ambrogio sparagna orchestra popolare italiana

GRATUITO
musiche e culture nel mondo
primavera 2010
07
........... E la banda ride
..........................................
AMBROGIO SPARAGNA
ORCHESTRA POPOLARE ITALIANA
07
primavera 2010 www.mondomix.com
www.mondomix.com
Mirco Menna & la Banda di Avola
ALI
FARKA
TOURE
• ELENA
LEDDA
• SQUILIBRI
BRASILE
IN MUSICA
. Universo
. Camarón
Django
Reinhardt
Kora
de la Isla . •
Ice
Music . Street
Foodie
Sommario
Mondomix Italia — n°7 primavera 2010
04 Editoriale
06 / 14 AttualitA’
06 - Attualita’-Mondo
08 - Attualita’-Visioni
10 - Attualita’-Profili
10 - Guinga
12 - Milingo
13 - Moussu T
14 - Mirabassi
16 / 34 MUSICA
16 - Manouche
19 - Django Reinhardt
20 - Universo Kora
20 - Toumani Diabate
22 - Ballake Sissoko
24 - Foday Musa Suso
25 - Mirco Menna & Banda
28 - Camaron de la Isla
32 - Sevdah
di
Avola
35 / 41 360°
35 - Womex 2010
37 - Ice Music
38 - San Pietroburgo
40 - Street Foodie: Karakalpakstan
42 / 50 RECENSIONI
42 - Asia
43 - Africa
45 - Europa
47 - America
50 - Fusion
13
Moussu T
19
Django Reinhardt
20
Ali & Toumani
Periodico gratuito
Editore FM2
Direttore responsabile Luca Rastello
Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano
[email protected]
Hanno collaborato Akenataa Hammagaadji, Anne-Laure Lemancel, Antonello
Lamanna, Benjamin MiNiMuM, Bruno Tecci, Daniele Sestili, Eddy Cilia, Emanuele
Enria, Enrico Verra, Giancarlo Nostrini, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Luca
Morino, Luca Vitali, Mauro Zanda, Max De Tomassi, Paolo Ferrari, Piercarlo Poggio,
Squally, Valerio Corzani
Pubblicità [email protected]
Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected]
Redazione Via Martiri della Libertà 19, 10131 Torino
Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino
47
Boban Markovica
47
Lhasa
Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale)
Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il
logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2.
Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni,
pubblicità e materiali promozionali.
50
Giuliana Soscia & Pino Jodice
4 Mondomix.com
Editoriale
La banda è una dei collanti musicali del nostro paese. Sia nelle grandi città che paesi di provincia, la banda accompagna
alcuni dei momenti più importanti della vita privata (matrimoni, funerali, feste dei coscritti) e pubblica (celebrazioni
nazionali, feste patronali) a sottolinearne l’importanza e contribuendo a rendere questi momenti dei fatti collettivi.
Esistono bande piccole e grandi, militari, di paese, pubbliche o sostenute da club privati. Negli anni la funzione sociale
della banda è in parte scomparsa perché sostituita da altre forme musicali o dal silenzio, ma nei momenti più significativi
ancora oggi la vediamo riapparire in tutta la sua solennità quasi a consolidare la propria mobilità e capacità di adattarsi
ai tempi moderni.
Per questo ci è sembrato giusto darle la copertina di questo numero. La Banda di Avola, con questa sua nuova produzione
discografica, ha compiuto un passo importante diventando a tutti gli effetti un gruppo, numeroso, di supporto a un
cantautore, Mirco Menna. Al di là del risultato artistico, che comunque ci sembra riuscito, desideriamo dare visibilità ad
una formazione musicale che sicuramente costituisce uno degli elementi propri dell’Italianità.
Fra i tanti meriti della World Music c’è anche quello di aver introdotto nell’immaginario musicale attuale una serie di
strumenti e sonorità che fino a ieri erano di puro appannaggio locale. Fra questi la kora. E’ questa una specie di arpa
ricavata dalla zucca, con un lungo manico di legno e le corde spesso fatte di filo da pesca, il cui suono dolcissimo e
immediato compare ormai nelle produzioni musicali più diverse. Da Jovanotti al Jazz, dalla musica New Age a quella
classica. La pubblicazione dei nuovi Cd di due grandi maestri dello strumento, Toumani Diabate e Ballake Sissoko, la
vittoria del Grammy Awards di Mamadou Diabate con il suo Cd di sola kora, ci hanno offerto lo spunto per parlare con
alcuni protagonisti.
Cento anni fa nasceva Django Reinhardt, un musicista difficile da collocare per la sua musica a cavallo fra i generi. Ne
ripercorriamo la storia e il suo amore per lo strumento cercando di individuarne gli eredi più significativi,
Il consueto giro del mondo in musica tocca in questo numero il gelo del Festival del Ghiaccio di Geilo (Norvegia) ed il
calore del tango ballato a San Pietroburgo (Russia), passando per l’ultima edizione del Womex a Copenhagen (Danimarca).
Curiosamente questa volta si tratta di un viaggio tutto al Nord, cercheremo di rimediare nelle prossime edizioni.
Questo è tutto per questo numero, il resto è scritto nelle pagine seguenti.
Arrivederci al prossimo.
La redazione
Puoi scaricare gratuitamente il PDF di Mondomix Italia dal sito www.mondomix.com
07 PRIMAVERA 2010
6 Mondo
Mondomix.com //a t t u a l i t à
Attualità
Sono stati attributi gli annuali Grammy
Awards per il 2009. Per quanto
riguarda la sezione World Music
segnaliamo la vittoria nella categoria
Best Traditional World Music Album di
Mamadou Diabate con Douga Mansa
(World Village / Ducale).
Mentre
nella
categoria
Best
Contemporary World Music Album
ha vinto Bela Fleck con Throw Down
Your Heart: Tales from the Acoustic
Planet, Vol. 3 - Africa Sessions
(Rounder / IRD)
Gli altri album nominati nelle due categorie sono stati
* Ancient Sounds - Rahim Alhaj and Amjad Ali Khan Double
* Play - Liz Carroll & John Doyle
* La Guerra No - John Santos Y El Coro Folklórico
Kindembo
* Drum Music Land - Ten Drum Art Percussion Groupe
e
* Welcome To Mali - Amadou & Mariam
* Day By Day - Femi Kuti
* Seya - Oumou Sangare
* Across the Divide: A Tale of Rhythm & Ancestry - Omar
Sosa
Anche quest’anno si tiene a Marsiglia
il Babel Med Music, fiera della World
Music con un occhio di riguardo ai
paesi dell’area Mediterranea. Ne
daremo dettagliata informazione sul
prossimo numero.
Online www.dock-des-suds.org/#babel
Se vi trovate a Londra fra il 26
marzo e l’11 aprile non perdetevi il
Darbar Festival, probabilmente il più
importante festival di msuica indiana
in Europa
Online www.darbar.org.uk
Kate McGarrigle
è mancata, a Montreal, lo scorso 18
gennaio, era nata a Saint-Sauveur-desMonts (Canada) il 6 febbraio 1946.
Con la sorella Anne aveva fondato un
formidabile duo che per anni ha mietuto
successi in tutto il mondo proponendo
uno stile ispirato alla tradizione celtica e canadese capace
di coniugare la tradizione della canzone d’autore Nord
Americana ed il folk rock britannico. La loro più riuscita
produzione discografica risale agli anni ’70 e ’80 e nasce
dalla collaborazione col produttore Joe Boyd.
Online www.mcgarrigles.com
07 PRIMAVERA 2010
Alberto Cesa
La notte del 6 Gennaio scorso è
improvvisamente mancato Alberto Cesa,
figura di spicco della musica popolare
piemontese ed italiana. Polistrumentista
(ghironda,
chitarra,
dulcimer)
ma
soprattutto cantante, aveva fondato con Donata Pinti
nel 1974 Cantovivo, gruppo storico del folk revival. Fin
da questi esordi il magico connubio vocale dei due era
diventato un marchio di fabbrica e di eccellenza per il
gruppo. Da sempre impegnato politicamente, ma anche
attento ricercatore delle tradizioni piemontesi, nei primi
anni ’70 Alberto aveva traghettato Cantovivo dai canti
sociali e di lavoro alle ballate popolari, imprimendo una
svolta decisiva alla carriera del gruppo che conquisterà
con LP Leva la gamba il Grand Prix International du Disque
di Montreaux. Da allora migliaia di concerti in tutto il
mondo, innumerevoli pubblicazioni discografiche sia col
marchio Cantovivo sia come ospite o solista. Imperdibile
I Fogli Volanti, cd-libro edito da Il Manifesto nel 2001, che
raccoglie poesie, scritti e canzoni di lotta insieme a ballate
emozionanti e canzoni divertenti: una testimonianza della
sensibilità artistica e della coerenza che lo hanno distinto
in più di trent’anni dedicati alla musica altra. Prima di
andarsene stava preparando i festeggiamenti per il 35
anniversario di Cantovivo con un cofanetto di 4 CD / DVD /
Canzoniere. Alberto, uomo dalla personalità prorompente,
lascia un vuoto artistico ed umano incolmabile.
Online www.cantovivo.com
Stéphane Delicq
Un nuovo lutto che colpisce il mondo della
musica tradizionale. L’organettista francese
Stephane Delicq, parecchio conosciuto
anche qui in Italia. Accompagnato dal
suo sobrio ensemble, fra una valse e una
mazurka, nel concerto che seguimmo nel 2004 a Torino ci
aveva regalato momenti di vera poesia. Iniziò a suonare
l’organetto diatonico da autodidatta, Stéphane, per poi
appassionarsi e farne una vera e propria professione.
Nel corso degli anni ci ha guidati alla scoperta delle
danze tradizionali del centro della Francia creando quelle
atmosfere lievi, sospese, a volte un pò malinconiche, che
richiamano alla mente certe immagini da film in bianco
e nero. Una musica da ballo di provincia, non troppo
distante dalla nostra, con improvvisazioni dai toni delicati e
più raffinati. Da alcuni anni Delicq era malato di leucemia e
era stato sottoposto a un trapianto dai postumi dolorosi ed
estenuanti. Allo scopo di aiutarlo ad uscire dal momento
di comprensibile depressione che stava attraversando,
l’amore dei suoi collaboratori aveva spinto a far circolare
una mail commovente fra amici e conoscenti, nella quale
si invitava ognuno a scrivergli un messaggio di sostegno.
Di lui rimangono le poche parole affidate ad un’intervista
che circola su internet ma soprattutto la musica dei suoi
tre magnifici album.
CD
La Compagnie des Anges (1997)
La Discrète (2001)
Douce (2009)
Online www.delicq.org
Lhasa de Sela
Il primo gennaio 2010, all’età di 37 anni, Lhasa è morta nella
sua casa di Montreal. Una tristissima notizia per il mondo
della musica il cui intenso significato non può esaurirsi
nelle poche parole che ci apprestiamo a scrivere. Lhasa
de Sela è stata un’artista, cantante e compositrice molto
particolare con alle spalle una storia a dir poco suggestiva.
Figlia di due hippies, il padre messicano, insegnante,
scrittore e musicista autodidatta, la madre americana con
ascendenze libanesi di professione fotografa, musicista,
attrice e poetessa, Lhasa è cresciuta insieme ai numerosi
fratelli e sorelle viaggiando per circa sette anni fra gli Stati
Uniti e il Messico in una specie di camper rudimentale
ricavato da uno scuola bus dismesso. Con un’infanzia
priva di televisione e dei conseguenti condizionamenti tipici
della cultura consumista (l’educazione dei figli era curata
dagli stessi genitori), Lhasa ha ricevuto fin dai primi anni
di vita ogni tipo di sollecitazione culturale, dalla musica
alla letteratura e alla pittura, ed è stata abituata a cogliere
e coltivare la propria sensibilità come uno dei doni più
importanti della vita. In una sua lunga intervista raccontava
come per lei quegli anni fossero stati importanti e formativi.
A volte le capitava di sentirsi molto povera e a volte in
casa non c’era gran che da mangiare ma il grande senso
di libertà con cui i suoi genitori avevano organizzato la
loro esistenza e il passare le serate improvvisando piccoli
spettacoli teatrali e concerti in famiglia, le aveva permesso
di venire a contatto con quel mondo di fantasia e di sogno
che poi avrebbe animato il suo universo musicale. Quando
all’età di undici anni i genitori si separano, Lhasa segue la
madre per un paio d’anni a San Francisco dove inizierà a
prendere lezioni di canto e infine a Montreal, in Canada,
dove si stabiliranno definitivamente. Insieme al chitarrista
Yves Desroisier, forma un duo che si esibisce nei bar della
città con un repertorio che fa riferimento al folk messicano
miscelato a suoni klezmer e gypsy. Il duo si trasforma con
il passare degli anni in una vera e propria band e produrrà,
nel 1997, il disco d’esordio La LLorona, interamente
cantato in spagnolo. Il successo dell’album è tale che oltre
a produrre riconoscimenti nazionali ed internazionali la
porterà a girare fra il Nord America e l’Europa per oltre due
anni. Ad un certo punto l’eccessiva pressione e le rigide
regole del mondo del business musicale diventano troppo
dure da sopportare quindi decide di abbandonare tutto e
di raggiungere le sorelle col loro piccolo circo Pocheros in
Borgogna (Francia). Recuperato il proprio spirito nomade e
l’antica consuetudine di portarsi dietro la casa e il proprio
mondo, Lhasa trascorrerà circa un anno girando in lungo e
in largo la Francia con il circo, a volte esibendosi da sola
con la sua chitarra, a volte improvvisando numeri come
7
faceva da bambina in famiglia. Dopo questa esperienza
di stabilisce per due anni e mezzo a Marsiglia ed inizia a
scrivere i brani per il suo secondo album The Living Road,
di cui cura anche le visionarie illustrazioni, e che vedrà
finalmente la luce una volta rientrata a Montreal nel 2003. E’
questo forse il suo lavoro migliore sia per la cura dei testi,
questa volta in inglese, francese e spagnolo, che per gli
straordinari arrangiamenti musicali in cui riesce a dare vita
ai suoi fantasmi creando un’atmosfera di favola pervasa
da venature malinconiche e oscure. Erano queste, infatti,
come da lei stessa più volte dichiarato, le emozioni che
più la coinvolgevano artisticamente. Sono infine passati
altri sei anni prima della comparsa di Lhasa, il suo terzo
album, questa volta tutto in inglese, che risale all’aprile
del 2009 ma che in Italia è arrivato solo verso la fine dello
scorso anno. Le atmosfere più intimiste con cui ci accoglie
questo suo ultimo lavoro acquistano un significato diverso
ora che sappiamo che è stato prodotto durante il periodo
di lotta contro quel tumore al seno che se l’è portata via
travolgendola come l’immaginario ciclone di cui narra
il suo brano Rising. Lhasa se ne è andata. In silenzio, la
sera di un primo freddo giorno dell’anno, accompagnata
dalla carezza fredda della neve che dopo la sua morte
ha incessantemente ricoperto le strade di Montreal per
quaranta ore. Quasi una morbida marcia funebre in
omaggio alla suo breve passaggio su questa terra.
CD
La Llorona (1997)
The Living Road (2003)
Lhasa (2009)
Online lhasadesela.com
“Un vero e proprio cammino musicale
magico… Un album veramente prezioso”
Amadeus
“Un intenso gioiello da
camera” Rumore
“Un ipnotico viaggio
al termine della notte,
che evoca i paeseggi
sconfinati e i silenzi
delle notti in Mali. Un
dialogo senza rete tra
musica colta occidentale e melodie africane. Ammaliante”
Io Donna / Corriere
della Sera
“Dieci tracce di autentica
poesia (…) La vera essenza
di questo lavoro è la ricerca
della propria interiorità, uno
scambio continuo di intimi
suggerimenti e armoniose
tessiture che plasmano le
sonorità”
JAM
07 PRIMAVERA 2010
8 Mondomix.com //a t t u a l i t à
IN TranCe
Brothers in trance when
will freedom come?
Nass el Ghiwane: gli Stones del deserto?
di Enrico Verra
Circa quattro anni fa, Efe Cakarel, giovane imprenditore statunitense di origine turca, era seduto
in un caffè di Tokyo. All’improvviso è preso dal desiderio di vedere In The Mood For Love di Wong
Kar-Wai ma non ha tempo di cercare qualche cinemino della capitale giapponese in cui lo passino.
Lo vuole vedere adesso. Subito! Sul suo portatile!
www.theauteurs.com
è così che gli viene in mente di lanciarsi in una nuova
impresa e si inventa The Auteurs (www.theauteurs.com),
la prima cineteca in rete. Per l’operazione raduna intorno a
se partners di prim’ordine: un grosso distributore parigino
di qualità, Celluloid Dreams e un editore new-yorkese di
dvd: Criterion Collection. Una leggenda tra i cinefili di tutto
il mondo per la qualità eccellente delle sue uscite.
Da allora su The Auteurs sono a portata di mouse dozzine
di film d’autore dai classici ai rari, rarissimi e quasi invisibili.
Disponibili in streaming al costo di 5 euro l’uno. Completano
il sito la sezione Notebook, con recensioni di qualità,
interviste ai registi e notizie dai festival nonché un forum,
spesso assai divertente, per internauti cinefili, ciliegina sulla
torta di una cineteca nata nel tempo di Facebook.
Colpo finale: a Cannes 2009 The Auteurs collabora al lancio
della World Cinema Foundation. Fondazione che si dedica al
restauro e alla conservazione dei film del terzo mondo sotto la
direzione di Martin Scorsese: «La World Cinema Foundation è
un naturale allargamento del mio amore per i film. Diciassette
anni fa ho fondato la Film Foundation per salvare i vecchi film
americani dalla distruzione. Oggi la World Film Foundation
è stata creata per aiutare a conservare il patrimonio
cinematografico di quelle nazioni che non posseggono gli
strumenti, la tecnologia e le risorse per farlo.» Sorpresa!
Per lanciare questa avventura i film restaurati dalla WCF
sono visibili GRATIS su The Auteurs.
Transes
Il primo film della serie messo in rete è il primo restaurato
dalla WCF: Transes. Documentario che Ahamed El
Maanouni ha realizzato sulla band marocchina Nass El
Ghiwane, definiti dallo stesso Scorsese i Rolling Stones
del Nord Africa. Considerati una delle fonti di ispirazione,
e non solo per la colonna sonora, del suo film L’Ultima
Tentazione di Cristo.
Racconta Scorsese: «Era il 1981 e io stavo lavorando al
montaggio di Re Per una Notte. Lavoravamo fino all’alba
e c’era una televisione newyorkese che ogni notte verso
le tre, trasmetteva Trances. Lo passava e ripassava tutte
le notti e io mi sono appassionato a quella musica. La
registrai e divenne una delle fonti di ispirazione per L’Ultima
Tentazione di Cristo. E’stata la base per la colonna sonora
di Peter Gabriel e l’ho fatta ascoltare a Robbie Robertson
della Band e a tutti i musicisti che conosco. Il film diretto
da Ahamed El Maanouni da allora è stata un’ossessione
per me ed è per questo che è stato il primo film che ho
restaurato con la World Cinema Foundation».
Per continuare a giocare ancora un momento sul fatto che
i Nass El Ghiwane siano gli Stones d’Africa il film apre con
le immagini di un loro concerto e l’atmosfera è, in effetti,
quella torrida di Gimme Shelter e di decine di altri filmati
delle pietre rotolanti, anche se qui non siamo ad Altamont
07 PRIMAVERA 2010
ma in un surriscaldato teatro del Maghreb. I ritmi sono
ossessivi, la folla è in delirio e i fans che assaltano il palco
sono respinti senza troppe storie dai poliziotti che fanno
servizio d’ordine.
Stacco. Dopo il concerto una serie di camera-car degni del
miglior Amos Gitai ci fanno scivolare nelle sterminate periferie
di Casablanca dove i componenti di Nass El Ghiwane: Omar
Sayed, Labri Batma, Abderrahman Paco e Allal Yaala si
muovono ogni giorno non a bordo di decadenti limousines,
ma su una molto più simpatica e scassata Renault 5 giallo
canarino. E qui finiscono i paragoni con le rock stars inglesi e
inizia un viaggio nelle vene della cultura marocchina.
Nass El Ghiwan
visioni
9
E fino qui, per quanto riguarda le immagini, ci muoviamo
tutto sommato nell’ambito di un documentario musicale
ben confezionato, con dell’ottima musica, delle buone
immagini e interviste interessanti ai musicisti. Poi il registro
inizia a cambiare e il film scivola in un’altra dimensione
assai più originale e forte.
I Nass El Ghiwane, e qui sta uno dei loro punti di forza,
sono un gruppo non solo da stadio ma anche da moschea.
Accanto al momento del grande concerto c’è un’altra
dimensione anch’essa pubblica ma in qualche modo
più segreta: il loro suonare nel corso delle cerimonie e
dei riti di trance. E’ filmando uno di questi riti che il film
acquista una marcia in più e rivela il suo aspetto più
originale. Improvvisamente la cinepresa inizia a focalizzare
la sua attenzione su una donna. Si avvicina e documenta
dettagliatamente, con belle inquadrature, la sua caduta in
trance. Caduta in trance che è accompagnata, scandita
e agevolata dall’ipnotica e ossessiva musica dei Nass El
Ghiwane. Nel momento stesso in cui la trance raggiunge la
fase culminante, il sonoro va progressivamente a sparire,
l’immagine si rallenta, la cinepresa si avvicina al volto
e al corpo della donna. In un silenzio tanto più spettrale
perchè arrivato al culmine di un parossismo di suoni, le
inquadrature si caricano di una dimensione altra e il film
si trasforma da documentario realista a messa in scena
allucinata di una visione. Il film stesso si fa trance.
Splendida intuizione registica di Ahamed El Maanouni
che spinge il racconto verso una dimensione diversa, a
profondità inattese. Iniziano ad alternarsi: immagini di
repertorio in bianco e nero di riti di trance che potrebbero
risalire agli anni 30, frammenti di concerti del gruppo,
racconti onirici dei musicisti stessi, immagini del Marocco
contemporaneo, splendide perché poetiche e vere, non
piegate ad un orientalismo di maniera e cinegiornali delle
rivolte antifrancesi. Questi ultimi sono davvero straordinari.
Un crudo bianco e nero che mostra gli scontri di piazza e
le violenze dei legionari sulla popolazione marocchina.
L’Ultimo Valzer del deserto
Come tutti i musicisti magrebini nati tra la fine degli anni
40 e l’inizio degli anni 50 i componenti di Nass El Ghiwan
sono cresciuti ascoltando musica libanese e egiziana e il
loro innovare radicalmente la scena musicale marocchina
è passato attraverso la riscoperta, la riappropriazione e la
reinvenzione delle proprie radici. Come dichiarano loro stessi
per loro trovare e creare hanno lo stesso valore: l’importante
è raccontare una buona storia. Una buona storia in cui loro
stessi e il loro pubblico si possano identificare.
Da qui il loro lavorare sulla musica classica araba, il fare
ricerca sul campo e il loro riprendere in mano le canzoni
che arrivano dal teatro popolare marocchino. Più che un
gruppo di pop arabo sono un gruppo di trovatori che canta.
Un gruppo che riprende la tradizione dei poeti girovaghi
delle montagne dell’Atlas marocchino che raccontavano
storie con forti implicazioni politiche e sociali. Tradizione
che viene rilanciata in chiave contemporanea. Nass El
Ghiwane sono il gruppo in cui si riconoscono gli abitanti dei
ghetti delle grandi metropoli magrebine perché nelle loro
canzoni vedono riflessa la realtà che vivono tutti i giorni.
Una scena, bellissima, del film testimonia quanto questa
simbiosi sia forte. La cinepresa penetra nel cortiletto di una
bidonville e sorprende un gruppo di bambini. Cantano, si
accompagnano con strumenti costruiti in casa e giocano
a fare i Nass El Ghiwan in concerto. Un manico di scopa
a cui è attaccato con lo spago un pezzo di ferro sono
diventati asta e microfono del cantante.
Non possono non venire in mente certe sequenze di La
Battaglia di Algeri di Pontecorvo, con la differenza che le
immagini di Transes sono vere. Gillo Pontecorvo costruiva la
finzione come se fosse un reportage, Ahamed El Maanouni
gioca esattamente la carta opposta: prende delle immagini
documentarie, delle immagini di cinegiornale e le monta
come immagini allucinate, come incubi, come visioni in
stato di trance. E quando poi Labri Batma, percussionista
dei Nass El Ghiwane rievoca la vicenda, in bilico tra
mito e storia, di Aicha Kandicha che era insieme strega
e resistente e che seduceva i soldati invasori portoghesi
per ucciderli, allora si svela fino il fondo la chiave in cui il
gruppo rielabora la musica di trance.
Un recupero delle proprie radici che si fa resistenza
culturale e che assume, nei fatti, un valore politico di
difesa della propria cultura e della propria identità. Difesa
non folklorica e non retorica che si concretizza nella
reinvenzione contemporanea di un tradizione.
Per ritornare all’universo musicale di Scorsese, padrino
del restauro e grande fan di questo ottimo documentario,
un lavoro simile a quello che la Band ha fatto insieme a
Dylan nei confronti della tradizione musicale americana:
rispettata nello spirito, tradita nella forma e per questo resa
di nuovo vitale.
Forse i Nass El Ghiwane non sono effettivamente i Rolling
Stones del Nord Africa ma probabilmente Transes è
L’Ultimo Valzer del Deserto.
Online www.theauteurs.com
07 PRIMAVERA 2010
10 Mondomix.com //a t t u a l i t à
Guinga.
di Max De Tomassi
Da anni, grazie ad una buona amicizia
con Chico Buarque, mi capita di poter
giocare a calcio in Brasile. E durante
questi piacevoli, e faticosi, incontri
sportivi di incontrare musicisti, spesso
vere leggende viventi.
Villa Lobos incontra Cole Porter
Tra queste c’è il signor Carlos Althier de
Souza Lemos Escobar, detto Guinga, un
appassionato calciatore, che la musica ha
strappato come un molare ancora sano
alla carriera di odontotecnico. Da un pò di
anni è considerato unanimemente da critici
e musicisti come l’autore più importante
della moderna Musica Popular Brasileira,
capace di recuperarne la tradizione più
vera e profonda rinnovandola dall’interno
con soluzioni armoniche e invenzioni
creative senza pari. C’è chi vede in lui un
«Villa Lobos che incontra Cole Porter»
(Sergio Mendes); chi lo considera «un
compositore al pari di Jobim e di Gismonti»
(Boris Rabinowitsch); chi lo ritiene «uno
di quei musicisti che appaiono una volta
ogni cent’anni» (Hermeto Pascoal), chi
parla della sua musica come la musica
del secolo (Chico Buarque).
LA CARRIERA
Artista di culto nel suo paese, negli
ultimi anni Guinga ha ricevuto un
riconoscimento internazionale sempre
più ampio, nel 2002 è uscita la biografia
Guinga.Os mais belos acordes do
suburbio (Gryphus Editora, Rio de Janeiro
2002); recentemente è stato pubblicato il
songbook A musica de Guinga (Gryphus
Editora, Rio de Janeiro 2003), contenente
50 partiture ottimamente curate. Ha avuto
con i suoi ultimi 4 dischi 4 nomination
al Latin Grammy Awards come miglior
rappresentante della Musica Popular
Brasileira Guinga è nato il 10 giugno 1950
a Rio de Janeiro. Ha imparato a suonare
la chitarra d’intuito a 13 anni. Ha iniziato a
comporre a 16 anni, partecipando con la
sua prima canzone al Festival Internacional
da Cançao a 17 anni. Ha lavorato
professionalmente accompagnando artisti
quali Clara Nunes, Beth Carvalho, Alaide
Costa, Cartola, Joao Nogueira.
Per l’etichetta brasiliana Velas ha
registrato 5 CD, tutti con grande
successo di critica e di pubblico: Simples
e Absurdo (1991), Delirio Carioca (1993),
Cheio de Dedos (1996), Suite Leopoldina
(1999), Cine Baronesa, (2001), Noturno
Copabana (2003), Saudade do cordao
(2008). In particolare, il CD Cheio de
Dedos ha ricevuto il Premio Sharp 1996
come miglior disco strumentale, (Dà o pe
Loro) e per la miglior produzione (Paulo
Albuquerque). Per la Biscoito Fino ha
07 PRIMAVERA 2010
Pra que mentir.
registrato Casa de Villa (2007); per l’etichetta italiana Egea i memorabili:
Graffiando Vento, in duo con Gabriele Mirabassi (2004) e Dialetto Carioca
(2008) con il suo meraviglioso quartetto brasiliano.
Le sue canzoni, composte coi parolieri Paulo César Pinheiro, Aldir Blanc
e, recentemente, Chico Buarque, sono state registrate da molti nomi
importanti, fra cui Elis Regina, Michel Legrand, Sérgio Mendes, Chico
Buarque, Clara Nunes e Ivan Lins. Leila Pinheiro ha dedicato l’intero CD
Catavento e Girassol (EMI-Odeon 1996) alle sue composizioni con Aldir
Blanc. Fra queste, Chà de Panela ha vinto il Premi Sharp 1996 come migliore
musica popolare brasiliana. Si esibisce in tutti i più importanti Festival di
jazz e di musica brasiliana internazionali.
il film
Contando sul continuo vai e vieni di Guinga tra Italia e Brasile, il regista
italiano Massimo Dorzi racconterà in un film documentario questo genio
della musica brasiliana. Il film si intitola Guinga. Pra que mentir. Particolare
rilievo avrà il rapporto di Guinga con l’Italia da lui tanto amata, attraverso
le arie d’opera cantate da Tagliavini, Caruso e Beniamino Gigli. L’inizio
delle riprese in Italia è previsto per il marzo 2010 durante il soggiorno del
musicista nel nostro paese per spostarsi in giugno a Rio De Janeiro dove
Guinga è cresciuto come artista e come uomo.
Il Brasile si appresta a festeggiarlo nel suo sessantesimo compleanno
con grandi eventi culturali che vedranno la partecipazione dei più grandi
musicisti brasiliani i quali troveranno anche ampio spazio all’interno del
film. Non è esclusa una trionfale partita di calcio, nel campo del suo amico
Chico, a Recreio.
Online www.guinga.com
Gli Album Italiani
Graffiando Vento
Egea
Dialetto Carioca
Egea
12 P R O F ILI
Mondomix.com //a t t u a l i t à
13
Parola
di
Melingo
El destino del tango està
escrito en sus raices
di Emanuele Enria
Quando nei primi anni del Duemila comparve sulla scena
musicale il fenomeno Gotan Project, si sbriciolò nel giro
di qualche settimana la barriera dell’utilizzo di musica
elettronica per un genere, il tango, che conservava ancora,
nonostante l’avvento di Astor Piazzola, la grande regola
della tradizione a tutti i costi. In fondo, però, c’era in questa
uscita musicale qualcosa di molto in linea con la storia
stessa del tango: era ancora una volta Parigi a legittimarla,
la città che da prima di Carlos Gardel ha reso popolare il
tango fuori dall’Argentina.
TANGO NUEVO
I Gotan Project, un gruppo di musicisti francesi ed argentini,
erano riusciti ad attualizzare la sonorità del tango, quella
sua straordinaria matrice ritmica che ha sangue africano,
spagnolo, italiano e giudaico aggiungendovi il beat della
musica elettronica. Il gioco era fatto: si era accumulato da
tempo nelle orecchie di una nuova schiera di musicisti usciti
dall’Argentina durante gli anni terribili del regime, con il tango
come sostegno e condanna di un’identità tradita, il bisogno
di uscire in una forma diversa, che non lo rinnegasse ma
ne raccontasse i decenni successivi, che per quasi tutti
volevano dire Europa. È stato qui che anche la voce di
Melingo, con quel suono rauco, denso e sotterraneo ha
sperimentato il suo potenziale, capace di creare al tempo
stesso la melodia e un beat verbale di sonorità urbane.
Merito, questo, anche del sui trascorsi nel rock.
D’altronde, la storia stessa ci insegna che tutte le tradizioni
hanno, prima o poi, bisogno di un rinnovamento, di
un’apparente rottura talvolta, come di una finestra che
aprendosi vuole guardare avanti e non solo indietro. Credo
che il tango e il flamenco abbiano sperimentato e lo stiano
ancora facendo, lo stesso fenomeno in questi ultimi 10 - 15
anni. Agli inizi del Duemila, quando parlavi con un argentino
di almeno 60 anni di età, la soglia critica si chiamava ancora
Astor Piazzola, tanto venerato in Europa quanto amato
e discusso nel suo paese proprio per quella rottura con
la tradizione: l’eterno tormentone, se ti imbattevi in una
discussione, era se quello fosse o meno da considerarsi
tango. Viene quasi spontaneo, parlando del rapporto tra
tradizione e innovazione, usare il paragone col cibo, in
quanto luogo per eccellenza di assemblaggio di materie
di diverse provenienze: la ricerca delle radici, spiega
mirabilmente Massimo Montanari, grande conoscitore della
storia dell’alimentazione, «non giunge mai a definire un
punto da cui siamo partiti bensì, al contrario, un intreccio
di fili sempre più ampio e complicato a mano a mano che ci
allontaniamo da noi. In questo intricato sistema di apporti e
di rapporti non le radici, ma noi siamo il punto fisso: l’identità
non esiste all’origine, bensì al termine del percorso…le radici
sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la storia che ci ha
costruiti». Tanto da arrivare a concludere che, in fondo, la
tradizione può essere definita un’innovazione ben riuscita.
MALDITO TANGO
Pensavo a tutte queste cose dopo l’emozionante concerto
di Daniel Melingo all’Espace di Torino, mentre presentava il
suo ultimo album Maldito tango, condito nel finale dalla sua
milonga più celebre, Narigòn, dall’album precedente, che
interpreta a piedi scalzi quasi a volerne marcare le origini
africane. All’uscita, un gruppo di argentini ormai stabilitisi in
Italia, stava proprio parlando di come, grazie alle musiche
di Melingo, alle sperimentazioni dei Gotan Project, al tango
negro di Juan Carlos Caceres avevano riscoperto il tango.
Così mi è venuto quasi spontaneo, a fine concerto,
domandare a Melingo stesso in quale direzione vedesse
andare il tango di oggi. Mi ha risposto con una frase che
proprio lui e lo stesso Caceres sembrano rimbalzarsi
quando parlano del tango: El destino del tango està escrito
en sus raices (il destino del tango è scritto nelle sue radici).
Come dire che si può innovare anche grazie a quel che già
c’è nella storia di una musica, basta imparare a rileggerla in
un altro contesto.
In Maldito tango, un album splendido perché divertente,
profondo, pieno di parole e di storie tratte e mescolate da
grandi parolieri, Melingo riesce a rivisitare il genere tango
cancion in maniera ironica ed amara. Talvolta triste come
in Pequeño paria, che racconta di un bimbo abbandonato
che «de las sombras nació, juega el juego de la sangre
para matar su dolor. No conoce de alegrías de hielo es su
corazón, de terror es su inocencia y de locura su amor»,
(nato nell’ombra gioca il gioco del sangue per uccidere il suo
dolore. Non conosce allegria e il suo cuore è di ghiaccio, di
terrore la sua innocenza, di pazzia il suo amore) o tornando
nella Montmartre di oggi, dove i ricordi non tornano e ti trovi
a camminare tra echi di tanghi in Rue Fontane e duendes
de Arolas vicino a un bistrò. È un’immagine tanghera per
eccellenza quella del confronto con i ricordi, che Melingo
interpreta con un pizzico di atmosfera da cabaret, grazie
all’uso del clarinetto, oltre a chitarra, contrabbasso e
bandoneon, ma anche usando il suono della sega, quasi
avvicinandosi a certe atmosfere alla Tom Waits. A un Maldito
Tango, insomma.
Moussu
T e lei Jovents
A’ l a c i o t a t ( E n t r e l ’ E s p a n h a e l ’ I t a l i a )
di Paolo Ferrari
La voce è calda, venata di Mistral e lavanda, filtrata dal
fumo dei club reggae; la melodia naturale, nipote di Vincent
Scotto, leader dell’operetta marsigliese e profeta della
Belle époque lungo la Canebière, cugina dei giamaicani
più accorati, sorella del blues che si tinge di neo folk
nelle periferie di tutta Europa. Moussu T oggi è un uomo
di mezzo secolo d’età, continua a essere il verbo cantato
più suadente del Massilia Sound System, nell’attacco a
tre punte in cui lo affiancano gli aggressivi toni ragga di
Jali e Gari. Ma lavora tanto sul suo progetto personale
con Lei Jovents, combo che gli consente di liberare al
meglio il talento innato verso la forma canzone tout court.
Con le corde di Blu, anche lui nel famoso sistema sonoro,
alle prese con chitarre e banjo; la batteria di Zerbino,
leggero quanto basta per tenere anche dal vivo un assetto
acustico; e con le percussioni di Jamilson Da Silva, che
mette l’Occitania in asse con i Tropici.
GLI ALBUM
I tre dischi fin qui pubblicati propongono un eccitante
ventaglio di sensazioni. Il primo è stato Mademoiselle
Marseille, appiccicato alle strade della città, dove il cantante
cerca Marsiglia perduta lungo i percorso di Jean – Claude
Izzo, trovandola infine negli occhi di un bambino; e al tempo
stesso alto nel cielo con il capolavoro Lo Gabian. Il secondo
è Forever Polida, e sposta l’attenzione ancor più verso La
Ciotat, il centro vicino al capoluogo dove vivono le stesso
Tatou (questo il suo nome più diffuso) e Zerbino; è il centro
di cantieri navali in cui i Fratelli Lumière immortalarono la
prima stazione e il primo treno della storia del cinema, e
in cui brilla un Boulevard Bertolucci che deve il nome a un
partigiano. Poi è arrivato Home Sweet Home, più europeo
e blues, in cui la travolgente Mar e montanha passeggia in
lungo e in largo per tutto il comprensorio D’Oc. Fanno più
di 40 canzoni, cui si aggiungono versioni, collaborazioni e
tante immagini raccolte nel cd e dvd Inventè à La Ciotat.
Tutto pubblicato con eleganza artigianale dalla familiare
Manivette Records.
IL PARADISO
Titolo Maldito tango
Etichetta Naive / Self
Online www.danielmelingo.com
07 PRIMAVERA 2010
Occitano, francese, inglese; ironia e poesia, nostalgia e
orizzonti meticci. Moussu T e Lei Jovents appartengono
a quella non folta schiera di artisti in grado di elevare un
contesto locale dai contorni ben definiti al rango di casa
di chiunque passi da quelle canzoni, da quella voce, da
quel suono. Al cospetto dell’uomo inseparabile dalla sua
camicia blu di jeans, che si mette di proposito a nudo,
seduto di fronte al pubblico senza chitarra, disarmato.
Come aspettasse il suo turno per uno giocata di pétanque,
canta e racconta. E si accalora nel tentare di spiegare come
La Ciotat possa essere, contro ogni pronostico, il posto più
bello del mondo. Il Paradiso. E forse è vero, perché non
c’è ombra di campanilismo in tutto questo, bensì gioia di
un quotidiano vissuto all’insegna della vita di bottega, tra il
pastis del tramonto, le olive del litorale, le cicale dell’interno
e il profumo dell’aglio in libera uscita dai ristoranti a prezzi
popolari. Il fatto che il tuo paese ti sembri un Eden, gambe
a mollo sulla banchina e pesci pigri all’amo, non vuol dire
che lo vorresti fermo com’è. Tantomeno incontaminato
da nuovi arrivi. Non significa cercare con ostinazione di
difendere chissà quale tradizione. È l’esatto contrario,
ma vallo a spiegare a tanti che da quel benessere locale
traggono aggressività e nostalgia di sedicenti passati.
Meglio allora ascoltare le storie di Tatou, camuffate da
filastrocche per bambini o tinte di Brasile, appoggiate
alla struttura della chanson più nobile o rapite dal prurito
vertiginoso del bluegrass.
Online moussut.ohaime.com
Gli Album
Mademoiselle Marseille (2005)
Forever Polida (2006)
Inventé à la ciotat (2007)
Home Sweet Home (2008)
Distribuzione Harmonia Mundi / Ducale
07 PRIMAVERA 2010
14 Mondomix.com
Mirabassi nella foresta tropicale
Il suo nuovo CD Miramari, un duo tra classico e popolare
di Antonello Lamanna
André Mehmari & Gabriele Mirabassi
Miramari è l’ultima fatica discografica di casa Egea che
vede all’opera l’eclettico André Mehmari, giovane pianista
e compositore brasiliano, e Gabriele Mirabassi, uno dei
massimi virtuosi contemporanei del clarinetto.
Miramari è un acronimo in cui si fondono i nomi dei due
autori, quasi a voler suggellare una fusione artistica
perfetta. E ascoltando il disco si comprende subito
l’affinità e la complicità del linguaggio che esiste tra i due.
È l’ennesimo viaggio di Mirabassi in cerca di nuovi codici
espressivi e l’incontro con Mehmari sembra essere quello
che lascerà il segno.
Cosa intende quando dice che l’utopia si è realizzata?
L’utopia è stata quella di riuscire a trovare un luogo dove si
potessero combinare il groove, lo swing, l’improvvisazione
e la melodia con l’approccio cameristico. Questo in Brasile
si pratica da sempre ed è normale. Questa utopia l’ho
cercata anche in Italia. Anche nei miei percorsi discografici
documentati da Egea c’è questa ricerca. S’intuisce questo
tentativo di saggiare il terreno. E questi miei sogni li ho
trovati in Brasile, perché lì c’è una tradizione consolidata.
Tutte queste forme sono già presenti nella musica popolare,
come nello choro e nel samba più antico.
Nel disco, registrato nella foresta Amazzonica sulle
montagne di San Paolo, ci sono tredici tra composizioni
originali e reinterpretazioni di compositori brasiliani.
Miramari si apre con Que falta faz tua ternura, con ospiti
come Ricardo Mosca (batteria) e Zé Alexandre Carvalho
(contrabbasso), in veste di accompagnatori ritmici anche
in Mirabilis Mirabassi, mentre Vaidoso è un eccellente
contributo al compositore brasiliano Moacir Santos. A
completare il tutto un drop-in di stampo classico di Guinga
Cançao Desnecessaria, cui segue Rasgando Seda, che
risale al 2003, alla prima collaborazione tra Guinga e
Mirabassi dell’album Graffiando vento.
Come stato il suo incontro con Mehmari?
È stato l’incontro ideale. Galeotto di questo incontro è
stato Guinga - non a caso nel disco ci sono due sue
composizioni. Ho conosciuto Mehmari in Brasile proprio
durante uno dei miei concerti con Guinga. L’intesa è stata
immediata, per poi diventare un connubio speciale tra un
compositore e un interprete classico. Lui non ha neanche
compiuto 30 anni e in Brasile è già diventato un mito.
Polistrumentista e arrangiatore, è molto apprezzato, con
i suoi complessi lavori per orchestre sinfoniche, come
compositore classico e, come dicono in Brasile, popolare.
E allo stesso tempo è possibile ascoltarlo in concerto
insieme a Milton Nascimento.
Solitamente, chi si avvicina alla musica brasiliana lo
fa sulle orme dei pionieri degli anni ’60. E l’ingresso
avviene per lo più con la bossa nova o con la samba.
Come mai continui a scegliere generi diversi?
In Brasile ho realizzato un sogno. O anche la quadratura
del cerchio. Ho trovato la realizzazione della mia utopia. Ho
sempre vissuto il rapporto con il jazz come una continua
ricerca. In tutti i miei lavori mi sono sempre trovato su
una specie di crinale fra il jazz, la musica popolare, la
canzone d’autore, la musica classica, senza mai sposare
esclusivamente un solo genere. Ho sempre avuto uno
sguardo più complesso: la mia passione, il mio strumento,
tutto rimanda ad un approccio che è più quello della musica
da camera. La musica strumentale che prediligo è una nuova
musica classica che swinga e vibra con lo stesso rigore, con
lo stesso controllo, la stessa profondità strutturale, la stessa
cura dei dettagli che è tipica della musica da camera.
07 PRIMAVERA 2010
Titolo Miramari
Etichetta Egea
Online www.myspace.com/gabrielemirabassi
M ANOUC H E
Mondomix.com //M USICA
foto Natalie Sabot
16 Guida minima al jazz manouche
La celebrazione del centenario della nascita di Django Reinhardt,
a tutt’oggi l’unico europeo che sia riuscito a insidiare l’olimpo
jazzistico afroamericano, riporta sotto i riflettori il gypsy swing,
un genere troppo sovente considerato minore e accessorio.
Dal capostipite alle ultime leve, dieci (più dieci) dischi per far
cambiare idea agli scettici.
di Piercarlo Poggio
Django Reinhardt compie cent’anni, non certo invano.
La sua eredità è stata ben raccolta, anche se non subito
dopo la sua morte (avvenuta all’improvviso nel maggio del
1953), come spesso accade agli artisti fuori norma. Per un
certo tempo pure nella sua patria d’adozione, la Francia, si
è vissuto nel ricordo del maestro.
Gli eredi
Un pianto ininterrotto arrestato – oltre che da Stéphane
Grappelli, compagno di avventure di Django negli anni
Trenta e poi all’inizio del secondo dopoguerra – da un paio
di eccellenti chitarristi che corrispondono ai nomi di Henri
Crolla ed Elek Bacsik. Si tratta di due nomi un poco
dimenticati, particolarmente attivi a cavallo tra i Cinquanta
e i Sessanta, da riscoprire in quanto anelli di congiunzione
tra le atmosfere musicali della Parigi in bianco e nero e gli
sviluppi successivi del manouche. Una corrente incarnata
in primo luogo dalla figura luminosa di Biréli Lagrène, che
dagli esordi giovanili degli anni Ottanta è costantemente
maturato sino a porsi, oggi, come termine di riferimento
per i nuovi e recenti adepti dello swing zingaro. Alla
promozione e continuazione del quale ha contribuito in
maniera sostanziosa anche Christian Escoudé, capace
di attrarre una stella d’oltre Atlantico come Charlie Haden.
Ma il jazz gitano è sovente, comprensibilmente, un affare
di famiglia e di eredità, e il patrimonio va innanzitutto
trasmesso di generazione in generazione. Una regola a cui
non si sottraggono certo i Reinhardt, lungo una linea che
da Joseph, fratello di Django, giunge oggi sino al nipote
David, figlio di Babik Reinhardt (purtroppo scomparso nel
2001), il più lucido e innovativo della stirpe, capace persino
di ricreare su nuove basi, in collaborazione con Romane,
altro artista di ottimo livello, l’essenza del Quintette du Hot
Club de France. E almeno altre due progenie vale qui la
pena di citare: i Rosenberg olandesi e gli Schmitt. Stochelo
Rosenberg ha messo in piedi con i fratelli una premiata
07 PRIMAVERA 2010
ditta che dispensa ormai da trent’anni ottimo gypsy swing;
Tchavolo Schmitt e il cugino Dorado Schmitt, parenti
dalle carriere separate, mantengono alta la bandiera della
tradizione: il primo anche nelle vesti di attore dei film di
Tony Gatlif, il secondo istruendo figli e nipoti al verbo
reinhardtiano più puro.
La lista dei discepoli di Django (chitarra dalla voce umana,
come ebbe a definirlo Jean Cocteau) è pressoché infinita
e non possiamo che limitarci a segnalare qualche nome di
sicuro interesse e indubbia qualità: Boulou ed Elios Ferré,
Raphaël Faÿs, Angelo Debarre, Fapy Lafertin, Rocky
Gresset. Occorre però tenere presente che lo swing
gitano non è un’esclusiva transalpina e ha saputo fare
proseliti pressoché in tutta Europa, con punte d’eccellenza
in Norvegia (Hot Club de Norvège), in Romania (Florin
Niculescu, Costel Nitescu) e in Italia.
in italia
Nel nostro paese si è registrato infatti, in particolare a partire
dagli anni Novanta, un forte interesse per il manouche. Tra i
nomi di spicco vi figura Maurizio Geri, non solo esecutore
raffinato ma anche autore di brani che senza snaturare
la fonte d’ispirazione si segnalano per l’originalità delle
soluzioni messe in campo. Non soltanto una bizzarria è
però andare a riascoltare Luciano Zuccheri e il Quintetto
Ritmico di Milano, propugnatori, negli anni Quaranta, di un
repertorio che dovette fare i conti anche con le chiusure
culturali del regime.
In ogni caso, da qualunque prospettiva lo si osservi,
l’universo manouche appare, oggi più che mai, vivo e
palpitante, e, fatto piuttosto singolare, meta accattivante
per strumentisti in cerca di musica di qualità e di alternative
ai rock guitar-heroes degli anni Sessanta-Settanta. Da
questo punto di vista il genio di Django assurge a simbolo
di uno stato di eterna giovinezza che ne rende l’opera
attuale e imperitura.
17
DJANGO REINHARDT
The Classic Early Recordings In
Chronological Order (1934-1939)
JSP (5cd), 2000
Pur nel profluvio di nuove
edizioni, più o meno integrali,
che festeggiano l’inventore del
manouche, la presente antologia
rimane (per scelta dei brani, qualità di suono e prezzo) la
migliore introduzione all’arte inossidabile di Reinhardt. Vi
ritroviamo le storiche incisioni del Quintette du Hot Club
de France e i primi incontri con i jazzisti d’oltre oceano (Bill
Coleman, Coleman Hawkins). Per gli anni del dopoguerra,
stilisticamente sfaccettati, si consiglia invece “Pêche à la
mouche” (Verve, 2cd, 1992).
HENRI CROLLA
Notre ami Django
Emarcy, 2001
Enrico Crolla (1920-1960), profugo
napoletano approdato a Parigi in
epoca fascista, tende a essere
dimenticato dalle storie musicali.
A torto, perché questo sentito
omaggio dedicato a Reinhardt, di cui fu sodale fraterno,
è opera di valore assoluto. Riservato per natura, Crolla
fa viaggiare la sua chitarra sulle ali di uno swing tenue
e trattenuto, ridando fiato a classici quali Minor swing,
Nuages, Djangologie e Manoir de mes rêves in compagnia,
tra gli altri, di Martial Solal, Stéphane Grappelli e Hubert
Rostaing.
ELEK BACSIK
Guitar Conceptions
Emarcy, 2000
Meteora caduta su Parigi sul
finire dei Cinquanta, il chitarrista
ungherese Elek Bacsik (1926-1993)
non fa mistero delle sue origini gitane
nell’affrontare temi quali Tenderly,
Over The Rainbow, So What. Il suo tocco sullo strumento
elettrico è quanto mai personale, stralunato e notturno,
riuscendo a essere originale anche dove l’orecchio nulla
si aspetterebbe. Trasferitosi nel 1966 negli Stati Uniti dopo
una breve parentesi di gloria francese (collaborazioni con
Bécaud, Aznavour, Gainsbourg, Barbara, Jeanne Moreau),
di lui si perdono a poco a poco le tracce.
CHARLIE HADEN & CHRISTIAN
ESCOUDÉ
Gitane
Dreyfus, 1978
Oltre Atlantico l’interesse per
Reinhardt è sempre stato ben
dissimulato,
quasi
a
volerne
nascondere
la
grandezza.
Il
contrabbassista Charlie Haden è tra
i pochi ad aver concepito un disco a lui dedicato. Lo fa in
compagnia del chitarrista Christian Escoudé, tra i migliori
interpreti manouche. Con fare circospetto e toni delicati,
quasi impalpabili, l’inedito duo si applica a tratteggiare in
finezza versioni di Bolero, Manoir de mes rêves, Nuages,
Improvisation e Django, brano firmato dal pianista John
Lewis nel 1953.
BIRÉLI LAGRÈNE
Routes To Django
Le Chant du Monde, 2006
È un giovanissimo Lagrène quello
che si ascolta in questa incisione,
in parte live, realizzata sul suolo
tedesco. Il suo debutto, a soli
tredici anni, denota un virtuosismo
fuori dal comune, ma anche una straordinaria musicalità
e attenzione per la costruzione “in progressione” dei
brani (molti composti da lui stesso). Qualche sfumatura
di acerba irruenza giovanile non cancella la validità di un
disco che contiene al suo interno quanto servirà a fare di
Biréli il campione del gypsy jazz contemporaneo.
STOCHELO ROSENBERG
Seresta
Hot Club, 1989
L’olandese Stochelo negli Ottanta
ha costituito con i fratelli Nousche e
Nonnie una ristretta impresa familiare,
qui colta ai nastri di partenza ma che
ancora resiste e bene. Tra i seguaci
di Django sono senz’altro quelli più ortodossi, e forse questo
spiega il loro successo anche presso insospettabili quali, ad
esempio, Pavarotti e i Manhattan Transfer, con i quali hanno
collaborato. Nel loro modo di trasvolare da All The Things
You Are a Nuages e Georgia On My Mind c’è comunque
assai più del semplice mestiere.
ROMANE
Swing For Ninine
Iris, 1992
Chitarrista,
Romane
(Patrick
Leguidecoq) è un gadjé, cioè un
“sedentario”, un non gitano, il che
non gli ha impedito di prendere
molto a cuore la sua missione,
svolta anche nel campo della didattica. La sua opera prima
è una piccola perla, priva di cover celebri e in larga parte
ideata da lui stesso sul piano compositivo. Lo asseconda
un quintetto di livello, con tanto di batterista per meglio
tenere il ritmo, pratica poco consueta nel genere. Tuttavia
la musica al tatto è quasi cameristica, fluida e ricca di belle
melodie.
NEW QUINTET DU HOT CLUB DE
FRANCE
New Quintet Du Hot Club De France
Iris, 2005
Babik Reinhardt ha dovuto per
forza di cose imporsi un distacco
dal magistero paterno. Così il suo
fraseggio è stato per un po’ debitore
del chitarrismo statunitense (Green, Montgomery). Qui
gioca la carta nostalgia, recuperata anche nell’intitolazione
del (super)quintetto. Completato da Romane, Philippe
“Doudou” Cuillerier, Gilles Naturel e dal violino di Florin
Niculescu, brillante sosia di Grappelli. Una feconda andata
e ritorno tra passato e presente, tra slanci virtuosistici e
pregevoli interazioni di gruppo.
07 PRIMAVERA 2010
18 R E IN H A R DT
Mondomix.com //M USICA
TCHAVOLO SCHMITT
Alors? ...Voilà!
Iris, 2000
Faccia da film, parsimonioso nelle
uscite discografiche, Tchavolo è
artista a cui piace il contatto umano.
Lo si ritrova facilmente nei piccoli
bar e alle feste della sua comunità,
dove suonare diventa un piacere e non un mestiere
scandito dai riti dello show-biz. Una libertà che qui trasuda
in ogni traccia, in un susseguirsi di invenzioni e scarti
improvvisi. Gli amici sono fidati: dall’onnipresente Romane
a Niculescu, Cuillerier e Naturel, più l’accordeonista Ionica
Minune. La forza della tradizione.
DORADO SCHMITT
Family
Dreyfus, 2009
Per la sua ultima fatica Dorado
ha voluto riunire la famiglia in foto
e soprattutto in musica, per fare
intendere che non mancano gli
eredi quando sarà ora di raccogliere
il testimone. Qualche ripresa reinhardtiana (Minor Swing,
Nuages) e tanti nuovi brani, ché la vita e il manouche vanno
avanti. Tre figli, un nipote e un cognato di peso (la “pompa”
ritmica Hono Winterstein) fanno viaggiare la locomotiva
che è un piacere, e pure gli aggregati (che son di lusso:
Loeffler, Laurent, Huchard), spingono a mille.
19
Jean Baptiste Django Reinhardt
Li berchi es, 23 g enna i o 1910
F o nta i nebl ea u, 16 ma g g i o 1953
di Mauro Zanda
«Django, Django... hai amato solo lei» cantava addolorato
Rocky Roberts nel celebre spaghetti-western di Sergio
Corbucci. Riferimenti che andavano ad un carismatico
cowboy e la moglie uccisa ma che, in fondo, potrebbero
ben adattarsi anche al nostro racconto: appassionata storia
d’amore tra un fenomenale musicista gitano, detto Django,
e la sua inseparabile chitarra, la mitica Selmer-Maccaferri.
Selmer
E non vi fossero bastati…
LUCIANO ZUCCHERI
Quintetto Ritmico di Milano
Riviera Jazz Records, 2002
I prodromi dello swing gitano di casa nostra
sono impersonati dal chitarrista Luciano
Zuccheri e dal Quintetto Ritmico di Milano.
Magari i titoli fan sorridere (Ritmando sotto l’ombrello,
Malinconia negra, L’uccellin volò volò), però la musica è di
qualità.
MAURIZIO GERI
Manouche e dintorni
Felmay, 1998
Nell’Italia che swinga, Geri ha saputo
conquistarsi la piazza che merita in tempi
non sospetti. Senza rinnegare Django,
lo ha fatto coesistere con Gorni Kramer e con quell’ala
“sperimentale” del folk italico che tante soddisfazioni ci ha
già regalato.
STÉPHANE GRAPPELLI
Improvisations
Emarcy, 2004
Compagno della prima ora di Django,
Grappelli ha in seguito avuto una grandiosa
carriera solista, nobilitando il violino nel
jazz al pari di Stuff Smith e Joe Venuti. La fulminea agilità
dei suoi a solo possiede radici lontane.
FAPY LAFERTIN QUINTET
Fine & Dandy
Iris, 2003
Belga e chitarrista, Lafertin rimane a tutt’oggi
ancora poco apprezzato. Fors’anche perché
il suo stile è piano, privo di barocchismi
a effetto, teso a ricercare la sospensione, a indagare i
chiaroscuri. Il lato esistenziale del manouche.
BOULOU FERRÉ & ELIOS FERRÉ
Pour Django
Steeplechase, 1979
Discendenti di un’antica famiglia musicale, i
fratelli Ferré (e in particolare Boulou) hanno
in carniere esperienze ampie e variegate.
In “Pour Django”, tecnica strepitosa e fantasia galoppante
rendono il disco emozionante e selvaggio.
ANGELO DEBARRE & LUDOVIC BEIER
Come Into My Swing!
Le Chant du Monde, 2004
Un’accoppiata riuscita, alla seconda prova
insieme dopo “Swing rencontre” (2002).
Debarre è chitarrista ruspante, intriso
di suoni dell’Est Europa, mentre la fisarmonica di Beier
tralascia volentieri la muffa del bal musette per aprirsi alle
asperità del jazz.
RAPHAËL FAŸS
Swing Guitar
Le Chant du Monde, 2005
Inciso dal vivo al festival della chitarra
di Liegi, l’album testimonia la scioltezza
di dettato di Faÿs, in forza di una tecnica
sopraffina. Il repertorio è qui decisamente djangologico,
mentre negli anni successivi Faÿs si avvicinerà alla classica
e al flamenco.
TRIO GITAN
20 ans de Trio Gitan
Nocturne (3cd), 2008
Un box da quattro stelle che raccoglie
la produzione (“Live in Marciac”, 1987;
“Swing Bohemien”, 2000; “Le nouveau
Trio Gitan”, 2006) del gruppo avviato nel 1985 da Christian
Escoudé con Babik Reinhardt e Boulou Ferré (poi Dorado
Schmitt e infine David Reinhardt).
07 PRIMAVERA 2010
L’uomo sta infatti alla chitarra come Picasso sta alle arti
figurative o Copernico all’astronomia: di rivoluzione si
tratta, nell’accezione più squisitamente tecnica e stilistica
del termine. Certo, allora era già emersa la stella di Charlie
Christian, considerato a ragione il padre della chitarra
elettrica. Ma in fondo Christian fu solo un bravo esecutore,
perfettamente sintonizzato sul ritmo del proprio tempo, di
certo però non equiparabile al rango stellare del maestro
Reinhardt. Inutile girarci attorno, con Django si entra
decisamente in un’altra dimensione, non solo tecnica.
Il chitarrista di Liberchies fu infatti anche compositore di
notevole caratura, e la sua musica, meglio delle parole, è
in grado di raccontarci una forma mentis che andava molto
al di là dell’approccio da improvvisatore. «L’originalità delle
sue concezioni» scrive Fred Sharp in un celebre articolo
del 1972 «si esprime soprattutto nella particolarità del
suono, nella capacità di improvvisare, e in quel virtuosismo
prodigioso che gli ha permesso di sviluppare idee musicali
eccezionalmente feconde.» Dunque, ben lungi dall’essere
un fenomeno da baraccone, Django fu virtuoso totalmente
consapevole di mettere quelle preziose doti tecniche al
servizio di idee musicali complesse e innovative. Che nel
suo caso portarono per la prima volta il jazz nel cuore della
musica gitana (o viceversa).
FLORIN NICULESCU
Djangophonie
Le Chant du Monde, 2005
La Romania è una “riserva” musicale
manouche non di poco conto, e Niculescu
è violinista di limpida classe, tanto al
servizio di altri quanto in proprio. Costel Nitescu (“Forever
Swing, Forever Grappelli”, Le Chant du Monde, 2007) è
l’altro nome da tenere a mente.
ROCKY GRESSET
Rocky Gresset
Dreyfus, 2009
Insieme con Yorgui Loeffler e Steeve
Laffont, Gresset rappresenta la nouvelle
vague gitana. È un tipo di bella presenza,
ma la sua musica non è patinata, benché più jazzy che
manouche tout court. La compagnia del violinista Costel
Nitescu gli giova assai.
con Duke Ellington
il jazz
Fu la scoperta di Armstrong ed Ellington, 1931 circa, a
svelargli l’epifania. È lui stesso a spiegare i motivi di quella
fascinazione: «Il Jazz mi attraeva perché in esso trovavo
una perfezione formale e strumentale che ammiro nella
musica classica, ma che la musica popolare purtroppo
non possiede.» Da quegli ascolti e considerazioni prenderà
forma il leggendario quintette dell’Hot Club de France,
rigorosamente acustico e senza batteria, con tre chitarre, il
contrabbasso e il violino dell’alter-ego Stephane Grappelli.
Pochi anni prima c’era stato il celeberrimo incidente, con la
sua roulotte che prende fuoco e Django che, d’improvviso,
si ritrova le dita piccole della mano sinistra totalmente
inutilizzabili. Prima d’allora accompagna soprattutto al
banjo i migliori bandeonisti della scena parigina; poi però,
dopo l’incidente, finisce per adottare la chitarra, anche
grazie alla lungimiranza di un dottore illuminato, che pensò
bene di consigliargli l’applicazione sullo strumento come
forma di terapia post-traumatica. È l’inizio di una nuova
era. Django sviluppa uno stile unico nel suo genere, di
quelli che facendo di necessità virtù finiscono per generare
uno spartiacque epocale. Grappelli prova a descriverlo in
una famosa intervista rilasciata nel 1954 al Melody Maker:
«Ha acquisito un’abilità sorprendente con le prime due dita,
ma questo non significa che non ha mai impiegato le altre.
Imparò a stringere la chitarra con il dito mignolo sulla corda
del MI e il dito successivo sul SI. Questo almeno vale per
alcune delle proverbiali progressioni armoniche che Django
probabilmente fu il primo ad eseguire sulla chitarra.» Ma
in fondo si farebbe torto alla storia nel considerare quella
menomazione come il fulcro assoluto, la conditio sine
qua non della sua geniale alterità. Una storia costellata
da aneddoti bizzarri (una scimmietta addomesticata,
l’ossessione per il gioco, lo scarso bon-ton nelle occasioni
formali) ma, in fin dei conti, nient’altro che un’appassionata
storia d’amore: da un lato un esuberante musicista di etnia
Sinti, dall’altro una chitarra acustica prodotta in neanche
mille esemplari; da allora e per sempre, unicamente
accostata a lui. «Django, Django hai amato solo lei»
Online www.danielmelingo.com
07 PRIMAVERA 2010
UNIV E R SO K O R A
Mondomix.com //M USICA
foto Mattia Zoppellaro
20 anni in meno di Tourè e, come l’usanza africana vuole,
lo trattava con il rispetto misto a tenerezza che avrebbe
riservato ad un padre. Questa deferenza traspare anche
dalle copertine degli album nelle quali il nome di Tourè
appare per primo. C’è dunque un rispetto reciproco anche
se, nonostante gli sforzi, la presenza del giovane Diabaté
sembra dominante in entrambe le registrazioni. Ho provato
la stessa sensazione anche ascoltando In the Heart of the
Moon. Forse la sonorità della kora sovrasta quella della
chitarra acustica? In ogni caso non troviamo qui nessuna
dimostrazione del suo virtuosismo che invece compare
nell’ineguagliato capolavoro in solo, Mandé Variations.
Ali & Toumani
di Akenataa Hammagaadji
Nel giugno del 2005 l’etichetta discografica World Circuit
realizzò un unico e dirompente album di duetti fra due
grandi musicisti maliani: Ali Farka Touré e Toumani Diabaté.
Si trattava di una collaborazione assolutamente fuori
dell’ordinario. Tourè aveva partecipato insieme al chitarrista
americano Ry Cooder alla realizzazione dell’album Talking
Timbuctou che aveva vinto il Grammy, ancora oggi
considerato uno dei più grandi esperimenti di world music
poiché sebbene entrambi suonassero la chitarra, Cooder
proveniva da una cultura che è separata da quella di Touré
da un oceano e da un continente.
cantante, Touré sì, ed è quindi sua la voce che ascoltiamo
nelle tracce cantate e che danno maggiore rilievo alla sua
presenza. Posso immaginare come la gente di Mandé
riesca a riconoscere fin dalle prime note la melodia di Bé
makan e a canticchiarsela mentalmente. C’è un proverbio
africano che dice «come le dita di una mano, gli esseri
umani non sono tutti uguali». La canzone ricorda alla gente
di essere tollerante verso le diversità.
In Warbé, Touré appare al suo meglio assumendo il
comando mentre Diabaté gli funge da dinamico assistente,
forse anche perché non si tratta di un brano tratto dal
repertorio Mandingdièli bensì da quello Foulbé. Diabaté
rimane talmente impressionato dall’abilità e
dalla velocità del tocco delle dita di Touré,
in questo brano, che ad un certo punto lo si
sente esclamare Touré! invece di Fara! nel bel
mezzo della registrazione. Fantastico! Touré
conosceva la musica della cultura di Diabaté
meglio di quanto Diabaté non conoscesse
la sua. Questo spiega anche perché Ali
Farka è sempre perfettamente a suo agio
anche in brani come Sina Mory cantato in
Maninkakan. Fu questo brano che lo spinse
a diventare chitarrista la prima volta lo sentì,
eseguito dalla chitarra di Keita Fodéba, nel
lontano 1956. Nel brano di chiusura, Kala
Dioula il soffice tocco delle percussioni si
fonde perfettamente con il bellissimo gioco
melodico instauratosi fra kora e chitarra.
In the heart of the moon
L’album è intitolato Ali & Toumani e a meno
che la World Circuit non abbia conservato
altre registrazioni da pubblicare in futuro
questa è la fine del sodalizio fra Ali Farka e
Toumani. Se così fosse non bisogna versare
lacrime recriminando altre composizioni che
mai arriveranno. A cosa servirebbe? Questo
disco è il finale perfetto di una carriera e di
un incontro che ha prodotto alcune delle
più belle incisioni di musica africana che
siano mai state realizzate fino ad oggi. Una
testimonianza che ci apparterrà per il resto
dei secoli.
07 PRIMAVERA 2010
PADRE E FIGLIO
I comunicati stampa narrano come i 12 brani di In the
Heart of the Moon furono registrati in tre pomeriggi
all’ultimo piano dell’Hotel Mandè di Bamako da cui si
gode una meravigliosa vista sul fiume Niger. Il nuovo
album, che si intitola semplicemente Ali & Toumani, è stato
realizzato invece a Londra in una serie di brevi sedute di
registrazione. Diabaté è il catalizzatore. Visto il successo
della prima collaborazione, Toumani ha insistito per la
realizzazione di un secondo album. Si rendeva conto che il
tempo di Ali Farka era in via di esaurimento. In effetti pare
che Touré soffrisse parecchio e che durante la realizzazione
del disco abbia più volte dovuto fermare la registrazione
per riprenderla dopo brevi soste. Diabatè aveva circa 25
foto Christina Jaspars
foto Luca Vergano
Il sodalizio Touré-Diabaté appare più naturale, la scarsa
conoscenza della storia del Mali e delle sue tradizioni
porta a considerare quest’incontro come quasi scontato.
Ma così non è. L’incontro rientra negli esperimenti di
fusion. Touré appartiene al gruppo etnico Songhai e per
quanto questa cultura si sia evoluta da quella Mandè ha,
nei secoli, sviluppato tradizioni culturali e musicali originali
distinguendosi nettamente da quella del resto del Sud del
paese a cui appartiene Toumani Diabatè. Se si dovesse
scrivere un libro sui trionfi raggiunti dai due musicisti con
la nascita del loro primo duetto In the Heart of the Moon
occorrerebbero diversi capitoli. Impossibile non parlare
della nomination al Grammy Award, che giunse nel 2005, o
ignorare l’assegnazione del premio, avvenuta nel febbraio
2006. è come celare, appena un mese dopo, la triste
notizia della dipartita di Ali Farka che dà a questa storia
un sapore tragico e drammatico senza per altro scriverne
la fine. Naturalmente Touré sapeva di essere malato e ha
colto ogni occasione per aggiungere altri grandi momenti
di musica da lasciare in eredità. Cinque mesi dopo la
sua morte la sua etichetta, World Circuit, ha realizzato il
meraviglioso Savane ed ora, ancora quattro anni dopo,
è pronto il secondo volume delle sue collaborazioni con
Toumani Diabaté.
Strumento tipico dei Griot (cantastorie)
dell’Africa Occidentale la kora dagli anni settanta
è diventata strumento solista svincolandosi dalle
parti cantate fino ad assurgere a voce principale
fra gli strumenti dell’universo musicale africano.
Questo grazie a grandi maestri come Toumani
Diabate, Ballake Sissoko, Foday Musa Suso
e Djeli Moussa Djawara nonchè ad un’ampia
schiera di giovani talenti come Mamadou
Diabate, recente vincitore del Grammy, Ablaye
Sissoko e Sona Maya Jobarteh, unica donna
della partita.
21
Titolo In the Heart of the Moon
Etichetta World Circuit / IRD
Ali & Toumani
Le registrazioni formano una splendida, luccicante,
collezione di gioielli. L’album si apre con Ruby un brano
cui Touré ha voluto generosamente dare il nome della
figlia del produttore, seguito da un brano folk con echi di
sabor latino Sabou Yerko, grazie anche al basso di Orlando
Cachito Lopez. Fortunatamente le irritanti sovraincisioni
intrusive che spesso Ry Cooder in passato ha inserito nelle
sue produzioni, in questo caso sono ridotte al minimo.
Sovraincisioni di armonica come in Savane avrebbero reso
l’album inascoltabile. 56 regala lo stesso suono di metallo
brunito e luccicante sia alla kora che alla chitarra ma
senza lo swing di Sabou Yerkoy. Toumani Diabaté non è
Titolo Ali & Toumani
Etichetta World Circuit / IRD
Online www.myspace.com/alifarkatoureofficial
www.myspace.com/toumanidiabate
07 PRIMAVERA 2010
22 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
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Ballaké Sissoko
e
Vincent
Segal
Camera con vista interiore
www.felmay.it
FELMAY
di Piercarlo Poggio
Una strana coppia si aggira nella world music. Sono
differenti in tutto, per formazione, mentalità, identità
culturale e stirpe. Maneggiano arnesi, la kora e il violoncello,
che non possiedono nemmeno una lontanissima parentela,
e mai parrebbe possibile farli interagire. Eppure l’ascolto
di Chamber Music è l’esatta dimostrazione del contrario,
perfetto intreccio di universi lontani, simbiosi delicata tra
esseri dotati di estrema sensibilità. Abbiamo domandato
direttamente ai protagonisti, prima di un concerto torinese,
di svelarci il mistero.
«Sono differenti in tutto, per formazione,
mentalità, identità culturale e stirpe».
Riferendosi al loro primo incontro, avvenuto diversi anni
addietro, Segal afferma che «Ballaké si è interessato
al violoncello perché il suono grave gli ricordava quello
del bolon, uno strumento tradizionale maliano a tre o
quattro corde. Lui aveva inciso per Label Bleu e in quel
periodo anch’io avevo lavorato con quell’etichetta, così
ci è capitato di incontrarci in occasione di un concerto
tenutosi ad Amiens. Ballaké in seguito mi ha domandato
di collaborare con lui, cosa che abbiamo fatto per molto
tempo. A Parigi abbiamo passato insieme giornate intere
a suonare e a discutere di musica nelle rispettive case,
per il semplice piacere di farlo, creando una relazione di
amicizia fraterna. L’esigenza di incidere un disco è venuta
solo di recente. E il titolo rispecchia quella particolare
condizione in cui ci siamo ritrovati, noi due, soli, in una
stanza a creare. Non c’è nulla di ironico nell’espressione
musica da camera, nessun antiaccademismo: è soltanto
la fotografia di quanto avvenuto. E poi Ballaké aveva un
ricordo preciso di quando, assai piccolo, sentiva suonare
suo padre Jelimadi [uno dei grandi suonatori di kora della
generazione precedente, ndr] in un angolo della casa.
Egli suonava in modo assai diverso rispetto a quanto gli
accadeva in occasione di feste e concerti».
Sissoko conferma che «Prima di prendere la decisione
di fare un disco abbiamo passato molto tempo a cercare
di capire che cosa poteva scaturire dal nostro incontro,
mentre aumentava l’intesa e la solidarietà». Segal ritiene
che «musicalmente, le cose migliori nascono da processi di
lunga durata, da relazioni non episodiche tra artisti; è vero,
talvolta si creano situazioni felici anche tra chi si incontra
una volta sola, come avviene nel free, ma ciò capita solo
a musicisti esperti, che pensano allo stesso modo. A
me invece piace procedere in modo regolare, continuo:
lo paragono al lavoro del contadino. Inoltre mi interessa
operare su musiche non scritte, legate all’immaginazione.
Se mettiamo sulla carta quanto facciamo io e Ballaké si
scopre che sono pochissime note, tutto è molto semplice.
Non partiamo mai con qualcosa di scritto. Ballaké inizia a
produrre una piccola melodia e poi ci giriamo attorno tutta
una notte, per vedere come funziona sul piano anche ritmico,
come “danza”, dove ci porta. Tracce si conservano poi nella
nostra memoria, così quando la volta successiva torniamo
a suonare, qualcosa si è perso ma qualcosa rimane. Non
abbiamo bisogno di parlare per comprendere se quello
che stiamo facendo funziona o meno, basta incrociare gli
sguardi. Ballaké ha un grande orecchio. Certo ci è voluto del
tempo per raggiungere questo equilibrio, io non avrei mai
potuto fare ciò a diciott’anni, serve anche dell’esperienza».
«Se mettiamo sulla carta quanto facciamo
io e Ballaké si scopre che sono pochissime
note, tutto è molto semplice».
Per Sissoko «ogni soggetto ha le sue qualità, io amo
fare cose differenti, sperimentare con musicisti diversi;
ho suonato molto in duo, e ogni volta è una storia a sé.
Il dialogo con il pianoforte l’ha voluto Ludovico Einaudi,
questo con il violoncello l’ho deciso io. Il bolon mi offriva
minori possibilità di dialogo, mentre con Vincent mi posso
esprimere meglio e di più. Sono molto soddisfatto del
risultato, perché non mi piace dover discutere troppo di
musica prima di suonare. Con lui basta prendere un caffè e
via, parlano gli strumenti al nostro posto».
«In effetti,» interviene Segal, « durante le sedute d’incisione
effettuate a Bamako abbiamo cercato di ridurre al minimo
le problematiche e le responsabilità tecniche legate alla
produzione, per avere attorno a noi la stessa atmosfera
casalinga dei nostri incontri parigini. Abbiamo suonato e
registrato tre notti di fila, in modo tranquillo, lasciando che
la musica facesse il suo corso». «Quando si ha la mente
presa da preoccupazioni organizzative non si può dare il
meglio di se stessi sullo strumento, manca lo spirito giusto»,
precisa Sissoko. Per Segal, infine, «è fondamentale creare
un “ascolto” tra i musicisti, per giungere a una tensione
dinamica positiva, a uno stato non troppo confortevole.
Noi cerchiamo di fare in modo che ciò accada anche nei
concerti: preferiamo suonare in piccoli locali, in modo da
conquistare all’attenzione il pubblico; è importante che
esso si ponga nei nostri confronti allo stesso modo in cui si
va a teatro: ci vuole del silenzio, dell’attesa da entrambe le
parti per riuscire a entrare in comunione».
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vol. 2 - Azmaris urbains
des annèes 90
vol. 3 - L'age d'or de la
musique ethiopienne
moderne 1969-1975
vol. 4 - Mulatu Astatke
Ethio Jazz & Musique
Instrumentale, 1969-1974
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07 PRIMAVERA 2010
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thiopiques
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vol. 1 - L'age d'or de la
musique ethhiopenne
moderne 1969-1975
Titolo Chamber Music
Etichetta Ponderosa
Online vids.myspace.com/index.
cfm?fuseaction=vids.individual&videoid=60637959
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vol. 5 - Tigrigna Music
1970-75
vol. 10 - Tezeta - Ethiopian
Blues and Ballads
vol. 15 - Europe meets
Ethiopia - Jump to Addis
vol. 6 - Mahmoud Ahmed
Almaz 1973
vol. 11 - Alèmu Aga - The
Harp of King David
vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu
The Lady with the Krar
vol. 12 - Konso Music
& Songs
vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè
vol. 13 - The Golden
Seventies - Ethiopian Groove
vol. 19 - Mahamoud Ahmed
1974 - Alèmyè
vol. 24 - L'age d'or de la
musique ethiopienne
moderne 1969-1975
vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya
Negus of Ethiopian Sax
vol. 20 - Either Orchestra &
Guests - Live in Addis
vol. 25 - Modern Roots
1971/1975
vol. 7 - Mahmoud Ahmed
Erè mèla mèla 1975
vol. 8 - Swinging Addis
1969-1974
vol. 9 - Alèmayehu Eshété
vol. 18 - Asguèbba !
vol. 21 - Emahoy Tsegué
& Maryam Guèbrou
Piano Solo
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24 M E NNA
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25
Foday Musa Suso: Moderno Griot
di Giulio Cancelliere
Il gambiano Foday Musa Suso è stato probabilmente
il primo suonatore di Kora a raggiungere la popolarità
globale, grazie, oltre che al suo talento, alle numerose
collaborazioni con musicisti americani di diversa estrazione:
Herbie Hancock, Bill Laswell, Kronos Quartet, Philip Glass,
Paul Simon, Jack DeJohnette. In tutto questo, ha giocato
un ruolo importantissimo il fatto che, dopo avere studiato e
insegnato musica in Africa Occidentale, si è trasferito negli
Stati Uniti a Chicago, dove è venuto a contatto diretto con il
mondo del blues e del jazz, coi quali ha contaminato il suo
stile e ai quali ha fornito il suo grandioso contributo.
Vorrei che mi parlassi della kora, di dove è diffusa e
quali sono le principali accordature usate.
La kora è diffusa prevalentemente in cinque Paesi dell’Africa
Occidentale: Mali, Guinea, Guinea Bissau, Gambia e
Senegal. Sono i Paesi dove sono nate le più importanti
famiglie di Griot, gli aedi, i depositari della tradizione orale
mandinga. Le principali accordature sono tre e dipendono
dai dialetti parlati in queste aree.
A seconda del dialetto parlato si accorda diversamente
la kora?
Esatto, è come se il suono dello strumento si accordasse
col suono della lingua. La lingua è una, ma è un po’ come
succede per l’inglese che si parla in Inghilterra e quello
americano. Io vengo dal Gambia e l’uomo che inventò
la kora era un mio antenato, Jali Madi Wlen Suso, che
compose una canzone molto famosa dedicata alla storia
epica di Kelefa Saane, un grande guerriero della Guinea
Bissau. Comunque c’è l’accordatura Tomora, Hardino,
Sauta e Silaba.
Ma sono quattro, non tre.
Adesso ti spiego. Sauta è diffusa in Mali e Guinea; Hardino
e Tomora sono diffuse in Gambia, Guinea Bissau e Senegal;
Silaba, in realtà, è la Tomora, ma necessita di quattro corde
in più e molta gente non la conosce. Inoltre, sin da ragazzo
io ho cercato di fare cose diverse, aggiungendo fino a sei
corde in più ai miei strumenti per arricchirne le possibilità.
Come è cambiato lo stile dei suonatori di kora nel
tempo, anche in funzione delle trasformazioni dello
strumento?
Diciamo che lo strumento non è cambiato molto, se non
per le corde, che un tempo erano di budello e ora sono
di nylon. Queste ultime sono molto più resistenti e hanno
un suono più brillante. Poi certamente la musica cambia,
si evolve, si contamina. Nella nostra tradizione non sono
i genitori che insegnano ai figli la musica. Mio padre,
che era un bravo suonatore di kora, mi ha mandato da
un altro maestro, Sekou Suso. Con lui ho studiato nove
anni, ma ho viaggiato parecchio, tra Mali, Guinea Bissau e
Casamance (Senegal) e ho avuto modo di venire in contatto
con i diversi stili di queste aree. Per un ascoltatore non
africano può sembrare tutto piuttosto omogeneo, ma gli
stili si differenziano moltissimo per accordature, tecniche
e attitudini. Un suonatore del Mali, che voglia suonare con
uno del Senegal avrà grosse difficoltà, perché gli stili non
coincidono. Di più: se vedi un suonatore di kora che canta,
stai sicuro che viene dal Gambia, dal Senegal o da Guinea
Bissau, perché fa parte della tradizione, mentre in Mali il
suonatore di kora non canta.
Cosa significa essere un Griot oggi?
È un po’ diverso rispetto al passato, ma non così tanto. In
fondo il destino del Griot è di viaggiare e spostarsi da un
villaggio all’altro, da un Paese all’altro. Oggi che il mondo
è più piccolo, non ci spostiamo da un villaggio all’altro, ma
da un continente all’altro, da soli o in piccoli gruppi, ma il
destino di viaggiatori ci segue sempre. Persino nell’Africa
Occidentale non è cambiato tantissimo: certo, se vivi a
Dakar o in un’altra grande città la tua identità di Griot è
praticamente sconosciuta, ma nei villaggi l’atteggiamento
nei nostri confronti è sempre di rispetto e affetto.
Online www.fmsuso.com
Alcuni Album
Mandingo Griot Society
Flying Fish / IRD
con Don Cherry
Pieces of Africa
Nonesuch / Wea
con Kronos Quartet
07 PRIMAVERA 2010
Village Life
Sony
con Herbie Hancock
Music from the Screens
Point / Universal
con Phillip Glass
Il mondo
della banda
di Fabio Barovero
foto Sebastiano Piccione
La scena del film La ragazza sul ponte di Patrice Leconte,
dove Vanessa Paradis gira sulla ruota della morte mentre
il lanciatore di coltelli Daniel Auteuil rischia di ucciderla, è
accompagnata da una musica solenne e drammatica. Le
prime note dei bassi sono telluriche, sembrano annunciare
l’entrata dell’inferno. (Per Domenico Morelli - Banda
Ionica dall’album Passione). E’ sorprendente svelare che
la maggior parte dei musicisti di quella partitura sono
bambini, ed è difficile immaginare questi giovani esecutori
intenti poco prima ai compiti di scuola, a far merenda
preparata dai genitori, a giocare lungo la marina di Avola, in
Sicilia. E’ anche un ensemble transgenerazionale la banda.
Ed è per questo che mi trasmette una fiducia e un senso
di appartenenza che nessuna formazione musicale riesce
a comunicarmi. Non sa solo di nostalgia, di storia d’Italia,
di cultura alta e bassa, di sud e di nord, di circoli musicali,
di dopolavoro e doposcuola, ma da la sensazione che un
mondo più armonico sia possibile. Certo, possono accadere
cose terribili ai bambini distratti e non professionisti, come
quella volta a Torino durante la festa finale di Terra Madre,
in piazza Castello, con i più giovani avolesi quasi tutti sul
palco poco prima di suonare e tutte le carpette con gli
spartiti dimenticate sull’autobus. Un mistero come tutto
si sia risolto. Come i protagonisti dell’orchestra del film
Il concerto di Radu Mihaileanu in questi mesi nelle sale,
che appena arrivano a Parigi si disperdono nell’eccitazione
di combinarne di tutti i colori e magicamente si ritrovano
all’ultimo minuto ricomposti sul palcoscenico a diventare
un corpo unico per la musica. Oggi dopo l’esperienza della
Banda Ionica i ragazzi del maestro Bell’arte si sono tolti le
divise risorgimentali di dosso, che li facevano sembrare le
marionette di un museo ambulante. Tutti hanno capito che
sono usciti dalla prigione istituzionale che li relegava ad
eseguire esclusivamente i momenti dettati dal calendario
dei santi. Oggi sanno che oltre a Sicilia bedda e alla
marcia della polizia è meglio arrangiare le canzoni dei
cantautori illuminati come Mirco Menna. Usare la musica
per controllare e regolamentare l’individuo è un torto
pericoloso, da televoto, dove tutto può solo funzionare con
atti ripetitivi e alienati, per accorgersi che poi è troppo tardi
per togliersi l’alienazione di dosso.
07 PRIMAVERA 2010
26 M E NNA
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Di canzoni e di
bande: e Mirco
Menna ride
Mi sia perdonata l’autocitazione: «cento altri dischi così»
auguravo agli autori, al lettore e a me stesso chiudendo su
altre colonne una recensione di ’A banna!, album d’esordio
per la Banda di Avola. Lavoro entusiasmante per come –
con l’accorta regia di un Fabio Barovero al tempo fresco
di secondo trionfo con la Banda Ionica – lucidava a nuovo,
con attitudine ludicissima, spartiti del terzo decennio dello
scorso secolo. Spasso e poesia cento, musealità zero.
Naturalmente non potevo immaginare che ci sarebbero
voluti sei anni e mezzo per ascoltare un secondo disco
con protagonista la folta, e mediamente assai giovane,
compagine guidata dal maestro Sebastiano nomen omen
Bell’Arte. Apposta non ho scritto «un successore». Appena
pubblicato da Felmay, …e l’italiano ride in comune con
l’album prima ha la casa discografica, la produzione di
Barovero e poco d’altro. È il frutto di un incontro che si rivela
felice e di una scommessa che pareva azzardata: portare la
canzone d’autore nell’universo delle bande di paese.
L’autore in questione è Mirco – oppure Mirko, come si
legge nella scheda di Wikipedia del gruppo di cui è stato
prima il percussionista e poi la voce, il Parto delle Nuvole
Pesanti – Menna. Bolognese, 1963-vivente come incurante
di ogni scaramanzia recita il suo sito web, il nostro uomo
prima di questo aveva realizzato un paio di lavori in proprio
- Nebbia di idee nel 2002, Ecco nel 2005 – poco notati ma
molto apprezzati dai pochi che li notarono. Fra costoro, tal
Paolo Conte che spendeva al riguardo belle parole. …e
l’italiano ride riprende un paio di brani dal primo, cinque dal
secondo e completa la scaletta con quattro canzoni scritte
appositamente. Va da sé che gli arrangiamenti creati per
l’occasione trasfigurino totalmente composizioni che prima
qui latineggiavano e lì swingavano. Salta subito all’orecchio
come mai fossero tanto piaciute all’avvocato di Asti. «Ma
in Italia il connubio fra il gusto melodico che ci è proprio
e un certo jazz non l’ha comunque inventato lui, c’è una
tradizione che precede Conte e va da Renato Carosone a
Fred Buscaglione, passando per Natalino Otto», sottolinea
Menna, incontrato per due chiacchiere nel retro di un
negozio torinese di dischi in un sabato di fine febbraio.
Quale il percorso che ti ha portato da Bologna ad Avola,
che non è proprio dietro l’angolo?
Mi sono ritrovato a suonare da quelle parti con il Parto
delle Nuvole Pesanti ed è stato così che ho conosciuto il
maestro Bell’Arte e i suoi ragazzi. L’idea di fare qualcosa
insieme è partita da loro e l’ho subito accolta con
entusiasmo. A Bologna la situazione è un po’… stagnante,
in generale e per me in particolare. Mi conoscono tutti,
anche perché sono in giro da un paio di decenni benché poi
discograficamente sia stato un esordiente tardivo, ma è un
posto dove essere profeti in patria è forse più difficile che
altrove. C’è Guccini, che però è – come dire? – importato.
C’è il giro Dalla-Ron-Stadio, dal quale io però musicalmente
sono lontano così come ho poco da dividere, facendo un
salto generazionale, con i vari Carboni e Bersani. Mi sento
più vicino a un Claudio Lolli, con il quale non a caso il Parto
– altri bolognesi d’importazione, tutti calabresi di nascita
a parte me - ha collaborato riarrangiando Ho visto anche
07 PRIMAVERA 2010
degli zingari felici. Il mio rapporto con il Meridione è in ogni
caso parecchio antecedente all’incontro con il Parto delle
Nuvole Pesanti. Il Meridione è da sempre casa mia almeno
quanto Bologna, essendo mia madre siciliana, mio padre
campano di famiglia e poi adottivo lucano.
Adesso capisco come mai risulti tanto convincente ed
efficace in Chi mi facisti fari, che è in parte in siciliano
e fra l’altro è uno dei due soli pezzi che hai scritto
completamente da solo.
È una lingua che ho in bocca da sempre, come il napoletano
e difatti il mio primo album si apriva con una canzone,
Migranti, che ha il ritornello in dialetto campano. Quasi tutti
i brani ripresi da Nebbia di idee e da Ecco sono frutto di
un lavoro condiviso e paritario con Paolo Di Nanni, che è
il mio compare storico ed è più grande di me. Lo conosco
da quando ero bambino e addirittura la chitarra ho imparato
a suonarla facendo canzoni sue. Di due dei brani realizzati
ex novo per questo disco ho scritto solo le parole. La
musica di Evviva è del maestro Bell’Arte e credo che si
avverta che l’ha composta uno totalmente immerso nella
tradizione bandistica. Lo spartito di Vieni a trovarmi me l’ha
invece passato Barovero e mi ha ispirato un testo per me
inusualmente intimista, quando invece di solito sono uno
che tende a osservare il mondo come da una finestra.
Che rapporto avevi con il folk prima di questo album?
Quando i miei coetanei compravano il punk io compravo
la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Quanto al modo
in cui suona una banda, all’impatto anche fisico che ha,
fa parte dei miei ricordi d’infanzia, delle processioni
cui assistevo durante le vacanze estive, nelle feste
patronali. Mio padre aveva pure dei dischi di bande, ma
quelli al tempo non mi interessavano, non li ascoltavo.
Era l’esperienza dell’incontro diretto a esaltarmi ed è un
qualcosa che mi è rimasto sottopelle.
Le canzoni nuove sono state pensate in maniera
diversa rispetto a come le avresti scritte dovendole poi
suonare con un gruppo più canonico?
Non credo. Piuttosto sono state influenzate dai posti, così
come dalle cose che stavano succedendo in Italia – eravamo
all’inizio dello scandalo delle puttane di regime – e di cui
inevitabilmente si finiva per parlare. Il titolo stesso del disco
viene da una storia che mi ha raccontato Bell’Arte a proposito
di questo suo amico tedesco che, ogni volta che nota una
stortura nostra, commenta dicendo che «in Cermania
qveste cose non zuccedono». E invariabilmente finisce con:
«E l’italiano che fa? L’italiano ride». Che è un bel modo di
interpretare allegramente la malinconia… No, devo dire che
non c’è stato un lavoro diverso sulla metrica e una delle cose
di cui siamo più contenti è proprio quella che notavi prima tu,
cioè che, se uno non lo sa, all’ascolto non se ne rende conto
che certe canzoni – la maggioranza - in origine non erano state
scritte per una banda. Non c’è scollamento, non c’è maniera.
È un lavoro che mi sembra abbia una sua coerenza, forse
proprio perché il mondo bandistico fa parte delle mie radici.
Poi è chiaro che il resto proviene da una scuola cantautorale
classica cui mi sono indubbiamente abbeverato.
Disco difficilotto da portare in tour. Praticamente
impossibile.
Sì. Soprattutto perché chi li paga vitto e alloggio a
cinquanta musicisti? Un cinquantetto! (ridacchia) Vedremo,
foto Sabastiano Piccione
di Eddy Cilìa
a seconda dei riscontri che ci saranno. Magari ci limitiamo
a qualche spettacolo in Sicilia.
Resterà una cosa estemporanea o è immaginabile un
seguito?
Io un altro paio di pezzi pensati per la banda già li ho scritti.
E uno mi piace particolarmente.
Titolo ...e l’italiano ride
Etichetta Felmay
Online www.felmay.it
Video www.youtube.com/watch?v=HDTmBolmAZI
Se volete saperne di più
Titolo ‘A Banna!
Artista Banda di Avola
Etichetta Felmay
Titolo Matri Mia
Artista Banda Ionica
Etichetta Felmay
07 PRIMAVERA 2010
28 CA M A R Ó N D E LA ISLA
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Storia
di
un
re
gitano
La musica e la leggenda di Camarón de la Isla,
il cantante flamenco più tributato in Spagna
di David Valderrama
esercizio esegetico se si vuole comprendere appieno
come uno zingarello, che a soli sette anni cantava nelle
osterie o all’ingresso della stazione tranviaria di San
Fernando (Cadice),in cambio di pochi spiccioli, sia potuto
diventare una leggenda tributata in tutta la Spagna e sia
stato commemorato con monumenti tali da fare invidia al
più illustre dei rappresentanti le istituzioni.
A differenza di altri generi cantati il flamenco ha una
preistoria popolare che si perde e si intreccia con le
tradizioni musicali araba, andalusa, castigliana, ebraica
e, naturalmente, gitana. Prendendo a prestito le parole
del grande poeta granadino e profondo conoscitore della
cultura flamenca Federico Garcia Lorca, il cante jondo è
«Un canto profondo, molto più profondo di tutti i pozzi di
tutti i mari del mondo, ancora più profondo del cuore che
oggi lo crea, della voce che oggi lo canta. È un canto quasi
infinito, viene da molto lontano attraverso gli anni i mari e i
venti del tempo, viene dal primo pianto, dal primo bacio».
Camarón la profondità del canto la conosceva, la
interpretava e soprattutto l’amava come pochi altri. José
Monge Cruz, questo il suo vero nome, era l’incarnazione
del duende (folletto) gitano. Figlio di Juana e Luis, fabbro
lui canastera lei, respira il flamenco non appena viene al
mondo. Nasce il 5 dicembre 1950 in una strada, l’Amargura,
dalle inequivocabili risonanze flamenche. Il padre muore di
tubercolosi, cosa che lo costringe a esibirsi in ogni dove
per apportare un contributo alle magre finanze familiari.
Tutte condizioni che sembrano tessere la ragnatela di
una storia dai risvolti leggendari. Dodicenne incanta il
pubblico del Festival de Montilla (Cordova) aggiudicandosi
il primo premio. Si racconta che in quegli anni molti artisti,
signorotti benestanti o semplici appassionati facessero a
gara per ascoltare il “bambino prodigio” mentre si esibiva
di pomeriggio, vista la giovane età, nel piccolo tempio
flamenco dell’isola di San Fernando, la Venta de Vargas.
Di certo c’è che a notare il ragazzo fu il divo del flamenco
Manolo Caracol e che con insistenza cercò di scritturarlo
per il suo tablao flamenco di Madrid, il leggendario
“Los canasteros”. Ma i tempi non erano ancora maturi
e Camarón preferì andare a Malaga dove trascorse un
periodo come cantante della Taverna gitana.
Nell’isola, attorno alla baia, dove sanguina l’oleandro e
ondeggiano le palme, venne il canto in questo regno di luce.
Quel giorno, tremarono le palme e le chitarre. (..) Accanto
alle onde del mare, nella via de la amargura, ai piedi delle
antiche case, piene di lamenti, di urla di rame e di pareti
di calce bianca, non molto lontano dalla fucina, diede alla
luce Juana la Canastera e la luce divenne subito canto.
Francisco Arias Solis
Recentemente mi è capitato di parlare di Camarón de
la Isla con alcuni giovani amici andalusi. Ognuno di loro,
malgrado nessuno superasse i venticinque, nutriva una
profonda devozione per questo maestro del flamenco
deceduto diciassette anni fa. Non erano soliti ascoltare
il flamenco, preferendogli le nuove evoluzioni musicali
iberiche, ma tutti riconoscevano in Camarón un talento
fuori discussione e nutrivano una profonda stima nei
confronti di un artista che aveva saputo internazionalizzare
la musica gitana dell’alandalus. Pertanto, conoscere a
fondo la vita e l’opera di questo grande artista diventa
07 PRIMAVERA 2010
L’incontro con Paco de Lucia e il successo
Per il suo fascino e la sua velocità, per essere un dio terreno
per un popolo senza rotta, i versi che passarono dalla sua
gola di seta sono rimasti, per sempre, imprigionati nell’etere
del flamenco. Ricardo Pachon
Compiuti sedici anni Camarón si sente ormai pronto per
la capitale, desideroso di dimostrare al mondo che il suo
non è il talento passeggero di un bambino prodigio. Con
in tasca alcune pesetas e una lettera della madre che
attestava la sua età - e quindi l’abilità al lavoro - si imbarca
sul primo treno con destinazione Madrid. In questo modo
ha inizio un’avventura che avrebbe segnato per sempre
il flamenco del XX secolo. Ben presto entra a far parte
della compagnia di Juanito Valderrama con la quale va
in tournee europea e nel 1968 viene scritturato a Torres
Bermejas, il locale flamenco dove ogni cantante sogna di
esibirsi almeno una volta nella vita.
Probabilmente la fama di Camarón non avrebbe raggiunto
i picchi che abbiamo conosciuto se nel 1967 non avesse
iniziato un sodalizio musicale durato dieci anni con l’altro
gigante del flamenco: il chitarrista Paco de Lucia. Uniti da
una comune passione oltre che dalla giovane età, i due
stringono un’amicizia fraterna. Paco diventerà una specie
di fratello maggiore nella vita privata, sempre pronto
a sostenere il debole amico che sempre più spesso si
abbandona agli eccessi di una vita sregolata fatta di feste
fino all’alba e di abuso di droghe. Ma è ancora presto
per parlare delle fatalità, adesso è il momento della fama
e di quella musica che prima di essere innovata andava
imparata, perfezionata, condotta agli estremi. Il primo
frutto di questo incontro sarà l’album Al verte las flores
lloran datato 1969, dove stili diversi vengono eseguiti con
garbo e totale dominio delle battute e degli accordi vocali.
Ma questo fu soltanto l’inizio perché poi vennero nuovi
album segnati da un crescente successo; da Cada vez
que nos miramos (1970) a Son tus ojos dos estrellas (1971)
fino Canastera (1972). Tre album inizialmente criticati dai
vecchi del flamenco ma ben presto accolti con entusiasmo
dai più. Fra il 1969 e il 1977 i due artisti incidono un
album all’anno portando le loro bulerias, coplas e alegrias
ad essere onnipresenti nelle radio di tutta la penisola
iberica. Se però all’inizio erano entrambi protagonisti delle
copertine, col passare del tempo fu il duende gitano a
conquistare maggiormente il pubblico e quindi a occupare
sempre più spazio nelle foto di copertina. Nei pieni anni
settanta Camarón divenne il protagonista indiscusso del
flamenco aggiudicandosi importanti riconoscimenti come il
premio nazionale di canto della cattedra di Flamencologia
di Jerez. Nel 1975, anno della morte del dittatore Franco,
esce l’album Arte y Majestad, che suona come una sfida
alla neonata monarchia essendo in realtà dedicato al torero
Curro Romero. Si tratta di un disco straordinario dove
alle composizioni classiche il cantante impone la propria
firma, avendo ormai raggiunto una propria e autentica
personalità. Con Arte y Majestad e con i successivi Rosa
Maria e Castillo de Arena siamo ormai alla piena maturità
artistica che di li a poco avrebbe condotto Camarón a
concepire un flamenco del tutto nuovo, ricco di elementi
pop e aperto alle richieste di un pubblico più vasto.
La rivoluzione flamenca
Il 1977 segna un’interruzione nella collaborazione musicale
con Paco de Lucia ma non della loro amicizia che invece
si protrarrà fino alla morte del cantante. Nei due anni
successivi Camarón si impegnerà a fondo per preparare
con cura e dovizia di particolari quello che sarà l’album
di svolta definitiva nella sua musica: La leyenda del
tiempo. Si tratta di un’opera spartiacque, ambiziosa e,
cosa importante, perfettamente riuscita. Vi è un cambio
d’immagine del cantante che ora si presenta con la
barba e con il semplice pseudonimo di Camarón, avendo
eliminato il toponimo “de la isla”. Al suo fianco troviamo, in
sostituzione a Paco de Lucia, al giovane chitarrista José
Fernandez Torres e a Tomatito. Ma i cambiamenti non
finiscono qua. Alla chitarra andalusa e le palme si vanno
ora ad aggiungere elementi tipici del rock e del jazz, mentre
le scelte letterarie dei brani si fanno più colte includendo
testi di Lorca, di Villalon e Omar Khayyam sapientemente
adattati da Kiko Veneno. Nonostante le critiche che subito
immersero l’intera opera in realtà Camarón mantiene
sempre una autentica devozione per le tradizioni e per i
vecchi che le rappresentavano. Introduce sì notevoli
cambiamenti ma soltanto quando ha consolidato le sue
doti di cantante e, anche quando cerca di innervare la sua
opera di importanti novità, lo fa nel pieno rispetto delle
basi flamenche, senza mai deformarle o sostituirle. In
29
una occasione disse: «il flamenco è stato fatto, ma sulle
cose fatte si può continuare a creare senza inganno, senza
mistificazione. Ad esempio, per quale motivo dovremmo
eseguire tutti la soleà allo stesso modo come se fossimo
un disco rotto? Se sono in grado di apportarle qualcosa
di mio, di arricchirla, senza per questo motivo svilire il
canto della soleà, per quale motivo non dovrei farlo?». La
popolarità di cui godette negli anni ottanta sta a dimostrare
che il duende non aveva torto. Già nel 1981 esce Como el
agua la cui omonima canzone rimarrà fra le più note che
l’artista abbia mai interpretato, mentre nel successivo
Calle real del 1983 l’adattamento del lorchiano Romance
a la luna rimane tuttora una delle migliori interpretazioni
che siano state fatte dell’opera del poeta. Negli stessi
anni l’opera concertistica diventa incessante arrivando a
programmare centinaia di concerti ogni anno. È importante
però constatare come spesso il cantante si presentasse
di fronte al pubblico in modo del tutto diverso rispetto
ai dischi che produceva. Se nei lavori degli anni ottanta
proponeva un flamenco rinnovato nello stile e nella musica,
nelle esibizioni dal vivo prediligeva il canto a palo seco,
ovvero a cappella o con il semplice supporto della chitarra
e del cajón. Figura snella, di media statura, capello lungo e
sguardo timido si avvicinava in punta di piedi al microfono
e, quando il brusio intorno a lui cedeva il passo al silenzio,
intonava, quasi fino allo svenimento, delle saetas che
sembravano infinite. Nel 1986, anno particolarmente
difficile nella vita del cantante come vedremo più avanti,
esce Te lo dice Camarón. L’album ci presenta un’artista
dalla voce diversa, probabilmente a causa dei problemi
di dentatura che lo attanagliano. Le canzoni, scritte
insieme all’amico Antonio Humanes sono più intime e
parlano di lui, della sua vita, dei luoghi della sua infanzia
e sembrano nel loro insieme rivolgersi al mondo zingaro
da cui proviene. Tralasciando altri due album editi in quegli
anni arriviamo a quello che divenne il disco flamenco più
venduto al mondo (ancor oggi imbattuto) e che, insieme
a La leyenda del tIempo, rivoluzionerà per sempre questo
genere musicale. Stiamo parlando di Soy gitano, un album
concepito a Siviglia in compagnia di un nutrito gruppo
di artisti della capitale andalusa e registrato a Londra
presso gli studi dell’Abbey Road (studio di registrazione
dei Beatles) con la partecipazione della Royal Philarmonic
Orchestra. Il tango Soy gitano in apertura del disco vede
impegnati, oltre ai componenti l’orchestra, i chitarristi
07 PRIMAVERA 2010
30 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
Mondomix.com //M USICA
Tomatito e Vicente Amigo. Nel disco sono incluse la
lorchiana Nana del caballo grande, la buleria Dicen de mi.
Indimenticabile il brano Amor de conuco cantato in duo
con una giovanissima Ana Belen.
7032 inlay.indd 2
Matt Darriau Paradox Trio
Tri Muzike
with Bojan Z
Pause
Il balkan jazz del quartetto
americano qui arricchito da
un ospite di lusso il pianista
3
bosniaco2 Bojan Z. E la musica si fa
incandescente.
Dopo le intense esplorazioni del
repertorio balcanico i Tri Muzike
coniugano in questo nuovo CD la
5
6 della
tradizione
dell’Est con quella
canzone d’autore italiana.
4
11-02-2010 11:58:24
Intermezzo strumentale:
4. TARANTELLA VECCHIA E NOVA 3.04
De lo Trivolo:
5. TERRA TERRA TERRA 3.37
6. DANZA ARABESCA 5.35
7. DINT , A LA VICARIA 3.33
7
8
file under
la moresca
italy
word music
Flamenco de Concierto
Intermezzo Vocale:
,
8. TRADITOR 8.46
Nuovo CD in solo del chitarrista
di origini spagnole. Una serie di
brani originali nel più puro stile
flamenco.
De lo Currivo:
,
,
9. BELLA E LA LIBBERTA 2.28
, ,
10. S E MARITATA LA BELLA MIA 3.20
, ,
11. S I FOSSE FUOCO 2.14
Intermezzo strumentale:
12. TANGUILLO 3.33
I 5 Album Imperdibili
De la Devozione:
13. LAUDA DE LI MACCARUNE 3.33
14. EN LA INTERIOR BODEGA 1.56
15. INNO A LO SOLE 4.45
all texts traditional
all music composed & arranged
by Rosario Del Duca except
3, 4, 12 Giovanni Migliaccio;
5 Vittorio Acone & Rosario Del Duca
8 Marcello Colasurdo & Francesco Migliaccio
published by Felmay
ph. +39 0142 50577 fax +39 0142 50780 [email protected] www.felmay.it
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9
la moresca - ammore, trivolo, currivo e devozione
De l’Ammore:
1. AJERI SERA VIRIETTI ROI STELLE 4.08
2. LA NINNA RI LA RIA 3.24
3. BURLATA 2.39
Online www.camarondelaisla.org
La Moresca
fy 8154
Juan Lorenzo
Ammore, Trivolo,
Currivo e Devozione
(vota la rota de la vita mia…)
la moresca
ammore
trivolo
currivo
e
devozione
10
Soy gitano (1989)
11
Erede della grande tradizione
popolare campana, la Moresca
in un album incentrato sui temi
dell’amore, tribolazioni, collera e
devozione.
Gamelan of Central Java
Gamelan of Central Java
XII. Pangkur One
XIII. Pangkur Two
Il versatile tema musicale Pangkur
presentato in esecuzioni di grandi
ensemble.
12
13
Il versatile tema musicale Pangkur
presentato in esecuzioni da camera
da15
piccoli ensemble.
14
La leyenda del tiempo (1979)
681.086 NP0236 4c.indd 1
16
27.07.2009 13:34:18 Uhr
thiopiques
Gattamolesta
Massimo Ferrante
Czeleste
Jamu
17
Potro de rabia y miel (1975)
Il canotre calabrese alle prese
con brani originali e tradizionali
con una nuova formazione
comprendente il bravissimo
chitarrista Lutte Berg.
Nuova linfa per la musica
popolare italiana.
Una delle nuove forze del power
folk italiano. Quattro giovanotti
alle prese con canzoni surreali e
musiche di ispirazione balcanica.
Più di una speranza.
18
Arte y majestad (1975)
19
8158_libretto.indd 1
5-08-2009 14:41:49
new
Ali Ahmad Hussain
Khan & Party
ali ahmad
hussain khan
india
world music
Malgrado Camarón abbia sempre cercato di tenere lontana
dai riflettori la propria vita privata - e pur condividendo il suo
spirito - mi sembra doveroso ricordare il suo matrimonio
con la giovanissima Dolores Montoya avvenuto nel 1976.
Come voleva la tradizione zingara la cerimonia durò quattro
giorni e quattro notti e dal loro matrimonio nacquero ben
due bambini e due bambine. D’altronde sappiamo come
il successo non gli fece mai perdere le proprie radici. Da
sempre desiderava tornare fra la sua gente, dalla famiglia
agli amici di una vita. Si mostrava distante di fronte alle
amicizie dell’ultima ora e agli adulatori non degnava
neppure uno sguardo. Né la fama, né i notevoli impegni
riuscirono a staccarlo completamente dal proprio mondo.
Nella sua esistenza non mancarono nemmeno gli aspetti
bui della sua esistenza come la dipendenza d’eroina, gli
eccessi con l’alcol e il fumo. Il 1986 non fu certo dei più
allegri nella vita del cantante. Viene condannato ad un
anno di reclusione a causa delle sue responsabilità in un
incidente automobilistico in cui avevano perduto la vita
due persone e, anche se non sconterà mai la pena, le
riviste scandalistiche in cerca di scoop parlano di un artista
ubriacone alle battute finali della sua carriera. Lo stesso
anno muore la madre alla quale il cantante era fortemente
legato, mentre una serie di problemi dentali lo costringono
a sottoporsi a numerosi e dolorosissimi interventi per
mantenere intatte le sue qualità fonetiche. Una vita la sua
che verrà suggellata dal film del regista Jaime Chávarri
uscito nel 2005 con il titolo Camarón. Un lungometraggio
spesso descritto dalla critica come troppo edulcorante
della figura del cantante ma che ha l’indubbio merito di
aver avvicinato le nuove generazioni alla sua arte.
Torniamo però, prima di congedarci, alle battute finali della
sua produzione musicale. L’ultima fatica discografica,
dopo lo straordinario successo di Soy gitano, sarà Potro
de rabia y miel che vedrà nuovamente, a discapito delle
mille insinuazioni giornalistiche che li volevano in rotta,
la collaborazione di Paco de Lucia. A differenza del
precedente, quasi si trattasse di un commiato dalla vita
Felmay • strada roncaglia 16 • 15033 san germano AL • italy
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P Felmay 2009
FELMAY
1
P Felmay 2010
Attorno a Camarón de la Isla vi fu sempre il mistero, forse
perché si trattava di un personaggio misterioso e mistico,
silenzioso e umile, inaccessibile e vicino, furiosamente
umano, familiare e incantevole. Enrique Montiel
www.felmay.it
FELMAY
FELMAY
ali ahmad
hussain khan
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world music
La leggenda di Camarón
terrena, troviamo un Camarón autenticamente flamenco,
emozionante e commuovente. Ascoltando Potro de rabia
y miel si rabbrividisce tanto è sentita l’interpretazione da
parte del cantante ormai malato. All’apice di una carriera,
venerato in tutto il paese come un re, nei primi mesi del
1992 gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni. A
nulla varrà il viaggio negli Stati Uniti in cerca delle migliori
cure. Il 2 luglio 1992 a Badalona (Catalogna), con la sua
morte, nasceva un mito. Due giorni dopo, sotto un sole
implacabile, nel bianco cimitero dell’antica Real Isola di
Leon, ebbero luogo i funerali ai quali assistettero più di
cinquantamila persone e sopra la sua bara venne posta la
bandiera gitana.
Serenity
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Lalgudi Vijayalakshmi
Mala Chandrashekar
Jaishree Jairaj
Vadhya Sunadha Pravaham
Como el agua (1981)
Le Migliori Raccolte
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vol. 1 - L'age d'or de la
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Gnawa Addis
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sua voce -calda
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1969-1974e suadente.
vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya
vol. 9 - Alèmayehu Eshété Negus of Ethiopian Sax
23
24
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Tre donne guidano questo gruppo
incentrato su violino, veena
(strumento a corde) e flauto.
vol. 15 - Europe meets
vol. 21 - Emahoy Tsegué
& Maryam Guèbrou
Ethiopia - Jump to Addis
Piano SoloBailam
Orchestra
vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu
vol.Bailam
22 - Alèmayèhu Eshèté
The Lady with the Krar Harem
1972/1974
vol. 17 - Tlahoun Gèssèssè
vol. 23Bailam
- Orchestra
Ethiopia
L’Orchestra
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vol. 18 - Asguèbba !
con unvol.
repertorio
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d'or de la
balcanici
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due successi
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32 S E VDA H
Mondomix.com //M USICA
tradizione. Per me suona in maniera fantastica. Stiamo
lavorando solo in duo e stiamo per firmare un contratto
con Harmonia Mundi.
SEVDAH
intervista a
foto Nedim Sinanovic
Amira Medunjanin
di Luca Morino
La sevdah o sevdalinka è la musica tradizionale della
Bosnia. Il Paese della ex Jugoslavia è geograficamente
molto vicino all’Italia (da Ancona bastano alcune ore di
traghetto e un paio d’auto) ma culturalmente molto distante
e decisamente poco conosciuto. Non avevo mai sentito
parlare di sevdah fino a quando, qualche mese fa, sono
capitato un lunedì sera al Kino Teatar Prvi Maj di Sarajevo,
un vecchio cinema e circolo culturale che ha resistito anche
al terribile assedio avvenuto tra il 1992 e il 1996: era pieno
di ragazzi che stavano cantando in coro tra fiumi di birra
e nuvole di fumo, mentre tre maturi musicisti suonavano
vecchie sevdah in piedi, tra i tavolini. Chitarra, fisarmonica e
voci, nient’altro. Quel coinvolgimento e quella partecipazione
spontanea mi hanno spinto ad approfondire la conoscenza
della musica e mi si è improvvisamente palesato un mondo
piccolo, una nicchia, ma ricchissima di nomi e di storie.
Le sevdah nascono probabilmente con l’arrivo dei turchi
in Bosnia durante il Medioevo: il modo di usare la voce,
melodico e ricco di melismi, le fa sembrare molto orientali a
un orecchio occidentale, anche se rimaniamo in un ambito
culturale profondamente europeo. E’ un genere musicale
in cui è determinante lo stato emozionale dei cantanti,
insomma l’interpretazione. Originariamente il saz, una specie
di liuto, è stato l’unico strumento d’accompagnamento,
successivamente con la dominazione austro-ungarica sono
stati introdotti la fisarmonica il violino e la chitarra. I testi parlano
spesso d’amore, di abbandoni, nostalgie, struggimenti, ma
celebrano anche luoghi particolari o personaggi: occorre
ricordare che in un paese musulmano come la Bosnia,
soprattutto in passato, la musica poteva essere uno dei pochi
modi che avevano un ragazzo e una ragazza per entrare in
relazione tra loro. Probabilmente è per questo motivo che le
atmosfere sono spesso malinconiche o tragiche, se vogliamo
paragonabili a un genere analogo che si è sviluppato però
sull’opposto versante europeo, il fado portoghese. Non è un
caso che la parola araba sawda significhi bile nera, che si
credeva fosse la causa della malinconia.
Mostard Sevdah Reunion
07 PRIMAVERA 2010
Insomma stiamo parlando di una forma musicale
tradizionale, molto poco conosciuta fuori dalla Bosnia,
ma anche molto seguita e attuale, quindi soggetta a
fisiologiche variazioni ed evoluzioni. La struttura musicale
lascia molto spazio all’improvvisazione e nella storia
degli ultimi 50 anni numerosi cantanti hanno raggiunto
una notevole fama unicamente grazie alle loro peculiarità
canore. Nel 2008 a Sarajevo è stato finalmente ristrutturato
l’edificio che ora si chiama Art Kuća Sevdaha, situato nella
parte antica della città, che contiene documenti, immagini
e suoni degli anni d’oro della sevdah e la presentazione di
decine di cantanti delle varie epoche. Tra questi spiccano i
nomi di Zaim Imamović tra i grandi “vecchi” e dei Mostar
Sevdah Reunion tra gli artisti più recenti. Un altro nome
giovane della scena sarajevese è Damir Imamović, nipote
di Zaim ed eccellente innovatore della tradizione delle
sevdalinka, così come la cantante Amira Medunjanin
il cui affascinante album Zumra, registrato insieme alla
fisarmonicista classica-contemporanea Merima Ključo, è
uscito nella primavera del 2009. Ho incontrato Amira nel
caffè di fronte alla stazione dei taxi di Sarajevo, nel vecchio
quartiere di Bascarsija…
Amira che tipo di accoglienza ha avuto qui in Bosnia il
tuo nuovo album in duo con Merima Ključo?
La cosa divertente è che l’album è stato recensito in
Olanda in maniera fantastica e ora la storia cambia anche
qui e iniziano a dire “oh allora forse c’è qualcosa di buono!”
ed è una situazione così paradossale! Sarajevo è così da
sempre. Comunque è una faccenda che onestamente non
mi interessa. Sia io che Merima volevamo spingere i confini
della sevdah in nuove direzioni. In Germania Est è stato
divertente: ho suonato a Dresda e Lipsia e ai concerti sono
venuti tantissimi emigrati dalla ex Jugoslavia e dalla Bosnia.
Ho raccontato delle storie sull’album e sulle sevdah e loro
mi facevano notare che erano completamente differenti da
quelle che conoscevano, che avevano già sentito.
Infatti un tempo erano troppo suonate, con massicce
orchestrazioni. Era ridicolo, quindi mi sta bene essere,
diciamo, una “ribelle” e non seguire certe regole.
Le canzoni dell’album sono tutte tradizionali…
In questo paese la maggior parte delle persone crede che
non si possano toccare le tradizioni, che devono restare
come sono. Se fosse davvero così non si sarebbero mai
evolute e comunque alcuni secoli fa dovevano essere
completamente differenti rispetto a ora. Si creano sempre
delle difficoltà quando si vogliono fare dei cambiamenti,
per esempio non amo particolarmente la fisarmonica, odio
la maniera in cui la suonano da queste parti: la suonano
troppo, ci sono troppi ornamenti ed è sempre troppo forte,
sguaiata. E’ proprio per questo motivo che ho scelto di
suonare con Merima, abbiamo combinato il suo mondo
della musica classica contemporanea con quello della
La casa discografica Gramofon ha avuto un ruolo
importante in questo progetto?
No, l’idea è venuta originariamente a me e Merima. L’ho
incontrata per la prima volta mentre suonava in un’opera di
Nigel Osborne, lei era con loro e lavorava con i Musicisti
Senza Frontiere (un’associazione che fa base a Sarajevo,
ndr). Qualcuno mi aveva detto che lei viveva in Olanda
e suonava la fisarmonica in maniera eccezionale, così ci
siamo incontrate ad Amsterdam durante un mio concerto
e l’idea ha preso corpo sin dal primo momento. Merima
ha praticamente passato la sua vita artistica a esplorare
la tradizione attraverso la musica contemporanea e aveva
bisogno di una voce per combinare entrambe le cose, così
ci siamo trovate in perfetto accordo: abbiamo iniziato in
maniera autonoma, trovando sponsors, partner finianziari
che coprissero le spese e una volta finito il prodotto
avevamo bisogno di un’etichetta che lo pubblicasse in
Bosnia. Abbiamo scelto Gramofon (www.gramofon.ba) per
la semplice ragione che le altre etichette ponevano delle
condizioni che non ci convincevano, come il modo di fare
pubblicità per esempio: essere presente in televisione, nei
talk show. Io non volevo. Gramofon ha una sua rispettabilità,
produce e pubblica musica contemporanea e jazz, etno
music, così abbiamo deciso che era l’etichetta giusta.
Dove avete registrato l’album?
Nel CMP studio a Zerkall, vicino a Colonia, perché
volevamo lavorare con un tecnico specifico, molto bravo
a gestire i suoni acustici, che si chiama Walter Quintus.
Abbiamo registrato tutto insieme, quello che si sente
nell’album è esattamente come suoniamo noi, senza
sovraincisioni, e il risultato è molto affascinante. Addirittura
certi pezzi sono stati presi “buona la prima” e non abbiamo
toccato più nulla.
33
che si cantano ai bambini, ma non lo è affatto. In realtà
se tu ascolti veramente il testo è una specie di incubo
(canticchia la melodia ironicamente)! E’ banalizzante
interpretarle in quella maniera e noi volevamo cambiare
quel modo: è un dramma, bisogna trattarlo da tale ed è
quello che io e Merima abbiamo fatto.
Come combini l’essere un’artista internazionale con
il fatto di vivvere a Sarajevo che, essendo fuori dalla
comunità europea, implica per esempio il problema di
ottenere un visto ogni volta che si lascia il paese?
Ti devo contraddire perché in realtà ho ottimi rapporti con
l’ambasciata olandese in quanto la mia agenzia ha sede in
Olanda e non ho particolari problemi per uscire dal Paese.
Loro mandano una lettera e nel giro di un giorno ottengo
il visto. Poi qui in Bosnia hanno un sviluppato un sistema
abbastanza rapido per gli artisti, rendendo la procedura
molto semplice. L’unico vero problema è che i biglietti
aerei per qualsiasi destinazione sono molto cari e portare
una band all’estero implica dei costi assurdi, le compagnie
aeree hanno fatto una fortuna qui. Ecco forse quella è la
vera barriera nell’uscire dal paese.
Quindi pensi che un gruppo come i Mostard Sevdah
Reunion abbia fatto la scelta giusta, vivendo fuori dalla
Bosnia?
Solamente due dei componenti abitano all’estero, gli altri
stanno qui in Bosnia. Ora si sono divisi, è stata una cosa
brutta: per il mio primo album ho collaborato con alcuni di
loro, poi la cosa è cambiata e ho deciso di lasciarli.
Ora ci sono i Cafè Sevdah e i Mostar Sevdah Reunion in
cui sono rimasti il vecchio cantante e il violinista che hanno
reclutato nuovi musicisti. Ma i Mostar Sevdah Reunion
originali si sono sciolti e credo cha abbiano fatto un grande
sbaglio, non so. Lo stesso nome del gruppo fa riferimento
al concetto di unione e loro si sono sciolti!
Avete impiegato molto tempo nella pre-produzione?
No, Merima ha fatto tutti gli arrangiamenti, ma non
avevamo molto tempo, lei era ad Amsterdam e io a
Sarajevo, così era molto difficile. Abbiamo utilizzato spesso
skype, lei suonava e io ascoltavo. La prima volta che
abbiamo suonato insieme è stato in Germania nel 2007, lei
è venuta a un mio concerto e abbiamo passato un’intera
giornata provando in una camera d’hotel. Sono cose
che si capiscono al volo sai, quando senti che qualcuno
respira nella tua maniera poi si crea una specie di telepatia
e questo è molto importante.
D’altra parte lei ha studiato al conservatorio di Rotterdam
e ha una grande abilità nell’aprire i miei orizzonti verso un
differente modo di utilizzare la voce. Lei è il vero produttore
dell’album.
Credo che Zumbra sia un album molto spirituale. avete
avuto la consapevolezza di questo fatto?
Si, l’abbiamo fatto di proposito perché ormai le sevdah
sono eseguite più o meno nella stessa maniera e gli
interpreti non prestano molta attenzione al contenuto
dei testi, al loro messaggio: ci sono delle sevdah che
sono drammatiche, tristi e gli arrangiamenti sono
frivoli, completamente scollegati dal contesto. E’ così
paradossale. Inizialmente noi volevamo approfondire
il senso delle canzoni e mostrare le emozioni che ne
scaturivano attraverso l’espressione e gli arrangiamenti,
non solo seguire le regole dell’interpretazione classica.
Per esempio Mehemida Majka Budila, che è una delle
mie preferite dell’album, è una canzone molto radicale: è
sempre stata cantata come una dolce filastrocca, di quelle
07 PRIMAVERA 2010
34 W o me x
Mondomix.com //M USICA
booking & production
Come dicevei rappresenti una specie di ribelle della
tradizione. Come pensi che sarà il tuo prossimo
progetto?
Al momento sto presentando l’album che è uscito in aprile
in Bosnia e che l’anno prossimo uscirà con Harmonia
Mundi. Loro si aspettano che faccia seguito un lungo
tour. Poi probabilmente inserirò alcuni elementi di jazz,
la prossima primavera e realizzerò un nuovo album con
questa band, il quarto, naturalmente manterrò un forte
legame con la musica tradizionale. In un futuro più lontano
penso di dedicarmi ad un repertorio più ampio con mie
composizioni.
Hai detto che i testi sono molto importanti, nel caso
delle Sevdah come e forse più della musica stessa:
come riesci a combinare il fatto che quando vai
all’estero non si capiscono le parole delle tue canzoni?
E’ la forza di questo tipo di musica, la forza della sevdah.
Non è così importante se la gente non capisce quello che
dici, se sei veramente assorbito dalla performance e dai
tutto te stesso. Il modo di cantare è molto importante,
la maniera in cui convogli le emozioni attraverso la tua
voce. Molto spesso comunque, quando canto all’estero,
presento le canzoni che secondo me sono più importanti
spiegando un po’ di cosa parla il testo. Non troppo, solo
qualche spunto qua e là e nei momenti giusti, quando si
raggiunge il picco emotivo, la gente risponde, avverte che
quello è il punto anche se non capisce cosa dico. La stessa
cosa succede per il fado, visto che non sono in molti a
conoscere il portoghese. Certo è più difficile, devi essere
completamente là, concentrato, altrimenti risulti finto e il
pubblico se ne accorge immediatamente.
Quali sono gli artisti di Sevdah che ti piacciono?
Mi piace molto Damir Imamović, il suo modo minimale di
fare gli arrangiamenti, ma non ci sono molti musicisti delle
nuove generazioni interessati a questo tipo di musica.
Un’ ultima domanda: è possibile oggigiorno comporre
nuove Sevdah?
Si, Merima ha scritto una pezzo bellissimo, fantastico, è
un’ultra mega hit, ma non è ancora uscita e sono sicura che
se uscirà come singolo sarà sicuramente un successo.
Wo m e x
2 0 0 9
Copenhagen
di Paolo Ferrari
Brigada Retro Mishto (Romania)
Titolo Zumra
Etichetta World Village / Ducale
Online www.amira.com.ba
GEO music
tamikrest
07 PRIMAVERA 2010
eric bibb
Produzione e organizzazione eventi
culturali world & celtic music
management & booking
Dal 1 gennaio 2010
dervish Gigi bresciani è GEOMUSIC
richard thompson
kila
hevia
35
INFO
www.geomusic.it
[email protected]
tel/fax +39 035.732005
cell +39 348 4466307
foto di Elisabetta Sermenghi
Edizione numero quindici per il salone evento World Music
Expo, al primo approdo a Copenhagen. Un po’ infreddoliti
dopo tre anni di Siviglia, i 2.700 delegati hanno fatto i
conti con uno spazio più funzionale, il Bella Center, sede
del padiglione con 650 espositori in rappresentanza di 92
paesi e oltre 20 convegni su temi specifici. Una location
più funzionale, secondo voce pressoché concorde di
quasi tutti gli interpellati. Un’ottimizzazione cui la sera il
sontuoso auditorium, a sua volta però lontano dal centro
della capitale danese, ha aggiunto comfort e acustica
inviabile ai live; 57 in tutto, compresi i pomeridiani al Bella,
per quasi 350 artisti.
Un mare di show in cui ciascuno ha lanciato la propria rete
per business, gusto personale e immancabile passaparola
tra i delegati. Detto che il premio ufficiale del Womex era
fuori dalla mischia, essendo la consegna con relativo
showcase già programmata la domenica mattina con gli
eroi diversamente abili dello Staff Benda Bilili sugli scudi,
anche quest’anno la kermesse ha proiettato nel retrogusto
dei partecipanti una rosa di vincitori virtuali. È il caso
dell’esibizione mozzafiato dei Dulsori, nove percussionisti
e performer sudcoreani dalla forza comunicativa fuori
ordinanza; o del combo brasiliano SpokFrevo Orquestra,
elegante nel suono e di sicuro impatto fisico nel suo agile
viaggio tra Carnevale di Salvador de Bahia e Cotton
Club senza passaporto. Ancora, hanno elargito certezze
i Deolinda, il cui fado sorridente e spiritoso vola alto nei
festival europei; e ha mostrato di possedere doti notevoli
anche come chansonnier il senegalese Carlou D, in passato
parte della squadra hip hop Positive Black Soul. Schegge
di rap, quasi in contemporanea (le sale del Copenhagen
Concert Center erano cinque per sera), si sono sentite
anche nel live del canadese Socalled, personalità da
vendere e qualche tentazione dispersiva ancora da far
convergere. Con la Penisola rappresentata dalla solida
Orchestra Popolare Italiana, si sono messe in evidenza
la Colombia dei calorosi Chocquibtown, la piccola isola
Mayotte con le 15 donne Deba, il Burkina Faso dell’esperto
Victor Démé e lo strumento rurale basco txalaparta di cui
gli Oreka TX rinnovano i codici utilizzando anche voci arabe
e mongole. Unica pecca nelle serate di concerti, un Foyer
Stage penalizzante per volumi nei confronti dei set elettro
dance; vittime il macedone Ahilea, il brasiliano Maga Bo e i
tedeschi Analog Africa Soundsystem.
Renato Borghetti (Brasile)
Wimme (Finlandia)
Dove Copenhagen, Danimarca
Quando 27 - 31 Ottobre, 2010
Online www.womex.com
Marku Lepisto (Finlandia)
07 PRIMAVERA 2010
36 ice music
Mondomix.com //3 6 0 °
37
L’Ice Music m i h a i n s e g n a t o a e s s e r e p i c c o l o …
di Luca Vitali
Un festival unico nel suo genere, immerso nella natura più
pura, dove la creatività regna sovrana e la musica si fonde
con scultura, danza e molto altro. È l’IceMusic Festival
di Geilo, località invernale norvegese vicino Lilehammer
(olimpiadi invernali ‘94). Giunto alla quinta edizione va in
scena la prima notte di luna piena dell’anno. «Qui il legame
con la natura è fortissimo - dice Terje Isungset, l’ideatore
- è la natura che decide il tempo, la qualità del ghiaccio,
il suono, la temperatura, se ci sarà vento o pioverà…
un’ottima ragione per collegarlo a un evento naturale così
importante come la luna piena».
Nel 2005 Isungset, affascinato dall’idea di realizzare
un evento del genere, lo propose a più persone e Pål
Medhus di Geilo colse l’attimo: lui si sarebbe occupato
dell’organizzazione e Terje del progetto artistico, poi si
aggiunse Bill Covitz, scultore americano che da anni
lavorava col ghiaccio, e si creò così un sodalizio che
ancora oggi rende unico questo festival.
I preparativi per allestire l’arena, gli strumenti e le sculture
durano giorni. Assistere alla realizzazione degli strumenti
e al sound-check è una vera esperienza. Covitz forgia
instancabile sculture e strumenti in ghiaccio; Terje verifica
la qualità sonora di ogni componente e completa le
percussioni nel suo igloo; Sidsel Vastad, l’arpista, assembla
e accorda le arpe, e un gruppo di volontari provenienti
da tutto il mondo si adopera per allestire la scenografia
sotto la direzione di Pal. Il pubblico, la sera, nonostante
la temperatura (-15/20°C), accorre numeroso (circa 200
persone) e ne esce profondamente toccato.
Che limitazioni comporta il ghiaccio?
Innanzitutto la temperatura, quella di oggi è ottimale,
attorno allo 0°C il ghiaccio suona male, abbiamo suonato
in Svezia a -33°C e la gamma dinamica si amplia molto, va
da frequenze molto alte a molto basse.
Come lo selezioni?
Nell’Icemusic l’uomo è infinitamente piccolo ed è la
natura a decidere. All’apparenza un ghiaccio industriale,
perfettamente trasparente e omogeneo all’occhio, è
perfetto, ma poi non suona. Mi è successo in Giappone
e in Canada: era praticamente morto. C’è qualcosa di
mistico in questo…
C’è un collegamento tra la dimensione dello strumento
e il suono che produce?
Sì, gli spessori sottili producono suoni più bassi.
Hai mai usato quello dei ghiacciai?
Sì, del ghiacciaio Svartisen, a nord della Norvegia. Mi onora
suonare il ghiaccio, frutto della risorsa più importante al
mondo, l’acqua, e poter utilizzare un ghiaccio di 2500 anni
mi onora ancor di più, ma soprattutto mi aiuta a collocarmi
nella giusta dimensione come essere umano nei confronti
della natura, infinitamente piccolo sia nello spazio che nel
tempo.
Quello che a me interessa non è trasformare il ghiaccio
in strumenti musicali esistenti, ma prendere un pezzo di
ghiaccio e ascoltare che suono emette, farlo cantare: si tratta
di un suono già presente nel ghiaccio, non di un suono che
produco io. Non c’è nulla che si possa decidere o prevedere,
bisogna solo essere aperti e disponibili ad accogliere quello
che verrà, essere pronti ad ascoltare il suono.
La forma che hanno i miei strumenti è il frutto di
un’evoluzione di 10 anni di ricerca, ma ogni anno cerco
anche di fare qualcosa di nuovo: l’intento è quello di
migliorare, sempre, sia come musicista che come essere
umano, e l’Ice Music mi ha insegnato moltissimo per tutte
le ragioni esposte, ma soprattutto mi ha insegnato ad
essere piccolo…
Cosa Terje Isungset – Ice Festival
Dove Geilo (Norvegia)
Quando Ice Music Festival #6 19. - 23. January 2011
Terje Isungset in Italia Dal 26.02.2010 al 07.03.2010
all’Ice Festival - Val Senales
Online http://www.icefestival.no/ - http://www.all-ice.no/
07 PRIMAVERA 2010
07 PRIMAVERA 2010
38 san pietroburgo
Mondomix.com //3 6 0 °
39
questa, d’altronde, è l’anima della Russia, timidezza e
intensità, come nei racconti e nel teatro di Checov.
E ancora un’altra serata a dicembre. Infilato il colbacco
in testa, mi sono avviato sul lato destro del canale Moyki
faticando ad ogni passo dentro a quel silenzio bianco,
morbido e talvolta ghiacciato che hanno le strade di
San Pietroburgo in inverno. Fino al numero 40/d dove,
affacciati sul canale, si trovano una serie di bar e locali
che fanno capo al Teatr Estrady. Entrato nel cortile, una
volta salito al primo piano, sono riuscito a superare ogni
difficoltà nel comprendere le indicazioni scritte in cirillico
potendomi orientare semplicemente seguendo, o forse
dovrei dire inseguendo, le note di una canzone che avevo
riconosciuto: Narigon di Daniel Melingo. Uno spazio tutto
bianco con alle pareti enormi specchi che moltiplicavano
i piedi dei ballerini, una sorta di galleria d’arte ospitava
la serata: fuori dal rettangolo pesanti scarponi, segno
dell’attraversata tra la neve, dentro l’eleganza dei tacchi e
delle scarpe da uomo.
Noches de Tango
di Emanuele Enria
Torino
Ho scoperto che anche in Russia si balla il tango durante
una passata edizione del Torino International Tango Festival,
che fra l’altro nel 2010 festeggia i dieci anni di attività, cui
va il grande merito di aver saputo creare l’occasione di
mettere in contatto i migliori maestri di tango esistenti sulla
scena internazionale con un pubblico cosmopolita che qui
ha l’occasione di studiare con loro durante il giorno e di
poterli ammirare nelle esibizioni serali. Ad ogni edizione,
in effetti, la vera attrattiva è sempre rappresentata dagli
ospiti. Ciò che desta la nostra curiosità è sempre il fascino
di chi arriva “da altrove” portando magari sul viso, o
nell’abbigliamento o nell’uso di una lingua o di un accento
qualcosa di diverso dal nostro quotidiano.
L’autentica magia consiste nel primo ballo, quando non
conosci l’altra persona. Prima la guardi, azzardando
una sorta di cabeceo (uno sguardo, un cenno quasi
impercettibile di invito come si usa fare nelle milonghe di
Buenos Aires) ne attendi la risposta e, se la ballerina si alza,
ti avvicini alla pista e l’abbracci guidandola verso la danza.
Finalmente inizia il viaggio. Per quei tre minuti di musica
che un tango ti concede, scopri come si balla in Francia, in
Portogallo, in Turchia, in Spagna, ma anche a Bologna, a
Pesaro o a Palermo. Può nascere un’affinità, un’emozione
ma anche una certa distanza o qualche difficoltà nel ballo.
Un anno arrivarono anche loro, un gruppo di ballerine e
qualche ballerino russo, e non si poté non notarli: le donne
vestivano dei kimono di seta bianca ricamata sopra a
pantaloni un po’ larghi alle caviglie, gli uomini, biondi e
dalla pelle quasi diafana, avevano l’eleganza dei movimenti
che ha il pattinatore Plushenko. Erano belli, bravi, algidi nel
loro abbraccio e con qualcosa di irraggiungibile. Furono le
vere star di quell’edizione.
07 PRIMAVERA 2010
San Pietroburgo
Il 2009 è stato, per chi scrive, la realizzazione del piccolo
sogno, un doppio sogno oserei dire visto che vi sono stato
in estate e poi sul finir dell’anno, di poter andare finalmente
in Russia.
Vedere San Pietroburgo sia in estate che in inverno è stata
una grande fortuna, perché mi ha dato l’opportunità di
viverne le notti bianche, di attraversare la città in battello,
di camminare lungo i suoi canali come avrebbero fatto
certi personaggi di Dostoevskij e di Gogol fra luce, notte
e follia. Di sentirla infine sotto la neve, quando il fiume
Neva diventa ghiacciato, i tetti si fanno bianchi così come
i marciapiedi che quasi un impulso ti invita ad attraversare
comunque. Una città che è, sempre, anche un’atmosfera,
un luogo letterario e di bellezza: “Io t’amo”, scrive Puskin,
“o creazione armoniosa di Pietro, t’amo per le tue severe
forme, pel corso della maestosa Neva e il granito delle
sue riviere, per l’elegante bronzeo ricamo dei tuoi cancelli,
per la trasparente oscurità delle tue notti…Amo del rude
inverno il freddo cielo, delle slitte la corsa lungo il fiume,
delle fanciulle i visi per il gelo più rosei delle rose”.
E così una sera mi sono avventurato alla scoperta del
mondo del tango a San Pietroburgo. Esistono un paio di
siti consultabili attraverso internet in cui sono segnalati
giorno per giorno i locali in cui si balla tango sia a Mosca
che a San Pietroburgo. La mia prima esperienza è stata
un venerdì sera, allo Studiya Casa Latina, (in Sadovaya
28/30). Si tratta di uno splendido bar al primo piano con
finestra ogivale che guarda sui tetti di San Pietroburgo.
La serata è gestita da una ragazza che mescola tanghi
vecchi e nuovi per un pubblico prevalentemente giovane e
bravissimo che si abbandona a tanghi meravigliosi, intensi
nel movimento quanto timidi in quello sguardo che subito
si abbassa se provi a scambiare qualche parola. Anche
Veloce come una milonga, il tango sembra dunque
attraversare le pareti e le stanze del mondo, diventando
ogni volta qualcosa di intimo e personale con il luogo che
lo ospita.
Quello di San Pietroburgo è elegante, morbido, vagabondo.
Viene da chiedersi cosa ne scriverebbe Puskin se oggi
fosse vivo, lui che dei piedini delle donne russe è stato
sommo cantore. Bello immaginare di veder comparire, nel
fumo di un locale, Dostoevskij o qualche personaggio di
Gogol!
In verità, una notte di tango a San Pietroburgo è solo
il sorso finale di una giornata di scoperta fra le bellezze
artistiche di una città davvero unica. A chi volesse visitarla
raccomando di cominciare dalla fortezza dei Santi Pietro
e Paolo, dove Pietro il Grande decise di fondare la città
nel ‘700. Dopo una sosta di qualche ora all’Hermitage, una
bella passeggiata sulla prospettiva Nevskij e una cioccolata
calda al n.28, dentro uno dei primi edifici Liberty della città,
nel quale si trova anche la Casa del Libro. Verso le sette
di sera è doverosa una puntata nel tempio del balletto,
il Teatro Marinskij, per assistere, se si è fortunati, a uno
spettacolo del Kirov terminato il quale si potrà concludere
la serata a ritmo di milonga.
Cosa Festival di Tango di San Pietroburgo
Dove San Pietroburgo (Russia)
Quando 11 – 14 giugno 2010
Cosa Tango Torino Festival
Dove Torino
Quando 29 marzo – 5 aprile, 2010
Online http://festivals.tango.info/
www.marcelaystefano.com/tango2010/index.shtml
www.nuevo.ru/en/milongi/milongi_spb.php
http://tango.msk.ru/en/milongas/
07 PRIMAVERA 2010
40 S t ree t f o o d i e
Mondomix.com
Karakalpakstan?
Mai
sentito
Bello! Ti racconto del plov e dei samsa di Nukus,
in Karakalpakstan.
di Luca Vergano
Quando ho parlato a Luca di The Street Foodie è partito in
quarta. A causa di questo entusiasmo io non riesco a fargli capire
che non ho la più pallida idea di dove sia il Karakalpakstan.
E dire che ho un’incomprensibile e ingiustificata passione per
lʼAsia Centrale. Ma il Karakalpakstan no, zero, mai pervenuto.
Conoscendo Luca, poi, credo che mi stia prendendo per
i fondelli. Il nostro rapporto si basa su pessime figure di
cui ci siamo resi protagonisti presso comuni amici, cene
abbondanti condite da molto vino (è lui che mi ha fatto
provare lʼebbrezza di camminare ubriaco con le stampelle,
qualcosa che vi prego di non provare a casa), la comune
passione per John Coltrane e viaggi interminabili sulla sua
Seicento alla ricerca di oratori salesiani sperduti nel Nord
Est nei quali sentir suonare leggende del blues americano.
In più Luca fa il giornalista, cosa che nella saggezza
popolare lo accusa automaticamente di una attitudine tutta
particolare verso la realtà. Scrive anche libri. Ha scritto Piove
all’insù, che Goffredo Fofi ha definito il romanzo definitivo
sugli anni ʼ70 (ma Luca dice che Andrea Pazienza ha fatto
di meglio). Ha scritto Io sono il mercato per il quale ha
intervistato uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo. Ne
ha scritti altri. E adesso sta lavorando ad un progetto sulle
repubbliche ex-sovietiche. Questo spiega perché sia andato
nel Karakalpakstan. Più precisamente a Nukus. Quello che
non si spiega è perché ne sia così entusiasta.
Nukus è un posto incredibile. C’è un museo di arte
sovietica secondo come importanza solo all’Hermitage e
addirittura più importante se si tratta di arte del diciottesimo
e diciannovesimo secolo.
Davvero? Io sono sempre scettico.
Giuro. Era la casa di un archeologo che ha raccolto tutta
quella collezione di dipinti per cercare di salvarla dalla
distruzione. Quando lui è morto l’hanno reso museo
di stato. E siccome pensavano non fosse abbastanza,
hanno pensato bene di espanderlo e fare delle sezioni di
antropologia e etnologia e chissà cos’altro. Così adesso
ci trovi anche una sfinge egizia che non si sa cosa c’entri,
due canoe di imprecisata provenienza e altra paccottaglia.
E tutti quei quadri magnifici non hanno spazio, per cui
ne vengono esposti sessanta al mese. Mi immagino un
appassionato d’arte di fronte alla prospettiva di mesi di
permanenza a Nukus per poter vedere tutti i quadri.
Prendo appunti ma continuo a guardarlo attentamente,
cercando di trovare un segno dello scherzo enorme, di
quelli da Conte Mascetti.
E comunque a Nukus ho trovato quello che secondo me è
il posto più buono in cui mangiare di tutta l’Asia Centrale.
Come in tutti i paesi in cui il cibo non abbonda, mangiare
in Uzbekistan diventa sempre un po’ il cuore del viaggio.
Soprattutto se hai voglia di infilarti in qualche ristorante
dall’aria inavvicinabile, meglio se pieno di loschi figuri.
Anche questo abbiamo in comune io e Luca. E a Nukus
questo posto è una chaikhana, una sala da té. Ma come in
tutte le sale da the Uzbeke ti servono anche da mangiare.
Trovarla non è semplicissimo. Bisogna andare sul retro del
Museo Statale di Arte della Repubblica del Karakalpakstan,
dove c’è il parco dei divertimenti.
È uno di quei parchi divertimenti tipici sovietici. Colorato
07 PRIMAVERA 2010
architettura squadrata, strade buie e tombini aperti per i
quali rischiavi la vita. Ma aveva un suo fascino. E aveva un
suo fascino anche l’essere guardato da tutti perché nessuno
capiva cosa facessi lì.
E anche Nukus è così. Anche perché è davvero difficile da
raggiungere. Ci vogliono o un’interminabile traversata del
deserto su auto dalla comodità discutibile, o un viaggio in
treno che parte alle 3 del mattino in una stazione nel nulla tra
Bukhara e Samarcanda, oppure, se si ha il coraggio e santi in
paradiso a cui raccomandarsi, con un vecchio Ilyushin a elica
che perde bulloni in volo.
Forse è per questo che in questi posti ti guardano sbalorditi.
Solo per il fatto che tu, straniero, ti sia sobbarcato tutto questo
senza la giustificazione di avere una casa a cui tornare.
Persino nella chaikanà mi guardavano così, anche le volte
che sono tornato.
Scusa, ho chiesto a Luca, ma non c’erano altri posti nei
quali andare a mangiare?
- ma non troppo - e immobile. C’è sempre un omino che
si avvicina se pensa che tu sia interessato e si offre di
metterlo in funzione. Io sono salito sulla ruota. Ero da solo e
devo dire che è una di quelle esperienze da non fare. Come
la tua con le stampelle. Appena la ruota parte, cominci a
chiederti quanto tempo fa sia salito l’ultimo essere umano
e a quando risalga l’ultima manutenzione.
Scusa ma perché ci sei salito? Si vede, no, che non viene
usato spesso? gli dico.
Si ma volevo vedere Nukus dall’alto.
E cosa c’è?
Niente.
Comunque, sul retro del parco c’è una viuzza costeggiata
da alberi storti e proprio di fronte all’ingresso posteriore
del parco c’è un portichetto con un colonnato rosso e due
finestrelle. C’è anche un tavolino stinto e due sedie sulle
quali sembra nessuno si sia mai seduto. Entrando hai la
netta sensazione di rompere i coglioni. Ti sembra di esserti
infilato in casa di questa famiglia con 2 figlie grandi e belle,
truccate che sembra che stiano per uscire - ma sembra
sempre che stiano per uscire - una madre incazzata con
le figlie e il marito che subisce queste tre donne e ti serve
prendendole in giro e cercando di trovare in te un alleato.
Dalla sala intravedi la cucina e i pentoloni. E questo in Asia
Centrale è di solito un buon segno.
La prima volta ho mangiato questo plov buonissimo. Il riso
era morbido, grassissimo, come è normale per un riso cotto
in un brodo fatto col grasso di coda di pecora. La carne
di montone si scioglieva in bocca e il misto di pepe rosso,
aglio, cipolla e aneto.
Credo sia miglior ristorante in Uzbekistan. No, come ho detto
prima, in tutta l’Asia Centrale. Sono tornato qualche giorno
dopo. Poi sono tornato ogni giorno. E la cosa più buona che
abbia mangiato dopo il plov, sono stati i samsa.
Ma prima ti racconto delle altre bellezze di Nukus.
Le altre bellezze di Nukus? Non ci sono.
C’è un panorama fatto da vie dritte, case grigie invase da
tubi del teleriscaldamento residuo dell’epoca sovietica, e
una vegetazione che piano piano - con una certa tristezza sta prendendo possesso di tutto. È una città così brutta che
alla fine diventa bella.
Capisco quello che intende Luca. Anni fa sono capitato a
Vinh, una città nel Vietnam del Nord. Anche lì c’era questa
Si può andare al bazaar, il classico bazaar affollatissimo, in cui
puoi incontrare gente di tutti i tipi. Perché la cosa bella del
Karakalpakstan è che per secoli è stato un luogo di passaggio,
per chi arrivava dal Mar Caspio ed era diretto verso il
Turkestan cinese, per chi andava nella Valle di Ferghana. E poi
tutto il DNA straniero portato lì dalle deportazioni sovietiche.
E il caleidoscopio umano è ancora quello, con visi turchi che
vivono gomito a gomito con fattezze russe o mongole.
Nel bazaar, alle sei di sera è come stare in un presepio
enorme: una serie di casupole illuminate con 40 botteghe
ciascuna. E tra queste ovviamente ci sono decine di
chaikanà, ciascuna specializzata in un piatto: shashlik,
maiale, montone. E ovviamente il tè.
Ma tu sei tornato sempre in quella dietro al Parco.
Massì, perché sono un po’ della scuola che se ti piace un
posto, ci torni. Perché vuoi scoprire come cucinano le altre
cose. E quel plov lasciava intuire un universo da esplorare.
Ma non è solo questione di cibo.
41
da quella volta anche io. Michele Placido mi ha salvato
dall’unico uzbeko che odiava gli italiani.
Questo tassista, appena scoperto che Luca era italiano
aveva cominciato a sputare sul pavimento del proprio
taxi ringhiando italiani tutta mafia (una posizione non
originalissima la sua, a dire il vero).
Sono rimasto veramente spiazzato, di solito basta dire italiano
e diventi fratello di qualunque uzbeko. Ma questo sembrava
davvero incazzato e ho cominciato ad avere un po’ paura. A
quel punto non sapendo più cosa fare ho ammesso che era
vero, “italiani mafia. Ma anche Kommissar Cattani”.
È stata la svolta. Lui ha inchiodato il taxi, si è girato e
stringendomi la mano con la luce negli occhi mi ha detto
“Cattani, pravi chlaviek, un vero uomo”.
Come si può non innamorarsi di un posto così? mi dice
Luca andando via. Voglio tornarci assolutamente.
A me continua a sembrare tutto un gigantesco scherzo di
quelli di Luca. Ma appena lui esce di casa, Wikipedia mi
smentisce. Il Karakalpakstan è una regione dellʼUzbekistan,
il paese dei minareti che quel rocker di Tamerlano fece
costruire impastando malta e teste di nemici.
Wikipedia non ha certo scelto di assumersi il ruolo di Ente
per la Promozione Turistica. Ma alla fine bisogna ammettere
che è vero. Il Karakalpakstan esiste e Nukus ne è la capitale.
Giornalismo dʼindagine batte cinismo popolare 1-0.
Cosa The Street Foodie è un progetto di Luca Vergano e
Cristina Amodeo. Luca scrive e Cristina illustra.
Online www.thestreetfoodie.com
Chi Luca Rastello oltre ad essere il nostro direttore scrive
articoli e libri.
Online www.ibs.it/libri/Rastello +Luca/libri.html
Dove Se volete provare il plov o i samsa cercate la Chaikanà
sul retro del parco dei divertimenti di Nukus.
La birra?
Beh, certo anche la birra. La Sarbast. Ma anche la vodka
va bene. Scherzi a parte, oltre al plov ho mangiato questo
buonissimo ljuli kebab (carne trita fritta e impastellata morbida
e leggera), i pelmeni (specie di gnocchi), le zuppe. E i samsa.
Una specie di gnocco fritto ripieno di carne di montone o
formaggio. Straordinari. Però conta anche la gente che
incontri, quante storie trasudano i tavoli, quelle cose lì.
E questo posto è uno di quei posti i cui gli avventori
sono seduti lì da così tanto tempo da essere parte
dell’arredamento, con i quali finisci per metterti a parlare, di
fronte a una vodka. O più vodke. Sì, ma parlare di cosa?
Ci sono tre cose che bisogna sapere nell’ex Unione
Sovietica per poter parlare con la gente - dice Luca - e sono
Del Piero, Adriano Celentano e il Commissario Cattani.
Per chi non ricordasse, il Commissario Cattani era il
personaggio interpretato da Michele Placido ne La Piovra.
Dopo il grande successo di pubblico e critica in Italia
(anche recentemente il nostro premier ne ha sottolineato
l’importanza), la serie è arrivata in Russia attraverso le
Repubbliche Baltiche e in vent’anni ha conquistato tutti.
Ma il successo di Michele Placido non si è fermato lì: ha
poi interpretato un tenente dell’Armata Rossa in un epico
kolossal sulla “liberazione” dell’Afghanistan, prodotto in
Russia con relativo successo internazionale.
Tutti sono pazzi per Michele Placido - conferma Luca - e
07 PRIMAVERA 2010
42 Recensioni
Mondomix.com// rec e n s i o n i
asia
africa
43
Zarbang
Call to Love
musiques et cultures dans le monde
Hermes Records / Egea
Zarbang è un ensemble di percussioni
nato nel 1996 da solisti iraniani che
vivono tra Europa e USA. Dopo alcuni anni, l’ensemble
oggi comprende Behnam Samani, Hakim Ludin, Pejman
Hadadi, Reza Samani, Javid Afsari Rad e Morshed
Mehregan. Dal vivo essi propongono anche uno spettacolo
con la danzatrice Banafsheh Sayyad e la sua compagnia
di danza Namah. Il merito di Zarbang è quello di fondere
tra loro le percussioni tipiche della tradizione persianoiraniana - come il tamburo a calice detto zarb oppure
tombak o il tamburo a cornice daf - con altre percussioni
e con altri stili tipici di altre culture musicali. Call to Love
è impreziosito dalla cetra su tavola santur suonata da
Javid Afsari Rad ma soprattutto dalla presenza del cantore
(morshed) Mehregan che con il suo intenso apporto rinvia
all’antichissimo repertorio delle zurkhane (“casa della
forza”), sorta di ginnasi maschili dove si praticano arti
marziali tradizionali mentre il cantore (morshed) intona
antichi poemi epici di lingua persiana accompagnandosi su
di uno zarb dalla taglia particolare detto zarb-e zurkhane.
Giovanni De Zorzi
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Saeid Shanbehzadeh
Iran:
Musiques du Golfe Persique
Buda Records / Felmay
Della tradizione iraniana conosciamo soprattutto Il
radif canto poetico persiano recentemente inserito
nel patrimonio immateriale dell’umanità protetto
dall’UNESCO o l’arte sottile della percussione tombak
(o zarb) magistralmente rappresentata in Francia dalla
famiglia Chemirani. Originario del Boushehr, Saeid
Shanbehzadeh è per contro uno dei rari rappresentanti
delle tradizioni popolari del Golfo Persico e il solo
ad essersi stabilito in Europa. Musiche di festa e di
guarigione, danze o canti d’amore questo volume
propone una vasta gamma di incantesimi sonori
provenienti da questa parte del mondo. Shanbehzadeh
è un virtuoso di strumenti a fiato, il flauto doppio
(neydjofti) e soprattutto la cornamusa (ney-e-anbân)
dalle sonorità ipnotiche e dal forte potere evocativo.
La trasmissione di un patrimonio in via di estinzione
sembra assicurata dal momento che suo figlio Naghib,
a soli 16 anni, è già un ottimo percussionista.
Benjamin MiNiMuM
07 PRIMAVERA 2010
MIX
MON DO ma
Mi a
AAVV
Nigeria Special: Volume 2
Nigeria Afrobeat Special
Soundway / Family Affair
Ballakè Sissoko &
Vincent Segal
Chamber Music
Ponderosa / Universal
musiques et cultures dans le monde
AAVV
MIX
MON DO ma
Mi a
Corée: musique du pays
du matin clair
BudaMusique / Felmay
Tra le culture musicali dell’Asia orientale, quella della
Corea è certamente la meno documentata su disco.
Questo doppio cd, corredato di un libretto ricco di
informazioni e foto, merita dunque grande attenzione,
sia per la vastità dei generi presentati - della corte
e folklorici, strumentali e vocali - che per i prestigiosi
interpreti coinvolti, ovvero i musicisti del Kungnip
kugagwŏn (National Center for Korean Traditional
Performing Arts), istituto che da oltre mezzo secolo è
motore istituzionale della vita musicale tradizionale. La
varietà estetica della musica coreana e la sua evidente
autonomia rispetto a quella cinese e giapponese
apriranno, all’ascoltatore attento, un mondo sonoro
inaspettato e seducente.
Daniele Sestili
Le Trio Joubran
avec Mahmoud Darwich
A l’ombre des mots (cd + dvd)
World Village / Ducale
Tre oud che seguono le intonazioni della voce e avvolgono
il suo respiro. Nel settembre 2008, un mese dopo la
scomparsa dell’immenso poeta palestinese Mahmoud
Darwich, il Trio Joubran propone una trasposizione musicale
delle sue poesie davanti alla platea di Ramallah. Interludi e
dialoghi a sostegno dei versi registrati dalla voce del poeta.
Le corde si fondono alla parola per donarle corpo.
Darwich cessa di essere simbolo per divenire spirito,
resurrezione, incarnazione di questa terra, la Palestina,
nella forma bruna delle sue battaglie e del suo destino
legato ad un filo così simile a quello del protagonista che
si compie nell’opera Le Joueur de Dé (il giocatore di dadi).
Quando gli strumenti cominciano a suonare la parola
diviene musica e l’arte diventa un omaggio prezioso.
Anne-Laure Lemancel
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Ore passate a suonare insieme, anni di tentativi
per trovare il giusto equilibrio, nessuna urgenza di
documentare le loro fatiche. Sissoko (kora) e Segal
(violoncello) hanno trovato la ricetta (non nuova, certo,
però efficace) per ottenere ottima musica. “Se ti piace
fare qualcosa, falla, senza preoccuparti di come andrà
a finire” sembrano dirci, secondo un’etica e una morale
che stride fortemente con la mercificazione onnivora
del presente. Uno stato delle cose reso ancora più
triste dall’inarrestabile dissolvimento dell’industria
discografica. Chamber Music testimonia come Sissoko
si stia rivelando artista totale, capace di fantasticare e
progettare, non solo di assolvere, benissimo, al ruolo
di performer. In questo senso il sorpasso ai danni di
Toumani Diabaté pare un dato di fatto. Ballaké ha
immaginato e adesso sperimentato una nuova forma
di tradizione, che non si limita a interagire in modo
asettico con gli strumenti occidentali. Segal è in questo
senso il compagno ideale, colto e aperto, disponibile
a reinventare anche sul piano della tecnica la storia
del cello. Teso e non facile di primo acchito, Chamber
Music, scrive un capitolo innovativo delle vicende della
world music.
Piercarlo Poggio
Tamikrest
Adagh
Glitterhouse / Venus
Dopo l’exploit dei Tinariwen e
l’affermazione dei Toumast, la saga del
blues Tuareg del Sahara prosegue con questa formazione
al debutto discografico. Il leader si chiama Ousmane Agg
Moussa, è cresciuto nella parte nord dell’alveo Tamashek,
al confine con l’Algeria. La sua scrittura guida un percorso
elettrico, messo a punto a Bamako con l’ex Walkabouts
Chris Eckman, ora Dirtmusic. La grana del suono è pregiata,
la vocalità Tuareg si sposa a strutture essenzialmente rock
blues. Nel programma di undici titoli scorrono sia canzoni
dirette, come Outamachek o Amidinin, che raffinate ballate
oscure, guidate dal gioiello Aratane N’Adagh, in cui la
carenza d’istruzione supera quella d’acqua nel rendere
infelici i bambini. Citazione di merito anche per il polveroso
reggae d’amore Tahoult.
Paolo Ferrari
Un poco di filologia, perché i due cd
non sono così complementari come
parrebbe. Nigeria Special: Volume
2 (Modern Highlife, Afro Sounds &
Nigerian Blues 1970-76) è appunto la
continuazione di una doppia raccolta,
dedicata ai generi citati dal sottotitolo,
uscita nel 2008 per la Soundway (nel catalogo
dell’etichetta inglese trovate anche Nigeria Disco
Funk Special e Nigeria Rock Special). Nigeria Afrobeat
Special (The New Explosive Sound In 1970’s Nigeria) è
compilation a sé, e non può che aprirsi con una traccia
del signor Afrobeat in persona, Fela Ransome Kuti (&
Africa 70), Who’re You?, un 45 giri del 1971. A seguire
dieci brani interpretati da altrettante formazioni rivali
(Orlando Julius, Eric Akaeze, Bongos Ikwue, Segun
Bucknor…), apprezzate non solo dagli africanisti, ma
mai in grado di superare l’uomo solo al comando. Se
Nigeria Special vive di mid tempo e morbide colorazioni
bluesy, Nigeria Afrobeat pulsa teso e spigoloso. Entrambi
i cd riprendono incisioni dimenticate, ma il valore
documentario passa in secondo piano se paragonato
all’inarrestabile profluvio di suoni che raccontano della
Nigeria assai più di qualunque trattato.
Piercarlo Poggio
Angélique Kidjo
Oÿö
Naïve/Self
Chiunque delle musiche del Continente
Nero abbia anche la più basica delle
conoscenze sa che è da un meticciato spinto, dalla
rielaborazione costante delle tradizioni che ricavano gran
parte della loro forza espressiva. Da trent’anni parigina,
ossia dacché lasciò appena maggiorenne il Benin, e
da diciannove una stella del pop mondiale in forza per
cominciare di un album come Logozo spiccatamente
danzerino, la Kidjo in nessun modo può più essere
costretta nel recinto della world. Qualcuno dovrà infine
farsene una ragione. Ciò premesso, Oÿö esagera in
eclettismo e per certo non è una delle sue prove migliori.
A farlo funzionare meglio sarebbe forse bastata una
diversa organizzazione della scaletta, con da una parte
le numerose cover d’ascendenza occidentale o al più
afroamericana (Santana, Curtis Mayfield, James Brown,
Otis Redding, Aretha Franklin, Sydney Bechet) e a seguirle
o precederle i brani nei quali la signora pare rivendicare
l’eredità di Miriam Makeba.
Eddy Cilìa
07 PRIMAVERA 2010
44 B
africa
africa
Mondomix.com
Da aprile in CD e in Digitale
nei migliori negozi fisici e digitali
europa
Europa
Diez
Eliseo Parra
AAVV
Mirmidón / Egea
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
RODRIGO LEÃO - A MÃE
“L’ex Madredeus convoca ospiti di prestigio per un lavoro ispirato e suggestivo
(...) Dolcissime melodie che riportano alla
luce nostalgie ataviche e sospiri grandi
come il mondo (4 stelle)” ( JAM)
“Leao sfrutta al meglio le malinconie della
sua terra (...) Una sorta di via portoghese
al postminimalismo (7/10)” (BLOW UP)
“Considerato in patria una delle massime
figure della musica portoghese, mette
mano a un’opera ambiziosa e ricca di
intuizioni, che punta a conquistarsi con il
tempo lo status di classico”
(ROCKERILLA)
DAKOTA DAYS
Progetto a respiro Europeo, Dakota Days
è un duo formato da Ronald Lippok (To
Rococo Rot, Tarwater, Ludovico Einaudi)
e il compositore Alberto Fabris
Un incontro che sfocia in un album dal
sound spontaneo, intimo, che spazia dal
prog rock al post punk, dalla psichedelia
alla new wave.
Live:
30/03 Brescia @ Lio Bar - 31/03 Roma @ Init
- 01/04 Milano @ Palazzo Granaio - 02/04
Genova @ Muddy Waters - 03/04 Ancona
@ La Cupa - 04/04 Modena @ Vibra
DOMINIC MILLER - NOVEMBER
Dominic Miller è uno dei più raffinati chitarristi al mondo (New York Times, USA)
Il suo tocco è sorprendente (LA Times,
USA)
Ispirazione per chi ama la musica (Guitar
Acoustic Classic, France)
DEZ MONA - HILFE KOMMT
“Da Anversa, Belgio, Dez Mona, tagliato
come un diamante, scalfisce tutti i corpi
senza mai ossidarsi” (Telerama, France)
“I Dez Mona conservano scrupolosamente l’effetto drammatico di una musica sospesa tra il gospel, il jazz e il blues. (Brussels Agenda, Belgium)
“Un album misterioso, ricco di emozioni
luminose” (Accroches, Belgium)
“Della tensione, della bellezza” (Telemoustique, Belgium)
www.ponderosa.it07- PRIMAVERA
Ponderosa Music
& Art - Piazza S. Maria Delle Grazie, 1 - 20123 MILANO
2010
Éthiopiques 24
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Éthiopiques 25
BudaMusique / Felmay
BudaMusique / Felmay
Prosegue senza sosta da parte dell’archeologo Francis
Falceto il dissotterramento del tesoro etiopico che, al
contrario del petrolio, pare ancora ben lungi dall’essere
prossimo all’esaurimento. Nei due nuovi capitoli si
torna a pescare nel catalogo della Amha Records,
creata nel 1969 e mantenuta in vita per una decina di
anni da un giovane pieno di iniziativa, Amha Eshèté,
bravo soprattutto a raggirare la censura e il monopolio
imposti per decreto imperiale. Il volume 24 presenta
brani incisi tra il 1970 e il 1975. Vi compare anche un
nome di gran moda ai nostri giorni, Mulatu Astatqé,
colto di passaggio a Londra in un paio di tracce di
sapore calypso in compagnia di Frank Holder & Niaaza
Alsherif. L’apertura è affidata al prodigioso cantante
Sèyfou Yohannes, scomparso a trent’anni e di cui si
conservano poco più di un pugno di solchi. Tra gli altri
nomi già incontrati nella serie abbiamo Ayaléw Mèsfin e
Gétatchèw Kassa, mentre si possono scoprire Menelik
Wèsnatchèw, Seyoum Gèbrèyès e Tamrat Molla. La
curiosità è rappresentata dai keniani The Ashantis, al
principio dei Settanta di stanza ad Addis Abeba.
Il numero 25 fruga invece tra le pieghe della
tradizione, non in quanto tale, bensì considerata
alla luce delle modificazioni ingenerate dalla spinta
modernista dei primi Settanta. Ne deriva un’antologia
comprensibilmente sbilanciata verso l’acustico, in
cui una parata di straordinarie voci soliste (Tlahoun
Gèssèssè, Alèmayèhu Eshèté, Sèyfou Yohannes,
Essatu Tèssèmma, Fréw Haylou, Abbèbè Tèssèmma,
Haylé Wèrqu) sono contrappuntate o sottolineate da
strumenti acustici locali (washint, krar, messenqo)
oppure occidentali (mandolino, fisarmonica, pianoforte).
Effetti speciali garantiti.
Piercarlo Poggio
Tendachent
Arnèis
Ethnosuoni / IRD
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Dopo una significativa pausa
discografica, finalmente esce sul mercato il 4° lavoro del
gruppo Piemontese; molta acqua è passata da La valle
dei saraceni del 2005 e molte le traversie occorse, non
ultima la tragica dipartita del bassista Gerardo Savone,
che ha segnato non solo l’animo della band ma anche
le scelte della nuova produzione, volte a un deciso
abbandono delle sonorità elettriche in favore dell’estetica
acustica. Maurizio Martinotti tiene con forza le redini del
carro sonoro del gruppo, d’altronde la forte esperienza
e tecnica raggiunta in qualità di grande musicista,
compositore del revival folk piemontese, è data fin dai
tempi della storica band della Ciapa Rusa.
Arnèis non sono solo gli attrezzi del lavoro manuale
contadino o lo splendido vino della zona del Roero in
Piemonte, in verità diventano la doppia oggettività come
pretesto sonoro di questo nuovo disco acustico e dove
si trovano tutti gli aspetti positivi di chi ha fatto tesoro
della propria storia. Arnèis è un costruito panorama di
brani, dove ai testi tradizionali si uniscono nuove strutture
melodiche sugli stilemi tradizionali, al contempo e con
medesima vena creatrice si ascoltano brani, strumentali
e non, di autonoma e nuova composizione dai profondi
profumi tradizionali. Nuova linfa creatrice esce dal vitigno
del Tendachent, che può ed è linea imprescindibile oltre
che faro per quanti devono osservare nel percorrere
gli odierni filari dei vigneti antichi e credetemi questa
vendemmia di profumato e armonioso Arnèis ne è una
prova trionfante.
Giancarlo Nostrini
La canzone tradizionale delle varie
regioni della penisola iberica – fatta
eccezione per il flamenco – è rimasta a
lungo relegata a un ruolo di secondo piano. Il grande merito
di Eliseo Parra, classe 1949, consiste nell’aver tentato e con
un discreto successo di andare controcorrente recuperando
e aggiornando brani e sonorità di una e dell’altra regione.
Stoicamente a partire dagli anni ’80 ha studiato il folklore
ispanico delle due Castiglie, dell’Andalusia, della Catalogna,
di Euskadi o dell’Aragona contaminandolo nella decade
successiva con elementi jazz, rock e perfino caraibici.
Finalmente nel 1998, con la pubblicazione di Tribus
Hispanicas, gli sforzi compiuti in vent’anni di lavoro danno i
suoi frutti tanto che il successo lo coglie quasi di sorpresa.
Diez - in versione sia cd che dvd – è una raccolta con le
più riuscite testimonianze di questo trentennale percorso.
Registrato dal vivo in compagnia di un vero e proprio esercito
di musicisti nel disco troviamo 18 brani tra loro diversissimi
per origine geografica e stile musicale e, anche quando si
tratta di canzoni scritte dallo stesso Eliseo, sembra escano
direttamente dal repertorio popolare.
David Valderrama
Cirkari
Zingaros
ARC Music / Evolution Music Europe
Se siete tra quelli che di Goran Bregović
non ne possono più pur apprezzando
la musica Balcanica, allora il nuovo disco degli Zingaros
dovrebbe fare per voi. Non aspettatevi però un gruppo di
rom di Sofia o una banda di musicisti squattrinati sbucati
dalla periferia di Belgrado perché sbagliereste decisamente
strada. I tre zingaros in questione arrivano nientemeno che da
Cordoba - Argentina - e dei gitani, a parte la musica, hanno
poco o nulla. L’album è apprezzabile grazie soprattutto alle
decise e piacevoli influenze tango e jazz ma la strada tra la
Pampa e le terra dei romanes è ancora lunga.
David Valderrama
Rachid Taha
Boban I Marko Markovic
Balkanbeats
Devla
A night in Berlin
Wrasse / Evolution Music Europe
Indigo/ Piranha / Evolution Music Europe
Piranha / Evolution Music Europe
Bonjour
Dici un nome per identificare il raï ed è
Khaled. Per il numero due se la battono
da tempo immemore Cheb Mami e Rachid Taha, o forse no.
Nel senso che al secondo – che d’altro canto si affacciava
alla ribalta trenta buoni anni fa alla testa di quei Clash
franco-algerini chiamati Carte de Séjour – il raï è sempre
andato stretto, l’etichetta world non gli è mai garbata
granché e insomma lui nel cuore si sente un rocker. Al limite
un po’ indeciso se essere il Joe Strummer di Orano oppure
il Johnny Cash. Passati i cinquanta, però, pure il vecchio
ribelle un po’ si è ammorbidito. Stabilisce il tono del lavoro
di gran lunga più soffice e romantico che abbia pubblicato
a oggi una traccia iniziale programmaticamente intitolata
Je t’aime mon amour. Più che con il rock’n’roll, il pop
maghrebino a questo giro si confonde con il downtempo
(con esiti spettacolari in It’s An Arabian Song) e con una
chanson post-Négresses Vertes.
Eddy Cilìa
Una delle più popolari orchestre gitane
di Serbia. Una tromba che suona
ininterrottamente da diverse generazioni e che ha fatto dei
suoi ultimi due rappresentanti Boban e Marko Markovic,
padre e figlio, un vero e proprio baluardo della musica serba
nel mondo. Attivo con la sua orchestra da quasi vent’anni,
Boban ha prodotto un’infinità di dischi a suo nome e ha
all’attivo collaborazioni e partecipazioni musicali sia locali
che internazionali. Ha collezionato premi e riconoscimenti,
ha recitato in un film (il pifferaio magico di Hutzovina) e
continua a produrre musica con una vivacità sorprendente.
Accompagnato dal figlio Marko, ormai veterano della
tromba nonostante la giovane età (ha iniziato a suonarla che
era ancora bambino), Boban ci dà con Devla un’ulteriore
prova del suo leggendario virtuosismo musicale meritando
a pieni voti l’appellativo di re della fanfara gitana, come
viene affettuosamente considerato in patria.
Elisabetta Sermenghi
Quarto spumeggiante episodio della
serie Balkanbeats. Come recita il
sottotitolo, si tratta di battiti berlinesi, ovvero di una tipica
scaletta da discoteca, in quel di Berlino, dove sotto l’egida
del dj Robert Soko le notti si movimentano a ritmo di fanfara
balcanica. Anche qui troviamo, in ordine sparso, alcuni dei
protagonisti delle altre fortunate raccolte che vanno sotto
il nome di balkanbeats. Dallo ska balcanico di Magnifico
all’hip-hop di Rotfront, dalle trombe suonate a velocità
supersonica di Boban i Marko Markovic alla dance dei Kal,
da Shantel con l’Amesterdam Klezmer band alle Fanfare
Ciocarlia tanto per citarne alcuni. Per quanti sono convinti
che le risorse della musica balcanica possano essersi
esaurite dopo le abboffate bregoviciane e il proliferare di
gruppi lanciatisi nel settore, questo disco dimostra che così
non è. Divertente, coinvolgente e soprattutto mai uguale…
una musica che non invecchia!
Elisabetta Sermenghi
07 PRIMAVERA 2010
46 europa
Mondomix.com// rec e n s i o n i
americhe
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47
Ana Alcaide
Ana Alcaide en concierto:
Sinagoga del Transito de Toledo
Lubicán Records / Egea
Rodrigo Leão
A Mãe
Ponderosa /Universal
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Nuovo capitolo nell’interessante
carriera solista di Rodrigo Leao
insieme al suo Cinema Ensemble.
Il compositore portoghese è attivo sin dai primi anni
ottanta, prima come bassista della Sétima Legiao, poi
confluita nei Madredeus con i quali invece suonava
le tastiere e componeva la maggior parte dei brani.
Risalgono al 1993 i suoi primi progetti solisti che hanno
visto sfilare nel corso degli anni ben otto dischi e fior di
collaborazioni internazionali. Da Teresa Salgueiro a Beth
Gibbons (Portishead) da Ruichi Sakamoto a Carolina
Ana senza tralasciare tutto un mondo di altre voci
meravigliose magari poco conosciute al nostro mercato
discografico. E A Mae non è certamente da meno.
Qui troviamo ancora una volta brani di fado, tanghi e
atmosfere suggestive dal sapore cinematografico con il
contributo di artisti come Stuart A. Staples (Tindersticks)
e di Daniel Melingo, il grande ambasciatore del nuovo
tango. Nel 2004 Leao aveva prodotto il meraviglioso
Cinema che altri non era che una colonna sonora
immaginaria. La magia si ripete in questo disco di
musica da vedere, o meglio ancora, per visioni da
immaginare.
Elisabetta Sermenghi
Juan Lorenzo
Flamenco de concierto
Felmay / Egea
A partire dagli anni ’30 del ‘900 il
flamenco, da semplice genere musicale
a carattere popolare, subì una evoluzione straordinaria che
lo condusse al rango di musica oggetto di studio, ricerca
e innovazione. Frutto di questa straordinaria evoluzione
fu la costituzione nel 1958, nella città Andalusa di Jerez
de la Frontera, della prima cattedra di flamencoligia.
Cinquant’anni dopo anche il nostro Paese può annoverare
numerose scuole e cattedre nei conservatori dedicate allo
studio e la ricerca del flamenco. Tra i promotori di questa il
chitarrista Juan Lorenzo ha il doppio merito di aver portato
la guitarra flamenca e nel conservatorio di Terni e nelle
sale di concerto di tutta Italia. Qui lo ritroviamo in un disco
interamente dedicato a un suo sottogenere: il flamenco de
concierto. Si tratta di una sorta di tributo ai grandi maestri
del passato, primo fra tutti Ramon Montoya, il primo ad
aver portato la chitarra flamenca sullo stesso piano del
canto e della danza fino a proporre negli anni trenta i primi
concerti di sola chitarra. I dieci brani che compongono
il disco sono un ventaglio perfetto delle tante forme che
contraddistinguono il flamenco: dalla più solenne soleà,
alla più ritmica buleria fino alla più contaminata guajira di
origine sudamericana.
David Valderrama
07 PRIMAVERA 2010
L’eclettismo artistico di Ana Alcaide
non ha paragoni. Lungi dal produrre
una musica frutto di combinazioni
più o meno azzeccate ma per nulla
ricercate, si è al contrario immersa negli studi più svariati
– dalla canzone sefardita, alla musicalità della Nyckelharpa
svedese alle melodie del maghreb fino alla poesia turca –
e la cosa più sorprendente è che i risultati ottenuti sono
tutti eccellenti. In questo concerto filmato nell’atmosfera
medioevale della maestosa Sinagoga del transito di Toledo
la troviamo in compagnia di un pool di artisti da brivido
come Carlos Beceiro, Jaime Muñoz e Bill Cooley. I dodici
brani qui proposti sono tratti dai suoi precedenti album
Viola de Teclas e Como la luna y el sol e affondano le proprie
radici nella cultura ebraico-sefardita sviluppatasi in Spagna
durante millecinquecento anni fino alla loro cacciata voluta
dai re Ferdinando e Isabella nel 1492.
Come la luna e il sole che sempre si inseguono e mai
si incontrano così Ana vede i sefarditi che sognano con
il ritorno nella patria perduta e contemporaneamente
si mantengono lontani da una terra che li ha ripudiati. In
questo DVD il ladino, l’antico castigliano perpetuatosi nelle
comunità sefardite dell’esilio, riacquista vitalità e slancio
grazie alla candida voce della sua sensibile interprete.
David Valderrama
AAVV
Fiestamania! Golden Brass
Summit
Network / Evolution Music Europe
Centinaia di migliaia di persone
accorrono ogni anno alla più grande
festa dei Balcani. Settanta telecamere
e la regia di Ilija Stankovic hanno
catturato il sapore di questo evento unico nel suo genere.
Ottantasei minuti di filmati che mostrano questa grande
festa in tutta la sua splendida vitalità. Oltre 400 strumenti
a fiato e tante bande in gara per la tromba d’oro (Golden
Trumpet). Le performance si susseguono alternate da
immagini di danza e di festa con un repertorio che va dai
classici popolari della tradizione rom ed ebraica a epiche
reinterpretazioni di standard jazz. Fanfare travolgenti,
ragazze che si cimentano nella bellydance, birra, zatteroni,
tacchi a spillo e piedi nudi che si mescolano in un’unica
danza travolgente. Una festa infinita che infiamma la folla
oceanica. Splendido il montaggio dei quattro documentari
contenuti nel dvd che insegue i musicisti in ogni momento
della giornata, regalandoci immagini delle loro scorribande
fra la gente, mostrandoceli durante il concerto sul palco e
anche quando ormai esausti si sdraiano vicino al proprio
strumento prima di abbandonarsi a un sonno ristoratore.
Per noi che non abbiamo potuto partecipare a questo
evento è una grande consolazione e magari anche lo
stimolo per cercare di partecipare alla prossima edizione!
Elisabetta Sermenghi
OGNI MESE
IN EDICOLA
musiques et cultures dans le monde
Maria Bethânia
MIX
MON DO ma
Mi a
Tua/Encanteria
Biscoito Fino / Family Affair
A sessantatre anni - quattro meno
del fratello Caetano Veloso: somiglianza di lineamenti
fattasi sempre più marcata con il tempo, tant’è che
oggi li si direbbe gemelli – la grande signora della
MPB può permettersi non solo di rifiutare qualunque
compromesso (non accadeva negli ’80 e qualche suo
disco ne risultò sciupato) ma di dettare lei le regole del
gioco. Può ad esempio imporre (e non è nemmeno la
prima volta: c’è un precedente del 2006) l’uscita non
di un doppio album bensì di due lavori ben distinti,
pubblicati però in contemporanea. Il fan costretto al
duplice esborso potrebbe non gradire, ma artisticamente
l’operazione è inattaccabile per quanto risultano diversi
Tua e Encanteria: il primo una collezione di ballate
crespuscolari costruite su piano, chitarra acustica,
una voce di espressività formidabile; il secondo una
collezione festosa di samba. Argomento di quest’ultimo
il rapporto con il sacro, di quell’altro l’amore. Sono dischi
pregiati nel loro ambito: l’acquisto dipende naturalmente
da quanti altri album di pop brasiliano, e nello specifico
della Bethânia, avete in casa.
Eddy Cilìa
Jack Rose
Luck In The Valley
Thrill Jockey/Self
Che tristezza parlare al passato di
Jack Rose quando fino a pochi mesi
fa del non ancora quarantenne chitarrista si scrivevano
panegirici in cui senza più remore – cancellate da una
sequela di album uno più convincente dell’altro – lo
si raccontava come un John Fahey per il XXI secolo.
L’infarto che ce lo ha strappato il 4 dicembre è giunto tanto
improvviso, con questo disco pronto per la pubblicazione,
che una casa discografica colta di sorpresa come tutti
noi ha proceduto a stamparlo senza notare un macabro
dettaglio: che nell’interno di copertina figura un contatto
per l’organizzazione di concerti. Per essere il congedo che
nessuno poteva immaginare che fosse, Luck In The Valley
è un gran bell’addio. Non più in solitario come nelle prime
prove post-Pelt ma fiancheggiato da sodali squisitamente
complici, Rose tesse arazzi sublimi nei quali il rag è
parente stretto del raga e fra blues e bluegrass non corre
che qualche lettera di differenza.
Eddy Cilìa
Avanguardia, Blues, Country, Etno, Exotica, Folk,
Free, Funk, Glitch, Hip Hop, House,
Improvvisata, Indie Rock, Industrial, Jazz,
Lounge, New Wave, Pop, Post Rock,
Progressive, Psichedelia, Rhythm’n’Blues,
Rock’n’Roll, Soul, Sperimentale, Techno...
www.blowupmagazine.com
07 PRIMAVERA 2010
48 americhe
Mondomix.com// rec e n s i o n i
Bebo Valdés
Mercedes Sosa
Son / Egea
Sony Music
Greatest Hits
Lhasa
lhasa
Warner
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Terzo ed ultimo lavoro della minuta
cantante trentasettenne, canadese
d’adozione, scomparsa il primo gennaio di quest’anno
dopo quasi due anni di lotta contro il tumore. Si tratta
di un disco particolarmente intimista, un vero e proprio
testamento poetico di cui forse solo oggi, che se ne è
andata, ci possiamo rendere conto. Dietro di sé questo
ultimo sforzo che ha semplicemente voluto intitolare
col suo nome, Lhasa, quasi una sintetica definizione a
testimoniare il suo breve passaggio sulla terra. A differenza
dei lavori precedenti, in cui cantava nelle sue due lingue
madri (spagnolo e inglese) e nella sua lingua d’adozione
(francese) e nei quali la musica aveva arrangiamenti più
elaborati, qui troviamo atmosfere rarefatte e musicalità
minimali ad accompagnare le sue bellissime poesie (in
inglese), che nonostante la venatura malinconica recano
un messaggio di grande forza. .ׂ . l’amore è arrivato qui e
dovrò amarti per sempre anche se i nostri giorni di vita
assieme sono finiti» recita love came here. Una forza
che neppure la morte può riuscire a cancellare. Parlando
dei suoi primi concerti, quando si esibiva nelle birrerie
di Montreal, un’esperienza che fra l’altro aveva amato
moltissimo, raccontò che riuscire a farsi ascoltare anche
da chi era impegnato a bere in compagnia degli amici era
stato per lei una specie una sfida e aveva impegnato tutta
se stessa per far sentire la sua voce e arrivare al cuore delle
persone. Mi pare che ci sia riuscita. Buon viaggio Lhasa.
Elisabetta Sermenghi
Anche
compositore
e
direttore
d’orchestra,
l’oggi
novantunenne
pianista cubano esule al 1960 viene fotografato da
questa raccolta nel suo periodo di massimo splendore, a
cavallo della rivoluzione. Venticinque tracce in cui il tocco
inconfondibile di son, rumba e bolero si avvicenda alle
esplicite Music Box Mambo, Mississippi Mambo, Big Shot
Cha Cha Cha. Con le radici ben salde nel classico Siboney,
il tocco di Valdés è cosmopolita, come si conviene a
un uomo di mondo che seduce con il suo pianoforte e
con arrangiamenti orchestrali da Cotton Club. Regale il
parterre degli ospiti, guidato dal Cachaito López e dal El
Tojo Jiménez; cantano Celeste Mendoza, Pacho Alonso,
Rolando Laserie e Pio Leyva. Esaustive le note biografiche,
meno quelle discografiche.
Paolo Ferrari
Eric Bibb
Booker’s Guitar
Telarc / Egea
Figlio (il padre Leon un apprezzato
folksinger) e nipote (lo zio John pianista
nel Modern Jazz Quartet) d’arte, Eric Bibb non ha mai
dimenticato il consiglio che un amico di famiglia – tal
Bob Dylan – gli diede quando era un ragazzino: “Suona
semplice”. Chitarrista superbo, il nostro uomo è una volta
di più (una ventina gli album al suo attivo) bravissimo a
spostare l’attenzione dalla tecnica al pathos interpretativo
in tredici composizioni originali ispirate da un incontro a
Londra con un anziano fan che gli portò da suonare uno
strumento appartenuto a Bukka White. Due stupende letture
del tradizionale Wayfaring Stranger (una resa decisamente
cupa) e di Nobody’s Fault But Mine di Blind Willie Johnson
completano il programma di una collezione di blues acustico
con pochi pari nella discografia degli ultimi anni.
Eddy Cilìa
Lila Downs y La Misteriosa
En Paris - Live à FIP
Omara Portuondo
Greatest Hits
Son / Egea
Trent’anni di carriera, dal 1967 al 1997,
in venti tracce piene di emozioni e di
personalità. Mai divina, sempre stella coni piedi per terra,
la superba cantante cubana non risparmia in questo menù
di carne e fiori alcuni dei cavalli di battaglia del repertorio
con cui tuttora incanta le platee di tutto il mondo: difficile
che Quizás, Quizás, Quizás, qui in tandem con Teresa García
Caturla, Hasta Siempre e Quiero Hablar Contigo di Carlos
Puebla, Ay Caramba di Juan Pablo Torres o La Cumbancha
di Agustín Lara abbiano avuto nella loro lunga vita migliore
interprete di lei. Il programma è bene organizzato: anziché
un banale ordine cronologico o tematico, si è scelta la strada
di genere. Ecco allora i dieci bolero iniziali bilanciati dal son,
dalla canción e dall’isolato cha cha cha La Última Noche.
Paolo Ferrari
07 PRIMAVERA 2010
World Village / Ducale
Registrato alla Maison de la Radio
l’11 maggio del 2009 questo album
raccoglie una quindicina di brani dal vivo tratti dal vasto
repertorio già presente nella mezza dozzina di album
realizzati da Lila Downs.
La Misteriosa, l’orchestra di otto musicisti che
l’accompagna con successo sin dagli esordi, permette
alla cantante messico-statunitense di dare spazio a tutto il
suo talento evidenziando la sua voce straordinaria con cui
coniuga armoniosamente tecnica e sentimento, precisione
e passione. Più diretto e meno freddo degli album prodotti
in studio questa versatile registrazione dal vivo propone un
repertorio che non chiede di meglio: la sua versione della
Cucaracha è perfetta, per non parlare poi della Cumbia del
Mole nella quale l’entusiasmo del pubblico sale alle stelle.
Un bella introduzione al suo lavoro per quanti non sono
ancora stati travolti dal fascino di Lila.
Squaaly
49
Cantora-Un Viaje Intimo
Cantora, così si intitola sobriamente
l’ultimo album della diva argentina
Mercedes Sosa, scomparsa lo scorso 4 ottobre all’età di
74 anni. Un titolo da regina per la donna che non ha mai
cantato per vivere ma che ha sempre vissuto per cantare,
che rifiutò di sposare un buon partito per l’amore di un altro
uomo squattrinato ma che sapeva scrivere canzoni più belle.
«Amo le mie canzoni come se fossero il mio uomo» confida
nell’intervista di Un Viaje Intimo, il magnifico documentario
che narra la storia di questo disco. Perché di amore certo
si tratta. Di tenerezza, di ammirazione, di rispetto per gli
artisti sudamericani. In quest’ opera si omaggia l’icona
argentina, una testimone della storia nonché grande
ispiratrice della forza femminile con una ventina di duetti.
Shakira, Lila Downs, Jorge Drexler, Daniela Mercury… dal
rap tango alle spezie del flamenco, dal lirismo rock agli
effluvi della bossa, Mercedes si adatta e fa vibrare le nostre
corde più sensibili come uno strumento accarezzato dalla
sua voce. Piena di umiltà, rinnova questo feeling con ogni
artista come Caetano Veloso, suo grande amico fraterno, a
cui confessa di piangere d’amore ogni volta che lo ascolta.
Baci con le lacrime, i suoi brani parlano di piccoli mondi
e di grandi emozioni pur mantenendo il suo impegno
immutato. «Cantare è un dono di Dio e io in cambio devo
aiutare quelli che non hanno niente. La mia arte è una
consolazione» spiega la ragazzina povera divenuta una
star internazionale celebre sia per la sua voce che per
quanto ha detto, pensato e difeso in tutta la sua vita. Con
Cantora ci lascia un ultima preziosa umana eredità sotto
forma di canzone, musica e letteratura. Parlando di lei il
cantautore Vincentico afferma «è come se fosse sempre
esistita, come se dovesse esistere per l’eternità» facendogli
eco Mercedes gli risponde alla fine del suo Viaggio intimo
con una canzone di Charly Garcia: «Non sto per morire..
non sto per morire..» un ritornello ripetuto all’infinito in una
sorta di sfida al tempo e alla sua stessa scomparsa.
Anne-Laure Lemancel
Trio Esperança
De Bach à Jobim
Heads Up / Egea
Per parlare di un album così bisogna
fare delle supposizioni, ma non delle
supposizioni azzardate; piuttosto delle “piroette con la
fantasia”. Cose del tipo, Chissà come sarebbe suonata
Penny Lane se McCartney e Lennon anziché nascere a
Liverpool fossero nati a Rio de Janeiro.
Perché, se è vero che il contesto in cui si vive condiziona la
maniera di pensare, agire e creare, è plausibile immaginare
i sopraccitati artisti – facendoli nascere però in Brasile –
comporre qualcosa dal sound un po’ più Bossa Nova;
qualcosa di più vicino a quanto proposto dal Trio Esperança
nell’ultimo lavoro “De Bach à Jobim”.
Le sorelle Corrêa tornano infatti dopo undici anni
proponendo, tra le altre, anche un paio di riletture dei Beatles.
L’intento è quello di bissare il successi degli anni Novanta
mantenendo inalterata la ricetta: canto polifonico a cappella
espresso su un repertorio contemporaneo. Repertorio di
cui fanno parte, in primis, grandi classici della tradizione
carioca di De Moraes, Jobim, Buarque.
Bruno Tecci
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Jonny Cash
American VI: Ain’t No Grave
American Recordings
Questo nuovo album di Johnny
Cash, sei anni e mezzo dopo la sua scomparsa, sembra
letteralmente spuntare dall’aldilà. «Non c’è una tomba che
possa trattenere il mio corpo sulla terra» (there ain’t no
grave gonna hold my body down) canta proprio all’inizio
del disco, e il classico spiritual che dà il nome all’album
raramente è stato più appropriato. Anche se Cash non
aveva certamente bisogno di questo album per assicurarsi
un posto nella leggenda della musica americana, con
questo CD il mito ne esce, se possibile, ancora più
rafforzato. Terminato quello che sarebbe stato il suo
ultimo album in vita America IV: The Man Comes Around
il cantante country, malato, temeva di non riuscire più a
registrare. Dal1994 la sua super prolifica collaborazione col
geniale produttore Rick Rubin (Run DMC, Public Enemy,
Slayer, Mick Jagger, U2…) gli aveva permesso di ritrovare
il successo e di registrare le più belle pagine della sua
carriera. Durante gli ultimi mesi di vita stanco e provato dal
diabete, Cash riusciva comunque a trovare il coraggio di
raggiungere lo studio. Fino agli ultimi giorni, anche dopo
la scomparsa della sua adorata moglie, la cantante June
Carter, aiutato da Rubin e assistito da suo figlio, Johnny
Cash ha registrato materiale per altri due album: American
V: A Hundred Highway uscito nel 2006 e quest’ultimo
capolavoro ossessionato dalla morte ma bello come la vita.
Questa testimonianza di fede in Dio e nella musica, non ha
nulla da invidiare in quanto a bellezza ai cinque volumi che
lo hanno preceduto. Come per gli altri, e con l’eccezione
della biblica I Corinthians 15:55, firmata dall’uomo in
nero, si tratta di un album di cover, questa volta senza
rivisitazioni spettacolari o inaspettate come Hurt dei Nine
Inch Nails, del 2003, che fu il suo ultimo successo prima di
morire. Le canzoni scelte provengono tutte dal repertorio
folk e country americano. Da Cool Water di Bob Nolan,
resa celebre da Hank Williams, a For The Good Times di
Kris Kristofferson, all’inno pacifista Last Night I Had the
Strangest Dream eseguiti con una classe e una grazia
inconsuete che accentuano gli incredibili arrangiamenti. Il
disco termina con il tradizionale canto d’addio hawaiano
Aloha Oe. La voce trema un po’ ma la slide guitar rimuove
ogni ostacolo.
Benjamin MiNiMuM
07 PRIMAVERA 2010
50 FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
fusion
Mondomix.com// rec e n s i o n i
Saba
FELMAY
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www.felmay.it
Giuliana Soscia & Pino
Jodice italian tango quartet
Biyo
Antiche pietre
Sud / Egea
Alfamusic / Egea
A cavallo tra il 2008 e il 2009 Saba
Anglana e Fabio Barovero sono andati
in Etiopia. Per entrambi non si è trattato solo di un viaggio.
1
2
3
Da una parte c’era
la riappropriazione
fisica della propria
memoria infantile, di radici macerate dagli anni, di sogni
familiari (Saba ha vissuto i primi sei anni di vita tra la
Somalia e l’Etiopia prima di trasferirsi in Italia), dall’altra
la curiosità famelica nei confronti di un continente che ha
temprato il mood di tante avventure sonore, di tanti intrugli
ritmici, di tante ossessioni timbriche (la barra di Barovero,
fin dai tempi 7dei Mau Mau, è puntata
verso il basso
8
paradiso africano).
Il risultato di questa ricerca sul campo, così necessaria
alle biografie e all’immaginario di entrambi, è un album
frastagliato eppure permeato dall’imprinting di quel viaggio.
Una tanica gialla di plastica, riciclata, con impiantato un
cono così che diventi altoparlante, è diventato il simbolo
di questo percorso dedicato all’acqua (Biyo in Somalo).
9
10
Amarico, inglese, somalo e italiano le lingue messe in gioco
da Saba che declama sempre le sue liriche con impeto
e partecipazione. Gli strumenti fotografano lo stesso
armamentario plurale: si va dal basso elettrico alla kora, dal
krar al masinko...L’Addis Abeba di Saba sa di Ethiopiques,
ma sa anche di nu soul, pop, hip hop, e in Biyo si mescolano
le influenze con lo stesso realismo poetico di un proverbio
11 mia casa è dove piove».
12
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subsahariano:
«la
XP• Mondomix
marzo
2010 4-03-2010 13:25 Pagina 2
Valerio Corzani
Gli autori del disco rifiutano l’idea che
questo lavoro possa essere ricondotto esclusivamente nel
campo del tango-jazz
e noi, diligenti,
ci associamo
alla
4
5
6
loro visione. Il sodalizio tra la fisarmonicista laziale Giuliana
Soscia e il pianista napoletano Pino Jodice iniziato nel 2006
con la creazione del italian tango quartet viene qui portato
a maturità con un’opera che racchiude una intensissima e
mai noiosa concomitanza di stili dell’uno e dell’altro genere.
Ampio spazio viene dato al tango degli esordi, quello più
intriso di quelle sonorità italiane portate a Buenos Aires
dagli emigranti sul finire dell’ottocento. Non mancano
gli accenni ai grandi maestri come dimostra il brano la
camorra III di Astor Piazzolla e forte è l’influenza esercitata
sulla Soscia dalla tradizione folklorica tosco-emiliana e su
Jodice del jazz mediterraneo. Il tutto per essere compreso
ha bisogno di una chiave di lettura postmoderna evitando
di sforzarsi di trovare i nessi tra i diversi stili, potrebbero
non esserci. L’importante è il raffinato risultato.
David Valderrama
Egea Records
presents
Puoi scaricare gratuitamente il PDF di
Mondomix Italia dal sito
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www.mondomix.com
thiopiques
FELMAYTRADIZIONE&INNOVAZIONE
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FELMAY
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7
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vol. 1 - L'age d'or de la
musique ethhiopenne
moderne 1969-1975
vol. 2 - Azmaris urbains
des annèes 90
vol. 3 - L'age d'or de la9
musique ethiopienne
moderne 1969-1975
vol. 4 - Mulatu Astatke
Ethio Jazz & Musique
Instrumentale, 1969-1974
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felmay
07 PRIMAVERA
2010
EGEA
distributore esclusivo
per l’Italia
Birkin Tree
Virginia
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new
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«Il miracolo italiano? Esiste: si chiama Birkin Tree. Da vent'anni
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importa
i suoni del folk celtico
(uillean pipes, flauti,
violini…), li rielabora
e li restituisce ai "maestri" irlandesi che regolarmente innestano
l'albero savonese nei loro festival.» (Repubblica)
vol. 5 - Tigrigna Music
1970-75
vol. 10 - Tezeta - Ethiopian
«IBallads
Birkin Tree
Blues and
vol. 6 - Mahmoud Ahmed
Almaz 1973
Harp of King David
vol. 7 - Mahmoud 10
Ahmed
Erè mèla mèla 1975
vol. 8 - Swinging Addis
1969-1974
vol. 9 - Alèmayehu Eshété
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vol. 15 - Europe meets
vol. 21 - Emahoy Tsegué
& Maryam
Guèbrou
mettono
tappeto
mazzo
di brani
Ethiopia sul
- Jump
to Addisun sontuoso
Piano
Solo
mescolando ballate, traditional
e loro composizioni
con
bella alternanza
vol. 16 - Asnaqètch Wèrqu
vol. 11 - Alèmu Aga - The
di ritmi e melodie. » (Blow
Up)
vol. 22 - Alèmayèhu Eshèté
The Lady
with the Krar
1972/1974
17 - bene
Tlahoun
Gèssèssè dellaTerra a cui si riferiscono,
a trasmetterevol.
molto
la malinconia
vol. 12 -«Riescono
Konso Music
23 - Orchestra Ethiopia
Nord
unvol.
soffio
mediterraneo, un
& Songs si legano al folclore delvol.
18 - Europa
Asguèbbaportando
!
vol.
24Bravi.»
- L'age d'or de la
colore
caldo,
che
si
sente
ed
echeggia,
di
pezzo
in
pezzo.
vol. 13 - The Golden
(Mucchio Selvaggio) vol. 19 - Mahamoud Ahmed musique ethiopienne
Seventies - Ethiopian Groove
1974 - Alèmyè
moderne 1969-1975
vol. 14 - Gètatchèw Mèkurya
Negus of Ethiopian Sax
13
vol. 20 - Either Orchestra &
Guests - Live in Addis
14
vol. 25 - Modern Roots
1971/1975
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felmay distribuzioni • vendita per corrispondenza • richiedete il catalogo
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07 PRIMAVERA 2010
Ossigeno Digital Distribution
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la musica indipendente italiana
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Felmay, Finisterre, Geos,
High Tide, I Dischi della
Vetrocipolla, Kob Records,
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Taukay, Tauri Records,
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