iye ANNUARIO 01/13 in your eyes ezine PRIMAVERA SOUND 2013 INTERVISTA AI DRIVIN MRS SATAN SIMONE SARASSO - IL PAESE CHE AMO VARAZZERS FANZINE E ANNI NOVANTA MASSIMO VOLUME, GAZEBO PENGUINS, SALMO 5MDR, IVENUS, FOUR TET, TOKIO SEX DESTRUCTION 1 Directed by: Simone Benerecetti N. 1/2013 Web: http://www.iyezine.com E-mail: [email protected] Collaboratori: Massimo Argo, Il Santo, Francesco Cerisola, Stefano Cavanna, Nicolas Gasco, Marco Appioli, Davide Siri, Ilaria Maietta, Gianluca Perata, Gianluca Camogli, Giovanni Sciuto, Kaosleo, Marco Repetto, Pietro Caviglia, Luca Fazio, Alessandro Bonetti, Alberto Centenari, Freddi Koratella, Mauro Francioni, Francesco Orazzini, Marini Yolima. Dal 2006 abbiamo avuto da 124.216 persone sul sito con 372.875 pagine viste.Grazie. 2 Editoriale In Your Eyes è nata nel 1999 e io stavo per finire le scuole medie. Escluse le band più note e commerciali del periodo conoscevo ben poco di musica. Sicuramente non conoscevo In Your Eyes (nonostante fosse fatta da gente che dista da casa mia solo 20 Kilometri). Questo è quello che solitamente succede in provincia, in piccole città come Savona, chiuse su sé stesse e, spesso, prive di curiosità e voglia di scoperta. Nessuno si preoccupa di quello che succede a un palmo dal proprio naso, nessuno fa attenzione al fatto che chi ci sta di fronte potrebbe avere le nostre stesse idee, i nostri stessi gusti e che, insieme si potrebbe fare qualcosa di molto più grosso del solito far niente. Nessuno si accorge che città come Genova, Torino, Milano sono lontane, ma non così lontane da essere concepite come irraggiungibili. Nessuno fa caso al fatto che dietro al progetto più grande che si possa immaginare ci saranno sempre persone in carne ed ossa, uguali a noi in ogni più piccola parte. Nessuno ha mai voglia di provare a fare un passo in più rispetto al dovuto. Io stesso facevo parte di questa categoria di persone. Può capitare, però, che un qualcosa, un momento, una situazione, un’idea, in maniera improvvisa, ti prenda e ti rivolti come un calzino, piantandoti dentro al petto una voglia irrefrenabile di fare quello che credevi fosse impossibile fare. Per me è stato il parlare, dopo molte birre, con un mio amico, il quale, a un certo punto, con tono incazzato mi ha semplicemente chiesto “Ma perché porti quel paio di scarpe?”. Sembra stupido, ma non sapevo rispondere. Ci ho pensato giorni interi a quella domanda e alla fine ho deciso di cambiare (non solo le scarpe) e mettermi a fare cose che sentivo veramente mie, a cui avrei potuto dare sempre e comunque una spiegazione nel caso qualcuno me l’avesse chiesto. Ho costruito un’etichetta che fa dischi e ho cominciato a scrivere recensioni. Ho guardato lontanissimo non badando mai a quel che avevo vicino (la cultura della provincia è dura da eliminare) e, solo dopo 10 anni, ho scoperto che dietro l’angolo c’era quello che più mi interessava, uno spazio dove parlare liberamente della musica che più mi prendeva, senza aver pressioni, scadenze e ansie. In Your Eyes è questo, una piccola webzine, dura e pura, che fregandosene di tutto e tutti, parla di quel che gli pare, quando gli pare. Pochi ragazzi (con ormai quarant’anni sulle spalle) che, con una passione infinita, portano avanti un progetto che non ha altro obiettivo se non quello di diffondere (soprattutto a chi gli sta vicino, ma anche a chi è lontanissimo) musica, idee e contenuti. Una sorta di monolite che ha superato indenne tutti gli anni ‘00 e che, invece di sprofondare nella stagnazione, ha preferito costruire un lento e costante sviluppo, fatto di piccole ma importanti cose. 3 Ora, a quasi quindici anni di distanza dal primo click, In Your Eyes vuole provare a fare un ulteriore piccolo passo, fare qualcosa che la ricolleghi al suo passato, a quando, prima del 1999 e con altro nome, girava di mano in mano sotto forma di fanzine cartacea autoprodotta: ritornare, per una volta, oggetto fisico, concreto e tangibile. Abbiamo voluto creare queste 50 pagine (circa) per raccontarvi quali sono stati per noi i dischi, le band, i libri e i concerti più interessanti di questo 2013, ma non solo. L’altro obiettivo che ci siamo posti è stato quello di fornirvi una prova incontrovertibile del fatto che le cose, se si vuole, si possono fare, che anche nel posto più arido possono nascere iniziative che valga la pena supportare, che non si è soli, che c o m u n ic a z io n 4 e dietro a ogni lavoro ci sono sempre delle persone e che, interagendo con questi lavori, è un po’ come comunicare con queste persone, che costruirsi da soli è molto meglio che adeguarsi ad uno standard o a uno stereotipo, che la crisi è monetaria, ma che i progetti, prima di tutto, sono fatti di idee. Francesco Cerisola. PRIMAVERA FESTIVAL Memorabile in termini di numeri, con oltre 170 mila presenze in tre giorni. In termini di cambio di sponsor principale (il passaggio da San Miguel ad Heineken, con evidente vantaggio per le casse del festival). Ma in particolare nel fatto che sia il gran Galà di presentazione in streaming live mondiale che la campagna di marketing successiva abbiano creato una aspettativa a dir poco virale intorno all’evento. Più degli anni scorsi, se possibile, il Primavera Sound era “il festival in cui bisognava andare”. Per noi, per fortuna, il Primavera Sound rimane ancora una benefica esplosione di suoni distillata in cinque giorni e 230 concerti. Poco ci importa della ruota panoramica plagiata dal Coachella, su cui non saliremo mai. Delle inconsuete temperature autunnali, brillantemente combattute saltando sempre in zona transenna. Delle voci basse dei My Bloody Valentine, che devono essere basse, e se non sapete il perché peggio per voi. GIOVEDI 23 MAGGIO Il pop east-coast dei Wild Nothing apre le danze quando ancora il sole è alto. E’ un bell’ascoltare, sebbene i brani eseguiti troppo pedissequamente rispetto ai due album non destino particolari sussulti. Sul palco ATP invece compare la vera sorpresa del giorno: i White Fence. Il progetto solista di Tim Presley, intriso di cavalcate psichedeliche dall’incedere garage, si spinge su territori già esplorati dai conterranei Oh Sees, e grazie ad un songwriting intenso quanto spigoloso riesce ad ammaliare e convincere. I Tame Impala non lasciano spazio all’immaginazione: un muro di suoni anni ’60 si abbatte sul palco principale, tappeti di synth fanno volare una sezione ritmica a dir poco scioccante: rullate dimezzate aprono come dighe delle cavalcate di delay chitarristici in cui è impossibile non perdersi. Il bassista dei Pond è alla sua prima uscita dopo l’abbandono di Nick Allbrook, ma poco cambia: i brani funzionano molto meglio che da studio, sono più incisivi e i fuzz dilatati delle Rickenbacker la fanno da padrona. Un concerto capolavoro, il migliore del giovedì. I Dinosaur Jr., anche con Kyle Spence alla batteria, regalano sempre grandi gioie: “Feel the Pain”, “Out There”, e “Freakscene” autorizzano J Mascis a comparire nei dizionari musicali alla voce “Wah-Wah”. Poco dopo i Deerhunter presentano live il capolavoro lo-fi dell’anno, l’acclamato “Monomania”. Bradford Cox distilla in musica la spirale di disperazione, ossessioni, desideri e conquiste di una creatura di due metri, filiforme al punto di spezzarsi. E’ un pugno allo stomaco, e il coinvolgimento del pubblico è sentito. I due artisti successivi, Grizzly Bear e Phoenix, non rappresentano alcuna novità per chi già ha avuto la fortuna di apprezzarli. I primi, meravigliosamente soporiferi, ormai suonano 5 6 più come un’orchestra che come una band, perfettamente inseriti in uno scenario di calde lanterne ondeggianti in sottofondo. Le armonizzazioni di voce che cullano l’intero show sono magistralmente sorrette da un basso “acquoso” e dei timidi quanto efficaci contrappunti di tastiere. Pare che la band di Brooklyn tenda quasi a nascondere propria smisurata classe, senza proporre leader né cadere in ostentazioni, ponendo al centro della scena solo la delicatezza delle proprie composizioni. I Phoenix, d’altro canto, reduci da un album appena sufficiente, riescono a non deludere grazie soprattutto allo sporco lavoro di frontman di Thomas Mars. Il concerto non è certo fallimentare, ma la loro sfortuna è proprio quella di suonare dopo i Grizzly Bear: non si possono decisamente azzardare paragoni. La serata termina con la pessima performance degli Animal Collective, che due anni fa proprio al Primavera Sound avevano fatto “il concerto”. Oggi invece sono mosci, svogliati, a tratti perfino fastidiosi. Un gran peccato. VENERDI 24 MAGGIO E’ inutile negarlo, per buona parte del pubblico il venerdì è il giorno dei Blur. Il concerto che tutti aspettano, gli headliner degli headliners, il live che a Barcellona manca da dieci anni. Nel frattempo, fino alle 01:30, sono tanti gli artisti che deliziano le nostre orecchie. Esclusi gli iniziali Merchandise, i quali presentano brani copiati male dai Killers e di una banalità imbarazzante. Il contorno di voci alla Morrissey e il repertorio di faccette proposte dal cantante chiudono il cerchio di questa superflua esibizione. Kurt Vile invece propone un piacevole set incentrato su “Wakin on a Pretty Daze”, la sua ultima fatica. L’unica pecca è il dover suonare con la luce ancora alta e in uno spazio ancora troppo grande (Heineken stage). Se i Django Django, di bianco vestiti, mostrano una ottima affinità dal vivo presentando il loro acclamato album d’esordio, gli onnipresenti Shellac di Steve Albini appaiono sempre più violenti ed affiatati, con dei suoni al limite della perfezione. E’ l’ora dei Jesus and Mary Chain che, a sentire i rumors, non fanno nulla per coinvolgere il pubblico (gli hipster della zona vip, almeno). In compenso si limitano a suonare pezzi di storia come “Just Like Honey” con Blinda Butcher dei My Bloody Valentine, “Head On” e “Happy When it Rains”. E a me basta e avanza per trattenere a stento l’emozione. Cosa che non succede poco più tardi, coi Blur, sullo stesso palco. Damon Albarn, indicando il cielo, saluta il pubblico con un “So Hola to la luna”. Non guardo il dito, e Graham Coxon attacca con “Girls and 7 Boys” quello che sarà il concerto più emozionante dell’ intero festival, per i tanti che hanno passato un’adolescenza legata a doppio filo col britpop. La band londinese alterna sapientemente momenti più movimentati come “Country House” e “Parklife” (purtroppo orfana di Phil Daniels) alle melanconiche “Out of time”, “Tender” e “This is a Low”, in cui momenti di estasi collettiva uniscono il pubblico in un lungo singalong con il quartetto di coristi di colore presente sul palco. “Coffe and TV” esalta la grazia chitarristica e la flebile voce di Graham Coxon, mentre Albarn si tuffa sulle prime file 8 guardandoci in faccia uno per uno. “Under the Westway” sembra ormai un classico, seppur uscita da non più di un anno, “The Universal” è maestosa e catartica, e nel suo “it really really really happened” fa ridestare dal torpore e realizzare quello che è appena trascorso. I Blur danno tutto ciò che hanno, e in termini di sintonia col pubblico, di presenza scenica, di rilevanza storica dei brani non esiste paragone con alcuna band di questo festival. Purtroppo perdo i The Knife, che a quanto pare inscenano uno dei migliori spettacoli della serata, e mi dirigo verso i Titus Andronicus. La loro brillante miscela di folk punk, a cavallo tra Pogues, Dropkick Murphys e The Clash, scuote la folla che canta a squarciagola ogni brano fino alla conclusiva, lacerante “No Future part three”, in cui ci si perde in un lungo “You will always be a loser”. SABATO 25 MAGGIO L’ultimo atto del Primavera Sound 2013 si apre con i Melody’s Echo Chamber, band indiepop che suona meno abbottonata che dal cd, convincendo nei momenti più dissonanti e dilatati piuttosto che nelle strofe più prettamente melodiche. Sullo stesso palco l’innamoratissimo canadese Mac Demarco delizia il pubblico con un delicato pop di piena fattura Pavement, salva un ragazzo esagitato dagli spintoni della security, e improvvisa un crowdsurfing su “Togehter” per raggiungere la sua amata Karen in mezzo al pubblico. Fantastico. Gli Oh sees e i Liars sono i protagonisti del sabato. I californiani, reinventando il garage rock in chiave psichedelica, propongono un altro grandissimo set “fisico” con cori infiniti, sepolcrali, dilatati fino allo spasmo, che li consacrano come una delle migliori rock ‘n’ roll band in circolazione. I Liars, completamente avvolti nell’oscurità, reinventano il loro ultimo album WIXIW, realizzato per lo più in chiave elettronica, in una sorta di contemplazione minimale del suono, creando il loro spazio in cui far vivere crescere e sviluppare una musica che è e può essere solo loro. L’effetto è oltremodo ipnotico, in particolare in “Flood to Flood”, “N°1 Against the rush”, e nella conclusiva “Broken Witch”, in cui il cantante urla “blood blood blood” per un tempo interminabile. Concludo la serata con i My Bloody Valentine, sul quale live si è detto tutto e il contrario di tutto. Semplicemente i MBV hanno un muro di suoni impressionante, una poesia rumoristica fantastica, che non tutte le orecchie possono accettare come tale. Citando Picasso, riguardo chi contestava il cubismo: “io non capisco i libri in inglese, ma non per questo affermo che essi non significhino nulla”. Se non capite lo shoegaze c’è sempre il cantautorato, dopotutto. Mentre cammino per l’ultima volta attraverso il Parc del Fòrum, ormai popolato di soli bicchieri di plastica che riflettono l’alba, capisco che questo Primavera Sound è ormai diventato uno dei migliori festival al mondo. Se veramente amate la musica più delle instagrammate, le transenne più delle ruote panoramiche, le dissonanze indie rock più delle zone vip, vi consiglio di farci un salto. Yes, it really, really really happened. . Marco Appioli 9 10 Driving Mrs. Satan Sono una delle novità più stimolanti emerse nel panorama musicale italiano negli ultimi tempi. L’idea di coverizzare dei brani metal sfrondandoli della strumentazione elettrica, di per sé non sarebbe una novità, ma è il modo in cui viene trasformato e rimodellato un genere musicale che è, per antonomasia, il più rumoroso e il meno rassicurante, a rendere speciale un’operazione del genere. Dietro al bizzarro monicker ci sono tre musicisti napoletani di estrazione pop-folk-jazz (Ernesto Nobili, Giacomo Pedicini e Claudia Sorvillo) ai quali abbiamo posto una serie di domande sfruttando anche lo spiccato senso dell’humour che li contraddistingue. In Your Eyes: La prima domanda é normalmente la più ovvia e non farò nulla per distinguermi dalla massa: come nascono e chi sono i Driving Mrs.Satan ? Giacomo Pedicini - I Driving Mrs. Satan nascono in una notte passata sul ponte di una nave per la Corsica con un’IPod pieno di musica. Claudia Sorvillo - Siamo tre musicisti, ci stiamo divertendo a riarrangiare la storia dell’heavy metal. Ernesto Nobili - Per me, nascono da una spiccata sete di sangue che avevo dopo aver portato mia figlia all’asilo. In Your Eyes: Nella tracklist di “Popscotch” si passa dalla melodia dei brani di matrice power/ nwobhm all’oscurità tipica del thrash; come sono distribuite le preferenze musicali all’interno del trio ? G.P. - Molto varie e non solo legate al Metal. E.N. - Volendo rimanere nel metallo, io ho amato molto tutte le divagazioni metalliche possibile. Quello che non mi è mai piaciuto, salvo casi rari è stato il death, il black nordico … Per dire, passavo con molta disinvoltura dai Def Leppard agli Slayer senza troppi problemi morali … C.S. - Rock di ogni tipo, e cantautori. In effetti le mie preferenze variano di settimana in settimana. Questa settimana nel mio player ci sono Alt-j, Ark, Tunngs, Epo, The Roots, So Percussion, Villagers, Art Brut, Woodkid e Thony. In Your Eyes: Ad esclusione di “Never Say Die”, che risale addirittura al 1978, tutti gli altri brani sono stati pubblicati nella loro versione originale negli anni ‘80 e il più recente tra questi è “From Out Of Nowhere”, datato 1989; la scelta di attingere esclusivamente a quel periodo musicale è stata voluta o è semplicemente una casualità ? 11 G.P. - I dischi migliori o diciamo quelli che io ritengo significativi sono usciti in quel decennio. Gli anni 80 sono gli anni dell’Heavy Metal. Il periodo in cui sia io che Ernesto abbiamo imbracciato gli strumenti e deciso che avremmo fatto i musicisti. Mi sembrava logico partire da qui per un progetto legato a questo genere musicale. Claudia forse doveva ancora nascere... E.N. - Concordo in pieno con Giacomo. Dopo, almeno per me, la musica ha preso le strade più disparate. La curiosità porta ad allontanarsi per scoprire, e a desiderare altra musica. Quindi, sarebbe stato anche emotivamente difficile entrare per esempio in un certo nu metal. In Your Eyes: Non è che, per caso, siate tra chi ritiene la musica prodotta negli ultimi 20 anni non sia all’altezza di quella del passato (teoria trasversale espressa da ascoltatori di qualsiasi genere musicale) ? Oltre che di metal sono un grande appassionato di progressive e ho sempre contestato quelli che definivo “tolemaici”, fieri assertori della piattezza della Terra nonché della fine del prog coincidente con l’uscita di Gabriel dai Genesis; onestamente non penso che possa accadere qualcosa di analogo anche a musicisti di ampie vedute come voi. C’è quindi qualche band o sottogenere in ambito metal in grado di destare il vostro interesse ai giorni nostri ? 12 G.P. - Provo a seguire la scena metal attuale. Cerco di ascoltare i nuovi gruppi ma non ce ne sono molti che mi entusiasmano. Le cose più’ oneste continuano ad arrivare dai gruppi storici, quelli che lavorano sulla formula vincente del loro successo. Penso ai Motorhead, Iron Maiden, Ac/Dc. Pero’ il ritorno di Michael Kiske con gli Unisonic mi ha fatto veramente piacere. E.N. - Altroché, la musica c’è. Non seguo molto metal di oggi, ma basta che pensi ai Radiohead, esplosi dopo il ‘98, oppure se approfondisci il panorama alternativo, indie, free, post country, trovi dei geni assoluti . Penso a Sufjan Stevens, Anna Calvi, o “grandi vecchi” che non finiscono mai di stupire, tipo David Byrne … i nostri tempi non sono tempi di musica di massa, questo si. In Your Eyes: Per i benpensanti l’iconografia classica del “metallaro” è quella di un personaggio come quello di Lorenzo, interpretato da Corrado Guzzanti, ovvero un tizio quasi incapace di proferire due parole di fila in un italiano comprensibile, dall’igiene personale sommaria e fornito da madre natura di un solo neurone che, spesso, finisce pure per smarrirsi. Detto che in effetti ai concerti mi è capitato di vedere più d’uno corrispondere a questo modello, pensate che un’operazione come quella portata avanti dai Driving Mrs.Satan possa contribuire a migliorare questa immagine, visto che, almeno apparentemente, sembrereste delle persone “perbene” … ? G.P. - Dov’e’ il mio neurone?..Ridatemi il mio neurone!!!!.. E.N. - ghgrmdspjvòsldktsv-… scherzi a parte, invece eravamo , almeno nel nostro piccolo, metallari colti. Ideologi del metallo, in estasi quando trovavamo riferimenti alla mitologia greca nei Maiden o in quei pirla dei Manowar … Ci ho trovato spunti letterari nel metal. Non solo le donnine allegre (molto gradite) dei Motley Crue … E alla fine anche la scena più street glam della Los Angeles di fine anni ottanta ha un suo fascino decadente che gruppi come i Red Hot hanno descritto bene. C.S. - Ma certo. La cosa che mi ha sempre affascinato dei metallari è la contraddizione, solo apparente, tra un look sciatto e associato alla violenza, e il fatto che in effetti siano spesso persone meglio istruite, più sensibili e consapevoli della media. In Your Eyes: Tornando seri per un attimo, mi ha sempre incuriosito, fin da quando mi sono imbattuto nei vostri primi brani, sapere in che modo avviene il lavoro di arrangiamento. Soprattutto l’operazione di de-metallizzazione di un brano come South Of Heaven, per uno che non fa il musicista, appare quasi prodigiosa. G.P. - Non c’e’ stato un lavoro di arrangiamento pensato a tavolino. Ogni brano di Popscotch e’ partito soprattutto da una fotografia che avevo nella mente e si e’ sviluppata in corso d’opera con l’aiuto di Er- 13 nesto e Claudia. Ho tenuto sempre presente le linee vocali che sono rimaste quasi inalterate rispetto agli originali. I riff portanti delle chitarre le puoi trovare nei brani sotto forme diverse, nascosti o delegati ad altri strumenti o addirittura stravolti. Ma la parte decisiva e’ stata quella di Claudia. Non conoscendo gli originali ha interpretato i testi che noi conoscevamo perfettamente rispettando la sua visione. E.N. - Comunque è stata la voce di Claudia poi ad aprire varchi insospettabili. C.S. - Il metal non e’ la mia influenza principale, e anzi, in molti casi ero assolutamente all’oscuro della forma originale di quello che stavo cantando. E’ probabilmente questo il motivo per cui i brani sono interpretati cosi diversamente, e incuriosiscono. In Your Eyes: Secondo voi, quindi, è più facile trasformare in un brano pop/folk “Raining Blood” degli Slayer oppure effettuare l’operazione inversa, rendendo un massacro thrash metal una canzone tipo “Granada” di Claudio Villa ? G.P. - Non e’ solo una questione di facilita’, e’ una questione di riuscita. Ci vuole sincerità’ e rispetto. E.N. - Da piccolo facevo il contrario. Metallizzavo il non metallo. C.S. - Immagino che entrambe le operazioni possono essere più o meno semplici, e più o meno efficaci, a seconda dell’interesse e della storia musicale personale di 14 chi le affronta. Qualche tempo fa mi aveva divertito molto una versione metal di “All The Things She Said” delle Tattoo per esempio. In Your Eyes: Personalmente ho sempre ritenuto le classiche versioni unplugged piuttosto noiose e quelle orchestrali ridondanti e, alla lunga, stucchevoli; credo che la strada che state battendo sia quella giusta affinché la coverizzazione di un brano non sia solo aggiungere o togliere qualche strumento, bensì quello di trasformarlo e manipolarlo attraverso un reale processo creativo. Che si sappia voi siete sicuramente tra i pochi a farlo in questi termini: riuscite a percepire un incremento dell’interesse nei vostri confronti dopo l’uscita di “Popscotch”, rispetto a quanto accaduto all’epoca del primo Ep ? E.N. - Personalmente non amo neanche io le versioni orchestrali. Gli unplugged hanno il difetto, se lo è, di essere suonati dai gruppi stessi che hanno creato i pezzi, e quindi per loro è più difficile distaccarsi dagli originali. Invece il bello per noi è stato vedere cosa succedeva mano mano. Ci siamo fatti anche grasse risate, pensando alla vocetta di Claudia che cantava Tom Araya. E comunque mi fa impazzire il risultato sensuale e “ambiguo” che ha creato il suo modo di cantare. In Your Eyes: Navigando sul web ho letto diverse recensioni del vostro lavoro e ho notato un ap- perché mi ha fatto ridere nella sua semplicità: “Publicity because Vagina”. E’ un punto di vista. Per fortuna la risposta che stiamo ricevendo da parte del pubblico è estremamente positiva nella grande maggioranza dei casi. Il nostro progetto è apprezzato sia dagli ascoltatori del genere che da quelli che non lo sono. Ieri una ragazza mi ha detto “Mi è piaciuta un sacco I Want Out. Devo dirti che non avevo mai ascoltato la G.P. - Le risposte sono state quasi tutte positive … ed e’ stata una cosa versione originale. Ho scoperto che mi piace moltissimo anche quella!”. sorprendente...I Want Out ne e’ la Mi ha fatto ridere pensare che i Drivprova. E’ stato il segnale che ci ha ing Mrs. Satan abbiano passato un aiutato a capire che la strada era quella giusta. In più’ Michael Weikath nuovo ascoltatore agli Helloween e (chitarrista degli Helloween) quando non il contrario. l’ha ascoltata ci ha fatto molti compliIn Your Eyes: Spesso chi ascolta menti. musica non ha un’idea precisa di E.N. - C’è ancora tempo per essere parecchi aspetti, anche di carcrocifissi a testa in giù durante un attere burocratico, che stanno concerto dei Morbid Angel. C.S. - Nessuna mail minacciosa, ma dietro la realizzazione di un disco. In realtà, come funzionano le qualche commento esilarante c’è stato. Uno di questi mi sono sentita cose nel momento in cui qualcuno di riprenderlo nel blog e su facebook decide di utilizzare un brano altrui ? Per esempio, si chiama Lemmy e prezzamento pressoché unanime, anche quando a scrivere erano collaboratori di webzine dal nome minaccioso tipo “MetalSucks” et similia … C’è stato invece qualcuno che si è arrabbiato, inviandovi e-mail poco lusinghiere dopo aver ascoltato le vostre versioni di brani che, per alcuni, sono ammantati quasi da un’aura di sacralità ? 15 gli si chiede: “Hey vecchia lenza, come va ? Male ? Eh già, gli anni passano per tutti ... Senti, ti dispiacerebbe molto se facessimo diventare “Killed By Death” un pezzo folk ?”, oppure, molto più realisticamente, ci si mette in contatto con chi ne detiene i diritti e si paga un tot per ottenere l’autorizzazione ? In quest’ultimo caso fatecelo sapere, magari ci possiamo impegnare a comprare il cd se non altro per farvi rientrare delle spese sostenute ... G.P. - Lemmy ha sempre il telefono di casa fuori posto… E.N. - Invece Ozzy mi aspetta sotto casa con un bastone in mano. In realtà è questione che riguarda gli editori. C.S. - Qualcuno sostiene che il nostro disco sia un suicidio discografico. Io non la penso cosi. L’altro giorno fantasticavo sulla destinazione dei soldi dei diritti d’autore. Tipo: James Hetfield che compra un biglietto del concerto degli One Direction a sua figlia adolescente. In Your Eyes: Tre domande per ciascuno di voi : 1) Qual è stato il primo disco metal che avete ascoltato ? G.P. - Seventh son of a Seventh son - 1988 E.N. - 1987, registrati su cassette Maxwell lo stesso giorno : “Piece Of Mind” (Iron Maiden), “Seventh Star” (Black Sabbath) e “Hysterya” (Def Leppard). Ma se ci ripenso avevo 16 già comprato “Slippery When Wet” di Bon Jovi, un discone. C.S. – “Awake” dei Dream Theater. In Your Eyes: 2) Qual’è invece quello preferito in assoluto ? G.P. - Che difficoltà’ immane … direi “The Keepers Of The Seven Keys pt.2” degli Helloween … ma la scelta e’ difficilissima!!! E.N. - Variabile. “Rage For Order” dei Queensryche, o “Piece Of Mind” degli Iron, hanno occupato il podio per più tempo. C.S. – “Remedy Lane” dei Pain of Salvation. In Your Eyes: 3) Qual è il brano che via ha maggiormente soddisfatto per la sua riuscita in Popscotch? G.P. - I Want Out sicuramente ... seguito da Battery … e tutti gli altri ... ah ah!!! … E.N. - Posso dirne 11? C.S. - La nostra versione di Killed By Death dei Motorhead. E pensare che altri non volevano neanche includerla nel disco! Sperando che ci sia qualche promoter lungimirante che ci consenta di vedere i Driving Mrs.Satan all’opera nella (non sempre) ridente Liguria; in tal caso noi di In Your Eyes saremo i primi a supportarli. Stefano Cavanna VARAZZERS. © Varazzers Varazzers. nasce nel 2013 come pagina pubblica di Facebook per aggiornare il pubblico giovane su cosa succede in Riviera, tramite post fotografici e PRaggio di eventi locali. Panorama dal Santuario Madonna della Guardia La nostra presenza sul web si sta allargando con un sito web (ancora in allestimento) su cui trovare info su eventi, locali ecc. Varazze Bici Festival - maggio 2013 Seguici su Facebook & Instagram 17 Foto dall’evento skate OTW 2013 che si tiene a Varazze ogni primavera. 18 Fanzine,Anni Novanta Vi inoltro questo scritto pubblicato su Cagnara, fanzine nata negli anni 90 e che ora vive su Facebook. Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo su Non Ce N'é, la fanzine che facevo negli anni 90 assieme a Luca. é un po come fare mente locale sul passato, su tante avventure ed l'abc della mia formazione... buona lettura. MEMORIA DI CARTA...... Cagnara (Facebook), oggi ha incontrato Fabio Battistetti che a noi fanzinari di lunga data suscita un bel po' di ricordi legati al periodo cosiddetto cartaceo... quello per intenderci che va dagli anni ottanta ai novanta... quello dove il postino portava le buste con le fanzine, quello dove si facevano gli stand ai concerti in qualche locale sperduto in luoghi non ben precisati, quello della macchina da scrivere, della coccoina... insomma un mondo molto meno tecnologico di adesso ma forse più sincero.... Questo è quanto ci ha raccontato il buon Fabio sul suo periodo fanzinaro..... A pensarci ora vi vien da sorridere… Per tanti motivi, fare una fanzine è stata per me un'esperienza formativa, sociale, comunicativa oltre che musicale. Era il 1993, frequentavo il liceo ed al secondo anno mi ritrovai un nuovo compagno di banco (Luca) col quale iniziammo a scoprire musiche diverse dalle solite propinate da radio e riviste musicali (che principalmente erano heavy metal e simili). Il nostro percorso di scoperta fu molto rapido, il punk rock ci rapì per l'immediatezza e l'urgenza (di comunicare): quello fu il primo input. Fummo aiutati dal fatto che in città, a Torino, trasmetteva l'emittente libera, Radio Blackout che di punk e musiche alternative ne era un po' la voce ed essendo una radio autoprodotta il contatto con essa poteva essere semplice. C'era una trasmissione che oltre a far ascoltare le ultime novità del punk/hardcore ed i “classici” del genere raccontava di fanzine straniere e non, il conduttore era Andrea Pomini, fanzinaro anch'esso con Abbestia. Lo contattammo per ordinare proprio delle fanzine (incuriositi dai suoi racconti radiofonici) ed andammo direttamente in radio a ritirare l'ordine scoprendo un piccolo grande mondo che da lì a qualche anno sarebbe stato un punto centrale per noi (in radio ci arrivammo con una nostra trasmissione l’anno successivo). E’ così che iniziammo a divorare pagine fotocopiate di fanzine nostrane e straniere (Maximum Rocknroll e Flipside). Quelle letture ci entusiasmarono e facemmo presto due più due e ci dicemmo: “ora tocca a noi !”. Volevamo anche noi dire la nostra, scrivere di musica ci affascinava e per di più potevamo fare tutto da noi 19 perchè uno dei primi insegnamenti avuti dal punk, è l'autoprodursi, far da se, senza chiedere ad altri o delegare e nel caso di una fanzine non ci voleva poi così tanto per farla. In parallelo, in quegli anni, grazie a Luca iniziai a frequentare intensamente l'annuale Fiera del Libro per la passione della lettura e per scorgere un po' del mondo dell'editoria che in un modo del tutto rudimentale noi prendemmo a modello per il nostro piccolo progetto cartaceo. Non avevamo i mezzi dell’editoria, ma in fondo non servivano ed interessavano per il nostro scopo: il punk ed il do it yourself ci offriva il contesto ed i mezzi di produzione. Il taglia ed incolla non è stato inventato con il sistema operativo dei computer, era ed è qualcosa di fisico da farsi con forbici e colla, ed era forse una delle ultime azioni nella produzione di una fanza, prima occorreva 20 scrivere ! Il nome Non Ce N’è lo decidemmo dopo alcuni tentativi prendendo spunto dal titolo di un brano di un gruppo locale, i Church Of Violence. I contenuti nascevano dall’urgenza di dire la nostra, raccontare e far conoscere, musiche, gruppi, situazioni e compagnie bella. Le sorgenti su cui scrivere arrivavano un po’ dai nostri ascolti musicali che in quel periodo erano in piena esplorazione / scoperta e dagli amici di penna (fanzinari, appassionati come noi, etc.), tanto che una caratteristica di Non Ce N’è è sempre stata quella di avere contributi da persone esterne. Ad esempio, nel primo numero un ragazzo di Saluzzo scrisse un articolo sui Germs (lui stesso di lì a poco iniziò la fanzine Bestial Devotion). Usavamo un software di scrittura per computer (DOS) che girava su un floppy disk (di cui conservo ancora una copia con i testi prodotti) ed una volta che avevamo pronti gli scritti li stampavamo per poi passare alla fase calda della produzione: con forbici e colla alla mano assemblavamo le pagine. I primi numeri furono stampati in ciclostile grazie al padre di Luca, ed il ciclostile era un buon metodo (per velocità e qualità) e ci permise anche di avere la copertina stampata in azzurro mentre il resto delle pagine erano in nero. In quel momento storico, avere fuori un numero di una fanzine, significava aprire la porta su un mondo di contatti, nuovi amici di penna e difatti fu proprio così. I primi due numeri furono il frutto dell’urgenza a livello di contenuti forse non erano il massimo, seppur rappresentino parecchio il nostro intento, dal terzo in poi iniziammo a lavorare in maniera più definita rispetto alla composizione ed alla re- dazione, dandogli una caratteristica precisa, dando importanza primaria alle recensioni di dischi e fanzine ed alle opinioni personali (columns, qui era chiara l’influenza dalle fanzine americane). In parallelo avevamo anche dato vita all’etichetta discografica Non Ce N’è Records producendo il 7” (il fantomatico 45 giri) diviso a metà tra i torinesi Boyz Nex’ Door e gli spezzini Manges. All’epoca del quarto numero della fanzine, pubblicammo la fanza in 500 copie allegando la seconda uscita dell’etichetta, il 7” dei torinesi Killer Klown. Se la mente non mi tradisce, quello fu anche l’ultimo numero firmato da me e Luca assieme, perché dopo questo lui decise di dedicarsi maggiormente all’etichetta ed in seguito partì con un nuova fanzine, Gabba Gabba Hey (più orientata sul garage ed il punk rock come temi musicali), mentre io volevo orientare la fanza verso uno sguardo più amplio sul 21 mondo musicale underground (chiaramente in base ai miei gusti). Non Ce N’è Records sotto la guida di Luca è andata avanti per un bel po’ producendo altri dischi per Killer Klown, Manges ed altri gruppi, prima di cambiare nome in Mad Driver, arrivando a produrre anche gruppi stranieri (Spider Babies, Coyote Men…). Io ho dedicato maggiori sforzi alla fanzine curandone la relativa distribuzione di fanze e dischi che era nata come conseguenza dello scambio di NCN con altro materiale. All’interno della scena DIY, lo scambio è sempre stato il modo migliore per far veicolare il materiale, era una specie di rete internazionale di supporto che andava anche oltre, organizzando concerti. Anche noi ne facevano parte e ci siamo anche dedicati ad organizzare concerti a Torino per un po’ di anni, già dai tempi della fondazione della fanza, il primo fu nel novembre del 1994 ad El Paso per i Soundblast di Ravenna ed gli Slowo dalla Polonia, i primi si erano da poco autoprodotti il primo 7” che ci aveva entusiasmato tanto da decidere di dargli una mano per un concerto in città. In molte di queste situazioni si creavano amicizie e situazioni di scambio “umano” ed in fondo era quello il succo di tutto: condividere umanità. Il tema della condivisione, l’ho imparato lì ed è una cosa che ho ritrovato su altre vie a proposito di copyright e software e tuttora è un leit motiv per quanto riguarda il 22 mio agire in ogni campo. La conseguenza di avere una distribuzione ed il condividere le esperienze di cui sopra mi portò a creare una piccola etichetta discografica, Neghenè (non ce n’è in dialetto ligure-spezzino, suggeritami dai Manges) con la quale co-produssi (assieme ad altre etichette) dischi di gruppi ai quali sentivo di voler dare il mio supporto, ricordo il 7” dei Rudimenti, quello degli Arsenico, quello dei Bombardini, una cassetta dal vivo dei Manges, il cd dei Panico ed altri. NCN come fanzine ha proseguito le pubblicazioni sino al 2000/1 assumendo un layout sempre più curato ed arrivando al numero 9 in un’uscita split con la fanzine: La Piccola Meraviglia. Nove numeri in 7 anni erano forse pochi, ma i tempi di produzione e distribuzione erano abbastanza lunghi, avevo la volontà di dare maggiore continuità per fornire informazioni fresche, ma non ci riuscivo più di tanto. Dopo aver esaurito le risorse per quel progetto, ne misi subito in cantiere uno nuovo: una fanzine dal formato più piccolo (non più l’A5 di Non Ce N’è, ma bensì uno che era la metà), una sorta di diario tascabile, impostato sulle opinioni e con temi musicali più freschi (anche qui frutto dei miei gusti diversificati del periodo). Il nuovo progetto si chiamava La Mini e ne feci 4 numeri stampati per poi passare al web/blog; la frequenza di uscita era più rapida rispetto a NCN e si basava su una redazione a più voci e con contributi esterni anche per l’impaginazione, i primi tre numeri furono curati in parte o in todo da Alessandro Baronciani. In base a questa linea, l’evoluzione quasi naturale visti i mezzi in ballo fu quella di trasformarla in un blog (che è ancora online) con l’intento di proseguire il tema della scrittura condivisa, andando avanti sino al 2004/5 quando lentamente il tutto iniziò a sfumare via. Da quel momento partono altre storie di vita che non hanno apparentemente nulla in comune con una fanzine, se non le esperienze umane condotte, che hanno avuto influenze su di me ancora per parecchio. Sul web c’è (ma non più è aggiornata) una pagina dedicata alla Mini e con rimandi a Non Ce N’è. 23 Francesco Orazzini,artista visivo, perde la maggior parte del suo tempo a perdere capelli per colpa delle burocrazie. Produce di continuo roba oscura, ed e’ diviso in due parti:una e’ persuasa che siamo una completa massa di imbecilli, l’altra ci vede come meravigliose creature. sito: www.Francesco-Orazzini.com email: [email protected] 24 25 26 27 28 29 30 Tame Impala LIVE IYEzine è stata al Mojotic festival di Sestri Levante (località della nostra beneamata riviera ligure di levante, per chi non lo sapesse, spero nessuno), per seguire il concerto dei Tame Impala, il 13 Agosto, grande appuntamento per questa edizione 2013, dopo gli eventi che hanno visto protagonisti i Baustelle, Daughter, Willy Mason, Adam Green, e la Shhh! Silent Disco. Vorrei innanzitutto spendere due parole per il festival nel suo complesso, che ha ormai raggiunto una certa dimensione e una sua stabilità nel panorama rivierasco, ed è ormai una delle migliori iniziative che contribuiscono a rendere davvero viva e giovane la riviera, iniziative di cui purtroppo a mia memoria essa è sempre stata abbastanza povera, vuoi ad esempio per il mancato appoggio dei comuni o sponsor, le proteste di una popolazione avanti negli anni, la mentalità di chiusura ligure e la volontà di limitare al meno possibile le “grane”, perchè tanto i turisti in riviera ci vengono lo stesso, e siccome non sono perlopiù giovani non interessa promuovere certe iniziative. Presentatavi la situazione, ecco dunque che il nostro Mojotic si erge e splende come una luce di speranza, che possa continuare e magari anche ingrandirsi sempre di più in futuro. Perchè l’organizzazione è buona, c’è gente che ha voglia di fare bene e far divertire il pubblico, mettendo tutti d’accordo ed evitando i contrasti e le polemiche che altri eventi come la storica e tanto chiacchierata “hanoa hanoa” hanno generato negli ultimi anni, perché le location scelte si prestano molto bene, il pubblico è educato e la proposta vincente. Questa quinta edizione segna inoltre una netta crescita, un salto di qualità, rispetto alle precedenti edizioni, per le dimensioni e la portata degli eventi proposti. Ancora un piccolo commento sulla location, perché è davvero incantevole...ci sono stato non so quante volte, ma ad ogni nuova occasione in cui mi trovo lì non posso fare a meno di provare la stessa emozione...sto parlando della Baia del Silenzio, in fondo alla quale si trova l’ex convento dell’Annunziata. Una location perfetta per eventi di medio-piccola grandezza, nel cui cortile interno con terrazza rialzata sul mare, è stato allestito il palco. È impossibile a mio giudizio arrivare lì e non innamorarsi del posto, come ha più o meno detto lo stesso frontman della giovane band australiana, affermando sicuramente con un po’ di adulazione, ma anche con un po’ di sincerità a parer mio, che per loro è uno dei posti più belli al mondo, e che è stato bellissimo poter trascorrere la giornata al mare e suonare lì accanto la sera... 31 Ma veniamo al concerto, scusate se mi sono dilungato, ma ci tenevo a parlarvi di queste sensazioni che quella zona mi evoca, dovute ai tanti ricordi dei mesi estivi trascorsi da quelle parti... Per non sembrare un po’ ipercritico ad alcuni strenui difensori della band, ci tengo a dire che i dischi dei Tame Impala mi sono piaciuti molto molto, sia “InnerSpeaker” che “Lonerism”, inseriti anche nella mia toplist dei dischi del 2010 e 2012. Secondo me gli australiani sono davvero meritevoli, perchè riescono bene a coniugare tutto il filone dell’hypnagogic pop e gli appetiti indie del giovane pubblico, con una ricerca sonora molto radicata nel rock psichedelico (tant’è vero che prima dei Tame Impala, o meglio 32 prima di “InnerSpeaker”, Parker & soci erano cresciuti nella lontana Australia a pane e psichedelia seventies). Però a seguito della loro esibizione non posso certo dire che la giovane band si collochi nella mia toplist dei concerti dal vivo... Direi che i Tame Impala si prendono una piena e meritata sufficienza, ma non troppo di più: è innegabile che hanno dei suoni davvero particolari e fanno un tipo di musica che a me piace molto, così affondata nella psichedelia e costituita da un muro sonoro di synth e chitarre, contaminata da un’influenza pop sempre più marcata. Purtroppo nel complesso la performance ha avuto, secondo me, alcune carenze, un pochino troppo evidenti per una band che ormai stà passando dallo status di gruppo emergente a quello di gruppo di prima fascia, riassumibili se vogliamo in tre “pecche”, che hanno un po’ macchiato una altrimenti grande performance. Innanzitutto, eccetto vari momenti davvero molto buoni e coinvolgenti, ad un timido Kevin Parker e alla sua band è mancata secondo me un pochino di presenza scenica; nella mia aspettativa (ma forse questa cosa è legata alla mia personale aspettativa che mi ha un po’ fregato) una band del genere avrebbe potuto avere un maggiore impatto espressivo: il pubblico era caldo e la performance ottimamente accompagnata da splendidi visuals psichedelici, e mentre in alcuni pezzi i ragazzi ci hanno davvero messo del loro, creando un suono avvolgente, prolungando e variando il brano, in altri è sembrato quasi che i brani venissero riprodotti in maniera un po’ più “impersonale”. Inoltre, la legge dice che dal vivo non si scappa, cari miei, si vedono sia l’estro e le doti dei musicisti ma anche vengono fuori i punti deboli... così emerge purtroppo che la voce di Kevin Parker è troppo carente, a volte è sembrato quasi non farcela, in particolar modo in Feels Like We Only Go Backwards, una delle tracce più attese e rivelatasi la peggiore della scaletta. Però la cosa mi lascia alquanto perplesso, perché riascoltando la discografia, le prime ottime prove (i demos e il loro primo EP) erano caratterizzate da un suono e una voce più potente, con una psichedelia più vicina al rock e meno al pop, rispetto ai recenti sviluppi, dove all’ammorbidirsi del suono, più colorato e con più attenzione alla narrativa, si è ammorbidita anche la voce, divenuta quasi femminile, che dal vivo è risultata in affanno e comunque non all’altezza dell’espressività della musica. In ultimo, per riassumere e chiudere un po’ queste considerazioni, che per inciso nulla vogliono togliere al valore della band australiana, mi trovo costretto ad affermare che i Tame Impala rendono meglio su disco, dove il “labor limae” di produzione riesce a rendere il suono più pulito e avvolgente, mentre per loro c’è ancora da lavorare per rendere le esibizioni dal vivo all’altezza delle loro ottime e particolari produzioni. I Tame Impala hanno scelto per l’esibizione una continua alternanza tra i brani di Lonerism e InnerSpeaker, saltando di qua e di là tra l’album di debutto, di passaggio da rock psichedelico a pop ipnagogico, dove queste caratteristiche convivono in maniera molto interessante, e Lonerism, che segna una svolta più netta in direzione pop. Il concerto si apre sulle note di Why Won’t You Make Your Mind, da “InnerSpeaker”, seguita immediatamente da Music To Walk Home By. Un buon inizio, e l’alternanza procede con Mind Mischief – Solitude Is 33 Bliss, la prima più leggera e colorata, la seconda più potente con le sue scariche di chitarre distorte, e in seguito troviamo una buona Keep On Lying. La sensazione è che con il binomio Half Glass Full Of Wine e Elephant, in successione, avvicinandoci alla metà del concerto, la band da Perth si spari le proprie cartucce migliori. Questo binomio costituisce il momento più coinvolgente della serata, dove si vedeva tutto il pubblico davvero trascinato dai ritmi più veloci, distorsioni potenti e cascate di synth, soprattutto nella lunga e bellissima Half Glass Full Of Wine, il pezzo più roccioso della serata, in cui la progressione in climax culmina in estatiche cascate di synth. Questo pezzo, un vero e proprio cavallo di battaglia, addirittura risale al self-titled EP d’esordio di cui abbiamo parlato poco fa, ed è stato quasi sempre inserito nei concerti, perchè è una vera bomba. Quanto a Elephant invece, è un coinvolgente ed incalzante concentrato d’energia che entra nella testa e non può non far muovere il pubblico. Con la successiva Be Above It viene fuori anche un po’ di elettronica, in un ottimo connubio con la psichedelia pop, un viaggione, dove su un ritmo incalzante si innestano tappeti di synth e successive piccole esplosioni. In seguito i Tame Impala vogliono decomprimere un po’ l’ambiente, con un lungo interludio 34 strumentale in cui vengono fuori gli Air ed altre influenze più propriamente dream pop. Della deludente Feels Like We Only Go Backwards abbiamo già parlato, perciò saltiamo a Desire Be Desire Go, altro pezzo ormai storico e sempre bello della band. Ci avviamo verso la conclusione, e troviamo ancora l’accoppiata formata dalle coloratissime Alter Ego e Apocalypse Dreams. Come da ormai inscalzabile abitudine, la band esce sapendo già che verrà presto richiamata sul palco, perchè il pubblico è assetato e francamente una performance da un’ora e un quarto sembra pochino agli occhi di tutti, perciò si prosegue per un’altra ventina di minuti con due brani riservati alla chiusura ancora estratti da InnerSpeaker, ovvero It Is Not Meant To Be e Nothing That Has Happened Has Been Anything We Could Control. In conclusione, mi sento di fare i miei complimenti ai Tame Impala perchè sono un gruppo promettente e con delle ottime idee, e di fare un plauso e un incitamento a continuare così agli organizzatori, perché non è così frequente dalle nostre parti vedere eventi del genere, perciò un arrivederci a presto al Mojotic Festival! Davide Siri Adriano VII Frederick Rolfe Di Gianluca Camogli Letterariamente parlando, mi ero innamorato del pretino Julien Sorel , così come mi ero appassionato della vicissitudini di Narciso e Boccadoro. Non poteva quindi non entusiasmarmi questo affresco storico di Frederick Rolfe, ambientato nei primi del ‘900 in un Europa in piena trasformazione geopolitica e culturale, che racconta la bizzarra storia di George Arthur Rose. Da prete esiliato a Papa, quasi per scherzo. Dai ai margini della scena ad attore principale, con in più la capacità intellettuale per rivoluzionare il sistema dall’interno. Gli oppositori vengono ribaltati all’angolo secondo uno schema che ricorda una partita a scacchi. Le azioni dell’avversario sono state previste tutte: ignaro di essere manovrato e condizionato nella scelte delle mosse, pensa che queste siano opera e volontà propria, e non si accorge che sono il risultato di un ragionamento fine e astuto, che limita gli spazi di manovra secondo uno schema predefinito. Solo possedendo acume si riesce ad insultare e a criticare con eleganza chi ti rivolge accuse infondate, e allora “la voce del serpente e la voce dell’oca sono una sola e unica voce”. Ma questa intelligenza genera anche sofferenza nell’animo, alienazione, inquietudine nell’essere emarginato a causa di una condizione di superiorità che eleva rispetto agli “innumerevoli branchi di cuccioli mal leccati e di mediocri ignoranti” ma isola. La mediocrità infatti accomuna i molti, che nella loro condizione non si pongono domande e nella loro ignoranza temono chi sa di più: la paura si trasforma in cattiveria, a tal punto da far chiedere a George di voler “essere onesto e semplice invece di sottile e complicato” per poter sfuggire alle pene che gli altri gli arrecano. Adriano VII è un libro che consiglio a chi a voglia di essere stimolato nelle riflessioni e che non vuole solo lasciarsi coinvolgere da una storia, dato che sono diversi i temi trattati. Primo su tutti la rivoluzione ideologica della Chiesa e del pensiero collettivo verso di questa. In periodo di rivoluzione, ad un cardinale che si lamenta della scarsa sicurezza nell’uscire per le strade Adriano VII, che ha già cominciato il 35 processo di trasformazione, semplicemente risponde che “la Chiesa ha grande bisogno di un martire”, e che si tratta sempre di inviti e mai di imposizioni. La Chiesa è troppo distante dalle persone. Il nuovo Papa decide inoltre di vendere i beni della Chiesa per rifondarne la spiritualità e l’immagine, ma allo stesso tempo distogliere le attenzioni mediatiche da vicissitudini personali precedenti alla sua nomina. di un secolo, per questi e altri aspetti risulta estremamente attuale, con riferimenti che possono aprire parentesi nel mondo moderno. Sembra una conferma del la “teoria dei corsi e dei ricorsi storici” di Giambattista Vico. Quante analogie con la situazione attuale, con lo IOR, con l’abdicazione di Benedetto XVI e alla elezione di Francesco I. Altro tema che accompagna il libro è quello del giornalismo commerciale: non mancano velate critiche al sistema di diffusione delle notizie, che troppo spesso sceglie solo in base alla pessima morale del numero di copie vendute. La veridicità delle notizie non è più così importante, perché “l’appetito del pubblico è capriccioso” e “bisogna tentarlo con esche variate”, “se le trote sono stanche di zanzare, bisogna provare con le mosche”. Anche in questo caso quante analogie con la disinformazione odierna, con l’abilità di modificare la comunicazione di certe notizie, con il conflitto di interessi per eccellenza, col problema di un giornalismo scarsamente indipendente. Nonostante questo libro abbia più 36 Un libro avvincente, imperniato su un personaggio che si potrebbe definire rivoluzionario, intrigante, parzialmente scorretto per un fine superiore e in grado di catturare la nostra simpatia. Quando arriverete alla fine di questa storia, Adriano VII e la sua stravagante personalità vi saranno stati talmente di compagnia che vi mancheranno. Simone Sarasso Il Paese Che Amo di Massimo Argo Terzo volume della trilogia di Simone Sarasso, cominciata con “Confine di Stato” del 2007, proseguita con “Settanta” ed infine compiuta con questo libro. Sarasso in questa trilogia tratta dei peggiori 40 anni di storia italiana, dall’omicidio di Wilma Montesi del 1953 fino al 1994, anche se la cronologia non è strettamente aderente. L’autore sviluppa un proprio universo di personaggi che potrebbero essere riconosciuti come persone reali, ma gli sviluppi narrativi di queste opere non sono rintracciabili nella realtà. Seguendo l’esempio di Ellroy nella sua trilogia su Kennedy, Simone costruisce un universo altamente verosimile e probabile, ma che non è quello che conosciamo noi. Certamente, e purtroppo mi viene da dire, un personaggio come Andrea Sterling è esistito in Italia, e si potrebbero paragonare i personaggi della saga a quelli reali, ma questo non è l’obiettivo dell’autore. Lo scopo di Sarasso, e potrei venire clamorosamente smentito, è quello di far capire attraverso romanzi narrati e sceneggiati come dei film, i meccanismi nascosti dietro 40 anni di storia tricolore. L’autore ha studiato a fondo la materia, e vuole portare a galla le congiunture, i piccoli fatti, le storie personali che stanno dietro a questi avvenimenti. In tutti i libri ci sono elementi di noir, di giallo e di storia, ma soprattutto una grande sapienza nel trattare i caratteri umani, tratteggiando nel migliore dei modi possibili le parabole esistenziali dei protagonisti e facendoci capire che la storia l’hanno vinta e scritta i peggiori. In questo terzo ed ultimo libro della trilogia si può osservare la crescita di Sarasso in termini di scrittura, mentre tratteggia le pennellate finali di un grande affresco, fosco e cattivo. L’Italia ivi descritta è la nostra patria, stuprata in più maniere da tanti bruttimbusti, ma sempre per gli stessi motivi, primi fra tutti l’anticomunismo, come è ben testimoniato dall’accendino Zippo del Mago, oggetto che sarà molto importante in qeusta vicenda. Ne Il Paese Che Amo già dal titolo dovreste aver capito dove vuole condurvi l’autore, anche perché l’arco di tempo trattato è molto prossimo ai giorni nostri, anzi è ancora la maggiore influenza di questi nostri miseri tempi. In quest’occasione capirete come tutte le cose che avvengono in Italia non siano affatto un caso, ma c’è sempre un disegno, una ragione occulta, poiché questo paese è il paese della nebbia per eccellenza. Se pensate che questa nostra Italia possa anche aver avuto una seppur remota innocenza leggendo Sarasso vi accorgerete che le cose 37 vanno molto peggio di quanto possiate aver mai creduto. La trilogia è costruita molto bene, praticamente sono tre film, l’ultimo dei quali è sicuramente il più maturo, e dentro al Il Paese Che Amo potete trovare una grande rabbia, una delusione ed un impegno a non scordare chi ha lasciato sull’asfalto la propria vita e i propri sogni, Piazza Fontana, Piazza Della Loggia, Bologna, Ustica... Sarasso si rivela un grande scrittore storico, come possono dimostrare i suoi romanzi “Invictus. Costantino Imperatore Guerriero” e “Colosseum. Arena Di Sangue”. Qui il romanzo riprende la sua valenza civile, di scrittura come responsabilità e memoria, per far sì che in Italia ci siano meno smemorati, in un paese dove dimenticare è il primo valore. Lettura altamente consigliata, la trilogia crea dipendenza ma sono tre acquisti di cui non vi pentirete, preparando però il fegato al nervoso. Consiglio caldamente anche dell’autore la graphic novel “United We Stand” che traccia un possibile tragico futuro per l’Italia. Sarasso inquieta e fa ricordare, affermandosi come uno dei migliori scrittori italiani apparsi negli ultimi anni. INTERVISTA Dopo aver recensito Il Paese Che Amo, opera ultima di Simone Sarasso, ecco l’intervista che va ad aggiungersi a un graditissimo 38 regalo che Simone ha fatto ai nostri lettori : in esclusiva, siamo molto onorati di poter pubblicare, nella sezione “articoli” la postfazione del libro, che è una vera e propria confessione dello scrittore . Solo per i vostri occhi. iye: Raccontaci la genesi della Trilogia. La Trilogia Sporca dell’Italia nasce da un’amalgama di urgenza civile e bisogno di frugare, attraverso la narrativa, nel ventre molle del Paese, nei suoi meandri oscuri. La Trilogia accende la luce nella polverosa Stanza dei Bottoni, fa scappare i bacherozzi dal tappeto della Storia. iye Quali sono stati i tuoi scrittori di riferimento per questi libri? De Cataldo, Carlotto, Evangelisti, Genna, Wu Ming, Bertante e Lucarelli sul fronte italiano. Winslow, Duncan e James Ellroy su quello statunitense. iye: Hai timore che il senso di questi libri non venga compreso? Uno scrittore non è uno storico, non pretende di raccontare la verità. Si limita, quando si occupa di narrazione civile, a tenere in vita la fiammella della memoria, così debole nel Paese che amo. iye:Chi sceglieresti come regista di eventuali film per questi libri? Robert Rodriguez. Senza alcun dubbio. iye: L’Italia che tu descrivi è stata la peggiore, o stiamo grattando ora il fondo del barile? Ho motivo di credere che sotto il fondo del barile ci sia altra melma. iye: Dato che siamo una webzine musicale, devo farti questa domanda: quali sono i tuoi ascolti preferiti? Sono visceralmente legato al punk degli anni Novanta. E alle sue derivazioni più o meno contemporanee. Ascolto ossessivamente Less Than Jake, Rancid, Green Day e Dropkick Murphys. iye : Tornerai in campo fumettis- tico dopo l’incredibile “United We Stand”? Al momento non c’è nulla in programma a breve termine, ma in futuro chissà. Io e Daniele Rudoni lavoriamo da parecchi anni a un progetto top secret in lingua inglese che prima o poi, ne sono convinto, approderà sugli scaffali. Grazie mille Simone per la tua disponibilità e per portarci là dove l’ Italia non può essere lavata. POSTAFAZIONE IN ESCLUSIVA PER IYEZINE È stata una lunga cavalcata: quasi dieci anni di lavoro forsennato. Quando ho iniziato a scrivere la Trilogia Sporca dell’Italia, non avevo idea che sarebbe stata una trilogia. Immaginavo, mettendo in fila le false piste, i fatti loschi e buchi neri della Storia, un grande romanzo sulla prima Repubblica, sull’Italia peggiore, dal dopoguerra a Tangentopoli. Presto mi sono reso conto che un romanzo solo non sarebbe bastato, neppure per descrivere il marcio d’un paio di decenni. Così mi sono messo in cammino, ho pigiato sui tasti, trascorso ore nelle emeroteche e nelle biblioteche, intervistato testimoni oculari, tessuto trame, dato vita a personaggi. Dell’intero trittico, IL PAESE CHE AMO è stato il libro più difficile da scrivere. Perché, degli avvenimenti che narro, ho memoria cruda e viva. 39 È l’Italia in cui sono cresciuto, in cui, bambino, ho imparato a leggere e scrivere, far di conto e sognare. L’Italia che mi ha deluso, l’Italia che non riesco a smettere di amare. Quando è venuto il momento di raccontarla, ancora una volta, mi sono trovato di fronte a un bivio: dire la verità era impossibile, ma trasfigurarla senza criterio sarebbe stato ingiusto. Ho fatto delle scelte, ho corso dei rischi. Ho fatto quello per cui sono venuto al mondo e per cui mi pagano: ho mentito. Sperando di raccontare almeno un frammento, una scaglia lucente di verità. Come già mi trovai a scrivere, riguardo a Settanta: quella che avete appena finito di leggere è una storia di finzione. Niente, in questa storia, è reale. Verosimile, forse, ma reale no. Non sono reali i personaggi, né le cose che accadono. Molti avvenimenti ricordano la storia mondiale degli anni Ottanta e Novanta. Nessuno di essi ha la benché minima credibilità storiografica. Semplicemente perché l’Italia, l’Europa e l’America che descrivo in questo romanzo non coincidono del tutto con il mondo in cui sono diventato grande. Il Paese Che Amo è, sotto molti aspetti, un Paese fittizio. In un certo senso, un non-luogo. Valerio Evangelisti alcuni anni fa mise in coda al suo romanzo più bello, Noi saremo tutto, una nota 40 bibliografica che iniziava così: Sebbene questo romanzo non abbia pretese storiografiche, il contesto della vicenda è frutto di ricerche piuttosto accurate. Le sue parole, come valevano per Settanta e Confine di Stato, valgono anche per questo lavoro. Il Paese Che Amo è, prima di tutto, fiction. Non c’è la Storia “pura”, qua dentro: piuttosto un’inestricabile mescolanza di Storia e finzione. Nessuno dei miei protagonisti è reale. Anche se molti di loro assomigliano a personaggi storici, nessuno di loro è identificabile con il proprio corrispettivo. Tanto per essere chiari: Tito Cobra non è Bettino Craxi, Ljuba Marekovna non è Ilona Staller né Moana Pozzi, Carlo Ciaccia non è Giovanni Falcone né Paolo Borsellino, l’Omino non è Giulio Andreotti e Domenico Incatenato, l’avrete capito, non è Antonio Di Pietro. La non identificazione è valida per molti altri protagonisti minori. Praticamente per tutti i personaggi del libro. Esplicitare questa differenza, questa non identità tra Storia e fiction, tra personaggio storico e character, non significa semplicemente pararsi il culo da eventuali querele per diffamazione. Questo testo non è un disclaimer. Un’implicita deresponsabilizzazione del mio testo. Questo scritto è qualcos’altro. Un tentativo concreto di dar conto del modo in cui lavoro. Quando ho scelto di far morire il papa nell’attentato in Piazza San Pietro, o di mettere John Wayne alla Casa Bianca, non volevo soltanto scioccare il lettore con una narrazione ucronica à la Robert Harris. Mi interessava proporre un punto di vista altro sulla Storia. In particolare, sulla storia del nostro Paese martoriato. Cambiare prospettiva, lasciarsi sorprendere dall’immaginazione, è un tentativo di stravolgere il noto per tentare di leggere in profondità le questioni che la storiografia e la giurisprudenza lasciano spalancate. Non è compito di scrive romanzi raccontare la verità. Ma è compito di chi sceglie di prendersi cura della memoria non lasciarla appassire. Stimolare, con l’invenzione, la riflessione periodica sul Paese deteriore, sul suo lato oscuro. Per fare ciò, per non lasciare che il passato si sfaldi, occorre studiarlo a fondo. Durante la stesura del romanzo, sono moltissimi i libri che mi hanno influenzato, ma ve ne sono alcuni, senza i quali questa storia non avrebbe lo stesso sapore. Surf ers of Varazze ® www.surfvarazze.it 41 RECENSIONI FOUR TET “0181” Text Four Tet torna a sorpresa, con un bel regalo: una compilation in free download di rarità composte da parte del genio Kieran Hebden tra 1997 e 2001, gli inizi della sua carriera, ma il sound è già maturo, ed è un mix di elettronica cerebrale e downtempo. Lo avevamo lasciato non molti mesi fa con il suo ultimo album Pink, seguito dagli immancabili EP di remix e compagnia bella. Così, a sorpresa, ora il geniaccio Kieran Hebden in arte Four Tet, se ne esce a metà Gennaio sul suo sito e sul suo soundcloud con una bella novità. Il ragazzo dal faccione sorridente e i capelloni ha deciso di regalarci una bellissima compilation, e noi ringraziamo! Posta il set, unicamente chiamato 0181, un’immagine copertina, mette un link con download gratuito, e nulla più. Non ci sono informazioni sulle tracce contenute in esso, né altro. Sappiamo solo che si tratta di musica prodotta da Four Tet in un arco di tempo compreso tra il 1997 e il 2001, ed assemblata nel 2012 per formare 0181. Una compilation di rarità risalenti ad un periodo vicino agli inizi della 42 carriera di Four Tet, e anche prima: nel 1997 Hebden aveva solo 19 anni e il suo esordio con questo pseudonimo, destinato a recitare un ruolo fondamentale nella musica elettronica “intelligente” negli anni a venire, risale all’anno successivo, il ‘98, con l’EP “Thirtysixtwentyfive” a cui seguirà l’album “Dialogue” nel ‘99. Siamo dunque proprio agli albori della sua carriera, e il sound di questa compilation possiamo definirlo tranquillamente già maturo e di stampo marcatamente “Hebdiano”, perchè sono già riconoscibili le strutture e le sonorità che hanno fatto grande la sua musica. Il Four Tet delle origini non può che essere già votato all’elettronica cerebrale e a strutture che saranno sviluppate appieno nel proseguo della sua carriera (soprattutto tra i minuti 8 e 13), ma le rarità di 0181 evidenziano come questo orientamento si manifesti solo in maniera marginale, mostrandoci invece un Hebden che guarda maggiormente alla musica più tradizionalmente downtempo, caratterizzata da ritmi-atmosferebattute più rallentate, delicate, cadenzate, con spunti jazzistici (minuto 20) o chitarristici. Nel complesso siamo già su alti livelli, non pensiate che si tratti di scarti o di materiale di poco conto! Potete trovare il set, che si estende per 38 minuti e spiccioli, sul suo Soundcloud o su iTunes, nell’attesa anche della già annunciata uscita su vinile che farà felici gli appassionati. Sarà stata la solita operazione di marketing monta-hype? A dire il vero non mi interessa, qui c’è dell’ottima musica che possiamo goderci liberamente, quindi enjoy! Davide Siri GLI ALTRI “Fondamenta Strutture Argine” Taxi Driver/Dreamin Gorilla/ QSQDR/Savona Sotterranea/Rude/ Bus Stop Per chi negli anni novanta ha sudato, pogato sotto il palco e gridato in cameretta ascoltando Frammenti, By Any Means, Sottopressione e tanti altri gruppi italiani di hardcore, avete tra le mani il lavoro definitivo, un disco che avreste voluto sentire in quell’epoca. Gli Altri sono un giovane gruppo di Savona, molto talentuoso e picchiano come fabbri. La loro musica è un ponte fra punk ed hardcore, con un gusto fortemente anni novanta. Eppure questi ragazzi ci sono nati nei novanta o giù di lì, non dovrebbero aver sentito certi dischi. Ed invece Gli Altri chiamano a cantare nel loro disco Roberto Ceruti, storico cantante degli Affranti, che a Savona hanno portato avanti per anni l’hardcore, totemici. Questo è l’hardcore, una musica che sfoga la rabbia, che rompe muri, e non ha età, né confini. I testi de Gli Altri sono surreali, grida silenziose su astronavi d’asfalto e merda, poiché l’hardcore racconta la 43 realtà in maniera sfumata, ma può anche essere un macigno. Ci sono gruppi come gli Indigesti, come gli Affanti appunto, che descrivono il nostro mondo in maniera iper reale, accumulando sensazioni ed emozioni in una maniera catartica. Fondamenta Strutture Argine è un disco che crea immagini e fotografie di vita notevoli, ribellioni biologiche, impotenza e disagio quotidiano, perché chi sente male deve gridare. E questo cd gronda di vita e di grida, di voglia di uscire dalla gabbia. A Savona ci sono le gabbie,si chiamano strade, e io devo rendere omaggio a questa città, almeno per quanto riguarda la musica, perché gruppi come Gli Altri, come i Dsa Commando, come gli Uguaglianza (non proprio di Savona), Affranti e Risonanze hanno creato non una scena ma un’urgenza di comunicare, di dire la propria. Questo è un disco fantastico, commovente per come riesce a forgiare un passaggio tra epoche diverse, ma stessa rabbia. Lo senti dall’inizio alla fine, e ci vedi tante facce, tante situazioni, tante lotte. Perché se dei ragazzi fanno dischi come questo, lo mettono in free download, e soprattutto portano avanti una logica DIY e libertà di pensiero, allora l’hardcore non morirà mai. Al di là delle pose e della violenza di certe scene. Gli Altri sono una scelta, che fa chi non vuole rimanere passivo, chi vuol piangere ma anche ridere di fronte ad una pozzanghera nell’ennesima giornata di merda e asfalto. Perché a noi il culo ci rode ancora. 44 Massimo Argo TOKYO SEX DESTRUCTION “Sagittarius” Bcore Disc Dopo tre anni in tour, e dopo diversi cambi di formazione tornano i fantastici Tokyo Sex Destruction, sublimi fautori del Soul Rock. Sagittarius è il disco della loro conferma per chi era ancora scettico. È un’opera che non ti fa mai stare fermo e penso che sia il loro miglior disco di gran lunga. La loro consueta energia qui si sublima, arrivando ad apici mai raggiunti. Sagittarius è la perfetta combinazione tra il soul di Detroit e il latin soul di New York sponda Fania. In tutti gli 11 pezzi i Tokyo sprigionano energia e passione sporca, insomma vera soul music. Chi li ha visti dal vivo sa che sono una macchina da festa, e qui sotto la guida di Fernando Pardo tirano fuori il meglio. Un disco fresco, potente ed additivo. Davvero additivo. Alla sesta prova su lunga distanza, i Tokyo Sex Destruction si confermano nell’olimpo dei gruppi che fanno muovere il culo a signorine e signorini. Mani in alto e via con la festa, il red soul continua !!! Massimo Argo ERIC FUENTES “Copper And Gold” “Dasvidanija” Bcore Disc DreaminGorilla Rec Pianoforte e voce. E a volte una chitarra. Attitudine hardcore e voglia di dimostrare che anche in tempi più o meno moderni si può fare un disco come ai tempi dei crooners. Scrivere una recensione è già più difficile di quel che possa sembrare, tutto si complica poi se nel mirino finisce un gruppo con cui condividi la stessa città d’origine. Voci, note e rumori diventano volti, caratteri e sagome che hai visto calpestare le tue stesse strade per anni. Separare il livello di giudizio dell’ascoltatore nativo dall’ottica in scala nazionale non è semplice, soprattutto se si parla di un gruppo, come iVenus, con cui è difficile condividere spazio vitale senza creare un rapporto emotivo di qualsiasi sorta. Tutto ciò ce lo propone Eric Fuentes, ex dei The Unfinished Sympathy, che dal 1997 ha intrapreso una fruttuosa carriera solista, accompagnato al piano da Bernat Sanchez. Ed è apertamente magia, il feeling di questo album è incredibile, è qualcosa che appare in controluce, un sogno probabilmente. Ascoltando fra le righe, si può ben capire che è un disco fortemente pop, con intrecci sonori e canori alla Prefab Sprout. Altra caratteristica di questo fenomenale disco è la possanza quasi fisica della musica di Eric e Bernat. Il piano è pestato, la voce è calda e vibrante, per un insieme davvero inedito e magnifico. Dal vivo si avranno anche altri musicisti sul palco, come Joan Thelorious dei nostri tanto amati Tokyo Sex Destruction. Passione e ricercatezza, per uno dei dischi più belli della Bcore, che ha un catalogo eccezionale. Massimo Argo IVENUS Attivi sul territorio ligure dall’età della pietra, il loro debutto di un paio di anni fa, Tanz!, sapeva ancora molto di ‘fatto in casa’, ma conteneva già una quantità notevole di singoli irresistibili, che li aveva sbalzati in un tour biennale in cui si sono trovati a condividere il palco con alcuni dei nomi più altisonanti della scena italica. Piacioni, spettinatori ammiccanti e volutamente poco raffinati (anzi, piuttosto tendenti al trash) volano intorno a quel pop più teatrale e rumoroso, supportato però, più di quanto lascino intendere, da un ABC implicito di quanto successo in Italia negli ultimi anni in ambito musicale, dal baby building al che cos’hai tu da brillare tanto e l’occhio nero con la matita blu. Per chi già li conosce, Dasvidanija 45 non cambia troppo le carte in tavola rispetto al passato: si parla sempre di un assetto strumentale dei più classicamente rock, arricchito da una tastiera effettata, pestata con foga, che prende spesso il sopravvento su tutto, lasciandosi piegare solo dai capricci vocali del frontman Cash nella Pelliccia. Tanti riverberi, tanti synth, tanto pop, tanto casino: il rischio di suonare come un vecchio incubo anni ‘80 è sempre dietro l’angolo, ma tutto sembra fatto per far muovere e ballare o quanto meno battere un po’ il piedino. I testi, sorprendentemente arguti, abbozzano ritratti agrodolci di gioie passate o auspicate, disagi e disastri emotivi con picchi di menefottismo notevoli, misantropia e amore globale condividono lo stesso letto. Se un elemento di costanza c’è, è sicuramente la ricerca dell’orecchiabilità più immediata e coinvolgente (una sola eccezione: la title-track, ballata lenta e docile nei suoni, ma non nel testo). Ci sono dei momenti in cui il gruppo ci riesce discretamente bene (la blasfema The great capitombolo, il tripudio di synth di scuola i Cani Settembre, il Fiumani & Dylan Dog di Mangianastri), altri in cui qualche perplessità può essere più che lecita (C’est la vie mon amie, in cui la musica leggera tende a diventare troppo leggera, e Ventricoli, mancante quel qualcosa in più che mantenga viva l’attenzione). Spicca sul resto, scandendo il ritmo 46 generale del disco, l’irresistibile trittico P.O.P, Grazielle e Rembrandt: giocate su ritmi martellanti e ciclici, tutte e tre si scagliano in faccia all’ascoltatore, avvinghiandolo in una presa ermetica da cui è difficile sottrarsi. Per capire del tutto iVenus, probabilmente, bisogna andarli a cercare in qualche concerto, quando ci si trova davanti a orde in delirio, crowd-surfing ad ogni ritornello, bassisti che si contorcono a piedi nudi e caramelle gettate a grappoli contro gli aficionados in prima fila. Questo, però, si rivela sempre un’arma a doppio taglio, raramente impugnata dalla parte del manico in un mondo in cui la carta che canta resta pur sempre il disco. Se immerso nel contesto nazionale e spogliato di tutte le associazioni visive e sonore raccolte nei live, Dasvidanija rischia di fare la figura del Davide: ha ancora le spalle strette e le gambe deboli, avrebbe forse bisogno di un po’ di esercizio mirato per rinforzarsi qua e là, ma potrebbe lo stesso battere il suo Golia se decidesse di giocare d’astuzia. Nicolas Gasco THE BARBACANS No Hits For The Kids Boss Hoss Records A qualcuno può interessare qual’è l’album che gira in ultra heavy rotation sul mio stereo di casa ed in quello del negozio in cui lavoro? Lo so, lo so, non ve ne può fregare di meno ma, che ci volete fare, la recensione la faccio io e quindi vi tocca saperlo lo stesso, l’album in oggetto (dei miei ascolti e della mia recensione) è questo splendido No Hits For The Kids, secondo album di una band in crescita esponenziale come i Barbacans. Ebbi la fortuna, sempre per questa mirabile e-zine di recensire anche il precedente God Save The Fuzz (potreste immaginare titolo più bello per un album di garage?!?) e dissi che in quel caso il disco era molto bello ma che gli mancava un pezzo forte che lo stagliasse dalle altre produzioni di genere; ebbene dissi una delle mie proverbiali minchiate perché da quel giorno “Kick The Children” e “Turn Away” entreranno di forza nelle mie scelte di negletto dj di provincia. A distanza di ben 4 anni (era proprio necessario farci attendere tanto?) i nostri tornano alla carica con una raccolta di canzoni ancor più bella della precedente e costringendomi a rimodellare la mia playlist annuale; sono conscio che al lettore non potrà importar molto neppure di questo ma io alla 47 mia playlist dedico ragionamenti approfonditi e se, poi, a dicembre inoltrato i tipi della Boss Hoss mi mandano un album così bello, mi costringono a violentare le mie convinzioni più radicate, e che si fa così tra persone per bene? Partendo dall’inciso che tutti, e dico tutti, i pezzi di questo disco sono molto belli vi citerò quelli che hanno riscontrato la mia sperticata preferenza; si parte con 10000 promises che, sorretta da un grandissimo lavoro di voxx, esplode in un fragoroso pezzo di garage-punk eighties style degno dei migliori Miracle Workers, Kind Of The Blue Beat è un breve strumentale molto psych e molto veloce nel quale sembra di ascoltare i Plasticland con una tigre nel motore, Fatiscenza Violenta è un brano adatto a chi pensa che il garage non renda se cantato in italiano, pensate, basta soltanto rivisitare la lezione del nostro sixties-beat più degenere (semplice no?), Istato Itagliano è mettere in musica uno stato di ubriachezza molesta. Breve sosta, biretta fresca, e si ricomincia: He’s Gone è il mio pezzo preferito, è la tipica canzone in cui tutto funziona alla perfezione dagli intarsi fra gli strumenti al ritornello, qui il garage si fa quasi epico, senza tralasciare una vena di psichedelica malinconia, in poche parole una BOMBA, Hug Hug è molto wild o molto punk e quando compare un’armonica killer fa letteralmente sognare, chiude il cerchio la breve suite oppiacea di Tahiti With You. 48 Concludendo No Hits For The Kids dura poco meno di mezz’ora (nessun album di vero rock’n’roll dovrebbe durare di più) ed è come fare un giro nell’orgasmatron che compare nel film dell’ancora giovane e non ancora tedioso Woody Allen intitolato “Il Dormiglione”; se non lo avete ancora visto (il fim) fate in modo di vederlo e se non lo avete ancora ascoltato (l’album) vedete di ascoltarlo da qui a breve perché cambierà le vostre vite in (molto) meglio. Per quanto riguarda il giro nell’orgasmatron, vedete di organizzarvi... Il Santo WOODEN SHJIPS “Back To Land” Thrill Jockey Records Ripley Johnson e Omar Ahsanuddin si sono trasferiti nell’Oregon, lasciando San Francisco, patria, teatro e habitat naturale di tutte le produzioni targate Wooden Shjips, nel pieno stile di una neopsichedelia californiana che più di così non si può. L’album West aveva molti simboli che legavano indissolubilmente la musica all’ambientazione, dal nome alla copertina del disco (mi sembra di ricordare un ponte...); anche nella cover art di Back To Land ci sono dei richiami, ma stavolta alla storia del genere, perchè la copertina ricorda un po’ quella della pietra miliare “The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators” e richiama in generale il rock psichedelico 60s-70s da cui la band attinge la propria ispirazione e attualizza al presente in forma più fruibile per un’audience sempre maggiore. Si parlava del trasferimento, ebbene questo è il primo album di Ripley e soci che ha un’ambientazione diversa da S.Francisco, e la sensazione da parte della band stessa è che la componente ambientale abbia giocato un ruolo e un’influenza nella stesura di queste nuove otto tracce. Senza abbandonare l’immediatezza e l’energia della loro matrice psichedelica, caratteristiche principali di West, i Wooden Shjips cercano in alcune tracce di ampliare i propri orizzonti ed arricchire la loro musica ponendo maggior attenzione anche alla narrazione e alla componente melodica. A conferma di ciò, accanto alle usuali caratteristiche distintive del suono della band, incentrato sull’accoppiata chitarra-tastiere, in alcuni tratti compare anche la chitarra acustica. Ma ci sono anche varie tracce con il loro forte marchio di fabbrica, con riff distorti e un ritmo vivace come base, su cui chitarre e tastiere ricamano e ondeggiano tra primo e secondo piano, in alternanza. In definitiva, “Back To Land” è un album dalle due facce: da una parte abbiamo la continuazione di “West” e la confidenza nell’espressione di tratti distintivi già consolidati (soprattutto nella prima parte); dall’altra abbiamo qualche novità, costituita da tratti più melodici e una maggiore ricerca della componente emozionale. Questa prima tendenza, trova subito espressione partendo dall’iniziale title-track, perchè la prima impressione è quella di avere tra le mani un lato C di West, costituendo una diretta connessione tra i due lavori. A seguire troviamo l’incalzante ritmo di Ruins, e dopo 30 secondi sei già ad ondeggiare e ripetere parabarabara-parabarabara (sì, lo so cosa pensate, ma IYEzine purtroppo non prende un assegno mensile per farmi da assistenza sociale). Sempre parlando di brani di forte impatto, troviamo la potenza di Ghouls e Other Stars e la velocità di In The Roses. D’altra parte, riguardo al secondo aspetto evidenziato poco sopra, troviamo anche tracce più lente e introspettive. Secondo me la traccia più significativa è These Shadows, è quella che emerge maggiormente nel lotto perchè esula dal tradizionale stampo Shjips, con chitarra acustica, una maggiore tendenza narrativa, un suono avvolgente e curato, inserti chitarristici un po’ più dilatati rispetto al sempre più usuale riffetto-ritornello, un ritmo più rallentato ma che riesce sempre a 49 coinvolgere trasmettendo nuove sensazioni ed emozioni. L’altro brano in cui è maggiormente evidente questa novità è la traccia che chiude ottimamente la raccolta, Everybody Knows, che conosce una nota malinconica praticamente senza precedenti in casa Shjips, un po’ come se un rampante Roky Erickson invitasse a un party i Codeine e li facesse gonfiare come canotti cercando anche di farli prendere bene (va beh, è un falso storico, traslate mentalmente lo slowcore un paio di decenni prima per ritrovarvi a tale party). Servants è un altro ottimo pezzo, che costituisce un po’ un compromesso tra le due componenti e amalgama queste due tendenze per rendere il risultato complessivo un po’ più fluido. particolarità. Per cui, sebbene ammetto che il primo ascolto abbia generato in me un moderato entusiasmo, (forse hanno avuto un certo ruolo anche le aspettative per questo nuovo lavoro), soprattutto nel sentire le somiglianze con il precedente, in seguito ripercorrendo e analizzando meglio “Back To Land”, mi sono accorto anche delle differenze e delle migliorie, perchè la band californiana ha ampliato il proprio campionario acquisendo nuovi tratti distintivi. Perciò mi viene da dire che anche questa prova sia stata superata con successo dai Wooden Shjips, confermandoli tra le punte di diamante del nuovo decennio psichedelico. In alcuni tratti ti viene quasi il dubbio che la premiata ditta Ripley Johnson & soci si limiti quasi a svolgere il proprio compito per consolidare la posizione di ascesa raggiunta col precedente album, senza variare troppo il copione o cercare novità particolari, poi però pensi anche che in fondo questo è il loro marchio di fabbrica, questo è il suono degli Shjips, e se la formula funziona, i pezzi sono coinvolgenti ed energici, per carità va bene così, perchè poi ci si affeziona al suono caratteristico di una band. Ma questo sarebbe molto limitativo per descrivere “Back To Land”, un album certamente ricco di spunti interessanti e delle sue GAZEBO PENGUINS “Raudo” 50 Davide Siri To Lose La Track Dopo “Legna” del 2011 e lo split con I Cani del 2012, i tre Gazebo Penguins (Capra, Sollo, Piter) ritornano, insieme all’ormai collaudata e sempre più attenta To Lose La Track, con Raudo, ovvero il loro terzo lavoro lungo. L’album, composto da dieci brani, continua nel solco del precedente, regalando nuove chitarre esplosive, una maggiore maturità dal punto di vista compositivo e, ovviamente, una nuova palata di emozioni. E’ Finito Il Caffè, tra chitarre scalpitanti, melodie accattivanti e un testo agrodolce, apre il disco travolgendo con la sua forza emotiva, mentre Casa Dei Miei, schiacciando sull’acceleratore, disorienta con il suo raccontare. Le tempeste di chitarra di Difetto e il nervosismo di Domani E’ Gennaio (dissolto solo da quell’amaro “le rate di una libertà che dura un anno, ti prego non mi dire più domani è un altro giorno, i lunedì di maggio sono così da otto anni”) cedono spazio all’altrettanto rabbiosa e disillusa Ogni Scelta E’ In Perdita (“non solo ogni lasciata è persa, è strano ma vedrai, che ogni scelta è in perdita”) e alla malinconica tranquillità (per modo di dire) della breve Correggio. L’energico sfrecciare di Trasloco, infine, seguita da una veloce e graffiante Mio Nonno, apre alla granitica Non Morirò, al suo “se avessi avuto un’ora di più o anche solo un minuto, non avrei fatto nulla di diverso” e al catartico gridare “oggi mi sento piuttosto bene, uo uo uo” della conclusiva Piuttosto Bene. Questo terzo album dei Gazebo Penguins pare avere tutte le carte in regola per bissare il successo del precedente “Legna”. Forse i testi sono più scarni e semplici, ma le emozioni continuano ad essere trasmesse con intensità, le melodie danno l’impressione che ci sia stato un ottimo lavoro alle spalle e i suoni esplodono nell’aria. Un disco sincero e fatto a regola d’arte: non potrà che conquistarvi. Francesco Cerisola ARTISTI VARI “Saoco! - Bomba, Plena And The Roots Of Salsa In Puerto Rico” Vampisoul Il saoco era una bevanda usata come tonico dagli schiavi a Cuba, un mix di cocco e rum, rinfrescante e rinvigorente. Proprio come questa compilation di salsa, secondo episodio di un’esplorazione cominciata l’anno scorso. Le coordinate sono intorno agli anni ‘50 e ‘60 del 1900, luogo Puerto Rico, sorella minore di Cuba per quanto riguarda la salsa e i suoi progenitori. Nel primo volume ci si è maggiormente focalizzati sulla bomba e sulla plena, due antenate della salsa, mentre qui andiamo maggiormente nei 51 territori della guaracha, rumba, mambo, merengue e della musica tradizionale contadina. Puerto Rico ha sempre avuto un’ottima scena musicale, essendo stata influenzata dai gruppi cubani che suonavano a Puerto Rico. Un’altra particolarità di questa musica è che, principalmente, veniva registrata a New York, dove molti emigravano; uno dei generi che possiamo ascoltare in questo cd è la guaracha, una musica molto radicata a Puerto Rico, poiché arrivò insieme alle compagnie teatrali cubane dal 1910. La guaracha è considerata un’asse portante della salsa, ma il repertorio di questi gruppi antesignani era composto da molti stili. Dopo la liberazione di Cuba da parte di Fidel Castro e il conseguente embargo, Cuba perde la sua dominazione musicale nei Caraibi, a vantaggio di Puerto Rico e New York. I gruppi della metà degli anni sessanta fusero rumba, charanga, pachanga e rock and roll secondo il gusto dell’epoca, e in ¡Saoco! ne abbiamo diverse dimostrazioni. Si sente molto quindi l’influenza di stili eterogenei, ma la salsa di Puerto Rico mantiene sempre una forte impronta, tanto da diventare facilmente riconoscibile, almeno ai più esperti. Quest’epoca è stata il siglo de oro della musica puertoricana e ha partorito autentiche gemme, come questi 28 pezzi d’argenteria. Qui si può godere di un’autentica musica latina, ancora non sottomessa al gusto europeo o nordamericano. El son è forte e potente, si snoda in un 52 amalgama di gioia e fisicità. Sudore e sederi che ballano frenetici. Massimo Argo MUM “Smilewound” Morr Music Morr Music è ormai da molto tempo un marchio di fabbrica. L’etichetta berlinese si è infatti distinta da molti anni per un genere di elettronica minimale e delle sue sfumature da diventarne quasi un sinonimo. Non stupisce allora che i Mum gravitino intorno a questa scena, dato che l’elettronica è alla base di questo gruppo islandese che mescola beat, strumenti classici, sintetizzatori, tastiere giocattolo per suoni Arcade (in When Girls Collide sembra di giocare ad un gioco in un vecchio computer), con un risultato finale incredibilmente melodico, equilibrato, dolce e raffinato. Il tutto è condito da una voce eterea, cullante, elfica, sentimentale e ipnotica: Slow Down è una canzone d’amore che vi farà venire la voglia di essere innamorati. One Smmmmile vi farà passare dalle atmosfere rade e dilatate, dai paesaggi minimali e da una natura quasi immobile caratteristica della prima parte dell’album al ritmo dei mercati d’oriente, alla frenesia dei suk e dei mille bazar. La voce lieve delle gemelle Gyða and Kristín Valtýsdóttir vi cullerà comunque per tutto il disco e, come per un Ulisse contemporaneo, sarà estremamente difficile resistere all’attrazione magnetica e inconscia di questo canto (Underwater Snow e Time To Scream And Shout su tutte). Ciliegina pop sulla squisita torta, la presenza di Kylie Minogue in Whistle. Gianluca Camogli OLIVER SCHORIES “Exit” Der Turnbeutel Oliver Schories, chiamato alla riconferma col suo sophomore album Exit continua sullo stesso asse del suo ottimo esordio. Col suo crossover di House e Techno, riesce a creare elettronica ipnotica ed evocativa dalla sensibilità pop. “Rising star” dell’elettronica tedesca? Il producer tedesco Oliver Schories è una piacevole vecchia (non più di tanto) conoscenza di IYEzine, poiché lo ritroviamo, andando indietro di un anno, con il suo album di esordio dal titolo complicatissimo http://www. iyezine.com/recensioni/1699-oliverschories-herzensangelegenheit. htm Herzensangelegenheit. Ora Schories, divenuto ormai dj e producer affermato, è chiamato alla consacrazione tra i grandi con questa seconda prova su lunga distanza, dal titolo Exit. Dico ciò riguardo ad una possibile consacrazione anche perchè si era generata in me grande aspettativa per questo album, giacchè la precedente prova aveva messo in luce grandi potenzialità da parte del tedesco...e un po’ l’aspettativa ti fotte. Ad essere sincero non riesco così bene a capire se questa “prova di maturità”, come spesso si dice, sia stata centrata in pieno o sia da rimandare ai giorni che verranno, anche perchè, eccezioni a parte, di solito sono tre indizi a fare una prova...ad ogni modo, so benissimo che questo qui non è il punto cruciale, sono fondamentalmente chiacchiere, il punto è il disco, e la discussione la palleggio a voi che lo ascolterete. Schories si pone in logica continuazione di “Herzensangelegenheit” (e non fatemelo dire di nuovo!), ne riprende gli schemi e ne amplia l’influenza pop, cerca di pulire maggiormente il suono ricercando l’equilibrio più per sottrazione che per addizione. L’idea di base è, inoltre, a mio parere diversa tra i due album: questo nuovo lavoro è meno intenso dal punto di vista ritmico, qui si va a cercare di muovere più la mente che il corpo (60% contro 40% ?), mentre l’esordio forse ribaltava le proporzioni, e infine Exit compie un leggero passo verso la “hit” di sensibilità maggiormente pop, nel senso più generale del termine. Le sonorità e di conseguenza le sensazioni che riescono a creare questi brani sono l’uscita di 53 sicurezza che ci offre il tedesco, una piccola oasi nel quotidiano. Questo è Exit, una porta che se appena socchiusa mostra già i caldi raggi del sole di un luogo dove è sempre estate. Nell’idea del suo autore, Exit ha la funzione di creare un’atmosfera evocativa, un locus amoenus in musica, per il piacere dell’ascoltatore più che per il club. Col suo particolare crossover di House e Techno, fatto di suoni caldi e delicati, un ritmo sempre misurato e mai portato a spingere troppo, brani orecchiabili ma non scontati, Schories ricerca efficacemente il bilanciamento e la quadratura del cerchio nel creare elettronica ipnotica. Mi piace molto pensare a Schories come colui che può realizzare quelle potenzialità che uno come Kalkbrenner (Paul) non è riuscito a realizzare pienamente (per quanto ne abbia mostrato alcuni abbaglianti sprazzi qua e là), un po’ offuscato dal suo stesso successo. Perchè per un certo verso l’elettronica di Oliver si avvicina abbastanza a quella di mr. Berlin Calling, ma secondo me ci mette più anima e più sfaccettature, per quanto sia forse meno attenta al ritmo. Il suono del nostro non è ancora così ben confezionato come quello di altri suoi colleghi più esperti come il buon Paul, e non ha ancora la raffinatezza nel suono di un modello di riferimento come può essere Pantha Du Prince, per quanto facciano anche musica diversa; però le idee e la capacità di 54 metterle in musica ci sono tutte, e Schories ha tutte le carte in regola per entrare tra i grandi. Perciò sì, si può creare musica elettronica che sia insieme ricercata e orecchiabile, che sia fruibile ma non risulti scontata né “commerciale”, come insegna questo ragazzo. Dopo l’introduzione, ci troviamo subito con l’orecchiabilità di Sunset, una traccia di atmosfera molto estiva, e quindi But Maybe che parte ruvida ma presto diventa dolcemente ammaliante. In seguito le ipnotiche Get Me e Circles ci ghermiscono, Go ha una struttura simile a quella della precedente But Maybe, e Another Day è una delle tracce che ricordano forse maggiormente il precedente album. Il disco è molto lungo, abbiamo appena superato la metà, in totale Exit contiene più di un’ora e un quarto di ottimi brani, tutti sempre sui 6 minuti, ma l’ascolto non pesa perchè Oliver ha questa capacità di farci entrare presto in uno stato di piacevole trasporto, ci fa muovere interiormente con le stesse frequenze e la stessa forma d’onda della sua musica. Non mi dilungo oltre a descrivere i singoli brani, ma sappiate che sono tutti da ascoltare dall’inizio alla fine, e tutti hanno le loro sfaccettature che li rendono interessanti e gradevoli. Il tutto è riassumibile con la frase che ci siamo detti contemporaneamente io e Massimo di IYE parlando del disco: “ma senti che suoni!”. Direi perciò che bisogna mettere bene in chiaro che Oliver si conferma un grande producer, ed ora abbiamo le prove per poterne parlare come “rising star” dell’elettronica tedesca. Buon ascolto! Davide Siri FINE BEFORE YOU CAME “Come Fare A Non Tornare” La Tempesta Dischi / Legno Quando pochi giorni fa ho visto che i Fine Before You Came avevano pubblicato il loro nuovo disco ho pensato “Olè, questa è la volta buona che sbagliano”. Invece poi l’ho messo su e l’ho ascoltato per tre volte consecutive, rimanendo totalmente spiazzato. Come Fare A Non Tornare questo il nome del lavoro, si compone di cinque tracce cupissime dove, se i testi continuano ad essere evocativi e affascinanti come in passato, alla voce gridata si sostituisce un cantato lucidamente disilluso e alla vena post hardcore/emo un post rock/slow core soffocante. “Battiamo i lividi per mantenerli sempre viola, per ricordarci che san fare ancora male” è così che si apre Discutibile, la quale, avvolgendo con le sue delicate chitarre che lentamente crescono, ci sbatte poi in faccia quell’amaro “noi non sappiamo come fare a non tornare”. Alcune Certezze, altrettanto sofferta, ma accompagnata da melodie più leggere e meno soffocanti, ci tiene legati a sé con con quel “la soluzione ai miei problemi sembra sempre la causa dei tuoi”, mentre Il Pranzo Che Verrà, affondando in una scura voragine di chitarre e sentimenti infranti, viene rischiarata solo a metà da un breve e pacato scorrere di note malinconiche. Una Provocazione, più decisa e tesa, corre veloce su quel “come i bambini vorrei correggere i disegni, finché non fan schifo, il foglio si buca, e poi si convincon che va bene così” per poi spegnersi lentamente, lasciando in balia del dolore più forte, quello causato dalla conclusiva Dura: “niente di tutto questo mi piace davvero, ma so che la mia fortuna è averlo, cosa vuoi che ti dica, vado avanti così finché dura, passo dalle vittorie alle sconfitte senza combattere battaglia alcuna”. Con questo nuovo lavoro i Fine Before You Came, giunti ormai a quasi quindici anni di attività, aggiungono un’ulteriore tassello al lungo processo di evoluzione sonora che li ha contraddistinti. Dall’emo/post hardcore al post rock/slow core più scuro, dall’inglese all’italiano, dalla voce gridata a un cantato cupo e senza più forze. Come Fare A Non Tornare è un lavoro profondo, di quelli da ascoltare tutto d’un fiato, in cui perdersi insieme a tutti i propri malesseri. Un disco importante, di sicuro più del precedente, forse anche dell’eccezionale “Sfortuna”. Francesco Cerisola 55 THE ASSYRIANS “The Assyrians” Bored Youth Records Chi ha la pazienza e la, non sempre, buona sorte di leggere le mie recensioni avrà, ormai da qualche tempo, compreso quanto sia solito aprire le mie righe con tediose premesse. Anche in questo caso, mie care anime pie, la premessa è doverosa in quanto la band in oggetto sta per uscire con un nuovo album (la data dovrebbe essere il 15 novembre e l’etichetta la prestigiosa Foolica Records) mentre il mini di cui sto per parlarvi ha sulle spalle già alcuni mesi. Ma, il caso vuole, che gli Assyrians abbiano suonato in agosto nella nostra ridente cittadina e che, dopo la loro più che lodevole esibizione, si siano intrattenuti con lo “staff” della nostra fanzine. Durante il corso di questo piacevolissimo incontro i componenti del gruppo si sono dimostrati persone molto socievoli e disponibili ed inoltre hanno gentilmente concesso questo mini album alla nostra attenzione dicendosi interessati ad un nostro sindacabilissimo giudizio. Ed eccomi qui, con una quarantina di giorni di colpevole ritardo, a parlarvi della quattro canzoni d’esordio di questo mirabile quartetto. L’inizio è davvero stupefacente, 56 Moon happy monkeys and hope maniac ape è un pezzo davvero notevole tanto che il sottoscritto lo giudica in modo inappellabile la più bella pop song del 2013; avete presente quando Alex in Arancia meccanica, abbigliato in perfetto stile ottocentesco, tenta, con successo, di circuire due fanciulle con tanto di gelato? Dice loro di seguirlo nella sua abitazione perché nel suo stereo sentiranno un suono che difficilmente potranno dimenticare (abbiate pietà di me ma ora su due piedi non ricordo l’esatta descrizione). Ebbene voi inserite questo dischetto nel vostro lettore e potrete provar le medesime sensazioni, se poi come nel film riuscirete anche a fare dell’ottimo sesso a tre tanto di guadagnato, vi dico solo che si è sui livelli dei migliori Xtc,e gli Xtc sono fra i miei gruppi preferiti di sempre. Proseguendo si ascoltano altresì la dolcissima My garden with statues of Em che tanto ricorda i pezzi magici che produceva alcuni anni orsono la Sarah Records, e non ditemi che non conoscete la Sarah Records e che nonostante ciò siete sopravvissuti a questo triste mondo; Farewell scarlet pimpernel dall’andamento leggermente psychedelico e dall’incidere beatlesiano o, dato che si parlava di Xtc, in odor di Dukes of Stratosphear, se non conoscete neanche loro mi spiace dirvelo ma questo triste mondo vi ha definitivamente sconfitti, per chiudere con Htrowyah atir che oscilla tra i Beach Boys di “Pet Sounds” e le ballate dei Kinks; riuscite a immaginare qualcosa di altrettanto allettante? Inutile dirvi che la mia attesa per l’album di cui parlavo ad inizio recensione sia a dir poco febbrile perché, se tanto mi da tanto,entrerà di prepotenza nel novero dei miei dischi preferiti di questa annata. Il Santo THE MORLOCKS “Submerged Alive” Epitaph Records Ho visto piuttosto recentemente Leighton Koizumi, era impegnato (in verità piuttosto brillantemente) nel perpetrare la leggenda di due gruppi nei quali ha militato: i Morlocks , oggetto di queste righe, e i Gravedigger V. L’ho visto molto bene, persino rubicondo, con quel po’ di pancetta che fa tanto salute e ciò ha riempito di gioia il mio cuoricino di garagemaniac. Lo stesso non poteva certo dirsi nell’anno d’uscita di questo fantasmagorico live, il 1987, il nostro infatti, era impegnato in un impari tenzone con un mostro fottutamente potente come l’eroina, tanto che da lì a poco la stampa specializzata lo diede definitivamente per perso intonando un, fortunatamente prematuro, de profundis. Ma torniamo a Submerged Alive, che a 26 anni dalla sua uscita (lo licenziò la Epitaph di Brett Gurewitz, per quanto possa sembrare retrospettivamente impossibile) torna a disposizione di tutte le genti di buon gusto grazie alla lungimiranza dei tipi di Area Pirata, che non smettono mai di stupire i loro, spero sempre più numerosi, adepti. Le danze vengono aperte dal blues strascicato e psichedelico di Get Out Of My Life Woman, cover di un classico di Al Touissant; si prosegue con il garage criptico e ultracompresso di She’s My Fix, suono che è un vero e proprio marchio di fabbrica della band; spiccano inoltre altre due brillanti riprosizioni quella di Leavin’ Home dei Birds e quella di Body Not Your Soul di Cuby & the Blizzards nelle quali emerge un suono garage-punk più “classico”, inteso ovviamente nella sua accezione più virtuosa. Un capitolo a parte lo meritano anche l’inquietudine esistenziale della quale è intrisa Different World nella quale sembra di ascoltare una versione ancor più malata e viziosa di Mick Jagger e, soprattutto, la lenta e struggente My Friend The Bird ammantata di magica melanconia stoogesiana. Come ben si evince da queste mie righe con questo disco siamo di fronte ad un’incisione che, senza dubbio alcuno, può definirsi epocale tanto che mi sento in diritto di buttar lì un paragone: dirsi appassionati di garage e non conoscere questo album è come affermare di essere tifosi del 57 Boca Juniors e non saper chi sia Diego Armando Maradona, una contraddizione ed allo stesso tempo un peccato imperdonabile. Se ai tempi in cui questo live uscì foste nella risicata schiera di chi lo acquistò oggi avete fra le mani un oggetto di grande valore, non solo intrinseco ma anche economico, per tutti quelli che, vuoi per ragioni anagrafiche vuoi per qualsivoglia altro motivo, non lo fecero ecco una splendida occasione per colmare una preoccupante lacuna, non tutti i giorni capita di poter mettere le mani si di un capolavoro e Submerged Alive è uno dei non moltissimi dischi per i quali il termine capolavoro può essere usato senza temere di essere smentiti. P.S.: Questa ristampa è disponibile nella versione cd digipack ed anche in quella, strepitosa, in vinile colorato e numerato a mano. Fossi in voi non avrei dubbi su quale dei due formati preferire. Il Santo 5MDR “La Prospettiva Del Conflitto” Varie etichette Un disco di punk rock incazzato, fatto da ragazzi appassionati per ragazzi poganti sotto al palco. Tornano i savonesi 5MDR, dopo il full length “Via Di Qua” del 2010 e l’ep “Stato Di Allerta” del 2008. Il loro punk rock è molto carico, fatto di scorribande in territorio hc, con 58 una forte base oi ! . I 5MDR sono tra i migliori esponenti italiani di quella forte ed impetuosa corrente sotterranea che parte dall’ oi! Punk inglese, infatti in questo disco vi è la cover di Riot Squad dei Cock Sparrer, passa per la Savona dei Klasse Kriminale e dei Cervelli Stanki, e sfocia in gruppi come Uguaglianza, 5MDR, e tanti altri. Il minimo comune denominatore è la rabbia, quel rodere il culo che fa gridare in mezzo a questa indifferenza da scaffale. La Prospettiva Del Conflitto ha dei gran testi ed una grande potenza, con una carica inesauribile. Sinceramente sono davvero contento che dei ragazzi continuino a fare questa musica, che fuori moda non ci andrà mai, poiché non è mai stata fashion. Sarò di parte ma i 5MDR sono davvero molto ma molto bravi. Il disco è scaricabile gratuitamente, poiché una importante prospettiva del conflitto è quella di liberare la musica, almeno quella onesta e di qualità. Massimo Argo MASSIMO VOLUME “Aspettando I Barbari “ La Tempesta Dischi A tre anni di distanza dall’ottimo “Cattive Abitudini” e a due dallo split con i Bachi Da Pietra, i Massimo Volume (Emidio Clementi, Vittoria Burattini, Stefano Pilia, Egle Sommacal), formazione tra le più influenti all’interno della scena musicale indipendente italiana, mettono su disco dieci nuovi pezzi. Il nuovo lavoro, Aspettando I Barbari, abbandona quasi completamente il carattere relativamente morbido del precedente disco, preferendo solcare mari decisamente più nervosi, elettrici e scuri. La nera spina dorsale su cui si struttura Dio Delle Zecche, apre l’album crescendo e ferendo, affondando il colpo di grazia solo quando la voce si fa urlo e le parole si inchiodano in testa, mentre La Cena, a seguire, tra velocità e ritmi incalzanti, si rivela travolgente con le sue melodie venate di malessere. Aspettando I Barbari, sprofondando nelle tenebre, disegna ombre arrese su echi di chitarra e dense note di basso, lasciando che a proseguire siano l’ossessivo monito angosciante “ricordati di Chesnutt” di Vic Chesnutt e il “vi piaccia o no” estremamente determinato di Dymaxion Song (brano ispirato alla vita di Buckminster Fuller). La notte, tesa e graffiante, si concentra sul contrapporre le storie (in evoluzione) di molte persone con lo statico aspettare del protagonista, disintegrandosi di fronte al tellurico e violento vibrare dell’allucinata Compound e all’intensità su più strati della malinconica Silvia Camagni. Il Nemico Avanza, infine, tra affilate parole che riportano a scenari di profonda violenza, introduce l’addio (che permette di sciogliere tutte le tensioni) della conclusiva Da Dove Sono Stato. Con questo nuovo disco i Massimo Volume mescolano molto bene le carte, riorganizzando tutto il loro mondo sonoro e riproponendolo in forma differente, ripescando l’energia elettrica degli anni ‘90 e aggiungendo inaspettati inserti di elettronica, raccontando (ovviamente) storie nuove, ma non abbandonando gli umori che li caratterizzano da sempre. Aspettando I Barbari è un disco cupo e oppressivo, energico e rabbioso, denso e affascinante. A vent’anni dal loro esordio, dimostrano di essere ancora sul pezzo. Un album di qualità. Francesco Cerisola . SALMO “Midnite” Tanta Roba Lasciate perdere etichette, generi e cazzate testosteroniche da rapper adolescenti. Aprite le casse a palla, lasciate che questo meteorite di apocalisse entri nelle vostre stanze, corrompa il vostro cervello ed ascoltate il racconto della vostra morte. Salmo ha rabbia ed urgenza in stile hardcore punk, viene dal metal rap ed ha inventato un qualcosa di nuovo, un modo di rappare che va oltre il genere. Noi lo seguiamo fin dagli inizi di The Island Chainsaw Massacre, e lo abbiamo anche intervistato (www. iyezine.com/interviste/1275-salmo. 59 WWW.GREENFOGSTUDIO.COM 60 htm). Il suo stile è farvi male, le rime sono pugni in faccia, ma sono anche qualcosa che può darvi la forza di continuare a sbracciare in questo mare di merda. Salmo vende tante copie, certe strumentali sono più commerciali rispetto alle precedenti, ma ciò non conta molto. Se cercate un rifugio questo non è il posto giusto, questa è la colonna sonora dell’apocalisse, della morte che stiamo vivendo ogni giorno. Sentire Weishaupt è qualcosa di davvero illuminante, ci fa capire che presto saremo terra per i vermi. Un disco mostruoso, di un livello incestuoso, con un solo brano sbagliato : Faraway. Le collaborazioni sono tutte azzeccate, specialmente quella con i Cyberpunks in Russel Crowe. Guardatevi le spalle. Ma il resto è storia. Massimo Argo THEE BOMB’O’NYRICS “Thee Bomb’o’nyrics” Autoprodotto Qualcuno fra voi, e sottolineo il forse, potrebbe pensare, con una notevole dose di malizia e prevenzione, che io possa avere un debole per le Thee Bomb’o’nyrics. Si potrebbe giungere a tale affrettata quanto erronea conclusione considerando che,fra le mie ultime tre recensioni, due riguardano questa all-female band, ma si tratta null’altro che di un caso, io neanche le conosco e poi, chissà,magari se le conoscessi mi starebbero pure antipatiche. Ma abbandoniamo queste puerile ed inutili considerazioni e valutiamo il contenuto di questo 7” dalla copertina celeste cielo. Sul lato A è incisa Into The Woodche, al rituale garage-punk scombicchierato marchio di fabbrica del gruppo, aggiunge, a parer mio, un tocco di quello che un tempo fu il sound delle riot grrrls, direi un pizzico di prime Hole pre-ubriacatura da superstar di Courtney Love. Lo trovate un riferimento così balzano? Agli ascoltatori, ed alle autrici, rimpallo l’ardua sentenza. Il lato B è invece occupato da She Was Puking della quale ebbi a parlare nelle mia recente recensione della loro ultima fatica su musicassetta, per i più distratti,o per i lettori saltuari di questa e-zine, ricorderò che si tratta di un pezzo roots-rock,se per roots-rock intendete quello che suonavano i Cramps. Dopo aver ascoltato quanto prodotto sino ad oggi da questo quartetto di esagitate direi proprio che la ciliegina che farebbe da completamento alla loro torta allucinogena sarebbe un bel lp, vinyl only of course. Magari se ci conoscessimo e ci trovassimo reciprocamente simpatici potrei produrglielo io ... Il Santo THREELAKES AND THE FLATLAND 61 EAGLES “War Tales” Upupa Produzioni Luca Righi, in arte Threelakes, debutta sulla lunga distanza con i suoi fidi compari Flatland Eagles (Andrea Sologni, Raffaele Marchetti, Lorenzo Cattalani, Marco Chiussi, Paolo Polacchini). Il disco, War Tales, esce dopo una serie di ep che ben hanno fatto parlare di lui, proponendo dieci intensi brani indie folk pieni zeppi di emotività ed ospiti di riguardo (Emanuele Reverberi, Francesca Amati, Capra dei Gazebo Penguins, Luciano Ermondi). Wild Water, con il suo muoversi delicato su note di chitarra e il viscerale abbandonarsi alla melodia, apre il disco, trovando anche il tempo per introdurre l’energico travolgere dell’immediata The Walk e il più pacifico (ma non meno accattivante) ondeggiare della malinconica The Lonesome Death Of Mr. Hank Williams. To Do, con il suo lento galleggiare su chitarre e ritmiche composte, lascia spazio all’iniziale armonica di The Day My Father Cried e al suo delicato e fragile svilupparsi, mentre By My Side, più elettrica e ruvida, apre al movimento in crescendo di D-Day (molto coinvolgente nel finale) e al morbido incedere di March. Horses Slowly Ride, infine, tra banjo e rapidi colpi di batteria, trotta veloce fino alle note dell’avvolgente e conclusiva Rose (tempi lenti, intense note di tromba, chitarre 62 lente e molto altro). Con questo primo album i Threelakes And The Flatland Eagles mettono a segno un buon colpo. I dieci pezzi proposti, infatti, scorrendo uno dopo l’altro tra ottime melodie e testi curati (tutto il disco ruota attorno al concetto di guerra, come suggerito dal titolo), istigano all’ascolto compulsivo. Un disco che non vi lascerà delusi. Francesco Cerisola GAZEBO PENGUINS “Raudo” To Lose La Track Dopo “Legna” del 2011 e lo split con I Cani del 2012, i tre Gazebo Penguins (Capra, Sollo, Piter) ritornano, insieme all’ormai collaudata e sempre più attenta To Lose La Track, con Raudo, ovvero il loro terzo lavoro lungo. L’album, composto da dieci brani, continua nel solco del precedente, regalando nuove chitarre esplosive, una maggiore maturità dal punto di vista compositivo e, ovviamente, una nuova palata di emozioni. E’ Finito Il Caffè, tra chitarre scalpitanti, melodie accattivanti e un testo agrodolce, apre il disco travolgendo con la sua forza emotiva, mentre Casa Dei Miei, schiacciando sull’acceleratore, disorienta con il suo raccontare. Le tempeste di chitarra di Difetto e il nervosismo di Domani E’ Gennaio (dissolto solo da quell’amaro “le rate di una libertà che dura un anno, ti prego non mi dire più domani è un altro giorno, i lunedì di maggio sono così da otto anni”) cedono spazio all’altrettanto rabbiosa e disillusa Ogni Scelta E’ In Perdita (“non solo ogni lasciata è persa, è strano ma vedrai, che ogni scelta è in perdita”) e alla malinconica tranquillità (per modo di dire) della breve Correggio. L’energico sfrecciare di Trasloco, infine, seguita da una veloce e graffiante Mio Nonno, apre alla granitica Non Morirò, al suo “se avessi avuto un’ora di più o anche solo un minuto, non avrei fatto nulla di diverso” e al catartico gridare “oggi mi sento piuttosto bene, uo uo uo” della conclusiva Piuttosto Bene. Questo terzo album deiGazebo Penguins pare avere tutte le carte in regola per bissare il successo del precedente “Legna”. Forse i testi sono più scarni e semplici, ma le emozioni continuano ad essere trasmesse con intensità, le melodie danno l’impressione che ci sia stato un ottimo lavoro alle spalle e i suoni esplodono nell’aria. Un disco sincero e fatto a regola d’arte: non potrà che conquistarvi. PIERRE DEUTSCHMANN “Betroit” BluFin Pierre Deutschmann ci presenta Betroit, il suo techno-capolavoro, una raccolta che costituisce la summa del suo credo musicale. Pierre Deutschmann, classe 1974, è un pezzo importante della scena techno berlinese e, di recente, il dj e producer (con quel cognome, più tedesco di così!) si è messo in testa un’idea molto ambiziosa, complicata, ma certamente anche molto stimolante. L’idea è quella di creare un album vab>sto ma corposo e compatto, che rappresenti il suono che lo ha influenzato negli ultimi vent’anni (quando un giovane Pierre si avvicinava alla musica elettronica). Un disco che lo rappresenti, che racconti le sue influenze rielaborandole in ciò che è diventato il suo canone della techno; l’intento è quello di andare oltre una sorta di “back to mine”, e plasmare questi metalli fusi, queste influenze, nella forma che sintetizzi al meglio tutto ciò, forgiando un suono che sia contemporaneamente qualcosa di originale, personale e attuale, che esprima ciò che Pierre è ora, ma anche qualcosa di riferibile alla storia e all’evoluzione di un genere e un percorso musicale. E da che parte, da dove si possono ricevere influenze di questo genere, se non dai luoghi per eccellenza in cui la techno si è sviluppata e ha tratto linfa vitale? Luoghi che rappresentino le cellule germinali da cui questo movimento si è propagato con le sue potenti vibrazioni...Quali luoghi se non Detroit e Berlino? Due città che hanno fatto, soprattutto per quanto 63 64 riguarda la motor city, e stanno tuttora facendo, soprattutto per quanto riguarda la capitale tedesca, la storia di questo movimento. Le capitali mondiali del genere, quella del nuovo e quella del vecchio continente, le due ampolle da cui Pierre attinge i suoi ingredienti, da buon alchimista della techno, per creare una miscela potentissima. L’una, la città dalla quale proviene e nella quale opera per dare il suo contributo a questa storia, l’altra, la cui scena qualunque persona minimamente interessata al genere dovrebbe conoscere. Ecco dunque che questo disco assume altri significati e valenze: oltre a dare la più completa visione del suo marchio di fabbrica musicale, la sintesi di queste materie prime con la produzione di colate di stampo Deutschmann, questa raccolta diventa anche per il tedesco una sorta di celebrazione di tutto il genere musicale, della sua storia e delle sue caratteristiche. Unendo le due visioni complementari della materia, egli realizza un’opera di grande impatto e di grande ambizione, un potente inno celebrativo al techno sound. Il risultato finale, perciò, possiede quella caratteristica particolare che è molto più della somma delle sue parti. In sei mesi nasce così Betroit, album da tredici tracce più intro e outro, per un totale di quindici, il cui titolo è già abbastanza evocativo e rappresentativo di questo concetto. Si crea questa connessione BerlinoDetroit, le due città non sono mai state così vicine! L’intro della raccolta si chiama Detroit, l’outro si chiama Berlino, come a dire “da qui si parte, e qui si arriva, tenetevi forte, questo è il percorso”; ed è un percorso che unisce, mescola, miscela, fa reagire, le due matrici di partenza, contaminando l’una con l’altra. Da quanto accennato, si tratta di un disco lungo, che però non cade mai nel rischio che si corre quando si ascolta un album techno fuori dai clubs (quello di essere troppo pesante), perchè nonostante il buon Pierre ci vada giù piuttosto forte, dopotutto è un picchiatore, le tracce non sono caratterizzate da un suono dritto, egli riesce a creare quest’ambientazione avvolgente, scura come la notte, un battito pulsante come il cuore dell’underground di queste due città e che trasmette grande energia e vigore. Tolte intro e outro, il volume del materiale di Betroit è veramente imponente, sono 13 tracce veramente massicce, con una qualità media molto elevata e una certa unità di visione. Un lavoro impressionante, estremamente coeso e compatto anche nella sua lunga durata, che segue un unico fil rouge senza cadere nell’eccessiva uniformità e piatta ripetitività, riuscendo a trovare quell’elemento vincente che rende le tracce sempre espressive, e ne fa emergere una manciata 65 come dei capolavori. Parameter Lock, col suo incedere cadenzato, i soundscapes di Area1507, e ancora Looking Backwards e Cryptalk, sono alcuni tra i pezzi più notevoli; ma soprattutto, il cuore del disco, il momento più alto, arriva poco dopo la metà, ed è un terzetto di brani composto da Hunch & Guess, Emphasis (uscito anche come primo singolo estratto dall’album), e il misto acido-ansiogeno di One True Zero. In definitiva penso di poter dire senza troppi rischi di dover ritrattare la faccenda, di trovarmi davanti il disco techno dell’anno, difficilmente qualche altra uscita potrà farmi cambiare idea. Davide Siri VÀLI “Skogslandskap” Auerbach Tonträger / Prophecy Productions Dimenticate l’inconcludente ripetitività di certo ambient o la spiritualità a buon mercato di gran parte della musica new age; se volete provare ad ascoltare composizioni strumentali in grado di accarezzare il vostro udito facendovi riappacificare con l’universo intero, anche se farete un pò di fatica nel pronunciarlo, Skogslandskap fa al caso vostro. Risulta senza dubbio più semplice memorizzare il nome dell’artista che si cela dietro l’omonimo 66 progetto, il norvegese Vàli che, con la sua chitarra acustica supportata di volta in volta da altri quattro magnifici musicisti, ci regala tre quarti d’ora di musica delicata quanto emozionante. Skogslandskap è suddiviso in quindici brevi tracce che si susseguono senza che affiori nemmeno per un attimo il senso di noia o di assuefazione ad un tipo di sound normalmente a rischio da questo punto di vista; basta ascoltare l’opener Nordavindens Klagesang , un gioiello che dà il via a questo viaggio all’interno delle foreste norvegesi nell’arco di tempo compreso tra il tramonto e l’alba successiva, per percepire quanto la musica prodotta da Vàli rifugga stucchevoli tecnicismi rivelandosi, invece, una magica successione di suoni capaci di muoversi all’unisono con la natura circostante. Il cammino per il quale Vàli ci conduce, si snoda armonioso tra i mormorii delle piante, lo zampettare frenetico degli animali notturni, l’effluvio inebriante della terra bagnata dall’umidità notturna per concludersi con i quattro minuti finali di Morgenry, un concentrato di pura magnificenza e di commovente poesia che rende ineluttabile la necessità di riascoltare dalla prima traccia questo capolavoro. Skogslandskap riprende il discorso laddove si era interrotto ben nove anni fa con “Forlatt”, facendo apparire breve come un soffio di vento un lasso di tempo oggettivamente piuttosto lungo. 67 Riscoprire quel disco è pertanto doveroso, come pure lo è ascoltare questa musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene. Stefano Cavanna DGM “Momentum” Scarlet Records Dopo uno, cinque, dieci ascolti di Momentum, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”. Considerate le prove non sempre esaltanti messe in scena negli ultimi anni da alcune delle band citate, non sarebbe male che, almeno gli appassionati italiani, volgessero con maggiore attenzione lo sguardo alla più vicina “città eterna” invece che oltreoceano o verso le fredde lande nordeuropee. Se è vero che il suono della band laziale è oggettivamente accostabile ai Symphony X , va anche rimarcato il fatto che qui non si sta parlando di epigoni dell’ultima ora dato che entrambi i gruppi si sono formati attorno alla metà degli anni novanta. La presenza di Russell Allen nella 68 traccia d’apertura Reason è una dimostrazione della comunione d’intenti tra le due band e, nel caso specifico, il contributo dell’illustre ospite è senz’altro pregevole, ma il fatto stesso che non spicchi più di tanto dimostra anche l’enorme qualità della prestazione vocale offerta da Mark Basile in quest’album. In Momentum viene messo in scena il repertorio ideale di una band che suona prog metal: un caleidoscopio di fughe tastieristiche e delicati passaggi pianistici (Emanuele Casali), riff rocciosi e assoli dal grande impatto melodico (Simone Mularoni, noto ai più anche come rinomato producer), con il valore aggiunto di una base ritmica perfetta (Andrea Arcangeli e Fabio Costantino) e, come detto, un cantante che non mostra un solo attimo di cedimento. Non resta che godersi senza alcuna remora questo magnifico disco, che si snoda tra accelerazioni irreali (per la tecnica esibita) e passaggi più orecchiabili che, solo in occasione di Repay sfociano in un formato simil-ballad; forzando un pò la mano con i paragoni, si potrebbe affermare che i DGM si collocano in perfetto equilibrio, a metà strada tra le spigolosità metalliche dei Symphony X ed il gusto melodico della prima prova solista di Allen in coppia con l’altro “mostro” Jorn Lande (“The Battle”), insediandosi in un territorio nel quale la band romana mostra d’avere ben pochi rivali. Considerando che l’uscita di Momentum coincide con un altro eccellente esempio di prog metal, come l’album degli Odd Dimension, la Scarlet esibisce in un colpo solo un’invidiabile coppia d’assi; speriamo solo che la crisi economica che continua a mortificare i nostri portafogli non costringa qualcuno a dover fare una scelta dolorosa, sacrificando in ogni caso dei lavori che, per la qualità esibita, non meritano davvero d’essere accantonati, fosse anche solo momentaneamente. LE CAROGNE “Secondo Le Carogne” Autoprodotto Quando hai un’attività e sulla tua porta si staglia la minacciosa figura del postino le più fosche previsioni si addensano nella tua mente: una cartella pazza di Equitalia? L’ennesima estorsione bancaria? Pessime notizie dal tuo commercialista di fiducia? E’ con tutta questa serie di timori che pochi giorni or sono ho accolto la figura invero simpatica del portalettere di zona ma, per una volta, non si trattava di pessime notizie bensì dell’invio del nuovo lavoro delle mie carogne preferite (hanno un nome da cattivi ma vedendo la loro fotografia si capisce subito che sono bravi ragazzi). Per chi aveva avuto la ben poca gradevole ventura di aver letto la mia recensione del loro primo album ben ricorderà che il mio apprezzamento nei loro confronti era molto alto, ed era un apprezzamento condiviso con nomi di grande rilievo del giornalismo musicale italiano. Ed è quindi con grande piacere e con notevole curiosità che ho subito estratto il cd dalla sua pregevole confezione e l’ho posizionato sul portatile che ho in negozio. Da quel momento ho ascoltato almeno una decina di volte le nove canzoni che compongono questo disco e l’ho fatto per due motivi precisi: il primo è stato indubbiamente quello di metabolizzare gli indubbi cambiamenti avvenuti nel suono della band ed il secondo, consequenziale al primo, è stato quello di riuscire a dare il mio modesto, ma pur sempre obiettivo, giudizio. Ecco quindi cos’è scaturito dai miei ascolti: il pezzo che apre l’album, Fermami, potrebbe ricordare uno dei brani più rock di quel folle di Mgz, Di Poche Parole è un surf sporcato di elettronica “povera” che fa tanto Man Or Astro-man? post svolta Devo, Pittore, che poi è la mia canzone preferita del lotto, mi ha rimembrato addirittura una band mirabile come gli Avvoltoi con il suo suono volutamente retro-futurista (?!?) ed il suo testo (finalmente) ingenuo. Proseguendo nell’ascolto il mio interesse è stato destato dai ritmi grintosamente punk di Via XXV Aprile 67, dalle atmosfere garage screziate di synth di Atmosfera protetta e dall’epitaffio finale di Tkngrg nella quale i ritmi si rialzano 69 sopra i livelli di guardia. Nel descrivere i considerevoli mutamenti avvenuti nel sound de Le Carogne si potrebbero scomodare discendenze più o meno nobili, ma è soltanto ascoltando con attenzione questo album che potrete farvi un’idea di una raccolta che, passato un primo momento di comprensibile spaesamento, potrebbe riservarvi notevoli e piacevoli sorprese. Le Carogne sono tornate, sono cambiate ma sempre e comunque viva Le Carogne. Il Santo ABYSMAL GRIEF “Feretri” Terror From Hell Records Arrivando un pò in ritardo sull’uscita di questo disco, si rischia inevitabilmente di essere ripetitivi o, ancor peggio, di fare un bignamino di tutte le recensioni già uscite. Ciò che mi resta, a questo punto, è provare a parlare, da genovese, di una band della mia città che perpetua un filone musicale che, all’ombra della Lanterna, trae ispirazione da un immaginario agli antipodi della modernità, fatto com’è di riferimenti ai mitici sceneggiati tv in bianco e nero e all’horror all’italiana, più FulciBava che Argento, e lo dimostra scegliendo come copertina un’immagine tratta da uno dei rivalutati B-movies dei primi anni 70 ’70. In una città che si sta decomponendo seppellita dalla crisi, prima ancora morale che economica, avvilita dall’ignavia dei governanti e aggrappata alle sorti di un porto che fatica a reggere l’accresciuta competitività della concorrenza, gli Abysmal Grief come sfondo per le loro (rare) foto promozionali non scelgono, come parrebbe logico, i monumenti funebri di Staglieno, simbolo decadente della nobiltà di una Superba che ha cessato di esistere da decenni, bensì i piccoli cimiteri di periferia o di campagna, nei quali anonimi resti contrassegnati da una semplice croce faticano a ritagliarsi spazio tra le erbacce e l’incuria volte a simboleggiare, anch’esse, un degrado che appare irreversibile. Seguendo la strada tracciata, perlomeno a livello di immaginario retrospettivo, dai Malombra prima e da Il Segno Del Comando poi, gli Abysmal Grief esorcizzano il terrore della morte nel miglior modo possibile, ovvero con un doom malsano e dai tratti antichi, nel quale è un magnifico hammond a condurre le macabre danze contrappuntato da un basso pulsante e, talvolta, dominante anche su una chitarra che, quando si ritaglia spazio in versione solista, lascia sempre il segno; a piantare gli ultimi chiodi sulla bara è, idealmente, la voce di Labes C. Necrothytus che ricorda in senso lato quella del grande Carl McCoy, almeno nell’impostazione, passando da tonalità baritonali ad un growl profondo ma sempre comprensibile, e nella capacità di comunicare il funesto contenuto lirico dei brani. Questo disco mostra un volto diverso, più orrorifico e morboso, del doom, che in tutte le sue versioni mantiene le proprie caratteristiche di musica per pochi, e pazienza se la sua visibilità a livello di media è nulla e se, conseguentemente, chi organizza i concerti fatica a riempire locali anche piccoli; il doom è un modus vivendi (e non “moriendi” come potrebbe erroneamente pensare qualcuno) e per suonarlo ed ascoltarlo è necessaria una sensibilità diversa che consente di godere di sensazioni e vibrazioni psichiche precluse alla maggioranza delle persone. Feretri in definitiva, corrisponde per filo e per segno a ciò che ogni appassionato avrebbe voluto ascoltare dagli Abysmal Grief; l’insinuante e malefica tastiera che pervade questi tre quarti d’ora di grande musica si è incuneata nel mio cervello e non ha nessuna intenzione di abbandonarlo in tempi brevi. Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana. Letteralmente imperdibile. Stefano Cavanna MOURNING BELOVETH “Formless” Grau Records Gli Irlandesi Mourning Beloveth sono una della band europee più longeve in ambito death-doom, potendo vantare un’esperienza ormai ventennale costellata di lavori di indubbio valore (citerei tra tutti il secondo album “The Sullen Sulcus”), ma evidentemente insufficienti fino ad oggi a farli assurgere ad uno status superiore a quello (peraltro invidiabile) di cultband. Sicuramente i nostri se ne infischiano di queste considerazioni, a giudicare dalla musica contenuta nella loro ultima fatica Formless (che arriva a ben cinque anni di distanza da “A Disease For The Ages”), oltre che per la durata, vicina all’ora e mezza, spalmata su 2 cd, che certo non favorisce ascolti distratti od occasionali: la verità inconfutabile che emerge da questo lavoro è che i Mourning Beloveth sono stati capaci di imprimere un loro marchio indelebile in questo lungo e straziante percorso che si conclude con l’ultima nota di Transmission. Se è vero che il solco compositivo entro il quale si muove la band irlandese è evidentemente quello tracciato dai consueti My Dying Bride e primi Anathema, non si può fare a meno di notare quanto influisca sul sound la diversa 71 provenienza geografica e la conseguente tradizione musicale rispetto alle omologhe band albioniche. Infatti, grazie anche al magnifico contributo vocale di Frank Brennan alle clean vocals, spesso pare di ascoltare una versione iper-rallentata dei conterranei Primordial (emblematica in tal senso la magnifica Nothing Has A Centre), ma sarebbe ingeneroso ridurre l’operato dei Mourning Beloveth a una semplice fusione di queste due influenze. Basta ascoltare una perla come Dead Channel per rendersi conto delle veridicità di questa affermazione, in particolare quando nella sua parte centrale il brano si apre in un crescendo velato di un’epica mestizia; come pure non si può tacere della maestosità dell’opener Theories Of Old Bones e della successiva Ethics On The Precipice, tracce dalla lunghezza considerevole eppure prive di momenti di stanca. Se vogliamo, la sola Old Rope si rivela come un episodio nella norma, senza particolari slanci e ossequioso dei dettami del deathdoom più classico, ma per certi versi la sua collocazione si rivela funzionale inserendosi come una sorta di breve intermezzo tra le due coppie d’assi presenti nella tracklist del primo cd, che viene concluso dalla già citata Nothing Has A Centre: prendete Alan Averill e soci, spogliateli della componente più rabbiosa sostituendola con le cupe trame del doom più evocativo 72 e otterrete un formidabile risultato. L’alternanza tra il cantato pulito di Frank e il feroce growl di Darren Moore funziona sempre alla perfezione (cosa tutt’altro che scontata) nel corso del disco ma in questo brano raggiunge livelli molto vicini alla perfezione. Un discorso a parte merita Transmission, brano che occupa per intero il secondo cd pur avendo una durata “limitata” a circa un quarto d’ora; in effetti le differenze rispetto alle sonorità mostrate in precedenza sono notevoli, tanto da rendere apprezzabile la scelta di farlo apparire una sorta di bonustrack, isolandolo dal resto del lavoro. In effetti, una traccia così particolare, interamente acustica e per certi versi definibile come una sorta di doom-blues, per essere apprezzata appieno necessita d’essere ascoltata come un’opera a sé stante: esperimento sicuramente affascinante che dimostra il valore della band irlandese e soprattutto la sua volontà di non appiattirsi troppo sui consueti modelli di riferimento. I Mourning Beloveth dopo anni costellati di produzioni encomiabili ma rimaste confinate in un immeritato limbo, con Formless sfornano il disco che li potrebbe consacrare tra i nomi più influenti della scena death-doom europea. Stefano Cavanna 73 THE MEN “New Moon” Sacred Bones Della loro infatuazione per la tradizione americana ce ne eravamo già accorti su Open Your Heart, capolavoro che ci aveva regalato, immerse in un pantano di suoni noise indie, quei due momenti di meraviglioso relax intriso di tradizione sudista di Country Song e Oscillation. Ma qui la cosa inizia a farsi seria. O a rompere le palle, fate vobis. La nuova luna dei The Men, purtroppo per noi poveri insaziabili consumatori di rock’n’roll-noise, ha portato in dote una dose aggiuntiva di slide guitars vogliose di blues, ballate, armoniche e chitarre acustiche a disegnare melodie americane da cantare tutti in coro davanti al caminetto. Detta così fa impressione eh? Ma dopo l’iniziale spaesamento (“dai The Men mi aspettavo tutt’altro” e stronzate del genere) bisogna pure ammettere che i quattro ragazzi newyorkesi ci hanno saputo fare anche stavolta. Che a parte la dose massiccia di country e folk, c’è ancora un’anima indie noise bene in vista capace di abbattere qualsiasi concorrente. E che in fondo, ‘sta roba qui non è che la naturale evoluzione del loro sound. Le vette di Open Your Heart sono lontane, ma di pane da mettere sotto i denti i Nostri continuano a fornirne in quantità industriale. Se 74 le ballate country Open The Door e High and Lonesome lasciano un po’ interdetti, il resto del disco, invece, cresce di continuo con gli ascolti e finirà per rapirvi l’anima così come aveva fatto il precedente. Half Angel, Half Light e Without A Face sono due bellissime ballate folk sporcate di rifiuti noise e rock’n’roll, dove le linee armoniche disegnate da chitarra acustica e armonica si sposano con wah-wah (la prima) e sferragliate noise-core (la seconda). The Seeds è una bellissima ballata country-blues arricchita da una linea di basso distorta posta in sovrimpressione e da un bel solo di mandolino (eh già). Neil Young fa capolino da I Saw Her Face, ispirando un folk rock chitarristico che deraglia sul finale causa accelerazione punk. Arrivati circa alla metà del disco, i rapporti di forza sembrano cambiare. Il folk e il country rimangono sottotraccia, salvo qualche colpo di coda (Bird Song), e riaffiorano prepotenti le escrescenze noise. E allora ecco in rapida successione la bellissima cavalcata noise’n’roll di The Brass, lo splendido ruggito indie del primo singolo Electric, le ballate folk-rock stuprate da chitarre noise di I See No One (uno dei pezzi migliori del lotto) e Freaky, o le sferragliate noise di Supermoon.New Moon conferma: i The Men sono la miglior indie rock band in circolazione! Kaosleo