personaggio
di
Giancarlo Messina
Corrado Rustici
Intervista con mistero...
A
vere nel proprio curriculum
compagni di viaggio che si
chiamano Herbie Hancock,
Whitney Houston, Aretha
Franklin, George Benson ed Elton
John già non è malaccio, se poi
aggiungiamo la direzione musicale
di qualche artista italiano non proprio sconosciuto, tipo Zucchero, De
Gregori, Elisa, Bocelli, Negramaro,
Renga o Ligabue... possiamo dire
che il curriculum di Corrado Rustici (classe ’57) non è certo dei più
consueti. Anche perché, ad esempio, trovare tre brani dello stesso
produttore artistico nelle prime tre
posizioni della classifica Nielsen
non è probabilmente solo una fortunata coincidenza (accade il 12
novembre 2007, con Niente paura
di Luciano Ligabue, L’immenso dei
Negramaro e Ferro e cartone di
Francesco Renga).
Dopo aver fissato un vago appuntamento milanese per un’intervista
qualche mese prima, siamo effettivamente riusciti a fare una piacevolissima e lunga chiacchierata
con Corrado (anche grazie all’ami-
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co Maio) in occasione dei concerti di Ligabue a San Siro, live
da egli stesso prodotto sotto il profilo musicale. Nella sala dello
stadio riservata alla stampa, tranquilla e soprattutto supercondizionata (visto il caldo equatoriale esterno), abbiamo scoperto una persona estremamente cordiale e disponibile che,
nonostante i tanti anni vissuti in US, ha ancora qui e là una
simpatica cadenza international-partenopea.
Gli chiediamo di ripercorrere con noi la sua storia, di cui siamo
veramente curiosi.
Come si diventa “Corrado Rustici”?
Ho cominciato a Napoli negli anni ’70 con il rock progressivo – ci racconta –; il mio gruppo era il Cervello che riuscì ad
ottenere un contratto per un album con la Ricordi; produttore
avrebbe dovuto essere mio fratello Danilo, che però era in
tour con il suo gruppo, gli Osanna (insieme a PFM e Banco
del Mutuo Soccorso una delle maggiori realtà del progressive
italiano). Così, a circa 16 anni, diventai de facto produttore
artistico, e scoprii che la ricerca dei suoni e il lavoro in studio
mi piacevano moltissimo. Ancora oggi questo disco, Melos
del ’73, è ricercatissimo.
In seguito creammo un gruppo fusion, i Nova, ed andammo a Londra dove entrammo in contatto con diversi artisti
come Phil Collins, Pete Townsend, Narada (Michael Walden),
batterista della Mahavishnu orchestra di cui ero un fan, e
John McLaughlin che mi consigliò di andare anche in US per
fare esperienze e conoscere nuove persone. Io avevo molta
voglia di confrontarmi, perché a metà degli anni ’70 in Italia
c’era un clima molto ideologizzato e politicizzato che trovavo
limitante sotto l’aspetto artistico.
Così quando i Nova, ormai composto da tre italiani e poi
da Narada (batteria) e Phil Collins (percussioni), fece un
disco che si piazzò anche nelle classifiche americane, andammo in tournée in US, facendo base in Colorado. Dopo
qualche tempo Narada mi chiamò a San Francisco, qui ci
chiudemmo in un garage e suonammo per tre giorni: alla
fine decidemmo di fare una band. Facemmo molte audizioni ed infine creammo un gruppo veramente incredibile,
con personalità che avrebbero raggiunto grandi traguardi: Narada divenne uno dei maggiori produttori al mondo, Randy Jackson, il bassista, adesso è una celebrità con
American Idol, David Sancious alle tastiere, che veniva da
Bruce Springsteen, Marc Russo di Yellow Jackets, e poi Walter
Afanasieff, produttore di Mariah Carey, Celine Dion e tanti
altri importantissimi artisti di livello mondiale.
Beh... mica male! E che tipo di lavoro facevate?
Cominciammo a produrre varie cose, io in particolare
mi dedicavo soprattutto agli arrangiamenti. In due anni
facemmo dei dischi di grande successo, con Herbie
Hancock, Whitney Houston, Aretha Franklin, George
Benson, George Michael... Facemmo un’ottantina di
album, grazie ai quali imparai moltissimo. Si lavorava
con ritmi pazzeschi: facevamo sessioni da 9 ore in
studio senza mai fermarci, e a quei tempi occorreva suonare, non c’era l’elettronica, se non per
la vecchia Linndrum, con cui Narada ci massacrava, perché lui poteva non suonare! Imparai
moltissimo da quella ritmica soul, fin allora a me
quasi sconosciuta, a cui aggiunsi qualcosa di
mio, soprattutto sulla ritmica delle chitarre, aggiungendo dei delay ed un po’ di funky, cose
che per quel genere erano delle novità.
Poi l’incontro con Zucchero...
Sì, dopo tanti anni, nell’83, mentre ero in
vacanza in Italia, mi presentarono Zucchero.
Uno dei Nova, Elio D’Anna, era tornato in
Italia a fare il produttore e mi fece ascoltare
questo ragazzo che abitava in Versilia. Dopo
varie telefonate mi convinse, sebbene io fossi
molto preso dalla mie cose, a venire in Italia,
per un paio di settimane, con musicisti americani ad arrangiare delle basi, poi confluite nel
disco Zucchero & The Randy Jackson band.
Il disco andò male, sebbene il brano Donne,
presentato con poca fortuna a San Remo,
adesso sia diventato un classico. In seguito
Zucchero venne a San Francisco ed arrangiai Rispetto, che a lui non piaceva
molto perché lo considerava troppo funky, io invece ero convinto funzio nasse alla grande,
come avvenne: cominciò
così un sodalizio durato
fino al 2001 con Baila.
Com’è stato il ritorno
alla realtà italiana
dopo aver lavorato ai
massimi livelli
internazionali?
Mi piaceva l’idea di
portare un sound americano in Italia: ho imparato il mestiere fuori, ma ho
una sensibilità italiana, e forse il mio
destino è quello di fare un po’ da
ponte fra queste due culture musicali. All’inizio ero molto contestato
in Italia, anche dalla casa discografica, ma Zucchero mi diede
fiducia e fu un grande successo,
sebbene di Rispetto non curai né le
voci né il mixaggio. Infatti nel disco
successivo decisi di lavorare solo
se avessi potuto seguire tutto il progetto: nacque così l’album Blues,
interamente prodotto da me, poi
seguirono Oro Incenso e Birra e tutti
gli altri...
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Non a caso sei anche il produttore
dell’artista italiana che forse più di
altri propone una musica di taglio
realmente internazionale... Elisa.
Sì, un giorno incontrai Caterina
Caselli che mi fece vedere e sentire molte cose; fra queste il video
di una ragazzina che cantava in
inglese, appunto Elisa, che mi colpì particolarmente. Con lei è poi
nato un sodalizio molto bello, che
dura tuttora. Anche con la Caselli
è nata una sorta di “esclusiva” per
la produzione dei suoi artisti.
Cos’è esattamente quello che tu
chiami “Push & Pull”?
Non è semplice da spiegare in
due parole. Diciamo che l’elemento
“Push” è la ripetizione del contenuto armonico, lirico e ritmico (tipico
della musica pop), mentre esempi
di “Pull” sono meglio rappresentati
dalla musica d’avanguardia, contemporanea o sperimentale, in cui
la ripetizione non è così ovvia, anzi
a volte è completamente assente.
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La musica “Push”, così come la televisione, è strutturata per
essere ovvia, facile, in qualche modo familiare, innocua ed
efficace nel manipolare le emozioni. Il rock ed il jazz sono
probabilmente i due generi in cui le tecniche di “Push & Pull”
possono essere usate parallelamente con maggiore successo. Qui possiamo usufruire di elementi “Push” (ripetizione, uso
di frequenze e ritmi aggressivi) fusi con elementi “Pull” (non
ripetizione, improvvisazione, suoni ambient e frequenze non
aggressive) che possono creare, nei casi più riusciti, un mondo totalmente interattivo con l’ascoltatore. Un mondo in cui
il campo d’azione è la sensibilità interiore dell’ascoltatore e
nel quale l’interattività è il responso fulmineo, profondo ed
avvincente della coscienza.
Molti italiani decidono di registrare all’estero: ne vale realmente la pena?
Se c’è una differenza non è certo nei macchinari, perché
dagli anni ‘80 in poi le macchine sono più o meno le stesse,
la differenza è negli uomini. Io ho ormai un network di tecnici
e musicisti di alto livello che sanno darmi sempre il risultato che cerco, senza rischiare nulla. Ovviamente spostare la
produzione in US conviene anche economicamente, sia per
il costo del dollaro sia per non aumentare il costo dei vari
professionisti con le trasferte. Poi alcuni artisti italiani usano
il nome dello studio americano o inglese come un fattore
di marketing, anche se poi tornano con un disco italiano
fatto in America... e questa è una cosa che non capisco
del tutto.
Ultimamente hai cominciato a produrre anche per il live:
come mai?
Sì, lo faccio solo da un anno, prima con Renga e poi con
Ligabue: è una cosa abbastanza naturale, perché si prosegue una filosofia, un progetto di suono iniziati in studio; inoltre
mi piace molto perché mi permette di uscire dallo studio, di
andare fuori, stare all’aperto... è una specie di vacanza!
Quali sono le differenze fra un arrangiamento in studio ed
uno per il live?
La musica live viene percepita in maniera diversa rispetto al disco, tutto è più veloce ed immediato; quello che è
importante è riuscire a creare la stessa atmosfera, pur usando elementi diversi rispetto alla sala. Spesso alcune cose del
disco funzionano nel live, ma non sempre, quindi occorre
semplificare per suggerire all’ascoltatore l’atmosfera che si
vuole evocare.
Qual è il tuo rapporto con la tecnologia?
Io amo la tecnologia, sono orgoglioso di poter dire di essere stato fra i primissimi ad usare il Mac Plus (un Machintosh del
1986, il primo ad includere una porta SCSI) e ad andare in uno
stanzino dove due pazzi stavano lavorando al “Sound Tools”,
poi diventato... Pro Tools. Infatti il progetto più importante a
cui sto lavorando è legato proprio alla tecnologia...
Cioè?
L’artefatto musicale del futuro: il CD è obsoleto da almeno
10 anni e l’mp3 è già superato concettualmente. La cosa
a cui sto lavorando è del tutto rivoluzionaria e spero, fra un
po’, di poterne dare notizia al mondo: mi piacerebbe fare
quello che Les Paul fece con le registrazioni... ma non posso
assolutamente dire di più!
Il sogno nel cassetto di Corrado Rustici è quindi già rivelato?
Certo, è proprio questo, perché se il mio progetto andrà in
porto cambierà definitivamente il modo di fruire e fare musica, ma... e insomma basta... mi hai già fatto dire troppo!