GRATUITO musiche e culture nel mondo primavera 2010 07 ........... E la banda ride .......................................... AMBROGIO SPARAGNA ORCHESTRA POPOLARE ITALIANA 07 primavera 2010 www.mondomix.com www.mondomix.com Mirco Menna & la Banda di Avola ALI FARKA TOURE • ELENA LEDDA • SQUILIBRI BRASILE IN MUSICA . Universo . Camarón Django Reinhardt Kora de la Isla . • Ice Music . Street Foodie Sommario Mondomix Italia — n°7 primavera 2010 04 Editoriale 06 / 14 AttualitA’ 06 - Attualita’-Mondo 08 - Attualita’-Visioni 10 - Attualita’-Profili 10 - Guinga 12 - Milingo 13 - Moussu T 14 - Mirabassi 16 / 34 MUSICA 16 - Manouche 19 - Django Reinhardt 20 - Universo Kora 20 - Toumani Diabate 22 - Ballake Sissoko 24 - Foday Musa Suso 25 - Mirco Menna & Banda 28 - Camaron de la Isla 32 - Sevdah di Avola 35 / 41 360° 35 - Womex 2010 37 - Ice Music 38 - San Pietroburgo 40 - Street Foodie: Karakalpakstan 42 / 50 RECENSIONI 42 - Asia 43 - Africa 45 - Europa 47 - America 50 - Fusion 13 Moussu T 19 Django Reinhardt 20 Ali & Toumani Periodico gratuito Editore FM2 Direttore responsabile Luca Rastello Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano [email protected] Hanno collaborato Akenataa Hammagaadji, Anne-Laure Lemancel, Antonello Lamanna, Benjamin MiNiMuM, Bruno Tecci, Daniele Sestili, Eddy Cilia, Emanuele Enria, Enrico Verra, Giancarlo Nostrini, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Luca Morino, Luca Vitali, Mauro Zanda, Max De Tomassi, Paolo Ferrari, Piercarlo Poggio, Squally, Valerio Corzani Pubblicità [email protected] Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected] Redazione Via Martiri della Libertà 19, 10131 Torino Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino 47 Boban Markovica 47 Lhasa Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale) Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2. Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni, pubblicità e materiali promozionali. 50 Giuliana Soscia & Pino Jodice 4 Mondomix.com Editoriale La banda è una dei collanti musicali del nostro paese. Sia nelle grandi città che paesi di provincia, la banda accompagna alcuni dei momenti più importanti della vita privata (matrimoni, funerali, feste dei coscritti) e pubblica (celebrazioni nazionali, feste patronali) a sottolinearne l’importanza e contribuendo a rendere questi momenti dei fatti collettivi. Esistono bande piccole e grandi, militari, di paese, pubbliche o sostenute da club privati. Negli anni la funzione sociale della banda è in parte scomparsa perché sostituita da altre forme musicali o dal silenzio, ma nei momenti più significativi ancora oggi la vediamo riapparire in tutta la sua solennità quasi a consolidare la propria mobilità e capacità di adattarsi ai tempi moderni. Per questo ci è sembrato giusto darle la copertina di questo numero. La Banda di Avola, con questa sua nuova produzione discografica, ha compiuto un passo importante diventando a tutti gli effetti un gruppo, numeroso, di supporto a un cantautore, Mirco Menna. Al di là del risultato artistico, che comunque ci sembra riuscito, desideriamo dare visibilità ad una formazione musicale che sicuramente costituisce uno degli elementi propri dell’Italianità. Fra i tanti meriti della World Music c’è anche quello di aver introdotto nell’immaginario musicale attuale una serie di strumenti e sonorità che fino a ieri erano di puro appannaggio locale. Fra questi la kora. E’ questa una specie di arpa ricavata dalla zucca, con un lungo manico di legno e le corde spesso fatte di filo da pesca, il cui suono dolcissimo e immediato compare ormai nelle produzioni musicali più diverse. Da Jovanotti al Jazz, dalla musica New Age a quella classica. La pubblicazione dei nuovi Cd di due grandi maestri dello strumento, Toumani Diabate e Ballake Sissoko, la vittoria del Grammy Awards di Mamadou Diabate con il suo Cd di sola kora, ci hanno offerto lo spunto per parlare con alcuni protagonisti. Cento anni fa nasceva Django Reinhardt, un musicista difficile da collocare per la sua musica a cavallo fra i generi. Ne ripercorriamo la storia e il suo amore per lo strumento cercando di individuarne gli eredi più significativi, Il consueto giro del mondo in musica tocca in questo numero il gelo del Festival del Ghiaccio di Geilo (Norvegia) ed il calore del tango ballato a San Pietroburgo (Russia), passando per l’ultima edizione del Womex a Copenhagen (Danimarca). Curiosamente questa volta si tratta di un viaggio tutto al Nord, cercheremo di rimediare nelle prossime edizioni. Questo è tutto per questo numero, il resto è scritto nelle pagine seguenti. Arrivederci al prossimo. La redazione Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito www.mondomix.com 07 PRIMAVERA 2010 6 Mondo Mondomix.com //a t t u a l i t à Attualità Sono stati attributi gli annuali Grammy Awards per il 2009. Per quanto riguarda la sezione World Music segnaliamo la vittoria nella categoria Best Traditional World Music Album di Mamadou Diabate con Douga Mansa (World Village / Ducale). Mentre nella categoria Best Contemporary World Music Album ha vinto Bela Fleck con Throw Down Your Heart: Tales from the Acoustic Planet, Vol. 3 - Africa Sessions (Rounder / IRD) Gli altri album nominati nelle due categorie sono stati * Ancient Sounds - Rahim Alhaj and Amjad Ali Khan Double * Play - Liz Carroll & John Doyle * La Guerra No - John Santos Y El Coro Folklórico Kindembo * Drum Music Land - Ten Drum Art Percussion Groupe e * Welcome To Mali - Amadou & Mariam * Day By Day - Femi Kuti * Seya - Oumou Sangare * Across the Divide: A Tale of Rhythm & Ancestry - Omar Sosa Anche quest’anno si tiene a Marsiglia il Babel Med Music, fiera della World Music con un occhio di riguardo ai paesi dell’area Mediterranea. Ne daremo dettagliata informazione sul prossimo numero. Online www.dock-des-suds.org/#babel Se vi trovate a Londra fra il 26 marzo e l’11 aprile non perdetevi il Darbar Festival, probabilmente il più importante festival di msuica indiana in Europa Online www.darbar.org.uk Kate McGarrigle è mancata, a Montreal, lo scorso 18 gennaio, era nata a Saint-Sauveur-desMonts (Canada) il 6 febbraio 1946. Con la sorella Anne aveva fondato un formidabile duo che per anni ha mietuto successi in tutto il mondo proponendo uno stile ispirato alla tradizione celtica e canadese capace di coniugare la tradizione della canzone d’autore Nord Americana ed il folk rock britannico. La loro più riuscita produzione discografica risale agli anni ’70 e ’80 e nasce dalla collaborazione col produttore Joe Boyd. Online www.mcgarrigles.com 07 PRIMAVERA 2010 Alberto Cesa La notte del 6 Gennaio scorso è improvvisamente mancato Alberto Cesa, figura di spicco della musica popolare piemontese ed italiana. Polistrumentista (ghironda, chitarra, dulcimer) ma soprattutto cantante, aveva fondato con Donata Pinti nel 1974 Cantovivo, gruppo storico del folk revival. Fin da questi esordi il magico connubio vocale dei due era diventato un marchio di fabbrica e di eccellenza per il gruppo. Da sempre impegnato politicamente, ma anche attento ricercatore delle tradizioni piemontesi, nei primi anni ’70 Alberto aveva traghettato Cantovivo dai canti sociali e di lavoro alle ballate popolari, imprimendo una svolta decisiva alla carriera del gruppo che conquisterà con LP Leva la gamba il Grand Prix International du Disque di Montreaux. Da allora migliaia di concerti in tutto il mondo, innumerevoli pubblicazioni discografiche sia col marchio Cantovivo sia come ospite o solista. Imperdibile I Fogli Volanti, cd-libro edito da Il Manifesto nel 2001, che raccoglie poesie, scritti e canzoni di lotta insieme a ballate emozionanti e canzoni divertenti: una testimonianza della sensibilità artistica e della coerenza che lo hanno distinto in più di trent’anni dedicati alla musica altra. Prima di andarsene stava preparando i festeggiamenti per il 35 anniversario di Cantovivo con un cofanetto di 4 CD / DVD / Canzoniere. Alberto, uomo dalla personalità prorompente, lascia un vuoto artistico ed umano incolmabile. Online www.cantovivo.com Stéphane Delicq Un nuovo lutto che colpisce il mondo della musica tradizionale. L’organettista francese Stephane Delicq, parecchio conosciuto anche qui in Italia. Accompagnato dal suo sobrio ensemble, fra una valse e una mazurka, nel concerto che seguimmo nel 2004 a Torino ci aveva regalato momenti di vera poesia. Iniziò a suonare l’organetto diatonico da autodidatta, Stéphane, per poi appassionarsi e farne una vera e propria professione. Nel corso degli anni ci ha guidati alla scoperta delle danze tradizionali del centro della Francia creando quelle atmosfere lievi, sospese, a volte un pò malinconiche, che richiamano alla mente certe immagini da film in bianco e nero. Una musica da ballo di provincia, non troppo distante dalla nostra, con improvvisazioni dai toni delicati e più raffinati. Da alcuni anni Delicq era malato di leucemia e era stato sottoposto a un trapianto dai postumi dolorosi ed estenuanti. Allo scopo di aiutarlo ad uscire dal momento di comprensibile depressione che stava attraversando, l’amore dei suoi collaboratori aveva spinto a far circolare una mail commovente fra amici e conoscenti, nella quale si invitava ognuno a scrivergli un messaggio di sostegno. Di lui rimangono le poche parole affidate ad un’intervista che circola su internet ma soprattutto la musica dei suoi tre magnifici album. CD La Compagnie des Anges (1997) La Discrète (2001) Douce (2009) Online www.delicq.org Lhasa de Sela Il primo gennaio 2010, all’età di 37 anni, Lhasa è morta nella sua casa di Montreal. Una tristissima notizia per il mondo della musica il cui intenso significato non può esaurirsi nelle poche parole che ci apprestiamo a scrivere. Lhasa de Sela è stata un’artista, cantante e compositrice molto particolare con alle spalle una storia a dir poco suggestiva. Figlia di due hippies, il padre messicano, insegnante, scrittore e musicista autodidatta, la madre americana con ascendenze libanesi di professione fotografa, musicista, attrice e poetessa, Lhasa è cresciuta insieme ai numerosi fratelli e sorelle viaggiando per circa sette anni fra gli Stati Uniti e il Messico in una specie di camper rudimentale ricavato da uno scuola bus dismesso. Con un’infanzia priva di televisione e dei conseguenti condizionamenti tipici della cultura consumista (l’educazione dei figli era curata dagli stessi genitori), Lhasa ha ricevuto fin dai primi anni di vita ogni tipo di sollecitazione culturale, dalla musica alla letteratura e alla pittura, ed è stata abituata a cogliere e coltivare la propria sensibilità come uno dei doni più importanti della vita. In una sua lunga intervista raccontava come per lei quegli anni fossero stati importanti e formativi. A volte le capitava di sentirsi molto povera e a volte in casa non c’era gran che da mangiare ma il grande senso di libertà con cui i suoi genitori avevano organizzato la loro esistenza e il passare le serate improvvisando piccoli spettacoli teatrali e concerti in famiglia, le aveva permesso di venire a contatto con quel mondo di fantasia e di sogno che poi avrebbe animato il suo universo musicale. Quando all’età di undici anni i genitori si separano, Lhasa segue la madre per un paio d’anni a San Francisco dove inizierà a prendere lezioni di canto e infine a Montreal, in Canada, dove si stabiliranno definitivamente. Insieme al chitarrista Yves Desroisier, forma un duo che si esibisce nei bar della città con un repertorio che fa riferimento al folk messicano miscelato a suoni klezmer e gypsy. Il duo si trasforma con il passare degli anni in una vera e propria band e produrrà, nel 1997, il disco d’esordio La LLorona, interamente cantato in spagnolo. Il successo dell’album è tale che oltre a produrre riconoscimenti nazionali ed internazionali la porterà a girare fra il Nord America e l’Europa per oltre due anni. Ad un certo punto l’eccessiva pressione e le rigide regole del mondo del business musicale diventano troppo dure da sopportare quindi decide di abbandonare tutto e di raggiungere le sorelle col loro piccolo circo Pocheros in Borgogna (Francia). Recuperato il proprio spirito nomade e l’antica consuetudine di portarsi dietro la casa e il proprio mondo, Lhasa trascorrerà circa un anno girando in lungo e in largo la Francia con il circo, a volte esibendosi da sola con la sua chitarra, a volte improvvisando numeri come 7 faceva da bambina in famiglia. Dopo questa esperienza di stabilisce per due anni e mezzo a Marsiglia ed inizia a scrivere i brani per il suo secondo album The Living Road, di cui cura anche le visionarie illustrazioni, e che vedrà finalmente la luce una volta rientrata a Montreal nel 2003. E’ questo forse il suo lavoro migliore sia per la cura dei testi, questa volta in inglese, francese e spagnolo, che per gli straordinari arrangiamenti musicali in cui riesce a dare vita ai suoi fantasmi creando un’atmosfera di favola pervasa da venature malinconiche e oscure. Erano queste, infatti, come da lei stessa più volte dichiarato, le emozioni che più la coinvolgevano artisticamente. Sono infine passati altri sei anni prima della comparsa di Lhasa, il suo terzo album, questa volta tutto in inglese, che risale all’aprile del 2009 ma che in Italia è arrivato solo verso la fine dello scorso anno. Le atmosfere più intimiste con cui ci accoglie questo suo ultimo lavoro acquistano un significato diverso ora che sappiamo che è stato prodotto durante il periodo di lotta contro quel tumore al seno che se l’è portata via travolgendola come l’immaginario ciclone di cui narra il suo brano Rising. Lhasa se ne è andata. In silenzio, la sera di un primo freddo giorno dell’anno, accompagnata dalla carezza fredda della neve che dopo la sua morte ha incessantemente ricoperto le strade di Montreal per quaranta ore. Quasi una morbida marcia funebre in omaggio alla suo breve passaggio su questa terra. CD La Llorona (1997) The Living Road (2003) Lhasa (2009) Online lhasadesela.com “Un vero e proprio cammino musicale magico… Un album veramente prezioso” Amadeus “Un intenso gioiello da camera” Rumore “Un ipnotico viaggio al termine della notte, che evoca i paeseggi sconfinati e i silenzi delle notti in Mali. Un dialogo senza rete tra musica colta occidentale e melodie africane. Ammaliante” Io Donna / Corriere della Sera “Dieci tracce di autentica poesia (…) La vera essenza di questo lavoro è la ricerca della propria interiorità, uno scambio continuo di intimi suggerimenti e armoniose tessiture che plasmano le sonorità” JAM 07 PRIMAVERA 2010 8 Mondomix.com //a t t u a l i t à IN TranCe Brothers in trance when will freedom come? Nass el Ghiwane: gli Stones del deserto? di Enrico Verra Circa quattro anni fa, Efe Cakarel, giovane imprenditore statunitense di origine turca, era seduto in un caffè di Tokyo. All’improvviso è preso dal desiderio di vedere In The Mood For Love di Wong Kar-Wai ma non ha tempo di cercare qualche cinemino della capitale giapponese in cui lo passino. Lo vuole vedere adesso. Subito! Sul suo portatile! www.theauteurs.com è così che gli viene in mente di lanciarsi in una nuova impresa e si inventa The Auteurs (www.theauteurs.com), la prima cineteca in rete. Per l’operazione raduna intorno a se partners di prim’ordine: un grosso distributore parigino di qualità, Celluloid Dreams e un editore new-yorkese di dvd: Criterion Collection. Una leggenda tra i cinefili di tutto il mondo per la qualità eccellente delle sue uscite. Da allora su The Auteurs sono a portata di mouse dozzine di film d’autore dai classici ai rari, rarissimi e quasi invisibili. Disponibili in streaming al costo di 5 euro l’uno. Completano il sito la sezione Notebook, con recensioni di qualità, interviste ai registi e notizie dai festival nonché un forum, spesso assai divertente, per internauti cinefili, ciliegina sulla torta di una cineteca nata nel tempo di Facebook. Colpo finale: a Cannes 2009 The Auteurs collabora al lancio della World Cinema Foundation. Fondazione che si dedica al restauro e alla conservazione dei film del terzo mondo sotto la direzione di Martin Scorsese: «La World Cinema Foundation è un naturale allargamento del mio amore per i film. Diciassette anni fa ho fondato la Film Foundation per salvare i vecchi film americani dalla distruzione. Oggi la World Film Foundation è stata creata per aiutare a conservare il patrimonio cinematografico di quelle nazioni che non posseggono gli strumenti, la tecnologia e le risorse per farlo.» Sorpresa! Per lanciare questa avventura i film restaurati dalla WCF sono visibili GRATIS su The Auteurs. Transes Il primo film della serie messo in rete è il primo restaurato dalla WCF: Transes. Documentario che Ahamed El Maanouni ha realizzato sulla band marocchina Nass El Ghiwane, definiti dallo stesso Scorsese i Rolling Stones del Nord Africa. Considerati una delle fonti di ispirazione, e non solo per la colonna sonora, del suo film L’Ultima Tentazione di Cristo. Racconta Scorsese: «Era il 1981 e io stavo lavorando al montaggio di Re Per una Notte. Lavoravamo fino all’alba e c’era una televisione newyorkese che ogni notte verso le tre, trasmetteva Trances. Lo passava e ripassava tutte le notti e io mi sono appassionato a quella musica. La registrai e divenne una delle fonti di ispirazione per L’Ultima Tentazione di Cristo. E’stata la base per la colonna sonora di Peter Gabriel e l’ho fatta ascoltare a Robbie Robertson della Band e a tutti i musicisti che conosco. Il film diretto da Ahamed El Maanouni da allora è stata un’ossessione per me ed è per questo che è stato il primo film che ho restaurato con la World Cinema Foundation». Per continuare a giocare ancora un momento sul fatto che i Nass El Ghiwane siano gli Stones d’Africa il film apre con le immagini di un loro concerto e l’atmosfera è, in effetti, quella torrida di Gimme Shelter e di decine di altri filmati delle pietre rotolanti, anche se qui non siamo ad Altamont 07 PRIMAVERA 2010 ma in un surriscaldato teatro del Maghreb. I ritmi sono ossessivi, la folla è in delirio e i fans che assaltano il palco sono respinti senza troppe storie dai poliziotti che fanno servizio d’ordine. Stacco. Dopo il concerto una serie di camera-car degni del miglior Amos Gitai ci fanno scivolare nelle sterminate periferie di Casablanca dove i componenti di Nass El Ghiwane: Omar Sayed, Labri Batma, Abderrahman Paco e Allal Yaala si muovono ogni giorno non a bordo di decadenti limousines, ma su una molto più simpatica e scassata Renault 5 giallo canarino. E qui finiscono i paragoni con le rock stars inglesi e inizia un viaggio nelle vene della cultura marocchina. Nass El Ghiwan visioni 9 E fino qui, per quanto riguarda le immagini, ci muoviamo tutto sommato nell’ambito di un documentario musicale ben confezionato, con dell’ottima musica, delle buone immagini e interviste interessanti ai musicisti. Poi il registro inizia a cambiare e il film scivola in un’altra dimensione assai più originale e forte. I Nass El Ghiwane, e qui sta uno dei loro punti di forza, sono un gruppo non solo da stadio ma anche da moschea. Accanto al momento del grande concerto c’è un’altra dimensione anch’essa pubblica ma in qualche modo più segreta: il loro suonare nel corso delle cerimonie e dei riti di trance. E’ filmando uno di questi riti che il film acquista una marcia in più e rivela il suo aspetto più originale. Improvvisamente la cinepresa inizia a focalizzare la sua attenzione su una donna. Si avvicina e documenta dettagliatamente, con belle inquadrature, la sua caduta in trance. Caduta in trance che è accompagnata, scandita e agevolata dall’ipnotica e ossessiva musica dei Nass El Ghiwane. Nel momento stesso in cui la trance raggiunge la fase culminante, il sonoro va progressivamente a sparire, l’immagine si rallenta, la cinepresa si avvicina al volto e al corpo della donna. In un silenzio tanto più spettrale perchè arrivato al culmine di un parossismo di suoni, le inquadrature si caricano di una dimensione altra e il film si trasforma da documentario realista a messa in scena allucinata di una visione. Il film stesso si fa trance. Splendida intuizione registica di Ahamed El Maanouni che spinge il racconto verso una dimensione diversa, a profondità inattese. Iniziano ad alternarsi: immagini di repertorio in bianco e nero di riti di trance che potrebbero risalire agli anni 30, frammenti di concerti del gruppo, racconti onirici dei musicisti stessi, immagini del Marocco contemporaneo, splendide perché poetiche e vere, non piegate ad un orientalismo di maniera e cinegiornali delle rivolte antifrancesi. Questi ultimi sono davvero straordinari. Un crudo bianco e nero che mostra gli scontri di piazza e le violenze dei legionari sulla popolazione marocchina. L’Ultimo Valzer del deserto Come tutti i musicisti magrebini nati tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50 i componenti di Nass El Ghiwan sono cresciuti ascoltando musica libanese e egiziana e il loro innovare radicalmente la scena musicale marocchina è passato attraverso la riscoperta, la riappropriazione e la reinvenzione delle proprie radici. Come dichiarano loro stessi per loro trovare e creare hanno lo stesso valore: l’importante è raccontare una buona storia. Una buona storia in cui loro stessi e il loro pubblico si possano identificare. Da qui il loro lavorare sulla musica classica araba, il fare ricerca sul campo e il loro riprendere in mano le canzoni che arrivano dal teatro popolare marocchino. Più che un gruppo di pop arabo sono un gruppo di trovatori che canta. Un gruppo che riprende la tradizione dei poeti girovaghi delle montagne dell’Atlas marocchino che raccontavano storie con forti implicazioni politiche e sociali. Tradizione che viene rilanciata in chiave contemporanea. Nass El Ghiwane sono il gruppo in cui si riconoscono gli abitanti dei ghetti delle grandi metropoli magrebine perché nelle loro canzoni vedono riflessa la realtà che vivono tutti i giorni. Una scena, bellissima, del film testimonia quanto questa simbiosi sia forte. La cinepresa penetra nel cortiletto di una bidonville e sorprende un gruppo di bambini. Cantano, si accompagnano con strumenti costruiti in casa e giocano a fare i Nass El Ghiwan in concerto. Un manico di scopa a cui è attaccato con lo spago un pezzo di ferro sono diventati asta e microfono del cantante. Non possono non venire in mente certe sequenze di La Battaglia di Algeri di Pontecorvo, con la differenza che le immagini di Transes sono vere. Gillo Pontecorvo costruiva la finzione come se fosse un reportage, Ahamed El Maanouni gioca esattamente la carta opposta: prende delle immagini documentarie, delle immagini di cinegiornale e le monta come immagini allucinate, come incubi, come visioni in stato di trance. E quando poi Labri Batma, percussionista dei Nass El Ghiwane rievoca la vicenda, in bilico tra mito e storia, di Aicha Kandicha che era insieme strega e resistente e che seduceva i soldati invasori portoghesi per ucciderli, allora si svela fino il fondo la chiave in cui il gruppo rielabora la musica di trance. Un recupero delle proprie radici che si fa resistenza culturale e che assume, nei fatti, un valore politico di difesa della propria cultura e della propria identità. Difesa non folklorica e non retorica che si concretizza nella reinvenzione contemporanea di un tradizione. Per ritornare all’universo musicale di Scorsese, padrino del restauro e grande fan di questo ottimo documentario, un lavoro simile a quello che la Band ha fatto insieme a Dylan nei confronti della tradizione musicale americana: rispettata nello spirito, tradita nella forma e per questo resa di nuovo vitale. Forse i Nass El Ghiwane non sono effettivamente i Rolling Stones del Nord Africa ma probabilmente Transes è L’Ultimo Valzer del Deserto. Online www.theauteurs.com 07 PRIMAVERA 2010 10 Mondomix.com //a t t u a l i t à Guinga. di Max De Tomassi Da anni, grazie ad una buona amicizia con Chico Buarque, mi capita di poter giocare a calcio in Brasile. E durante questi piacevoli, e faticosi, incontri sportivi di incontrare musicisti, spesso vere leggende viventi. Villa Lobos incontra Cole Porter Tra queste c’è il signor Carlos Althier de Souza Lemos Escobar, detto Guinga, un appassionato calciatore, che la musica ha strappato come un molare ancora sano alla carriera di odontotecnico. Da un pò di anni è considerato unanimemente da critici e musicisti come l’autore più importante della moderna Musica Popular Brasileira, capace di recuperarne la tradizione più vera e profonda rinnovandola dall’interno con soluzioni armoniche e invenzioni creative senza pari. C’è chi vede in lui un «Villa Lobos che incontra Cole Porter» (Sergio Mendes); chi lo considera «un compositore al pari di Jobim e di Gismonti» (Boris Rabinowitsch); chi lo ritiene «uno di quei musicisti che appaiono una volta ogni cent’anni» (Hermeto Pascoal), chi parla della sua musica come la musica del secolo (Chico Buarque). LA CARRIERA Artista di culto nel suo paese, negli ultimi anni Guinga ha ricevuto un riconoscimento internazionale sempre più ampio, nel 2002 è uscita la biografia Guinga.Os mais belos acordes do suburbio (Gryphus Editora, Rio de Janeiro 2002); recentemente è stato pubblicato il songbook A musica de Guinga (Gryphus Editora, Rio de Janeiro 2003), contenente 50 partiture ottimamente curate. Ha avuto con i suoi ultimi 4 dischi 4 nomination al Latin Grammy Awards come miglior rappresentante della Musica Popular Brasileira Guinga è nato il 10 giugno 1950 a Rio de Janeiro. Ha imparato a suonare la chitarra d’intuito a 13 anni. Ha iniziato a comporre a 16 anni, partecipando con la sua prima canzone al Festival Internacional da Cançao a 17 anni. Ha lavorato professionalmente accompagnando artisti quali Clara Nunes, Beth Carvalho, Alaide Costa, Cartola, Joao Nogueira. Per l’etichetta brasiliana Velas ha registrato 5 CD, tutti con grande successo di critica e di pubblico: Simples e Absurdo (1991), Delirio Carioca (1993), Cheio de Dedos (1996), Suite Leopoldina (1999), Cine Baronesa, (2001), Noturno Copabana (2003), Saudade do cordao (2008). In particolare, il CD Cheio de Dedos ha ricevuto il Premio Sharp 1996 come miglior disco strumentale, (Dà o pe Loro) e per la miglior produzione (Paulo Albuquerque). Per la Biscoito Fino ha 07 PRIMAVERA 2010 Pra que mentir. registrato Casa de Villa (2007); per l’etichetta italiana Egea i memorabili: Graffiando Vento, in duo con Gabriele Mirabassi (2004) e Dialetto Carioca (2008) con il suo meraviglioso quartetto brasiliano. Le sue canzoni, composte coi parolieri Paulo César Pinheiro, Aldir Blanc e, recentemente, Chico Buarque, sono state registrate da molti nomi importanti, fra cui Elis Regina, Michel Legrand, Sérgio Mendes, Chico Buarque, Clara Nunes e Ivan Lins. Leila Pinheiro ha dedicato l’intero CD Catavento e Girassol (EMI-Odeon 1996) alle sue composizioni con Aldir Blanc. Fra queste, Chà de Panela ha vinto il Premi Sharp 1996 come migliore musica popolare brasiliana. Si esibisce in tutti i più importanti Festival di jazz e di musica brasiliana internazionali. il film Contando sul continuo vai e vieni di Guinga tra Italia e Brasile, il regista italiano Massimo Dorzi racconterà in un film documentario questo genio della musica brasiliana. Il film si intitola Guinga. Pra que mentir. Particolare rilievo avrà il rapporto di Guinga con l’Italia da lui tanto amata, attraverso le arie d’opera cantate da Tagliavini, Caruso e Beniamino Gigli. L’inizio delle riprese in Italia è previsto per il marzo 2010 durante il soggiorno del musicista nel nostro paese per spostarsi in giugno a Rio De Janeiro dove Guinga è cresciuto come artista e come uomo. Il Brasile si appresta a festeggiarlo nel suo sessantesimo compleanno con grandi eventi culturali che vedranno la partecipazione dei più grandi musicisti brasiliani i quali troveranno anche ampio spazio all’interno del film. Non è esclusa una trionfale partita di calcio, nel campo del suo amico Chico, a Recreio. Online www.guinga.com Gli Album Italiani Graffiando Vento Egea Dialetto Carioca Egea 12 P R O F ILI Mondomix.com //a t t u a l i t à 13 Parola di Melingo El destino del tango està escrito en sus raices di Emanuele Enria Quando nei primi anni del Duemila comparve sulla scena musicale il fenomeno Gotan Project, si sbriciolò nel giro di qualche settimana la barriera dell’utilizzo di musica elettronica per un genere, il tango, che conservava ancora, nonostante l’avvento di Astor Piazzola, la grande regola della tradizione a tutti i costi. In fondo, però, c’era in questa uscita musicale qualcosa di molto in linea con la storia stessa del tango: era ancora una volta Parigi a legittimarla, la città che da prima di Carlos Gardel ha reso popolare il tango fuori dall’Argentina. TANGO NUEVO I Gotan Project, un gruppo di musicisti francesi ed argentini, erano riusciti ad attualizzare la sonorità del tango, quella sua straordinaria matrice ritmica che ha sangue africano, spagnolo, italiano e giudaico aggiungendovi il beat della musica elettronica. Il gioco era fatto: si era accumulato da tempo nelle orecchie di una nuova schiera di musicisti usciti dall’Argentina durante gli anni terribili del regime, con il tango come sostegno e condanna di un’identità tradita, il bisogno di uscire in una forma diversa, che non lo rinnegasse ma ne raccontasse i decenni successivi, che per quasi tutti volevano dire Europa. È stato qui che anche la voce di Melingo, con quel suono rauco, denso e sotterraneo ha sperimentato il suo potenziale, capace di creare al tempo stesso la melodia e un beat verbale di sonorità urbane. Merito, questo, anche del sui trascorsi nel rock. D’altronde, la storia stessa ci insegna che tutte le tradizioni hanno, prima o poi, bisogno di un rinnovamento, di un’apparente rottura talvolta, come di una finestra che aprendosi vuole guardare avanti e non solo indietro. Credo che il tango e il flamenco abbiano sperimentato e lo stiano ancora facendo, lo stesso fenomeno in questi ultimi 10 - 15 anni. Agli inizi del Duemila, quando parlavi con un argentino di almeno 60 anni di età, la soglia critica si chiamava ancora Astor Piazzola, tanto venerato in Europa quanto amato e discusso nel suo paese proprio per quella rottura con la tradizione: l’eterno tormentone, se ti imbattevi in una discussione, era se quello fosse o meno da considerarsi tango. Viene quasi spontaneo, parlando del rapporto tra tradizione e innovazione, usare il paragone col cibo, in quanto luogo per eccellenza di assemblaggio di materie di diverse provenienze: la ricerca delle radici, spiega mirabilmente Massimo Montanari, grande conoscitore della storia dell’alimentazione, «non giunge mai a definire un punto da cui siamo partiti bensì, al contrario, un intreccio di fili sempre più ampio e complicato a mano a mano che ci allontaniamo da noi. In questo intricato sistema di apporti e di rapporti non le radici, ma noi siamo il punto fisso: l’identità non esiste all’origine, bensì al termine del percorso…le radici sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la storia che ci ha costruiti». Tanto da arrivare a concludere che, in fondo, la tradizione può essere definita un’innovazione ben riuscita. MALDITO TANGO Pensavo a tutte queste cose dopo l’emozionante concerto di Daniel Melingo all’Espace di Torino, mentre presentava il suo ultimo album Maldito tango, condito nel finale dalla sua milonga più celebre, Narigòn, dall’album precedente, che interpreta a piedi scalzi quasi a volerne marcare le origini africane. All’uscita, un gruppo di argentini ormai stabilitisi in Italia, stava proprio parlando di come, grazie alle musiche di Melingo, alle sperimentazioni dei Gotan Project, al tango negro di Juan Carlos Caceres avevano riscoperto il tango. Così mi è venuto quasi spontaneo, a fine concerto, domandare a Melingo stesso in quale direzione vedesse andare il tango di oggi. Mi ha risposto con una frase che proprio lui e lo stesso Caceres sembrano rimbalzarsi quando parlano del tango: El destino del tango està escrito en sus raices (il destino del tango è scritto nelle sue radici). Come dire che si può innovare anche grazie a quel che già c’è nella storia di una musica, basta imparare a rileggerla in un altro contesto. In Maldito tango, un album splendido perché divertente, profondo, pieno di parole e di storie tratte e mescolate da grandi parolieri, Melingo riesce a rivisitare il genere tango cancion in maniera ironica ed amara. Talvolta triste come in Pequeño paria, che racconta di un bimbo abbandonato che «de las sombras nació, juega el juego de la sangre para matar su dolor. No conoce de alegrías de hielo es su corazón, de terror es su inocencia y de locura su amor», (nato nell’ombra gioca il gioco del sangue per uccidere il suo dolore. Non conosce allegria e il suo cuore è di ghiaccio, di terrore la sua innocenza, di pazzia il suo amore) o tornando nella Montmartre di oggi, dove i ricordi non tornano e ti trovi a camminare tra echi di tanghi in Rue Fontane e duendes de Arolas vicino a un bistrò. È un’immagine tanghera per eccellenza quella del confronto con i ricordi, che Melingo interpreta con un pizzico di atmosfera da cabaret, grazie all’uso del clarinetto, oltre a chitarra, contrabbasso e bandoneon, ma anche usando il suono della sega, quasi avvicinandosi a certe atmosfere alla Tom Waits. A un Maldito Tango, insomma. Moussu T e lei Jovents A’ l a c i o t a t ( E n t r e l ’ E s p a n h a e l ’ I t a l i a ) di Paolo Ferrari La voce è calda, venata di Mistral e lavanda, filtrata dal fumo dei club reggae; la melodia naturale, nipote di Vincent Scotto, leader dell’operetta marsigliese e profeta della Belle époque lungo la Canebière, cugina dei giamaicani più accorati, sorella del blues che si tinge di neo folk nelle periferie di tutta Europa. Moussu T oggi è un uomo di mezzo secolo d’età, continua a essere il verbo cantato più suadente del Massilia Sound System, nell’attacco a tre punte in cui lo affiancano gli aggressivi toni ragga di Jali e Gari. Ma lavora tanto sul suo progetto personale con Lei Jovents, combo che gli consente di liberare al meglio il talento innato verso la forma canzone tout court. Con le corde di Blu, anche lui nel famoso sistema sonoro, alle prese con chitarre e banjo; la batteria di Zerbino, leggero quanto basta per tenere anche dal vivo un assetto acustico; e con le percussioni di Jamilson Da Silva, che mette l’Occitania in asse con i Tropici. GLI ALBUM I tre dischi fin qui pubblicati propongono un eccitante ventaglio di sensazioni. Il primo è stato Mademoiselle Marseille, appiccicato alle strade della città, dove il cantante cerca Marsiglia perduta lungo i percorso di Jean – Claude Izzo, trovandola infine negli occhi di un bambino; e al tempo stesso alto nel cielo con il capolavoro Lo Gabian. Il secondo è Forever Polida, e sposta l’attenzione ancor più verso La Ciotat, il centro vicino al capoluogo dove vivono le stesso Tatou (questo il suo nome più diffuso) e Zerbino; è il centro di cantieri navali in cui i Fratelli Lumière immortalarono la prima stazione e il primo treno della storia del cinema, e in cui brilla un Boulevard Bertolucci che deve il nome a un partigiano. Poi è arrivato Home Sweet Home, più europeo e blues, in cui la travolgente Mar e montanha passeggia in lungo e in largo per tutto il comprensorio D’Oc. Fanno più di 40 canzoni, cui si aggiungono versioni, collaborazioni e tante immagini raccolte nel cd e dvd Inventè à La Ciotat. Tutto pubblicato con eleganza artigianale dalla familiare Manivette Records. IL PARADISO Titolo Maldito tango Etichetta Naive / Self Online www.danielmelingo.com 07 PRIMAVERA 2010 Occitano, francese, inglese; ironia e poesia, nostalgia e orizzonti meticci. Moussu T e Lei Jovents appartengono a quella non folta schiera di artisti in grado di elevare un contesto locale dai contorni ben definiti al rango di casa di chiunque passi da quelle canzoni, da quella voce, da quel suono. Al cospetto dell’uomo inseparabile dalla sua camicia blu di jeans, che si mette di proposito a nudo, seduto di fronte al pubblico senza chitarra, disarmato. Come aspettasse il suo turno per uno giocata di pétanque, canta e racconta. E si accalora nel tentare di spiegare come La Ciotat possa essere, contro ogni pronostico, il posto più bello del mondo. Il Paradiso. E forse è vero, perché non c’è ombra di campanilismo in tutto questo, bensì gioia di un quotidiano vissuto all’insegna della vita di bottega, tra il pastis del tramonto, le olive del litorale, le cicale dell’interno e il profumo dell’aglio in libera uscita dai ristoranti a prezzi popolari. Il fatto che il tuo paese ti sembri un Eden, gambe a mollo sulla banchina e pesci pigri all’amo, non vuol dire che lo vorresti fermo com’è. Tantomeno incontaminato da nuovi arrivi. Non significa cercare con ostinazione di difendere chissà quale tradizione. È l’esatto contrario, ma vallo a spiegare a tanti che da quel benessere locale traggono aggressività e nostalgia di sedicenti passati. Meglio allora ascoltare le storie di Tatou, camuffate da filastrocche per bambini o tinte di Brasile, appoggiate alla struttura della chanson più nobile o rapite dal prurito vertiginoso del bluegrass. Online moussut.ohaime.com Gli Album Mademoiselle Marseille (2005) Forever Polida (2006) Inventé à la ciotat (2007) Home Sweet Home (2008) Distribuzione Harmonia Mundi / Ducale 07 PRIMAVERA 2010 14 Mondomix.com Mirabassi nella foresta tropicale Il suo nuovo CD Miramari, un duo tra classico e popolare di Antonello Lamanna André Mehmari & Gabriele Mirabassi Miramari è l’ultima fatica discografica di casa Egea che vede all’opera l’eclettico André Mehmari, giovane pianista e compositore brasiliano, e Gabriele Mirabassi, uno dei massimi virtuosi contemporanei del clarinetto. Miramari è un acronimo in cui si fondono i nomi dei due autori, quasi a voler suggellare una fusione artistica perfetta. E ascoltando il disco si comprende subito l’affinità e la complicità del linguaggio che esiste tra i due. È l’ennesimo viaggio di Mirabassi in cerca di nuovi codici espressivi e l’incontro con Mehmari sembra essere quello che lascerà il segno. Cosa intende quando dice che l’utopia si è realizzata? L’utopia è stata quella di riuscire a trovare un luogo dove si potessero combinare il groove, lo swing, l’improvvisazione e la melodia con l’approccio cameristico. Questo in Brasile si pratica da sempre ed è normale. Questa utopia l’ho cercata anche in Italia. Anche nei miei percorsi discografici documentati da Egea c’è questa ricerca. S’intuisce questo tentativo di saggiare il terreno. E questi miei sogni li ho trovati in Brasile, perché lì c’è una tradizione consolidata. Tutte queste forme sono già presenti nella musica popolare, come nello choro e nel samba più antico. Nel disco, registrato nella foresta Amazzonica sulle montagne di San Paolo, ci sono tredici tra composizioni originali e reinterpretazioni di compositori brasiliani. Miramari si apre con Que falta faz tua ternura, con ospiti come Ricardo Mosca (batteria) e Zé Alexandre Carvalho (contrabbasso), in veste di accompagnatori ritmici anche in Mirabilis Mirabassi, mentre Vaidoso è un eccellente contributo al compositore brasiliano Moacir Santos. A completare il tutto un drop-in di stampo classico di Guinga Cançao Desnecessaria, cui segue Rasgando Seda, che risale al 2003, alla prima collaborazione tra Guinga e Mirabassi dell’album Graffiando vento. Come stato il suo incontro con Mehmari? È stato l’incontro ideale. Galeotto di questo incontro è stato Guinga - non a caso nel disco ci sono due sue composizioni. Ho conosciuto Mehmari in Brasile proprio durante uno dei miei concerti con Guinga. L’intesa è stata immediata, per poi diventare un connubio speciale tra un compositore e un interprete classico. Lui non ha neanche compiuto 30 anni e in Brasile è già diventato un mito. Polistrumentista e arrangiatore, è molto apprezzato, con i suoi complessi lavori per orchestre sinfoniche, come compositore classico e, come dicono in Brasile, popolare. E allo stesso tempo è possibile ascoltarlo in concerto insieme a Milton Nascimento. Solitamente, chi si avvicina alla musica brasiliana lo fa sulle orme dei pionieri degli anni ’60. E l’ingresso avviene per lo più con la bossa nova o con la samba. Come mai continui a scegliere generi diversi? In Brasile ho realizzato un sogno. O anche la quadratura del cerchio. Ho trovato la realizzazione della mia utopia. Ho sempre vissuto il rapporto con il jazz come una continua ricerca. In tutti i miei lavori mi sono sempre trovato su una specie di crinale fra il jazz, la musica popolare, la canzone d’autore, la musica classica, senza mai sposare esclusivamente un solo genere. Ho sempre avuto uno sguardo più complesso: la mia passione, il mio strumento, tutto rimanda ad un approccio che è più quello della musica da camera. La musica strumentale che prediligo è una nuova musica classica che swinga e vibra con lo stesso rigore, con lo stesso controllo, la stessa profondità strutturale, la stessa cura dei dettagli che è tipica della musica da camera. 07 PRIMAVERA 2010 Titolo Miramari Etichetta Egea Online www.myspace.com/gabrielemirabassi M ANOUC H E Mondomix.com //M USICA foto Natalie Sabot 16 Guida minima al jazz manouche La celebrazione del centenario della nascita di Django Reinhardt, a tutt’oggi l’unico europeo che sia riuscito a insidiare l’olimpo jazzistico afroamericano, riporta sotto i riflettori il gypsy swing, un genere troppo sovente considerato minore e accessorio. Dal capostipite alle ultime leve, dieci (più dieci) dischi per far cambiare idea agli scettici. di Piercarlo Poggio Django Reinhardt compie cent’anni, non certo invano. La sua eredità è stata ben raccolta, anche se non subito dopo la sua morte (avvenuta all’improvviso nel maggio del 1953), come spesso accade agli artisti fuori norma. Per un certo tempo pure nella sua patria d’adozione, la Francia, si è vissuto nel ricordo del maestro. Gli eredi Un pianto ininterrotto arrestato – oltre che da Stéphane Grappelli, compagno di avventure di Django negli anni Trenta e poi all’inizio del secondo dopoguerra – da un paio di eccellenti chitarristi che corrispondono ai nomi di Henri Crolla ed Elek Bacsik. Si tratta di due nomi un poco dimenticati, particolarmente attivi a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, da riscoprire in quanto anelli di congiunzione tra le atmosfere musicali della Parigi in bianco e nero e gli sviluppi successivi del manouche. Una corrente incarnata in primo luogo dalla figura luminosa di Biréli Lagrène, che dagli esordi giovanili degli anni Ottanta è costantemente maturato sino a porsi, oggi, come termine di riferimento per i nuovi e recenti adepti dello swing zingaro. Alla promozione e continuazione del quale ha contribuito in maniera sostanziosa anche Christian Escoudé, capace di attrarre una stella d’oltre Atlantico come Charlie Haden. Ma il jazz gitano è sovente, comprensibilmente, un affare di famiglia e di eredità, e il patrimonio va innanzitutto trasmesso di generazione in generazione. Una regola a cui non si sottraggono certo i Reinhardt, lungo una linea che da Joseph, fratello di Django, giunge oggi sino al nipote David, figlio di Babik Reinhardt (purtroppo scomparso nel 2001), il più lucido e innovativo della stirpe, capace persino di ricreare su nuove basi, in collaborazione con Romane, altro artista di ottimo livello, l’essenza del Quintette du Hot Club de France. E almeno altre due progenie vale qui la pena di citare: i Rosenberg olandesi e gli Schmitt. Stochelo Rosenberg ha messo in piedi con i fratelli una premiata 07 PRIMAVERA 2010 ditta che dispensa ormai da trent’anni ottimo gypsy swing; Tchavolo Schmitt e il cugino Dorado Schmitt, parenti dalle carriere separate, mantengono alta la bandiera della tradizione: il primo anche nelle vesti di attore dei film di Tony Gatlif, il secondo istruendo figli e nipoti al verbo reinhardtiano più puro. La lista dei discepoli di Django (chitarra dalla voce umana, come ebbe a definirlo Jean Cocteau) è pressoché infinita e non possiamo che limitarci a segnalare qualche nome di sicuro interesse e indubbia qualità: Boulou ed Elios Ferré, Raphaël Faÿs, Angelo Debarre, Fapy Lafertin, Rocky Gresset. Occorre però tenere presente che lo swing gitano non è un’esclusiva transalpina e ha saputo fare proseliti pressoché in tutta Europa, con punte d’eccellenza in Norvegia (Hot Club de Norvège), in Romania (Florin Niculescu, Costel Nitescu) e in Italia. in italia Nel nostro paese si è registrato infatti, in particolare a partire dagli anni Novanta, un forte interesse per il manouche. Tra i nomi di spicco vi figura Maurizio Geri, non solo esecutore raffinato ma anche autore di brani che senza snaturare la fonte d’ispirazione si segnalano per l’originalità delle soluzioni messe in campo. Non soltanto una bizzarria è però andare a riascoltare Luciano Zuccheri e il Quintetto Ritmico di Milano, propugnatori, negli anni Quaranta, di un repertorio che dovette fare i conti anche con le chiusure culturali del regime. In ogni caso, da qualunque prospettiva lo si osservi, l’universo manouche appare, oggi più che mai, vivo e palpitante, e, fatto piuttosto singolare, meta accattivante per strumentisti in cerca di musica di qualità e di alternative ai rock guitar-heroes degli anni Sessanta-Settanta. Da questo punto di vista il genio di Django assurge a simbolo di uno stato di eterna giovinezza che ne rende l’opera attuale e imperitura. 17 DJANGO REINHARDT The Classic Early Recordings In Chronological Order (1934-1939) JSP (5cd), 2000 Pur nel profluvio di nuove edizioni, più o meno integrali, che festeggiano l’inventore del manouche, la presente antologia rimane (per scelta dei brani, qualità di suono e prezzo) la migliore introduzione all’arte inossidabile di Reinhardt. Vi ritroviamo le storiche incisioni del Quintette du Hot Club de France e i primi incontri con i jazzisti d’oltre oceano (Bill Coleman, Coleman Hawkins). Per gli anni del dopoguerra, stilisticamente sfaccettati, si consiglia invece “Pêche à la mouche” (Verve, 2cd, 1992). HENRI CROLLA Notre ami Django Emarcy, 2001 Enrico Crolla (1920-1960), profugo napoletano approdato a Parigi in epoca fascista, tende a essere dimenticato dalle storie musicali. A torto, perché questo sentito omaggio dedicato a Reinhardt, di cui fu sodale fraterno, è opera di valore assoluto. Riservato per natura, Crolla fa viaggiare la sua chitarra sulle ali di uno swing tenue e trattenuto, ridando fiato a classici quali Minor swing, Nuages, Djangologie e Manoir de mes rêves in compagnia, tra gli altri, di Martial Solal, Stéphane Grappelli e Hubert Rostaing. ELEK BACSIK Guitar Conceptions Emarcy, 2000 Meteora caduta su Parigi sul finire dei Cinquanta, il chitarrista ungherese Elek Bacsik (1926-1993) non fa mistero delle sue origini gitane nell’affrontare temi quali Tenderly, Over The Rainbow, So What. Il suo tocco sullo strumento elettrico è quanto mai personale, stralunato e notturno, riuscendo a essere originale anche dove l’orecchio nulla si aspetterebbe. Trasferitosi nel 1966 negli Stati Uniti dopo una breve parentesi di gloria francese (collaborazioni con Bécaud, Aznavour, Gainsbourg, Barbara, Jeanne Moreau), di lui si perdono a poco a poco le tracce. CHARLIE HADEN & CHRISTIAN ESCOUDÉ Gitane Dreyfus, 1978 Oltre Atlantico l’interesse per Reinhardt è sempre stato ben dissimulato, quasi a volerne nascondere la grandezza. Il contrabbassista Charlie Haden è tra i pochi ad aver concepito un disco a lui dedicato. Lo fa in compagnia del chitarrista Christian Escoudé, tra i migliori interpreti manouche. Con fare circospetto e toni delicati, quasi impalpabili, l’inedito duo si applica a tratteggiare in finezza versioni di Bolero, Manoir de mes rêves, Nuages, Improvisation e Django, brano firmato dal pianista John Lewis nel 1953. BIRÉLI LAGRÈNE Routes To Django Le Chant du Monde, 2006 È un giovanissimo Lagrène quello che si ascolta in questa incisione, in parte live, realizzata sul suolo tedesco. Il suo debutto, a soli tredici anni, denota un virtuosismo fuori dal comune, ma anche una straordinaria musicalità e attenzione per la costruzione “in progressione” dei brani (molti composti da lui stesso). Qualche sfumatura di acerba irruenza giovanile non cancella la validità di un disco che contiene al suo interno quanto servirà a fare di Biréli il campione del gypsy jazz contemporaneo. STOCHELO ROSENBERG Seresta Hot Club, 1989 L’olandese Stochelo negli Ottanta ha costituito con i fratelli Nousche e Nonnie una ristretta impresa familiare, qui colta ai nastri di partenza ma che ancora resiste e bene. Tra i seguaci di Django sono senz’altro quelli più ortodossi, e forse questo spiega il loro successo anche presso insospettabili quali, ad esempio, Pavarotti e i Manhattan Transfer, con i quali hanno collaborato. Nel loro modo di trasvolare da All The Things You Are a Nuages e Georgia On My Mind c’è comunque assai più del semplice mestiere. ROMANE Swing For Ninine Iris, 1992 Chitarrista, Romane (Patrick Leguidecoq) è un gadjé, cioè un “sedentario”, un non gitano, il che non gli ha impedito di prendere molto a cuore la sua missione, svolta anche nel campo della didattica. La sua opera prima è una piccola perla, priva di cover celebri e in larga parte ideata da lui stesso sul piano compositivo. Lo asseconda un quintetto di livello, con tanto di batterista per meglio tenere il ritmo, pratica poco consueta nel genere. Tuttavia la musica al tatto è quasi cameristica, fluida e ricca di belle melodie. NEW QUINTET DU HOT CLUB DE FRANCE New Quintet Du Hot Club De France Iris, 2005 Babik Reinhardt ha dovuto per forza di cose imporsi un distacco dal magistero paterno. Così il suo fraseggio è stato per un po’ debitore del chitarrismo statunitense (Green, Montgomery). Qui gioca la carta nostalgia, recuperata anche nell’intitolazione del (super)quintetto. Completato da Romane, Philippe “Doudou” Cuillerier, Gilles Naturel e dal violino di Florin Niculescu, brillante sosia di Grappelli. Una feconda andata e ritorno tra passato e presente, tra slanci virtuosistici e pregevoli interazioni di gruppo. 07 PRIMAVERA 2010 18 R E IN H A R DT Mondomix.com //M USICA TCHAVOLO SCHMITT Alors? ...Voilà! Iris, 2000 Faccia da film, parsimonioso nelle uscite discografiche, Tchavolo è artista a cui piace il contatto umano. Lo si ritrova facilmente nei piccoli bar e alle feste della sua comunità, dove suonare diventa un piacere e non un mestiere scandito dai riti dello show-biz. Una libertà che qui trasuda in ogni traccia, in un susseguirsi di invenzioni e scarti improvvisi. Gli amici sono fidati: dall’onnipresente Romane a Niculescu, Cuillerier e Naturel, più l’accordeonista Ionica Minune. La forza della tradizione. DORADO SCHMITT Family Dreyfus, 2009 Per la sua ultima fatica Dorado ha voluto riunire la famiglia in foto e soprattutto in musica, per fare intendere che non mancano gli eredi quando sarà ora di raccogliere il testimone. Qualche ripresa reinhardtiana (Minor Swing, Nuages) e tanti nuovi brani, ché la vita e il manouche vanno avanti. Tre figli, un nipote e un cognato di peso (la “pompa” ritmica Hono Winterstein) fanno viaggiare la locomotiva che è un piacere, e pure gli aggregati (che son di lusso: Loeffler, Laurent, Huchard), spingono a mille. 19 Jean Baptiste Django Reinhardt Li berchi es, 23 g enna i o 1910 F o nta i nebl ea u, 16 ma g g i o 1953 di Mauro Zanda «Django, Django... hai amato solo lei» cantava addolorato Rocky Roberts nel celebre spaghetti-western di Sergio Corbucci. Riferimenti che andavano ad un carismatico cowboy e la moglie uccisa ma che, in fondo, potrebbero ben adattarsi anche al nostro racconto: appassionata storia d’amore tra un fenomenale musicista gitano, detto Django, e la sua inseparabile chitarra, la mitica Selmer-Maccaferri. Selmer E non vi fossero bastati… LUCIANO ZUCCHERI Quintetto Ritmico di Milano Riviera Jazz Records, 2002 I prodromi dello swing gitano di casa nostra sono impersonati dal chitarrista Luciano Zuccheri e dal Quintetto Ritmico di Milano. Magari i titoli fan sorridere (Ritmando sotto l’ombrello, Malinconia negra, L’uccellin volò volò), però la musica è di qualità. MAURIZIO GERI Manouche e dintorni Felmay, 1998 Nell’Italia che swinga, Geri ha saputo conquistarsi la piazza che merita in tempi non sospetti. Senza rinnegare Django, lo ha fatto coesistere con Gorni Kramer e con quell’ala “sperimentale” del folk italico che tante soddisfazioni ci ha già regalato. STÉPHANE GRAPPELLI Improvisations Emarcy, 2004 Compagno della prima ora di Django, Grappelli ha in seguito avuto una grandiosa carriera solista, nobilitando il violino nel jazz al pari di Stuff Smith e Joe Venuti. La fulminea agilità dei suoi a solo possiede radici lontane. FAPY LAFERTIN QUINTET Fine & Dandy Iris, 2003 Belga e chitarrista, Lafertin rimane a tutt’oggi ancora poco apprezzato. Fors’anche perché il suo stile è piano, privo di barocchismi a effetto, teso a ricercare la sospensione, a indagare i chiaroscuri. Il lato esistenziale del manouche. BOULOU FERRÉ & ELIOS FERRÉ Pour Django Steeplechase, 1979 Discendenti di un’antica famiglia musicale, i fratelli Ferré (e in particolare Boulou) hanno in carniere esperienze ampie e variegate. In “Pour Django”, tecnica strepitosa e fantasia galoppante rendono il disco emozionante e selvaggio. ANGELO DEBARRE & LUDOVIC BEIER Come Into My Swing! Le Chant du Monde, 2004 Un’accoppiata riuscita, alla seconda prova insieme dopo “Swing rencontre” (2002). Debarre è chitarrista ruspante, intriso di suoni dell’Est Europa, mentre la fisarmonica di Beier tralascia volentieri la muffa del bal musette per aprirsi alle asperità del jazz. RAPHAËL FAŸS Swing Guitar Le Chant du Monde, 2005 Inciso dal vivo al festival della chitarra di Liegi, l’album testimonia la scioltezza di dettato di Faÿs, in forza di una tecnica sopraffina. Il repertorio è qui decisamente djangologico, mentre negli anni successivi Faÿs si avvicinerà alla classica e al flamenco. TRIO GITAN 20 ans de Trio Gitan Nocturne (3cd), 2008 Un box da quattro stelle che raccoglie la produzione (“Live in Marciac”, 1987; “Swing Bohemien”, 2000; “Le nouveau Trio Gitan”, 2006) del gruppo avviato nel 1985 da Christian Escoudé con Babik Reinhardt e Boulou Ferré (poi Dorado Schmitt e infine David Reinhardt). 07 PRIMAVERA 2010 L’uomo sta infatti alla chitarra come Picasso sta alle arti figurative o Copernico all’astronomia: di rivoluzione si tratta, nell’accezione più squisitamente tecnica e stilistica del termine. Certo, allora era già emersa la stella di Charlie Christian, considerato a ragione il padre della chitarra elettrica. Ma in fondo Christian fu solo un bravo esecutore, perfettamente sintonizzato sul ritmo del proprio tempo, di certo però non equiparabile al rango stellare del maestro Reinhardt. Inutile girarci attorno, con Django si entra decisamente in un’altra dimensione, non solo tecnica. Il chitarrista di Liberchies fu infatti anche compositore di notevole caratura, e la sua musica, meglio delle parole, è in grado di raccontarci una forma mentis che andava molto al di là dell’approccio da improvvisatore. «L’originalità delle sue concezioni» scrive Fred Sharp in un celebre articolo del 1972 «si esprime soprattutto nella particolarità del suono, nella capacità di improvvisare, e in quel virtuosismo prodigioso che gli ha permesso di sviluppare idee musicali eccezionalmente feconde.» Dunque, ben lungi dall’essere un fenomeno da baraccone, Django fu virtuoso totalmente consapevole di mettere quelle preziose doti tecniche al servizio di idee musicali complesse e innovative. Che nel suo caso portarono per la prima volta il jazz nel cuore della musica gitana (o viceversa). FLORIN NICULESCU Djangophonie Le Chant du Monde, 2005 La Romania è una “riserva” musicale manouche non di poco conto, e Niculescu è violinista di limpida classe, tanto al servizio di altri quanto in proprio. Costel Nitescu (“Forever Swing, Forever Grappelli”, Le Chant du Monde, 2007) è l’altro nome da tenere a mente. ROCKY GRESSET Rocky Gresset Dreyfus, 2009 Insieme con Yorgui Loeffler e Steeve Laffont, Gresset rappresenta la nouvelle vague gitana. È un tipo di bella presenza, ma la sua musica non è patinata, benché più jazzy che manouche tout court. La compagnia del violinista Costel Nitescu gli giova assai. con Duke Ellington il jazz Fu la scoperta di Armstrong ed Ellington, 1931 circa, a svelargli l’epifania. È lui stesso a spiegare i motivi di quella fascinazione: «Il Jazz mi attraeva perché in esso trovavo una perfezione formale e strumentale che ammiro nella musica classica, ma che la musica popolare purtroppo non possiede.» Da quegli ascolti e considerazioni prenderà forma il leggendario quintette dell’Hot Club de France, rigorosamente acustico e senza batteria, con tre chitarre, il contrabbasso e il violino dell’alter-ego Stephane Grappelli. Pochi anni prima c’era stato il celeberrimo incidente, con la sua roulotte che prende fuoco e Django che, d’improvviso, si ritrova le dita piccole della mano sinistra totalmente inutilizzabili. Prima d’allora accompagna soprattutto al banjo i migliori bandeonisti della scena parigina; poi però, dopo l’incidente, finisce per adottare la chitarra, anche grazie alla lungimiranza di un dottore illuminato, che pensò bene di consigliargli l’applicazione sullo strumento come forma di terapia post-traumatica. È l’inizio di una nuova era. Django sviluppa uno stile unico nel suo genere, di quelli che facendo di necessità virtù finiscono per generare uno spartiacque epocale. Grappelli prova a descriverlo in una famosa intervista rilasciata nel 1954 al Melody Maker: «Ha acquisito un’abilità sorprendente con le prime due dita, ma questo non significa che non ha mai impiegato le altre. Imparò a stringere la chitarra con il dito mignolo sulla corda del MI e il dito successivo sul SI. Questo almeno vale per alcune delle proverbiali progressioni armoniche che Django probabilmente fu il primo ad eseguire sulla chitarra.» Ma in fondo si farebbe torto alla storia nel considerare quella menomazione come il fulcro assoluto, la conditio sine qua non della sua geniale alterità. Una storia costellata da aneddoti bizzarri (una scimmietta addomesticata, l’ossessione per il gioco, lo scarso bon-ton nelle occasioni formali) ma, in fin dei conti, nient’altro che un’appassionata storia d’amore: da un lato un esuberante musicista di etnia Sinti, dall’altro una chitarra acustica prodotta in neanche mille esemplari; da allora e per sempre, unicamente accostata a lui. «Django, Django hai amato solo lei» Online www.danielmelingo.com 07 PRIMAVERA 2010 UNIV E R SO K O R A Mondomix.com //M USICA foto Mattia Zoppellaro 20 anni in meno di Tourè e, come l’usanza africana vuole, lo trattava con il rispetto misto a tenerezza che avrebbe riservato ad un padre. Questa deferenza traspare anche dalle copertine degli album nelle quali il nome di Tourè appare per primo. C’è dunque un rispetto reciproco anche se, nonostante gli sforzi, la presenza del giovane Diabaté sembra dominante in entrambe le registrazioni. Ho provato la stessa sensazione anche ascoltando In the Heart of the Moon. Forse la sonorità della kora sovrasta quella della chitarra acustica? In ogni caso non troviamo qui nessuna dimostrazione del suo virtuosismo che invece compare nell’ineguagliato capolavoro in solo, Mandé Variations. Ali & Toumani di Akenataa Hammagaadji Nel giugno del 2005 l’etichetta discografica World Circuit realizzò un unico e dirompente album di duetti fra due grandi musicisti maliani: Ali Farka Touré e Toumani Diabaté. Si trattava di una collaborazione assolutamente fuori dell’ordinario. Tourè aveva partecipato insieme al chitarrista americano Ry Cooder alla realizzazione dell’album Talking Timbuctou che aveva vinto il Grammy, ancora oggi considerato uno dei più grandi esperimenti di world music poiché sebbene entrambi suonassero la chitarra, Cooder proveniva da una cultura che è separata da quella di Touré da un oceano e da un continente. cantante, Touré sì, ed è quindi sua la voce che ascoltiamo nelle tracce cantate e che danno maggiore rilievo alla sua presenza. Posso immaginare come la gente di Mandé riesca a riconoscere fin dalle prime note la melodia di Bé makan e a canticchiarsela mentalmente. C’è un proverbio africano che dice «come le dita di una mano, gli esseri umani non sono tutti uguali». La canzone ricorda alla gente di essere tollerante verso le diversità. In Warbé, Touré appare al suo meglio assumendo il comando mentre Diabaté gli funge da dinamico assistente, forse anche perché non si tratta di un brano tratto dal repertorio Mandingdièli bensì da quello Foulbé. Diabaté rimane talmente impressionato dall’abilità e dalla velocità del tocco delle dita di Touré, in questo brano, che ad un certo punto lo si sente esclamare Touré! invece di Fara! nel bel mezzo della registrazione. Fantastico! Touré conosceva la musica della cultura di Diabaté meglio di quanto Diabaté non conoscesse la sua. Questo spiega anche perché Ali Farka è sempre perfettamente a suo agio anche in brani come Sina Mory cantato in Maninkakan. Fu questo brano che lo spinse a diventare chitarrista la prima volta lo sentì, eseguito dalla chitarra di Keita Fodéba, nel lontano 1956. Nel brano di chiusura, Kala Dioula il soffice tocco delle percussioni si fonde perfettamente con il bellissimo gioco melodico instauratosi fra kora e chitarra. In the heart of the moon L’album è intitolato Ali & Toumani e a meno che la World Circuit non abbia conservato altre registrazioni da pubblicare in futuro questa è la fine del sodalizio fra Ali Farka e Toumani. Se così fosse non bisogna versare lacrime recriminando altre composizioni che mai arriveranno. A cosa servirebbe? Questo disco è il finale perfetto di una carriera e di un incontro che ha prodotto alcune delle più belle incisioni di musica africana che siano mai state realizzate fino ad oggi. Una testimonianza che ci apparterrà per il resto dei secoli. 07 PRIMAVERA 2010 PADRE E FIGLIO I comunicati stampa narrano come i 12 brani di In the Heart of the Moon furono registrati in tre pomeriggi all’ultimo piano dell’Hotel Mandè di Bamako da cui si gode una meravigliosa vista sul fiume Niger. Il nuovo album, che si intitola semplicemente Ali & Toumani, è stato realizzato invece a Londra in una serie di brevi sedute di registrazione. Diabaté è il catalizzatore. Visto il successo della prima collaborazione, Toumani ha insistito per la realizzazione di un secondo album. Si rendeva conto che il tempo di Ali Farka era in via di esaurimento. In effetti pare che Touré soffrisse parecchio e che durante la realizzazione del disco abbia più volte dovuto fermare la registrazione per riprenderla dopo brevi soste. Diabatè aveva circa 25 foto Christina Jaspars foto Luca Vergano Il sodalizio Touré-Diabaté appare più naturale, la scarsa conoscenza della storia del Mali e delle sue tradizioni porta a considerare quest’incontro come quasi scontato. Ma così non è. L’incontro rientra negli esperimenti di fusion. Touré appartiene al gruppo etnico Songhai e per quanto questa cultura si sia evoluta da quella Mandè ha, nei secoli, sviluppato tradizioni culturali e musicali originali distinguendosi nettamente da quella del resto del Sud del paese a cui appartiene Toumani Diabatè. Se si dovesse scrivere un libro sui trionfi raggiunti dai due musicisti con la nascita del loro primo duetto In the Heart of the Moon occorrerebbero diversi capitoli. Impossibile non parlare della nomination al Grammy Award, che giunse nel 2005, o ignorare l’assegnazione del premio, avvenuta nel febbraio 2006. è come celare, appena un mese dopo, la triste notizia della dipartita di Ali Farka che dà a questa storia un sapore tragico e drammatico senza per altro scriverne la fine. Naturalmente Touré sapeva di essere malato e ha colto ogni occasione per aggiungere altri grandi momenti di musica da lasciare in eredità. Cinque mesi dopo la sua morte la sua etichetta, World Circuit, ha realizzato il meraviglioso Savane ed ora, ancora quattro anni dopo, è pronto il secondo volume delle sue collaborazioni con Toumani Diabaté. Strumento tipico dei Griot (cantastorie) dell’Africa Occidentale la kora dagli anni settanta è diventata strumento solista svincolandosi dalle parti cantate fino ad assurgere a voce principale fra gli strumenti dell’universo musicale africano. Questo grazie a grandi maestri come Toumani Diabate, Ballake Sissoko, Foday Musa Suso e Djeli Moussa Djawara nonchè ad un’ampia schiera di giovani talenti come Mamadou Diabate, recente vincitore del Grammy, Ablaye Sissoko e Sona Maya Jobarteh, unica donna della partita. 21 Titolo In the Heart of the Moon Etichetta World Circuit / IRD Ali & Toumani Le registrazioni formano una splendida, luccicante, collezione di gioielli. L’album si apre con Ruby un brano cui Touré ha voluto generosamente dare il nome della figlia del produttore, seguito da un brano folk con echi di sabor latino Sabou Yerko, grazie anche al basso di Orlando Cachito Lopez. Fortunatamente le irritanti sovraincisioni intrusive che spesso Ry Cooder in passato ha inserito nelle sue produzioni, in questo caso sono ridotte al minimo. Sovraincisioni di armonica come in Savane avrebbero reso l’album inascoltabile. 56 regala lo stesso suono di metallo brunito e luccicante sia alla kora che alla chitarra ma senza lo swing di Sabou Yerkoy. Toumani Diabaté non è Titolo Ali & Toumani Etichetta World Circuit / IRD Online www.myspace.com/alifarkatoureofficial www.myspace.com/toumanidiabate 07 PRIMAVERA 2010 22 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE Mondomix.com //M USICA Ballaké Sissoko e Vincent Segal Camera con vista interiore www.felmay.it FELMAY di Piercarlo Poggio Una strana coppia si aggira nella world music. Sono differenti in tutto, per formazione, mentalità, identità culturale e stirpe. Maneggiano arnesi, la kora e il violoncello, che non possiedono nemmeno una lontanissima parentela, e mai parrebbe possibile farli interagire. Eppure l’ascolto di Chamber Music è l’esatta dimostrazione del contrario, perfetto intreccio di universi lontani, simbiosi delicata tra esseri dotati di estrema sensibilità. Abbiamo domandato direttamente ai protagonisti, prima di un concerto torinese, di svelarci il mistero. «Sono differenti in tutto, per formazione, mentalità, identità culturale e stirpe». Riferendosi al loro primo incontro, avvenuto diversi anni addietro, Segal afferma che «Ballaké si è interessato al violoncello perché il suono grave gli ricordava quello del bolon, uno strumento tradizionale maliano a tre o quattro corde. Lui aveva inciso per Label Bleu e in quel periodo anch’io avevo lavorato con quell’etichetta, così ci è capitato di incontrarci in occasione di un concerto tenutosi ad Amiens. Ballaké in seguito mi ha domandato di collaborare con lui, cosa che abbiamo fatto per molto tempo. A Parigi abbiamo passato insieme giornate intere a suonare e a discutere di musica nelle rispettive case, per il semplice piacere di farlo, creando una relazione di amicizia fraterna. L’esigenza di incidere un disco è venuta solo di recente. E il titolo rispecchia quella particolare condizione in cui ci siamo ritrovati, noi due, soli, in una stanza a creare. Non c’è nulla di ironico nell’espressione musica da camera, nessun antiaccademismo: è soltanto la fotografia di quanto avvenuto. E poi Ballaké aveva un ricordo preciso di quando, assai piccolo, sentiva suonare suo padre Jelimadi [uno dei grandi suonatori di kora della generazione precedente, ndr] in un angolo della casa. Egli suonava in modo assai diverso rispetto a quanto gli accadeva in occasione di feste e concerti». Sissoko conferma che «Prima di prendere la decisione di fare un disco abbiamo passato molto tempo a cercare di capire che cosa poteva scaturire dal nostro incontro, mentre aumentava l’intesa e la solidarietà». Segal ritiene che «musicalmente, le cose migliori nascono da processi di lunga durata, da relazioni non episodiche tra artisti; è vero, talvolta si creano situazioni felici anche tra chi si incontra una volta sola, come avviene nel free, ma ciò capita solo a musicisti esperti, che pensano allo stesso modo. A me invece piace procedere in modo regolare, continuo: lo paragono al lavoro del contadino. Inoltre mi interessa operare su musiche non scritte, legate all’immaginazione. Se mettiamo sulla carta quanto facciamo io e Ballaké si scopre che sono pochissime note, tutto è molto semplice. Non partiamo mai con qualcosa di scritto. Ballaké inizia a produrre una piccola melodia e poi ci giriamo attorno tutta una notte, per vedere come funziona sul piano anche ritmico, come “danza”, dove ci porta. Tracce si conservano poi nella nostra memoria, così quando la volta successiva torniamo a suonare, qualcosa si è perso ma qualcosa rimane. Non abbiamo bisogno di parlare per comprendere se quello che stiamo facendo funziona o meno, basta incrociare gli sguardi. Ballaké ha un grande orecchio. Certo ci è voluto del tempo per raggiungere questo equilibrio, io non avrei mai potuto fare ciò a diciott’anni, serve anche dell’esperienza». «Se mettiamo sulla carta quanto facciamo io e Ballaké si scopre che sono pochissime note, tutto è molto semplice». Per Sissoko «ogni soggetto ha le sue qualità, io amo fare cose differenti, sperimentare con musicisti diversi; ho suonato molto in duo, e ogni volta è una storia a sé. Il dialogo con il pianoforte l’ha voluto Ludovico Einaudi, questo con il violoncello l’ho deciso io. Il bolon mi offriva minori possibilità di dialogo, mentre con Vincent mi posso esprimere meglio e di più. Sono molto soddisfatto del risultato, perché non mi piace dover discutere troppo di musica prima di suonare. Con lui basta prendere un caffè e via, parlano gli strumenti al nostro posto». «In effetti,» interviene Segal, « durante le sedute d’incisione effettuate a Bamako abbiamo cercato di ridurre al minimo le problematiche e le responsabilità tecniche legate alla produzione, per avere attorno a noi la stessa atmosfera casalinga dei nostri incontri parigini. Abbiamo suonato e registrato tre notti di fila, in modo tranquillo, lasciando che la musica facesse il suo corso». «Quando si ha la mente presa da preoccupazioni organizzative non si può dare il meglio di se stessi sullo strumento, manca lo spirito giusto», precisa Sissoko. Per Segal, infine, «è fondamentale creare un “ascolto” tra i musicisti, per giungere a una tensione dinamica positiva, a uno stato non troppo confortevole. Noi cerchiamo di fare in modo che ciò accada anche nei concerti: preferiamo suonare in piccoli locali, in modo da conquistare all’attenzione il pubblico; è importante che esso si ponga nei nostri confronti allo stesso modo in cui si va a teatro: ci vuole del silenzio, dell’attesa da entrambe le parti per riuscire a entrare in comunione». 1 2 7 8 9 10 11 12 16 17 18 19 20 vol. 2 - Azmaris urbains des annèes 90 vol. 3 - L'age d'or de la musique ethiopienne moderne 1969-1975 vol. 4 - Mulatu Astatke Ethio Jazz & Musique Instrumentale, 1969-1974 felmay 07 PRIMAVERA 2010 4 5 13 14 15 EGEA distributore esclusivo per l’Italia 6 thiopiques new vol. 1 - L'age d'or de la musique ethhiopenne moderne 1969-1975 Titolo Chamber Music Etichetta Ponderosa Online vids.myspace.com/index. cfm?fuseaction=vids.individual&videoid=60637959 3 21 22 23 new 24 25 vol. 5 - Tigrigna Music 1970-75 vol. 10 - Tezeta - Ethiopian Blues and Ballads vol. 15 - Europe meets Ethiopia - Jump to Addis vol. 6 - Mahmoud Ahmed Almaz 1973 vol. 11 - Alèmu Aga - The Harp of King David vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu The Lady with the Krar vol. 12 - Konso Music & Songs vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè vol. 13 - The Golden Seventies - Ethiopian Groove vol. 19 - Mahamoud Ahmed 1974 - Alèmyè vol. 24 - L'age d'or de la musique ethiopienne moderne 1969-1975 vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya Negus of Ethiopian Sax vol. 20 - Either Orchestra & Guests - Live in Addis vol. 25 - Modern Roots 1971/1975 vol. 7 - Mahmoud Ahmed Erè mèla mèla 1975 vol. 8 - Swinging Addis 1969-1974 vol. 9 - Alèmayehu Eshété vol. 18 - Asguèbba ! vol. 21 - Emahoy Tsegué & Maryam Guèbrou Piano Solo vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté 1972/1974 vol. 23 - Orchestra Ethiopia felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy ph +39 0142 50 577 fax +39 0142 50 780 [email protected] www.felmay.it 24 M E NNA Mondomix.com //M USICA 25 Foday Musa Suso: Moderno Griot di Giulio Cancelliere Il gambiano Foday Musa Suso è stato probabilmente il primo suonatore di Kora a raggiungere la popolarità globale, grazie, oltre che al suo talento, alle numerose collaborazioni con musicisti americani di diversa estrazione: Herbie Hancock, Bill Laswell, Kronos Quartet, Philip Glass, Paul Simon, Jack DeJohnette. In tutto questo, ha giocato un ruolo importantissimo il fatto che, dopo avere studiato e insegnato musica in Africa Occidentale, si è trasferito negli Stati Uniti a Chicago, dove è venuto a contatto diretto con il mondo del blues e del jazz, coi quali ha contaminato il suo stile e ai quali ha fornito il suo grandioso contributo. Vorrei che mi parlassi della kora, di dove è diffusa e quali sono le principali accordature usate. La kora è diffusa prevalentemente in cinque Paesi dell’Africa Occidentale: Mali, Guinea, Guinea Bissau, Gambia e Senegal. Sono i Paesi dove sono nate le più importanti famiglie di Griot, gli aedi, i depositari della tradizione orale mandinga. Le principali accordature sono tre e dipendono dai dialetti parlati in queste aree. A seconda del dialetto parlato si accorda diversamente la kora? Esatto, è come se il suono dello strumento si accordasse col suono della lingua. La lingua è una, ma è un po’ come succede per l’inglese che si parla in Inghilterra e quello americano. Io vengo dal Gambia e l’uomo che inventò la kora era un mio antenato, Jali Madi Wlen Suso, che compose una canzone molto famosa dedicata alla storia epica di Kelefa Saane, un grande guerriero della Guinea Bissau. Comunque c’è l’accordatura Tomora, Hardino, Sauta e Silaba. Ma sono quattro, non tre. Adesso ti spiego. Sauta è diffusa in Mali e Guinea; Hardino e Tomora sono diffuse in Gambia, Guinea Bissau e Senegal; Silaba, in realtà, è la Tomora, ma necessita di quattro corde in più e molta gente non la conosce. Inoltre, sin da ragazzo io ho cercato di fare cose diverse, aggiungendo fino a sei corde in più ai miei strumenti per arricchirne le possibilità. Come è cambiato lo stile dei suonatori di kora nel tempo, anche in funzione delle trasformazioni dello strumento? Diciamo che lo strumento non è cambiato molto, se non per le corde, che un tempo erano di budello e ora sono di nylon. Queste ultime sono molto più resistenti e hanno un suono più brillante. Poi certamente la musica cambia, si evolve, si contamina. Nella nostra tradizione non sono i genitori che insegnano ai figli la musica. Mio padre, che era un bravo suonatore di kora, mi ha mandato da un altro maestro, Sekou Suso. Con lui ho studiato nove anni, ma ho viaggiato parecchio, tra Mali, Guinea Bissau e Casamance (Senegal) e ho avuto modo di venire in contatto con i diversi stili di queste aree. Per un ascoltatore non africano può sembrare tutto piuttosto omogeneo, ma gli stili si differenziano moltissimo per accordature, tecniche e attitudini. Un suonatore del Mali, che voglia suonare con uno del Senegal avrà grosse difficoltà, perché gli stili non coincidono. Di più: se vedi un suonatore di kora che canta, stai sicuro che viene dal Gambia, dal Senegal o da Guinea Bissau, perché fa parte della tradizione, mentre in Mali il suonatore di kora non canta. Cosa significa essere un Griot oggi? È un po’ diverso rispetto al passato, ma non così tanto. In fondo il destino del Griot è di viaggiare e spostarsi da un villaggio all’altro, da un Paese all’altro. Oggi che il mondo è più piccolo, non ci spostiamo da un villaggio all’altro, ma da un continente all’altro, da soli o in piccoli gruppi, ma il destino di viaggiatori ci segue sempre. Persino nell’Africa Occidentale non è cambiato tantissimo: certo, se vivi a Dakar o in un’altra grande città la tua identità di Griot è praticamente sconosciuta, ma nei villaggi l’atteggiamento nei nostri confronti è sempre di rispetto e affetto. Online www.fmsuso.com Alcuni Album Mandingo Griot Society Flying Fish / IRD con Don Cherry Pieces of Africa Nonesuch / Wea con Kronos Quartet 07 PRIMAVERA 2010 Village Life Sony con Herbie Hancock Music from the Screens Point / Universal con Phillip Glass Il mondo della banda di Fabio Barovero foto Sebastiano Piccione La scena del film La ragazza sul ponte di Patrice Leconte, dove Vanessa Paradis gira sulla ruota della morte mentre il lanciatore di coltelli Daniel Auteuil rischia di ucciderla, è accompagnata da una musica solenne e drammatica. Le prime note dei bassi sono telluriche, sembrano annunciare l’entrata dell’inferno. (Per Domenico Morelli - Banda Ionica dall’album Passione). E’ sorprendente svelare che la maggior parte dei musicisti di quella partitura sono bambini, ed è difficile immaginare questi giovani esecutori intenti poco prima ai compiti di scuola, a far merenda preparata dai genitori, a giocare lungo la marina di Avola, in Sicilia. E’ anche un ensemble transgenerazionale la banda. Ed è per questo che mi trasmette una fiducia e un senso di appartenenza che nessuna formazione musicale riesce a comunicarmi. Non sa solo di nostalgia, di storia d’Italia, di cultura alta e bassa, di sud e di nord, di circoli musicali, di dopolavoro e doposcuola, ma da la sensazione che un mondo più armonico sia possibile. Certo, possono accadere cose terribili ai bambini distratti e non professionisti, come quella volta a Torino durante la festa finale di Terra Madre, in piazza Castello, con i più giovani avolesi quasi tutti sul palco poco prima di suonare e tutte le carpette con gli spartiti dimenticate sull’autobus. Un mistero come tutto si sia risolto. Come i protagonisti dell’orchestra del film Il concerto di Radu Mihaileanu in questi mesi nelle sale, che appena arrivano a Parigi si disperdono nell’eccitazione di combinarne di tutti i colori e magicamente si ritrovano all’ultimo minuto ricomposti sul palcoscenico a diventare un corpo unico per la musica. Oggi dopo l’esperienza della Banda Ionica i ragazzi del maestro Bell’arte si sono tolti le divise risorgimentali di dosso, che li facevano sembrare le marionette di un museo ambulante. Tutti hanno capito che sono usciti dalla prigione istituzionale che li relegava ad eseguire esclusivamente i momenti dettati dal calendario dei santi. Oggi sanno che oltre a Sicilia bedda e alla marcia della polizia è meglio arrangiare le canzoni dei cantautori illuminati come Mirco Menna. Usare la musica per controllare e regolamentare l’individuo è un torto pericoloso, da televoto, dove tutto può solo funzionare con atti ripetitivi e alienati, per accorgersi che poi è troppo tardi per togliersi l’alienazione di dosso. 07 PRIMAVERA 2010 26 M E NNA Mondomix.com //M USICA 27 Di canzoni e di bande: e Mirco Menna ride Mi sia perdonata l’autocitazione: «cento altri dischi così» auguravo agli autori, al lettore e a me stesso chiudendo su altre colonne una recensione di ’A banna!, album d’esordio per la Banda di Avola. Lavoro entusiasmante per come – con l’accorta regia di un Fabio Barovero al tempo fresco di secondo trionfo con la Banda Ionica – lucidava a nuovo, con attitudine ludicissima, spartiti del terzo decennio dello scorso secolo. Spasso e poesia cento, musealità zero. Naturalmente non potevo immaginare che ci sarebbero voluti sei anni e mezzo per ascoltare un secondo disco con protagonista la folta, e mediamente assai giovane, compagine guidata dal maestro Sebastiano nomen omen Bell’Arte. Apposta non ho scritto «un successore». Appena pubblicato da Felmay, …e l’italiano ride in comune con l’album prima ha la casa discografica, la produzione di Barovero e poco d’altro. È il frutto di un incontro che si rivela felice e di una scommessa che pareva azzardata: portare la canzone d’autore nell’universo delle bande di paese. L’autore in questione è Mirco – oppure Mirko, come si legge nella scheda di Wikipedia del gruppo di cui è stato prima il percussionista e poi la voce, il Parto delle Nuvole Pesanti – Menna. Bolognese, 1963-vivente come incurante di ogni scaramanzia recita il suo sito web, il nostro uomo prima di questo aveva realizzato un paio di lavori in proprio - Nebbia di idee nel 2002, Ecco nel 2005 – poco notati ma molto apprezzati dai pochi che li notarono. Fra costoro, tal Paolo Conte che spendeva al riguardo belle parole. …e l’italiano ride riprende un paio di brani dal primo, cinque dal secondo e completa la scaletta con quattro canzoni scritte appositamente. Va da sé che gli arrangiamenti creati per l’occasione trasfigurino totalmente composizioni che prima qui latineggiavano e lì swingavano. Salta subito all’orecchio come mai fossero tanto piaciute all’avvocato di Asti. «Ma in Italia il connubio fra il gusto melodico che ci è proprio e un certo jazz non l’ha comunque inventato lui, c’è una tradizione che precede Conte e va da Renato Carosone a Fred Buscaglione, passando per Natalino Otto», sottolinea Menna, incontrato per due chiacchiere nel retro di un negozio torinese di dischi in un sabato di fine febbraio. Quale il percorso che ti ha portato da Bologna ad Avola, che non è proprio dietro l’angolo? Mi sono ritrovato a suonare da quelle parti con il Parto delle Nuvole Pesanti ed è stato così che ho conosciuto il maestro Bell’Arte e i suoi ragazzi. L’idea di fare qualcosa insieme è partita da loro e l’ho subito accolta con entusiasmo. A Bologna la situazione è un po’… stagnante, in generale e per me in particolare. Mi conoscono tutti, anche perché sono in giro da un paio di decenni benché poi discograficamente sia stato un esordiente tardivo, ma è un posto dove essere profeti in patria è forse più difficile che altrove. C’è Guccini, che però è – come dire? – importato. C’è il giro Dalla-Ron-Stadio, dal quale io però musicalmente sono lontano così come ho poco da dividere, facendo un salto generazionale, con i vari Carboni e Bersani. Mi sento più vicino a un Claudio Lolli, con il quale non a caso il Parto – altri bolognesi d’importazione, tutti calabresi di nascita a parte me - ha collaborato riarrangiando Ho visto anche 07 PRIMAVERA 2010 degli zingari felici. Il mio rapporto con il Meridione è in ogni caso parecchio antecedente all’incontro con il Parto delle Nuvole Pesanti. Il Meridione è da sempre casa mia almeno quanto Bologna, essendo mia madre siciliana, mio padre campano di famiglia e poi adottivo lucano. Adesso capisco come mai risulti tanto convincente ed efficace in Chi mi facisti fari, che è in parte in siciliano e fra l’altro è uno dei due soli pezzi che hai scritto completamente da solo. È una lingua che ho in bocca da sempre, come il napoletano e difatti il mio primo album si apriva con una canzone, Migranti, che ha il ritornello in dialetto campano. Quasi tutti i brani ripresi da Nebbia di idee e da Ecco sono frutto di un lavoro condiviso e paritario con Paolo Di Nanni, che è il mio compare storico ed è più grande di me. Lo conosco da quando ero bambino e addirittura la chitarra ho imparato a suonarla facendo canzoni sue. Di due dei brani realizzati ex novo per questo disco ho scritto solo le parole. La musica di Evviva è del maestro Bell’Arte e credo che si avverta che l’ha composta uno totalmente immerso nella tradizione bandistica. Lo spartito di Vieni a trovarmi me l’ha invece passato Barovero e mi ha ispirato un testo per me inusualmente intimista, quando invece di solito sono uno che tende a osservare il mondo come da una finestra. Che rapporto avevi con il folk prima di questo album? Quando i miei coetanei compravano il punk io compravo la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Quanto al modo in cui suona una banda, all’impatto anche fisico che ha, fa parte dei miei ricordi d’infanzia, delle processioni cui assistevo durante le vacanze estive, nelle feste patronali. Mio padre aveva pure dei dischi di bande, ma quelli al tempo non mi interessavano, non li ascoltavo. Era l’esperienza dell’incontro diretto a esaltarmi ed è un qualcosa che mi è rimasto sottopelle. Le canzoni nuove sono state pensate in maniera diversa rispetto a come le avresti scritte dovendole poi suonare con un gruppo più canonico? Non credo. Piuttosto sono state influenzate dai posti, così come dalle cose che stavano succedendo in Italia – eravamo all’inizio dello scandalo delle puttane di regime – e di cui inevitabilmente si finiva per parlare. Il titolo stesso del disco viene da una storia che mi ha raccontato Bell’Arte a proposito di questo suo amico tedesco che, ogni volta che nota una stortura nostra, commenta dicendo che «in Cermania qveste cose non zuccedono». E invariabilmente finisce con: «E l’italiano che fa? L’italiano ride». Che è un bel modo di interpretare allegramente la malinconia… No, devo dire che non c’è stato un lavoro diverso sulla metrica e una delle cose di cui siamo più contenti è proprio quella che notavi prima tu, cioè che, se uno non lo sa, all’ascolto non se ne rende conto che certe canzoni – la maggioranza - in origine non erano state scritte per una banda. Non c’è scollamento, non c’è maniera. È un lavoro che mi sembra abbia una sua coerenza, forse proprio perché il mondo bandistico fa parte delle mie radici. Poi è chiaro che il resto proviene da una scuola cantautorale classica cui mi sono indubbiamente abbeverato. Disco difficilotto da portare in tour. Praticamente impossibile. Sì. Soprattutto perché chi li paga vitto e alloggio a cinquanta musicisti? Un cinquantetto! (ridacchia) Vedremo, foto Sabastiano Piccione di Eddy Cilìa a seconda dei riscontri che ci saranno. Magari ci limitiamo a qualche spettacolo in Sicilia. Resterà una cosa estemporanea o è immaginabile un seguito? Io un altro paio di pezzi pensati per la banda già li ho scritti. E uno mi piace particolarmente. Titolo ...e l’italiano ride Etichetta Felmay Online www.felmay.it Video www.youtube.com/watch?v=HDTmBolmAZI Se volete saperne di più Titolo ‘A Banna! Artista Banda di Avola Etichetta Felmay Titolo Matri Mia Artista Banda Ionica Etichetta Felmay 07 PRIMAVERA 2010 28 CA M A R Ó N D E LA ISLA Mondomix.com //M USICA Storia di un re gitano La musica e la leggenda di Camarón de la Isla, il cantante flamenco più tributato in Spagna di David Valderrama esercizio esegetico se si vuole comprendere appieno come uno zingarello, che a soli sette anni cantava nelle osterie o all’ingresso della stazione tranviaria di San Fernando (Cadice),in cambio di pochi spiccioli, sia potuto diventare una leggenda tributata in tutta la Spagna e sia stato commemorato con monumenti tali da fare invidia al più illustre dei rappresentanti le istituzioni. A differenza di altri generi cantati il flamenco ha una preistoria popolare che si perde e si intreccia con le tradizioni musicali araba, andalusa, castigliana, ebraica e, naturalmente, gitana. Prendendo a prestito le parole del grande poeta granadino e profondo conoscitore della cultura flamenca Federico Garcia Lorca, il cante jondo è «Un canto profondo, molto più profondo di tutti i pozzi di tutti i mari del mondo, ancora più profondo del cuore che oggi lo crea, della voce che oggi lo canta. È un canto quasi infinito, viene da molto lontano attraverso gli anni i mari e i venti del tempo, viene dal primo pianto, dal primo bacio». Camarón la profondità del canto la conosceva, la interpretava e soprattutto l’amava come pochi altri. José Monge Cruz, questo il suo vero nome, era l’incarnazione del duende (folletto) gitano. Figlio di Juana e Luis, fabbro lui canastera lei, respira il flamenco non appena viene al mondo. Nasce il 5 dicembre 1950 in una strada, l’Amargura, dalle inequivocabili risonanze flamenche. Il padre muore di tubercolosi, cosa che lo costringe a esibirsi in ogni dove per apportare un contributo alle magre finanze familiari. Tutte condizioni che sembrano tessere la ragnatela di una storia dai risvolti leggendari. Dodicenne incanta il pubblico del Festival de Montilla (Cordova) aggiudicandosi il primo premio. Si racconta che in quegli anni molti artisti, signorotti benestanti o semplici appassionati facessero a gara per ascoltare il “bambino prodigio” mentre si esibiva di pomeriggio, vista la giovane età, nel piccolo tempio flamenco dell’isola di San Fernando, la Venta de Vargas. Di certo c’è che a notare il ragazzo fu il divo del flamenco Manolo Caracol e che con insistenza cercò di scritturarlo per il suo tablao flamenco di Madrid, il leggendario “Los canasteros”. Ma i tempi non erano ancora maturi e Camarón preferì andare a Malaga dove trascorse un periodo come cantante della Taverna gitana. Nell’isola, attorno alla baia, dove sanguina l’oleandro e ondeggiano le palme, venne il canto in questo regno di luce. Quel giorno, tremarono le palme e le chitarre. (..) Accanto alle onde del mare, nella via de la amargura, ai piedi delle antiche case, piene di lamenti, di urla di rame e di pareti di calce bianca, non molto lontano dalla fucina, diede alla luce Juana la Canastera e la luce divenne subito canto. Francisco Arias Solis Recentemente mi è capitato di parlare di Camarón de la Isla con alcuni giovani amici andalusi. Ognuno di loro, malgrado nessuno superasse i venticinque, nutriva una profonda devozione per questo maestro del flamenco deceduto diciassette anni fa. Non erano soliti ascoltare il flamenco, preferendogli le nuove evoluzioni musicali iberiche, ma tutti riconoscevano in Camarón un talento fuori discussione e nutrivano una profonda stima nei confronti di un artista che aveva saputo internazionalizzare la musica gitana dell’alandalus. Pertanto, conoscere a fondo la vita e l’opera di questo grande artista diventa 07 PRIMAVERA 2010 L’incontro con Paco de Lucia e il successo Per il suo fascino e la sua velocità, per essere un dio terreno per un popolo senza rotta, i versi che passarono dalla sua gola di seta sono rimasti, per sempre, imprigionati nell’etere del flamenco. Ricardo Pachon Compiuti sedici anni Camarón si sente ormai pronto per la capitale, desideroso di dimostrare al mondo che il suo non è il talento passeggero di un bambino prodigio. Con in tasca alcune pesetas e una lettera della madre che attestava la sua età - e quindi l’abilità al lavoro - si imbarca sul primo treno con destinazione Madrid. In questo modo ha inizio un’avventura che avrebbe segnato per sempre il flamenco del XX secolo. Ben presto entra a far parte della compagnia di Juanito Valderrama con la quale va in tournee europea e nel 1968 viene scritturato a Torres Bermejas, il locale flamenco dove ogni cantante sogna di esibirsi almeno una volta nella vita. Probabilmente la fama di Camarón non avrebbe raggiunto i picchi che abbiamo conosciuto se nel 1967 non avesse iniziato un sodalizio musicale durato dieci anni con l’altro gigante del flamenco: il chitarrista Paco de Lucia. Uniti da una comune passione oltre che dalla giovane età, i due stringono un’amicizia fraterna. Paco diventerà una specie di fratello maggiore nella vita privata, sempre pronto a sostenere il debole amico che sempre più spesso si abbandona agli eccessi di una vita sregolata fatta di feste fino all’alba e di abuso di droghe. Ma è ancora presto per parlare delle fatalità, adesso è il momento della fama e di quella musica che prima di essere innovata andava imparata, perfezionata, condotta agli estremi. Il primo frutto di questo incontro sarà l’album Al verte las flores lloran datato 1969, dove stili diversi vengono eseguiti con garbo e totale dominio delle battute e degli accordi vocali. Ma questo fu soltanto l’inizio perché poi vennero nuovi album segnati da un crescente successo; da Cada vez que nos miramos (1970) a Son tus ojos dos estrellas (1971) fino Canastera (1972). Tre album inizialmente criticati dai vecchi del flamenco ma ben presto accolti con entusiasmo dai più. Fra il 1969 e il 1977 i due artisti incidono un album all’anno portando le loro bulerias, coplas e alegrias ad essere onnipresenti nelle radio di tutta la penisola iberica. Se però all’inizio erano entrambi protagonisti delle copertine, col passare del tempo fu il duende gitano a conquistare maggiormente il pubblico e quindi a occupare sempre più spazio nelle foto di copertina. Nei pieni anni settanta Camarón divenne il protagonista indiscusso del flamenco aggiudicandosi importanti riconoscimenti come il premio nazionale di canto della cattedra di Flamencologia di Jerez. Nel 1975, anno della morte del dittatore Franco, esce l’album Arte y Majestad, che suona come una sfida alla neonata monarchia essendo in realtà dedicato al torero Curro Romero. Si tratta di un disco straordinario dove alle composizioni classiche il cantante impone la propria firma, avendo ormai raggiunto una propria e autentica personalità. Con Arte y Majestad e con i successivi Rosa Maria e Castillo de Arena siamo ormai alla piena maturità artistica che di li a poco avrebbe condotto Camarón a concepire un flamenco del tutto nuovo, ricco di elementi pop e aperto alle richieste di un pubblico più vasto. La rivoluzione flamenca Il 1977 segna un’interruzione nella collaborazione musicale con Paco de Lucia ma non della loro amicizia che invece si protrarrà fino alla morte del cantante. Nei due anni successivi Camarón si impegnerà a fondo per preparare con cura e dovizia di particolari quello che sarà l’album di svolta definitiva nella sua musica: La leyenda del tiempo. Si tratta di un’opera spartiacque, ambiziosa e, cosa importante, perfettamente riuscita. Vi è un cambio d’immagine del cantante che ora si presenta con la barba e con il semplice pseudonimo di Camarón, avendo eliminato il toponimo “de la isla”. Al suo fianco troviamo, in sostituzione a Paco de Lucia, al giovane chitarrista José Fernandez Torres e a Tomatito. Ma i cambiamenti non finiscono qua. Alla chitarra andalusa e le palme si vanno ora ad aggiungere elementi tipici del rock e del jazz, mentre le scelte letterarie dei brani si fanno più colte includendo testi di Lorca, di Villalon e Omar Khayyam sapientemente adattati da Kiko Veneno. Nonostante le critiche che subito immersero l’intera opera in realtà Camarón mantiene sempre una autentica devozione per le tradizioni e per i vecchi che le rappresentavano. Introduce sì notevoli cambiamenti ma soltanto quando ha consolidato le sue doti di cantante e, anche quando cerca di innervare la sua opera di importanti novità, lo fa nel pieno rispetto delle basi flamenche, senza mai deformarle o sostituirle. In 29 una occasione disse: «il flamenco è stato fatto, ma sulle cose fatte si può continuare a creare senza inganno, senza mistificazione. Ad esempio, per quale motivo dovremmo eseguire tutti la soleà allo stesso modo come se fossimo un disco rotto? Se sono in grado di apportarle qualcosa di mio, di arricchirla, senza per questo motivo svilire il canto della soleà, per quale motivo non dovrei farlo?». La popolarità di cui godette negli anni ottanta sta a dimostrare che il duende non aveva torto. Già nel 1981 esce Como el agua la cui omonima canzone rimarrà fra le più note che l’artista abbia mai interpretato, mentre nel successivo Calle real del 1983 l’adattamento del lorchiano Romance a la luna rimane tuttora una delle migliori interpretazioni che siano state fatte dell’opera del poeta. Negli stessi anni l’opera concertistica diventa incessante arrivando a programmare centinaia di concerti ogni anno. È importante però constatare come spesso il cantante si presentasse di fronte al pubblico in modo del tutto diverso rispetto ai dischi che produceva. Se nei lavori degli anni ottanta proponeva un flamenco rinnovato nello stile e nella musica, nelle esibizioni dal vivo prediligeva il canto a palo seco, ovvero a cappella o con il semplice supporto della chitarra e del cajón. Figura snella, di media statura, capello lungo e sguardo timido si avvicinava in punta di piedi al microfono e, quando il brusio intorno a lui cedeva il passo al silenzio, intonava, quasi fino allo svenimento, delle saetas che sembravano infinite. Nel 1986, anno particolarmente difficile nella vita del cantante come vedremo più avanti, esce Te lo dice Camarón. L’album ci presenta un’artista dalla voce diversa, probabilmente a causa dei problemi di dentatura che lo attanagliano. Le canzoni, scritte insieme all’amico Antonio Humanes sono più intime e parlano di lui, della sua vita, dei luoghi della sua infanzia e sembrano nel loro insieme rivolgersi al mondo zingaro da cui proviene. Tralasciando altri due album editi in quegli anni arriviamo a quello che divenne il disco flamenco più venduto al mondo (ancor oggi imbattuto) e che, insieme a La leyenda del tIempo, rivoluzionerà per sempre questo genere musicale. Stiamo parlando di Soy gitano, un album concepito a Siviglia in compagnia di un nutrito gruppo di artisti della capitale andalusa e registrato a Londra presso gli studi dell’Abbey Road (studio di registrazione dei Beatles) con la partecipazione della Royal Philarmonic Orchestra. Il tango Soy gitano in apertura del disco vede impegnati, oltre ai componenti l’orchestra, i chitarristi 07 PRIMAVERA 2010 30 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE Mondomix.com //M USICA Tomatito e Vicente Amigo. Nel disco sono incluse la lorchiana Nana del caballo grande, la buleria Dicen de mi. Indimenticabile il brano Amor de conuco cantato in duo con una giovanissima Ana Belen. 7032 inlay.indd 2 Matt Darriau Paradox Trio Tri Muzike with Bojan Z Pause Il balkan jazz del quartetto americano qui arricchito da un ospite di lusso il pianista 3 bosniaco2 Bojan Z. E la musica si fa incandescente. Dopo le intense esplorazioni del repertorio balcanico i Tri Muzike coniugano in questo nuovo CD la 5 6 della tradizione dell’Est con quella canzone d’autore italiana. 4 11-02-2010 11:58:24 Intermezzo strumentale: 4. TARANTELLA VECCHIA E NOVA 3.04 De lo Trivolo: 5. TERRA TERRA TERRA 3.37 6. DANZA ARABESCA 5.35 7. DINT , A LA VICARIA 3.33 7 8 file under la moresca italy word music Flamenco de Concierto Intermezzo Vocale: , 8. TRADITOR 8.46 Nuovo CD in solo del chitarrista di origini spagnole. Una serie di brani originali nel più puro stile flamenco. De lo Currivo: , , 9. BELLA E LA LIBBERTA 2.28 , , 10. S E MARITATA LA BELLA MIA 3.20 , , 11. S I FOSSE FUOCO 2.14 Intermezzo strumentale: 12. TANGUILLO 3.33 I 5 Album Imperdibili De la Devozione: 13. LAUDA DE LI MACCARUNE 3.33 14. EN LA INTERIOR BODEGA 1.56 15. INNO A LO SOLE 4.45 all texts traditional all music composed & arranged by Rosario Del Duca except 3, 4, 12 Giovanni Migliaccio; 5 Vittorio Acone & Rosario Del Duca 8 Marcello Colasurdo & Francesco Migliaccio published by Felmay ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it FelmaY s strada roncaglia 1 s 15033 san germano A, s italy 9 la moresca - ammore, trivolo, currivo e devozione De l’Ammore: 1. AJERI SERA VIRIETTI ROI STELLE 4.08 2. LA NINNA RI LA RIA 3.24 3. BURLATA 2.39 Online www.camarondelaisla.org La Moresca fy 8154 Juan Lorenzo Ammore, Trivolo, Currivo e Devozione (vota la rota de la vita mia…) la moresca ammore trivolo currivo e devozione 10 Soy gitano (1989) 11 Erede della grande tradizione popolare campana, la Moresca in un album incentrato sui temi dell’amore, tribolazioni, collera e devozione. Gamelan of Central Java Gamelan of Central Java XII. Pangkur One XIII. Pangkur Two Il versatile tema musicale Pangkur presentato in esecuzioni di grandi ensemble. 12 13 Il versatile tema musicale Pangkur presentato in esecuzioni da camera da15 piccoli ensemble. 14 La leyenda del tiempo (1979) 681.086 NP0236 4c.indd 1 16 27.07.2009 13:34:18 Uhr thiopiques Gattamolesta Massimo Ferrante Czeleste Jamu 17 Potro de rabia y miel (1975) Il canotre calabrese alle prese con brani originali e tradizionali con una nuova formazione comprendente il bravissimo chitarrista Lutte Berg. Nuova linfa per la musica popolare italiana. Una delle nuove forze del power folk italiano. Quattro giovanotti alle prese con canzoni surreali e musiche di ispirazione balcanica. Più di una speranza. 18 Arte y majestad (1975) 19 8158_libretto.indd 1 5-08-2009 14:41:49 new Ali Ahmad Hussain Khan & Party ali ahmad hussain khan india world music Malgrado Camarón abbia sempre cercato di tenere lontana dai riflettori la propria vita privata - e pur condividendo il suo spirito - mi sembra doveroso ricordare il suo matrimonio con la giovanissima Dolores Montoya avvenuto nel 1976. Come voleva la tradizione zingara la cerimonia durò quattro giorni e quattro notti e dal loro matrimonio nacquero ben due bambini e due bambine. D’altronde sappiamo come il successo non gli fece mai perdere le proprie radici. Da sempre desiderava tornare fra la sua gente, dalla famiglia agli amici di una vita. Si mostrava distante di fronte alle amicizie dell’ultima ora e agli adulatori non degnava neppure uno sguardo. Né la fama, né i notevoli impegni riuscirono a staccarlo completamente dal proprio mondo. Nella sua esistenza non mancarono nemmeno gli aspetti bui della sua esistenza come la dipendenza d’eroina, gli eccessi con l’alcol e il fumo. Il 1986 non fu certo dei più allegri nella vita del cantante. Viene condannato ad un anno di reclusione a causa delle sue responsabilità in un incidente automobilistico in cui avevano perduto la vita due persone e, anche se non sconterà mai la pena, le riviste scandalistiche in cerca di scoop parlano di un artista ubriacone alle battute finali della sua carriera. Lo stesso anno muore la madre alla quale il cantante era fortemente legato, mentre una serie di problemi dentali lo costringono a sottoporsi a numerosi e dolorosissimi interventi per mantenere intatte le sue qualità fonetiche. Una vita la sua che verrà suggellata dal film del regista Jaime Chávarri uscito nel 2005 con il titolo Camarón. Un lungometraggio spesso descritto dalla critica come troppo edulcorante della figura del cantante ma che ha l’indubbio merito di aver avvicinato le nuove generazioni alla sua arte. Torniamo però, prima di congedarci, alle battute finali della sua produzione musicale. L’ultima fatica discografica, dopo lo straordinario successo di Soy gitano, sarà Potro de rabia y miel che vedrà nuovamente, a discapito delle mille insinuazioni giornalistiche che li volevano in rotta, la collaborazione di Paco de Lucia. A differenza del precedente, quasi si trattasse di un commiato dalla vita Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it P Felmay 2009 FELMAY 1 P Felmay 2010 Attorno a Camarón de la Isla vi fu sempre il mistero, forse perché si trattava di un personaggio misterioso e mistico, silenzioso e umile, inaccessibile e vicino, furiosamente umano, familiare e incantevole. Enrique Montiel www.felmay.it FELMAY FELMAY ali ahmad hussain khan india world music La leggenda di Camarón terrena, troviamo un Camarón autenticamente flamenco, emozionante e commuovente. Ascoltando Potro de rabia y miel si rabbrividisce tanto è sentita l’interpretazione da parte del cantante ormai malato. All’apice di una carriera, venerato in tutto il paese come un re, nei primi mesi del 1992 gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni. A nulla varrà il viaggio negli Stati Uniti in cerca delle migliori cure. Il 2 luglio 1992 a Badalona (Catalogna), con la sua morte, nasceva un mito. Due giorni dopo, sotto un sole implacabile, nel bianco cimitero dell’antica Real Isola di Leon, ebbero luogo i funerali ai quali assistettero più di cinquantamila persone e sopra la sua bara venne posta la bandiera gitana. Serenity new Lalgudi Vijayalakshmi Mala Chandrashekar Jaishree Jairaj Vadhya Sunadha Pravaham Como el agua (1981) Le Migliori Raccolte 8146 Ali Ahmed NP 0035.indd 1 Camarón nuestro (1994) Rencuentro (2008) 20 P Felmay 2009 vol. 1 - L'age d'or de la musique ethhiopenne moderne 1969-1975 vol. 2 - Azmaris urbains des annèes 90 vol. 3 - L'age d'or de la musique ethiopienne moderne 1969-1975 vol. 4 - Mulatu Astatke Ethio Jazz & Musique Instrumentale, 1969-1974 felmay 07 PRIMAVERA 2010 EGEA distributore esclusivo per l’Italia Il più grande suonatore di shenai 21 22 (oboe) indiano alla guida del suo numeroso ensamble in un programma di musica classica che sta ottenendo grandi consensi. vol. 5 - Tigrigna Music vol. 10 - Tezeta - Ethiopian Blues and Ballads 1970-75 9-07-2009 9:12:07 Sidh vol. 6 - Mahmoud Ahmed Sultana Almaz 1973 vol. 11 - Alèmu Aga - The Harp of King David vol. 12 - Konso Music vol. 7 - Mahmoud Ahmed Dopo il buon successo di Lila Sidh & Songs Erè mèla mèla torna1975 il suo un progetto elettrico, vol. 13 e- The Golden una miscela di Rai algerino vol. 8 - Swinging Gnawa Addis guidata dallaSeventies sua voce -calda Ethiopian Groove 1969-1974e suadente. vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya vol. 9 - Alèmayehu Eshété Negus of Ethiopian Sax 23 24 25 Tre donne guidano questo gruppo incentrato su violino, veena (strumento a corde) e flauto. vol. 15 - Europe meets vol. 21 - Emahoy Tsegué & Maryam Guèbrou Ethiopia - Jump to Addis Piano SoloBailam Orchestra vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu vol.Bailam 22 - Alèmayèhu Eshèté The Lady with the Krar Harem 1972/1974 vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè vol. 23Bailam - Orchestra Ethiopia L’Orchestra al suo meglio vol. 18 - Asguèbba ! con unvol. repertorio di suoni 24 - L'age d'or de la balcanici e mediorientali compresi vol. 19 - Mahamoud Ahmed musique ethiopienne due successi della leggendaria 1974 - Alèmyè moderne 1969-1975 cantante egiziana Oum Khalsoum. vol. 20 - Either Orchestra & vol. 25 - Modern Roots Guests - Live in Addis 1971/1975 felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy ph +39 0142 50 577 fax +39 0142 50 780 [email protected] www.felmay.it 32 S E VDA H Mondomix.com //M USICA tradizione. Per me suona in maniera fantastica. Stiamo lavorando solo in duo e stiamo per firmare un contratto con Harmonia Mundi. SEVDAH intervista a foto Nedim Sinanovic Amira Medunjanin di Luca Morino La sevdah o sevdalinka è la musica tradizionale della Bosnia. Il Paese della ex Jugoslavia è geograficamente molto vicino all’Italia (da Ancona bastano alcune ore di traghetto e un paio d’auto) ma culturalmente molto distante e decisamente poco conosciuto. Non avevo mai sentito parlare di sevdah fino a quando, qualche mese fa, sono capitato un lunedì sera al Kino Teatar Prvi Maj di Sarajevo, un vecchio cinema e circolo culturale che ha resistito anche al terribile assedio avvenuto tra il 1992 e il 1996: era pieno di ragazzi che stavano cantando in coro tra fiumi di birra e nuvole di fumo, mentre tre maturi musicisti suonavano vecchie sevdah in piedi, tra i tavolini. Chitarra, fisarmonica e voci, nient’altro. Quel coinvolgimento e quella partecipazione spontanea mi hanno spinto ad approfondire la conoscenza della musica e mi si è improvvisamente palesato un mondo piccolo, una nicchia, ma ricchissima di nomi e di storie. Le sevdah nascono probabilmente con l’arrivo dei turchi in Bosnia durante il Medioevo: il modo di usare la voce, melodico e ricco di melismi, le fa sembrare molto orientali a un orecchio occidentale, anche se rimaniamo in un ambito culturale profondamente europeo. E’ un genere musicale in cui è determinante lo stato emozionale dei cantanti, insomma l’interpretazione. Originariamente il saz, una specie di liuto, è stato l’unico strumento d’accompagnamento, successivamente con la dominazione austro-ungarica sono stati introdotti la fisarmonica il violino e la chitarra. I testi parlano spesso d’amore, di abbandoni, nostalgie, struggimenti, ma celebrano anche luoghi particolari o personaggi: occorre ricordare che in un paese musulmano come la Bosnia, soprattutto in passato, la musica poteva essere uno dei pochi modi che avevano un ragazzo e una ragazza per entrare in relazione tra loro. Probabilmente è per questo motivo che le atmosfere sono spesso malinconiche o tragiche, se vogliamo paragonabili a un genere analogo che si è sviluppato però sull’opposto versante europeo, il fado portoghese. Non è un caso che la parola araba sawda significhi bile nera, che si credeva fosse la causa della malinconia. Mostard Sevdah Reunion 07 PRIMAVERA 2010 Insomma stiamo parlando di una forma musicale tradizionale, molto poco conosciuta fuori dalla Bosnia, ma anche molto seguita e attuale, quindi soggetta a fisiologiche variazioni ed evoluzioni. La struttura musicale lascia molto spazio all’improvvisazione e nella storia degli ultimi 50 anni numerosi cantanti hanno raggiunto una notevole fama unicamente grazie alle loro peculiarità canore. Nel 2008 a Sarajevo è stato finalmente ristrutturato l’edificio che ora si chiama Art Kuća Sevdaha, situato nella parte antica della città, che contiene documenti, immagini e suoni degli anni d’oro della sevdah e la presentazione di decine di cantanti delle varie epoche. Tra questi spiccano i nomi di Zaim Imamović tra i grandi “vecchi” e dei Mostar Sevdah Reunion tra gli artisti più recenti. Un altro nome giovane della scena sarajevese è Damir Imamović, nipote di Zaim ed eccellente innovatore della tradizione delle sevdalinka, così come la cantante Amira Medunjanin il cui affascinante album Zumra, registrato insieme alla fisarmonicista classica-contemporanea Merima Ključo, è uscito nella primavera del 2009. Ho incontrato Amira nel caffè di fronte alla stazione dei taxi di Sarajevo, nel vecchio quartiere di Bascarsija… Amira che tipo di accoglienza ha avuto qui in Bosnia il tuo nuovo album in duo con Merima Ključo? La cosa divertente è che l’album è stato recensito in Olanda in maniera fantastica e ora la storia cambia anche qui e iniziano a dire “oh allora forse c’è qualcosa di buono!” ed è una situazione così paradossale! Sarajevo è così da sempre. Comunque è una faccenda che onestamente non mi interessa. Sia io che Merima volevamo spingere i confini della sevdah in nuove direzioni. In Germania Est è stato divertente: ho suonato a Dresda e Lipsia e ai concerti sono venuti tantissimi emigrati dalla ex Jugoslavia e dalla Bosnia. Ho raccontato delle storie sull’album e sulle sevdah e loro mi facevano notare che erano completamente differenti da quelle che conoscevano, che avevano già sentito. Infatti un tempo erano troppo suonate, con massicce orchestrazioni. Era ridicolo, quindi mi sta bene essere, diciamo, una “ribelle” e non seguire certe regole. Le canzoni dell’album sono tutte tradizionali… In questo paese la maggior parte delle persone crede che non si possano toccare le tradizioni, che devono restare come sono. Se fosse davvero così non si sarebbero mai evolute e comunque alcuni secoli fa dovevano essere completamente differenti rispetto a ora. Si creano sempre delle difficoltà quando si vogliono fare dei cambiamenti, per esempio non amo particolarmente la fisarmonica, odio la maniera in cui la suonano da queste parti: la suonano troppo, ci sono troppi ornamenti ed è sempre troppo forte, sguaiata. E’ proprio per questo motivo che ho scelto di suonare con Merima, abbiamo combinato il suo mondo della musica classica contemporanea con quello della La casa discografica Gramofon ha avuto un ruolo importante in questo progetto? No, l’idea è venuta originariamente a me e Merima. L’ho incontrata per la prima volta mentre suonava in un’opera di Nigel Osborne, lei era con loro e lavorava con i Musicisti Senza Frontiere (un’associazione che fa base a Sarajevo, ndr). Qualcuno mi aveva detto che lei viveva in Olanda e suonava la fisarmonica in maniera eccezionale, così ci siamo incontrate ad Amsterdam durante un mio concerto e l’idea ha preso corpo sin dal primo momento. Merima ha praticamente passato la sua vita artistica a esplorare la tradizione attraverso la musica contemporanea e aveva bisogno di una voce per combinare entrambe le cose, così ci siamo trovate in perfetto accordo: abbiamo iniziato in maniera autonoma, trovando sponsors, partner finianziari che coprissero le spese e una volta finito il prodotto avevamo bisogno di un’etichetta che lo pubblicasse in Bosnia. Abbiamo scelto Gramofon (www.gramofon.ba) per la semplice ragione che le altre etichette ponevano delle condizioni che non ci convincevano, come il modo di fare pubblicità per esempio: essere presente in televisione, nei talk show. Io non volevo. Gramofon ha una sua rispettabilità, produce e pubblica musica contemporanea e jazz, etno music, così abbiamo deciso che era l’etichetta giusta. Dove avete registrato l’album? Nel CMP studio a Zerkall, vicino a Colonia, perché volevamo lavorare con un tecnico specifico, molto bravo a gestire i suoni acustici, che si chiama Walter Quintus. Abbiamo registrato tutto insieme, quello che si sente nell’album è esattamente come suoniamo noi, senza sovraincisioni, e il risultato è molto affascinante. Addirittura certi pezzi sono stati presi “buona la prima” e non abbiamo toccato più nulla. 33 che si cantano ai bambini, ma non lo è affatto. In realtà se tu ascolti veramente il testo è una specie di incubo (canticchia la melodia ironicamente)! E’ banalizzante interpretarle in quella maniera e noi volevamo cambiare quel modo: è un dramma, bisogna trattarlo da tale ed è quello che io e Merima abbiamo fatto. Come combini l’essere un’artista internazionale con il fatto di vivvere a Sarajevo che, essendo fuori dalla comunità europea, implica per esempio il problema di ottenere un visto ogni volta che si lascia il paese? Ti devo contraddire perché in realtà ho ottimi rapporti con l’ambasciata olandese in quanto la mia agenzia ha sede in Olanda e non ho particolari problemi per uscire dal Paese. Loro mandano una lettera e nel giro di un giorno ottengo il visto. Poi qui in Bosnia hanno un sviluppato un sistema abbastanza rapido per gli artisti, rendendo la procedura molto semplice. L’unico vero problema è che i biglietti aerei per qualsiasi destinazione sono molto cari e portare una band all’estero implica dei costi assurdi, le compagnie aeree hanno fatto una fortuna qui. Ecco forse quella è la vera barriera nell’uscire dal paese. Quindi pensi che un gruppo come i Mostard Sevdah Reunion abbia fatto la scelta giusta, vivendo fuori dalla Bosnia? Solamente due dei componenti abitano all’estero, gli altri stanno qui in Bosnia. Ora si sono divisi, è stata una cosa brutta: per il mio primo album ho collaborato con alcuni di loro, poi la cosa è cambiata e ho deciso di lasciarli. Ora ci sono i Cafè Sevdah e i Mostar Sevdah Reunion in cui sono rimasti il vecchio cantante e il violinista che hanno reclutato nuovi musicisti. Ma i Mostar Sevdah Reunion originali si sono sciolti e credo cha abbiano fatto un grande sbaglio, non so. Lo stesso nome del gruppo fa riferimento al concetto di unione e loro si sono sciolti! Avete impiegato molto tempo nella pre-produzione? No, Merima ha fatto tutti gli arrangiamenti, ma non avevamo molto tempo, lei era ad Amsterdam e io a Sarajevo, così era molto difficile. Abbiamo utilizzato spesso skype, lei suonava e io ascoltavo. La prima volta che abbiamo suonato insieme è stato in Germania nel 2007, lei è venuta a un mio concerto e abbiamo passato un’intera giornata provando in una camera d’hotel. Sono cose che si capiscono al volo sai, quando senti che qualcuno respira nella tua maniera poi si crea una specie di telepatia e questo è molto importante. D’altra parte lei ha studiato al conservatorio di Rotterdam e ha una grande abilità nell’aprire i miei orizzonti verso un differente modo di utilizzare la voce. Lei è il vero produttore dell’album. Credo che Zumbra sia un album molto spirituale. avete avuto la consapevolezza di questo fatto? Si, l’abbiamo fatto di proposito perché ormai le sevdah sono eseguite più o meno nella stessa maniera e gli interpreti non prestano molta attenzione al contenuto dei testi, al loro messaggio: ci sono delle sevdah che sono drammatiche, tristi e gli arrangiamenti sono frivoli, completamente scollegati dal contesto. E’ così paradossale. Inizialmente noi volevamo approfondire il senso delle canzoni e mostrare le emozioni che ne scaturivano attraverso l’espressione e gli arrangiamenti, non solo seguire le regole dell’interpretazione classica. Per esempio Mehemida Majka Budila, che è una delle mie preferite dell’album, è una canzone molto radicale: è sempre stata cantata come una dolce filastrocca, di quelle 07 PRIMAVERA 2010 34 W o me x Mondomix.com //M USICA booking & production Come dicevei rappresenti una specie di ribelle della tradizione. Come pensi che sarà il tuo prossimo progetto? Al momento sto presentando l’album che è uscito in aprile in Bosnia e che l’anno prossimo uscirà con Harmonia Mundi. Loro si aspettano che faccia seguito un lungo tour. Poi probabilmente inserirò alcuni elementi di jazz, la prossima primavera e realizzerò un nuovo album con questa band, il quarto, naturalmente manterrò un forte legame con la musica tradizionale. In un futuro più lontano penso di dedicarmi ad un repertorio più ampio con mie composizioni. Hai detto che i testi sono molto importanti, nel caso delle Sevdah come e forse più della musica stessa: come riesci a combinare il fatto che quando vai all’estero non si capiscono le parole delle tue canzoni? E’ la forza di questo tipo di musica, la forza della sevdah. Non è così importante se la gente non capisce quello che dici, se sei veramente assorbito dalla performance e dai tutto te stesso. Il modo di cantare è molto importante, la maniera in cui convogli le emozioni attraverso la tua voce. Molto spesso comunque, quando canto all’estero, presento le canzoni che secondo me sono più importanti spiegando un po’ di cosa parla il testo. Non troppo, solo qualche spunto qua e là e nei momenti giusti, quando si raggiunge il picco emotivo, la gente risponde, avverte che quello è il punto anche se non capisce cosa dico. La stessa cosa succede per il fado, visto che non sono in molti a conoscere il portoghese. Certo è più difficile, devi essere completamente là, concentrato, altrimenti risulti finto e il pubblico se ne accorge immediatamente. Quali sono gli artisti di Sevdah che ti piacciono? Mi piace molto Damir Imamović, il suo modo minimale di fare gli arrangiamenti, ma non ci sono molti musicisti delle nuove generazioni interessati a questo tipo di musica. Un’ ultima domanda: è possibile oggigiorno comporre nuove Sevdah? Si, Merima ha scritto una pezzo bellissimo, fantastico, è un’ultra mega hit, ma non è ancora uscita e sono sicura che se uscirà come singolo sarà sicuramente un successo. Wo m e x 2 0 0 9 Copenhagen di Paolo Ferrari Brigada Retro Mishto (Romania) Titolo Zumra Etichetta World Village / Ducale Online www.amira.com.ba GEO music tamikrest 07 PRIMAVERA 2010 eric bibb Produzione e organizzazione eventi culturali world & celtic music management & booking Dal 1 gennaio 2010 dervish Gigi bresciani è GEOMUSIC richard thompson kila hevia 35 INFO www.geomusic.it [email protected] tel/fax +39 035.732005 cell +39 348 4466307 foto di Elisabetta Sermenghi Edizione numero quindici per il salone evento World Music Expo, al primo approdo a Copenhagen. Un po’ infreddoliti dopo tre anni di Siviglia, i 2.700 delegati hanno fatto i conti con uno spazio più funzionale, il Bella Center, sede del padiglione con 650 espositori in rappresentanza di 92 paesi e oltre 20 convegni su temi specifici. Una location più funzionale, secondo voce pressoché concorde di quasi tutti gli interpellati. Un’ottimizzazione cui la sera il sontuoso auditorium, a sua volta però lontano dal centro della capitale danese, ha aggiunto comfort e acustica inviabile ai live; 57 in tutto, compresi i pomeridiani al Bella, per quasi 350 artisti. Un mare di show in cui ciascuno ha lanciato la propria rete per business, gusto personale e immancabile passaparola tra i delegati. Detto che il premio ufficiale del Womex era fuori dalla mischia, essendo la consegna con relativo showcase già programmata la domenica mattina con gli eroi diversamente abili dello Staff Benda Bilili sugli scudi, anche quest’anno la kermesse ha proiettato nel retrogusto dei partecipanti una rosa di vincitori virtuali. È il caso dell’esibizione mozzafiato dei Dulsori, nove percussionisti e performer sudcoreani dalla forza comunicativa fuori ordinanza; o del combo brasiliano SpokFrevo Orquestra, elegante nel suono e di sicuro impatto fisico nel suo agile viaggio tra Carnevale di Salvador de Bahia e Cotton Club senza passaporto. Ancora, hanno elargito certezze i Deolinda, il cui fado sorridente e spiritoso vola alto nei festival europei; e ha mostrato di possedere doti notevoli anche come chansonnier il senegalese Carlou D, in passato parte della squadra hip hop Positive Black Soul. Schegge di rap, quasi in contemporanea (le sale del Copenhagen Concert Center erano cinque per sera), si sono sentite anche nel live del canadese Socalled, personalità da vendere e qualche tentazione dispersiva ancora da far convergere. Con la Penisola rappresentata dalla solida Orchestra Popolare Italiana, si sono messe in evidenza la Colombia dei calorosi Chocquibtown, la piccola isola Mayotte con le 15 donne Deba, il Burkina Faso dell’esperto Victor Démé e lo strumento rurale basco txalaparta di cui gli Oreka TX rinnovano i codici utilizzando anche voci arabe e mongole. Unica pecca nelle serate di concerti, un Foyer Stage penalizzante per volumi nei confronti dei set elettro dance; vittime il macedone Ahilea, il brasiliano Maga Bo e i tedeschi Analog Africa Soundsystem. Renato Borghetti (Brasile) Wimme (Finlandia) Dove Copenhagen, Danimarca Quando 27 - 31 Ottobre, 2010 Online www.womex.com Marku Lepisto (Finlandia) 07 PRIMAVERA 2010 36 ice music Mondomix.com //3 6 0 ° 37 L’Ice Music m i h a i n s e g n a t o a e s s e r e p i c c o l o … di Luca Vitali Un festival unico nel suo genere, immerso nella natura più pura, dove la creatività regna sovrana e la musica si fonde con scultura, danza e molto altro. È l’IceMusic Festival di Geilo, località invernale norvegese vicino Lilehammer (olimpiadi invernali ‘94). Giunto alla quinta edizione va in scena la prima notte di luna piena dell’anno. «Qui il legame con la natura è fortissimo - dice Terje Isungset, l’ideatore - è la natura che decide il tempo, la qualità del ghiaccio, il suono, la temperatura, se ci sarà vento o pioverà… un’ottima ragione per collegarlo a un evento naturale così importante come la luna piena». Nel 2005 Isungset, affascinato dall’idea di realizzare un evento del genere, lo propose a più persone e Pål Medhus di Geilo colse l’attimo: lui si sarebbe occupato dell’organizzazione e Terje del progetto artistico, poi si aggiunse Bill Covitz, scultore americano che da anni lavorava col ghiaccio, e si creò così un sodalizio che ancora oggi rende unico questo festival. I preparativi per allestire l’arena, gli strumenti e le sculture durano giorni. Assistere alla realizzazione degli strumenti e al sound-check è una vera esperienza. Covitz forgia instancabile sculture e strumenti in ghiaccio; Terje verifica la qualità sonora di ogni componente e completa le percussioni nel suo igloo; Sidsel Vastad, l’arpista, assembla e accorda le arpe, e un gruppo di volontari provenienti da tutto il mondo si adopera per allestire la scenografia sotto la direzione di Pal. Il pubblico, la sera, nonostante la temperatura (-15/20°C), accorre numeroso (circa 200 persone) e ne esce profondamente toccato. Che limitazioni comporta il ghiaccio? Innanzitutto la temperatura, quella di oggi è ottimale, attorno allo 0°C il ghiaccio suona male, abbiamo suonato in Svezia a -33°C e la gamma dinamica si amplia molto, va da frequenze molto alte a molto basse. Come lo selezioni? Nell’Icemusic l’uomo è infinitamente piccolo ed è la natura a decidere. All’apparenza un ghiaccio industriale, perfettamente trasparente e omogeneo all’occhio, è perfetto, ma poi non suona. Mi è successo in Giappone e in Canada: era praticamente morto. C’è qualcosa di mistico in questo… C’è un collegamento tra la dimensione dello strumento e il suono che produce? Sì, gli spessori sottili producono suoni più bassi. Hai mai usato quello dei ghiacciai? Sì, del ghiacciaio Svartisen, a nord della Norvegia. Mi onora suonare il ghiaccio, frutto della risorsa più importante al mondo, l’acqua, e poter utilizzare un ghiaccio di 2500 anni mi onora ancor di più, ma soprattutto mi aiuta a collocarmi nella giusta dimensione come essere umano nei confronti della natura, infinitamente piccolo sia nello spazio che nel tempo. Quello che a me interessa non è trasformare il ghiaccio in strumenti musicali esistenti, ma prendere un pezzo di ghiaccio e ascoltare che suono emette, farlo cantare: si tratta di un suono già presente nel ghiaccio, non di un suono che produco io. Non c’è nulla che si possa decidere o prevedere, bisogna solo essere aperti e disponibili ad accogliere quello che verrà, essere pronti ad ascoltare il suono. La forma che hanno i miei strumenti è il frutto di un’evoluzione di 10 anni di ricerca, ma ogni anno cerco anche di fare qualcosa di nuovo: l’intento è quello di migliorare, sempre, sia come musicista che come essere umano, e l’Ice Music mi ha insegnato moltissimo per tutte le ragioni esposte, ma soprattutto mi ha insegnato ad essere piccolo… Cosa Terje Isungset – Ice Festival Dove Geilo (Norvegia) Quando Ice Music Festival #6 19. - 23. January 2011 Terje Isungset in Italia Dal 26.02.2010 al 07.03.2010 all’Ice Festival - Val Senales Online http://www.icefestival.no/ - http://www.all-ice.no/ 07 PRIMAVERA 2010 07 PRIMAVERA 2010 38 san pietroburgo Mondomix.com //3 6 0 ° 39 questa, d’altronde, è l’anima della Russia, timidezza e intensità, come nei racconti e nel teatro di Checov. E ancora un’altra serata a dicembre. Infilato il colbacco in testa, mi sono avviato sul lato destro del canale Moyki faticando ad ogni passo dentro a quel silenzio bianco, morbido e talvolta ghiacciato che hanno le strade di San Pietroburgo in inverno. Fino al numero 40/d dove, affacciati sul canale, si trovano una serie di bar e locali che fanno capo al Teatr Estrady. Entrato nel cortile, una volta salito al primo piano, sono riuscito a superare ogni difficoltà nel comprendere le indicazioni scritte in cirillico potendomi orientare semplicemente seguendo, o forse dovrei dire inseguendo, le note di una canzone che avevo riconosciuto: Narigon di Daniel Melingo. Uno spazio tutto bianco con alle pareti enormi specchi che moltiplicavano i piedi dei ballerini, una sorta di galleria d’arte ospitava la serata: fuori dal rettangolo pesanti scarponi, segno dell’attraversata tra la neve, dentro l’eleganza dei tacchi e delle scarpe da uomo. Noches de Tango di Emanuele Enria Torino Ho scoperto che anche in Russia si balla il tango durante una passata edizione del Torino International Tango Festival, che fra l’altro nel 2010 festeggia i dieci anni di attività, cui va il grande merito di aver saputo creare l’occasione di mettere in contatto i migliori maestri di tango esistenti sulla scena internazionale con un pubblico cosmopolita che qui ha l’occasione di studiare con loro durante il giorno e di poterli ammirare nelle esibizioni serali. Ad ogni edizione, in effetti, la vera attrattiva è sempre rappresentata dagli ospiti. Ciò che desta la nostra curiosità è sempre il fascino di chi arriva “da altrove” portando magari sul viso, o nell’abbigliamento o nell’uso di una lingua o di un accento qualcosa di diverso dal nostro quotidiano. L’autentica magia consiste nel primo ballo, quando non conosci l’altra persona. Prima la guardi, azzardando una sorta di cabeceo (uno sguardo, un cenno quasi impercettibile di invito come si usa fare nelle milonghe di Buenos Aires) ne attendi la risposta e, se la ballerina si alza, ti avvicini alla pista e l’abbracci guidandola verso la danza. Finalmente inizia il viaggio. Per quei tre minuti di musica che un tango ti concede, scopri come si balla in Francia, in Portogallo, in Turchia, in Spagna, ma anche a Bologna, a Pesaro o a Palermo. Può nascere un’affinità, un’emozione ma anche una certa distanza o qualche difficoltà nel ballo. Un anno arrivarono anche loro, un gruppo di ballerine e qualche ballerino russo, e non si poté non notarli: le donne vestivano dei kimono di seta bianca ricamata sopra a pantaloni un po’ larghi alle caviglie, gli uomini, biondi e dalla pelle quasi diafana, avevano l’eleganza dei movimenti che ha il pattinatore Plushenko. Erano belli, bravi, algidi nel loro abbraccio e con qualcosa di irraggiungibile. Furono le vere star di quell’edizione. 07 PRIMAVERA 2010 San Pietroburgo Il 2009 è stato, per chi scrive, la realizzazione del piccolo sogno, un doppio sogno oserei dire visto che vi sono stato in estate e poi sul finir dell’anno, di poter andare finalmente in Russia. Vedere San Pietroburgo sia in estate che in inverno è stata una grande fortuna, perché mi ha dato l’opportunità di viverne le notti bianche, di attraversare la città in battello, di camminare lungo i suoi canali come avrebbero fatto certi personaggi di Dostoevskij e di Gogol fra luce, notte e follia. Di sentirla infine sotto la neve, quando il fiume Neva diventa ghiacciato, i tetti si fanno bianchi così come i marciapiedi che quasi un impulso ti invita ad attraversare comunque. Una città che è, sempre, anche un’atmosfera, un luogo letterario e di bellezza: “Io t’amo”, scrive Puskin, “o creazione armoniosa di Pietro, t’amo per le tue severe forme, pel corso della maestosa Neva e il granito delle sue riviere, per l’elegante bronzeo ricamo dei tuoi cancelli, per la trasparente oscurità delle tue notti…Amo del rude inverno il freddo cielo, delle slitte la corsa lungo il fiume, delle fanciulle i visi per il gelo più rosei delle rose”. E così una sera mi sono avventurato alla scoperta del mondo del tango a San Pietroburgo. Esistono un paio di siti consultabili attraverso internet in cui sono segnalati giorno per giorno i locali in cui si balla tango sia a Mosca che a San Pietroburgo. La mia prima esperienza è stata un venerdì sera, allo Studiya Casa Latina, (in Sadovaya 28/30). Si tratta di uno splendido bar al primo piano con finestra ogivale che guarda sui tetti di San Pietroburgo. La serata è gestita da una ragazza che mescola tanghi vecchi e nuovi per un pubblico prevalentemente giovane e bravissimo che si abbandona a tanghi meravigliosi, intensi nel movimento quanto timidi in quello sguardo che subito si abbassa se provi a scambiare qualche parola. Anche Veloce come una milonga, il tango sembra dunque attraversare le pareti e le stanze del mondo, diventando ogni volta qualcosa di intimo e personale con il luogo che lo ospita. Quello di San Pietroburgo è elegante, morbido, vagabondo. Viene da chiedersi cosa ne scriverebbe Puskin se oggi fosse vivo, lui che dei piedini delle donne russe è stato sommo cantore. Bello immaginare di veder comparire, nel fumo di un locale, Dostoevskij o qualche personaggio di Gogol! In verità, una notte di tango a San Pietroburgo è solo il sorso finale di una giornata di scoperta fra le bellezze artistiche di una città davvero unica. A chi volesse visitarla raccomando di cominciare dalla fortezza dei Santi Pietro e Paolo, dove Pietro il Grande decise di fondare la città nel ‘700. Dopo una sosta di qualche ora all’Hermitage, una bella passeggiata sulla prospettiva Nevskij e una cioccolata calda al n.28, dentro uno dei primi edifici Liberty della città, nel quale si trova anche la Casa del Libro. Verso le sette di sera è doverosa una puntata nel tempio del balletto, il Teatro Marinskij, per assistere, se si è fortunati, a uno spettacolo del Kirov terminato il quale si potrà concludere la serata a ritmo di milonga. Cosa Festival di Tango di San Pietroburgo Dove San Pietroburgo (Russia) Quando 11 – 14 giugno 2010 Cosa Tango Torino Festival Dove Torino Quando 29 marzo – 5 aprile, 2010 Online http://festivals.tango.info/ www.marcelaystefano.com/tango2010/index.shtml www.nuevo.ru/en/milongi/milongi_spb.php http://tango.msk.ru/en/milongas/ 07 PRIMAVERA 2010 40 S t ree t f o o d i e Mondomix.com Karakalpakstan? Mai sentito Bello! Ti racconto del plov e dei samsa di Nukus, in Karakalpakstan. di Luca Vergano Quando ho parlato a Luca di The Street Foodie è partito in quarta. A causa di questo entusiasmo io non riesco a fargli capire che non ho la più pallida idea di dove sia il Karakalpakstan. E dire che ho un’incomprensibile e ingiustificata passione per lʼAsia Centrale. Ma il Karakalpakstan no, zero, mai pervenuto. Conoscendo Luca, poi, credo che mi stia prendendo per i fondelli. Il nostro rapporto si basa su pessime figure di cui ci siamo resi protagonisti presso comuni amici, cene abbondanti condite da molto vino (è lui che mi ha fatto provare lʼebbrezza di camminare ubriaco con le stampelle, qualcosa che vi prego di non provare a casa), la comune passione per John Coltrane e viaggi interminabili sulla sua Seicento alla ricerca di oratori salesiani sperduti nel Nord Est nei quali sentir suonare leggende del blues americano. In più Luca fa il giornalista, cosa che nella saggezza popolare lo accusa automaticamente di una attitudine tutta particolare verso la realtà. Scrive anche libri. Ha scritto Piove all’insù, che Goffredo Fofi ha definito il romanzo definitivo sugli anni ʼ70 (ma Luca dice che Andrea Pazienza ha fatto di meglio). Ha scritto Io sono il mercato per il quale ha intervistato uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo. Ne ha scritti altri. E adesso sta lavorando ad un progetto sulle repubbliche ex-sovietiche. Questo spiega perché sia andato nel Karakalpakstan. Più precisamente a Nukus. Quello che non si spiega è perché ne sia così entusiasta. Nukus è un posto incredibile. C’è un museo di arte sovietica secondo come importanza solo all’Hermitage e addirittura più importante se si tratta di arte del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Davvero? Io sono sempre scettico. Giuro. Era la casa di un archeologo che ha raccolto tutta quella collezione di dipinti per cercare di salvarla dalla distruzione. Quando lui è morto l’hanno reso museo di stato. E siccome pensavano non fosse abbastanza, hanno pensato bene di espanderlo e fare delle sezioni di antropologia e etnologia e chissà cos’altro. Così adesso ci trovi anche una sfinge egizia che non si sa cosa c’entri, due canoe di imprecisata provenienza e altra paccottaglia. E tutti quei quadri magnifici non hanno spazio, per cui ne vengono esposti sessanta al mese. Mi immagino un appassionato d’arte di fronte alla prospettiva di mesi di permanenza a Nukus per poter vedere tutti i quadri. Prendo appunti ma continuo a guardarlo attentamente, cercando di trovare un segno dello scherzo enorme, di quelli da Conte Mascetti. E comunque a Nukus ho trovato quello che secondo me è il posto più buono in cui mangiare di tutta l’Asia Centrale. Come in tutti i paesi in cui il cibo non abbonda, mangiare in Uzbekistan diventa sempre un po’ il cuore del viaggio. Soprattutto se hai voglia di infilarti in qualche ristorante dall’aria inavvicinabile, meglio se pieno di loschi figuri. Anche questo abbiamo in comune io e Luca. E a Nukus questo posto è una chaikhana, una sala da té. Ma come in tutte le sale da the Uzbeke ti servono anche da mangiare. Trovarla non è semplicissimo. Bisogna andare sul retro del Museo Statale di Arte della Repubblica del Karakalpakstan, dove c’è il parco dei divertimenti. È uno di quei parchi divertimenti tipici sovietici. Colorato 07 PRIMAVERA 2010 architettura squadrata, strade buie e tombini aperti per i quali rischiavi la vita. Ma aveva un suo fascino. E aveva un suo fascino anche l’essere guardato da tutti perché nessuno capiva cosa facessi lì. E anche Nukus è così. Anche perché è davvero difficile da raggiungere. Ci vogliono o un’interminabile traversata del deserto su auto dalla comodità discutibile, o un viaggio in treno che parte alle 3 del mattino in una stazione nel nulla tra Bukhara e Samarcanda, oppure, se si ha il coraggio e santi in paradiso a cui raccomandarsi, con un vecchio Ilyushin a elica che perde bulloni in volo. Forse è per questo che in questi posti ti guardano sbalorditi. Solo per il fatto che tu, straniero, ti sia sobbarcato tutto questo senza la giustificazione di avere una casa a cui tornare. Persino nella chaikanà mi guardavano così, anche le volte che sono tornato. Scusa, ho chiesto a Luca, ma non c’erano altri posti nei quali andare a mangiare? - ma non troppo - e immobile. C’è sempre un omino che si avvicina se pensa che tu sia interessato e si offre di metterlo in funzione. Io sono salito sulla ruota. Ero da solo e devo dire che è una di quelle esperienze da non fare. Come la tua con le stampelle. Appena la ruota parte, cominci a chiederti quanto tempo fa sia salito l’ultimo essere umano e a quando risalga l’ultima manutenzione. Scusa ma perché ci sei salito? Si vede, no, che non viene usato spesso? gli dico. Si ma volevo vedere Nukus dall’alto. E cosa c’è? Niente. Comunque, sul retro del parco c’è una viuzza costeggiata da alberi storti e proprio di fronte all’ingresso posteriore del parco c’è un portichetto con un colonnato rosso e due finestrelle. C’è anche un tavolino stinto e due sedie sulle quali sembra nessuno si sia mai seduto. Entrando hai la netta sensazione di rompere i coglioni. Ti sembra di esserti infilato in casa di questa famiglia con 2 figlie grandi e belle, truccate che sembra che stiano per uscire - ma sembra sempre che stiano per uscire - una madre incazzata con le figlie e il marito che subisce queste tre donne e ti serve prendendole in giro e cercando di trovare in te un alleato. Dalla sala intravedi la cucina e i pentoloni. E questo in Asia Centrale è di solito un buon segno. La prima volta ho mangiato questo plov buonissimo. Il riso era morbido, grassissimo, come è normale per un riso cotto in un brodo fatto col grasso di coda di pecora. La carne di montone si scioglieva in bocca e il misto di pepe rosso, aglio, cipolla e aneto. Credo sia miglior ristorante in Uzbekistan. No, come ho detto prima, in tutta l’Asia Centrale. Sono tornato qualche giorno dopo. Poi sono tornato ogni giorno. E la cosa più buona che abbia mangiato dopo il plov, sono stati i samsa. Ma prima ti racconto delle altre bellezze di Nukus. Le altre bellezze di Nukus? Non ci sono. C’è un panorama fatto da vie dritte, case grigie invase da tubi del teleriscaldamento residuo dell’epoca sovietica, e una vegetazione che piano piano - con una certa tristezza sta prendendo possesso di tutto. È una città così brutta che alla fine diventa bella. Capisco quello che intende Luca. Anni fa sono capitato a Vinh, una città nel Vietnam del Nord. Anche lì c’era questa Si può andare al bazaar, il classico bazaar affollatissimo, in cui puoi incontrare gente di tutti i tipi. Perché la cosa bella del Karakalpakstan è che per secoli è stato un luogo di passaggio, per chi arrivava dal Mar Caspio ed era diretto verso il Turkestan cinese, per chi andava nella Valle di Ferghana. E poi tutto il DNA straniero portato lì dalle deportazioni sovietiche. E il caleidoscopio umano è ancora quello, con visi turchi che vivono gomito a gomito con fattezze russe o mongole. Nel bazaar, alle sei di sera è come stare in un presepio enorme: una serie di casupole illuminate con 40 botteghe ciascuna. E tra queste ovviamente ci sono decine di chaikanà, ciascuna specializzata in un piatto: shashlik, maiale, montone. E ovviamente il tè. Ma tu sei tornato sempre in quella dietro al Parco. Massì, perché sono un po’ della scuola che se ti piace un posto, ci torni. Perché vuoi scoprire come cucinano le altre cose. E quel plov lasciava intuire un universo da esplorare. Ma non è solo questione di cibo. 41 da quella volta anche io. Michele Placido mi ha salvato dall’unico uzbeko che odiava gli italiani. Questo tassista, appena scoperto che Luca era italiano aveva cominciato a sputare sul pavimento del proprio taxi ringhiando italiani tutta mafia (una posizione non originalissima la sua, a dire il vero). Sono rimasto veramente spiazzato, di solito basta dire italiano e diventi fratello di qualunque uzbeko. Ma questo sembrava davvero incazzato e ho cominciato ad avere un po’ paura. A quel punto non sapendo più cosa fare ho ammesso che era vero, “italiani mafia. Ma anche Kommissar Cattani”. È stata la svolta. Lui ha inchiodato il taxi, si è girato e stringendomi la mano con la luce negli occhi mi ha detto “Cattani, pravi chlaviek, un vero uomo”. Come si può non innamorarsi di un posto così? mi dice Luca andando via. Voglio tornarci assolutamente. A me continua a sembrare tutto un gigantesco scherzo di quelli di Luca. Ma appena lui esce di casa, Wikipedia mi smentisce. Il Karakalpakstan è una regione dellʼUzbekistan, il paese dei minareti che quel rocker di Tamerlano fece costruire impastando malta e teste di nemici. Wikipedia non ha certo scelto di assumersi il ruolo di Ente per la Promozione Turistica. Ma alla fine bisogna ammettere che è vero. Il Karakalpakstan esiste e Nukus ne è la capitale. Giornalismo dʼindagine batte cinismo popolare 1-0. Cosa The Street Foodie è un progetto di Luca Vergano e Cristina Amodeo. Luca scrive e Cristina illustra. Online www.thestreetfoodie.com Chi Luca Rastello oltre ad essere il nostro direttore scrive articoli e libri. Online www.ibs.it/libri/Rastello +Luca/libri.html Dove Se volete provare il plov o i samsa cercate la Chaikanà sul retro del parco dei divertimenti di Nukus. La birra? Beh, certo anche la birra. La Sarbast. Ma anche la vodka va bene. Scherzi a parte, oltre al plov ho mangiato questo buonissimo ljuli kebab (carne trita fritta e impastellata morbida e leggera), i pelmeni (specie di gnocchi), le zuppe. E i samsa. Una specie di gnocco fritto ripieno di carne di montone o formaggio. Straordinari. Però conta anche la gente che incontri, quante storie trasudano i tavoli, quelle cose lì. E questo posto è uno di quei posti i cui gli avventori sono seduti lì da così tanto tempo da essere parte dell’arredamento, con i quali finisci per metterti a parlare, di fronte a una vodka. O più vodke. Sì, ma parlare di cosa? Ci sono tre cose che bisogna sapere nell’ex Unione Sovietica per poter parlare con la gente - dice Luca - e sono Del Piero, Adriano Celentano e il Commissario Cattani. Per chi non ricordasse, il Commissario Cattani era il personaggio interpretato da Michele Placido ne La Piovra. Dopo il grande successo di pubblico e critica in Italia (anche recentemente il nostro premier ne ha sottolineato l’importanza), la serie è arrivata in Russia attraverso le Repubbliche Baltiche e in vent’anni ha conquistato tutti. Ma il successo di Michele Placido non si è fermato lì: ha poi interpretato un tenente dell’Armata Rossa in un epico kolossal sulla “liberazione” dell’Afghanistan, prodotto in Russia con relativo successo internazionale. Tutti sono pazzi per Michele Placido - conferma Luca - e 07 PRIMAVERA 2010 42 Recensioni Mondomix.com// rec e n s i o n i asia africa 43 Zarbang Call to Love musiques et cultures dans le monde Hermes Records / Egea Zarbang è un ensemble di percussioni nato nel 1996 da solisti iraniani che vivono tra Europa e USA. Dopo alcuni anni, l’ensemble oggi comprende Behnam Samani, Hakim Ludin, Pejman Hadadi, Reza Samani, Javid Afsari Rad e Morshed Mehregan. Dal vivo essi propongono anche uno spettacolo con la danzatrice Banafsheh Sayyad e la sua compagnia di danza Namah. Il merito di Zarbang è quello di fondere tra loro le percussioni tipiche della tradizione persianoiraniana - come il tamburo a calice detto zarb oppure tombak o il tamburo a cornice daf - con altre percussioni e con altri stili tipici di altre culture musicali. Call to Love è impreziosito dalla cetra su tavola santur suonata da Javid Afsari Rad ma soprattutto dalla presenza del cantore (morshed) Mehregan che con il suo intenso apporto rinvia all’antichissimo repertorio delle zurkhane (“casa della forza”), sorta di ginnasi maschili dove si praticano arti marziali tradizionali mentre il cantore (morshed) intona antichi poemi epici di lingua persiana accompagnandosi su di uno zarb dalla taglia particolare detto zarb-e zurkhane. Giovanni De Zorzi musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Saeid Shanbehzadeh Iran: Musiques du Golfe Persique Buda Records / Felmay Della tradizione iraniana conosciamo soprattutto Il radif canto poetico persiano recentemente inserito nel patrimonio immateriale dell’umanità protetto dall’UNESCO o l’arte sottile della percussione tombak (o zarb) magistralmente rappresentata in Francia dalla famiglia Chemirani. Originario del Boushehr, Saeid Shanbehzadeh è per contro uno dei rari rappresentanti delle tradizioni popolari del Golfo Persico e il solo ad essersi stabilito in Europa. Musiche di festa e di guarigione, danze o canti d’amore questo volume propone una vasta gamma di incantesimi sonori provenienti da questa parte del mondo. Shanbehzadeh è un virtuoso di strumenti a fiato, il flauto doppio (neydjofti) e soprattutto la cornamusa (ney-e-anbân) dalle sonorità ipnotiche e dal forte potere evocativo. La trasmissione di un patrimonio in via di estinzione sembra assicurata dal momento che suo figlio Naghib, a soli 16 anni, è già un ottimo percussionista. Benjamin MiNiMuM 07 PRIMAVERA 2010 MIX MON DO ma Mi a AAVV Nigeria Special: Volume 2 Nigeria Afrobeat Special Soundway / Family Affair Ballakè Sissoko & Vincent Segal Chamber Music Ponderosa / Universal musiques et cultures dans le monde AAVV MIX MON DO ma Mi a Corée: musique du pays du matin clair BudaMusique / Felmay Tra le culture musicali dell’Asia orientale, quella della Corea è certamente la meno documentata su disco. Questo doppio cd, corredato di un libretto ricco di informazioni e foto, merita dunque grande attenzione, sia per la vastità dei generi presentati - della corte e folklorici, strumentali e vocali - che per i prestigiosi interpreti coinvolti, ovvero i musicisti del Kungnip kugagwŏn (National Center for Korean Traditional Performing Arts), istituto che da oltre mezzo secolo è motore istituzionale della vita musicale tradizionale. La varietà estetica della musica coreana e la sua evidente autonomia rispetto a quella cinese e giapponese apriranno, all’ascoltatore attento, un mondo sonoro inaspettato e seducente. Daniele Sestili Le Trio Joubran avec Mahmoud Darwich A l’ombre des mots (cd + dvd) World Village / Ducale Tre oud che seguono le intonazioni della voce e avvolgono il suo respiro. Nel settembre 2008, un mese dopo la scomparsa dell’immenso poeta palestinese Mahmoud Darwich, il Trio Joubran propone una trasposizione musicale delle sue poesie davanti alla platea di Ramallah. Interludi e dialoghi a sostegno dei versi registrati dalla voce del poeta. Le corde si fondono alla parola per donarle corpo. Darwich cessa di essere simbolo per divenire spirito, resurrezione, incarnazione di questa terra, la Palestina, nella forma bruna delle sue battaglie e del suo destino legato ad un filo così simile a quello del protagonista che si compie nell’opera Le Joueur de Dé (il giocatore di dadi). Quando gli strumenti cominciano a suonare la parola diviene musica e l’arte diventa un omaggio prezioso. Anne-Laure Lemancel musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Ore passate a suonare insieme, anni di tentativi per trovare il giusto equilibrio, nessuna urgenza di documentare le loro fatiche. Sissoko (kora) e Segal (violoncello) hanno trovato la ricetta (non nuova, certo, però efficace) per ottenere ottima musica. “Se ti piace fare qualcosa, falla, senza preoccuparti di come andrà a finire” sembrano dirci, secondo un’etica e una morale che stride fortemente con la mercificazione onnivora del presente. Uno stato delle cose reso ancora più triste dall’inarrestabile dissolvimento dell’industria discografica. Chamber Music testimonia come Sissoko si stia rivelando artista totale, capace di fantasticare e progettare, non solo di assolvere, benissimo, al ruolo di performer. In questo senso il sorpasso ai danni di Toumani Diabaté pare un dato di fatto. Ballaké ha immaginato e adesso sperimentato una nuova forma di tradizione, che non si limita a interagire in modo asettico con gli strumenti occidentali. Segal è in questo senso il compagno ideale, colto e aperto, disponibile a reinventare anche sul piano della tecnica la storia del cello. Teso e non facile di primo acchito, Chamber Music, scrive un capitolo innovativo delle vicende della world music. Piercarlo Poggio Tamikrest Adagh Glitterhouse / Venus Dopo l’exploit dei Tinariwen e l’affermazione dei Toumast, la saga del blues Tuareg del Sahara prosegue con questa formazione al debutto discografico. Il leader si chiama Ousmane Agg Moussa, è cresciuto nella parte nord dell’alveo Tamashek, al confine con l’Algeria. La sua scrittura guida un percorso elettrico, messo a punto a Bamako con l’ex Walkabouts Chris Eckman, ora Dirtmusic. La grana del suono è pregiata, la vocalità Tuareg si sposa a strutture essenzialmente rock blues. Nel programma di undici titoli scorrono sia canzoni dirette, come Outamachek o Amidinin, che raffinate ballate oscure, guidate dal gioiello Aratane N’Adagh, in cui la carenza d’istruzione supera quella d’acqua nel rendere infelici i bambini. Citazione di merito anche per il polveroso reggae d’amore Tahoult. Paolo Ferrari Un poco di filologia, perché i due cd non sono così complementari come parrebbe. Nigeria Special: Volume 2 (Modern Highlife, Afro Sounds & Nigerian Blues 1970-76) è appunto la continuazione di una doppia raccolta, dedicata ai generi citati dal sottotitolo, uscita nel 2008 per la Soundway (nel catalogo dell’etichetta inglese trovate anche Nigeria Disco Funk Special e Nigeria Rock Special). Nigeria Afrobeat Special (The New Explosive Sound In 1970’s Nigeria) è compilation a sé, e non può che aprirsi con una traccia del signor Afrobeat in persona, Fela Ransome Kuti (& Africa 70), Who’re You?, un 45 giri del 1971. A seguire dieci brani interpretati da altrettante formazioni rivali (Orlando Julius, Eric Akaeze, Bongos Ikwue, Segun Bucknor…), apprezzate non solo dagli africanisti, ma mai in grado di superare l’uomo solo al comando. Se Nigeria Special vive di mid tempo e morbide colorazioni bluesy, Nigeria Afrobeat pulsa teso e spigoloso. Entrambi i cd riprendono incisioni dimenticate, ma il valore documentario passa in secondo piano se paragonato all’inarrestabile profluvio di suoni che raccontano della Nigeria assai più di qualunque trattato. Piercarlo Poggio Angélique Kidjo Oÿö Naïve/Self Chiunque delle musiche del Continente Nero abbia anche la più basica delle conoscenze sa che è da un meticciato spinto, dalla rielaborazione costante delle tradizioni che ricavano gran parte della loro forza espressiva. Da trent’anni parigina, ossia dacché lasciò appena maggiorenne il Benin, e da diciannove una stella del pop mondiale in forza per cominciare di un album come Logozo spiccatamente danzerino, la Kidjo in nessun modo può più essere costretta nel recinto della world. Qualcuno dovrà infine farsene una ragione. Ciò premesso, Oÿö esagera in eclettismo e per certo non è una delle sue prove migliori. A farlo funzionare meglio sarebbe forse bastata una diversa organizzazione della scaletta, con da una parte le numerose cover d’ascendenza occidentale o al più afroamericana (Santana, Curtis Mayfield, James Brown, Otis Redding, Aretha Franklin, Sydney Bechet) e a seguirle o precederle i brani nei quali la signora pare rivendicare l’eredità di Miriam Makeba. Eddy Cilìa 07 PRIMAVERA 2010 44 B africa africa Mondomix.com Da aprile in CD e in Digitale nei migliori negozi fisici e digitali europa Europa Diez Eliseo Parra AAVV Mirmidón / Egea musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a RODRIGO LEÃO - A MÃE “L’ex Madredeus convoca ospiti di prestigio per un lavoro ispirato e suggestivo (...) Dolcissime melodie che riportano alla luce nostalgie ataviche e sospiri grandi come il mondo (4 stelle)” ( JAM) “Leao sfrutta al meglio le malinconie della sua terra (...) Una sorta di via portoghese al postminimalismo (7/10)” (BLOW UP) “Considerato in patria una delle massime figure della musica portoghese, mette mano a un’opera ambiziosa e ricca di intuizioni, che punta a conquistarsi con il tempo lo status di classico” (ROCKERILLA) DAKOTA DAYS Progetto a respiro Europeo, Dakota Days è un duo formato da Ronald Lippok (To Rococo Rot, Tarwater, Ludovico Einaudi) e il compositore Alberto Fabris Un incontro che sfocia in un album dal sound spontaneo, intimo, che spazia dal prog rock al post punk, dalla psichedelia alla new wave. Live: 30/03 Brescia @ Lio Bar - 31/03 Roma @ Init - 01/04 Milano @ Palazzo Granaio - 02/04 Genova @ Muddy Waters - 03/04 Ancona @ La Cupa - 04/04 Modena @ Vibra DOMINIC MILLER - NOVEMBER Dominic Miller è uno dei più raffinati chitarristi al mondo (New York Times, USA) Il suo tocco è sorprendente (LA Times, USA) Ispirazione per chi ama la musica (Guitar Acoustic Classic, France) DEZ MONA - HILFE KOMMT “Da Anversa, Belgio, Dez Mona, tagliato come un diamante, scalfisce tutti i corpi senza mai ossidarsi” (Telerama, France) “I Dez Mona conservano scrupolosamente l’effetto drammatico di una musica sospesa tra il gospel, il jazz e il blues. (Brussels Agenda, Belgium) “Un album misterioso, ricco di emozioni luminose” (Accroches, Belgium) “Della tensione, della bellezza” (Telemoustique, Belgium) www.ponderosa.it07- PRIMAVERA Ponderosa Music & Art - Piazza S. Maria Delle Grazie, 1 - 20123 MILANO 2010 Éthiopiques 24 45 Éthiopiques 25 BudaMusique / Felmay BudaMusique / Felmay Prosegue senza sosta da parte dell’archeologo Francis Falceto il dissotterramento del tesoro etiopico che, al contrario del petrolio, pare ancora ben lungi dall’essere prossimo all’esaurimento. Nei due nuovi capitoli si torna a pescare nel catalogo della Amha Records, creata nel 1969 e mantenuta in vita per una decina di anni da un giovane pieno di iniziativa, Amha Eshèté, bravo soprattutto a raggirare la censura e il monopolio imposti per decreto imperiale. Il volume 24 presenta brani incisi tra il 1970 e il 1975. Vi compare anche un nome di gran moda ai nostri giorni, Mulatu Astatqé, colto di passaggio a Londra in un paio di tracce di sapore calypso in compagnia di Frank Holder & Niaaza Alsherif. L’apertura è affidata al prodigioso cantante Sèyfou Yohannes, scomparso a trent’anni e di cui si conservano poco più di un pugno di solchi. Tra gli altri nomi già incontrati nella serie abbiamo Ayaléw Mèsfin e Gétatchèw Kassa, mentre si possono scoprire Menelik Wèsnatchèw, Seyoum Gèbrèyès e Tamrat Molla. La curiosità è rappresentata dai keniani The Ashantis, al principio dei Settanta di stanza ad Addis Abeba. Il numero 25 fruga invece tra le pieghe della tradizione, non in quanto tale, bensì considerata alla luce delle modificazioni ingenerate dalla spinta modernista dei primi Settanta. Ne deriva un’antologia comprensibilmente sbilanciata verso l’acustico, in cui una parata di straordinarie voci soliste (Tlahoun Gèssèssè, Alèmayèhu Eshèté, Sèyfou Yohannes, Essatu Tèssèmma, Fréw Haylou, Abbèbè Tèssèmma, Haylé Wèrqu) sono contrappuntate o sottolineate da strumenti acustici locali (washint, krar, messenqo) oppure occidentali (mandolino, fisarmonica, pianoforte). Effetti speciali garantiti. Piercarlo Poggio Tendachent Arnèis Ethnosuoni / IRD musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Dopo una significativa pausa discografica, finalmente esce sul mercato il 4° lavoro del gruppo Piemontese; molta acqua è passata da La valle dei saraceni del 2005 e molte le traversie occorse, non ultima la tragica dipartita del bassista Gerardo Savone, che ha segnato non solo l’animo della band ma anche le scelte della nuova produzione, volte a un deciso abbandono delle sonorità elettriche in favore dell’estetica acustica. Maurizio Martinotti tiene con forza le redini del carro sonoro del gruppo, d’altronde la forte esperienza e tecnica raggiunta in qualità di grande musicista, compositore del revival folk piemontese, è data fin dai tempi della storica band della Ciapa Rusa. Arnèis non sono solo gli attrezzi del lavoro manuale contadino o lo splendido vino della zona del Roero in Piemonte, in verità diventano la doppia oggettività come pretesto sonoro di questo nuovo disco acustico e dove si trovano tutti gli aspetti positivi di chi ha fatto tesoro della propria storia. Arnèis è un costruito panorama di brani, dove ai testi tradizionali si uniscono nuove strutture melodiche sugli stilemi tradizionali, al contempo e con medesima vena creatrice si ascoltano brani, strumentali e non, di autonoma e nuova composizione dai profondi profumi tradizionali. Nuova linfa creatrice esce dal vitigno del Tendachent, che può ed è linea imprescindibile oltre che faro per quanti devono osservare nel percorrere gli odierni filari dei vigneti antichi e credetemi questa vendemmia di profumato e armonioso Arnèis ne è una prova trionfante. Giancarlo Nostrini La canzone tradizionale delle varie regioni della penisola iberica – fatta eccezione per il flamenco – è rimasta a lungo relegata a un ruolo di secondo piano. Il grande merito di Eliseo Parra, classe 1949, consiste nell’aver tentato e con un discreto successo di andare controcorrente recuperando e aggiornando brani e sonorità di una e dell’altra regione. Stoicamente a partire dagli anni ’80 ha studiato il folklore ispanico delle due Castiglie, dell’Andalusia, della Catalogna, di Euskadi o dell’Aragona contaminandolo nella decade successiva con elementi jazz, rock e perfino caraibici. Finalmente nel 1998, con la pubblicazione di Tribus Hispanicas, gli sforzi compiuti in vent’anni di lavoro danno i suoi frutti tanto che il successo lo coglie quasi di sorpresa. Diez - in versione sia cd che dvd – è una raccolta con le più riuscite testimonianze di questo trentennale percorso. Registrato dal vivo in compagnia di un vero e proprio esercito di musicisti nel disco troviamo 18 brani tra loro diversissimi per origine geografica e stile musicale e, anche quando si tratta di canzoni scritte dallo stesso Eliseo, sembra escano direttamente dal repertorio popolare. David Valderrama Cirkari Zingaros ARC Music / Evolution Music Europe Se siete tra quelli che di Goran Bregović non ne possono più pur apprezzando la musica Balcanica, allora il nuovo disco degli Zingaros dovrebbe fare per voi. Non aspettatevi però un gruppo di rom di Sofia o una banda di musicisti squattrinati sbucati dalla periferia di Belgrado perché sbagliereste decisamente strada. I tre zingaros in questione arrivano nientemeno che da Cordoba - Argentina - e dei gitani, a parte la musica, hanno poco o nulla. L’album è apprezzabile grazie soprattutto alle decise e piacevoli influenze tango e jazz ma la strada tra la Pampa e le terra dei romanes è ancora lunga. David Valderrama Rachid Taha Boban I Marko Markovic Balkanbeats Devla A night in Berlin Wrasse / Evolution Music Europe Indigo/ Piranha / Evolution Music Europe Piranha / Evolution Music Europe Bonjour Dici un nome per identificare il raï ed è Khaled. Per il numero due se la battono da tempo immemore Cheb Mami e Rachid Taha, o forse no. Nel senso che al secondo – che d’altro canto si affacciava alla ribalta trenta buoni anni fa alla testa di quei Clash franco-algerini chiamati Carte de Séjour – il raï è sempre andato stretto, l’etichetta world non gli è mai garbata granché e insomma lui nel cuore si sente un rocker. Al limite un po’ indeciso se essere il Joe Strummer di Orano oppure il Johnny Cash. Passati i cinquanta, però, pure il vecchio ribelle un po’ si è ammorbidito. Stabilisce il tono del lavoro di gran lunga più soffice e romantico che abbia pubblicato a oggi una traccia iniziale programmaticamente intitolata Je t’aime mon amour. Più che con il rock’n’roll, il pop maghrebino a questo giro si confonde con il downtempo (con esiti spettacolari in It’s An Arabian Song) e con una chanson post-Négresses Vertes. Eddy Cilìa Una delle più popolari orchestre gitane di Serbia. Una tromba che suona ininterrottamente da diverse generazioni e che ha fatto dei suoi ultimi due rappresentanti Boban e Marko Markovic, padre e figlio, un vero e proprio baluardo della musica serba nel mondo. Attivo con la sua orchestra da quasi vent’anni, Boban ha prodotto un’infinità di dischi a suo nome e ha all’attivo collaborazioni e partecipazioni musicali sia locali che internazionali. Ha collezionato premi e riconoscimenti, ha recitato in un film (il pifferaio magico di Hutzovina) e continua a produrre musica con una vivacità sorprendente. Accompagnato dal figlio Marko, ormai veterano della tromba nonostante la giovane età (ha iniziato a suonarla che era ancora bambino), Boban ci dà con Devla un’ulteriore prova del suo leggendario virtuosismo musicale meritando a pieni voti l’appellativo di re della fanfara gitana, come viene affettuosamente considerato in patria. Elisabetta Sermenghi Quarto spumeggiante episodio della serie Balkanbeats. Come recita il sottotitolo, si tratta di battiti berlinesi, ovvero di una tipica scaletta da discoteca, in quel di Berlino, dove sotto l’egida del dj Robert Soko le notti si movimentano a ritmo di fanfara balcanica. Anche qui troviamo, in ordine sparso, alcuni dei protagonisti delle altre fortunate raccolte che vanno sotto il nome di balkanbeats. Dallo ska balcanico di Magnifico all’hip-hop di Rotfront, dalle trombe suonate a velocità supersonica di Boban i Marko Markovic alla dance dei Kal, da Shantel con l’Amesterdam Klezmer band alle Fanfare Ciocarlia tanto per citarne alcuni. Per quanti sono convinti che le risorse della musica balcanica possano essersi esaurite dopo le abboffate bregoviciane e il proliferare di gruppi lanciatisi nel settore, questo disco dimostra che così non è. Divertente, coinvolgente e soprattutto mai uguale… una musica che non invecchia! Elisabetta Sermenghi 07 PRIMAVERA 2010 46 europa Mondomix.com// rec e n s i o n i americhe 47 47 Ana Alcaide Ana Alcaide en concierto: Sinagoga del Transito de Toledo Lubicán Records / Egea Rodrigo Leão A Mãe Ponderosa /Universal musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Nuovo capitolo nell’interessante carriera solista di Rodrigo Leao insieme al suo Cinema Ensemble. Il compositore portoghese è attivo sin dai primi anni ottanta, prima come bassista della Sétima Legiao, poi confluita nei Madredeus con i quali invece suonava le tastiere e componeva la maggior parte dei brani. Risalgono al 1993 i suoi primi progetti solisti che hanno visto sfilare nel corso degli anni ben otto dischi e fior di collaborazioni internazionali. Da Teresa Salgueiro a Beth Gibbons (Portishead) da Ruichi Sakamoto a Carolina Ana senza tralasciare tutto un mondo di altre voci meravigliose magari poco conosciute al nostro mercato discografico. E A Mae non è certamente da meno. Qui troviamo ancora una volta brani di fado, tanghi e atmosfere suggestive dal sapore cinematografico con il contributo di artisti come Stuart A. Staples (Tindersticks) e di Daniel Melingo, il grande ambasciatore del nuovo tango. Nel 2004 Leao aveva prodotto il meraviglioso Cinema che altri non era che una colonna sonora immaginaria. La magia si ripete in questo disco di musica da vedere, o meglio ancora, per visioni da immaginare. Elisabetta Sermenghi Juan Lorenzo Flamenco de concierto Felmay / Egea A partire dagli anni ’30 del ‘900 il flamenco, da semplice genere musicale a carattere popolare, subì una evoluzione straordinaria che lo condusse al rango di musica oggetto di studio, ricerca e innovazione. Frutto di questa straordinaria evoluzione fu la costituzione nel 1958, nella città Andalusa di Jerez de la Frontera, della prima cattedra di flamencoligia. Cinquant’anni dopo anche il nostro Paese può annoverare numerose scuole e cattedre nei conservatori dedicate allo studio e la ricerca del flamenco. Tra i promotori di questa il chitarrista Juan Lorenzo ha il doppio merito di aver portato la guitarra flamenca e nel conservatorio di Terni e nelle sale di concerto di tutta Italia. Qui lo ritroviamo in un disco interamente dedicato a un suo sottogenere: il flamenco de concierto. Si tratta di una sorta di tributo ai grandi maestri del passato, primo fra tutti Ramon Montoya, il primo ad aver portato la chitarra flamenca sullo stesso piano del canto e della danza fino a proporre negli anni trenta i primi concerti di sola chitarra. I dieci brani che compongono il disco sono un ventaglio perfetto delle tante forme che contraddistinguono il flamenco: dalla più solenne soleà, alla più ritmica buleria fino alla più contaminata guajira di origine sudamericana. David Valderrama 07 PRIMAVERA 2010 L’eclettismo artistico di Ana Alcaide non ha paragoni. Lungi dal produrre una musica frutto di combinazioni più o meno azzeccate ma per nulla ricercate, si è al contrario immersa negli studi più svariati – dalla canzone sefardita, alla musicalità della Nyckelharpa svedese alle melodie del maghreb fino alla poesia turca – e la cosa più sorprendente è che i risultati ottenuti sono tutti eccellenti. In questo concerto filmato nell’atmosfera medioevale della maestosa Sinagoga del transito di Toledo la troviamo in compagnia di un pool di artisti da brivido come Carlos Beceiro, Jaime Muñoz e Bill Cooley. I dodici brani qui proposti sono tratti dai suoi precedenti album Viola de Teclas e Como la luna y el sol e affondano le proprie radici nella cultura ebraico-sefardita sviluppatasi in Spagna durante millecinquecento anni fino alla loro cacciata voluta dai re Ferdinando e Isabella nel 1492. Come la luna e il sole che sempre si inseguono e mai si incontrano così Ana vede i sefarditi che sognano con il ritorno nella patria perduta e contemporaneamente si mantengono lontani da una terra che li ha ripudiati. In questo DVD il ladino, l’antico castigliano perpetuatosi nelle comunità sefardite dell’esilio, riacquista vitalità e slancio grazie alla candida voce della sua sensibile interprete. David Valderrama AAVV Fiestamania! Golden Brass Summit Network / Evolution Music Europe Centinaia di migliaia di persone accorrono ogni anno alla più grande festa dei Balcani. Settanta telecamere e la regia di Ilija Stankovic hanno catturato il sapore di questo evento unico nel suo genere. Ottantasei minuti di filmati che mostrano questa grande festa in tutta la sua splendida vitalità. Oltre 400 strumenti a fiato e tante bande in gara per la tromba d’oro (Golden Trumpet). Le performance si susseguono alternate da immagini di danza e di festa con un repertorio che va dai classici popolari della tradizione rom ed ebraica a epiche reinterpretazioni di standard jazz. Fanfare travolgenti, ragazze che si cimentano nella bellydance, birra, zatteroni, tacchi a spillo e piedi nudi che si mescolano in un’unica danza travolgente. Una festa infinita che infiamma la folla oceanica. Splendido il montaggio dei quattro documentari contenuti nel dvd che insegue i musicisti in ogni momento della giornata, regalandoci immagini delle loro scorribande fra la gente, mostrandoceli durante il concerto sul palco e anche quando ormai esausti si sdraiano vicino al proprio strumento prima di abbandonarsi a un sonno ristoratore. Per noi che non abbiamo potuto partecipare a questo evento è una grande consolazione e magari anche lo stimolo per cercare di partecipare alla prossima edizione! Elisabetta Sermenghi OGNI MESE IN EDICOLA musiques et cultures dans le monde Maria Bethânia MIX MON DO ma Mi a Tua/Encanteria Biscoito Fino / Family Affair A sessantatre anni - quattro meno del fratello Caetano Veloso: somiglianza di lineamenti fattasi sempre più marcata con il tempo, tant’è che oggi li si direbbe gemelli – la grande signora della MPB può permettersi non solo di rifiutare qualunque compromesso (non accadeva negli ’80 e qualche suo disco ne risultò sciupato) ma di dettare lei le regole del gioco. Può ad esempio imporre (e non è nemmeno la prima volta: c’è un precedente del 2006) l’uscita non di un doppio album bensì di due lavori ben distinti, pubblicati però in contemporanea. Il fan costretto al duplice esborso potrebbe non gradire, ma artisticamente l’operazione è inattaccabile per quanto risultano diversi Tua e Encanteria: il primo una collezione di ballate crespuscolari costruite su piano, chitarra acustica, una voce di espressività formidabile; il secondo una collezione festosa di samba. Argomento di quest’ultimo il rapporto con il sacro, di quell’altro l’amore. Sono dischi pregiati nel loro ambito: l’acquisto dipende naturalmente da quanti altri album di pop brasiliano, e nello specifico della Bethânia, avete in casa. Eddy Cilìa Jack Rose Luck In The Valley Thrill Jockey/Self Che tristezza parlare al passato di Jack Rose quando fino a pochi mesi fa del non ancora quarantenne chitarrista si scrivevano panegirici in cui senza più remore – cancellate da una sequela di album uno più convincente dell’altro – lo si raccontava come un John Fahey per il XXI secolo. L’infarto che ce lo ha strappato il 4 dicembre è giunto tanto improvviso, con questo disco pronto per la pubblicazione, che una casa discografica colta di sorpresa come tutti noi ha proceduto a stamparlo senza notare un macabro dettaglio: che nell’interno di copertina figura un contatto per l’organizzazione di concerti. Per essere il congedo che nessuno poteva immaginare che fosse, Luck In The Valley è un gran bell’addio. Non più in solitario come nelle prime prove post-Pelt ma fiancheggiato da sodali squisitamente complici, Rose tesse arazzi sublimi nei quali il rag è parente stretto del raga e fra blues e bluegrass non corre che qualche lettera di differenza. Eddy Cilìa Avanguardia, Blues, Country, Etno, Exotica, Folk, Free, Funk, Glitch, Hip Hop, House, Improvvisata, Indie Rock, Industrial, Jazz, Lounge, New Wave, Pop, Post Rock, Progressive, Psichedelia, Rhythm’n’Blues, Rock’n’Roll, Soul, Sperimentale, Techno... www.blowupmagazine.com 07 PRIMAVERA 2010 48 americhe Mondomix.com// rec e n s i o n i Bebo Valdés Mercedes Sosa Son / Egea Sony Music Greatest Hits Lhasa lhasa Warner musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Terzo ed ultimo lavoro della minuta cantante trentasettenne, canadese d’adozione, scomparsa il primo gennaio di quest’anno dopo quasi due anni di lotta contro il tumore. Si tratta di un disco particolarmente intimista, un vero e proprio testamento poetico di cui forse solo oggi, che se ne è andata, ci possiamo rendere conto. Dietro di sé questo ultimo sforzo che ha semplicemente voluto intitolare col suo nome, Lhasa, quasi una sintetica definizione a testimoniare il suo breve passaggio sulla terra. A differenza dei lavori precedenti, in cui cantava nelle sue due lingue madri (spagnolo e inglese) e nella sua lingua d’adozione (francese) e nei quali la musica aveva arrangiamenti più elaborati, qui troviamo atmosfere rarefatte e musicalità minimali ad accompagnare le sue bellissime poesie (in inglese), che nonostante la venatura malinconica recano un messaggio di grande forza. .ׂ . l’amore è arrivato qui e dovrò amarti per sempre anche se i nostri giorni di vita assieme sono finiti» recita love came here. Una forza che neppure la morte può riuscire a cancellare. Parlando dei suoi primi concerti, quando si esibiva nelle birrerie di Montreal, un’esperienza che fra l’altro aveva amato moltissimo, raccontò che riuscire a farsi ascoltare anche da chi era impegnato a bere in compagnia degli amici era stato per lei una specie una sfida e aveva impegnato tutta se stessa per far sentire la sua voce e arrivare al cuore delle persone. Mi pare che ci sia riuscita. Buon viaggio Lhasa. Elisabetta Sermenghi Anche compositore e direttore d’orchestra, l’oggi novantunenne pianista cubano esule al 1960 viene fotografato da questa raccolta nel suo periodo di massimo splendore, a cavallo della rivoluzione. Venticinque tracce in cui il tocco inconfondibile di son, rumba e bolero si avvicenda alle esplicite Music Box Mambo, Mississippi Mambo, Big Shot Cha Cha Cha. Con le radici ben salde nel classico Siboney, il tocco di Valdés è cosmopolita, come si conviene a un uomo di mondo che seduce con il suo pianoforte e con arrangiamenti orchestrali da Cotton Club. Regale il parterre degli ospiti, guidato dal Cachaito López e dal El Tojo Jiménez; cantano Celeste Mendoza, Pacho Alonso, Rolando Laserie e Pio Leyva. Esaustive le note biografiche, meno quelle discografiche. Paolo Ferrari Eric Bibb Booker’s Guitar Telarc / Egea Figlio (il padre Leon un apprezzato folksinger) e nipote (lo zio John pianista nel Modern Jazz Quartet) d’arte, Eric Bibb non ha mai dimenticato il consiglio che un amico di famiglia – tal Bob Dylan – gli diede quando era un ragazzino: “Suona semplice”. Chitarrista superbo, il nostro uomo è una volta di più (una ventina gli album al suo attivo) bravissimo a spostare l’attenzione dalla tecnica al pathos interpretativo in tredici composizioni originali ispirate da un incontro a Londra con un anziano fan che gli portò da suonare uno strumento appartenuto a Bukka White. Due stupende letture del tradizionale Wayfaring Stranger (una resa decisamente cupa) e di Nobody’s Fault But Mine di Blind Willie Johnson completano il programma di una collezione di blues acustico con pochi pari nella discografia degli ultimi anni. Eddy Cilìa Lila Downs y La Misteriosa En Paris - Live à FIP Omara Portuondo Greatest Hits Son / Egea Trent’anni di carriera, dal 1967 al 1997, in venti tracce piene di emozioni e di personalità. Mai divina, sempre stella coni piedi per terra, la superba cantante cubana non risparmia in questo menù di carne e fiori alcuni dei cavalli di battaglia del repertorio con cui tuttora incanta le platee di tutto il mondo: difficile che Quizás, Quizás, Quizás, qui in tandem con Teresa García Caturla, Hasta Siempre e Quiero Hablar Contigo di Carlos Puebla, Ay Caramba di Juan Pablo Torres o La Cumbancha di Agustín Lara abbiano avuto nella loro lunga vita migliore interprete di lei. Il programma è bene organizzato: anziché un banale ordine cronologico o tematico, si è scelta la strada di genere. Ecco allora i dieci bolero iniziali bilanciati dal son, dalla canción e dall’isolato cha cha cha La Última Noche. Paolo Ferrari 07 PRIMAVERA 2010 World Village / Ducale Registrato alla Maison de la Radio l’11 maggio del 2009 questo album raccoglie una quindicina di brani dal vivo tratti dal vasto repertorio già presente nella mezza dozzina di album realizzati da Lila Downs. La Misteriosa, l’orchestra di otto musicisti che l’accompagna con successo sin dagli esordi, permette alla cantante messico-statunitense di dare spazio a tutto il suo talento evidenziando la sua voce straordinaria con cui coniuga armoniosamente tecnica e sentimento, precisione e passione. Più diretto e meno freddo degli album prodotti in studio questa versatile registrazione dal vivo propone un repertorio che non chiede di meglio: la sua versione della Cucaracha è perfetta, per non parlare poi della Cumbia del Mole nella quale l’entusiasmo del pubblico sale alle stelle. Un bella introduzione al suo lavoro per quanti non sono ancora stati travolti dal fascino di Lila. Squaaly 49 Cantora-Un Viaje Intimo Cantora, così si intitola sobriamente l’ultimo album della diva argentina Mercedes Sosa, scomparsa lo scorso 4 ottobre all’età di 74 anni. Un titolo da regina per la donna che non ha mai cantato per vivere ma che ha sempre vissuto per cantare, che rifiutò di sposare un buon partito per l’amore di un altro uomo squattrinato ma che sapeva scrivere canzoni più belle. «Amo le mie canzoni come se fossero il mio uomo» confida nell’intervista di Un Viaje Intimo, il magnifico documentario che narra la storia di questo disco. Perché di amore certo si tratta. Di tenerezza, di ammirazione, di rispetto per gli artisti sudamericani. In quest’ opera si omaggia l’icona argentina, una testimone della storia nonché grande ispiratrice della forza femminile con una ventina di duetti. Shakira, Lila Downs, Jorge Drexler, Daniela Mercury… dal rap tango alle spezie del flamenco, dal lirismo rock agli effluvi della bossa, Mercedes si adatta e fa vibrare le nostre corde più sensibili come uno strumento accarezzato dalla sua voce. Piena di umiltà, rinnova questo feeling con ogni artista come Caetano Veloso, suo grande amico fraterno, a cui confessa di piangere d’amore ogni volta che lo ascolta. Baci con le lacrime, i suoi brani parlano di piccoli mondi e di grandi emozioni pur mantenendo il suo impegno immutato. «Cantare è un dono di Dio e io in cambio devo aiutare quelli che non hanno niente. La mia arte è una consolazione» spiega la ragazzina povera divenuta una star internazionale celebre sia per la sua voce che per quanto ha detto, pensato e difeso in tutta la sua vita. Con Cantora ci lascia un ultima preziosa umana eredità sotto forma di canzone, musica e letteratura. Parlando di lei il cantautore Vincentico afferma «è come se fosse sempre esistita, come se dovesse esistere per l’eternità» facendogli eco Mercedes gli risponde alla fine del suo Viaggio intimo con una canzone di Charly Garcia: «Non sto per morire.. non sto per morire..» un ritornello ripetuto all’infinito in una sorta di sfida al tempo e alla sua stessa scomparsa. Anne-Laure Lemancel Trio Esperança De Bach à Jobim Heads Up / Egea Per parlare di un album così bisogna fare delle supposizioni, ma non delle supposizioni azzardate; piuttosto delle “piroette con la fantasia”. Cose del tipo, Chissà come sarebbe suonata Penny Lane se McCartney e Lennon anziché nascere a Liverpool fossero nati a Rio de Janeiro. Perché, se è vero che il contesto in cui si vive condiziona la maniera di pensare, agire e creare, è plausibile immaginare i sopraccitati artisti – facendoli nascere però in Brasile – comporre qualcosa dal sound un po’ più Bossa Nova; qualcosa di più vicino a quanto proposto dal Trio Esperança nell’ultimo lavoro “De Bach à Jobim”. Le sorelle Corrêa tornano infatti dopo undici anni proponendo, tra le altre, anche un paio di riletture dei Beatles. L’intento è quello di bissare il successi degli anni Novanta mantenendo inalterata la ricetta: canto polifonico a cappella espresso su un repertorio contemporaneo. Repertorio di cui fanno parte, in primis, grandi classici della tradizione carioca di De Moraes, Jobim, Buarque. Bruno Tecci musiques et cultures dans le monde MIX MON DO ma Mi a Jonny Cash American VI: Ain’t No Grave American Recordings Questo nuovo album di Johnny Cash, sei anni e mezzo dopo la sua scomparsa, sembra letteralmente spuntare dall’aldilà. «Non c’è una tomba che possa trattenere il mio corpo sulla terra» (there ain’t no grave gonna hold my body down) canta proprio all’inizio del disco, e il classico spiritual che dà il nome all’album raramente è stato più appropriato. Anche se Cash non aveva certamente bisogno di questo album per assicurarsi un posto nella leggenda della musica americana, con questo CD il mito ne esce, se possibile, ancora più rafforzato. Terminato quello che sarebbe stato il suo ultimo album in vita America IV: The Man Comes Around il cantante country, malato, temeva di non riuscire più a registrare. Dal1994 la sua super prolifica collaborazione col geniale produttore Rick Rubin (Run DMC, Public Enemy, Slayer, Mick Jagger, U2…) gli aveva permesso di ritrovare il successo e di registrare le più belle pagine della sua carriera. Durante gli ultimi mesi di vita stanco e provato dal diabete, Cash riusciva comunque a trovare il coraggio di raggiungere lo studio. Fino agli ultimi giorni, anche dopo la scomparsa della sua adorata moglie, la cantante June Carter, aiutato da Rubin e assistito da suo figlio, Johnny Cash ha registrato materiale per altri due album: American V: A Hundred Highway uscito nel 2006 e quest’ultimo capolavoro ossessionato dalla morte ma bello come la vita. Questa testimonianza di fede in Dio e nella musica, non ha nulla da invidiare in quanto a bellezza ai cinque volumi che lo hanno preceduto. Come per gli altri, e con l’eccezione della biblica I Corinthians 15:55, firmata dall’uomo in nero, si tratta di un album di cover, questa volta senza rivisitazioni spettacolari o inaspettate come Hurt dei Nine Inch Nails, del 2003, che fu il suo ultimo successo prima di morire. Le canzoni scelte provengono tutte dal repertorio folk e country americano. Da Cool Water di Bob Nolan, resa celebre da Hank Williams, a For The Good Times di Kris Kristofferson, all’inno pacifista Last Night I Had the Strangest Dream eseguiti con una classe e una grazia inconsuete che accentuano gli incredibili arrangiamenti. Il disco termina con il tradizionale canto d’addio hawaiano Aloha Oe. La voce trema un po’ ma la slide guitar rimuove ogni ostacolo. Benjamin MiNiMuM 07 PRIMAVERA 2010 50 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE fusion Mondomix.com// rec e n s i o n i Saba FELMAY 51 www.felmay.it Giuliana Soscia & Pino Jodice italian tango quartet Biyo Antiche pietre Sud / Egea Alfamusic / Egea A cavallo tra il 2008 e il 2009 Saba Anglana e Fabio Barovero sono andati in Etiopia. Per entrambi non si è trattato solo di un viaggio. 1 2 3 Da una parte c’era la riappropriazione fisica della propria memoria infantile, di radici macerate dagli anni, di sogni familiari (Saba ha vissuto i primi sei anni di vita tra la Somalia e l’Etiopia prima di trasferirsi in Italia), dall’altra la curiosità famelica nei confronti di un continente che ha temprato il mood di tante avventure sonore, di tanti intrugli ritmici, di tante ossessioni timbriche (la barra di Barovero, fin dai tempi 7dei Mau Mau, è puntata verso il basso 8 paradiso africano). Il risultato di questa ricerca sul campo, così necessaria alle biografie e all’immaginario di entrambi, è un album frastagliato eppure permeato dall’imprinting di quel viaggio. Una tanica gialla di plastica, riciclata, con impiantato un cono così che diventi altoparlante, è diventato il simbolo di questo percorso dedicato all’acqua (Biyo in Somalo). 9 10 Amarico, inglese, somalo e italiano le lingue messe in gioco da Saba che declama sempre le sue liriche con impeto e partecipazione. Gli strumenti fotografano lo stesso armamentario plurale: si va dal basso elettrico alla kora, dal krar al masinko...L’Addis Abeba di Saba sa di Ethiopiques, ma sa anche di nu soul, pop, hip hop, e in Biyo si mescolano le influenze con lo stesso realismo poetico di un proverbio 11 mia casa è dove piove». 12 13 subsahariano: «la XP• Mondomix marzo 2010 4-03-2010 13:25 Pagina 2 Valerio Corzani Gli autori del disco rifiutano l’idea che questo lavoro possa essere ricondotto esclusivamente nel campo del tango-jazz e noi, diligenti, ci associamo alla 4 5 6 loro visione. Il sodalizio tra la fisarmonicista laziale Giuliana Soscia e il pianista napoletano Pino Jodice iniziato nel 2006 con la creazione del italian tango quartet viene qui portato a maturità con un’opera che racchiude una intensissima e mai noiosa concomitanza di stili dell’uno e dell’altro genere. Ampio spazio viene dato al tango degli esordi, quello più intriso di quelle sonorità italiane portate a Buenos Aires dagli emigranti sul finire dell’ottocento. Non mancano gli accenni ai grandi maestri come dimostra il brano la camorra III di Astor Piazzolla e forte è l’influenza esercitata sulla Soscia dalla tradizione folklorica tosco-emiliana e su Jodice del jazz mediterraneo. Il tutto per essere compreso ha bisogno di una chiave di lettura postmoderna evitando di sforzarsi di trovare i nessi tra i diversi stili, potrebbero non esserci. L’importante è il raffinato risultato. David Valderrama Egea Records presents Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito 14 15 www.mondomix.com thiopiques FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE www.felmay.it FELMAY 16 17 18 19 1 2 20 21 7 8 vol. 1 - L'age d'or de la musique ethhiopenne moderne 1969-1975 vol. 2 - Azmaris urbains des annèes 90 vol. 3 - L'age d'or de la9 musique ethiopienne moderne 1969-1975 vol. 4 - Mulatu Astatke Ethio Jazz & Musique Instrumentale, 1969-1974 11 felmay 07 PRIMAVERA 2010 EGEA distributore esclusivo per l’Italia Birkin Tree Virginia 3 new 5 new 6 «Il miracolo italiano? Esiste: si chiama Birkin Tree. Da vent'anni 22 23 24 25 importa i suoni del folk celtico (uillean pipes, flauti, violini…), li rielabora e li restituisce ai "maestri" irlandesi che regolarmente innestano l'albero savonese nei loro festival.» (Repubblica) vol. 5 - Tigrigna Music 1970-75 vol. 10 - Tezeta - Ethiopian «IBallads Birkin Tree Blues and vol. 6 - Mahmoud Ahmed Almaz 1973 Harp of King David vol. 7 - Mahmoud 10 Ahmed Erè mèla mèla 1975 vol. 8 - Swinging Addis 1969-1974 vol. 9 - Alèmayehu Eshété 12 4 vol. 15 - Europe meets vol. 21 - Emahoy Tsegué & Maryam Guèbrou mettono tappeto mazzo di brani Ethiopia sul - Jump to Addisun sontuoso Piano Solo mescolando ballate, traditional e loro composizioni con bella alternanza vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu vol. 11 - Alèmu Aga - The di ritmi e melodie. » (Blow Up) vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté The Lady with the Krar 1972/1974 17 - bene Tlahoun Gèssèssè dellaTerra a cui si riferiscono, a trasmetterevol. molto la malinconia vol. 12 -«Riescono Konso Music 23 - Orchestra Ethiopia Nord unvol. soffio mediterraneo, un & Songs si legano al folclore delvol. 18 - Europa Asguèbbaportando ! vol. 24Bravi.» - L'age d'or de la colore caldo, che si sente ed echeggia, di pezzo in pezzo. vol. 13 - The Golden (Mucchio Selvaggio) vol. 19 - Mahamoud Ahmed musique ethiopienne Seventies - Ethiopian Groove 1974 - Alèmyè moderne 1969-1975 vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya Negus of Ethiopian Sax 13 vol. 20 - Either Orchestra & Guests - Live in Addis 14 vol. 25 - Modern Roots 1971/1975 15 felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo strada Roncaglia 16 - 15033 San Germano AL - Italy ph +39 0142 50 577 fax +39 0142 50 780 [email protected] www.felmay.it 07 PRIMAVERA 2010 Ossigeno Digital Distribution L’aggregatore che promuove e distribuisce la musica indipendente italiana nel circuito digitale in tutto il mondo Distribuiamo: 5.1 Records, 800A Records, alma music, Anelli Records, Atelier Calicanto, Auditorium, Bertostudio, Caligola Records, Felmay, Finisterre, Geos, High Tide, I Dischi della Vetrocipolla, Kob Records, Lao Tsu Productions, Le Parc, Level49, MEI, MF Records, Nota, One Love Records, Rasta Snob Records, Storie di Note, Suono, Taranta, Taukay, Tauri Records, Terre Sommerse, Toast Records, Tre Lune Records, Vedette Records, Young NRG Productions e altri... www.ossigenodigitaldistribution.com Ossigeno Srl Via Marovich, 5 30174 Chirignago Venezia 041-5441558 [email protected]