non solo stanno al mondo per rintracciare il senso che collega le cose
tra loro anche in loro assenza, ossia facendo riferimento solo alla loro
immagine, ma creano, in senso lato, a loro volta, immagini di straordinaria
plasticità con cui disegnare la relatà, soprattutto là dove la ragione si arena e
urge l’ausilio del mito. E allora penso che Michele, con la sua musica, è il
filosofo di un linguaggio antico. Ognuno di noi ha una sua personalità, una
sua vocazione, una sua immagine che lo contraddistingue in modo radicale e
che, di conseguenza, va ricercata e alimentata senza posa, per rendere
davvero autentica la nostra esistenza.
Noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere.
Ed ecco che compare un nuovo regalo: con Michele scopro di voler ‘esser-ci’.
In questo senso siamo chiamati a decifrare il codice della nostra anima,
affinché possiamo cogliere con nitore il senso compiuto della nostra presenza
nel mondo. Il celebre mito platonico di Er, descritto nel X libro della
Repubblica, a suggello della libera scelta con cui ognuno di noi sceglie il
proprio destino: Er, morto in battaglia e risuscitato dopo dodici giorni,
racconta agli uomini il destino che li attende dopo la morte, sottolineando
come non sarà il dèmone a scegliere le anime, ma le anime a scegliere il
dèmone, per cui la responsabilità etica non è del dio, bensì degli stessi uomini
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che hanno liberamente scelto tra i vari paradigmi o modelli di vita loro
proposti nell’aldilà. Ecco perché il nostro modello di vita è da sempre inscritto
nella nostra anima: scegliere la virtù, coltivare la parte migliore di noi stessi
o attuare ogni giorno, con coerenza e coraggio, la nostra vocazione dipende,
quindi, solo da noi.
[5]Platone: Non sarà il dèmone a scegliere voi, ma voi il dèmone [...]. La
virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora, tanto più ne
avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità,
pertanto,
è
di
chi
sceglie.
Il
dio
non
ne
ha
colpa.
Questo daimon (daimon), che possiamo chiamare anche “genio”, componente
ineludibile del nostro io, a volte può essere perso di vista, non coltivato,
accantonato, ma prima o poi tornerà per possederci totalmente, per definire
la nostra immagine, per far emergere quello che chiamiamo il “me”. C’è un
punto su cui lo stesso Hillman[6] insiste con passione: se l’uomo si vede
solamente come “un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze
sociali”, si riduce a statistica, a “mero risultato”, a “vittima” di un codice
genetico.
È necessario impegnarsi nel vivere il proprio destino, la propria anima.
Ogni amante sa benissimo che troppa luce fa male all’amore. L’amore
pretende un po’ di oscurità, forse perché la luce è una creatura che si muove
sulla superficie delle cose. Noi vediamo un oggetto quando la luce ha colpito
la sua superficie ed è rimbalzata in un riflesso. La luce non può penetrare. Ma
l’amore esige la profondità, la penetrazione: cose impossibili alla luce. Non c’è
unione d’amore tra la carne e la luce… forse perché la ‘Parola’ che ha originato
il corpo è nata in un luogo in cui non c’è luce: la bocca. La bocca mangia ben
prima di parlare. Mangiare precede il parlare. La nostra ‘Parola’ originaria è
gemella del cibo. Quando Ludwig Feuerbach[7], un professionista delle
parole, dice che siamo quel che mangiamo, indica il luogo in cui la Parola e
la carne si uniscono nell’amore. “Mangio dunque sono”. Il neonato, l’infans,
il corpo muto, sa già quel che voleva dire il filosofo. Il bambino conosce la
saggezza del cibo. Nella bocca viene data la prima lezione inarticolata della
vita. Tutte le parole che verranno scritte dopo sono variazioni sul tema della
fame. Parliamo perché il nostro essere ha fame . Forse parlare significa
soffrire di una malattia del corpo, significa aver fame. Le parole sono il
surrogato del cibo che ci manca. Le parole di Michele raccontano di una fame
tagliente, di una fame arrabbiata, di una fame che lavora, che si fa spazio tra
suoni e rumori. Michele decide che è arrivato il momento giusto per parlare,
ha fame di farsi conoscere. Così la bocca apprende una nuova lezione: il
mondo esterno si divide tra quello che si può mangiare e quello che non si
può mangiare, le cose da mettere all’interno del corpo e quelle da lasciare
all’esterno e quelle da eliminare. Il corpo non è toccato da ciò che si dice e si
conosce, ma da ciò che rimane inespresso e silente. Parola e carne si amano
negli interstizi, ove dimorano i nostri sogni. Le parole di Bachelard: “non si
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persuade se non suggerendo i sogni fondamentali, se non richiamando alla
mente i percorsi del sogno.”[8] La gente si converte con ciò che va al di là
delle parole e promana direttamente dalla presenza del santo: l’inudibile
suono mantrico che scaturisce dal suo cuore. Come afferma Govinda[9].
E dal cuore di Michele scaturiscono nuove parole.
Dal mio, un sincero grazie.
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Chiara Delogu
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[1] Platone, L’anima, Mondatori, Milano, 2006.
[2] Anne e Daniel Meurois- Givaudan, L’incontro con lui, ed. Amrita, pag 58.
[3] Anne e Daniel Meurois- Givaudan, L’incontro con lui, ed. Amrita, pag 58.
[4] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[5] Platone, Le opere: Teagete, Newton compton,Roma, 2002, p.107.
[6] James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1998, p.78.
[7] Ludwig Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, a cura di C.Cometti,
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[8] Gaston Bachelard, Il diritto di sognare, Dedalo libri, Bari, 1974, p.64.
[9] Anagarika Govinda, I fondamenti del misticismo tibetano, Ubaldini,
Roma, 1972.
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Giugno
Andrello Roberta, Mentre osservo Luca, imparo ad ascoltare me stessa
Pubblicato il 28 giugno 2010
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Il ruolo chiave dei miei vissuti nella relazione musicoterapica con Luca
Il processo musicoterapico individuale si caratterizza per la compresenza di
due persone che vi partecipano con tutto il loro essere.
Preoccupato dall’ansia di cogliere tutte le manifestazioni della persona
(paziente), molto spesso il musicoterapeuta corre il rischio di “dimenticare” se
stesso, quale altra persona coinvolta e polo ricevente di quella che Melanie
Klein[1] definisce identificazione proiettiva[2], nella quale, secondo Bion[3],
ha le sue basi il controtransfert. In tal modo il musicoterapeuta confonde e
scambia per propri i vissuti della persona (paziente), perdendo l’opportunità
di sfruttare l’alto valore comunicativo del controtransfert: sapendo separare
ciò che lui stesso prova da ciò che la persona (paziente) vuole fargli sentire,
invece, il musicoterapeuta si trova nella condizione ideale per entrare in
empatia con l’altro (paziente), mantenendo nel contempo un distacco da
questi vissuti, necessario per salvaguardare la propria parte sana.
In quanto uno dei poli diadici coinvolti nella relazione terapeutica, ho
ritenuto di fondamentale importanza rivolgere sempre un’attenzione
particolare ai miei vissuti, poiché è proprio con essi che ho dovuto “fare i
conti” e misurarmi continuamente, fin dalla prima volta che ho visto Luca[4].
Nei fatti, il grande rischio che ho corso è stato quello di essere “accecata”
dall’entusiasmo e dalla voglia di effettuare un intervento musicoterapico di
questo calibro, innescando in tal modo una sorta di reazione a catena, il cui
esito finale era il “non vedere” quanto accadeva. L’euforia e l’entusiasmo
coprivano, forse nel tentativo di difendermi, le molteplici emozioni esperite
ogni volta che ero in presenza di Luca. Ciò mi impediva di
affrontareserenamente le variesituazioni e di dare loro il giusto significato,
necessario per proseguire l‘attività senza ostacoli tra me e Luca.
Soprattutto durante le prime osservazioni, quando percepivo la presenza di
Luca come fortemente invadente, aggressiva, travolgente e sentivo l’angoscia
che il suo comportamento trasmetteva, avevo molta difficoltà ad ammettere di
non sentirmi a mio agio, di avere paura di non farcela, di essere inadeguata
alla situazione, tant’è che negavo tutto ciò affermando di “stare bene”. Non mi
è stato facile, col tempo, ammettere questi stati d’animo, ma posso affermare
che questo è stato un primo passo che ho compiuto anche nella direzione
della conoscenza di me stessa: grazie a questa esperienza ho avuto modo di
misurarmi con il mio modo di essere, ho imparato a percepire, ad ammettere
e poi faticosamente ad accettare le emozioni, in special modo quelle
spiacevoli.
Col passare del tempo la loro presenza mi ha fatta sentire sempre più una
persona viva, “a tutto tondo”, nonostante fossero comunque dolorose.
Durante il tempo trascorso con Luca, dunque, è come se io avessi affinato le
mie capacità “autopercettive”, diventando progressivamente più capace di
ascoltarmi in tutte le mie sfaccettature. Questa apertura mi ha consentito di
avere una maggiore consapevolezza dei movimenti controtransferali,
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evitandomi così, almeno in parte, di attribuire a Luca emozioni e sensazioni
che scaturivano da me e, cosa più importante, mi ha facilitato il difficile
compito di riconoscere e di distinguere le situazioni in cui ero oggetto di una
identificazione proiettiva da quelle in cui non lo ero.
Prestando una vigile attenzione ai miei vissuti, paradossalmente ho potuto
essere più attenta a Luca, imparare a conoscerlo, ma soprattutto a cogliere di
volta in volta quanto lui mi trasmetteva attraverso il suo modo di essere e di
esprimersi nel contesto musicoterapico, riuscendo così, seppure con molta
fatica, a trovare il modo adeguato in quel momento per “agganciarlo” ed
entrare in “contatto” con lui.
Penso che sul piano concreto sia questa l’esperienza che si vive, quando si
afferma che ”… nella relazione d’aiuto … lo stesso terapeuta cambia … per
diventare un miglior terapeuta.”[5]
In tal caso ho la sensazione di aver appena iniziato un cammino tanto
tortuoso quanto affascinante, che probabilmente proseguirà senza fine …
Osservare Luca, mantenendo la “giusta distanza”
L’osservazione di Luca è stata non solo la fase durante la quale ho raccolto le
informazioni necessarie alla valutazione della necessità dell’intervento
musicoterapico e alla sua strutturazione, ma anche un’occasione di riflessione
e di crescita personale e professionale.
Se è vero infatti, come affermano Brutti e Scotti, che “ … l’apprendimento
dell’osservazione è basato sulla pratica dell’osservazione e non sulla teoria
dell’osservazione”[6], la realtà che mi sono trovata ad affrontare è stata
un’esperienza importante di apprendimento, durante la quale tutte le nozioni
teoriche studiate hanno cominciato a sostanziarsi.
In primo luogo ho sperimentato la necessità e al contempo la difficoltà di
prendere come oggetto me stessa, quale condizione necessaria per evitare di
parlare, di muovermi, di agire, di interpretare, ovvero di ostacolare
l’osservazione, creando invece le condizioni per raggiungere Luca.
In modo particolare ho vissuto il passaggio dalla teoria alla pratica nella
difficile applicazione di quelle che Brutti e Brutti hanno chiamamato ‘regole
paradosse’[7], riconoscendo in esse un sostanziamento della ‘reverie’[8][9]
materna descritta da Bion:
 “... calarsi nella situazione con un’attitudine accogliente, senza agire,
mantenendo un’attenzione fluttuante;
 porsi a una giusta distanza dall’oggetto;
 attivare una visione binoculare;
 mettere tra parentesi, per quanto possibile, le nostre teorie di
riferimento e la nostra esperienza;
 sospendere ogni giudizio;
 osservare senza memoria e desiderio;
 cogliere, oltre il vedere, il non visto.”.
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Queste sette regole sono state il mio punto di riferimento nella realizzazione
dell’osservazione, ma spesso le particolari situazioni nelle quali mi sono
venuta a trovare hanno richiesto molto impegno ed energia per riuscire,
anche solo minimamente, a rispettarle.
Le difficoltà maggiori sono state rappresentate dal fatto che inizialmente
sentivo il peso dell’invadenza di Luca: era come se lui cercasse di
“risucchiarmi”, proiettando in me parti di sé, nel tentativo di controllarmi.
Durante l’osservazione nel contesto educativo, e ancor più in quella
musicoterapica, Luca cercava tutte le strategie possibili per farmi giocare,
parlare, muovere, ma non liberamente: il suo desiderio insistente era che io
facessi ciò che voleva lui, secondo le modalità e nei tempi da lui definiti. Mi
sentivo come il “prolungamento del suo braccio”, l’oggetto del suo delirio di
onnipotenza.
Queste situazioni mi rendevano molto difficile riuscire a mantenere la “giusta
distanza”, a trovare un punto di osservazione dal quale avere una visione
chiara e “binoculare”. Fino a che punto ciò che stavo osservando era “offerto”
dalla realtà osservata, e cosa, invece, era frutto della mia mente? Le emozioni
che provavo erano negative, mi sentivo a disagio, inadeguata, incapace di
affrontare la situazione … eppure avevo il forte desiderio di continuare,
perché mi rendevo conto che la negatività del mio sentire era in parte una mia
personale reazione al comportamento di Luca, in parte qualcosa che Luca
metteva dentro di me, ma tutto ciò non coincideva con il mio sé.
In questa complessa situazione il fatto di avere degli indicatori da rilevare ha
limitato la mia tendenza iniziale a cercare di dare frettolosamente una
spiegazione ad ogni evento sulla base delle teorie apprese, e mi ha facilitata
nel prestare maggiore attenzione ad aspetti chiave del comportamento di L.
che richiedevano, al di là della pura rilevazione, la mia comprensione.
Seppure con grande sforzo, e grazie al continuo monotoraggio delle mie
emozoni, durante ogni seduta di osservazione ho mantenuto la “lucidità”
necessaria per trovare una mediazione tra ciò che avrei dovuto fare, nel
rispetto delle regole, e le richieste di Luca, in modo da evitare situazioni
estreme nelle quali si sarebbe interrotta o addirittura resa impossibile
l’osservazione. Ciò mi ha consentito di riuscire a calibrare i miei
comportamenti a seconda delle situazioni, pur mantenendo invariati gli
indicatori dell’osservazione, della quale è possibile attestare l’attendibilità.
Roberta Andrello
[email protected]
[1] KLEIN MELANIE, Contributions to Psyco-Analysis, Hogart Press,
London, 1948.
[2] Nell’accezione Kleiniana l’identificazione proiettiva è uno dei meccanismi
di difesa messi in atto dal bambino che si trova nella posizione
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schizoparanoide (prima del quarto mese di vita), quando la visione
dell’oggetto è parziale, in quanto esso è scisso in “buono” e “cattivo”, come
anche il suo Io.
Il bambino proietta quindi parti di sé nel corpo materno per poterlo
possedere, controllare con la sua presenza e al limite danneggiare.
[3] BION R. WILFRED, Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971.
[4] Nome di fantasia in ottemperanza alla legge della privacy.
[5] CHERUBINI G., ZAMBELLI F., La Psicologia dei costrutti personali, ed.
Patròn Bologna,1987, p. 40.
[6] BRUTTI CARLO, SCOTTI FRANCESCO, Osservazione-conflitto-bisogni,
in: Quaderni di psicoterapia infantile, n.4, Borla, Roma, 1981, p. 27.
[7] BRUTTI CARLO e RITA, “ Uso e abuso dell’osservazione”, in: Quaderni di
psicoterapia infantile, n.33, Borla, Roma, 1996, pp. 16-17.
[8] Con “reverie” materna, Bion intende l’attitudine materna in grado di
cogliere la proiezione del bambino, capire cosa egli prova e rispondere in
modo idoneo; la madre quindi raccoglie e contiene gli elementi che il
bambino ha proiettato e li restituisce spogliati degli aspetti più insostenibili,
in modo che il bambino possa cominciare a contenere sentimenti sgradevoli,
in una forma per lui tollerabile.
[9] BION R. WILFRED, Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico,
Armando, Roma, 1970.
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Bonomi Carla, Come è difficile poter osservare il “mondo sonoro” di Costantina
Pubblicato il 21 giugno 2010
L’ambiente, che mi fu assegnato dal Direttore Sanitario per realizzare
l’osservazione musicoterapica, era situato al terzo piano della sezione
maschile del reparto di Geriatria. Era l’unica stanza disponibile ed era
utilizzata dai volontari per svolgere attività ricreative con gli ospiti del
reparto. Nonostante avessi chiesto di mettermi a disposizione un ambiente
scevro da stimoli superflui, sufficientemente isolato da rumori esterni, al fine
di intervenire al meglio nella situazione non verbale, la stanza era stracolma
di arredi: un armadietto, un mobile basso, un’angoliera a due piani su cui
erano appoggiati due vasi di fiori secchi, otto sedie e, appesi alle pareti,
c’erano un quadro e i disegni dagli ospiti. Rimasi visibilmente delusa. Feci
notare l’impossibilità di poter intervenire, perché la stanza straboccava di
“stimoli” e al contempo era priva di spazio per la presenza dei tavoli. In tutta
risposta mi dissero: “È l’unica stanza a disposizione; non abbiamo altro”.
Capii subito che non avevo altra scelta… dovevo adeguarmi! Chiesi però
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l’autorizzazione di spostare i tavoli e le sedie nell’ingresso della stanza.
Autorizzazione che mi fu accordata a patto che la risistemassi al termine
d’ogni seduta. All’inizio quindi d’ogni seduta (sia per la fase d’osservazione
che nel successivo trattamento individuale) ero costretta a “modificare”
l’ambiente. Portavo i tavoli, le sedie, il mobiletto e l'angoliera al di fuori della
stanza, staccavo i cartelloni dalle pareti e la “risistemavo” al termine d’ogni
singola seduta. Non potendo inoltre lasciare gli strumenti, perché
l’armadietto era occupato dal materiale dei volontari, ero costretta ogni volta
a portarli e riportarmeli via. Ero disposta a far tutto questo pur di non
rinunciare all’esperienza musicoterapica. Cercai quindi di rendere l’ambiente
il più accogliente possibile per entrambe, eliminando gli elementi d’arredo
che potessero essere di disturbo per la terapia stessa. Lasciai quindi solo
l’armadietto e un tavolo. Le due finestre presenti nell’ambiente inoltre lo
illuminavano sufficientemente con luce naturale. Al centro della stanza
collocai in modo circolare gli strumenti. La disposizione circolare permetteva
a Costantina di muoversi più agevolmente e mi permetteva di avere un più
ampio spazio per l’osservazione. Proposi a Costantina l’utilizzo: di ben sette
battenti, un cembalo, un jambè, un flauto dolce, due maracas, un tamburello
basco, un tamburo, un triangolo ed un xilofono soprano. Il tamburo ed il
jambè erano posti al centro. Disposi tre sedie, di cui due in cerchio, in
posizione frontale vicino agli strumenti, un lettore CD per l’ascolto della
musica, il tavolo con la sedia vicino la finestra (a destra dell’ingresso) e
l’armadietto vicino alla parete a sinistra. Dal colloquio con le figure di
riferimento (Primario, Infermieri, Caposala) che accudivano Costantina, non
ebbi informazioni precise in merito alle preferenze musicali della ragazza. Alla
mia domanda tutti mi rispondevano: “A Costantina piace la musica; ascolta di
tutto”. Nessuno mi ha dato un’indicazione precisa. Non avendo notizie
specifiche, mi affidai al mio intuito… Sapevo che Costantina aveva un’età
anagrafica di ventinove anni ed un’età mentale che corrispondeva a due o tre
anni (dati fornitemi dal Primario). In considerazione di ciò mi chiesi: “Qual è
la musica che si propone ad un bambino piccolo? Qual era la musica che
ascoltavo da piccola, che tanto mi piaceva?” A queste domande mi venne
naturale e spontanea la risposta: “Le canzoni dello Zecchino d’Oro”. Tra le
musiche, da me proposte all’ascolto, scelsi alcune canzoni dello Zecchino
d’Oro: “Quarantaquattro Gatti, Il Pinguino Belisario e la Tartaruga Sprint”. Le
sedute di osservazione musicoterapica avvenivano con cadenza settimanale
per una durata massima di trenta minuti. Prima dell’inizio d’ogni seduta,
dopo aver accuratamente preparato la stanza, andavo a prendere
personalmente Costantina al primo piano: “Reparto Disabilità”. Durante le tre
sedute, Costantina mi accoglieva con gioia e accettava volentieri il mio invito.
Gioia provata anche da me per la sua disponibilità a seguirmi. Ogni volta mi
porgeva la mano e, di seguito, raggiungevamo la stanza di musicoterapia.
Arrivate davanti alla stanza, invitavo gestualmente Costantina ad entrare.
Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
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Costantina accettava sorridendo, dirigendosi sempre verso la sedia sistemata
vicino alle maracas. Costantina, pur mostrando la sua disponibilità a venir
con me, per tutte e tre le sedute della fase dell’osservazione, ha sempre
assunto la postura seduta sulla sedia, con il capo chino e gli occhi chiusi.
Raggomitolata su se stessa, Costantina non guardava e non esplorava nessun
strumento, e non stabiliva un contatto oculare con me. Inoltre, ogni qual volta
mi avvicinavo al lettore CD per proporle l’audizione musicale, Costantina
gridava perentoriamente: “No”. Tenendo quindi conto dello stato emotivo di
chiusura (postura seduta, occhi chiusi, corpo raggomitolato) e del rifiuto
verbale, manifestato da Costantina, ritenni opportuno non proporle l’ascolto
degli eventi musicali predisposti, per evitare “qualsiasi” disagio emotivo.
L’unico strumento musicale scelto da Costantina fu quindi la bocca,
verbalizzando un perentorio: “No”. Musicalmente il “No” pronunciato da
Costantina, con forte intensità, corrispondeva ad una semiminima con
altezza oscillante tra il MI4/RE4 e con l’orientamento dell’espressione sonoro
– musicale rivolta a sé. Il silenzio caratterizzò musicalmente l’intera fase
dell’osservazione musicoterapica. Io vivevo “paradossalmente” quel silenzio
con serenità e disponibilità all’ascolto. Ero pronta ad accogliere qualsiasi cosa
mi proponesse Costantina. Mi resi conto che Costantina viveva in ascolto di
sé, alla perpetua ricerca del suo spazio “vitale”. In sede d’équipe, nel momento
della valutazione osservativa, sebbene l’intervento musicoterapico si
presentasse difficile, ritenni opportuno iniziare il trattamento individuale.
Carla Bonomi
[email protected]
Con tag Musicoterapia e psichiatria, Bonomi Carla
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Greco Marina, Dall’oblio dell’ascolto alla sua riscoperta
Pubblicato il 14 giugno 2010
L’oblio dell’ascolto e il primato della visione
La grande intuizione socratica, che sembrava aver aperto al pensiero
occidentale nuovi orizzonti gnoseologici, è destinata purtroppo ad essere ben
presto accantonata e addirittura “tradita”: la centralità del dialéghestai[1] e la
dimensione dell’ascolto di sé e degli altri, come via maestra per giungere alla
verità, sono infatti ben presto soppiantati dall’affermazione di un nuovo
procedere filosofico che sostituisce al dialogo e all’ascolto la visionecontemplazione. L’improvvisa e, direi, brutale privazione della dimensione
dell’ascolto rende orfana la cultura occidentale: “nel notevole insieme
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culturale che la civiltà greca ha lasciato in eredità all’Occidente, non vi è
nulla, o quasi nulla, che riguardi l’ascolto. Questa è una cosa davvero
strana. Come hanno potuto questi giganti del sapere, questi filosofi nati,
queste creature ineguagliate dimenticare l’orecchio e la sua funzione di
ascolto?”[2] Come è potuto accadere? Paradossalmente è proprio Platone,
erede quasi naturale del pensiero socratico, a determinare, nella sua maturità,
la progressiva affermazione della visione-contemplazione come strumento
principe nella ricerca della alétheia, la verità: il logos perde la dimensione
acroamatica e la relazione fra l’uomo e la verità si cristallizza nel paradigma
ottico[3]. La maieutica socratica, cioè, aveva esaltato un particolare significato
della parola lògos ereditato dal verbo léghein da cui lògos deriva[4]: il lògos
che non è solo pensiero, non è solo il dire, ma è soprattutto ascolto
accoglimento. La dimensione acroamatica è proprio l’ascoltare dalla viva
voce[5]. Nella gnoseologia platonica[6], la capacità di ascolto quale
esperienza di accoglimento della verità (dialéghestai) è invece sostituita
dall’intuizione: la conoscenza perfetta della verità si configura come visione e
contemplazione theoría, ovvero logos intuitivo e contemplativo)[7]. Il Socrate
che troviamo nei dialoghi della maturità di Platone non è più il Socrate dei
dialoghi giovanili: “quanto più il dialéghestai … svanisce nell’immota
“visione” della verità delle idee, tanto più, allora, la forma dialogica diventa
qualcosa di puramente dimostrativo [...] Lo stesso Socrate, che nei primi
dialoghi [...] è il suscitatore della discussione, diventa nei dialoghi della
maturità il maestro e finisce con lo scomparire del tutto”[8]. Il celebre mito
della caverna, in cui c’è il nocciolo della gnoseologia platonica, nasce da due
necessità:
1) svincolare la ricerca della verità dalla conoscenza sensibile, quella che passa
attraverso i cinque sensi, perché fallace e ingannevole;
2) affermare l’unicità della verità: non tante verità quanti sono i sensi, ma una
sola che si rivela nella contemplazione.
La vista, dunque, anche se trasfigurata nella dimensione contemplativa,
diviene comunque senso privilegiato. Il “tradimento” dell’ascolto da parte di
Platone si compie nella scelta di fissare il dialéghestai socratico nella
scrittura, dove il nome diventa quasi immagine della cosa a cui rimanda.
L’ascolto ovviamente non svanisce del tutto nella filosofia platonica, ma perde
il suo valore come strumento per la ricerca della verità: ormai l’unica via
sembra essere, per la ragione, la visione-contemplazione-intuizione.
L’equazione fra conoscere e vedere[9] si radica, da questo momento, nel
pensiero occidentale: “il desiderio di sapere si identifica con la volontà di
vedere”[10]. Come l’occhio corporeo diviene occhio dell’anima, così la luce,
che nel mondo sensibile consente di stabilire una relazione visiva con le cose,
nella dimensione contemplativa diviene simbolo del nùs, pura intuizione del
vero Bene (il sole del mito della caverna di Platone)[11]. In molte altre culture
più antiche di quella greca la luce era simbolo della positività, del sacro e della
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presenza del divino. Questa stretta interrelazione fra occhio dell’anima, luce,
conoscenza e rivelazione del divino non poteva non riversarsi dal pensiero
greco nel pensiero nascente del cristianesimo che si contrappone
all’ebraismo, più legato al primato dell’ascolto e alla irrappresentabilità di
Jahvè[12]: “se dovessi definire il popolo ebreo, direi senza esitare che è il
popolo dell’ascolto. Quello greco era un popolo «ascoltante»; quello ebreo è
letteralmente catturato dall’ascolto. […] Gli ebrei sono andati incontro
all’ascolto. Esso li soggioga e li sprona in ogni istante, al punto che finiscono
per «obbedirgli». Gli ebrei esprimono incessantemente il desiderio di
ascoltare il loro Dio.”[13] Eppure, in un certo modo, anche la religione
ebraica potrebbe lasciar intendere che l’ascolto autentico (e dunque la
conoscenza di Jahvé) sia, in realtà, una visione: “Il Signore disse a Mosè:
"Dirai agli Israeliti: Avete visto che vi ho parlato dal cielo! "”[14]. “Jahvè
trasforma l’udito del vero credente in vista, cosicché la voce divina è
percepita con l’occhio dell’anima. Lo scambio e la trasfigurazione dei sensi
sono qui realizzati da Dio stesso”[15]. Nella tradizione cristiana, il credente
ascolta la parola di Dio – testimoniando così la fede nel Verbum da cui tutto
proviene – ma la conoscenza della verità è rinviata alla dimensione
ultraterrena e si traduce, ancora una volta, in una visione di Dio. Cosicché
quella theorìa, lògos intuitivo e contemplativo, che in Platone è rivolta all’idea
del Bene, qui si rivolge al trionfo della gloria divina. E nell’iconografia
cristiana, infatti, Dio è sempre rappresentato come trionfo di luce. Leggiamo
cosa scrive il nostro Dante che ha magistralmente tentato di immaginare
l’oltretomba fino alla contemplazione di Dio:
[16].
Se scorriamo la storia del pensiero
occidentale,
notiamo
come
quell’equazione fra sapere e vedere
di cui si parlava sia predominante.
Basti pensare solo alla carica
simbolica
dell’Illuminismo
e
dell’intero XVIII secolo, le siècle des
lumières, quando la luce, da
rappresentazione dell’illuminazione
divina,
diventa
metafora
dell’emancipazione umana dal buio
dell’ignoranza e dunque simbolo del
progredire
inarrestabile
della
capacità conoscitiva dell’uomo. La
simbologia illuminista trova ampio
spazio
persino
nel
percorso
iniziatico
di
Tamino
dello
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Zauberflöte di Mozart. Così canta Sarastro: “I raggi del sole disperdono la
notte. Distrutto è il potere conquistato dagli ipocriti con l’inganno”; il Coro
risponde “Gloria a voi, iniziati! Siete penetrati nelle tenebre vincendole, sian
rese grazie a te, Osiride, a te, Iside! La fermezza ha vinto e ha coronato la
bellezza e la saggezza in eterno”[17].
La riscoperta dell’ascolto
Prima di un recupero significativo e determinante dell’ascolto e della
dimensione acroamatica del logos bisogna aspettare il Novecento, quando
Martin Heidegger sottopone ad un radicale ripensamento il pensiero
occidentale.
Egli parte, infatti, dal presupposto che sia improponibile un dire avulso
dall’ascolto, un parlare che non sia parte integrale dell’ascoltare, un discorso
che non sia raccolto.[18] Il lògos, considerato dai post-socratici in poi solo
come un dire, un parlare, un ragionare, un pensare, recupera, dunque, con il
filosofo tedesco, il significato dell’ascoltare nel senso di accoglimento.
Analizzando, infatti, il verbo léghein, da cui lògos deriva, Heidegger riscopre e
ripropone un altro significato del termine che è raccogliere, ovvero un
accogliere che raduna, mette insieme. Il léghein è un posare e un custodire:
“(Noi) siamo inclini a considerare questo mettere insieme come se fosse già
la raccolta e la sua conclusione. Ma la raccolta è qualcosa di più che un
semplice ammucchiare. Nella raccolta è implicito un “andare a prendere che
porta dentro”. In questo domina l’ospitare; e in quest’ultimo, a sua volta, il
custodire […]. Al léghein come lasciar-stare-insieme-dinnanzi importa
unicamente lo stare al sicuro, nella disvelatezza, di ciò che sta dinnanzi: per
questa ragione il raccogliere che appartiene a tale posare si determina sin
dall’inizio in riferimento al custodire.[19]». Queste riflessioni di Heidegger
sono decisive in quanto descrivono perfettamente la dinamica
dell’ascolto[20]. Il filosofo si sofferma a riflettere sul significato di udire e
ascoltare e fa un’interessante notazione: «Noi riteniamo erroneamente che
l’uso degli organi corporei dell’udito sia l’udire vero e proprio; e che,
all’opposto, l’udire nel senso dell’ascoltare e della disponibilità attenta vada
considerato solo come una trasposizione sul piano spirituale di quell’altro
che sarebbe l’udire in senso proprio[21].» Per Heidegger, dunque, l’udire non
è il semplice recepire e captare le onde sonore che colpiscono il nostro
orecchio. Se così fosse «sarebbe vero – dice - che un suono ci entra da un
orecchio e ci esce dall’altro. È ciò che di fatto accade quando non siamo
raccolti in ciò che ci viene detto … L’udire è primariamente il raccolto
ascoltare. È nella capacità di ascoltare che si dispiega l’essenza
dell’udire[22]». L’ascoltare, pertanto, è l’udire autentico: «Fino a che
ascoltiamo soltanto il suono di una parola come espressione di un parlante,
non ascoltiamo ancora affatto. In tal modo non arriveremo mai ad aver
udito autenticamente qualcosa… Abbiamo udito quando apparteniamo a ciò
che viene detto[23]». Nella parole di Heidegger (“disponibilità attenta”) è
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ravvisabile una riscoperta del valore dell’ascolto attento dell’altro nella
dimensione dialogica. Nella concezione heideggeriana al di fuori dell’ascolto
non vi può essere lògos.
Nonostante ciò, il predominio della visione e del lògos che è solo un dire e
non anche un ascoltare è giunto fino ai nostri giorni e determina,
probabilmente, uno svuotamento delle relazioni umane, privandole del loro
senso più vero. Eppure, nel rapportarsi agli altri è fondamentale lasciare che
l’altro “si esprima come tu … saper ascoltare il suo appello e lasciare che ci
parli. Questo esige apertura ... chi si mette in atteggiamento di ascolto è
aperto in un modo più fondamentale. Senza questa radicale apertura
reciproca non sussiste alcun legame umano. L’esser legati gli uni agli altri,
significa sempre, insieme, sapersi ascoltare reciprocamente”[24].
Al contrario, il lògos dei nostri tempi sembra essere totalmente lontano dalla
“disponibilità attenta”; assistiamo, piuttosto, al trionfo dell’aggressività
verbale, di un dire e di un parlare che sono solo prevaricazione dell’altro,
imposizione del proprio punto di vista, e che nulla hanno a che vedere con
l’ascolto-accoglimento. Noi possiamo consentire di esistere a ciò che ci sta
davanti a condizione che noi stessi ci mettiamo davanti in atteggiamento
accogliente e, soprattutto, sforzandoci di lasciar-stare-insieme l’oggetto di
conoscenza della tradizione occidentale evitando di smembrarlo, dimidiarlo,
scorporarlo[25]. In definitiva, pare indispensabile per il pensiero occidentale
recuperare il significato più autentico del lògos perché non è possibile nessun
legame, nessuna relazione fra gli uomini senza l’ascolto reciproco. Ed è
significativo che, per far questo, si finisca per tornare alle origini, riscoprendo
quel messaggio interiore di socratica memoria che consiglia e ispira a
perseguire un fine semplice ma elevato, la salute dell’anima, e recuperare la
dimensione del dialéghestai, dell’ascolto di sé e degli altri.
Marina Greco
[email protected]
[1]Greco Marina, (24/05/2010), L’ascolto agli albori del pensiero occidentale,
http://musicoterapie.over-blog.com/
[2] Tomatis A., Ascoltare l’universo. Dal big bang a Mozart, Baldini &
Castoldi, Milano 2005, pag.207.
[3]Cfr. Mancini, L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Ediz.
Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pag. 18.
[4] Bisognerà attendere moltissimi secoli prima che tale significato sia
recuperato, come vedremo in seguito, da Heidegger.
[5] Dal verbo greco acroàomai, che significa appunto odo, ascolto dalla viva
voce (cfr. Rocci L., Vocabolario Greco Italiano, Soc. Editrice Dante Alighieri,
Città di Castello 1983.
[6]Cfr. Platone, Repubblica, libro VII
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[7] Cfr. Giannantoni G., Storia della fiolosofia, vol. III, Casa Editrice Dr.
Francesco Vallardi, Società Editrice Libraria, Milano 197, pag. 187-188.
[8] Giannantoni G., op.cit, pag.156.
[9] Cfr. Mancini R.,op.cit , cap. 1, par.2 “Sapere è vedere”.
[10] Mancini R., op.cit., pag. 9.
[11]Cfr. Mancini R., op.cit., pag.28; Giannantoni G., op.cit., pagg. 184-187. Si
tralascia qui intenzionalmente ogni approfondimento su tutte le implicazioni
filosofiche e gnoseologiche al riguardo, che in altra sede sarebbero doverose.
[12] Cfr. Mancini, op.cit., pag. 29.
[13] Tomatis A., Ascoltare l’universo, cit., pag. 214.
[14] Esodo, 20,22, trad. tratta da Bibbia CEI, www.vatican.va.
[15] Cfr. Mancini R., op.cit., pag. 30.
[16] Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, 82-90, 100-105, versione a cura di
Bosco U. e Reggio G., Le Monnier, Firenze 1983. Si veda anche “la traduzione”
in immagine di queste terzine fatta da G. Doré.
[17] Mozart W.A. (Schikaneder E.), Die Zauberflöte, Atto II, scena 30.
[18] Corradi Fiumara G., op.cit., pag. 10.
[19] Heidegger M., Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Mursia,
Milano 1976, pag. 143-144.
[20] Cfr. Corradi Fiumara G., op. cit., pag. 14.
[21] Heidegger M., Saggi e discorsi, cit., pag. 146.
[22] Heidegger M., Saggi e discorsi, cit., pag. 146.
[23] Heidegger M., op. cit., pag. 147.
[24] Cit. di Gadamer H. G. (Verità e metodo) tratta da Corradi Fiumara,
op.cit., pag. 19.
[25] Cfr. Corradi Fiumara, op.cit., pag. 28-29.
Con tag L'ascolto in musicoterapia, Greco Marina
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Andrello Roberta, Dalla teoria alla prassi: l’intervento musicoterapico con Luca
Pubblicato il 7 giugno 2010
Prologo
Nel settembre 1999, la Direttrice Didattica di una scuola elementare in
provincia di Varese mi ha chiesto di valutare la possibilità di prendere in
carico un bambino di sette anni, iscritto alla classe seconda, per un
trattamento musicoterapico.
Si trattava della mia prima esperienza sul campo, pertanto se da un lato ero
entusiasta all’idea di accettare, dall’altra si ponevano una serie di difficoltà da
affrontare, che un po’ mi spaventavano.
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La prima decisione importante da prendere riguardava la valutazione della
necessità e dell’adeguatezza di tale intervento, alla quale potevo arrivare solo
dopo un colloquio con lo psicologo che aveva in carico il bambino e dopo
un’attenta osservazione, condotta secondo le linee previste dal metodo
musicoterapico che avrei deciso di adottare.
Avendo avuto il parere favorevole dello psicologo, dovevo necessariamente
operare una scelta tra le diverse metodologie musicoterapiche che conoscevo.
I criteri in base ai quali ho deciso di applicare la metodica musicoterapica
relazionale individuale ideata da Gg. Bonardi* sono tre:
 questa metodica è in linea col mio modo di intendere la musicoterapia;
 soddisfa un mio personale bisogno di chiarezza e in
 questo modo mi dà maggior sicurezza;
 partendo dalla considerazione che la prassi musicoterapica relazionale
individuale è rivolta a pazienti che hanno problemi di adattamento
temporale e/o spaziale e/o ridotte o assenti capacità relazionali, ho
pensato che tra i metodi musicoterapici che conoscevo, questa fosse la
metodica che sembrava adattarsi più esplicitamente alle caratteristiche
e alle esigenze del caso in esame.
Un inizio difficoltoso
La scelta della metodica era di fatto solo l’inizio di un lungo cammino, che
non poteva continuare senza prima risolvere alcuni problemi concreti.
In particolare sono quattro gli ostacoli che ho dovuto affrontare:
far accettare la mia presenza ai genitori tenendo conto della difficoltà
che avevano a rendersi conto ed in parte ad accettare le reali
problematiche del figlio e rispettando quindi i loro sentimenti;
 far accettare la mia presenza alle insegnanti conquistando
gradatamente la loro fiducia, in modo che non vivessero la mia presenza
come minacciosa per la loro autostima personale e professionale;
 trovare una stanza che potesse diventare il luogo fisso in cui svolgere
l’attività musicoterapica con Luca, in un edificio in cui tutte le aule, o
quasi, erano già occupate;
 definire un momento che andasse bene per tutti, durante il quale
effettuare le sedute.
La fiducia ed il supporto della Direttrice Didattica sono stati per me un
grande aiuto, soprattutto nella risoluzione dei problemi logistici.
Inizialmente il Capo d’Istituto ha convocato le insegnanti per presentare loro
questo intervento, prospettato come complementare a quello dello psicologo e
a quello educativo, poi mi ha autorizzata ad utilizzare un’aula della scuola, al

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113
momento sfruttata come “ripostiglio”, dando ordini ai bidelli che la
vuotassero e la pulissero, rendendola quanto meno “agibile”.
Tuttavia sentivo di essere io in gioco in prima persona e su di me ricadevano
le responsabilità di ogni scelta e di ogni azione, pertanto dovevo trovare il
modo di guadagnarmi la fiducia delle persone coinvolte.
Prima di presentarmi ai genitori di Luca[1] e di iniziare qualunque tipo di
osservazione, ho ritenuto opportuno parlare con le insegnanti, poiché
avevano mostrato un atteggiamento ambivalente alla proposta della Direttrice
Didattica.
Se da una parte, infatti, erano ansiose di ricevere un aiuto da parte di figure
che in qualche modo potessero occuparsi di Luca, dall’altra tuttavia erano
preoccupate dal fatto che altre persone, oltre a loro, entrassero nella classe.
Non solo, ma la parola “musicoterapia” era per loro al contempo piena e vuota
di significato: la associavano in linea di massima alla didattica della musica,
ma erano consapevoli del fatto che si trattasse di qualcosa di un po’ diverso,
che però non sapevano definire.
Il problema principale era rappresentato in particolare da una di loro, che
mostrava evidente scetticismo e diffidenza e tentava in tutti i modi di
ostacolare la realizzazione del mio intervento.
Lo scopo dell’incontro con le insegnanti era dunque quello di chiarire cosa
fosse la musicoterapia e in quale modo si sarebbe articolata, almeno
inizialmente, la mia presenza.
Ho sottolineato loro quanto fosse importante per me osservare Luca in classe,
rassicurandole sul fatto che l’oggetto di osservazione non erano loro, bensì
Luca, in modo che le loro ansie e la paura di essere giudicate potessero essere
ridotte quanto più possibile ed il loro comportamento in mia presenza si
avvicinasse a quello consueto.
Ho inoltre pensato che potesse essere importante farle sentire coinvolte
almeno nelle mie decisioni iniziali, in modo che potessero parteciparvi
attivamente, vedendo in quale modo si articolava la mia attività e vivendo
concretamente un rapporto di collaborazione.
Per questo motivo ho fatto in modo che la decisione di convocare i genitori di
Luca, al fine di presentarmi e di spiegare loro le ragioni, gli scopi e le modalità
di svolgimento dell’attività musicoterapica e di avere il loro consenso per
l’attuazione dell’intervento, venisse presa insieme con le insegnanti; anche la
scelta di parlare coi genitori in presenza delle insegnanti ha permesso a
queste di sentirsi partecipi del progetto e ciò ha contribuito, almeno in parte,
a far diminuire lo scetticismo iniziale.
Avendo però bisogno di raccogliere informazioni specifiche su Luca, avevo la
necessità anche di un incontro in privato coi genitori. Dal momento che non
era possibile fissare un secondo appuntamento a breve, a causa dei loro
problemi di lavoro, abbiamo deciso di dividere quell’unico incontro in due
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parti: la prima si sarebbe svolta alla presenza delle insegnanti, la seconda
senza di loro.
Sebbene la Direttrice Didattica avesse dato disposizioni perché io avessi
assegnata una determinata aula, tuttavia ogni volta che arrivavo per vedere
Luca, la stanza era sottosopra e dovevo lavorare mezz’ora per risistemarla.
Sentivo il peso dello scetticismo e onestamente non mi sentivo molto
accettata: sembravo “l’intrusa”, che in qualche modo rompeva i delicati
equilibri sui quali era costruito l’andamento di quella scuola.
Solo la custode della scuola mi sembrava avere molto rispetto di me e penso
che ciò fosse dovuto al fatto che avesse a cuore Luca, dal momento che si era
accorta dei suoi comportamenti “strani” e che tutte le volte che arrivavo mi
parlava di lui con molta tenerezza, aiutandomi nel frattempo a riordinare
quella che io definivo l’”aula-bunker”, a causa della scarsa luminosità che mi
avvolgeva quando vi entravo, perché tutte le tapparelle erano chiuse, e
dell’odore di stantio che la caratterizzava.
Il problema di avere uno spazio dove fare musicoterapia non si è mai risolto
definitivamente, poiché in pochi hanno veramente capito l’importanza della
stabilità dell’ambiente ai fini terapeutici; nel mese di ottobre del 2000, infatti,
ho dovuto accettare di usare una stanza del tutto diversa dalla precedente e ho
dovuto lottare a “denti stretti” fino alla fine del trattamento, perché durante
l’ora in cui lavoravo con Luca potessi usare sempre lo stesso luogo e perché
questo rimanesse libero per noi!
Il primo incontro con Luca
La prima volta che ho visto Luca eravamo a scuola, nel corridoio, fuori dalla
sua aula. Con il consenso della Direttrice Didattica, stavo concordando un
primo colloquio con le insegnanti.
Luca era uscito dall’aula, si era “lanciato” contro il corpo di una maestra e
ricercava con insistenza la nostra attenzione.
Quando una di loro gli ha chiesto cosa avesse bisogno, Luca ha cominciato a
raccontare una serie di avvenimenti che, a detta sua, gli erano accaduti, ma
che in realtà erano evidente frutto della sua fantasia e oltretutto non avevano
alcun nesso logico l’uno con l’altro.
Parlava con voce piuttosto alta girando intorno alle persone presenti, con lo
sguardo rivolto a terra; il fatto che lo si ascoltasse e gli si ponessero domande,
nel tentativo di interagire con lui, oppure che lo si ignorasse, non costituiva
motivo per modificare questo comportamento.
È stata impressionante la grande quantità di parole, molte delle quali
pronunciate in modo scorretto, o addirittura inventate, che in così breve
tempo ci ha travolti come un fiume in piena; il flusso dei pensieri sembrava
inarrestabile, così come il movimento di corsa intorno a noi, che tuttavia
sembravamo esclusi dalla sua attenzione.
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Tuttavia Luca era incuriosito dalla mia presenza: a tratti mi osservava e
quando ha richiesto la mia attenzione, parlando e toccandomi come fa un
bimbo piccolo con la mamma, mi sono presentata dicendogli il mio nome e
chiedendo il suo. Gli ho raccontato di essere una maestra di musica e che sarei
tornata altre volte a trovare lui e i suoi compagni.
Dopo un’iniziale diffidenza mi ha letteralmente accordato il suo permesso,
esclamando: “Va bene, puoi venire!”
Pur non conoscendomi mi si è aggrappato al collo e prima che andassi via ha
voluto abbracciarmi.
Mi sono sentita come “risucchiata” da Luca e ho provato un senso di
disorientamento di fronte alla sua invasività, fatta di aggressività, di
travolgenti parole, di inarrestabile movimento.
Roberta Andrello
[email protected]
[1] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy, di un bimbo
avente difficoltà di apprendimento di livello grave, associato a stato
ansioso con relativi deficit di attenzione, concentrazione e pensiero logico.
Difficoltà nei rapporti coi coetanei.
*Bonardi G., (2007), Dall'ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori,
Mercatello Sul Metauro (PU).
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Andrello Roberta
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Luglio
Greco Marina, Il valore dell’ascolto e del silenzio nella società attuale
Pubblicato il 26 luglio 2010
L’uomo occidentale del Terzo Millennio è tiranneggiato da una forte
competitività sociale che richiede una costante ostentazione delle proprie
certezze e delle proprie posizioni. Guai a mostrarsi deboli, aprendosi alla
possibilità del dialogo e dell’ascolto autentici. Ciò significherebbe
automaticamente ammettere la propria insicurezza. In realtà si può forse dire
che la sconfitta dell’uomo di oggi sia proprio nel rifiuto della possibilità stessa
del dialogo e dell’ascolto. Assistiamo impotenti alla giostra dei talk-show e di
ciò che rappresenta quanto è più grottescamente lontano dalla realtà
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autentica, ma paradossalmente è chiamato reality, in cui sembra che il
premio in palio sia vinto da chi urla di più. È il trionfo di finte discussioni che
altro non sono se non solipsistici monologhi dei partecipanti sulla propria
vacuità interiore, terrorizzati dalla possibilità del silenzio e dell’ascolto che
potrebbero facilmente smascherarla. È come se il rumore del mondo, una
sorta di rumore di fondo, facesse costantemente divergere l’uomo dal
raccoglimento, dalla meditazione, dal ritrovarsi[1]. Ma questo rumore del
mondo è anche sinestesicamente visivo. Osserviamo ciò che ci circonda: non
ci sono più spazi liberi, tutto è occupato da immagini, insegne pubblicitarie,
luci, parole, messaggi.. Un anomalo esponente del Futurismo, Aldo
Palazzeschi, solo ai primi del Novecento ridicolizzava la società dell’epoca e la
superficialità della gente, già allora distratta da immagini e parole.
Emblematica è la poesia La passeggiata, una sequenza di insegne
pubblicitarie, di titoli di giornali, di numeri civici, di insegne di negozi, di
manifesti teatrali che si inseguono per 145 versi liberi. “... Le stesse forme del
mondo contemporaneo gli appaiono in una successione libera e vuota di
parole-insegne, di immagini pubblicitarie che egli – Palazzeschi – può
attraversare come in un’allucinazione ridicola”[2]. Il lettore legge e vede con
l’occhio delle due persone che passeggiano; su ben 145 versi esse non
dialogano se non nei primi due e negli ultimi due.
La Passeggiata
Andiamo?
Andiamo pure.
All’arte del ricamo,
fabbrica di passamanerie,
ordinazioni, forniture.
Sorelle Purtarè
Alla città di Parigi.
Modes, nouveauté.
Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell’anno 1843.
Avviso importante alle signore!
La beltà del viso,
seno d’avorio,
pelle di velluto.
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole,
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano di Turchia aspetta.
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La pasticca del Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Orologeria di precisione.
93
...
…
-Torniamo indietro?
- Torniamo pure.
117
Palazzeschi[3]
La straordinaria attualità di questo componimento è sconcertante. La
passeggiata dovrebbe rappresentare un tempo-spazio per ritrovare se stessi,
se si è da soli, ma dialogare con l’altro, se si è in compagnia. Qui invece a
dominare il dialogo e la scena è l’immagine che cattura l’attenzione e la
mente. Non è forse ciò a cui assistiamo anche oggi, con un notevole e
fulmineo peggioramento? Prendiamo atto di ciò che sta accadendo ai nostri
ragazzi, letteralmente fagocitati dalle immagini e dalle parole che non dicono
nulla, sempre più incapaci di dare un nome alle loro emozioni sotterrate e
perse chissà dove, in fuga da se stessi e sempre più spaventati dal guardarsi
dentro, terrorizzati da chiunque possa rivelare una loro fragilità, ma pronti ad
aggredire in ogni modo chi dovesse farlo. Totalmente assuefatti ad una
modalità relazionale che ormai esclude il dialogo, l’ascolto e il silenzio,
passano anni interi con gli amici senza mai arrivare a conoscersi, parlano
l’uno sull’altro senza mai realmente prestare ascolto, perdendo
irrimediabilmente un’occasione per crescere e imparare. Vivo
quotidianamente con i preadolescenti, essendo docente nella scuola
secondaria di primo grado, e nei miei dieci anni di esperienza ho imparato che
lo strumento più efficace per attirare l’attenzione dei ragazzi è esercitare il
silenzio, ovvero tacere al momento giusto. Sono talmente disabituati al
silenzio, o meglio, non avendo mai imparato e vissuto l’esperienza del
silenzio, i ragazzi ne sono colpiti e stupiti. L’altro c’è ed è percepito proprio
perché tace e sa tacere. Il silenzio è il tempo-spazio dell’attesa di ciò che verrà
dopo[4], carico e gravido di tutte le possibilità. E allora li vedi lì, finalmente
tutti attenti e tesi verso ciò che non sanno ancora, ma che sono curiosi di
scoprire. È qui la speranza per la civiltà occidentale: trovare quel tempospazio per mettersi alla ricerca di se stessi e riscoprire e riappropriarsi della
propria autentica identità interiore. Sarà il primo passo per porci in ascolto e
accogliere l’essere autentico dell’altro, che non costituirà più una minaccia,
ma una risorsa, una ricchezza e uno stimolo per crescere.
Marina Greco
[email protected]
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118
[1] Manarolo G., Manuale di Musicoterapia, Edizioni Cosmopolis, Torino
2006, pag. 171.
[2] Ferroni G., Storia della letteratura italiana. Il
Novecento, Einaudi Scuola, Milano 1995, pag.112.
[3] Palazzeschi A., La passeggiata, da Guglielmino S., Guida al Novecento,
Principato Editore, Milano 1987 (IV ediz.), pag.II/182-183. [4]Greco Marina,
(12/07/2010), In ascolto ... del silenzio , http://musicoterapie.overblog.com/
Con tag L'ascolto in musicoterapia, Greco Marina
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Bonardi Giangiuseppe, Breve lessico dei concetti emotivi
Pubblicato il 19 luglio 2010
Provate, osservate, condivise, suonate, cantate, le ‘emozioni’ permeano
l’azione musicoterapica.
Appena terminata la seduta, quando ci poniamo in una situazione di
riflessione e di analisi di quanto abbiamo vissuto durante l’incontro,
ricerchiamo riferimenti concettuali che ci aiutino a comprendere quanto è
accaduto.
Ecco quindi che balenano nella nostra mente alcuni termini: affetto, affetti
categoriali, affetti vitali, emozioni, sensazioni, sentimenti, tonalità emotive,
vissuti...
Così, per comprendere i nostri vissuti, attingiamo a un repertorio concettuale
abbastanza ampio che ha sfumature di significato diverso.
Non sono quindi termini sinonimi ma definizioni speculative relativamente
precise.
AFFETTO: “... sentimento di vivo attaccamento a una persona o a una cosa
...”6.
AFFETTI CATEGORIALI: “ ... emozioni “discrete” o nominabili ... felicità,
tristezza, rabbia, paura, disgusto, sorpresa, interesse, vergogna ...”7.
6 AA VV, Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, Milano 1987, pag. 40.
Postacchini P.L., In viaggio attraverso la musicoterapia, Cosmopolis, Torino 2006, pag.
138.
7
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Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
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AFFETTI VITALI: “ ... attivazioni emozionali senza nome coincidenti con il
processo dinamico della vita stessa ... (ossia), fluttuare, svanire, trascorrere,
esplodere, crescendo, decrescendo, gonfio, esaurito, ...”8
EMOZIONI: “... esperienze soggettive d’intensità rilevante, accompagnate
sempre da modificazioni fisiologiche e spesso da modificazioni
comportamentali ed espressive dell’organismo ...”9.
SENSAZIONE: esperienza soggettiva rilevata mediante gli organi di senso, (ossia
la) “... modificazione che la coscienza avverte in sé come prodotta da stimoli
esterni o interni sugli organi di senso ...”10.
SENTIMENTO, “... dal latino medievale sentimentu(m)11, derivazione del
classico sentīre, ‘sentire’, (ossia) ... avere coscienza di un proprio stato
interiore, di una determinata situazione emotiva ... (e/o sensoriale)”12.
TONALITÀ EMOTIVA:
è l’accordo emozionale che scaturisce tra l’uomo e
la situazione-mondo (interiore, ambientale, ecc.) che vive13.
VISSUTI: sono l’insieme delle sensazioni, delle emozioni, e dei
sentimenti, siano essi piacevoli o spiacevoli, provati dalla persona
durante una situazione di vita e/o professionale, denominati dalla
stessa con estrema cura e precisione al fine di poterli definire
conoscere, analizzare... ACCOGLIERE, giungendo lentamente e
progressivamente alla consapevolezza dei ‘contenuti’ dinamici
esperiti (Bonardi G.)14.
Conoscere il significato dei termini concettuali dei vissuti provati
ridà, indubbiamente, il ‘giusto’ valore alle parole che, abusate o
utilizzate superficialmente come sinonimi, perdono, inesorabilmente,
di significato, rendendo assai ardua la comprensione di quanto è
accaduto durante la seduta. Gli ‘AFFETTI CATEGORIALI’ e ‘VITALI’
appartengono alle ricerche psicologiche di Daniel Stern 15, la ‘TONALITÀ
EMOTIVA’ promana dagli studi filosofici di Otto Friedrich Boolnow e
8
Postacchini P. L., Op. cit., pag. 138.
9
AA. VV., (2006), Enciclopedia tematica. Vol. 14 - Filosofia A-M, RCS Quotidiani, su licenza Garzanti, Milano 2006, pag.
302.
10AA VV, Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, Milano 1987, pag. 1776.
11AA VV, Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, Milano 1987, pag. 1778.
AA VV, Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Garzanti, Milano 1987, pag. 1778.
Bollnow O. F., (1956), Le tonalità emotive, Vita e Pensiero, Milano 2009, pag. 32.
14 Bonardi G., (2007), Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori, Mercatello sul Metauro (PU), pag. 38-42.
Bonardi G., (2008), E come... emozioni, http://musicoterapie.over-blog.com/
15 Stern D. N. (1985), Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.
12
13
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Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
120
di
Martin
Heidegger,
‘AFFETTO’,
‘EMOZIONE’,
‘SENSAZIONE’,
‘SENTIMENTO’ appartengono a riferimenti linguistici o filosofici più
generali, infine, con il termine ‘VISSUTO’, esprimo una visione
personale dello stesso. L’adozione di vocaboli specifici, nella propria
prassi lavorativa, riflette il proprio orientamento teorico di
riferimento; la corretta conoscenza e applicazione degli stessi
permette il dialogo anche tra professionisti che lavorano utilizzando
prospettive teoriche diverse.
Giangiuseppe Bonardi
[email protected]
Con tag Riferimenti teorici di musicoterapia, Bonardi Giangiuseppe
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Greco Marina, In ascolto... del silenzio
Pubblicato il 12 luglio 2010
Se seguiamo Socrate nel suo insegnamento e dunque sposiamo la tesi secondo
cui la salute dell’anima coincide con la conoscenza di se stessi, e posto che per
conoscere se stessi è indispensabile innanzi tutto ascoltare il proprio
messaggio interiore e aprirsi all’ascolto dell’altro, è imprescindibile porsi una
domanda: quali sono gli strumenti che possono consentire a ciascun essere
umano di entrare in contatto con la parte più profonda e insondata del sé per
poter ascoltarla e conseguire, finalmente, il méghiston agathòn, il bene più
grande, ovvero la salute dell’anima e il benessere interiore? Ebbene,
presupposto per il recupero dell’ascolto interiore e dell’ascolto degli altri (e
dunque per il recupero del dialéghestai) è il silenzio. Il silenzio è una
dimensione interiore a cui ciascun essere umano può e deve aspirare se vuole
cogliere la verità del sé. Ma di che tipo di silenzio si tratta? Di un silenzio che
coinvolge non solo il senso dell’udito e il lògos-discorso[1], ma anche (e a mio
avviso soprattutto) la vista. Qualcuno potrebbe obiettare che ha senso parlare
di silenzio come assenza di suoni, ma non di silenzio come assenza di
immagini. Invece, nel mondo del Terzo Millennio dominato dall’immagine e
ad essa asservito, non solo il silenzio ha un senso ma io lo riterrei addirittura
indispensabile. Sia chiaro, esistono svariati modi di considerare il silenzio, di
interpretarlo e altrettanto svariate sono le sue valenze, a seconda dei contesti
in cui esso è, consapevolmente o meno, esercitato[2]. L’aspetto su cui vorrei
maggiormente soffermarmi è il silenzio come elemento essenziale all’interno
del dialogo, con se stessi e con l’altro da sé. Quale valore assume il silenzio in
questo contesto? Un valore maieutico: “nel suo aspetto creativo il silenzio
maieutico rappresenta una modalità di essere con l’interlocutore,
rappresenta cioè una proposta di «gioco», un contributo allo sviluppo di
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Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
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quel tempo-spazio dove due persone si incontrano o si scontrano per
condividere un destino di crescita che li accomuna.”[3] È, questa, una
tipologia di silenzio che non equivale allo stare semplicemente zitti, ma
coincide con lo stare in ascolto e dunque con il tempo dell’attesa. È una pausa
nella frase musicale, una sospensione di suoni carica di tutto il senso di ciò
che l’ha preceduta, ma tesa verso ciò che verrà dopo; è il tempo-spazio
dell’attesa. Nel nostro ragionare, il silenzio maieutico è la dimensione in cui la
verità del sé, l’identità, può emergere, e, parafrasando l’Heidegger di Essere e
tempo, l’Esserci può rendersi comprensibile. Siamo giunti al punto cruciale
del nostro discorso: esercitare il silenzio, sia come dimensione interiore sia
come forma di comunicazione, nel dialéghestai è estremamente complesso
perché sottintende l’essere disposti ad accettare in primo luogo la verità del
sé, qualunque essa sia, e, in secondo luogo, l’esistenza dell’altro da me che
può mettere in crisi e destabilizzare ogni certezza. Cosa accade dunque? Che
la maggior parte degli esseri umani fugge il silenzio. Corradi Fiumara ha
citato le parole di Sciacca[4] per esprimere il senso di panico e di angoscia che
domina l’uomo per il terrore di trovarsi dinanzi a quello che l’autrice definisce
horror vacui: “il silenzio ha una pesantezza… che non troviamo in nessuna
parola: è pesante di tutto ciò che abbiamo vissuto, di tutto ciò che stiamo
vivendo, di ciò che vivremo … In un istante di silenzio si raccoglie una vita
intera. La teniamo in una mano e sembra di sprofondarci dentro. Non per
nulla fuggiamo il silenzio, il solo che ci ponga di fronte alla nostra vita: ce la
ricapitola all’istante, tutta presente. È una ricapitolazione che ossessiona,
che opprime”. Accettare di esercitare il silenzio per affrontare (ma alla fine
ritrovare) se stessi è difficile e pericoloso. Ogni essere umano si chiede: cosa
troverò al di là della mia “maschera”? Troverò le mie emozioni, la mia
personalità, ciò che mi rende assolutamente unico e diverso da ogni altro
essere umano? E se, invece, dovessi scoprire che al di là del copione recitato
giorno dopo giorno non c’è nulla, c’è il vuoto? Allora potrei essere risucchiato
da questa sorta di buco nero e potrei dunque perdermi. La soluzione? Mettere
a tacere quel silenzio assordante, soffocarlo con le parole, con le azioni,
divorando il tempo, occupandone ogni istante per non avere neanche la sola
possibilità di imbattersi nel proprio sé. In questa costante fuga dal sé, l’uomo
occidentale del terzo millennio, ossessionato dalla mancanza di tempo, è
notevolmente aiutato dalla tecnologia informatica che semplifica, e al tempo
stesso amplifica, la sua vita frenetica: è tutto veloce, rapido, tutto avviene in
tempo reale; ma quanto questo tempo realmente si avvicina al tempo
interiore autentico, biologico dell’uomo?[5] L’uomo occidentale, intrappolato
in una dinamica centrifuga, si allontana sempre più dal suo centro, dalla sua
identità, in una parola, dal suo Sé, perché senza il silenzio e senza il tempo
non può esserci ascolto. L’ascolto non prescinde dal tempo e dal silenzio. Solo
l’uomo che si riappropria del tempo e del silenzio può ascoltare l’essere e
riappropriarsi della sua identità, della verità del suo sé. Se già l’uomo fugge da
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122
se stesso rifiutandosi di rivelarsi, immaginiamo quanto si amplifichino le
difficoltà e le barriere quando egli entra in relazione con l’altro. Il dialogo
dovrebbe essere occasione di confronto e di crescita, ma questo può accadere
solo se il dialogo è autentico, ovvero se ciascun termine della relazione si
rivela in modo autentico. Come ci insegna Heidegger, solo chi ha qualcosa di
vero e di autentico da dire può scegliere di tacere, mentre chi non ha nulla da
dire tende a parlare e a sovrastare completamente l’altro con un fiume di
parole. Il silenzio autentico di chi tace, però, riesce a rivelare la chiacchiera e
la mette a tacere.[6] Porsi in atteggiamento di apertura, disponibilità e
ascolto dell’altro, può nascondere, dunque, una pericolosa insidia per chi non
ha nulla da dire. L’ascolto, e dunque l’accettazione dell’altro, sottintende uno
sforzo notevole che è quello di ammettere che esiste qualcosa che è altro da
me e che può mettere in discussione me e le mie certezze. Ed è forse proprio
questa minaccia di destabilizzazione, insita nell’ascolto, che può spiegare il
rifiuto di ascoltare dietro cui molte persone, a livello inconscio, si barricano.
Marina Greco
[email protected]
[1] A questo proposito, è preziosa e illuminante la profonda riflessione sul
silenzio di Corradi Fiumara contenuta nel settimo capitolo “Silenzio e ascolto”
della sua opera Filosofia dell’ascolto, Jaca Book, Milano 1985.
[2] Un’interessante sintesi possiamo leggerla in Manarolo G., Manuale di
Musicoterapia, Edizioni Cosmopolis, Torino 2006, pagg. 170-172.
[3] Corradi Fiumara G., Filosofia dell’ascolto, cit., pag. 135.
[4]La citazione di Corradi Fiumara (op.cit., pag.139) è tratta da Sciacca M.F.,
Come si vince a Waterloo, Marzorati, Milano 1963, pag.111.
[5] Cfr. Corradi Fiumara G., op.cit., pag.174 e segg.
[6] Cfr. Ibidem, pag. 133.
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Bonardi Giangiuseppe, In ascolto della mia identità...
Pubblicato il 5 luglio 2010
In ascolto della mia identità16...
Bonardi Giangiuseppe, In ascolto della mia identità, 5 luglio 2010, Musicoterapie in…
ascolto
http://musicoterapie.over-blog.com/article-bonardi-giangiuseppe-in-ascoltodella-mi-52960614.html
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Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
123
Quando ascolto me stesso, che cosa percepisco?
Il mio dualismo ricolmo di sensazioni (corpo) ed emozioni (anima).
“Questo dualismo iniziale presenta due aspetti. Può essere interpretato come
una attività di due forze in opposizione (dualismo propriamente detto) o
come una attività di forze in compensazione (monismo dinamico)17.”.
La mia identità di uomo o donna è formata, quindi, da forze in
compensazione (monismo dinamico), ossia da un ritmo inteso come
l’espressione del rapporto di equilibrio che sussiste tra le ‘parti’ contrastanti
che lo compongono.
La mia identità (1), è in realtà una dualità (2): un corpo e un’anima.
Ma l’anima “… contiene una parte mortale ed una parteimmortale18.”.
”Per quanto è visibile in questo mondo, l’anima umana si presenta alla luce
del sole come un’ombra e si percepisce nell’acqua come l’immagine sonora
del corpo19.”.
“… la parte immortale dell’anima è la forma sonora e il ritmo essenziale e
imperituro dell’uomo20…”.
L’anima musicale si manifesta essenzialmente nel
“… timbro della voce, … , e, soprattutto, nella maniera (fine, rozza, volgare,
ecc.) innegabilmente individuale di cantare - in poche parole, il ritmo sonoro
personale - sono i riflessi più fedeli di ogni individuo21.”.
L’essenza di una persona
“… si manifesta nel modo di cantare una melodia, cioè un carattere
individuale che nessuno può imitare.
La melodia della canzone propria può essere una qualunque canzonetta; ma
questa melodia diventa una canzone propria, quando la si canta in un modo
originale22…”.
È nella voce propria, strumento musicale naturale, non richiuso nelle
maschere delle tecniche, faticosamente apprese, che risuonano le nostre
emozioni più vere che intonano l’incessante melodia della nostra anima...
L’incontro con sé, prima, e con l’altro, dopo, è possibile, ascoltando e
intonando i contenuti emotivi che popolano l’anima immortale propria e...
altrui.
Schneider M. (1946), Gli animali simbolici e la loro origine musicale nella mitologia e
nella scultura antiche, Rusconi, Milano 1986, p. 7.
18 Schneider M., Op. cit. p. 11.
19 Schneider M., Op. cit. p. 11.
20 Schneider M., Op. cit. p. 12.
21 Schneider M., Op. cit. p. 21.
22 Schneider M., Op. cit. p. 18.
17
Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
Musicoterapie in ascolto Archivio Articoli 2010
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Non è la tecnica in sé che determina la relazione, né tantomeno lo strumento
adottato; è la risonanza emotiva sincera che, diventando suono autentico, la
rende possibile.
Bibliografia
Schneider M.,(1946), Gli animali simbolici e la loro origine musicale nella
mitologia e nella scultura antiche, Rusconi, Milano 1986.
Sitografia
http://musicoterapie.over-blog.com/
Bonardi Giangiuseppe, Marius Schneider e la... Musicoterapia! Marius
Schneider 6/11/2008 alle 22h11
Bonardi Giangiuseppe, A come... analogia Marius Schneider 26/03/2009
alle 22h34
Bonardi Giangiuseppe, Alla ricerca del senso del musicale in musicoterapia
L'interpretazione in musicoterapia 12/03/2009 alle 23h05
Bonardi Giangiuseppe, Suoni e significati nel pensiero di Marius Schneider
Marius Schneider 12/04/2009 alle 10h31Bonardi Giangiuseppe, Simboli e
significati nella prospettiva di Marius Schneider
Marius Schneider
16/05/2009 alle 17h13 Bonardi Giangiuseppe, Numeri e significati nella
prospettiva di Marius Schneider
Marius Schneider 9/05/2009
alle 14h36 Bonardi Giangiuseppe, Strumenti musicali e significati nella
prospettiva di Marius Schneider
Marius Schneider 20/05/2009
alle 21h16Bonardi Giangiuseppe, La 'musica' di Danilo* L'interpretazione in
musicoterapia 12/06/2009 alle 15h10 Di Sabbato Daniela, *V come Valeria...
emozioni disvelate Musicoterapia e cerebropatia 22/09/2008 alle 21h35Di
Sabbato Daniela, Clelia 'suona'... le sue emozioni L'interpretazione in
musicoterapia 13/06/2009 alle 14h14
Bonardi Giangiuseppe, "Aforismi"... schnederiani! Marius Schneider
19/01/2010 alle 20h48
Bonardi Giangiuseppe, Dvořák letto con gli “occhi” di… Schneider! I
contributi della musicologia alla musicoterapia 21/09/2009 alle 17h48
Bonardi Giangiuseppe, Una musica del… cuore I contributi della musicologia
alla musicoterapia 21/08/2009 alle 14h00
Bonardi Giangiuseppe, Analogie musicali… particolari I contributi della
musicologia
alla
musicoterapia
6/08/2009
alle 17h54
Bonardi Giangiuseppe
[email protected]
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Agosto
Bonardi Giangiuseppe (a cura di), Maria Clotilde Sieni e le Sonate di Galuppi per
clavicembalo
Pubblicato il 31 agosto 2010
Conosco da qualche tempo Maria Clotilde
Sieni e, come sempre, mi sorprende. Sono
piacevolmente meravigliato e mi chiedo
perché mai una raffinata e sensibile
interprete proponga una inusitata
selezione delle Sonate per clavicembalo di
Baldassarre Galuppi?
Sembrerebbe una risposta scontata ma,
conoscendo un poco Maria Clotilde, credo
che, nella realizzazione dell’opera di
Galuppi, la Sieni sia mossa da
un’infaticabile desiderio di scoprire e
riscoprire la propria anima musicale, così
ricolma di caleidoscopiche raffinate emozioni che, fatto straordinario,
risuonano con inusitata semplicità.
Come
afferma
Maria
Clotilde
le
Sonate: “Esprimono un’interiorità di
sentimenti, di amore, di raffinata
eleganza, di bellezza di profonda
spiritualità
che
sanno
parlare
direattamente all’animo.
Come una piccolissima miniatura ma
ricca di bellezza e di eleganza tutta da
scoprire.”.
Il percorso musicale scelto dalla Sieni, che
si snoda in ben dieci sonate, vuol essere quindi un invito rivolto all’ascoltatore
sensibile e desideroso a esplorare il proprio sé acustico, riscoprendo
l’immediatezza e la semplicità della musica che, scevra da concettualizzazioni
razionalizzanti ridondanti, dischiude la lucentezza e/o l’opacità delle proprie
tonalità emotive che risuonano nella propria... anima.
Giangiuseppe Bonardi
[email protected]
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Andrello Roberta, L’osservazione musicoterapica di... Luca
Pubblicato il 24 agosto 2010
L’osservazione di Luca[1] nel contesto musicoterapico è avvenuta in tre
sedute successive, a cadenza settimanale, nell’aula assegnatami. Scopo
dell’osservazione era arricchire e/o completare le informazioni raccolte
durante l’osservazione ambientale ed il colloquio e verificare la presenza di
alcuni comportamenti e reazioni, a conferma o non conferma di quanto già
rilevato. In modo particolare avevo la necessità di verificare il rapporto di
Luca con lo spazio, con se stesso all’interno della stanza di musicoterapia, con
gli strumenti musicali, con i suoni e le musiche proposte e con me. Per prima
cosa ho scelto gli arredi e la loro disposizione, gli strumenti musicali e le
musiche da proporre all’ascolto.
Ho deciso di disporre un
grande tappeto nella
zona
della
stanza
corrispondente a quella
occupata dal banco di
Luca nella sua aula, ossia
vicino all’angolo tra due
pareti e la finestra; sul
tappeto ho posto la sedia
per Luca, esattamente
nella posizione del suo
banco.
Questa
disposizione
è
stata
pensata allo scopo di
dare a Luca la possibilità
di ritrovare nel nuovo
ambiente una posizione
familiare, pensando che
ciò potesse essere motivo di maggior sicurezza. L’ambiente doveva assolvere
una funzione di “holding”[2], ossia di “contenimento”, nel significato inteso
da Winnicott. Sul tappeto sono stati collocati anche una coppia di bonghi a
sinistra della sedia, un banco con sopra vari strumentini alla sua destra e uno
jambé di fronte ai bonghi. Ho utilizzato il tappeto con una funzione di
“contenitore”, per delimitare uno spazio circoscritto, tenendo conto del fatto
che la stanza, di per sé, era molto grande e avrebbe potuto diventare un
ambiente dispersivo e quindi poco contenitivo e rassicurante. La mia sedia
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era fuori dal tappeto, vicina al registratore (appoggiato su una sedia appena
dentro dalla porta), in una posizione che mi consentiva di avere una visione
completa sia dell’area occupata dagli strumenti, sia del resto della stanza. Ho
proposto a Luca strumenti con timbri, intensità sonore e dimensioni
differenti, utilizzabili in modi diversi (ad esempio con la percussione, il tocco,
lo sfregamento, lo scuotimento, altro). Non disponendo di strumenti
melodici, ho aggiunto a quelli ritmici un flauto di legno. La scelta di Luca mi
avrebbe così dato indicazioni riguardo le sue preferenze strumentali, e mi
avrebbe aiutata a individuare alcuni aspetti specificamente musicali che fanno
parte della sua dimensione sonoro musicale. Come sostiene Bunt, infatti, “…
le persone hanno diritto di esplorare una gamma di suoni ed esperienze
musicali per se stesse. Come musicoterapeuti siamo in una posizione
privilegiata per osservare le scelte delle persone e per cominciare ad
esplorare un canale di comunicazione musicale …”[3] Basandomi sulle
informazioni raccolte dal padre, ho preparato una musicassetta con la
registrazione dei versi delle galline e del cane, con una musica celtica e “Alla
fiera di Mastr’Andrè” di Branduardi. Questo assetto è stato mantenuto
costante per le tre sedute di osservazione, durante le quali sono stati registrati
i dati relativi ai seguenti indicatori:
 durata di permanenza di Luca nell’ambiente musicoterapico;
 posizioni e/o posture assunte da Luca;
 strumenti musicali scelti da Luca;
 modalità di relazione con sé e con l’altro da sé;
 risposte manifestate da Luca nei riguardi degli eventi musicali proposti;
 orientamento delle espressioni sonoro-musicali manifestate da Luca;
 presenza di particolari comportamenti.
Alla fine di ogni seduta ho registrato i dati raccolti sulle apposite tabelle e ho
steso i relativi protocolli. Appena entrato nella stanza, Luca è stato attratto
dagli strumenti, ai quali si è avvicinato senza però toccarli, quasi ne avesse
timore. Mi ha chiesto cosa fossero e in seguito alla mia spiegazione se ne è
allontanato, per riavvicinarsi successivamente. Luca non è mai scappato dalla
stanza, né ha mai chiesto di uscire prima della fine della seduta, dimostrando
così di essere in grado di “tollerare” un lasso di tempo abbastanza lungo in cui
svolgere l’attività musicoterapica, tuttavia fin dall’inizio ha riempito lo spazio
di movimento: sembrava non potersi fermare, se non per brevi istanti e a
debita distanza dagli strumenti; avevo l’impressione che Luca percepisse uno
spazio da riempire intrusivamente, all’interno del quale distingueva uno
spazio “cattivo”, quello circoscritto dal tappeto e prossimo agli strumenti, e
uno “buono”, il resto dell’aula, confermando oltretutto in tal modo le già
evidenziate difficoltà di adattamento spaziale, rilevate durante l’osservazione
di Luca in classe. Paradossalmente, delimitando col tappeto uno spazio
nell’ipotesi che potesse assolvere una funzione rassicurante, avevo circoscritto
in modo netto lo spazio “cattivo”, il luogo fobico di tutta la stanza!
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128
Gradualmente Luca ha cominciato ad avvicinarsi agli strumenti, ma il
contatto con essi avveniva solo in modo violento, aggressivo e intrusivo,
attraverso un movimento distruttivo e confusivo. Luca prendeva gli strumenti
per pochi istanti, non per esplorarli, bensì per lanciarli in alto o contro le
pareti, seguendone il movimento con lo sguardo, col corpo irrigidito, con le
orecchie tappate dalle mani per non sentire il forte rumore e
accompagnandolo con il suono gutturale, già manifestato in altre occasioni. Il
silenzio della stanza veniva così interrotto dai rumori degli strumenti che
“precipitavano”, cadendo per terra e dalla voce di Luca, che instancabilmente
profondeva suoni e parole, intrecciando discorsi almeno apparentemente
disorganizzati e al di fuori di ogni vera trama comunicativa. Solo di tanto in
tanto ha suonato, interrompendo però la sequenza di suoni giustapposti con
le parole ed evitando accuratamente di produrre suoni forti. In questi
momenti ha utilizzato gli strumenti musicali per entrare in relazione con sé,
poiché la contemporaneità assoluta tra l’esecuzione strumentale o l’atto
verbale e l’atto visivo rivolto nei miei occhi è stata presente solo per pochi
secondi, due volte su tre. Il fatto che Luca abbia usato indifferentemente tutti
gli strumenti, senza evidenziare una preferenza, era una conferma che tutto,
strumenti e persone, in quella stanza, era indistintamente oggetto delle sue
proiezioni: eravamo tutti “oggetti soggettivi”[4], privi di una nostra esistenza
indipendente dal “me” di Luca; ciò mi ha ovviamente reso impossibile
individuare gli strumenti più idonei da proporre nei successivi incontri
terapeutici. Luca non ha mai rifiutato espressamente di entrare nella stanza di
musicoterapia con me, però ha sempre trovato delle scuse per non suonare
(ad es. diceva di avere una vertebra rotta), ha ricercato diversivi (tipo esibirsi
in giochi d’equilibrio) e insistito perché fossi io a suonare. Il fatto che io stessi
in disparte e non soddisfacessi i suoi desideri lo faceva arrabbiare molto:
ricominciava a girare nella stanza, mi aggrediva con brutte parole e cercava di
sputarmi o di picchiarmi, anche usando i battenti o i legnetti, oppure si
chiudeva in un isolato silenzio, protratto anche fino a 10 minuti consecutivi;
erano questi i segni di un panico affettivo profondo, che mostravano appieno
la vulnerabilità del suo Io ancora nascente, di fronte a qualsiasi minima
frustrazione. Nei miei confronti Luca ha manifestato comportamenti
ambivalenti: in alcuni momenti dichiarava di volermi sposare, ricercando un
contatto fisico fatto di baci e “coccole”, in altri di essere arrabbiato con me e
cercava di picchiarmi. Questo mi ha fatto pensare alle parole con le quali la
Mahler descrive le psicosi simbiotiche infantili: “… Le gravi reazioni di
panico sono seguite da produzioni reitegrative che servono a mantenere o a
restaurare la fusione narcisistica, l’illusione dell’unicità con la madre o con il
padre. Nella psicosi simbiotica il bambino cerca di arrivare a una
reintegrazione attraverso illusioni somatiche e allucinazioni di riunione con
l’onnipotente immagine della madre, al tempo stesso amata e odiata
narcisisticamente … i confini del Sé e del non-Sé sono confusi; persino la
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rappresentazione mentale del Sé corporeo non è chiaramente definita …
sentono che il proprio corpo si fonde con quello di un altro …”[5] Di fatto, se
in certi momenti ho avuto proprio l’impressione che Luca facesse in modo che
io mi comportassi come se fossi un’estensione del suo corpo, in altri ho
pensato che mi considerasse come uno dei tanti oggetti presenti nella stanza;
c’erano infatti molte analogie nel modo di relazionarsi con me e con gli
strumenti: l’ambivalenza manifestata nei miei confronti si traduceva, verso gli
strumenti, in atti di distruttività e aggressività associati a continua, eccessiva
motilità, che per lui sembravano essere un esercizio piacevole, alternati a
momenti in cui Luca usava questi oggetti, quasi a volerne verificare la
sopravvivenza ai suoi attacchi distruttivi, testimoniando in tal modo la non
completa separazione soggetto-oggetto. Il comportamento di Luca sembrava
la realizzazione concreta delle parole di Winnicott: “… Il soggetto dice
all’oggetto: -Io ti ho distrutto- e l’oggetto è lì a ricevere la comunicazione.
D’ora in poi il soggetto dice: -Ciao, oggetto!-; -Io ti ho distrutto-; -Io ti amo-;
-Tu hai valore per me perché sei sopravvissuto alla mia distruzione di te-; Mentre ti amo continuo tutto il tempo a distruggerti nella fantasia
(inconscia)…-. In questi modi l’oggetto sviluppa la propria autonomia e vita
e, se sopravvive, dà un suo contributo al soggetto in armonia con le sue
proprietà.”[6]
Roberta Andrello
[email protected]
[1] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[2] WINNICOTT DONALD W., The theory of the Parent-Infant Relationship,
1960, citato in: DAVIS M., WALLBRIDGE D. C., Introduzione all’opera di
Winnicott, G. Martinelli & C. s.a.s.-Firenze, 1981, trad. it. di Gabriele Noferi,
p. 124.
[3] BUNT LESLIE, Suono, musica e musicoterapia, in: Musicoterapia.
Un’arte oltre le parole, ed. Kappa, ed. it. a cura di M.M.Filippi, p. 75.
[4] WINNICOTT DONALD W., The Use of an Object and Relating trough
Identifications, 1968, citato in: DAVIS M., WALLBRIDGE D. C., Introduzione
all’opera di Winnicott, G. Martinelli & C. s.a.s.-Firenze, 1981, trad. it. di
Gabriele Noferi, p. 90.
[5] MAHLER MARGARET S., Considerazioni diagnistiche, in Le psicosi
infantili, Boringhieri, 1968, trad. di Armando Guglielmi, p. 83.
[6] WINNICOTT DONALD W., The Use of an Object and Relating trough
Identifications, 1968, citato in: DAVIS M., WALLBRIDGE D. C., Introduzione
all’opera di Winnicott, G. Martinelli & C. s.a.s.-Firenze, 1981, trad. it. di
Gabriele Noferi, p. 92.
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Bonomi Carla, Intonare... emozioni
Pubblicato il 17 agosto 2010
Nella fase intermedia, gli incontri musicoterapici avvenivano due volte la
settimana, sempre con una durata di quarantacinque minuti ciascuno. In
relazione ai positivi “risultati” ottenuti durante la fase iniziale,
l’organizzazione “affettivamente rassicurante” dell’ambiente musicoterapico è
rimasta inalterata per tutta la fase intermedia. Ogni volta che incontravo
Costantina[1], lei era sempre contenta di vedermi. E, ogniqualvolta mi recavo
da Costantina, il personale del reparto mi riferiva che chiedeva sempre di me,
che mi aspettava ogni giorno. Quando sentiva suonare il campanello della
porta della corsia, Costantina si dirigeva, correndo verso l’uscita, e gioendo, a
gran voce gridava: “ È venuta l’amica mia”. Ogni volta che la sentivo il mio
cuore si riempiva di gioia. Costantina aveva accettato la mia presenza e mi
considerava la sua amica. Appena entrata nella stanza di musicoterapia,
Costantina si sedeva sulla “sua” sedia, quella vicina alle maracas. A differenza
della fase iniziale, dove le sedute erano caratterizzate da lunghi momenti di
silenzio e di attesa, in questa seconda fase le espressioni mimiche facciali di
Costantina occupavano spesso questi momenti. Costantina si divertiva a
volgere il suo sguardo prima verso uno strumento e poi verso di me. Non
distoglieva da me il suo sguardo, se non dopo che io le avessi risposto. Spesso
rispondevo con la stessa mimica ed a volte con espressioni facciali diverse. La
situazione spesso si ribaltava ed era lei ad imitare i miei gesti. In questa
seconda fase di trattamento si è avuto un lento e progressivo aumento della
durata delle relazioni rivolte nei miei confronti a livello: verbale, a livello
strumentale e a livello canoro. Al contempo Costantina aumentava la ricerca
e la durata delle personali espressioni sonoro-musicali, ovviamente rivolte a
sé. Costantina riusciva a stabilire un maggior contatto con me proprio
attraverso il canto: si suonava e si cantava, il più delle volte,
contemporaneamente. Iniziavamo ogni seduta, intonando i canti eseguiti
nell’incontro precedente, quasi a voler riprendere il contatto interrotto. Il
tutto non era programmato e deciso a priori. Non vi era accordo preventivo
tra me e Costantina, così come non vi era accordo su chi e quando ognuno
dovesse iniziare. Avevo la sensazione che, da parte di entrambe ci fosse
massimo rispetto per l’altro, non solo sulla scelta del tempo, quando cioè
iniziare, ma anche sulla scelta dei canti da proporre. In alcuni momenti si
cantava insieme, quasi a voler condividere le emozioni nello stesso momento,
altre volte ognuno “ascoltava” ciò che l’altra proponeva, altre volte lo stesso
canto si eseguiva a turno. Sentivo che in questi momenti vi era la massima
disponibilità ed “accoglienza” dell’altro, proprio come avviene o dovrebbe
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avvenire tra due vere amiche. Inizialmente, quando volevo proporle una
nuova canzone, ero “timorosa”, temevo che Costantina non accettasse le mie
proposte e quindi potesse rompere il rapporto di fiducia che si stava
instaurando tra di noi. Fortunatamente però questo non accadde. Se il canto
facilitava la relazione, le esecuzioni strumentali erano caratterizzate da una
chiusura iniziale di Costantina. La ragazza era probabilmente immersa nella
ricerca del proprio “sé sonoro – musicale”, perciò non ci poteva essere ascolto
per l’altro. In tal senso rilevavo una certa difficoltà ad accorgersi della mia
presenza. Con il procedere delle sedute, l’iniziale ascolto di sé lasciava il posto
alla disponibilità, al dialogo. Inizialmente imitava i suoni eseguiti da me; altre
volte era lei a proporre elementi musicali nuovi. Costantina era attratta
dall’intensità del suono da lei prodotto, variandone, sia pur timidamente,
l’intensità forte e piano. Le sedute erano altresì caratterizzate da momenti
d’ascolto. Era Costantina stessa a chiedermi l’ascolto delle canzoni dello
“Zecchino d’oro”, sia verbalmente sia gestualmente. Proposi in questa fase
l’ascolto di un terzo brano: “L’ochetta Gelsomina”. Durante l’ascolto
Costantina riproduceva il ritmo con il tamburo e il jambé, altre volte
assumeva la postura eretta vicino al lettore CD e ballava timidamente. Le
relazioni a livello verbale si arricchivano di contenuto, sia pur limitatamente.
Mi raccontava le attività fatte nel reparto da lei e da altre ospiti; mi richiedeva
informazioni concernenti i miei gusti personali in merito alle scelte
d’abbigliamento o informazioni riguardanti la mia vita (dove abitavo, se
frequentavo la scuola, se avevo fratelli, sorelle ecc.). Il punto centrale e
dolente però restava sempre il ricordo della sua famiglia. Durante questi
momenti un velo di tristezza copriva il suo viso. La sua tristezza offuscava la
luce che riuscivo a vedere nei suoi occhi. Ogni volta che accennava alla sua
famiglia, rispuntavano le lacrime, che luccicavano senza cadere. Con occhi
lucidi, voce “tenera” e nostalgica mi chiedeva cosa facevano, come stavano e
quando andavano a trovarla. Soprattutto mi chiedeva della sua “mamma”. In
quei momenti Costantina esprimeva il suo dolore piangendo. Mi si stringeva il
cuore, ma cercavo di tranquillizzarla. Costantina con i suoi occhi gonfi di
lacrime mi guardava, fissando il mio sguardo, chiedendomi ogni volta : “Vieni
domani?”. Durante la settima seduta mi disse: “ Qui in ospedale non voglio
più stare, voglio andare a casa mia”. Tutto sembrava procedere per il meglio:
massima la durata di permanenza di Costantina nell’habitat musicoterapico,
maggiore l’adattamento spaziale, maggiore la durata di relazione verso di me.
Alla quattordicesima seduta si verifica un episodio sgradevole. La stanza che
mi avevano assegnata per il trattamento musicoterapico non era più
disponibile.All’interno della stanza erano stati posizionati i letti per altri
ospiti della struttura. Non ero stata avvisata del cambiamento. Quando arrivai
la mattina, carica di strumenti, il caposala del reparto mi informò
dell’accaduto. Mi sentii crollare il mondo addosso! Vissi attimi di angoscia e
di sconforto! Non avevo più la stanza… “la sola a disposizione”. Per la prima
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volta, mi tornavano alla mente le parole che il Direttore mi disse quando mi
fece vedere la stanza. Sapevo che in questo periodo si erano verificati una
serie di cambiamenti, tra i quali il cambio del Direttore, ma nessuno mi
informò della decisione intrapresa. Non mi arresi, non potevano “ferirmi”
(pur con la consapevolezza che in fondo io non ero nessuno, se non una
semplice tirocinante convinta però del lavoro che stava svolgendo), non era
giusto soprattutto per Costantina! Non potevo andar via all’improvviso.
Costantina si fidava di me… io ero la sua amica, non potevo, ma soprattutto
non volevo deluderla. Non potevano inoltre non tener conto dei
miglioramenti sia pur minimi di Costantina. Mi recai così subito dal nuovo
Direttore ed esposi le mie ragioni con rabbia e delusione per l’accaduto. Il
Direttore, gentilissimo, capì le mie motivazioni e mi promise un’altra stanza,
incaricando la Madre Superiore di liberarmene una. La stanza mi venne
consegnata dopo due settimane. In quel tempo, andavo a trovare Costantana
in reparto. Mi diedero una stanza situata al piano terra del reparto Geriatria
vicino l’ingresso. Una stanza priva d’arredo, dalle dimensioni molto piccole ed
esposta ai rumori provenienti dall’ambiente esterno. Per le restanti quattro
sedute proposi la stessa organizzazione ambientale (strumenti musicali,
arredo, disposizione). Con mia sorpresa, il cambio della stanza non ebbe
ripercussioni sul proseguimento del trattamento. Costantina, si adattò al
nuovo habitat musicoterapico, mantenendo la postura seduta alla sedia vicino
alle maracas, riuscendo a stabilire, con me, un maggior numero di relazioni.
Per Costantina quindi nulla era cambiato. Personalmente, ho vissuto con
molta tensione la prima seduta. La tensione andò scemando man mano
riuscivo ad istaurare il dialogo verbale, canoro, strumentale con Costantina. Il
rapporto d’amicizia e fiducia venutosi a creare tra Costantina e me, non
s’interruppe. Durante l’intera fase, Costantina ascoltava e assumeva spesso la
postura eretta, posizionandosi vicino al lettore CD, quasi si volesse lasciare
avvolgere dalle vibrazioni (spesso lei stessa aumentava il volume) e occupare
lo spazio per ballare. Quando suonava o cantava si sedeva sulla sedia,
relazionandosi maggiormente con me a livello verbale, canoro e strumentale.
Il tamburo e il jambé, in ogni caso, erano i mediatori preferiti da Costantina.
Io... ero contenta.
Carla Bonomi
[email protected]
[1]Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
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Andrello Roberta, Alla ricerca degli “elementi” appartenenti alla dimensione sonoro
musicale di Luca
Pubblicato il 9 agosto 2010
Il colloquio coi genitori
La ricerca, quale momento iniziale della fase osservativa, si è svolta con la
realizzazione di un colloquio con i genitori di Luca[1], finalizzato al
conseguimento dei seguenti scopi:
 spiegare ai genitori quali fossero le ragioni di questa proposta, le
modalità di svolgimento del trattamento musicoterapico e gli obiettivi;
 ottenere il loro consenso per l’attuazione dell’intervento;
 raccogliere informazioni sugli ambienti sonoro-musicali esperiti
quotidianamente da Luca, in modo da cominciare a ricostruire la sua
dimensione sonoro - musicale.
 raccogliere altre informazioni riguardo Luca e la sua famiglia, utili per
un più completo inquadramento della situazione.
 Il colloquio si è svolto alla sola presenza del padre e solo la seconda
parte in assenza delle insegnanti. L’esito del colloquio è il seguente:
 Il padre sembrava aver accolto positivamente la proposta di effettuare
l’intervento musicoterapico, anche se a tutt’oggi non mi sembra ancora
di poter affermare che abbia compreso appieno che si trattasse di un
intervento terapeutico e non didattico. È stato collaborativo fin
dall’inizio, infatti mi ha fatto pervenire le cassette con le musiche
esperite quotidianamente da Luca, delle quali lui stesso mi ha parlato.
 Mi
è stato accordato il permesso di effettuare l’intervento
musicoterapico.
 L’ambiente sonoro esperito quotidianamente da Luca è caratterizzato
dall’abbaiare dei cani e dal chiocciare delle galline, ossia dagli animali
con i quali è spesso in contatto, dato che trascorre diverse ore in
giardino col papà; tra le musiche che ascolta più frequentemente ci sono
quelle ascoltate dal padre: canzoni celtiche e Branduardi; pare che Luca
preferisca “Alla fiera di Mastr’Andrè”.
Un'altra sonorità familiare è lo stridore della motosega, usata spesso dal papà
per tagliare la legna.
Qualche tempo dopo, quando ho usato queste musiche durante le sedute con
Luca ho avuto modo di verificare e confermare il mio sospetto iniziale: le
musiche che il padre mi aveva indicato facevano parte della sua realtà sonoromusicale, mentre quelle di Luca erano ben diverse!
Altre informazioni
Luca trascorre molto tempo a parlare, senza curarsi del fatto che l’adulto dal
quale ha inizialmente ricercato l’attenzione lo stia ad ascoltare.
Molto spesso pretende che i genitori facciano quello che dice lui e nel modo in
cui vuole lui, altrimenti si arrabbia e colpisce facendo male.
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Anche a casa Luca si rivolge ai genitori utilizzando il contatto fisico come
prima modalità di approccio, come fa con le insegnanti e coi compagni.
Il padre non sembra preoccupato per la situazione di Luca, infatti attribuisce
ogni suo comportamento alla particolare vivacità del bambino; tuttavia è
particolarmente loquace: sembra ansioso di parlare del figlio e fa un notevole
sforzo per ascoltarmi.
L’osservazione di Luca in classe
Per poter condurre un’osservazione nel contesto educativo ho dovuto
innanzitutto rassicurare le insegnanti circa il fatto che non erano loro
l’oggetto della mia attenzione.
Insieme abbiamo definito i tempi della mia presenza in classe.
Mi sono presentata ai bambini in qualità di una maestra che per qualche
giorno sarebbe andata a trovarli, affinché la mia presenza fosse accettata e
non interferisse eccessivamente con lo svolgimento dell’attività didattica.
In questo sono stata facilitata dal fatto che i bambini sono abituati alla
presenza in classe o nella scuola di figure diverse dalle loro insegnanti, in
quanto vari “esperti” lavorano con loro, realizzando progetti diversi.
Per tre mattine, alla stessa ora, sono quindi entrata nella classe di Luca.
La prima cosa che mi ha colpita, la prima mattina, è stato il fatto che pur non
avendomi riconosciuta, Luca mi ha abbracciata.
Ho effettuato l’osservazione seduta in un angolo dell’aula. Luca trovava tutte
le scuse per attirare la mia attenzione; mi guardava dal suo posto, si
avvicinava e mi parlava accarezzandomi il viso.
Sembrava non poter rinunciare al contatto fisico, come se questo fosse il suo
unico modo per conoscermi e riuscire ad accettarmi come uno dei vari oggetti
della stanza.
Il giorno successivo mi ha accolta abbracciandomi e dicendo che gli ero
mancata, mentre la terza mattina mi ha completamente ignorata.
L’osservazione si è svolta durante due lezioni di matematica e una di
educazione
all’immagine:
le
insegnanti presenti di volta in
volta erano quindi due persone
differenti.
È stato interessante notare come,
di fronte a persone diverse, siano
esse insegnanti o alunni, Luca
adottasse le stesse modalità di
relazione,
basate
fondamentalmente sul contatto
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fisico, la gestualità e la richiesta verbale.
A differenza dei compagni che stavano in genere al loro posto, a meno che
l’attività in corso non richiedesse uno spostamento, Luca era sempre in
movimento: si alzava per avvicinarsi ad un bambino, di solito sempre lo
stesso, a me, oppure alla maestra, o anche per girare nella classe. Nonostante
ciò rimaneva nell’aula per tutta la durata della lezione, dimostrando che
nonostante le evidenti difficoltà di adattamento spaziale all’ambiente, tuttavia
Luca era in grado di “tollerare” lunghi lassi di tempo in cui svolgere le attività
educative proposte dalle insegnanti .
Il clima della classe era in genere sereno, non c’erano forti rumori e nessuno
alzava la voce in modo particolare, nonostante i continui scricchiolii delle
sedie facessero da sottofondo.
Una caratteristica del comportamento di Luca era la frequenza con la quale
esprimeva rabbia, scatenata dal fatto che qualcuno non aveva fatto ciò che lui
voleva.
In questi casi assumeva atteggiamenti di rifiuto e posture di chiusura: si
metteva con la faccia rivolta verso l’angolo delle pareti e, quando qualcuno gli
si avvicinava, scappava con l’intento di andare a casa, oppure rimaneva in
piedi con le braccia conserte e lo sguardo fisso a terra, borbottando tra sé.
In alcuni momenti compariva la coprolalia, seguita da cantilene rivolte alla
maestra, ad esempio: “Cattiva, cattiva e io vado a casa e tiro un sasso alla
scuola...”
In queste situazioni alcune bambine si avvicinavano, gli parlavano e
cercavano di coinvolgerlo nel loro lavoro. Erano molto dolci con lui, ma non
sempre il loro tentativo aveva esito positivo, anzi, a volte le allontanava in
modo violento.
In alcuni momenti, durante l’esecuzione di attività in autonomia, Luca restava
con lo sguardo fisso nel vuoto, come fosse incantato, continuava quasi
meccanicamente l’atto motorio iniziato ed emetteva un suono gutturale
intonato all’altezza del re centrale del pianoforte (587,3 Hz in riferimento al
criterio di accordatura sul LA di 440 Hz).
Questo suono è stato molto ricorrente: durante le sedute di musicoterapia è
comparso spesso, di solito accompagnato da una particolare gestualità; ho
dovuto ascoltarlo (“osservarlo”) e riflettere parecchio, farlo diventare in un
certo senso mio, prima di comprendere e poter affermare che era
un’espressione di piacere in un momento di regressione.
Credo che questo suono rappresenti per me la prima vera esperienza di
empatia della quale sono realmente cosciente.
Roberta Andrello
[email protected]
[1] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
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Bonomi Carla, Dal silenzio al risveglio acustico di Costantina
Pubblicato il 2 agosto 2010
All’inizio di ogni seduta, della fase iniziale dei trattamenti, mi recavo da
Costantina* nel suo reparto e la invitavo a seguirmi nel contesto
musicoterapico. Durante le prime due sedute, Costantina assumeva la
postura seduta sulla sedia vicino alle maracas, con capo chino ed occhi chiusi.
Non vi è stato quindi da parte di Costantina nessun tipo di esplorazione, né a
livello visivo né a livello tattile degli strumenti. Dopo un primo atteggiamento
di attesa, vissuto con molta tranquillità da parte mia, decisi di prendere
l’iniziativa. Decisi di suonare gli strumenti per lei perché mi ero convinta che,
“in fin dei conti” non si può cercare ciò che non si conosce. Per un attimo
pensai, forse sbagliandomi, che Costantina, prima di questa esperienza, non
abbia mai visto gli strumenti musicali proposti. Forse non sapeva cosa fossero
e come si utilizzassero. Inizialmente suonai lo jambé, accarezzandolo con le
mani o percotendolo delicatamente con i polpastrelli delle dita o graffiandolo.
Successivamente le proposi il tamburo (facendo strisciare i battenti sulla
pelle) e le maracas, sintonizzandomi con il tremolio delle sue braccia. Infine
suonai lo xilofono, improvvisando una melodia di delicata e lenta.
Costantina sembrava gradire questo intervento. Durante “l’ascolto” di ogni
strumento, da me suonato, accennava un sorriso; apriva gli occhi ed alzava
leggermente il capo, guardando lo strumento per poi ritornare
immediatamente nel suo atteggiamento “di chiusura”. Ero preoccupata
d’essere invadente, perciò le mie proposte musicali erano brevi e intercalate
da lunghe pause, “silenzi”. Durante il terzo incontro, Costantina, seduta sulla
sedia, decise di “esplorare” lo jambé, con le mani, ed il tamburo con i
battenti.Il tamburo e lo jambé saranno i mediatori scelti da Costantina per
tutta la fase iniziale del trattamento. Mentre Costantina “esplorava” gli
strumenti, io imitavo i suoi movimenti, utilizzando le mani, evitando il
contatto tattile al fine di non apparirle invadente. Per ben quattro sedute le
espressioni sonoro-musicali di Costantina erano caratterizzate da un’iniziale
fase di esplorazione seguita dalla percussione, con mani o battenti, di suoni di
debole intensità, non strutturabili ritmicamente. A volte suonava con gli occhi
chiusi, dando l’impressione che si lasciasse avvolgere, per cominciare ad
esplorare i suoni provenienti da se stessa. In tutti questi momenti, dopo un
periodo di attesa, decidevo di inserirmi inizialmente, imitando il suo “gesto
musicale” e successivamente, inserendo semplici incisi ritmici binari.
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Costantina però in tutte le produzioni sonore, sembrava non accorgersi della
mia presenza. Nella nona seduta, dopo un breve momento esplorativo
iniziale, Costantina eseguì, con forte intensità, un ritmo binario ben definito
formato dall’articolazione di semiminime. In seguito suonò il tamburo e lo
jambé, realizzando un nuovo inciso ritmico, formato da una semicroma
seguita da una croma con punto. Inizialmente imitai il suo “incipit ritmico” e,
in seguito, proposi delle variazioni. Costantina ripeté, con forte intensità, in
modo ostinato le sue articolazioni. Costantina, durante le sue espressioni
strumentali, viveva in una situazione d’ascolto di sé. Brevissimi i momenti
(due o quattro secondi) in cui le produzioni sonoro-musicali erano rivolte nei
miei riguardi. Nella decima ed undicesima seduta, Costantina iniziava la sua
produzione sonoro-strumentale con gli stessi ritmi da lei proposti nelle sedute
precedenti, trasformandosi quasi in un rituale d’inizio. Con questo rituale
sembrava che Costantina volesse riprendere il contatto interrotto, tra una
seduta e l’altra, con me, ma soprattutto con se stessa. Nell’undicesima seduta
però, dopo aver suonato in modo ostinato i suoi ritmi, con tempo lento ed
intensità forte, e dopo una brevissima “esplorazione musicale”, Costantina
eseguì un nuovo ritmo (due semicrome ed una croma), sempre con intensità
forte e tempo lento. Terminata l’espressione strumentale, Costantina si alzò
dalla sedia (mentre io continuai a suonare) e si sedette a terra sotto la
finestra. Inizialmente mi guardò, poi fissò il lettore CD, indicandomelo con il
dito medio della mano destra, mi chiese d’ascoltare musica. Smisi di suonare
e le proposi l’audizione della canzone “Quarantaquattro gatti”. Costantina
ascoltava il canto con interesse, sembrava di suo gradimento, tanto che mi
richiese l’ascolto per altre tre volte; provai a cambiare evento musicale, ma
urlò: “no”. Durante l’ascolto Costantina eseguiva timidamente il ritmo del
ritornello con la testa, movendola da una parte e dall’altra, mentre io
l’accompagnavo con il tamburello. Nelle successive quattro sedute,
l’esecuzione strumentale di Costantina restava invariata e fu lei stessa a
chiedermi l’ascolto della musica, indicandomi il lettore CD con il dito. Al
primo ascolto aggiunsi però un nuovo brano “Il Pinguino Belisario”. Durante
la sedicesima seduta, si verificò la prima grande sorpresa… per la prima volta
Costantina utilizzò la voce per cantare. La ragazza accennò diversi motivi,
sebbene li pronunciasse in modo poco chiaro. Tra i vari frammenti riuscii a
riconoscere una canzone scritta e cantata da Nicola di Bari “La prima cosa
bella” e “Mamma son tanto felice” … canzoni che conobbi e che cantai con lei.
Attraverso l’espressione canora Costantina riuscì relazionarsi con me per ben
quattro minuti...
*Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
Carla Bonomi
[email protected]
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Settembre
Bonardi Giangiuseppe, Dimmi che prassi musico ... terapica fai, ti dirò chi sei...
professionalmente
Pubblicato il 16 settembre 2010
Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di assistere all’esposizione, in forma di
relazione, filmati e resoconti verbali, di esperienze musicali rivolte a persone
diversamente abili. Mentre ascoltavo le innumerevoli pratiche, ne percepivo
via via le loro luci, le loro ombre e, fatto singolare, la loro dimensione
specifica: animativa, educativa, concertistica, terapeutica... Con mio stupore
ho rilevato quindi che alcune delle prassi ascoltate, osservate e analizzate,
sebbene non fossero di musicoterapia, avevano una dimensione
sorprendentemente terapeutica... affascinante e stimolante. In relazione a
quanto ho ascoltato e accolto ho constatato con piacere e con stupore che la
musicoterapia, quella ufficialmente riconosciuta, non è l’esclusiva depositaria
della valenza terapeutica di un intervento ma possono esistere altre prassi che
possono avere, inaspettatamente, una dimensione curativa altrettanto valida.
È ovvio che una prassi, musicoterapica o di altro tipo, per sussistere e per
essere compresa, non solamente dagli addetti ai lavori, suscita nel promotore
della stessa una serie di interrogativi ai quali deve, necessariamente,
rispondere. A quale pratica musicale è assimilabile la mia esperienza? È un
interrogativo cruciale che richiede all’ideatore della prassi di affermare,
chiaramente, che tipo di pratica sia: musicoterapia, educazione musicale,
animazione musicale, riabilitazione musicale, concerto, ecc. Una chiara
definizione del proprio operato sgombra il campo da dubbi, perplessità,
ambiguità circa il tipo di intervento realizzato e permette al fruitore di capire
se si tratti di musicoterapia o altro. Se, ad esempio, io sono un insegnante e
svolgo la mia attività didattica utilizzando la musica per integrare alunni in
difficoltà, benché nella mia prassi educativa utilizzi alcuni riferimenti teorici
attinenti alla musicoterapia a completamento di quelli pedagogici abituali,
rimarrò un insegnante impegnato nella realizzazione di un compito
educativo; la mia attività didattica avrà una valenza terapeutica ma non
diventerà musicoterapia. Se, invece, sono un musicoterapista che utilizza nel
suo lavoro una particolare metodica ufficialmente riconosciuta a livello
nazionale o internazionale e, nel prosieguo dell’attività, sono impegnato nello
sviluppo di una abilità cognitiva del mio assistito, nel fare questa attività non
divento improvvisamente un insegnate ma rimango un musicoterapista
impegnato nello sviluppo del suo percorso terapeutico; la mia attività
‘curativa’ avrà anche una valenza cognitiva. Avere il coraggio di affermare
quale sia la propria prassi è indice di chiarezza personale, professionale e, ciò
che conta maggiormente, di credibilità. A quale orientamento teorico di
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riferimento è ispirata? Qualsiasi prassi che utilizza la musica, per cui anche la
musicoterapia, non nasce casualmente ma promana da un orientamento
teorico ispiratore. È chiaro che l’orientamento teorico scelto non è
semplicemente acquisito a livello informativo ma richiede una lenta,
consapevole assimilazione. Quali sono le finalità? Le finalità di qualsiasi
prassi e, in particolare, di quelle musicoterapiche, sono strettamente legate
alla situazione-problema presa in esame per cui è bene ascoltare, osservare al
meglio delle proprie capacità professionali e umane le potenzialità espressive
e percettive sonoro-musicali della persona presa in esame; si eviterà in tal
modo di elaborare progetti di intervento, accattivanti sulla carta, ma
tristemente illusori e, fatto grave, irrealizzabili. Quale percorso ho seguito per
raggiungere le finalità prefissate? La prassi non è caratterizzata da un
particolare, seppur significativo, evento ma è, di fatto, la storia evolutiva di un
percorso fatto di fasi. La lettura analitica delle fasi, documentate in
musicoterapia con i protocolli delle sedute, consente di evidenziare
l’evoluzione del processo, sottolineando, tappa dopo tappa, i contenuti
salienti dell’intero percorso, dischiudendo il senso dell’esperienza stessa.
Quali contenuti musicali evidenziano la dimensione acustica dell’espressività
‘emotiva’ dei partecipanti durante le fasi del percorso? La ricerca del senso
racchiuso nel musicale agito e ascoltato dai partecipanti durante le varie fasi
del processo, può evidenziare la correlazione esistente con le emozioni
esperite dai soggetti coinvolti e, in musicoterapia, è una ricerca ormai
imprescindibile. Quali contenuti terapeutici evidenziano la dimensione
relazionale dei partecipanti durante le fasi del percorso? Un’attenzione alla
dimensione emozionale provata dai partecipanti non pregiudica la descrizione
oggettiva della situazione considerata ma sottolinea l’aspetto umano
dell’incontro, impregnato di vissuti ora piacevoli ora spiacevoli; è ben chiaro
che, in musicoterapia, l’analisi dei vissuti provati dai partecipanti costituisce,
unitamente al musicale agito e ascoltato, l’anima del processo stesso. C’è
congruenza tra l’orientamento teorico di riferimento scelto e la prassi
evidenziata? La congruenza tra quanto si è affermato a livello teorico e
l’effettivo riscontro nella realizzazione dell’esperienza testimonia la coerenza e
la validità dell’esperienza stessa e, in particolare, di quella musicoterapica.
Quali sono stati gli effetti dell’esperienza nei contesti di vita quotidiana vissuti
dall’altro da me? Una prima riflessione conclusiva riguarda l’individuazione e
il senso delle ricadute che la persona, il fruitore del progetto, ha vissuto nei
contesti di vita abituali. Quali sono state le ricadute personali e professionali
derivanti dall’analisi dell’esperienza? Un’altra imprescindibile riflessione
conclusiva è inerente la crescita umana e professionale vissuta dal conduttore
durante la realizzazione dell’esperienza.
Riflessione... breve e conclusiva
Riflettere in merito a ciò che realmente si fa, specialmente in musicoterapia,
è quindi ora una necessità poiché, in tal modo, ci si interroga sul proprio
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operato, evitando di demandare ad altri le responsabilità sottese ad esso. In
questa prospettiva il soggetto della prassi, in special modo quella
musicoterapica, non è l’autore dell’orientamento teorico di riferimento scelto
ma è il conduttore e l’ideatore della stessa; è lui, di fatto, il vero e unico
responsabile del proprio lavoro.
Giangiuseppe Bonardi
[email protected]
Con tag Riferimenti teorici di musicoterapia, Bonardi Giangiuseppe
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Bonardi Giangiuseppe (a cura di), La parola, l’opera del M° Boris Porena
Pubblicato il 8 settembre 2010
Monteverdi, Strawinsky, Porena
Porena Boris: La parola
Cantata Corale
Corale Polifonica Valchiusella
Anonymi Cantores
Direttore: M° Bernardino Streito
Edizioni Fonografiche e Musicali
Pro Civitate Christiana
Via Ancajani, 3
La Cittadella
06081 Assisi (PG)
Pro Civitate Christiana
Sezione Musica
Tel. 075/812288
[email protected]
http://www.musicoterapiassisi.it/
Ci sono musiche che ci appassionano, altre evocano ricordi, altre ancora
suscitano in noi uno stato di benessere e alcune... fanno riflettere. Sì, ci
possono essere eventi musicali che hanno la forza di farci meditare su temi
estremamente attuali. In un’epoca di comunicazioni di massa ridondanti, “La
parola”, l’opera del M° Boris Porena, richiama musicalmente l’attenzione
dell’ascoltatore sul senso stesso della parola. In particolare nella terza sezione,
utilizzando un peculiare dualismo musicale: parola cantata e parola recitata,
l’Autore enfatizza acusticamente, con magistrale patos musicale, la
dimensione duplice che può assumere la parola ora considerata, in relazione
alla situazione di utilizzo, come ‘... segno sonoro capace di affermare o di
negare la proposizione del discorso, cioè la parola intesa come oggetto
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semantico, quindi come "segno portatore di senso", strumento dialettico di
affermazione e al tempo stesso di contraddizione... ’[1].
Ascoltando e riascoltando la “Cantata Corale”, magistralmente diretta dal M°
Bernardino Streito, splendidamente interpretata dalla Corale Polifonica
Valchiusella e dagli Anonymi Cantores, non sono attratto dalla sintassi
musicale che la caratterizza ma rifletto, ancora una volta, sull’uso e sull’abuso
delle parole quotidianamente utilizzate in situazioni professionali, amicali e
familiari. Verosimilmente Porena, con questo evento musicale, ci sollecita a
ricercare il ‘giusto’ significato delle parole utilizzate sia nel dialogo, sia nella
stesura di una relazione. Porena ci rammenta, ora con la voce cantata, ora
con la voce recitata, la duplicità insita nell’espressività umana per eccellenza,
ricordandoci che l’utilizzo dei termini è legato indissolubilmente, non al caso,
ma alla nostra scelta, speriamo ora... maggiormente consapevole.
Giangiuseppe Bonardi
[email protected]
[1]Ringrazio la Sezione Musica della Pro Civitate Christiana di Assisi (PG), in
particolare la Dott.ssa Paola Baracchi, per aver concesso la possibilità di
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pubblicare in ‘Musicoterapie in... ascolto’ l’immagine della copertina del CD
in cui trova la registrazione de “La parola”, nonché alcune citazioni accluse al
libretto pag 6. e pag. 17. Giangiuseppe Bonardi.
Con tag Letture e ascolti consigliati
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Ottobre
Le dimensioni sollecitate dall'ascolto: seminario
Pubblicato il 28 ottobre 2010 da http://musicoterapie.over-blog.com/
Con tag Corsi convegni seminari ecc
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Bonardi Giangiuseppe (a cura di), Il suono, il grido, il lamento... nel pensiero
schnederiano
Pubblicato il 21 ottobre 2010
“Il suono (…) è la relazione che corre tra il pensiero e l’immaginazione”.
Schneider M.1
“Una forma elementare del desiderio è il grido... (che esprime acusticamente la) ...
volontà di crescere e di vivere...”. Schneider M.2
“Il lamento e il gemito ... sono i ritmi dello spirare della vita... ”. Schneider M. 3
“Cantare significa « dare » e udire, « ricevere » ”. Schneider M.4
“Il canto ... corrisponde alla fedeltà e alla volontà ...”.
Schneider M.5
“... la nozione di cantare è sempre legata all’idea di sacrificio (sfregamento) .”.
Schneider M. 6
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“Il sacrificio (sfregamento) è … l’organizzazione della forza (acustica) che regola i
rapporti tra cielo (la dimensione spirituale) e la terra (la dimensione materiale).”.
Schneider M.7
Bonardi Giangiuseppe
[email protected]
1Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 169.
2Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 178-179.
3Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 180.
4Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 66.
5Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 180.
6Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 66.
7 Il significato della musica, Rusconi, Milano 1987, pag. 81.
Con tag Il senso del musicale in musicoterapia
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Andrello Roberta, Dall’osservazione di Luca al progetto d’intervento musicoterapico
Pubblicato il 14 ottobre 2010
Dai dati rilevati durante la fase di osservazione musicoterapica emergono
alcune dinamiche relazionali manifestate da Luca (nome di fantasia in
ottemperanza alla legge della privacy) nell’ambiente musicoterapico. La
durata di permanenza di Luca nella stanza di musicoterapia (adattamento
temporale) si attesta tra i 21 e i 30 minuti. Ciò indica la capacità di “tollerare”
un lasso di tempo abbastanza lungo in cui svolgere l’attività musicoterapica.
Al contrario, il frequente cambiamento di posture e posizioni assunte dal
bambino durante le tre sedute, indica la ricerca di un adattamento spaziale
rispetto agli elementi presi in esame. L’unico dato con gradiente massimo è
quello relativo alla deambulazione nello spazio che dura da pochi secondi a
più di 5’ minuti consecutivi, alternata a momenti di staticità in posizione
seduta o eretta, della durata massima di 2’ minuti ciascuna. Sebbene non ci
sia un rifiuto dell’intervento espresso verbalmente, tuttavia la ricerca di
diversivi (ad es. giochi di equilibrio) e di scuse (es. mal di schiena) per non
suonare ed il rifiuto di suonare, sono presenti con gradiente massimo. Le
modalità di approccio relazionale adottate da Luca evidenziano difficoltà a
porsi in relazione con l’altro da sé : i mediatori sonoro - musicali adottati da
Luca sono stati da lui utilizzati per entrare in relazione con sé, poiché la
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contemporaneità assoluta tra l’esecuzione strumentale o l’atto verbale e l’atto
visivo rivolto nei miei occhi è stata presente solo 2/3 volte per seduta e ha
avuto la durata massima di 4/5”. Di converso, sono stati numerosi e frequenti
i momenti in cui Luca relazionava nei riguardi di sè, con una prevalenza
dell’espressione strumentale e dell’atto verbale. I mediatori sonoro - musicali
proposti sono stati utilizzati tutti in ogni seduta, alternativamente e per pochi
secondi ciascuno, fatta eccezione per lo djumbè che è stato scelto solo nelle
ultime due sedute. Questi dati correlano positivamente con le considerazioni
effettuate nella fase di osservazione ambientale, confermando l’ipotesi di una
palese difficoltà di adattamento spaziale e un quadro relazionale limitato.
Sulla base di queste rilevazioni in rapporto agli indicatori qui presentati,
ritengo utile un intervento musicoterapico individuale da effettuare con Luca.
Scopo dell’intervento è quello di riattivare questo suo difficoltoso processo
relazionale, utilizzando i mediatori sonoro - musicali scelti. L’intervento si
articola in 54 incontri aventi una durata iniziale di 20’ per seduta.
Le linee guida del progetto musicoterapico
Partendo dalle conclusioni alle quali sono pervenuta in seguito alle
osservazioni, ho progettato l’intervento musicoterapico seguendo la struttura
prevista dalla prassi musicoterapica relazionale individuale. Ho quindi
articolato l’intervento in tre fasi, ciascuna composta da 18 sedute a cadenza
settimanale, della durata iniziale minima di 20 minuti ciascuna. Fin dalle
sedute di osservazione mi ero resa conto che non sarebbe stato possibile
fondare l’attività musicoterapica sulle sintonizzazioni esatte, proponendo a
Luca delle consegne che richiedessero la sua attiva partecipazione
nell’esecuzione di improvviazioni sonoro-musicali, o nella realizzazione di
strutture ritmiche già esistenti, in un gioco imitativo a due, poiché da parte
sua c’era un rifiuto tanto a suonare, quanto a lasciare suonare me. Le
competenze socio - relazionali di Luca erano talmente primitive, che prima di
poter usare gli strumenti musicali come mediatori della relazione con l’altro
da sé, Luca doveva riuscire a percepirli come fenomeno esterno, come entità
permanente, separata dal suo Sé. In questo senso il mio intervento, che prima
delle osservazioni pensavo potesse essere definito “riabilitativo”, in realtà si è
configurato come “terapeutico”, poiché mi sono trovata a dover “… lavorare
“dal di dentro”, utilizzando la sintonizzazione di tipo empatico per favorire
un lavoro di ricostruzone interiore … in cui il materiale sonoro … era … il
risultato di questa condivisione corrisposta empaticamente dal terapeuta
…”1. Il mio punto di partenza erano dunque, nel contesto della musicoterapia
attiva, le sintonozzazioni inesatte che, consentendo “… di riprodurre
situazioni non troppo lontane dal tema originario dello stimolo, con il
conseguente piccolo carico di frustrazioni connesso allo sforzo di dover
attivare un minimo livello rappresentazionale ed astratto … favoriscono…
un primo approccio elaborativo, basato tanto sul riconoscimento di una
buona parte dello stimomlo oiginario, e quindi una condotta rassicurante
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legata al campo del consueto (ripetizione, coincidente con un certo grado di
identificazione proiettiva) quanto sulla necessità di dover affrontare una
piccola variazione che consente di sperimentare il campo del nuovo e di
aprire la mente a nuove strategie di funzionamento (tema con variazioni,
coincidente con un certo grado di identificazione introiettiva) …”2.
Roberta Andrello
[email protected]
1 POSTACCHINI P. L., RICCIOTTI A., BORGHESI M., Le strategie
d’intervento, in: Lineamenti di musicoterapia, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1997, p. 123.
2 POSTACCHINI P. L., RICCIOTTI A., BORGHESI M., Le strategie
d’intervento, in: Lineamenti di musicoterapia, La Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1997, p. 115.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Andrello Roberta
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Bonomi Carla, “L’incantesimo della chitarra”
Pubblicato il 8 ottobre 2010
Al fine di migliorare la “qualità” delle nostre relazioni sonoro-musicali, ormai
orientate in una prospettiva interattiva, nella fase finale, proposi a
Costantina[1] un nuovo mediatore sonoro: la chitarra. Grazie all’adozione
della chitarra rilevai che Costantina si relazionava meglio con me,
aumentando la durata delle interazioni canore. Gli strumenti a disposizione
mi sembravano pertanto insufficienti a far fronte alle esigenze di Costantina.
L’habitat musicoterapico, ad eccezione del nuovo strumento, non ha subito
modifiche. Gli incontri avvenivano tre volte la settimana. Durante la prima
seduta, lo sguardo di Costantina cadde subito sulla chitarra, la guardava
sorridendo, indicandomela con l’indice destro e con la mano sinistra mi
chiedeva cosa fosse, mentre, nel frattempo, osservava anche me. Costantina
non conosceva la chitarra, il suo timbro. Decisi così di prendere la chitarra ed
iniziai a cantare le ‘nostre canzoni’[2]. Lo sguardo di Costantina era misto
d’incredulità e stupore. Dopo aver suonato, collocai la chitarra al suo posto tra
le maracas ed il triangolo. Costantina, senza un attimo d’esitazione,
incuriosita si alzò, prese la chitarra e tornò a sedersi sulla sedia, vicino alle
maracas. Iniziò a suonare, muovendo velocemente la sua mano destra
dall’alto verso il basso, mentre la sua mano sinistra impugnava il manico,
appoggiando le dita sulle corde. Il suo viso assunse un’espressione
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appassionata. Costantina iniziò a cantare, adeguando il ritmo della sua
esecuzione canora, mentre io “imitavo” con il cembalo la sua scansione
ritmica. Con il procedere del trattamento mi resi conto che la chitarra,
introdotta all’interno dell’habitat musicoterapico per la mia esigenza di
accompagnare la produzione canora di Costantina, era diventata il mediatore
strumentale preferito dalla stessa, insieme al jambé ed al tamburo. Nella
quarta seduta, che io considero la più rilevante dell’intero trattamento finale,
Costantina entrò nella stanza di musicoterapia e si sedette sulla sedia. Era
molto triste. Mi chiese subito notizie della sua mamma ed iniziò a piangere.
Dopo due minuti, Costantina si alzò e si sedette a terra vicino l’ingresso,
appoggiando le sue spalle alla porta. Anch’io mi sedetti di fronte a lei, dopo
aver preso la chitarra. Eravamo molto vicine, mentre le sue lacrime
continuavano a bagnare il suo viso. Costantina non mi guardava, il suo
sguardo era perso nel vuoto. Iniziai a suonare e a cantare con la speranza di
alleviarle la sofferenza. Costantina evitava il contatto oculare e sembrava
impenetrabile alle mie proposte musicali. Notando la chiusura emotiva di
Costantina, decisi così di non suonare. Appoggiai la chitarra sul pavimento e
restai seduta a di fronte a lei. Costantina non mi guardava, ma sentivo che in
qualche modo era presente. Ripresi la chitarra e ricominciai a suonare. Non
volevo richiamare l’attenzione di Costantina, ma sostenerla, comunicarle, in
qualche modo, che ero presente… ero lì, vicino a lei. Non potevo fissare lo
sguardo di Costantina, allora chiusi gli occhi e cominciai a suonare ciò che
sentivo in quel momento. Dopo un’iniziale esecuzione di lente sequenze
ritmiche e arpeggi, lasciai cadere a terra il plettro che tenevo stretto tra le mie
dita e cominciai, sommessamente a far vibrare più volte a vuoto le corde MI
(sesta corda), LA (quinta corda) e RE (quarta corda). Suonai moltissimo, non
so per quanto tempo. Avvertivo sensazioni strane. Sentivo di perdere il
contatto con tutto ciò che mi circondava (la stanza in quel momento era vuota
per me) e non sentivo più il mio corpo, avvertivo un senso di leggerezza. Aprii
lentamente gli occhi, quando sentii “qualcosa” sfiorare delicatamente la mia
mano sinistra, che impugnava il manico della chitarra. Aprii gli occhi e mi resi
conto che quel “qualcosa” era la mano di Costantina. Per la prima volta
Costantina cercava il contatto. Lasciai scivolare lentamente la mia mano
sinistra (la mano destra di Costantina era appoggiata sopra la mia) verso il
centro della chitarra. Sfilai lentamente la mia mano, e senza perdere il
contatto, l’appoggiai sopra la sua mano, facendo appoggiare le sue dita sulle
corde, provocando una leggera pressione per far vibrare le corde (MI-LA-RE),
spostando le mani verso il basso. I nostri sguardi per un attimo si
incrociarono. Costantina però sollevò lentamente la sua mano e, girandola
afferrò la mia, tenendomela stretta. Appoggiai lentamente, con la mia mano
destra, la chitarra a terra. Lentamente lasciai scivolare più volte le mie mani,
prima sulle braccia di Costantina, e poi sul suo viso, accarezzandola. Lo
sguardo di Costantina era “estasiato”, mentre nel frattempo fissava il soffitto.
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Dopo circa cinque minuti cominciò anche lei ad accarezzarmi prima il viso e
poi le braccia. Costantina mi fissava, ma lo sguardo era ancora vuoto, gli
occhi mi sembravano quelli di uno spettro. Il contatto durò circa quindici
minuti, giunti al termine della seduta, lentamente aiutai Costantina ad alzarsi
e l’accompagnai in reparto. L’intera fase del contatto (vissuta con molta
tranquillità) era, da me percepita, come un bisogno, molto intenso d’affetto,
di aiuto, manifestato da una “bambina”, che cercava il contatto con la
mamma. Con la consapevolezza che io ero solo “la sua amica” ed in nessun
modo volevo e non potevo prendere il posto della “(sua) mamma”, nelle
sedute successive decisi di favorire il “risveglio” della consapevolezza e della
separazione delle nostre identità. Improvvisavo ad es. canzoni avvicinandomi
a Costantina, toccandola e stringendole le mani; identificavo le nostre attività,
cantando il nome di entrambe; inventavo canzoni inserendo anche i
componenti della sua famiglia “Batti batti le manine che adesso vien…” Non
sono mancati in quest’ultima fase momenti di libera improvvisazione sia
strumentale che canora. Man mano che la reciproca fiducia aumentava, le
sedute acquistavano una nuova dimensione, attraverso cambiamenti musicali
“prudenti”, ma intenzionali sia per la dinamica che per il ritmo. Un mondo di
suoni si apriva a Costantina: percuotere il tamburo o il jambé, strimpellare la
chitarra divenne per Costantina fonte di gioia. Riusciva ad ottenere suoni
piano e forti, ed entrambe la soddisfacevano. Accrebbe progressivamente la
durata del contatto oculare, mentre cantava (fino a tredici minuti) o suonava
gli strumenti musicali (fino a quattordici minuti). Non mancavano i momenti
d’ascolto. Costantina mi chiedeva spesso la canzone preferita: “La Tartaruga
Sprint”, indicandomi il lettore cd, imitando con i gesti le parole della
canzone. Durante l’ascolto muoveva non solo la testa ma anche il corpo, da
una parte e dell’altra, in modo molto più disinvolto, in risposta alla musica ed
esprimendo, con il viso, la sua felicità. L’andatura, pigra ed impacciata,
cominciava a prendere slancio: il suo corpo si stava vivacizzando. Durante le
improvvisazioni, man mano che il trattamento volgeva al termine, la
sensazione di fare musica insieme emergeva sempre di più. L’intera
espressione corporea e strumentale rivelava Costantina per quello che era:
una ragazzina “vivace” che stava uscendo dalla sua... “tana”.
Carla Bonomi
[email protected]
[1] Nome di fantasia, in ottemperanza alla legge della privacy.
[2]Bonomi Carla, Intonare... emozioni (17/08/2010 pubblicato in :
Musicoterapia e psichiatria ), http://musicoterapie.over-blog.com/
Con tag Musicoterapia e psichiatria, Bonomi Carla
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Bonardi Giangiuseppe, In ascolto della dimensione acustica delle... emozioni
Pubblicato il 1 ottobre 2010
Corso Quadriennale di Musicoterapia
http://musicoterapie.over-blog.com/
Assisi 30-31 ottobre, 1 novembre 2010
In ascolto della dimensione acustica delle... emozioni
Qual è la dimensione sonora di una emozione provata in prima persona?
Come facciamo a percepirla ed ascoltarla?
Come possiamo esprimerla?
È possibile percepire le sonorità emotive altrui senza confonderle con le
proprie?
È possibile porsi in ascolto della dimensione sonora delle altrui emozioni?
Come le accolgo?
È possibile interloquire con me e con l’altro da me, utilizzando solamente la
dimensione sonora delle emozioni?
Il seminario è rivolto a quanti operano nella relazione d’aiuto, in particolare ai
musicoterapisti, ed è volto a ricercare il senso sotteso alla dimensione sonora
delle emozioni percepite, accolte, condivise… interagite con sé, l’altro, gli altri
da sé.
Conduttore:Giangiuseppe
Bonardi,
Musicoterapista,
Formatore
e
Supervisore, iscritto all’Associazione Italiana Professionisti della
Musicoterapia (A. I. M.), Docente di Musicoterapia pratica presso il Corso
Quadriennale in Musicoterapia della Pro Civitate Christiana di Assisi (Pg).
Ideatore e Responsabile di http://musicoterapie.over-blog.com/
Per iscrizioni e informazioni:Pro Civitate Christiana Sezione Musica, La
Cittadella, via Ancajani, 3 - 06081 Assisi (PG). Tel. 075/812288
E-mail:[email protected]
Corso Quadriennale di Musicoterapia
Con tag Corsi convegni seminari ecc
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Novembre
Andrello Roberta, La lotta dei fantasmi di Luca
Pubblicato il 26 novembre 2010
Per tutta la seconda fase dell’intervento ho mantenuta invariata la
disposizione degli arredi e degli strumenti impostata col cambiamento
avvenuto il 12/10/00[1], sia per salvaguardare la stabiltà della cornice del
setting, sia perché l’ubicazione scelta sembrava adeguata alla nostra
situazione e non avevo avvertito la necessità e l’utilità di un cambiamento.
Avendo conseguito un adeguato adattamento temporale, gli sforzi di questo
periodo di lavoro erano tutti rivolti al miglioramento dell’adattamento
spaziale, strettamente correlato al tipo di rapporto che Luca (nome di fantasia
in ottemperanza alla legge della privacy) maturava gradualmente con gli
strumenti musicali e con me. Col tempo ero riuscita ad identificare alcuni
miei comportamenti utili allo scopo di creare un argine al movimento e al
rumore assordante dal quale inizialmente mi sentivo invasa: quando Luca
cercava di colpirmi, con dolce fermezza gli impedivo di far male tanto a me,
quanto a se stesso. In molti casi, anziché agire verbalmente o fisicamente era
sufficiente che io rispecchiassi il suo gesto o lo trasformassi in suono, oppure
in un gioco, restituendolo così spogliato dei suoi aspetti insostenibili, perché
Luca cambiasse atteggiamento e l’aggressività, assumendo una forma
diversa, diventasse più tollerabile. Attraverso questo comportamento, che
Bion definisce “reverie”, cercavo di rispondere nel modo più idoneo possibile
alle proiezioni di Luca. Era molto importante che io parlassi piano e
dolcemente: in questo modo ho lentamente costruito uno spazio in cui
inserirmi per ottenere il suo silenzio e farglielo ascoltare come una cosa bella,
come uno spazio “buono”, ripulito dal fluire di parole e dal continuo
movimento, uno spazio mio e suo nel quale era possibile stare insieme. A poco
a poco il silenzio sembrava non più solo un’esigenza mia, ma anche e
soprattutto sua: erano tanti e a volte lunghi anche 10 minuti, i momenti che
Luca trascorreva in silenzio sul tappeto. Sebbene non fosse facile per me
“resistere alla tentazione” di intervenire in qualche modo, tuttavia restavo ad
osservare Luca e a pensare: quel silenzio era lo spazio del quale io avevo
bisogno per pensare e per poter intervenire successivamente, ed era lo spazio
nel quale Luca poteva ascoltare e ascoltarsi. Non era necessario che attirassi
l’attenzione di Luca, quando lui era pronto tornava da me, vicino agli
strumenti, e insieme iniziavamo un gioco. Tra i giochi nuovi e più frequenti di
questa fase c’è quello di aggiustare gli strumenti: Luca si metteva per terra
sotto i bonghi o vicino allo djumbè e con uno o due battenti li “riparava”,
chiedendomi di aiutarlo. Era come se si stesse passando dalla fase di
“distruzione” a quella della “riparazione” che, in un’ottica Kleiniana, poteva
essere intesa come un segno dell’evoluzione verso la riduzione della scissione
tra oggetto “buono” e “cattivo” e della riduzione dello scarto tra oggetto
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interno ed oggetto esterno. Col passare del tempo il gioco è diventato l’unico
mezzo attraverso il quale fosse possibile l’interazione e lo strumento musicale
era il nostro mediatore: la realizzazione del gioco passava infatti attraverso la
produzione di suoni. Un esempio è costituito dal gioco della “morra" (“bim
bum bam”), nel quale i movimenti e le parole erano scanditi dai colpi battuti
sui bonghi o sullo djumbè, strumenti che poi fungevano da piano d’appoggio
per le mani. In questo modo si era lentamente sviluppato un rapporto
transazionale tra musica e gioco: anche la musica era diventata accettabile,
purchè funzionale al gioco stesso. In questo modo, rispetto alla fase
precedente, è aumentato il tempo di tolleranza del contatto con me: solo ogni
tanto Luca riferiva di essere stanco e di dover riposare, ma ciò accadeva
almeno dopo 30 minuti che era con me e soprattutto dopo un’interazione
corporea o musicale, breve e non caratterizzata dalla presenza di aggressività.
Era dunque evidente il miglioramento dell’adattamento spaziale. Purtroppo, a
metà di questa fase, Luca ha cambiato insegnante di sostegno: era molto
affezionato alla precedente e sembrava non voler accettare la sua perdita;
sembrava che avesse perso una parte di sé: parlava continuamente di lei,
rifiutava la nuova maestra e, durante le sedute, manifestava una regressione
al livello in cui lanciava gli strumenti, era aggressivo e si muoveva
continuamente. Era ricomparso, dopo parecchio tempo, il tema della morte.
Successivamente, comunque, man mano che Luca superava il lutto
dell’insegnante, le sedute hanno cominciato ad assumere una struttura che è
rimasta invariata quasi fino alla fine del trattamento. Luca entrava e si sedeva
sulla sedia di fronte a me, iniziava un gioco con l’uso degli strumenti come
mediatori, poi fuggiva sul tappeto, ritornava, si sdraiava per terra e dichiarava
di essere morto, poi risorgeva grazie alla “musica del risveglio” che io eseguivo
e si concludeva la seduta. Questa sequenza degli eventi mi era sembrato un
passo avanti notevole: stavamo cominciando a porre ordine al caos ed il
movimento era notevolmente ridotto.Il mio obiettivo era a quel punto quello
di riuscire a ridurre anche la presenza del verbale ed il contatto corporeo:
inventando la storia della montagna ho gradualmente evitato che Luca mi si
sedesse in braccio, mentre l’introduzione dell’espressione “bla, bla, bla, bla
…”, intonata sulla melodia e col ritmo della “canzon dell’uccellin”
(precedentemente descritta)[2] ha in parte sostituito le parole. Per poter
comunicare, la chiave d’accesso era il “bla” e le parole erano sostituite dai
versi che molto spesso Luca accoppiava facendoli diventare “parolacce” o
comunque espressioni di disgusto. Lo stesso “bla”, col tempo ha assunto
l’aspetto di un’espressione che indicava qualcosa di disgustoso, “blah!”, che
Luca definiva “schifoso” e, non a caso, spesso lo faceva seguire dalla parola
“schifo”. Il punto di volta di questa fase è rappresentato da tre episodi di
onanismo che si sono susseguiti l’uno dopo l’altro in un crescendo che è
culminato con la scopertura dei... Confrontandomi con lo psicologo che aveva
in carico Luca, ho pensato che con questo gesto fortemente aggressivo, Luca
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avesse voluto mostrare chi comandava, chi aveva il potere; ho però pensato
che potesse anche trattarsi di un ennesimo tentativo, questa volta
decisamente forte, di mettermi alla prova per vedere se sopravvivevo a questo
suo attacco e rimanevo accanto a lui. Non nego di aver provato un certo
imbarazzo, soprattutto perché, presa alla sprovvista, non sapevo al momento
quale potesse essere la reazione “meno dannosa”. Sono quindi rimasta ferma,
impassibile, e quando, dopo pochissimi secondi, Luca si è ricoperto, gli ho
proposto di fare il gioco della “morra” usando entrambe le mani. Dopo quella
seduta è aumentato gradualmente il tempo che Luca trascorreva seduto di
fronte a me e, alcune volte, riuscivamo a suonare i bonghi insieme,
costruendo così dei giochi d’imitazione basati sulle sintonizzazione inesatte.
Luca comunque non ha mai tollerato i suoni forti e quando capitava che sia il
ritmo che l’intensità diventavano incalzanti, fuggiva sul tappeto. Una volta ha
gridato” Basta, sto diventando matto!” e ha nascosto gli strumenti
minacciando di andarsene. Per tre volte consecutive ha chiesto di poter
andare in bagno: ho verificato che in realtà la sua richiesta corrispondeva ad
un bisogno fisiologico, ma per evitare che l’uscita diventasse un’abitudine e
un’ulteriore strategia di fuga, ho invitato Luca ad andare in bagno prima di
inziare la seduta. Luca non ha più chiesto di uscire, fino a molto tempo dopo.
Questa fase si è conclusa con due eventi importanti. Il primo era una novità
assoluta poichè Luca, per la prima volta, ha detto di sentirsi triste ed ha
attuato un comportamento che corrispondeva e sottolineava questo suo stato
d’animo. All’improvviso è come se avesse preso consapevolezza del fatto che si
sentiva “un perdente” (così si è definito lui) e ciò lo rattristava, pertanto non
voleva fare nulla, lì, in quel momento, con me. In effetti Luca non ha mai
espresso le sue emozioni verbalmente: la sua produzione verbale era spesso
legata a fatti o storie che lui inventava, ma in esse non compariva mai il nome
di un’emozione. Sebbene Luca avesse agito più volte con rabbia, per esempio,
tuttavia sembrava non aver mai riconosciuto questo modo di sentirsi. Il
secondo evento è legato al tema della morte: durante un gioco in cui moriva,
Luca ha affermato che si era svegliato il suo fantasma cattivo. Io gli ho detto
di vedere anche quello buono; Luca li ha fatti lottare e quello buono ha vinto,
mentre il cattivo è morto, ucciso da quello buono. Ancora una volta non ho
potuto non fare riferimento alla Klein e chiedermi se di fatto questo evento
non fosse un indicatore del tentativo di ripristinare l’integrità dell’oggetto
materno, in stretta relazione e coerente con la riparazione testè descritta.
Roberta Andrello
[email protected]
[1]Andrello Roberta, I dolorosi vissuti di Luca Lunedì 8 novembre 2010,
http://musicoterapie.over-blog.com/ (Pubblicato in : Musicoterapia e ritardo
mentale)
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[2]Andrello Roberta, I dolorosi vissuti di Luca Lunedì 8 novembre 2010,
http://musicoterapie.over-blog.com/ (Pubblicato in : Musicoterapia e ritardo
mentale)
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Greco Marina, La relazionalità come essenza dell’ascolto
Pubblicato il 15 novembre 2010
Dando seguito alle riflessioni espresse in precedenza[1], giunti a questo punto
dobbiamo affermare con forza che l’uomo del terzo millennio deve
necessariamente imboccare la strada indicata secoli fa da Socrate per sperare
di curare l’anima donandole finalmente la “salute”. Se il sommo filosofo greco
ci ha guidato a comprendere che l’ascolto e il dialogo (di/con il sé e di/con gli
altri) sono un cammino nella direzione della conoscenza del bene più grande
(in relazione a ciascuno) e al conseguimento della salute dell’anima,
accingiamoci a fare ora il passo successivo. Il bene più grande, la salute
dell’anima in cosa consistono? Rispondiamo: nel ben-essere interiore. Ma
quest’ultimo, a sua volta, in cosa consiste esattamente? Nel percepire il
proprio essere in armonia. Roberto Mancini ha magistralmente esposto la
tesi dell’ascolto come via privilegiata nel cammino verso la verità e l’armonia
completa: “l’ascolto è un cammino nella direzione della verità.
[…]L’aspirazione umana alla conoscenza rivela qui la sua ragione originaria
e la sua meta ultima: pervenire all’armonia con tutto ciò che esiste e
raggiungere l’autocoscienza come consapevolezza di essere compresi in
questa armonia. Quando il desiderio di conoscere percorre la via dell’ascolto
utopico, esso ospita segretamente o apertamente il desiderio che l’interiore e
l’esteriore giungano ad integrarsi pienamente.[2]” L’armonia deve albergare,
dunque, sia all’interno del proprio sé sia fra quest’ultimo e l’altro da sé ovvero
il mondo esterno, l’essere dell’altro. L’ascolto e il dialogo come strumenti per
il conseguimento del ben-essere inteso come armonia presuppongono una
forma di comunicazione e dunque di relazione. Prima di tutto di ciascun
uomo con se stesso (armonia del sé) e poi con ciò che lo circonda (armonia
con l’altro da sé): “Dall’ascolto dipende l’inserimento reale dell’uomo
nell’ambiente in cui vive. La sua comunicazione con ciò che lo circonda, con
l’altro e prima di tutto con se stesso, può allora instaurarsi al modo di un
vero dialogo”[3]. L’esistenza di una alterità (il proprio sé o l’altro da sé) è
insita nella possibilità stessa dell’ascolto, del dialogo e dunque della relazione.
La prima esperienza di relazione con l’altro da sé basata sull’ascolto è
sperimentata da ciascun essere umano a partire dal periodo prenatale, nella
vita intrauterina. Tra gli autori che si sono dedicati all’approfondimento di
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questo aspetto particolare della fase prenatale e non solo, ricordiamo A.
Tomatis e i suoi interessanti spunti di indagine. Lo studio della genesi della
funzione uditiva e dell’ascolto, sia dal punto di vista filogenetico sia dal punto
di vista ontogenetico, conduce l’autore ad affermare che la facoltà di ascolto
“risulta essere il primo fattore di organizzazione dell’uomo”[4]. Lo studioso,
infatti, riesce a dimostrare il ruolo fondamentale dell’udito e dell’ascolto nel
cammino dell’esistenza umana e nella genesi della personalità: essendo,
l’orecchio, il primo organo sensoriale a formarsi nel feto, l’ascoltare è in
assoluto la prima esperienza di relazione del feto ancor prima della nascita.
Lo sviluppo del senso dell’udito è il ponte fra il sé in formazione e l’altro da sé.
Il cammino verso la conoscenza e la ricerca dell’armonia, che
accompagneranno l’uomo per tutta la vita, prende avvio in questo
meraviglioso, unico momento. Al di là dei suoni del corpo materno percepiti
all’interno dell’utero (che Tomatis definisce una vera e propria fornace di
suoni[5]) da cui il feto è inondato e che costituiscono un costante e
permanente bagno acustico (il flusso e riflusso dei liquidi, la risacca dello
stomaco durante la digestione, i gorgoglii dell’intestino, le scariche di bile, il
soffio dei polmoni[6] ecc.), ciò che determina per il feto l’inizio della
comunicazione e dunque della prima relazione con il mondo è la voce
materna: “immerso in questa formidabile pasta sonora che è la voce
materna, vive l’età d’oro della comunicazione, un paradiso che non potrà
mai dimenticare e che rimarrà impresso in lui, quali che siano le
vicissitudini che attraverserà in seguito”[7]. Fra madre e bambino, dunque,
si instaura attraverso la comunicazione intrauterina un dialogo irripetibile
nella vita, una primaria relazione che sarà la base di ogni futura relazione del
futuro bambino, con se stesso e con l’altro da sè. Ma può esserci dialogo o
definirsi relazione una comunicazione in cui uno dei due “interlocutori” non
ha capacità di linguaggio né di decodifica di quest’ultimo? In quel dialogo così
speciale come quello fra madre e feto l’aspetto essenziale e imprescindibile
non è la comprensione da parte del futuro bimbo del significato delle parole
che la madre gli rivolge, bensì l’intenzione di quelle parole e il modo in cui
sono pronunciate. Cosa significa? Significa che ciò che il futuro bambino
coglie nella voce della madre[8] è la qualità affettiva che sottende quella voce
che si rivolge proprio a lui. La decodifica che il feto compie non è di natura
semantica bensì di natura empatica; la voce materna trasmette antipatia o
simpatia, esprime angoscia o serenità, collera o tristezza ed il feto reagisce
empaticamente di conseguenza[9]. Ciò che caratterizza la comunicazione
materna “trascende il significato linguistico, a cui il feto resta insensibile.
Questo imprinting è un addestramento che non si dimentica alla
nascita”[10]. Tomatis precisa inoltre che il bambino nell’utero non ha solo
sensazioni, ma è dotato di una sensibilità acustica che va oltre il semplice
udito passivo, ovvero è capace di percepire. Se il bambino sentisse
semplicemente, non conserverebbe alcuna memoria dell’esperienza dialogica
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intrauterina con la madre. Affinché ci sia quell’imprinting di cui parlavamo è
necessario, dunque, che il feto percepisca. In poche parole Tomatis si spinge
ad affermare che il futuro bambino ascolta e c’è ascolto tutte le volte che egli
tende l’orecchio alla voce della madre, a quel messaggio che sa che è destinato
a lui. Egli è capace di distinguere l’intenzione nella voce della madre e di
individuare se quei suoni sono rivolti a lui oppure no. È questa capacità che
consente il passaggio dalla sensazione alla percezione da parte del feto, che in
tanto è capace di tutto ciò, in quanto è capace di “attenzione”, perché è alla
ricerca di qualcosa[11]. Che cosa? Integrazione, armonia... Ecco che il
desiderio di conoscenza torna ad essere la molla che porta l’uomo a
progredire. Il piccolo futuro bambino mobilita la propria coscienza verso la
fonte sonora che sembra parlargli perché è alla ricerca di quelle emozioni
positive di cui ha infinitamente bisogno: amore, tenerezza, conforto[12].
Questa voce ascoltata prima ancora di poter parlare è una autentica forza
poietica per ciascun essere umano, in quanto, nel ricordo di essa, egli saprà
esprimere i suoi sentimenti. La madre chiama il bambino alla vita parlandogli
e comunicando con lui. Se recepisce amore, il bambino risponde all’appello e
il suo sé comincia il proprio divenire. Cosicché la voce materna svolge una
vera e propria funzione maieutica per la psiche del bambino. R. Mancini
afferma che avviene qui, nella fase prenatale, il fenomeno della vocazione nel
suo significato universalmente umano, vocazione che si dà nell’essere
chiamati ad esistere[13]. L’ascolto non è altro se non l’assenso all’esistenza.
Con la nascita, il bambino non perde la capacità acquisita nell’esperienza
intrauterina; pur nella difficoltà di doversi districare in un universo sonoro
diverso da quello precedente, egli sente il desiderio di comunicare proprio per
ritrovare e mantenere la relazione sonora e affettiva con la madre di cui ha
memoria. Il bambino cerca, seleziona e quindi riconosce fra tutti i suoni che
arrivano al suo orecchio solo la voce della madre e ancora una volta tende il
suo orecchio verso quel suono per ricreare quel dialogo che aveva
caratterizzato buona parte della fase pre-natale. Egli, tendendo l’orecchio
verso quella voce che conosce, ascolta e rinnova il suo assenso all’esistenza.
Da questo momento in poi il bambino comincia la sua comunicazione con ciò
che è fuori di lui; lo sviluppo progressivo della sua competenza acustica pone
le basi per l’acquisizione del linguaggio. Alla base di qualsiasi comunicazione
e relazione si afferma ancora una volta, dunque, il desiderio e la volontà di
ascoltare; tendere verso l’altro trasforma l’udire in ascolto: “l’ascoltare è l’atto
di tendere tutto il proprio corpo verso l’altro, ma è anche sapere che si esiste
attraverso questo stesso rapporto d’ascolto. Non si può ascoltare senza
coinvolgersi, e l’ascolto comincia dall’ascolto di se stessi in rapporto con
l’altro”[14]. L’ascolto diviene occasione e spinta per lo sviluppo e la
conoscenza del sé e del sé in relazione all’altro. Poiché nella fase post-natale il
desiderio di ascoltare e il tendere verso il suono della voce materna nasce nel
bambino per ritrovare quello stato di comunione e armonia con la madre,
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possiamo concludere che il successivo desiderio di ascoltare e il tendere verso
l’altro da sé (diverso dalla madre) e la relazione che ne consegue nascano dal
desiderio di sentirsi in comunione e in armonia con tutto l’universo che si
incontra, instaurando con questo una relazione. Nell’ascolto si realizza la
tendenza alla relazionalità propria della condizione umana. Il desiderio di
ascoltare equivale, dunque, alla ricerca di armonia, ovvero di quel benessere
di cui si parlava all’inizio. Cosa accade se la madre, durante la gravidanza,
vive delle profonde angosce o delle turbe psicologiche? Cosa accade se il
bambino non riceve i giusti input per prendere contatto con sé e poi con il
mondo, se non viene chiamato alla vita o se è vi chiamato con angoscia? Nulla
è più “liquido” e “trasmettibile” dell’angoscia[…][15]. E proprio per questo,
proprio perché il futuro bambino percepisce che rispondere alla “vocazione”
significherebbe naufragare, allora accade che egli potrebbe non concedere
quell’assenso che, come abbiamo visto, è necessario per trasformare il
semplice udire in ascolto[16]: in questo bambino il desiderio di ascoltare
potrebbe spegnersi e con esso la comunicazione e la relazione con il mondo.
Egli udirà, ma non ascolterà. In questa mancata risposta al richiamo della vita
molti studiosi individuano una delle possibili cause che danno origine al
disturbo autistico.
Marina Greco
[email protected]
[1] Greco Marina, L’ascolto agli albori del pensiero occidentale (24/05/2010
pubblicato in : L'ascolto in musicoterapia )
Greco Marina, Dall’oblio dell’ascolto alla sua riscoperta (14/06/2010
pubblicato in : L'ascolto in musicoterapia )
Greco Marina, *L'accoglienza come forma d'ascolto evoluta e privilegiata
delle... emozioni ( 6/09/2008 pubblicato in: L'ascolto in musicoterapia )
Greco Marina, In ascolto ... del silenzio (12/07/2010 pubblicato in : L'ascolto
in musicoterapia )
Greco Marina, Il valore dell’ascolto e del silenzio nella società attuale
(26/07/2010 pubblicato in : L'ascolto in musicoterapia )
[2] Mancini R., L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Ediz.
Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pag. 219.
[3] Tomatis A., Ascoltare l’universo. Dal Big Bang a Mozart, Baldini &
Castoldi, Milano 2005, pag. 179.
[4] Ibidem, pag. 195.
[5] Tomatis A., Nove mesi in paradiso. Storie della vita prenatale, tr.it. di
L.Merletti, IBIS, Como-Pavia 2007, pag.67.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem, pag. 69.
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[8] Nei suoi studi Tomatis sostiene che la via attraverso cui la voce materna
giunge al feto non è la parete addominale, bensì la colonna vertebrale. Si
rimanda alle seguenti opere dell’autore: Nove mesi in paradiso, cit., pag.18;
Ascoltare l’universo, cit., pag. 146-147.
[9] Cfr, Tomatis A., Nove mesi in paradiso, cit. pagg. 64-65.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem, pagg. 67-68.
[12] Ibidem.
[13] Mancini R., L’ascolto come radice, cit. pag. 223.
[14] Tomatis A., L’orecchio e la vita, Baldini&Castoldi, Milano 1992, pag. 335;
citazione tratta da Mancini, op. cit., pag. 223.
[15] Tomatis A., Nove mesi in paradiso, cit., pag. 54.
[16] Cfr. Mancini R., L’ascolto come radice., cit., pag.223.
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Andrello Roberta, I dolorosi vissuti di Luca
Pubblicato il 8 novembre 2010
Le prime diciotto sedute sono state per me le più difficili da preparare, da
affrontare e da vivere: Luca (nome di fantasia in ottemperanza alla legge della
privacy) era imprevedibile in ogni sua manifestazione, dalla quale molto
spesso mi sentivo invasa. Ho scelto gli strumenti da proporre e la loro
disposizione, partendo dalle informazioni ottenute in fase osservativa[1]. Fin
dalla prima seduta ho disposto due sedie in posizione frontale; mi sono però
resa conto che erano troppo distanziate e poco funzionali alla facilitazione
dell’assunzione di una posizione stabile atta a favorire il contatto visivo,
pertanto ho modificato l’assetto dopo tre sedute, riducendo gli spazi sia tra le
sedie, sia tra gli strumenti. Ho proposto a Luca gli stessi strumenti musicali
presenti nelle sedute di osservazione musicoterapica, poiché Luca in questa
fase non aveva manifestato delle preferenze particolari: ho pensato che dopo
qualche incontro avrei avuto elementi sufficienti per introdurre delle
variazioni. (Questo a testimonianza del fatto che l’osservazione non finisce
mai). In effetti subito dopo le prime due sedute non ho più proposto il flauto a
becco e le sonagliere, poiché i loro suoni davano particolarmente fastidio a
Luca; inoltre ho alternato la presenza di una e due maracas, stabilizzando in
seguito la presenza di una sola maraca fino a tutta la seconda fase
d’intervento, in quanto Luca non rifiutava completamente questo strumento,
nonostante non lo gradisse particolarmente. Sebbene già durante le sedute di
osservazione musicoterapica Luca avesse dimostrato di riuscire a permanere
nella stanza per un tempo abbastanza lungo (tra i 20 - 30 minuti), tuttavia
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l’obiettivo principale di questa prima fase era il miglioramento
dell’adattamento temporale, fino alla sua stabilizzazione intorno ai
quarantacinque minuti, tempo adeguato per la realizzazione della seduta
musicoterapica. Di fatto, nonostante la presenza di oscillazioni che hanno
allungato i tempi per il conseguimento di una stabilizzazione, tuttavia Luca ha
presto dimostrato di poter permanere nella stanza fino a cinquanta minuti
consecutivi. Il problema principale che si è presentato fin dall’inizio, quindi,
non era tanto l’adattamento temporale che, come sottolineato, stava
lentamente migliorando, quanto piuttosto l’adattamento spaziale: Luca aveva
bisogno di tempo perché lo spazio della stanza di musicoterapia diventasse
per lui più familiare, un “luogo sicuro” da poter accettare, insieme agli oggetti
presenti in esso. Questa prima fase d’intervento è stata interrotta dalle
vacanze estive, durante le quali non mi era consentito l’accesso ai locali della
scuola per vedere Luca. Abbiamo ripreso le sedute all’inizio del nuovo anno
scolastico: a causa di cambiamenti nell’organizzazione delle attività
scolastiche, sono stata costretta a cambiare stanza, nonostante le mie
resistenze opportunamente motivate. Purtroppo mi hanno assegnato un’aula
che, sebbene fosse più graziosa e accogliente della precedente, perché aveva le
pareti dipinte ed era più luminosa, tuttavia era molto diversa sia come
dimensioni, sia come forma. Questo cambiamento mi ha preoccupata per tre
motivi essenziali: in primo luogo Luca, che già aveva gravi difficoltà di
adattamento spaziale, si trovava ora a dover ricominciare il suo processo
dall’inizio; secondo, questa stanza era già frequentata da Luca per lo
svolgimento di attività molto diverse, quali lettura e canto, pertanto era più
difficile per lui connotarla in modo specifico; terzo, ma non per questo meno
importante, venivano cancellati e vanificati con un “colpo di spugna” i miei
sforzi di dare una stabilità alla “cornice”[2] delle sedute, fondamentale tanto
per la riuscita dell’intervento, quanto per l’attendibilità dei dati rilevati. Per
ridurre al minimo le conseguenze temute di questo cambiamento, ho
collocato le sedie e gli strumenti mantenendo le disposizioni precedenti. Per
fortuna Luca si è subito dimostrato entusiasta della nuova stanza ed il
processo di adattamento spaziale sembra averne risentito minimamente, in
quanto è proseguito dal punto in cui si era fermato prima che la scuola
terminasse; credo inoltre che la pausa estiva abbia contribuito almeno in
parte a ridurre le conseguenze negative di tale situazione. Tracciando un
profilo a grandi linee, si possono trovare delle modificazioni nel
comportamento globale di Luca, legate soprattutto al rapporto con l’ambiente
musicoterapico, con gli strumenti musicali e con me. Fin dalla prima seduta,
Luca proponeva dei giochi ai quali, secondo lui, io mi dovevo adeguare.
Durante la spiegazione del gioco non mi guardava mai; più che parlare con
me, lo stava facendo con se stesso, muovendosi contemporaneamente in
modo continuo nella stanza. Io a tratti lo osservavo in silenzio, a tratti
ricalcavo il suo movimento dandogli un suono con lo djumbè, ma Luca
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continuava ad agire il suo caos, chiedendomi oltretutto di smettere di suonare
e di fare ciò che diceva lui. Penso che Luca avvertisse molto la fatica di stare in
quella stanza, perché dopo soli quindici minuti circa dichiarava di essere
stanco e di aver bisogno di riposare, oppure di voler tornare in classe. Quasi
come in un rituale, queste scene si ripetevano ad ogni seduta, seguendo gli
stessi tempi e le stesse modalita: Luca si sedeva e stava in silenzio per qualche
minuto prima di ricominciare a esplodere, oppure, cosa ben più frequente, si
sdraiava e mostrava segni di regressione, pronunciando sillabe e versi che
caratterizzano il bambino molto piccolo. Il primo di questi suoni è comparso
durante la prima seduta, con una precisa struttura ritmica :“Mu mu mu”
(eseguito come un anapesto). L’ho subito ripetuto e per la prima volta Luca
mi ha risposto ripetendolo a sua volta: questa modalità di espressione è stato
il nostro primo punto d’incontro, il livello al quale era possibile entrare in
contatto, sebbene per un tempo molto breve, in un gioco basato sulle
sintonizzazioni inesatte, fatte di variazioni ai suoni iniziali: mantenendo la
stessa altezza, venivano variate l’intensità e le sillabe ( ad es. ga ga ga, gnè gnè
gnè, ca, ca, ca…). Sdraiato a terra, Luca emetteva questi suoni alternandoli al
suo inarrestabile flusso di parole e ricercava il contatto corporeo con me:
quando lo trovava perché io mi mettevo vicina a lui, o perché era lui a
toccarmi, assistevo ad un aumento progressivo della sua aggressività: mi
rivolgeva parole connotate negativamente, quali “strega”, “grassa”, fino alle
cosiddette “parolacce”, seguite dal tentativo di farmi male fisicamente,
mordendomi o picchiandomi. In questi momenti agivo con dolce fermezza,
nel tentativo di evitare che Luca potesse far del male tanto a me quanto a se
stesso. Mi trovavo quindi coinvolta in quella che la Mahler definisce
“esperienza simbiotica correttiva”, intendendo con questo che “… il bambino
deve solo essere messo in grado di pervenire ad un livello più alto di
rapporto con l’oggetto rivivendo i precedenti stadi del suo sviluppo …”[3]. Il
mio compito, in quel momento, era quello di “… mettere dei limiti
particolarmente agli impulsi aggressivi e autodistruttivi che sopraffanno il
bambino, in modo da proteggere sia il bambino, sia se stesso da eventuali
danni e in modo da prevenire inutili distruzioni dell’ambiente fisico che
creerebbero il panico …”[4]. Trovandomi in un contesto musicoterapico
all’interno del quale fino a quel momento l’unico elemento di contatto tra me
e Luca erano i “versi”, non era facile inventarsi all’istante il modo di
intervenire più adeguato per riuscire a contenere tanta aggressività. Decisa a
far sì che gli strumenti musicali diventassero i mediatori della relazione,
seguendo il modello dell’oggetto transizionale di Winnicott, la prima volta che
Luca ha tentato di farmi male fisicamente, colpendomi con un battente, io ho
preso un altro battente e, dopo aver traslato il suo colpo sullo djumbè, gli ho
lanciato una sfida: è iniziata una “lotta” con i battenti, che ha portato
all’introduzione di un tema che poi è stato presente costantemente nelle
prime due fasi dell’intervento ed è riaffiorato sporadicamente anche nella
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terza: la morte. Il combattimento si svolgeva sempre con la stessa ritualità:
all’inizio io venivo ferita da Luca, che poi mi guariva, poi morivo
accasciandomi sulla sedia; dopo un attimo io mi “risvegliavo”, mentre lui
moriva cadendo per terra accanto a me. Prima di morire mi chiedeva di
piangere e quando mi vedeva farlo si avvicinava, mi abbracciava e
accarezzava. Spesso cercava un contatto orale attraverso i baci, quale ulteriore
segno di un primitivo rapporto con l’oggetto non ancora differenziato dal Sé.
Nel tentativo di dare un significato a questi eventi, ho pensato che questo
rituale servisse in qualche modo a Luca per riuscire ad accettare la mia
presenza come oggetto “non me”: come sostiene Winnicott, la mia
“resurrezione” testimoniava che ero in grado di sopravvivere agli attacchi
distruttivi. Una volta Luca ha esclamato: ”Sono il bambino e sono tornato;
ero triste quando ero solo ed ero morto.”, poi si è accovacciato sulle mie
gambe. Così come l’aggressività di Luca aumentava all’interno di una seduta,
altrettanto avveniva tra una seduta e l’altra: Luca non si limitava più a
“distruggere” me verbalmente e fisicamente, ma riservava lo stesso
trattamento anche agli strumenti musicali, che dapprima tentava di lanciare
nella stanza, poi calpestava e infine metteva via, nascondendoli. Terminate
queste operazioni tornava da me e mi teneva le braccia per evitare che
muovendole potessi produrre qualunque suono. Di fatto Luca non sembrava
pronto per “usare” gli strumenti: quando li toccava lo faceva solo per
esplorarli e spesso li lanciava, forse per “accertarsi” che anche loro
sopravvivessero, forse per esprimere, attraverso questa particolare forma di
espressione sonora, il desiderio di affermare se stesso nell’ambiente, forse
perché questo gesto ripetuto che comportava il “va’ e vieni” dell’oggetto gli
consentiva di fare l’esperienza della sua presenza e assenza, aiutandolo
gradualmente ad essere in grado di tollerarne l’assenza. Un cambiamento di
questo comportamento si è verificato dopo il mese di ottobre del 2000,
quando Luca ha cominciato a utilizzare gli strumenti per produrre dei suoni e
non per distruggerli, pur evitando il contatto visivo con me e quindi
relazionando prevalentemente con se stesso. In questi casi non produceva mai
dei ritmi, ossia “… ordine nel movimento …”[5], “… l’organizzazione della
successione …”[6], ma delle giustapposizioni molto irregolari e imprevedibili,
“… una serie casuale di eventi con un ampio destacco tra il suono di ciascuno
…”[7], una sorta di “comportamento pre-ritmico”[8] che io riprendevo e
cercavo di “riordinare”, per esempio proponendo una pulsazione di base quale
stimolo ad una loro prima organizzazione. Contemporaneamente all’uso degli
strumenti musicali, Luca ha mostrato maggior interesse per le musiche delle
quali ho proposto l’ascolto.Come precedentemente accennato, le canzoni
indicatemi dal papà di Luca non costituivano tanto la dimensione sonoromusicale del bambino, quanto quella del padre, infatti lasciavano Luca
indifferente. Ho quindi approfondito la ricerca, scoprendo che a Luca piaceva
in modo particolare una serie di canzoni che avevano come protagonisti i
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pirati: proponendole all’ascolto, Luca ha mostrato inizialmente di esserne
attratto e in seguito ha cominciato a cantarle, a volte suonando a tratti il
tamburello. Non posso dire che queste canzoncine fossero da subito il nostro
mediatore, anzi, molto spesso erano per Luca un’ottima via di fuga: nei
momenti in cui aveva bisogno di “ritornare nel suo mondo”, più conosciuto e
quindi più rassicurante, Luca si sdraiava sul tappeto in posizione fetale e
guardando il tamburello che teneva appoggiato alle ginocchia canticchiava la
melodia, seguendo la musica della canzone. In questi momenti io rimanevo al
mio posto sulla sedia in silenzio e lo osservavo, lo ascoltavo, offrendo anche a
lui la possibilità di ascoltare se stesso e di vivere un momento forse
rassicurante, forse rigenerante, forse, come dice Winnicott, in cui vivere “…
l’esperienza di essere solo mentre qualcun altro è presente …”[9], percorrendo
in tal modo le vie necessarie per la costituzione di un “ambiente interno”. Solo
dopo tanti tentativi di “agganciare” Luca attraverso queste melodie, lui ha
cominciato a rispondere ai miei richiami sonori e alcuni pezzi di queste
canzoni sono diventate gradualmente il nostro mediatore. In particolar modo
la ”canzon dell’uccellin” ci ha offerto un ritmo ternario e una melodia sulla
quale dapprima abbiamo intonato il nostro “mu” e poi, nella seconda fase
dell’intervento, ho introdotto il “bla bla bla bla…” quale chiave di accesso al
contatto con Luca. Poiché molto spesso i “versi” di Luca degeneravano in
parolacce, il “bla bla…” è stato un loro valido sostituto, aiutandomi nel
tantativo di restituire qualcosa di positivo del negativo che Luca mi inviava.
Un altro punto di volta significativo per il comportamento di Luca è stata la
fuga dalla stanza di musicoterapia, attuata dopo averla annunciata con un
crescendo di minacce. Quando Luca è scappato fuori sono rimasta per un
attimo ferma sulla sedia, prima di prendere coscienza del fatto che avrei
dovuto fare qualcosa. Ho pensato che forse Luca mi stava mettendo alla
prova: fino a che punto ero sopravvissuta alle sue aggressioni? Desideravo
davvero stare con lui? E ancora: chi comandava? Avevo due possibilità:
lasciarlo andare e vedere se tornava, oppure andarlo a prendere. Poiché Luca
non tornava spontaneamente, sono andata a cercarlo: era in cima alle scale e
mi stava aspettando! Inizialmente non sapeva se venire con me o tornare in
classe, poi ha scelto di venire con me, dicendo che ero buona. Durante il resto
della seduta e in quella successiva ha ricercato un continuo contatto corporeo,
arrivando a disporre le nostre sedie non in posizione frontale, bensì una di
fianco all’altra. Da quell’evento mi ha sempre accolta mostrando di essere
contento del mio arrivo. Man mano che il trattamento procedeva, anche le
sedute cominciavano ad assumere una struttura in cui gli eventi si
susseguivano quasi come in un rituale: Luca entrava nella stanza e andava a
saltare sul tappeto, tornava vicino agli strumenti e prendeva il tamburello, lo
lanciava accompagnandone la caduta con il movimento precedentemente
descritto ed il suono gutturale, diventava aggressivo nei miei confronti,
scappava verso il tappeto e la seduta si concludeva. Verso la fine di questa
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prima fase, inoltre, abbiamo cominciato a non ascoltare più le canzoni dei
pirati per tutto il tempo; a volte era proprio Luca a chiedere di spegnere il
registratore o a dichiarare di non voler ascoltare “i pirati”. Dal momento che
lo scopo iniziale di questa musica era quello di facilitare il miglioramento
dell’adattamento temporale e dato che anche sospendendola Luca permaneva
nella stanza per un tempo lungo, compreso tra i 35 - 50 minuti, ho concluso
che l’adattamento temporale era stato realmente conseguito.
Roberta Andrello
[email protected]
[1]Andrello Roberta, Dall’osservazione di Luca al progetto d’intervento
musicoterapico (14/10/2010 pubblicato in : Musicoterapia e ritardo mentale
), http://musicoterapie.over-blog.com/
[2] LECOURT EDITH, Modalità d’intervento, in: La musicoterapia, Cittadella
editrice, Assisi , trad. di G. Manarolo, 1992, p. 81.
[3] MAHLER MARGARET S., Terapia, in: Le psicosi infantili, Boringhieri,
1968, trad. di Armando Guglielmi, p. 169.
[4] MAHLER MARGARET S., op. cit. pp. 175-176.
[5] PLATONE, Leggi, p. 665a, citato in: PAUL FRAISSE, Psicologia del
ritmo, Armando, trad. it. a cura di Luigi Calabrese, 1996, p. 8.
[6] FRAISSE PAUL, Ritmo e misura in musica e poesia, in: Psicologia del
ritmo, Armando, trad. it. a cura di Luigi Calabrese, 1996, p. 100.
[7] BUNT LESLIE, Suono, musica e musicoterapia, in: Musicoterapia.
Un’arte oltre le parole, ed. Kappa, ed. it. a cura di M.M.Filippi, p. 93.
[8] Ibid.
[9] WINNICOTT DONALD W., The Capacity to be Alone, 1958, citato in:
DAVIS M., WALLBRIDGE D. C., Introduzione all’opera di Winnicott, G.
Martinelli & C. s.a.s.-Firenze, 1981, trad. it. di Gabriele Noferi, p. 55.
Con tag Musicoterapia e ritardo mentale, Andrello Roberta
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Bonomi Carla, Io e Costantina: l’epilogo dell’esperienza... musicoterapica
Pubblicato il 4 novembre 2010
Con l’inizio del trattamento musicoterapico, soprattutto all’inizio della fase
individuale, sentivo che era giunto il momento di applicare la teoria appresa e
di calarmi nell’esperienza del contesto non-verbale, avvalendomi di preziosi
strumenti di confronto professionale: l’équipe e la supervisione. Accogliere
Costantina (nome di fantasia in ottemperanza alla legge della privacy),
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“parlare” il suo linguaggio è stato il difficile punto di partenza. L’intera
esperienza[1] relazionale è stata “determinata” da Costantina, con sobri
interventi da parte mia.Costantina ha manifestato nei miei confronti grande
affetto e fiducia: io ero la sua amica. Questo fatto ha sicuramente facilitato
l’intero percorso musicoterapico. Ho vissuto quest’esperienza con molta
tranquillità e serenità. Non sono mancati momenti di perplessità e di tensione
… non sapevo fino a che punto i miei interventi erano leciti. Cercavo
gradualmente di percorrere le varie tappe del processo musicoterapico, al fine
di giungere a stabilire l’interazione con Costantina. Dal punto di vista
musicoterapico il miglioramento relazionale è stato quindi faticosamente
ottenuto, così come credo, che l’azione intrapresa abbia “lenito” le sue,
indubbiamente difficili, condizioni di quotidiana “integrazione sociale”.
Carla Bonomi
[email protected]
[1]Bonomi Carla, *Oltre il cancello... intense emozioni (30/08/2008
pubblicato in : Musicoterapia e psichiatria ), http://musicoterapie.overblog.com/
Bonomi Carla, Io e Costantina: diario di un’esperienza musicoterapica in
ambito psichiatrico., (10/05/2010 pubblicato in: Musicoterapia e psichiatria
), http://musicoterapie.over-blog.com/
Bonomi Carla, Io, Costantina e la realtà psichiatrica (31/05/2010 pubblicato
in : Musicoterapia e psichiatria ), http://musicoterapie.over-blog.com/
Bonomi Carla, Come è difficile poter osservare il “mondo sonoro” di
Costantina, (21/06/2010 pubblicato in: Musicoterapia e psichiatria ),
http://musicoterapie.over-blog.com/
Bonomi Carla, Dal silenzio al risveglio acustico di Costantina ( 2/08/2010
pubblicato in : Musicoterapia e psichiatria ), http://musicoterapie.overblog.com/
Bonomi Carla, Intonare... emozioni (17/08/2010 pubblicato in :
Musicoterapia e psichiatria ), http://musicoterapie.over-blog.com/
Bonomi Carla, “L’incantesimo della chitarra” ( 8/10/2010 pubblicato in :
Musicoterapia e psichiatria ), http://musicoterapie.over-blog.com/
Con tag Musicoterapia e psichiatria, Bonomi Carla
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Dicembre
Bonardi Giangiuseppe, Alla ricerca della dimensione sonoro-musicale della persona
Pubblicato il 27 dicembre 2010
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È possibile conoscere una persona in molti modi; interloquendo con lei
scopriamo cosa le piace fare, ciò in cui crede, ma se vogliamo conoscere
l’essenza della stessa è sufficiente chiederle che cosa ascolta abitualmente. Le
canzoni, gli eventi sonori e le musiche abitualmente ascoltate dalla persona
dischiudono una parte della sua dimensione sonoro-musicale[1]. Sì gli ascolti
quotidiani schiudono spesso l’essenza di una persona se consideriamo la
musica come manifestazione nello spazio del proprio mondo interno[2]. Gli
ascolti personali costituiscono per la persona una particolare eco acustica
della stessa in cui lei, e solo lei, si riconosce, interagendo con le dimensioni
acustiche che altri ascoltatori occasionali non riuscirebbero ad avvertire. Da
qualche tempo sostengo che l’ascolto autentico è, di fatto, soggettivo[3],
intenzionale, vitale; è nella soggettività dell’ascolto che ognuno di noi riscopre
le dimensioni che lo caratterizzano: corporea, emotiva, analogica e sintattica.
Pertanto se da un punto di vista
sintattico possiamo essere concordi
sulle qualità formali dell’evento
musicale
percepito,
ciò
che
distingue il nostro dall’altrui ascolto
sono le restanti dimensioni. Che
cosa proverà la persona a livello
corporeo mentre è immerso
nell’ascolto
personale?
Quali
emozioni, sentimenti, vissuti prova
quella persona mentre ascolta la sua
musica preferita? Quali ricordi,
immagini, visioni suscitano quegli
ascolti in quella persona? È proprio
dall’audizione degli eventi musicali
preferiti dalla persona che possiamo
raffigurarci un’idea della stessa.
Quali sensazioni, quali vissuti, quali
ricordi, immagini, visioni suscitano
in noi l’ascolto di quegli eventi
musicali? Così lentamente ci affranchiamo da una visione esclusivamente
oggettiva (dimensione sintattica) per giungere analogicamente a dischiudere
l’universo delle caleidoscopiche tinte emotive dove si intrecciano le sensazioni
corporee e immaginative vissute dalla persona stessa. Ascoltando gli eventi
sonoro-musicali cari all’altrui persona siamo quindi in ascolto non solo di
peculiari gusti ma possiamo intuire la presenza degli aspetti vitali che la
caratterizzano: ossia che cosa vive e che cosa prova... abitualmente. Se poi
analizziamo con la stessa attenzione i nostri ascolti abituali, scopriamo altresì
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alcuni aspetti del nostro mondo interiore che spesso avvertiamo
intuitivamente solo durante le nostre personali audizioni.
Giangiuseppe Bonardi
[email protected]
[1] Bonardi G., (2007), Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori,
Mercatello sul Metauro (PU), pag. 51.
[2]Bonardi Giangiuseppe, La musica è tempo-spazio vissuto e oggettivo, 10
november 2009, http://musicoterapie.over-blog.com/
[3] Bonardi G., (2007), Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori,
Mercatello sul Metauro (PU), pag. 16-20.
Con tag Riferimenti teorici di musicoterapia, Bonardi Giangiuseppe
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Andrello Roberta, “Io sono una casa senza pareti”
Pubblicato il 22 dicembre 2010
Un aspetto caratteristico di questa terza fase d’intervento riguarda in modo
particolare l’”assestamento” della struttura delle sedute: il graduale passaggio
dal caos all’ordine è giunto a compimento.Proprio nella prima di queste 18
sedute Luca (nome di fantasia in ottemperanza alla legge della privacy) ha
fatto un’esclamazione che col tempo ho pensato potesse essere un’ulteriore
testimonianza di una presa di coscienza di ciò che sentiva dentro di sé,
dell’immagine che forse aveva di se stesso e al contempo un forte grido
d’aiuto: “Io sono una casa senza pareti”. Dopo quella seduta ci sono stati
tanti progressi, come se fosse iniziato o forse proseguito un processo di
“costruzione” di queste pareti delle quali Luca avvertiva con angoscia la
mancanza. Col passare del tempo Luca aumentava la capacità di tollerare
tempi sempre più lunghi seduto sulla sedia, in posizione frontale rispetto a
me; infatti, mentre nel corso della fase precedente, dopo aver trascorso al
massimo 15 minuti in posizione frontale, aveva bisogno di fuggire sul tappeto,
di ritornare, “morire” e “risuscitare”, in seguito ha cominciato ad allungare il
tempo di permanenza sulla sedia, al punto tale da non aver più la necessità di
fuggire: anche quando si sdraiava sotto la mia sedia, o si alzava in piedi, Luca
manteneva il contatto visivo con me e a questo aggiungeva una modalità di
relazione a livello tattile, mediata dal tamburello o dai battenti, coi quali io
eseguivo brevi sequenze ritmiche facendo percepire a Luca le vibrazioni
attraverso il suo corpo. Anche il gioco del morto è scomparso. Quando Luca
ha cominciato a non sdraiarsi più sotto la mia sedia, i momenti della seduta
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non erano più scanditi dai suoi gli spostamenti nella stanza, bensì dalle
diverse dinamiche relazionali messe in atto mantenendo sempre più costanti
la posizione e la postura seduta. Luca ha dimostrato di aver bisogno di un
tempo, all’inizio della seduta, che io ho inteso come “tempo di adattamento”,
durante il quale mi raccontava qualcosa di sé. Sebbene fosse capitato che una
volta avesse raccontato molti eventi almeno apparentemente disconnessi tra
loro, tuttavia in generale ciò di cui Luca mi parlava era comprensibile e
attinente al reale. Questo tempo, che inizialmente si attestava attorno ai 15 20 minuti, è diminuito velocemente, fino quasi a scomparire, per lasciare
sempre più posto alla “seconda parte” della seduta, nella quale io e Luca
eseguivamo dei giochi, finalmente “musicali”. Tra i suoi giochi preferiti, il
“gioco dello specchio”, un gioco di imitazioni con variazioni, costruito
dapprima sulle smorfie, poi sui versi e infine sui suoni vocali, il gioco della
“batteria”, che prevedeva l’improvvisazione strumentale alternandoci
nell’esecuzione, il gioco degli “effetti speciali”, basato sulle variazioni
timbriche e di intensità, sempre eseguite in alternanza, il gioco del “prendersi
sui bonghi”, eseguito con un continuo rincorrersi delle dita che
tamburellavano sulle pelli e infine il gioco delle “canzoncine”, ossia
l’invenzione e l’esecuzione estemporanea di brevi canzoncine, complete di
musica e testo. Pur essendo diversi nella loro concreta realizzazione, questi
giochi presentavano alcuni elementi comuni che, ad un’attenta analisi,
risultavano essere chiari punti di riferimento per comprendere appieno il
processo di nascita e di lento consolidamento della relazione tra me e Luca. In
primo luogo vorrei sottolineare come per ciascuno di questi giochi esistessero
delle regole: inizialmente lasciavo che fosse solo Luca a definirle, in seguito ho
cominciato ad introdurne alcune anch’io e, quando possibile, improvvisavo
delle variazioni per differenziarmi sempre più da lui. Mentre fino alla seconda
fase d’intervento Luca non mi dava spazi di autonomia, se non molto brevi o
limitati, in quest’ultimo periodo accettava il fatto che io potessi pensare o
desiderare qualcosa in modo diverso da lui. Non solo, ma mentre
precedentemente la presenza del linguaggio verbale era difficile da contenere,
ora Luca stava gradualmente maturando la capacità di tollerare la
frustrazione che gli derivava dal fatto di non parlare immediatamente, non
appena ne avvertisse il bisogno, sviluppando così pian piano la capacità di
posticipare il soddisfacimento dei suoi bisogni. Oltretutto le canzoncine
inventate erano molto spesso il canale attraverso il quale indirizzare le
produzioni verbali di Luca per fargli assumere la struttura della “storia
cantata” che, avendo un inizio, un fatto centrale e una fine scanditi anche da
una melodia con una cadenza finale, aveva una funzione contenitiva. Vorrei
sottolineare come le storie di Luca, inizialmente “bizzarre”, inconcluse o con
finali negativi, alle quali io rispondevo con contenuti positivi (per esempio
sostituivo il coniglietto brutto con quello bello e buono che anziché morire o
perdere la mamma andava al parco con la mamma a giocare) si siano
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lentamente e almeno parzialmente trasformate acquistando, a volte,
contenuti più logici e un finale positivo. Un ulteriore dato a favore
dell’aumentata capacità di Luca di tollerare la frustrazione è dato dal fatto che
l’unica volta che Luca aveva chiesto di andare ai servizi durante la seduta,
aveva accettato senza proteste di aspettare che il nostro incontro si
concludesse. Durante il tempo della seduta Luca era in grado di mantenere
con me il contatto visivo diretto, dapprima più discontinuo, poi sempre più
lungo e regolare; contemporaneamente non ricercava più il contatto corporeo,
e, quando in alcune sedute aveva avvertito il desiderio di darmi un bacio, mi
ha chiesto il permesso di farlo. Le manifestazioni aggressive erano sempre più
sporadiche e brevi e generalmente associate a miei comportamenti poco
tollerati da Luca, per esempio l’esecuzione di suoni forti che lo infastidivano.
A questo proposito mi sembra interessante osservare come Luca nelle ultime
4 sedute avesse cominciato a rifiutare verbalmente le maracas, affermando
che facevano “troppo rumore”, ma successivamente le utilizzasse
spontaneamente come alternativa ai bonghi, quando, nei giochi di
improvvisazione, decideva che era possibile cambiare strumento, scegliendo
liberamente tra quelli presenti. Così come Luca, anch’io avevo il “permesso”
di cambiare liberamente strumento: il controllo di Luca era presente sotto
forma di “regola del gioco”, però la regola stessa mi permetteva di agire, per di
più lasciandomi un ampio margine di libertà, che fino a questa fase non
avevo. Anch’io ora avevo uno spazio in cui giocare coi suoni e i silenzi.
L’aspetto forse più interessante dei giochi d’improvvisazione è dato dalla
presenza iniziale di due spazi diversi, uno mio e uno di Luca: come da
“regolamento”, io e Luca dovevamo suonare alternandoci e durante
un’esecuzione l’altro aveva il compito di ascoltare. Il gioco terminava dopo
che entrambi ci eravamo “esibiti” una o due volte, in base a quanto deciso
all’inizio, e solo allora era possibile parlare. Sebbene questa modalità
d’improvvisare non consentisse di instaurare una vera e propria relazione,
poiché il suonare poteva essere motivo di autoascolto e non di comunicazione
con l’altro, tuttavia mi era sembrato grandioso il fatto che fossimo riusciti ad
arrivare ad un tale ordine. Il silenzio di Luca, sebbene limitato al tempo dell’
improvvisazione, era una grande conquista: non solo Luca tollerava il suo
silenzio mentre io suonavo (azione fino a poco tempo prima proibitami), ma
soprattutto durante questo suo silenzio mi ascoltava guardandomi negli occhi
e ricalcando i miei giochi timbrici, ritmici e d’intensità con particolari
espressioni del viso. È da questi scambi, che hanno consentito di prendere
coscienza delle caratteristiche dei ritmi eseguiti da entrambi, che è nato il
gioco degli “effetti speciali”. Ad ogni seduta il nostro rapporto faceva passi
avanti, come se qualcosa all’improvviso avesse premuto l’acceleratore sul
pedale della nostra relazione: durante le ultime sedute l’improvvisazione
iniziava con un’alternanza di ruoli definita a priori, ma successivamente, col
procedere del gioco, il controllo di Luca lasciava spazio alla libertà di
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entrambi e suoni e silenzi cominciavano a susseguirsi con un ritmo più
spontaneo; gli interventi alternati seguivano il passo scandito dalla musica
prodotta e dal piacere di intervenire per contribuire ciascuno alla musica
dell’altro, oppure di fermarsi, per ascoltare ciò che l’altro proponeva. Questi
momenti, che io ho vissuto con immensa emozione, divertimento e piacere,
erano brevi, duravano al massimo 3-4 minuti, ma erano il chiaro segno che
l’obiettivo era stato raggiunto: Luca si era separto da me, come avrebbe detto
la Mahler, mi riconosceva come “altro da sé”, come oggetto con una sua
esistenza indipendente da lui, come avrebbe sostenuto Winnicott, e grazie a
questa “separazione - individuazione” era stato possibile arrivare a stabilire
una relazione.
Roberta Andrello
[email protected]
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Neri Simona, Dalla musicoterapia al ciclone Ali Blu: storia di un strana avventura
Pubblicato il 8 dicembre 2010
“Mi arrampico da secoli
Ogni parete è mia
Sfidando leggi fisiche
Paure e ipocrisia
Le difficoltà si sommano
Il mio limite qual è
Quanto potrò mai resistere
Sempre appeso ad un perché …
Aggrappato alle tue lacrime finché il tuo dolore è il mio
Per sentirmi meno inutile
Ed un po’ più umano anch’io
Sono scalatore intrepido
Che più folle non si può ...
Non ho mai posto limiti alla provvidenza io no…
Ma qualcuno dovrà crederci e sfidare la realtà
Scegliere come vivere
Imparare come si fa…
TU LO SAI PUO’ ANCORA VINCERE
IL CORAGGIO DELLE IDEE”
(Renato Zero)[1]
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Parlare di straordinaria avventura è dire poco, il richiamo a tutto quello che
sta accadendo intorno a me è grandissimo. Le luci del palcoscenico, gli
spettacoli e insieme tutta l’arte della musicoterapia che scava al fondo del sé
malato, turbato, ferito, abbandonato per ridargli quella dignità persa in
qualche cassetto dell’anima e che a me, da brava “apprendista stregone” di
questo folle mestiere, tocca andare a cercare fra le mille pieghe del dolore,
della gioia e di tutto ciò che compone il cuore dell’uomo: LE EMOZIONI. È
difficile, perché spesso le emozioni che incontro sono ferite, impaurite e se
stanno nascoste dietro ai giochi rituali delle stereotipie o nelle accentuazioni
delle psicosi, nel pianto e nella paura di non essere meravigliosi per ciò che si
è. Spesso le emozioni stanno bloccate dietro a ciò che una diagnosi ha
catalogato in una cartella clinica diventata ghiaccio in una fabbrica di ghiaccio
che non sa ascoltare le esigenze del cuore ma vede solo l’aspetto clinico,
medico di chi si ha davanti. Perché non ci si domanda: CHI SEI? Piuttosto che
DIAGNOSI HAI? Al primo anno di corso di musicoterapia incontrai un
professore che grazie al cielo smontò il mio sogno utopico di diventare
musicoterapeuta e di accettare che il nostro mestiere è fatto di persone che
entrano “in gioco”; non avevo capito questo “gioco” di parole, non avevo
capito perché mi sottolineava centinaia di volte che quella P scritta sulla
lavagna non era per Paziente ma per PERSONA. Persona, persona, persona…
certo, mi ripetevo, lo so che cosa vuol dire persona, ma quella persona è un
paziente! Errore! Sinceramente c’è voluto un po’ di anni e tanta esperienza
dentro al dolore e le emozioni, prima mie e poi di chi ho aiutato e sto
aiutando. Non si può pensare di essere in sintonia (termine molto amato nella
musicoterapia) con gli altri se prima non si è in sintonia con se stessi. Sarei
come uno strumento stonato che cerca di suonare in una orchestra, uno
strumentista solo, che non sa guardare il direttore che lo dirige e oltre che
essere stonato il suo strumento, lui sarà sempre fuori tempo. Tutto questo è il
percorso che ci aspetta, avere il coraggio di sapersi accordare con l’orchestra
(il mondo che ci sta intorno) e avere l’umiltà di ascoltare chi dirige (chi in quel
momento ti sta insegnando la via da seguire). Tutto questo permette di
andare a fondo del proprio sé e di imparare ad accoglierci per quello che
siamo perché ogni cosa che ci appartiene è data per renderci unici. Eureka!
Avevo risolto l’enigma Paziente/Persona, la mia diagnosi fatta a me stessa mi
impediva di vedere ciò che desideravo davvero al fondo del mio cuore e mi
paralizzava in una vita non mia, accogliendo le mie emozioni ho cominciato a
capire che l’errore stava proprio in quella proposta senza umanità data da una
cartella clinica (importante per catalogare, capire, dare una posizione medica,
ma inutile per accogliere perché spesso rende ciechi dal vedere chi si ha
davanti). L’accoglienza e l’umiltà del nostro lavoro ci portano ad un’opera a
volte strabiliante, a volte criticabile, ma alla fine grazie alla sua magica
composizione di arte, musica e terapia riesce là dove non sempre è possibile
riuscire perché sa bussare a porte che normalmente non si osa. Oggi ho una
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certezza che non mi abbandona e non mi abbandonerà mai ed è quella che
senza musicoterapia tutto quello che sto costruendo ora non ci sarebbe stato e
che ogni volta che mi approccio a questi fantastici ragazzi (siano essi di Ali Blu
o del progetto di Imola) se non avessi la certezza a cosa appartengo e cosa
sono non farei davvero nulla. La musicoterapia è quindi la prima “tappa” del
percorso evolutivo della persona in cui sollecito a esprimere musicalmente le
emozioni. Quando il processo musicoterapico è concluso ecco che altri
percorsi sono possibili: l’animazione, l’educazione sino ad arrivare al
concerto. Per un po’ di tempo ho pensato che tutta la parte artistica in sé
fosse sminuente per la musicoterapia, ma, di fatto, non è vero e per fortuna
esiste e offre alla persona la straordinaria opportunità di ampliare il percorso
di consapevolezza di sé, delle proprie emozioni, iniziato in musicoterapia. Nel
lavorare con i ragazzi del progetto Ali Blu a Riccione ho scoperto l’importanza
dell’animazione e il potere seduttivo che essa ha su di me e su tutti i ragazzi
che seguo. Se in musicoterapia le emozioni erano percepite, ora
nell’animazione, le emozioni sono musicalmente condivise e canalizzate,
modulate, espresse in forma di spettacolo annuale. Non potrei fare nulla se
non sapessi come usare l’arte dell’empatia e della sintonia, se non sapessi
accogliere i loro silenzi lunghi “millenni” e attendere che i silenzi si
trasformino in pianti o sorrisi o che rimangano ostinatamente silenzi. Entrare
nelle loro emozioni, percepire i loro ritmi e giocare con le loro musiche che
per magia aprono le loro porte rendendoli semplicemente unici. Così vedo
nuovi ragazzi che nascono e che prendono in mano la loro vita, come S. che
canta con una voce splendida, non chiedeva altro che essere ascoltata nel suo
desiderio e ora lo fa, o D. che balla alla Michael Jackson ed è proprio bravo o
B. che afferra in mano le sue paure per farne il suo baluardo di forza e così
potrei citarli uno ad uno. Abbiamo giocato insieme costruendo un rapporto di
fiducia fatto di musica, ritmi, sintonia, armonia, empatia che ha portato a
toccare LE EMOZIONI di ognuno di loro, a toccare le mie emozioni e insieme
è nato qualcosa che oggi è richiesto non più solo come piccolo saggio annuale.
L’impresa Ali Blu sta decollando nel mondo del teatro con incontri importanti
ed è una cosa unica perché non sono più le cartelle cliniche ad emergere (cosa
che avrebbe chiuso ognuno di questi ragazzi in un lager dilagante) ma sono i
loro Sé ricchi di tutto ciò che hanno da gridare al mondo. E così l’avventura
parte!
“Sarà che noi due siamo di un altro lontanissimo pianeta.
Ma il mondo da qui sembra soltanto una botola segreta.
Tutti vogliono tutto per poi accorgersi che è niente.
Noi non faremo come l'altra gente,questi sono e resteranno per sempre..
i migliori anni della nostra vita!.”
(R.Zero)[2]
Oltre a pensare che al momento Ali Blu abbia la priorità, evidentemente, non
posso però dimenticare i ragazzi di Imola che devono proseguire e così sono
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contenta che musicoterapia e animazione rimangano a convivere a tempo
pieno dentro di me, non potrei “vivere” senza tutto questo. Ci sono volte che
mi chiedo se faccio bene, se è giusto quanto sto facendo o se mi sto solo
illudendo … ma poi arrivano risposte di stima e la fiducia dei colleghi mi fa
proseguire a testa alta. Non posso dimenticare e non voglio dimenticare che
ciò per cui siamo chiamati nel nostro lavoro è quello di accogliere e ridare
dignità a quei Sé che troppo spesso, a causa della patologia e della società,
vengono chiusi e nascosti nei meandri degli ospedali e di tutto ciò che si
definisce terapeutico (medico clinico), sono felice di rappresentare una
opportunità in più attraverso il nostro lavoro. A questo proposito voglio
parlare di quello che sta succedendo con alcuni ragazzini di Imola e in modo
particolare con L. un bimbo affetto da paralisi cerebrale infantile. Arriva da
me con una cartella clinica che lo colloca tra i disabili gravissimi, è già un
miracolo vedere i suoi occhi brillare. La madre a pezzi, il padre ha
abbandonato ogni speranza e poi trovano qualcuno che sorride al piccolo e gli
parla come si parla a un bimbo normale. Finalmente metto in atto quella P
che ha torturato i miei anni di corso e scopro la persona in carne e ossa
davanti a me. Lo stupore, è che L. reagisce immediatamente allo sguardo e
alle proposte dimostrando chiaramente i suoi desideri e come una bambola
con le pile scadute una volta cambiate comincia a cantare … a modo suo. Pur
essendo molto compromesso a livello vocale, L. dice mamma, papà, sì e no e
poche altre cose. La cosa che colpisce di più è che quel che canta lo canta
intonato e quando è alla tastiera suona le note della canzone nella giusta
tonalità e mi sgrida se sbaglio! Nel corso dell’anno scorso si è creata un’équipe
apposita per L., siamo stati fortunati. L. viene seguito privatamente con la
fisioterapia dalla mia collega che, condividendo il mio stesso punto di vista, in
sinergia, empatia e confronto continuo si è operato nel rispetto di L. cercando
di accogliere le sue esigenze e come acrobati del circo di cogliere quelle
emozioni che cadevano un po’ di qua e di la e poi, da abili pittori, riprodurre
un quadro vivo e colorato fatto di musica, movimenti contorti, piccoli gridi
tutti mirati al gridare: IO SO CHI SONO! È bello vedere come questo
bambino recuperi così velocemente fino a farci pensare che dentro a questo
corpicino non ci sia nemmeno un ritardo mentale. L. sta imparando a
camminare con uno speciale attrezzo e con un motorino, in cui resta in piedi,
perlustra tutta la casa, cerca esplora e soprattutto impara ad usare lo stereo e
ascolta la musica che gli piace intonandola alla tastiera. L. ha il controllo delle
mani, del busto e la testa si mantiene eretta… in teoria non dovrebbe fare
tutte queste cose ma ha talmente volontà e dedizione da commuovere. Due
mesi fa volevano togliergli il cibo e intubarlo ma ha dimostrato con tutte le
sue forze che sa masticare e che ama la pizza e la pasta asciutta non tritate e
nemmeno liquide… Tutto questo solo perché qualcuno lo ha accolto nella sua
domanda? L’uomo è qualcosa di meraviglioso e profondo e oggi sto lottando
perché a L. venga insegnato a leggere e scrivere, (tramite computer
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ovviamente) dimostra che ne ha voglia e non è giusto che la maggioranza dei
servizi lo tenga bloccato alla linea di partenza. Dopo mesi di lotte finalmente
comincerà un percorso di logopedia, mentre a scuola rimane ancora vincolato
a ruolo troppo piccolo tanto da farlo protestare se viene portato via dalla
classe durante una lezione che gli piace. Ieri entrando nel setting si è seduto
ha indicato lo stereo e chiesto la musica che voleva ascoltare. Mentre cantava
non ha smesso un attimo di guardarsi intorno, cercava il suo gioco preferito
che non vedeva perché io l’avevo nascosto di proposito per stimolarlo. Il gioco
in realtà era ben visibile e quando lo vede mi chiede a gesti e versi di averlo.
Abbiamo pure discusso perché sbagliavo le parole della canzone e mi
chiudeva la bocca con la mano. Oggi mi ha sorriso perché ho imparato le
parole della canzone (lui adora Renato Zero e odia che si sbaglino i testi nel
cantarlo: ascolta le parole?). Stupita, meravigliata commossa… penso di
essere fortunata a fare quanto amo di più. A volte vorrei che per tutti fosse
così evidente e quanto di grande passa attraverso le nostre mani. Spero che la
musicoterapia diventi sempre più per noi, professionisti del mestiere,
STUPORE, SINTONIA, ARMONIA, emozionandoci con chi abbiamo accolto
per rendere quel concerto un momento unico.
Simona Neri
[email protected]
[1] R. Zero, il coraggio delle idee dall’album I miei numeri ed. Sony Music
2000.
[2] R.Zero , I migliori anni della nostra vita , Sulle tracce dell’Imperfetto Sony
Music 1995.
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Deodato Rosaria, Io, Walter e il mondo dell’autismo
Pubblicato il 3 dicembre 2010
Il percorso esperienziale di musicoterapia è stato realizzato in ambito
scolastico, nell’arco di un biennio (2001–2002), con Walter (nome di fantasia
in ottemperanza alla legge della provacy), un bambino autistico di sette-otto
anni. Personalmente mi sono avvicinata alla musicoterapia dopo il diploma in
pianoforte, perché affascinata da esperienze musicoterapiche il cui il “suono”
(la musica), utilizzato in una prospettiva relazionale, può aprire un canale di
comunicazione con persone in difficoltà, come il bambino preso in esame. Tra
le molteplici metodiche di intervento musicoterapico italiane ed estere,
presenti nel panorama nazionale, la “prospettiva relazionale” è maggiormente
vicina al mio modo d’operare. In questa prospettiva la musicoterapia è intesa
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come: …”ricerca, osservazione, analisi e adozione del sonoro e del musicale
appartenente al soggetto (musica) al fine di aiutarlo (terapia) ad esperire
una “nuova” situazione di ascolto, non solamente centrato sul sé, ma sui poli
(sé e altro da sé) del processo relazionale”[1].
La sensibilità musicale di Walter
In qualità di insegnante Ad Personam, ho conosciuto Walter nella scuola
elementare da lui frequentata. Walter mi è stato segnalato dall’ insegnante
Educazione al Suono e alla Musica che da un lato evidenziava le
problematiche esplicitate dal bambino durante l’ora di lezione: lancio di
oggetti e continuo movimento, dall’altro lo riteneva sensibile alla musica per
le risposte motorie che egli metteva in atto quando questa era a lui gradita.
L’interesse di Walter nei confronti della musica era rimarcato anche dalla
mamma che spesso lo sorprendeva “suonare” la batteria e il flauto dolce del
fratello. Dal punto di vista clinico, la diagnosi patologica di Walter è inerente
all’autismo infantile, definito dal DSM IV e dall’ICD-10 come un disturbo
generalizzato dello sviluppo, caratterizzato da una compromissione
qualitativa dell’interazione sociale, della comunicazione verbale e non
verbale, da modalità di comportamento, attività e interessi ristretti, ripetitivi
e stereotipati, nella maggior parte dei casi associato anche ad un ritardo
mentale, di solito di grado medio. Walter è stato “definito” quindi come un
bambino autistico, ma è “…innanzitutto un bambino, che come gli altri ha
bisogno di amore, di sicurezza, di guida e della possibilità di sviluppare le
proprie risorse e capacità il più pienamente possibile. Ciascun bambino
autistico ha una propria personalità, che determina il suo modo di reagire ai
propri handicaps e lo rende un individuo unico rispetto agli altri…un
individuo che differisce per molti aspetti da altri bambini per i quali sia
stata emessa la stessa diagnosi…»[2]. Non mi sono dunque fermata alla
diagnosi, ma mi sono proposta di conoscere il bambino, in particolare le sue
parti sane.
Quale metodica musicoterapica utilizzare?
Dal punto di vista prassico, ho deciso di iniziare il lavoro musicoterapico con
Walter e ho scelto la metodica musicoterapica relazionale ideata da
Giangiuseppe Bonardi, perché è essenzialmente uno “strumento operativo”
chiaramente strutturato in fasi (…“Il colloquio, … l’osservazione
ambientale…, l’ osservazione musicoterapica… la prassi musicoterapica
individuale[3]…”) consequenziali d’intervento con finalità e obiettivi
(indicatori) specifici e valutabili. I colloqui, l’osservazione ambientale e quella
musicoterapica mi hanno permesso di individuare le finalità del progetto
d’intervento musicoterapico. In tal modo ho individuato: le problematiche
vissute dal minore e i mediatori (gli eventi sonori, le musiche e gli strumenti
musicali) maggiormente adeguati per affrontarle. Riguardo alle palesi
difficoltà relazionali, manifestate da Walter nelle situazioni osservative,
l’intervento musicoterapico individuale è stato quindi orientato in una
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prospettiva relazionale. In quest’ultima fase ho utilizzato ampiamente la
tecnica del “… dialogo sonoro[4]…”, al fine di integrare la metodica
d’intervento musicoterapico presa come modello teorico – pratico di
riferimento.
Il senso dei colloqui
Inizialmente la mia attenzione era orientata verso la conoscenza della
dimensione sonoro–musicale di Walter. In questa prospettiva ho attivato
alcuni colloqui con la madre e le insegnanti, al fine di individuare sonorità e
musiche specifiche, che, per Walter, avessero un senso, perché appartenenti
al suo mondo sonoro e musicale.
In ascolto del mondo acustico-musicale abitualmente vissuto da Walter
La prima informale conoscenza di Walter è avvenuta durante l’osservazione
ambientale. Ero preoccupata e al contempo contenta perché finalmente
potevo conoscere Walter in un’abituale situazione di vita. Mentre osservavo
Walter che colorava alcune schede proposte dall’Insegnate di Sostegno,
ascoltavo le tenui sonorità ambientali caratterizzate da: vocii, bisbigli,
ticchettii, fruscii. Quelle sonorità, da me percepite, attenuavano la tensione
emotiva che provavo in ogni incontro. In tal modo, mentre cercavo di
accogliere le mie emozioni, osservavo Walter che, nel breve periodo di
permanenza nell’aula (20’), peregrinava nell’aula. Gli spostamenti continui si
placavano momentaneamente quando Walter si sedeva in braccio
all’insegnante o a me. Le rilevazioni mi sollecitavano alcuni interrogativi.
Come viveva il tempo Walter? Come viveva lo spazio? Quali emozioni
caratterizzavano il tempo e lo spazio di Walter? Da chi fuggiva Walter, quando
usciva dall’aula? Per lo più immerso in un ascolto di sé, dei propri vocalizzi o
dei movimenti stereotipati, tuttavia Walter cercava di stabilire brevi relazioni
solamente con gli adulti presenti nell’aula: io e/o l’insegnante di sostegno. Le
relazioni intraprese da Walter erano essenzialmente corporee. Walter
comunicava quindi a livello: tattile, motorio e orale. Richiamato
dall’insegnante di sostegno o da me, Walter arrestava la marcia o volgeva il
capo nella nostra direzione. Al termine delle osservazioni mi chiedevo se fossi
stata in grado di pormi in ascolto di Walter. Sapevo che per ascoltare Walter
dovevo elaborare e quindi accogliere i miei vissuti, in particolare la paura e il
senso di disagio che provavo prevalentemente durante le sedute. Gli incontri
di supervisione dell’attività mi hanno consentito di “osservare” le parti sane di
Walter, attenuando i miei sentimenti di disagio. Walter mi appariva un
bambino enigmatico, sfuggente, ma non del tutto chiuso nel suo “misterioso
mondo”. Un bambino che viveva il tempo, lo spazio colmi d’emozioni
probabilmente angoscianti, ma che attivava estemporanee relazioni.
Deodato Rosaria
[email protected]
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[1] Bonardi Giangiuseppe, (2001), Osservazione e prassi in musicoterapia,
dispensa laboratorio, Assisi, PCC, p. 6. Ora in Bonardi G., (2007), Dall’ascolto
alla musicoterapia, Progetti Sonori, Mercatello sul Metauro (PU).
[2] Wing Lorna, (2000), I bambini autistici, Roma, Armando Editore, pp. 11 e
19.
[3] Bonardi Giangiuseppe, (2001), Osservazione e prassi in musicoterapia,
dispensa laboratorio, Assisi, PCC, p. 7, 9, 18. Ora in Bonardi G., (2007),
Dall’ascolto alla musicoterapia, Progetti Sonori, Mercatello sul Metauro (PU).
[4] Scardovelli Mauro, (1992), Il dialogo sonoro, Bologna, Cappelli, p. 12.
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