“un progeo per gli studenti dell`università di padova ”

UNIVERSITÀ DI PADOVA
COMUNE DI PADOVA
ASSESSORATO ALLA CULTURA
SETTORE ATTIVITÀ CULTURALI
xi edizione
2012
un progetto per gli studenti
“dell’università
di padova
”
CENTRO D’ARTE DEGLI STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA
25 MAGGIO, 8/9 GIUGNO 2012
AUDITORIUM C. POLLINI, PADOVA
In collaborazione con
Si ringrazia per il contributo
con il patrocinio del
Quartiere 1 Centro
Media
Partner
JOHN CAGE : 1912-1992-2012
Il Centro d’Arte, in collaborazione con SaMPL e il Conservatorio “Pollini” dedica, nell’ambito
della rassegna ‘Impara l’Arte’ promossa dall’Università e dall’ESU di Padova, questa breve
ma intensa rassegna dedicata ai cento anni di John Cage, uno degli artisti oggettivamente più importanti della modernità.
L’influenza di Cage si è espansa in molte direzioni, e spesso si tende a smarrire il senso
del suo profondo radicamento nella cultura musicale, il suo essere primaditutto un compositore. Come venti anni fa festeggiavamo i suoi ottant’anni, sempre all’Auditorium, con
la prima esecuzione italiana di Fourteen, del 1990, insieme ad uno dei suoi lavori capitali,
il Concert for Piano and Orchestra del 1958, la nostra rassegna di quest’anno intende riaffermare soprattutto questo, offrendo, nella misura del possibile, un campionario molto
differenziato delle diverse fasi della sua produzione, ricorrendo ad attualizzazioni e nuove
realizzazioni, sempre rispettose delle partiture, che fanno ricorso alle speciali risorse tecnologiche di cui dispone il Conservatorio.
Insieme a Cage, porgiamo un omaggio a un altro grande artista, tra i più affini a Cage
che la cultura italiana abbia prodotto: Sylvano Bussotti, musicista che ha forti legami con
Padova e che fu anzi il tramite di un unico, importante episodio che vide Cage operare
nella nostra città, nel 1958.
Questa rassegna, il cui cartellone è interamente frutto di produzioni originali ed esclusive,
offre diverse prime esecuzioni, è stata resa possibile non soltanto dagli enti che l’hanno
materialmente sostenuta, ma dal contributo volontario e dalla grande disponibilità dimostrata da una pluralità di soggetti operanti a vario titolo presso le associazioni e gli
organismi che l’hanno organizzata.
A loro tutti vada il nostro più sentito ringraziamento.
JOHN CAGE IN ITALIA: «SENTIERI INTERROTTI».1
VENIERO RIZZARDI
Per molto tempo la ricezione dell’esperienza di Cage come un insieme di dati di fatto,
ossia di produzioni musicali, è stato un tema minoritario o assente, soprattutto in Europa,
dove sul finire degli anni Cinquanta, quando Cage innescò, oggettivamente, una reazione
autocritica da parte delle avanguardie musicali, si finì presto per convenire sull’irrilevanza
e in definitiva sull’inutilità di una disamina dei testi veri e propri dei singoli lavori, sembrando sufficiente apprezzarne l’artisticità, oltre agli aspetti provocatori, nel carattere di
performance, nei riferimenti extramusicali, negli aspetti parateatrali, ecc. Era così evitata
una discussione, generalmente ritenuta imbarazzante, attorno ai contenuti propriamente
musicali del suo lavoro.
Per comprendere la musica di Cage si è dovuto attendere il formarsi di uno stile di
analisi anche filologicamente attrezzato, che riconducesse la sua produzione alla sua
oggettività,2 quando in precedenza le dettagliate descrizioni delle procedure compositive che lo stesso Cage aveva fornito, per illustrare al meglio le possibilità dell’indeterminazione, sembravano dispensare da fatiche analitiche in cui nessuno d’altronde riteneva
utile avventurarsi, e lasciavano aperte le questioni poste dalle opere in quanto tali. La
critica e la musicologia, specialmente in Europa, sono dunque a lungo rimaste sorde alla
sollecitazione implicita a una delle fondamentali affermazioni di principio di Cage, il suo
compito di compositore essere appunto quello di porre, ad ogni nuova opera, sempre
nuove questioni. Soltanto poco prima della sua morte, verso la fine degli anni Ottanta,
sono stati gradualmente rimossi i motivi sostanzialmente ideologici che avevano caratterizzato la prima ricezione europea di Cage. Spentasi l’eco di uno scandalo iniziatosi
ormai svariati decenni addietro, è stato avviato un confronto finalmente disincantato con
la specificità musicale della sua produzione, senza per questo neutralizzarne la radicalità
degli assunti. Ed è su tale orizzonte che occorre tracciare una considerazione retrospettiva della sua ricezione europea, che prende avvio nel 1949, quando Cage stabilisce un
importante contatto con Pierre Boulez e l’ambiente musicale parigino, e che si sviluppa
pienamente dopo il 1954, anno delle prime presentazioni pubbliche delle composizioni
realizzate per mezzo di chance operations in una delle principali vetrine della nuova musica europea, il festival di Donaueschingen, allorché suscita una reazione vivacissima da
parte dell’intera comunità internazionale dei compositori e musicologi. Tuttavia la storia
della ricezione europea di Cage non si può fare senza tener conto di significative varianti
regionali: non è dunque per convenzione, ma per ragioni oggettive che è opportuno
affrontare il tema ‘Cage in Italia’, ricco di dati di fatto e di motivi d’interesse, che spesso
fuoriescono dall’ambito della cultura musicale. Il tema viene qui affrontato sommando
alcuni frammenti di una storia ancora da scrivere; per il momento proponiamo un certo
numero di dati e commenti a momenti significativi della sua fortuna italiana.
Cage passò gran parte del 1949 in Europa insieme a Merce Cunningham, soggiornando
1 L’impianto di questo articolo risale al 1993. Pubblicato sul n. 2 dei «Quaderni Perugini di Musica
Contemporanea» in un numero interamente dedicato al compositore statunitense da poco scomparso, cercava di proporre una prima retrospettiva sulle vicende della ricezione italiana di Cage. Lo
ripubblico qui per quanto, dopo tanti anni, mi pare ancora utile – attualizzando dove necessario;
integrando, aggiornando dove opportuno, insomma tutto ciò che era inevitabile fare, in alternativa a
un nuovo articolo oppure alla pubblicazione di quello vecchio tal quale come ‘documento storico’.
2 Fondamentali sono stati in questo senso gli studi pubblicati da James Pritchett a partire dal 1979
e confluiti poi nel volume The Music of John Cage, Cambridge, Cambridge University Press, 1993,
che rimane tuttora il migliore contributo musicologico sull’intera opera di Cage.
soprattutto a Parigi, dove strinse un’importante amicizia con Boulez, ebbe modo di presentare in diverse sedi i suoi lavori per pianoforte preparato e in generale stabilire una
connessione con gli ambienti della musica contemporanea europea, le cui conseguenze si
sarebbero manifestate appieno qualche anno più tardi. Questo potrebbe valere in misura
ancora maggiore per il suo soggiorno italiano, di cui non si può però dire se abbia davvero favorito un qualche reale contatto con l’ambiente musicale. Cage fu infatti presente
al Festival della Società Internazionale di Musica Contemporanea che quell’anno si tenne
in Sicilia, nel’ultima settimana di aprile. Assistette al Pierrot Lunaire di Schoenberg diretto
da Pietro Scarpini, con Marya Freund, a Villa Igea di Palermo, recensendolo entusiasticamente per Musical America.3 Dallo stesso articolo si apprende che Cage, terminato il
festival, si spostò a Milano per il primo Convegno Internazionale di Musica Dodecafonica.
È suggestivo pensare che in queste occasioni possa avere incontrato e scambiato idee
con compositori italiani, in particolare Bruno Maderna, anch’egli presente a Palermo e a
Milano, ma di contatti del genere non si è finora trovata traccia.
Per la sua prima apparizione pubblica si deve attendere il 1954. I cinque anni trascorsi
nel frattempo sono carichi di sviluppi sia per Cage sia per la musica europea. In quell’anno Luciano Berio, che forse lo aveva incontrato in occasione di uno dei suoi numerosi
concerti europei di qualche mese prima, sollecitò Gino Negri, allora curatore della programmazione musicale del Centro Culturale Pirelli di Milano, a organizzare in quella sede
un concerto a due pianoforti con Cage e David Tudor. Il concerto milanese, tenutosi il 5
dicembre 1954, fu l’ultimo del loro tour autunnale, e con ogni probabilità comprendeva
i nuovi pezzi per pianoforte preparato 31’57.9864” for a Pianist e 34’46.776” for a Pianist,
a volte eseguiti simultaneamente. È sicuro che si riprodusse anche a Milano lo scandalo
già suscitato a Donaueschingen e altrove. Si verificò tra l’altro un incidente grottesco:
Riccardo Malipiero, che aveva introdotto il concerto, durante l’intervallo prese di nuovo la
parola per ritrattare tutto quanto di elogiativo aveva premesso, sulla fiducia, all’esibizione
dei due americani.4
Ma anche in Italia, come nel resto d’Europa, bisogna attendere qualche anno perché la
presenza di Cage abbia modo di esercitare un’azione sui giovani compositori, e precisamente il 1958, quando Cage torna in Europa, presenta il Concert for piano and orchestra5 e si presenta ai Corsi estivi di Darmstadt insieme a Tudor, con un seminario e una
delle sue provocatorie conferenze-performance. In Italia è Berio il primo a mostrare un
interesse attivo nei suoi confronti: già nel 1956 organizza al Conservatorio di Milano un
concerto per la serie degli «Incontri Musicali» da lui diretta (replicato poi al Conservatorio
di Venezia), in cui David Tudor presenta Music of Changes ;6 poi, sul finire del 1958, invita
nuovamente Cage a Milano, dove soggiorna per quattro mesi fino al febbraio del ‘59; in
questo periodo realizza tra l’altro il nastro di Fontana Mix presso lo Studio di Fonologia
della RAI, con l’assistenza di Marino Zuccheri,7 e compone Aria per Cathy Berberian, che
subito ne presenta la prima esecuzione.8 Ed è sempre per interessamento di Berio, nonché di Umberto Eco e Roberto Leydi, che Cage partecipa alle trasmissioni TV di Lascia o
3 John Cage, Contemporary Music Festivals Are Held in Italy, «Musical America», giugno 1949, ora
in John Cage: Writer. Selected Texts, a cura di R. Kostelanetz, New York, Cooper Square, 2000, p. 45.
4 Così mi riferiva nel 2000 Roberto Leydi, che all’epoca aveva fatto parte del gruppo promotore
della serata Cage al Circolo Pirelli.
5
Köln, Westdeutsche Rundfunk (Musik der Zeit), 19 set. 1958. David Tudor, pf., John Cage, dir.
6
Milano, 6 dic.1956, Venezia 8 dic. 1956.
7
Cfr. la testimonianza di Marino Zuccheri Hur Fontana Mix kom till, in «Nutida Musik», VI/6 (1962/63).
8
Roma, Accademia Filarmonica, 5 gen. 1959.
Raddoppia, nel gennaio ‘59, per le quali compone appositamente Water Walk e Sounds
of Venice, due brevi composizioni che utilizzano nastri realizzati allo Studio di Fonologia. Berio e Cage in questo periodo effettuano anche una breve tournée italiana con un
programma di musica per due pianoforti (Winter Music, Music for Piano, Variations I), e la
partecipazione occasionale di Cathy Berberian.9 Le cronache di quel periodo segnalano
altre presentazioni della musica di Cage, come il concerto milanese del 21 gennaio alla
Rotonda del Pellegrini, primo episodio pubblico dell’associazione di Cage con Juan Hidalgo e Walter Marchetti;10 e un significativo passaggio a Padova, favorito dalla presenza
in città di Sylvano Bussotti e Heinz-Klaus Metzger, che organizzano per conto dell’allora
vivacissimo circolo culturale «Il pozzetto» una performance pianistica di Cage, cui partecipano essi stessi insieme a Teresa Rampazzi. Il programma padovano comprendeva Winter Music, parti di Music for Piano, Variations I, Music Walk e uníaudizione del nastro del
Concert for Piano and Orchestra registrato a Colonia pochi mesi prima. La serata ebbe
luogo il 7 febbraio, e fu preceduta da una conferenza di Metzger su Il progresso musicale
da Schönberg a Cage.11 È del resto significativo che la prima pubblicazione del saggio di
Metzger John Cage o della liberazione, decisivo per la ricezione europea di Cage, appaia,
quell’anno, in italiano (tradotto da Sylvano Bussotti) su Incontri Musicali,12 la rivista diretta da Berio e collegata all’omonima serie di concerti organizzata congiuntamente con
Luigi Nono a Venezia.
Occorre poi ricordare il concerto, importante per l’ambiente romano, di David Tudor nel
novembre 1959 all’Eliseo; poi i concerti veneziani di «Musica d’oggi» (giugno 1960) di
Cage, Tudor, e Cornelius Cardew all’Accademia di Belle Arti, con la prima italiana del
Concert for Piano and Orchestra, e le Variations I , seguiti, di lì a qualche mese, dallo spettacolo di danza di Merce Cunningham e Carolyn Brown, con Cage, Tudor ed Earle Brown,
alla Biennale di Venezia. Le presenze di Cage in Italia si diradano a partire dal 1962, per
riprendere sul finire del decennio – si deve ricordare almeno il lavoro di Marcello Panni e
della cerchia riunita attorno alle Settimane Musicali di Palermo13 – in una situazione ormai
mutata, che ha già riassorbito l’impatto, e gli entusiasmi di quelle prime presentazioni.
Sono dunque gli anni tra il 1954 e il 1962 a delimitare la prima ricezione italiana di Cage,
comprendendo, in un ruolo del tutto particolare, la posizione di Luigi Nono che, in una
sede internazionale come i Corsi estivi di Darmstadt, nel settembre del 1959 prende nettamente posizione contro la scuola informale nordamericana nella conferenza Presenza
storica nella musica d’oggi, un testo che avrà in breve un’intensa circolazione.14 Tuttavia,
prima di procedere a un commento di questi fatti, occorrerà qualche considerazione più
generale sulla posizione di Cage rispetto alle avanguardie europee degli anni Cinquanta.
9
Milano, 20 dic. 1958, Roma, 5 gen. 1959, Firenze 8 gen. 1959.
10 La registrazione del concerto è stata pubblicata nel 1999 a cura di Gabriele Bonomo nel CD
Rumori alla Rotonda, Alga Marghen VA 11NMN.031. Il programma comprendeva musiche di Cage,
Feldman, Marchetti, Hidalgo e Leopoldo La Rosa.
11 La documentazione si trova ora ne Il Pozzetto - un orizzonte aperto, a cura di F. Busetto e M. B.
Ceolin, Padova, Editoriale Programma, 1991.
12 Oggi reperibile in John Cage, a cura di G. Bonomo e G. Furghieri, Milano, Marcos y Marcos, 1999
(«Riga», 15), p. 273.
13 Visione che si ebbe nel cielo di Palermo. Le Settimane Internazionali Nuova Musica 1960-1968,
a cura di F. Tessitore, Roma, Cidim – Rai-Eri, 2003. Al volume sono allegati due CD, uno dei quali
comprende una storica registrazione di Winter Music, eseguita da A. Ballista, B. Canino, A. Neri, F.
Rzewski, V. Voskobojnikov al Teatro Biondo di Palermo il 31 dicembre 1968.
14 Con il rifiuto
rifiuto dell’esperienza di Cage, Nono si poneva contemporanemente in urto con la stessa
cerchia di Darmstadt. Cfr. L. Nono, Presenza storica nella musica d’oggi, in La nostalgia del futuro.
Scritti scelti 1948-1986, a cura di A.I. De Benedictis e V. Rizzardi, Milano, Il Saggiatore, 2007, pp. 147154.
La compresenza-complementarietà delle tecniche di organizzazione seriale della scrittura e di quelle volte alla ‘mobilità’ e ‘apertura’ della forma è un motivo forte della musica
nuova, e l’intenso scambio di esperienze tra Cage e Boulez sul finire degli anni Quaranta, quale viene documentato dalla corrispondenza,15 può considerarsi un vero e proprio
laboratorio d’idee nel quale il comune orientamento all’automatismo e all’impersonalità
dei processi compositivi non si è ancora fissato nel ricorso a principi – casualità e serialità
– che, poco più tardi, verranno ideologicamente contrapposti, con un’artificiosità polemica che lascerà tracce durature. Da questa angolatura il ruolo di Cage, comunemente
designato come colui che fa precipitare la ‘crisi’ della musica seriale, appare invece tutto
interno alle vicende della nuova musica europea – anzi, il fatto che Cage sia divenuto
l’emblema stesso di quella crisi si lascia interpretare proprio in ragione del suo contributo,
decisivo, alla formazione di quello stesso pensiero seriale. In questo intreccio, dunque, se
è relativamente facile risalire a Cage dalle partiture più scopertamente eversive, non è
così semplice stabilire quanto lineare sia la sua influenza sulla quantità di opere ‘aperte’
e ‘mobili’ che si vengono producendo in quel periodo. Certo, le coincidenze temporali
con quanto si produce in Italia sembrano parlare chiaro: con la Sequenza per flauto solo
(1958) Berio introduce nel suo lavoro elementi di indeterminazione per quel che riguarda
le durate; e Franco Evangelisti concepisce il quartetto Aleatorio nel ‘59, in tre brevi sezioni in successione libera, e altezze in qualche caso indeterminate.
La prima fase della ricezione italiana di Cage corrisponde dunque a contatti, incontri,
concerti, frequentazioni che avvengono durante il suo intenso soggiorno milanese; e non
è una coincidenza il fatto che i musicisti a lui più vicini in questa fase siano quelli che
assumono più pragmaticamente nel loro lavoro i risultati della destrutturazione cageana
fino a farne elementi di stile: né i ‘pittogrammi’ di Sylvano Bussotti, né le performances
di Walter Marchetti hanno in comune gran che con le riflessioni in negativo, appena qualche anno più tardi, di un Donatoni. Quanto a Berio, è noto quanto la sua scrittura vocale
sia stata influenzata dalle caratteristiche vocali e interpretative di Cathy Berberian, ma
è anche vero che Aria di Cage contribuì in modo decisivo ad affermare la personalità di
Berberian come musa vocale della neovanguardia.
Le tracce certe dell’influenza di Cage sono comunque assolutamente eterogenee. Per
esempio, è interessante osservare come il testo capitale, il Concert for Piano and Orchestra, agisca in direzioni tanto diverse: la sua notazione, in cui Cage aveva compendiato
tutte le sue scritture sperimentali fino a quel momento, è l’antecedente immediato dei
piano pieces for david tudor16 del 1959, metamorfosi musicale, suggerita da Metzger, di
alcuni disegni che Bussotti aveva tracciato anni prima - dove entra in gioco, come motivo originario, un gestualismo affine a quello riscontrabile nelle performances cagiane.17
D’altronde è propriamente l’immagine sonora, inaudita, del Concert il modello evidente
di un’opera come il Concerto per pianoforte (ancora 1959, dedicato a David Tudor), che
Bruno Maderna realizzò per mezzo delle elaborate tecniche seriali che impiegava in quegli anni, una partitura convenzionalmente notata, ad eccezione della parte solistica, che
invece abbonda in grafismi e notazione ‘d’azione’.
15 Pierre Boulez/John Cage, Correspondance et documents, edités par Jean-Jacques Nattiez, nouvelle éd. revue par R. Piencikowski, Mainz, Schott, 2002; tr. it. Corrispondenza e documenti, ed. it. a
cura di W.E. Rosasco, Milano, Archinto, 2006.
16
Correttamente, five piano pieces for david tudor.
17 Occorre anche accennare, in questo contesto, a Giuseppe Chiari, inizialmente associato a Bussotti, e più avanti direttamente coinvolto nel movimento fluxus.
La ricezione verbale di Cage esprime questa situazione in modo caratteristico: per esempio, Umberto Eco, fin d’allora molto vicino a Berio, sceglie di iniziare la trattazione de
«la poetica dell’opera aperta», in uno dei libri-chiave della neoavanguardia,18 con quattro
esempi musicali (Stockhausen, Klavierstück XI; Berio, Sequenza per flauto solo; Pousseur,
Scambi; Boulez, Troisième Sonate) cioè tutti lavori in diverso modo debitori a Cage, e
in qualche caso per ammissione degli stessi autori – mentre il compositore americano
figura, in quello stesso libro, soltanto in un’appendice dedicata alla penetrazione delle
dottrine Zen nella cultura occidentale. Questo esempio illustra bene come la rapida assimilazione del pensiero di Cage all’orizzonte problematico delle neoavanguardie coincida
con l’avvio della rimozione della sua esperienza musicale vera e propria, mentre la sua
azione viene già rubricata tra le ‘attualità culturali’.
Questo effetto di rimozione è il prodotto di due prese di posizione in apparenza contrapposte, l’una nettamente critica, l’altra apologetica, che tuttavia, finiscono ambedue per
travisare gli assunti originali di Cage. Da una parte, come si è detto, è la critica tutta politica di Luigi Nono, che accusa Cage di un’ostentata indifferenza verso la storia e il necessario confronto che ogni artista deve istituire con essa; Nono inoltre nella sua requisitoria
equivoca volontariamente il concetto di indeterminazione con quello di improvvisazione
– quest’ultimo in realtà osteggiato da Cage – che favorirebbe irresponsabilità e dilettantismo da parte del compositore.19 Dall’altra parte vi è l’assolutizzazione del pensiero di
Cage come critica dei fondamenti del comporre, in origine adornianamente proposta da
Metzger,20 e destinata a divenire una formula teorica ambiguamente ‘radicale’ di larga
circolazione.
È passato qualche anno, e nel 1963, quello che sarà il principale sostenitore italiano di
Cage, Mario Bortolotto, interviene a commentare le «urgenze mimetiche della nuova musica», ossia l’esplicitazione della sua condizione critica nel ritrovamento di metalinguaggi:
soprattutto quello scenico, da cui nacque quello che fu denominato «teatro strumentale». Bortolotto tracciava una linea diretta tra Cage e la nuova ‘metamusica’ europea, sostenendo non tanto che la «critica» dell’americano negasse semplicemente «la capacità,
dimostrata ad usura, di riuscire ancora a pensare la composizione, a far musica insomma;
ma che ebbe tutto il suo valore quando propose una soluzione ancor più strenua, che fu
del dekomponieren prima; e oggi, con Kagel e Schnebel, l’affacciarsi di una semplice provocazione a mimare l’atto in cui la musica sorge, insieme creativo ed esecutivo, e cioè ad
agire come se la musica fosse ancora possibile».21 Tre anni più tardi l’azione della critica
(non più virgolettata!) di Cage verrà considerata anche più profonda, in un commento
retrospettivo alla stagione della composizione cosiddetta aleatoria: «La provocazione,
l’intellettuale morsa degli enunciati cagiani, scardinarono concetto, e prassi, aleatori,
semplicemente indicandone la tenue provvisorietà. La multivalenza di quel comporre dà
in effetti per intangibile il momento compositivo in sè: ne garantisce, giusto estendendone il raggio, la natura carismatica».22
18
Umberto Eco, Lo Zen e l’Occidente, in Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962, pp. 212-215.
19 Cfr. sempre L. Nono, Presenza storica nella musica d’oggi, cit. La corrispondenza tra Nono e
Cage rivela, d’altra parte, un perdurante rapporto di amicizia tra i due che si rinsalda, poco prima
della morte di Nono, in un incontro avvenuto a S. Pietroburgo (allora Leningrado) nel maggio 1988,
durante il 3. Festival Musicale Internazionale dell’URSS (comunicazione personale di J. Cage, maggio
1990).
20
Cfr. John Cage o della liberazione, cit.
21 Mario Bortolotto, Comédie à tiroir. Sulle urgenze mimetiche della nuova musica, ne «Il Verri», n.14,
1964, p. 64.
22 Mario Bortolotto, un paradisus interruptus, in Avanguardia e Neoavanguardia, Milano, Sugar, 1966,
p. 245.
A questa posizione corrispondeva più di ogni altro l’atteggiamento del compositore italiano che definì allora un possibile post-cagismo in termini radicali e negativi, ossia Franco Donatoni, che tra il 1961 (Puppenspiel) e il 1962 (Per orchestra) aderiva ad un «metodo che consentisse di indagare la possibilità di indeterminazione globale della materia
sonora»; nel suo primo e più importante compendio di poetica, Questo, Donatoni parte
dall’irreversibilità dell’esperienza di Cage in quanto negazione del comporre («per essere
cagiani non serve studiare l’opera di Cage, bisogna soltanto esser compositori e morire
cagianamente») respingendo però fermamente, nello stesso Cage, la possibilità, giudicata illusoria, di qualunque «rigenerazione». Occorreva allora, secondo Donatoni, correggere l’errore fondamentale nato dall’esperienza di Cage: «l’atto di identificarsi al potere del
suono è appropriazione indebita di potere e reato di lesa materia».23
Anche Franco Evangelisti mostra di condividere la posizione di Bortolotto,24 pure nel suo
lavoro l’azione di Cage dà luogo ad una diversa, feconda ambiguità: se la sua invocazione
dell’imminente fine della musica non è una conclusione apocalittica, bensì l’avvento di un
«nuovo mondo sonoro» a venire – qualcosa che per Cage era invece praticabile da subito
– le invenzioni che precedono il silenzio di Evangelisti sono invece, nell’applicazione coerente dell’indeterminazione dei parametri compositivi, tra le più autenticamente cagiane
delle musiche prodotte in Italia in quegli anni: Random or not Random, definita, più che
un partitura, una somma di «appunti» per orchestra (1957-62), è esplicitamente dedicata
«alla squisita poetica del nulla di John Cage».
Una serie di testimonianze tardive, raccolte in un volumetto uscito nel 197825 a seguito
di due importanti manifestazioni italiane dedicate a Cage (v.infra), consentono di comprendere meglio, nel racconto retrospettivo dei protagonisti, i motivi fondamentali della
prima ricezione italiana di Cage. È significativo che a quel punto Bortolotto consideri la
musica di Cage ferma allo stadio della «stupefazione» suscitata con il Concert for Piano
and Orchestra, un giudizio che d’altronde riprende, quasi alla lettera, quello già espresso
da Adorno nel 1964;26 e, nel dichiarare superato il suo stesso «intransigente cagismo» di
un tempo, ricomprende l’esperienza di Cage in un’«avanguardia» ritenuta, in un’accezione molto personale, fenomeno parassitario rispetto all’autentica modernità musicale.
Nelle parole di Paolo Castaldi, Cage sembra divenire l’antecedente diretto del postmodernismo che si affaccia nella seconda metà degli anni Settanta, avendo egli significato
soprattutto la «liberazione da tutte le grammatiche, da tutti i divieti», e l’incoraggiamento
verso il collage, l’«impiego di nessi banali», la «riassunzione della materia consonante» e
lo sdoganamento del principio della ripetizione come elemento strutturale.
Sempre nello stesso volumetto, Niccolò Castiglioni, il cui lavoro peraltro non presenta
riscontri diretti di una ricezione di Cage, rileva acutamente un motivo originario della
poetica cagiana, ossia la proposizione di un diverso ordine dell’ascolto, possibile a partire
dal sovvertimento del rituale concertistico. Sylvano Bussotti, il quale, nei primi anni ‘60,
aveva introdotto una scrittura sperimentale derivata da quella di Cage, fino ad essere
considerato alla stregua di suo allievo, è, del tutto controcorrente, ancora il più vicino, al-
23
Franco Donatoni, Questo, Milano, Adelphi, 1970, p. 16.
24 Franco Evangelisti, Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro, Roma, Semar, 1991. Cfr. l’Appendice A.
Degenerazione del significato della musica. Il libro fu terminato da Evangelisti nel 1979 e pubblicato
per la prima volta in traduzione tedesca a cura di H.-K. Metzger e R. Riehn nella serie musik-konzepte,
43/44, München 1985.
25
John Cage. Dopo di me il silenzio (?), a cura di F. Mogni, Milano, emme edizioni ,1978.
26 Th.W.Adorno, Schwierigkeiten. I. Beim komponieren, tr.it. Difficoltà.I.Nel comporre, in Impromptus,
Milano, Feltrinelli 1973.
meno nella considerazione retrospettiva, alle scelte musicali di Cage, ed anzi il suo richiamo, ancora, al Concert, è in direzione contraria all’esemplarità eversiva continuamente
riproposta, e giunge fino a metterne in rilievo contrassegni «stilistici».27
Si tratta di pensieri ormai postumi, che si compendiano bene nelle parole di Donatoni,
allorché, in questa stessa occasione, ritorna sull’esperienza di Cage qualificandola come
malattia che contagiò un’intera generazione; e «dei sintomi, ognuno di noi assolutizzò
quello a sé somigliante: vi fu il caso e l’indeterminazione, il grafismo e l’improvvisazione,
l’eccentricità narcisistica e lo pseudo-zen, lo happening e la indiscriminazione dell’esito,
il processo formalizzato e l’equivalenza materiale/opera, e chi più ne farnetica più lo attribuisca a Cage».28 I temi ‘negativi’, dominanti nella ricezione europea di Cage, risultano
infatti, nelle esperienze italiane, radicalizzati in una posizione nichilistica come quelle di
Bortolotto e Donatoni, in apparenza simili, ma sostanzialmente lontane dai fondamenti
dialettici del pensiero di Metzger – posizione che, naturalmente, viene consumata molto
presto. Dunque, con le parziali eccezioni rilevate in precedenza, non è quasi per nulla
riscontrabile alcuna pragmatica assunzione, o derivazione, dei principi impiegati da Cage
nel pensare e strutturare gli avvenimenti sonori come avviene, ad es., nelle più diverse
musiche americane definibili post-cagiane, come le performances elettroacustiche di Alvin Lucier, o dello stesso David Tudor, al primo minimalismo, ai ‘sogni’ acustici di LaMonte
Young, etc. – esperienze accomunate nel fondamento essenzialmente sulle virtualità dei
materiali e sul modello naturale di crescita dell’avvenimento sonoro su se stesso, nonché
dalla ridefinizione radicale del rapporto notazione/evento. Qualcosa di simile si può forse
riscontrare nelle pratiche sperimentali (soprattutto la costruzione di nuovi strumenti) di
Mario Bertoncini, tra i primi a eseguire in Italia le opere per pianoforte di Cage e autore,
nel 1965, di Cifre, una partitura largamente dominata dall’indeterminazione – e nel sorgere di gruppi di improvvisazione, in particolare, nel 1965, quello di Nuova Consonanza,
legato soprattutto alle figure di Franco Evangelisti e dello stesso Bertoncini.
Una cronologia delle presenze di Cage nell’attività concertistica italiana fino all’inizio degli anni Settanta – tenuto conto che più spesso, fin dall’inizio del decennio precedente,
erano legate alle tournée della compagnia di danza di Merce Cunningham – indurrebbe
a vedere una continuità che in realtà non corrisponde più ad una qualche influenza sulla
musica che si produce in Italia, tantomeno a una presenza nel dibattito critico. Ciò che si
dice e si scrive su Cage è il residuo cristallizzato di una discussione di fatto già conclusa, e
la pubblicazione, nel 1971, di un’antologia29 da Silence e A Year from Monday giunge come
un frutto fuori stagione; si sarebbe anzi tentati di farne il termine a quo di una nuova fase
della ricezione di Cage, che forse non riguarda più, primariamente, la cultura musicale.
Alle attività di una cooperativa culturale di Milano, e alle iniziative di un collezionista d’arte, Gino Di Maggio, si deve un rinnovato interesse verso il lavoro del Cage ‘multimediale
’degli anni Settanta. Un’etichetta discografica indipendente, CRAMPS, curata tra gli altri
da Walter Marchetti,30 che da tempo faceva riferimento al gruppo fluxus, e da un intellettuale di orientamento situazionista, Gianni-Emilio Simonetti, produce alcuni dischi di
Cage, e, nel dicembre del 1977, si fa promotrice di quello che sarà uno degli avvenimenti
27
L’articolo di Bussotti è riproposto in questo programma.
28
F. Donatoni, Comporre l’esistenza/vivere l’opera, in Dopo di me…, cit., p. 95.
29 J. Cage, Silenzio. Antologia da Silence e A Year From Moday, a cura di R. Pedio, Milano, Feltrinelli
1971. Soltanto molti anni anni più tardi compare la prima traduzione integrale italiana di un libro di
Cage: Silenzio, Rimini, Skahe edizioni, 2009.
30 Marchetti è anche il traduttore della prima edizione italiana del libro-intervista di Cage con Daniel Charles, Per gli uccelli. Conversazioni con Daniel Charles, Milano, multhipla, 1977.
più caratteristici di questa fase: la performance di alcune parti di Empty Words al Teatro
Lirico di Milano, che, grazie alla pubblicità offerta dalla stazione radiofonica Canale 96,
legata a una gruppo milanese della sinistra radicale, che contribuì ad organizzare la serata, schierò davanti a Cage un uditorio di circa duemila persone; si trattava del risultato
di una vera e propria mobilitazione politica, il cui soggetto era il composito movimento
autonomo che qualche mese prima si era espresso nei sette giorni del «Convegno sulla
repressione» di Bologna. Era evidente che si sarebbe andati incontro a un equivoco, che
si manifestò dopo pochi minuti di quieta lettura del testo del Journal di Thoreau, completamente desemantizzato nella manipolazione di Cage; in sala erano presenti gruppi
organizzati di disturbatori, il che fa pensare che la figura di Cage fosse stata usata dagli
organizzatori anche come veicolo pubblicitario, trasformandosi poi nello strumento, o
nel bersaglio simbolico, di una festa caotica e distruttiva, o della messa in scena di un
conflitto, che come tale ebbe però il lieto fine di un paradossale ‘trionfo’ di Cage. Una più
pacifica e spettacolare festa collettiva sarà invece quella dell’estate successiva, ideata da
Tito Gotti, sotto forma di una singolare ed elaborata performance ferroviaria su tre linee
dell’appennino bolognese, mediante un ‘treno preparato’: al suo interno erano installati
altoparlanti che diffondevano suoni variamente prodotti dallo stesso treno, dai musicisti
e dai passeggeri, mentre in ognuna delle stazioni era stato organizzato un diverso evento
musicale.31 L’altro avvenimento di rilievo di quel decennio è la realizzazione a cura di Josef
Anton Riedl per la Biennale di Venezia del 1976 di HPSCHD all’isola di S.Giorgio Maggiore,
una complessa installazione comprendente 52 magnetofoni e 52 diaproiettori e la partecipazione di Cornelius Cardew, Lorenzo Ferrero, Stephen Montague e Frederic Rzewski.
Si deve inoltre segnalare un progetto non realizzato del 1979, una grandiosa installazione
volta a sonorizzare la collina di Montestella d’Ivrea, che Cage immaginò su sollecitazione
di alcune figure locali ancora legate alle idee illuminate di Adriano Olivetti.
Nel corso degli anni Ottanta, la ‘normalizzazione’ politica e la neutralizzazione delle tensioni che avevano animato il decennio precedente comporta anche un nuovo assetto
delle politiche culturali, e viene così meno anche l’aura eversiva dell’opera di Cage, che
dagli anni Cinquanta aveva potuto rigenerarsi e allargarsi fino a toccare una paradossale
popolarità. Si comincia dunque ad assistere a isolate celebrazioni di una personalità ormai venerabile, sulla quale sembra calato definitivamente il giudizio della storia. Giunge
così, tardivamente, il momento del Cage ‘musicista’, con una serie di occasioni create
dall’iniziativa di Mario Messinis, che programma la prima esecuzione italiana dei Thirty
Pieces for Five Orchestras nella Chiesa di S. Stefano a Venezia per la Biennale Musica del
1982 – Cage vi tiene anche la conferenza-performance Composition in Retrospect – e
una seconda esecuzione dello stesso lavoro nella Rassegna della RAI di Torino «Il suono
e lo spazio» (1987). Tra i direttori delle cinque orchestre vi è anche Luciano Berio, che
in quella occasione tiene una conferenza pubblica insieme a Cage, moderata da Claudio
Ambrosini, e rilascia un’intervista in cui, mentre dichiara di avere per lui «un enorme
rispetto» lo definisce «persona molto attraente, un grande clown» e «uno che continua
a disegnare i baffi alla Gioconda», aggiungendo che l’unica cosa che li accomuna è «un
dentista a New York».32
Sempre a Torino, aveva avuto luogo nel maggio 1984 un grande festival Cage durato due
31 Alla ricerca del silenzio perduto. 3 Excursions In a Prepared Train, Variations on a Theme by Tito
Gotti per treni con microfoni, amplificatori, altoparlanti e nastri diffusi nelle stazioni. Cfr. Alla ricerca
del silenzio perduto. Il treno di John Cage. 3 escursioni per treno preparato, 26 giugno 1978 Bologna Porretta Bologna, 27 giugno 1978 Bologna Ravenna Bologna, 28 giugno 1978 Ravenna Rimini
Ravenna, variazioni su un tema di Tito Gotti di John Cage con l’assistenza di Juan Hidalgo e Walter
Marchetti, Bologna, Baskerville, 2008.
32 Berio: I miei progetti con nuove tecnologie, a cura di A. Sinigaglia, «La Stampa», 5 mag. 1987,
p.27.
settimane, e la rassegna di Ferrara Aterforum programmerà numerosi concerti nel 1991,
tra cui la prima esecuzione italiana di Europera 5. A Padova, il Centro d’Arte presenterà
all’inizio del 1992 un concerto dell’Ex Novo Ensemble diretto da Claudio Ambrosini con
il Concert for Piano and Orchestra e la prima esecuzione italiana del ‘terzo concerto’ per
pianoforte e orchestra, Fourteen. L’ultima rassegna organicamente dedicata alla musica
di Cage, e aggiornata sulla sua produzione più recente, sono le giornate organizzate a
Perugia da Alfonso Fratteggiani Bianchi per i Quaderni Perugini di Musica Contemporanea, che coincidono con l’ultima apparizione pubblica in Europa di Cage, nel giugno
del 1992, due mesi prima della morte. La prima esecuzione italiana di 103, per orchestra,
simultaneamente alla proiezione del film One11 avviene a Venezia del 1993 e segna l’avvio
di una fortuna postuma niente affatto costante, che avrà uno dei suoi momenti più significativi nella rassegna di Milano Musica nel 2007.
Vent’anni fa, alla scomparsa di Cage, questo tipo di ambigua fortuna era già prevedibile:
le uniche manifestazioni in memoriam di qualche prestigio furono organizzate nel 1993
dal settore Arti Visive della Biennale di Venezia, non da quello musicale. In area tedesca si
manifestavano segni di un rinnovato interesse per Cage, in coincidenza con l’ultima fase
della sua produzione, caratterizzata da quella che Cage stesso definisce la sua tardiva
«scoperta dell’armonia», e da un parallelo ritorno all’impiego di organici relativamente
tradizionali. In Italia i motivi di una rinascente discussione filosofica sorta attorno alla
poetica di Cage,33 pur se sospetta di un accademismo sconosciuto al dibattito di trenta o anche venti anni prima, sembravano corrispondere all’esigenza, espressa anche in
quest’area da parte di molti giovani compositori, di spostare il senso ultimo del comporre
dalla centralità del segno a quella del suono, così come di porre al centro dell’esperienza
musicale la nozione di ascolto attivo, dunque anche un atteggiamento in generale meno
ostile che in passato a soluzioni informali. Questo era tuttavia, se non altro, il segno di una
ripresa dal fondamentale trauma storico delle avanguardie italiane degli anni Sessanta,
che consumarono l’esperienza di Cage al punto da non volerla, o poterla, comunicare alle
generazioni successive.
33 Cfr. D.Charles, Jo Kondo e John Cage, in «Rivista italiana di Musicologia», XXVI (1991); id., “Un
soffio per nulla”: osservazioni su Heidegger e Cage, in Filosofia 90, a cura di G.Vattimo, Bari, 1991; A.
Raffi, L’abbandono, il tempo, il silenzio: su alcuni luoghi del pensiero di John Cage, in «Musica/Realtà»,
35/1991 .
VENERDÌ 25 MAGGIO 2012
Auditorium C. Pollini, ore 20.15
SIMONE BENEVENTI
MAURO BEGGIO*
FIORI D’ICARUS
GABRIELE GENTA, FRANCESCO PEDRAZZINI,
CHIARA SCHIATTI, NICCOLÒ TOMMASELLO
percussioni
ALVISE VIDOLIN
AMALIA DE GÖTZEN
live electronics e regia del suono
John Cage
(1912-1992)
cComposed Improvisation per solo rullante (1987-1990)
Trio [Allegro – March – Waltz] (1936)
Suite for Toy Piano (1948)
nuova realizzazione di S. Beneventi per gong thailandesi
Claudio Ambrosini
(1948)
Apocalypsis cum Figuris fonurgia drammatica per tamburo
rullante ed elettronica (2012)* – prima esecuzione assoluta
John Cage
One4 per percussionista solo (1990)
Imaginary Landscape n. 1 per due giradischi a velocità
variabile, dischi con frequenze fisse, pianoforte sordinato e
piatto sospeso (1939)
Imaginary Landscape n. 2 (March) per quintetto di
percussioni (1942)
Alvin Lucier
(1931)
Silver Streetcar for the Orchestra per triangolo amplificato (1988)
La musica per percussione ha giocato un ruolo essenziale nello sviluppo della poetica di
Cage. La precoce scoperta del rumore, del suono indeterminato come principale risorsa
compositiva indirizza in modo preponderante l’attività di Cage che per una buona quindicina d’anni, fino circa al 1950, si servirà di un utensile compositivo, la rhythm structure,
per assicurare un rigido controllo formale su questa materia tendenzialmente informe.
Si tratta di un sistema per cui le medesime proporzioni controllano la forma generale, le
singole sezioni e le singole frasi (gruppi di battute). Naturalmente in questa prevalenza di
risorse percussive rientra il pianoforte preparato, nato in effetti dalla necessità pratica di
sostituire, in una circostanza, l’ensemble di percussioni che Cage dirigeva, quasi sempre
in funzione di spettacoli di danza.
Il Trio risale al 1936, ed è una delle primissime composizioni scritte dopo il decisivo incontro con il cineasta sperimentale Oskar Fischinger, che aveva rivelato a Cage l’idea che
ogni materiale possiederebbe un suo specifico suono, una specifica musicalità – l’avvio,
di fatto, della sua produzione per strumenti a percussione. È articolata in tre movimenti,
di cui il centrale Waltz confluirà in Amores del 1943.
I primi tre Imaginary Landscapes, tuttavia, hanno un posto speciale nella musica del ‘primo’ Cage. Lo stimolo a comporre per un ensemble in cui compaiono per la prima volta
strumentazioni elettrificate nasce come sperimentazione pura. Cage aveva immaginato
molto precocemente di poter disporre di risorse elettroacustiche, ipotizzando un uso
sperimentale delle apparecchiature usate per es. nell’industria del cinema e nella radio,
ma senza successo. Gli Imaginary Landscapes impiegano in modo caratteristico suoni
elettrici, come quelli dei cicalini e delle molle amplificate, ma anche autenticamente elettronici, anche se attraverso l’espediente, ingegnoso ed economico di usare i dischi di
servizio a frequenza costante – allora impiegati per verificare la corretta velocità dei giradischi nelle stazioni radio – come se fossero dei veri oscillatori: il suono viene modulato
agendo sulla velocità di rotazione del piatto e reso discontinuo sollevando e abbassando
ritmicamente il braccio. Nel primo dei due Landscapes, composto a Seattle nel 1939, sono
impiegati due giradischi accanto a un pianoforte a corde smorzate e un piatto sospeso.
Venne concepito per non essere eseguito dal vivo, ma in uno studio radiofonico oppure
per essere ascoltato come musica riprodotta, anche se si sa che fu utilizzato da Bonnie
Bird per una coreografia.
Il secondo Landscape impiega in particolare molle d’acciaio da amplificarsi per mezzo
di una testina di giradischi (oggi sostituita da un microfono a contatto), cicalini elettrici,
latte di conserva, raganella, cestino di metallo, tamburo a frizione, oltre a grancassa,
conchiglia e gong immerso nell’acqua (per i glissandi). Composto a Chicago nel 1942
all’epoca del radiodramma The City Wears a Slouch Hat, venne eseguito per la prima volta
dal gruppo di percussioni di Lou Harrison.
La Suite composta per piano giocattolo cade in una fase dominata da lavori complessi
e virtuosistici come le Three Dances e il Book of Music per due pianoforti preparati, ed è
invece basata su una drastica limitazione. È stata scritta sui tasti bianchi del pianino, dal
mi sotto il do centrale fino al fa sopra, un pezzo perfettamente diatonico. La si può eseguire anche su un normale pianoforte. La versione appositamente apprestata da Simone
Beneventi per un set di gong thailandesi la trasforma in un pezzo virtuosistico. Merce
Cunningham ne ricavò un coreografia.
I restanti brani in programma appartengono invece all’ultima fase, quando Cage aveva
sviluppato un metodo molto veloce di realizzare idee compositive mediante complesse
strutture temporali, ricorrendo a un programma informatico che realizzava le operazioni
casuali per molti anni affidate alla consultazione dell’ I King. La cComposed Improvisation
appartiene a un gruppo di lavori simili destinati a diversi strumenti solistici (compreso un
basso elettrico Steinberger). L’esecutore deve realizzare la sua parte a partire da istruzioni precise che gli servono per determinare, per mezzo di operazioni casuali, quanti eventi
disporre nel tempo dato (8 minuti), e quali sonorità usare. La partitura di One4 è invece
determinata e contiene sei ‘parentesi temporali’ entro le quali l’esecutore può decidere quando eseguire una data azione con la mano destra o la sinistra. La composizione
comprende esattamente quattordici suoni che vanno disposti nella durata di 7 minuti. La
strumentazione è libera.
Apocalypsis cum figuris nasce all’interno di un progetto sull’Apocalisse concepito in collaborazione con gli artisti visivi tedeschi Rainer G. Mordmuller e Gerd Winner nel 2007. Il
progetto prevede la realizzazione di una serie di disegni e incisioni da una parte e di una
composizione musicale dall’altra, da associare poi in un ciclo itinerante di mostre (già
iniziato) e nella pubblicazione di un audiovisivo.
Apocalypsis cum figuris viene definito nel sottotitolo una fonurgia, termine coniato in
quest’occasione per cercare di definire una forma nuova che è insieme uno scenario sonoro e una “cantata” drammatica, un’illusione acustica e una mini-“opera” virtuale: senza
azione, senza scene e senza cantanti ma che comunque di tutte queste cose reca una
traccia udibile. Ne è protagonista un (solo) tamburo – lo stesso che la tradizione vedica
mette in mano a Shiva, durante la danza per la creazione del mondo; lo stesso con cui
si apriva Big Bang Circus, l’opera sull’Inizio che ho composto nel 2001 – dalla cui rullata
“fioriscono” un poco alla volta rumori, voci, suoni.
Acusticamente, la rullata è un “rumore bianco” che – come il colore bianco per l’iride
– amalgama caoticamente “tutti i suoni” dello spettro udibile. Questo materiale neutro,
“grigio”, grezzo ma ricco di tensione, poco a poco si screpola, si fessura, si articola in
vari modi rivelandosi denso, progressivamente colorato, “abitato”, anzi gremito da una
moltitudine di figure sonore simboliche: rumori/voci/suoni del mondo e dell’umanità, immaginati nell’istante cruciale della Fine.
Ringrazio Alvise Vidolin e Mauro Beggio per la preziosa collaborazione.
CLAUDIO AMBROSINI
Silver Streetcar for the Orchestra per triangolo amplificato (1988) fa parte di una serie di
pezzi per strumenti musicali convenzionali, che sto componendo dal 1982 e che esplorano le naturali caratteristiche timbriche e spaziali delle onde sonore. In Silver Streetcar
l’esecutore smorza il triangolo con il pollice e l’indice di una mano mentre lo percuote
con l’altra. L’esecuzione consiste nel muovere i luoghi geografici di queste due attività e
nel cambiare la pressione delle dita sul triangolo, così come la velocità e la dinamica della
percussione. Nel corso dell’esecuzione si rivelano le caratteristiche acustiche della sbarra
di metallo ripiegata. Per riuscire ad ascoltare con maggiore vividezza i fenomeni acustici
una coppia stereofonica di microfoni viene disposta, in posizione ravvicinata, di fronte
al triangolo. Silver Streetcar è stato scritto espressamente per Brian Johnson. Il titolo è
stato prelevato dal testo surrealista Instrumentation (1922) di Luis Buñuel.
ALVIN LUCIER
Estratto dalla partitura di Imaginary Landscape No. 1 di John Cage
VENERDÌ 8 GIUGNO 2012
Auditorium C. Pollini, ore 15.00
Incontro di studio
JOHN CAGE IN ITALIA
Con Angela Ida De Benedictis e Veniero Rizzardi
La presenza di John Cage ha ripetutamente innescato in Italia reazioni vivaci e ha lasciato
una traccia profonda in più generazioni di artisti, non soltanto musicali.
Sul filo di una documentazione composta in gran parte da più di un’ora di filmati di rara
visione, questo incontro ripercorre le tappe della presenza di Cage in Italia e della sua
ricezione da parte dell’ambiente musicale italiano. Dalla prima visita di Cage come reporter musicale nel 1949, ai contatti con Luciano Berio, con il primo ‘scandaloso’ concerto
nel 1954, la permanenza a Milano nel 1958-59, con importanti tappe a Venezia e Padova,
i numerosi ritorni negli anni ’60, e un’inaspettata popolarità guadagnata sul finire degli
anni ’70 con la leggendaria performance al Teatro Lirico di Milano e il ‘treno preparato’
di Bologna.
John Cage e Mike
Bongiorno a «Lascia
o Raddoppia»,
febbraio 1959. Cage
sta per eseguire
Water Walk, composta
appositamente per la
trasmissione insieme
a Sounds of Venice,
che eseguirà nel
corso di un’altra delle
sue partecipazioni al
popolare quiz televisivo
dell’epoca (dal
Radiocorriere TV).
VENERDÌ 8 GIUGNO 2012
Auditorium C. Pollini, ore 20.15
Concerto
CIRO LONGOBARDI
pianoforte e pianoforte preparato
ALDO ORVIETO
pianoforte preparato
AGOSTINO DI SCIPIO
computer, live electronics e regia del suono
POLLINI RADIOPLAYERS
SOFIA ANDRIOLI, PIETRO ARGENTON, VANDA BOVO,
MARCO BUFFETTI, DAVIDE CARRARO, AURORA CECCHINATO,
ELISA CIMBARO, ELETTA FINCO, FRANCESCO GALLINARO,
GIUSTINA GAZZETTA, GREGORIO GAZZETTA, GIACOMO LONGHIN,
FRANCESCA MARINO, ELENA MENEGHELLO, GIULIA PALLI,
LUCA PENAZZATO, MARCO PERUGINI, SILVIA PONTARA,
EMANUELE RESINI, CLAUDIA RIGHETTO, ELISA SARTORI,
FRANCESCO SINIGAGLIA, RICCARDO TONIOLO,
GUGLIELMO ZAPPALÀ
radio
diretti da ANNAMARIA MAGGESE
John Cage
(1912-1992)
Fontana Mix (1958)
Realizzazione a 6 canali di Gianluca Verlingieri (2009)
Imaginary Landscape n. 4 per ventiquattro esecutori con
dodici radio (1952)
Electronic Music for Piano (1964)
Realizzazione di Agostino Di Scipio (2011)
Three Dances per due pianoforti preparati (1944-45)
Gli apparecchi radio d’epoca provengono dalla collezione di Sergio Emaldi, che ringraziamo sentitamente per averci permesso di presentare quest’opera di Cage in un’esecuzione
‘con strumenti originali’.
Fontana Mix è il prodotto del soggiorno milanese di Cage presso lo Studio di Fonologia della RAI nell’autunno del 1958. Invitato presso lo Studio da Luciano Berio, che lo
dirigeva insieme a Bruno Maderna, Cage per prima cosa, appena messo piede in studio,
fece un disegno accurato, fotografico, dei pannelli delle apparecchiature, probabilmente
per familiarizzarsi con esse. Ma poco dopo scartò, se mai l’aveva considerata, ogni idea
di impiegare oscillatori, filtri e modulatori in favore di una tape composition, un assemblaggio, determinato da operazioni casuali, di suoni raccolti in giro per la città, in Studio,
dalla radio, da materiale fonografico, con l’assistenza di Marino Zuccheri. A questo scopo
approntò una speciale notazione derivandola dal modello «CC» del Concert for Piano and
Orchestra, in cui vengono impiegate linee curve e punti.
La novità sta nel fatto che queste forme vengono stampate su fogli trasparenti da sovrapporre, per ricavarne indicazioni in vista degli eventi da generare secondo sei variabili:
tipo di suono, mezzo per la modificazione dell’ampiezza del suono, mezzo per la modificazione della frequenza, mezzo per la modificazione del timbro, modelli di taglio del
nastro, controllo della durata. Questi sistemi, unitamente all’impiego di una griglia, servirono a Cage per comporre due nastri a due piste, ma venenro in seguito utilizzati anche
per compiere altre operazioni su materiali diversi. Sounds of Venice e Water Walk, le due
composizioni che Cage compose per le sue partecipazioni a Lascia o raddoppia? vennero
composte con lo stesso sistema. Il pezzo, che doveva chiamarsi Performance Mix cambiò
titolo in omaggio all’affittacamere milanese di Cage.
La versione che si presenta qui è una nuova realizzazione delle istruzioni di Cage a cura
di Gianluca Verlingieri, che non ha naturalmente alcun materiale sonoro in comune con la
versione dell’autore. Ne esistono due versioni, una per 20 fonti sonore virtuali da impiegare in un sistema Wave Field Synthesis, e quella che si ascolta qui, a sei canali .
Le Three Dances, così come l’altra composizione per due pianoforti preparati, A Book of
Music, vennero commissionate a Cage dal duo pianistico formato da Arthur Gold e Robert Fizdale, e illustrano bene l’atteggiamento di Cage rispetto ai suoi materiali: nei sei
anni in cui si era dedicato quasi esclusivamente al pianoforte preparato, aveva sperimentato in continuazione vari formati e modi di preparazione della cordiera. Dai primi pezzi,
spogli ed elementari come Bacchanale o Music for Marcel Duchamp, si arriva a lavori ciclici come The Perilous Night e Sonatas and Interludes, ma è con i lavori per due pianoforti
che si raggiunge il massimo della complessità, in tutti i sensi: per ogni strumento 36 cori
debbono essere preparati, un lavoro di pazienza che occupa alcune ore, con una grande
quantità di materiali, come viti, bulloni e dadi di diverse misuremonete, monete, pezzi di
plastica e di stoffa; l’esecuzione, poi, richiede un virtuosismo che raramente si riscontra
nella musica di Cage, e che ricomparirà, sotto tutt’altre forme, nei diversi Etudes (Australes, Boreales, Freeman) scritti negli anni Settanta. Cage compose le Three Dances lungo
quasi tutto il 1945. La prima esecuzione ebbe luogo nel dicembre del 1946.
Anche questo pezzo è basato sulla «struttura ritmica», il principio utilizzato da Cage a
partire dal 1939 fino al 1952, per cui ai diversi livelli di battuta, frase e macrosezione corrispondono sempre le stesse proporzioni numeriche, in questo caso 2, 5, 2 – 2, 6, 2 – 2, 7,
2. Questi numeri, tuttavia, cambiano a seconda del tempo indicato di volta in volta, per
non distruggere le proporzioni della struttura.
Accomunato nel titolo con i precedenti Imaginary Landscapes (cfr. il programma del 25
maggio), il n. 4 appartiene a una nuova fase dell’opera di Cage, quella successiva alla scoperta del caso come principale utensile compositivo. A partire dal terzo movimento del
Concerto for prepared piano and chamber orchestra e, poi, sistematicamente dalla Music
of Changes per pianoforte, Cage impiega l’I Ching come strumento combinatorio per ordinare i vari parametri della composizione. Cage fa una descrizione molto dettagliata di
questo metodo in un saggio dedicato precisamente a due composizioni, To Describe the
Process of Composition Used in Music of Changes and Imaginary Landscape No.4 (ora
nella recente traduzione italiana di Silence: Silenzio, Milano-Rimini, Shake edizioni 2010,
pp. 71-74). Anche qui si fa uso della «struttura ritmica». La proporzione in questo caso è
2,1,3, ed è espressa come mutamento di tempo.
Tuttavia, in analogia con l’impiego dei giradischi nei precedenti «paesaggi immaginari»,
il n. 4 utilizza strumenti impropri ed elettrici, anzi, autenticamente elettronici: le radio. E
le utilizza esclusivamente. Due esecutori siedono ai comandi di ognuno dei dodici apparecchi, uno per la sintonia, uno per la dinamica (volume) e il controllo del timbro. ll pezzo
fu concepito in un’epoca in cui gli apparecchi radio (e i relativi comandi) erano di grandi
dimensioni e permettevano più agevolmente queste operazioni. La partitura presenta
una notazione assolutamente convenzionale, e prevede l’impego di un direttore.
Il caso è presente in modo essenziale nel pezzo, dal momento che è evidente l’imprevedibilità degli eventi sonori. È da questo punto di vista uno dei pezzi più radicali di Cage,
scritto in una fase in cui ciò che contava era abolire ogni preferenza soggettiva, ogni memoria, ogni gusto. A proposito di questo pezzo dirà molti anni più tardi «Avevo un obiettivo, quello di cancellare ogni volontà e la stessa idea di successo». Alla prima esecuzione,
presso la Columbia University, nel maggio del 1951, presero parte tra gli altri Julian Beck e
Judith Malina, Remy Charlip, Lou Harrison, Richard Miller, Harold Norse, Richard Stryker.
Cage stesso dirigeva. Per ragioni contingenti, ma necessarie rispetto alla costituzione
dell’opera, le dodici radio captarono pochi e scarsi segnali, un’eventualità assai frequente
nell’esecuzione di questo lavoro.
La Electronic Music for Piano è da considerarsi un’estensione della Music for Piano, un
ciclo di 84 pezzi composto tra il 1952 e il 1956. Questo ciclo di composizioni origina da
una delle diverse tecniche di generazione casuale del materiale che Cage cominciò a sperimentare a partire dal 1951 accanto all’I Ching, che rimase per molti anni il suo metodo
preferito. Le notazioni indeterminate sviluppate da Cage derivano in questa fase dal suo
approccio alla composizione, una combinazione di azioni musicali e grafiche. Nella Music
for Piano la notazione dipende dall’osservazione delle minute imperfezioni della carta:
dopo avere marcato un numero a caso di queste imperfezioni sul foglio bianco, Cage
disegna i pentagrammi, trasformando così i punti precedentemente tracciati in note. Per
mezzo del lancio dei gettoni dell’I Ching e la generazione dei relativi esagrammi Cage
avrebbe poi determinato elementi come chiavi, accidenti, tecniche esecutive (pizzicare
o sordinare la corda, per es.). Le durate delle note sono libere. Attraverso gli 84 pezzi
del ciclo Cage introduce numerose varianti, come la possibilità di esecuzioni simultanee,
impiego di rumori interni ed esterni al pianoforte ecc.
La partitura della Electronic Music for Piano non è altro che un singolo foglio, contenenti
sintetiche istruzioni per usare parti della Music for Piano (esclusi i primi 3 pezzi del ciclo) impiegando sistemi di amplificazione e trasformazione del suono, che non vengono
però specificati in dettaglio. Cage menziona soltanto microfoni, amplificatori e un oscilloscopio. L’appunti di Cage contiene anche una costellazione tratta da una mappa astronomica. Queste istruzioni, piuttosto vaghe e aperte a varie possibili soluzioni, vennero
tracciate da Cage su un foglio di un albergo a Stoccolma, dove si trovava insieme a David
Tudor, che una settimana più tardi (il foglio è datato 2 settembre 1964) realizzò ed eseguì
il lavoro al festival Fylkingen.
Preparare una realizzazione di Electronic Music for Piano è una vera sfida: si tratta di
utilizzare ampie porzioni di Music for Piano 4-84 e di coniugarle con alcune indicazioni
molto generali, anche criptiche, che Cage offre come spunto per amplificare ed elaborare
il suono. Il nostro progetto muove da tali indicazioni e le interpreta per realizzare un’esecuzione interamente live electronics, come dev’essere stata l’esecuzione di Cage e Tudor
nel 1964. Abbiamo dunque combinato i materiali pianistici in ampi segmenti ciascuno dei
quali suonato con prevalenza di una particolare modalità esecutiva, ed abbiamo calato il
suono del pianoforte in un reticolo di trasformazioni e di interazioni sonore, in larga parte
autonome e capaci di auto-regolazione, basate su circuiti di feedback. Gli ingressi alla rete
sono quattro dischi piezoelettrici posti a contatto con superfici di legno e di metallo dello
strumento; i terminali d’uscita sono due altoparlanti, posti sotto lo strumento stesso. Il
corpo del pianoforte diventa in questo modo un elemento di transizione e di mediazione
sonora all’interno di una catena elettroacustica più complessa, chiusa su se stessa ma
aperta all’ambiente circostante (questo approccio riflette la ricerca portata avanti nelle
composizioni intitolate Ecosistemico Udibile, 2002-05).
La parte pianistica, nelle mani di Ciro Longobardi, diventa una sorgente di interferenze che
sollecitano i processi di feedback e di trasformazione del suono, determinando una varietà
di risonanze e comportamenti timbrici. A sua volta, però, l’esito sonoro di quei processi
influenza il decorso della parte pianistica stessa, anche grazie alla libertà che Cage lascia
all’interprete nella lettura delle pagine di Music for Piano. Inoltre, l’uso dei piezoelettrici
(invece di normali microfoni professionali) determina sfumature di colore molto particolari, realizzando una sorta di amplificazione selettiva del corpo dello strumento che talvolta aggiunge una connotazione timbrica deliberatamente povera, ‘lo-fi’ (segnali a spettro
molto limitato).
L’interpretazione completa presenta sei movimenti e una coda. L’organismo sonoro evolve
in base alla storia delle interazioni e retroazioni da cui esso sorge, peraltro non senza una
certa influenza dell’acustica della sala che ospita l’esecuzione: il pianoforte è in fondo una
stanza più piccola, dotata di modi di vibrazione particolarmente flessibili, all’interno di una
stanza più grande che è la sala da concerto, con la sua acustica e i suoi rumori caratteristici. Da un’altra prospettiva, si può pensare a un’estensione del pianoforte preparato di
Cage: un pianoforte tanto preparato da diventare non solo fattore di straniamento timbrico, ma determinante di articolazione e trasformazione musicale durante l’esecuzione.
AGOSTINO DI SCIPIO
SABATO 9 GIUGNO 2012
Auditorium C. Pollini, ore 15.00
Incontro di studio
SYLVANO BUSSOTTI E IL PIANOFORTE:
DALLA COMPOSIZIONE ALL’INTERPRETAZIONE
Seminario con il compositore
Un frammento dalle avvertenze de La Vergine Ispirata di Sylvano Bussotti.
SABATO 9 GIUGNO 2012
Auditorium C. Pollini, ore 20.15
Concerto
CIRO LONGOBARDI
GIOVANNI MANCUSO
ALDO ORVIETO
pianoforti
DEBORA PETRINA
pianoforte e voce
SYLVANO BUSSOTTI
clavicembalo
ALVISE VIDOLIN
live electronics e regia del suono
John Cage
(1912-1992)
Imaginary Landscape n. 5, per 42 dischi fonografici (1952)
Nuova realizzazione a cura di SaMPL
Morton Feldman
(1926-1987)
Piece for Four Pianos (1957)
John Cage
Winter Music, per 1-20 pianoforti (1957)
Nuova realizzazione a cura di SaMPL
Experiences I, per due pianoforti (1945)
Experiences II, per voce sola (1948)
Sylvano Bussotti
(1931)
Per tre, sul piano (per 3…)
da Sette fogli. Una collezione occulta (1959)
La vergine ispirata, per clavicembalo ed altre tastiere (1982)
Nuova realizzazione a cura di SaMPL
Quattro pianoforti (2009-2011)
Prima esecuzione assoluta
Debito a sylb.
Condurre l’interpretazione di un brano di Sylvano Bussotti significa catturare il repertorio
dei ludi musicali scritti nelle sue partiture. Eminente e certosino dipintore di gesti sonori
(non di note, né di “soli” suoni) Sylvano Bussotti ha la capacità emblematica di collocare
l’interprete in un territorio minato che si situa al confine tra la richiesta di una disciplinata
e minuziosa analisi del testo e l’invito ad una sfrenata e istintuale estemporaneità.
L’arguzia di Sylvano è prolifica e richiede agli esecutori di scandagliare il minuscolo segno-macchia, suono-rumore, con libertà e audacia espressiva; senza tralasciare di adorare il maiuscolo, l’affresco delle sue pagine pregne di segni, per scoprire l’emozione totale
che la sua musica vuole anzitutto comunicare.
La Vergine Ispirata è complessa polifonia, iper-densità di monumentali materiali tastieristici. E’ sempre in agguato la ben nota insaziabilità musicale di Sylvano efficacemente
trasmessa ai suoi interpreti. Da qui l’idea di SaMPL di “immergere” i suoni dei mastodontici dinosauri e del “divino” clavicembalo suonato dall’Autore in un mare di materiali pianistici brulicanti, inquietanti, avvolgenti, a volte minacciosi ma mai drammatici o turgidi,
così da non tradire l’assunto del “dar gioia” con la musica.
Non scorie dei tanto amati gesti del pianoforte romantico, ma idee timbriche che intrattengano un sublime dialogo con il passato dello strumento guardando incessantemente
al domani dei suoni. Così come sempre fece Schumann, che – crediamo – si sarebbe stupito di alcune soluzioni timbriche addirittura più opache e melanconiche di quelle che lui
stesso ebbe a creare; o Liszt che speriamo avrebbe apprezzato un pianoforte più algido,
essenziale, distaccato di quello dei suoi ultimi inimitabili sogni pianistici.
I quattro pianisti attorno al Clavicembalo, bel trono settecentesco sul quale ha scelto di
adagiarsi l’Autore, rinunceranno subito ad un “abbraccio sonoro” che potrebbe rivelarsi
mortale, e si presteranno al gioco di piccole provocazioni, modeste indiscipline, rimanendo - più che altro - in ascolto dell’adorato sylb.
Ma su tutto veglierà una regia del suono la cui apparente incapacità emozionale avrà il
potere taumaturgico di sedare le asprezze degli animi dei musicanti e ricongiungerle alla
propria natura celeste.
ALDO ORVIETO
Maggio 2012
Imaginary Landscape n. 5 è un’altra composizione-collage originariamente per nastro
magnetico, concepita nel 1952 e utilizzata come base per una coreografia (di Jean Erdman). La partitura prescrive le istruzioni per realizzare quattro minuti di nastro, specificando le durate dei frammenti da prelevare da 42 dischi fonografici. Il metodo compositivo ha fatto ricorso all’I Ching. In origine il collage fu effettuato a partire da dischi di jazz
e realizzato praticamente da David Tudor con l’assistenza di Louis Barron, che ospitava
nel suo studio il progetto Music for Tape Recorder, avviato da Cage in quell’anno insieme
a Tudor, Feldman e Earle Brown.
Experiences è il titolo comune a due composizioni differenti, scritte nel 1945 e nel 1948.
Il primo, per due pianoforti, ispirato a Erik Satie, è molto semplice e presenta una scrittura nettamente modale. Il manoscritto usato per la pubblicazione venne scritto al Black
Mountain College, dove Cage qualche anno più tardi parteciperà alla creazione dei primi
happenings. Fu eseguito per la prima volta a New York e danzato da Merce Cunningham.
Experiences II fu pure scritto per Cunningham, una monodia a voce sola la cui struttura
ritmica venne derivata dalla coreografia stessa. Cage prescrive che «nessuna pubblica
esecuzione si possa dare senza che la seguente nota appaia nel programma»:
Il testo è tratto da III, uno dei Sonnets – Unrealities da Tulips and Chimneys (1923) di e.e.
cummings. Gli ultimi due versi sono omessi. Altrei versi e una parola sono stati ripetuti o
usati in un ordine differente dall’originale. I passaggi a bocca chiusa (che non fanno parte
della lirica) sono interpolazioni. La lirica originale è la seguente:
it is at moments after i have dreamed
of the rare entertainment of your eyes,
when(being fool to fancy)i have deemed
with your peculiar mouth my heart made wise;
at moments when the glassy darkness holds
the genuine apparition of your smile
(it was through tears always)and silence moulds
such strangeness as was mine a little while;
moments when my once more illustrious arms
are filled with fascination, when my breast
wears the intolerant brightness of your charms:
one pierced moment whiter than the rest
—turning from the tremendous lie of sleep
i watch the roses of the day grow deep.
Per tre, sul piano è stato scritto da Bussotti nel 1959 e fa parte dei Sette Fogli, un insieme
di pezzi sottotitolato «una collezione occulta», composta da diversi, singoli fogli, ricchi di
una notazione grafica esuberante ed enigmatica, ciascuno destinato ad un organico molto
differente, dalla voce sola all’orchestra da camera. Le tre parti sono notate ciascuna in un
modo differente, e consegnano agli esecutori il compito di interpretare tre personaggi
sonori differenti. Nella prefazione ai Sette fogli Bussotti scrive: «per il chiarimento delle
Sylvano Bussotti – Foto di Roberto Masotti
possibili letture, ogni foglio necessitava spiegazioni particolareggiate che, redatte con
diligenza, costarono all’autore più tempo e spazio di quanto le sette composizioni stesse
non occupassero»; tuttavia, continua l’autore, i lavori non vennero pubblicati in quella
forma e gli interpreti fecero a meno delle istruzioni. Ragione per cui, a distanza di quattro
anni, «quelle esecuzioni stanno a dimostrare, generalmente con risultato d’estremo
interesse, che i chiarimenti dell’autore non sono strettamente necessari. Si pubblica perciò
l’intero ciclo mantenendone occulti i meccanismi, incoraggiandone la reinvenzione…»
Quattro Pianoforti è la raccolta di una serie di ‘riflessioni’ compiute negli ultimi anni da
Bussotti sull’impiego di tastiere multiple. Nasce come un seguito di ventiquattro pagine,
all’apparenza ciascuna scritta come unità a se stante, in momenti differenti, e concepita
come un processo omogeneo, ma allo stesso tempo in funzione di un concatenarsi con
altri processi simili. La natura grafica di tanta musica di Bussotti non è soltanto nella
suggestione del dettaglio, ma è anche questo, creazione di un più vasto sistema formale
udibile a partire da ciò che è primaditutto visibile. La notazione è soltanto in rari casi
(singole pagine) misurata, e si presenta più spesso in campo aperto, con diversi gradi
di indeterminazione delle durate. I quattro esecutori vengono a volte raggruppati, a
volte leggono la stessa parte. La pagina n. 5, datata 4 ottobre 1940, è il recupero di una
pagina del compositore bambino: «È un bimbo che suona. Violino? Si, violino, (lo studia,
s’annoia), sbaglia. 79 anni dopo, circa rammentarlo a 4 pianoforti si risolve in 21 misure di
“pausa”. Tocco Armonico».
Questa ne è la prima esecuzione assoluta.
La tecnica compositiva della Winter Music non si discosta, in linea di principio, da quella
della Music for Piano (descritta nel programma del’8 giugno). Si tratta anche qui di notazioni indeterminate di derivazione grafica. Persino per comporre il suo primo pezzo
per nastro magnetico, Williams Mix, Cage farà primaditutto ricorso, nel 1952, al disegno
di come dovrà essere tagliato e montato il nastro (in definitiva, una rappresentazione
grafica degli inviluppi). Dunque anche la Winter Music deriva in ultima analisi dalla trasformazione delle imperfezioni della carta in note, con la successiva applicazione dei
pentagrammi e delle chiavi. L’impiego del caso tuttavia è qui differente. Nessun ordine
tra gli accordi che compaiono sulla pagina è prescritto. Inoltre le chiavi sono ambigue, e
a seconda di come le si vuole interpretare risulteranno molteplici combinazioni possibili.
Si tratta di formazioni accordali molto dense, spesso ineseguibili senza interpretare parte
delle note come risonanze preparate in anticipo: nella ricchezza di risonanze e aloni sta
infatti gran parte del fascino di questo lavoro. La partitura nel suo insieme consiste in
una ventina di fogli sciolti che possono esser impiegati a piacere e in qualsiasi ordine:
un singolo esecutore eseguirà i venti fogli di seguito, due ne leggeranno dieci ciascuno,
fino a venti esecutori che leggeranno ciascuno un foglio. Tenuto conto che la scelta dei
tempi e delle durate è lasciata agli interpreti, anche la durata del pezzo è largamente
indeterminata.
In questa versione, i quattro pianoforti dal vivo suonano insieme alle loro ‘ombre’ preregistrate e diffuse in sala, in una moltiplicazione di fonti sonore che avvolge l’ascoltatore.
Morton Feldman è stato molto vicino a Cage nella New York degli anni Cinquanta e
Sessanta, e ha partecipato alla medesima ‘rivoluzione’ informale, condividendone alcuni
principi fondamentali, come l’attenzione al fenomeno sonoro in sé come elemento chiave
della composizione, ma senza mai consegnarsi alla spersonalizzazione dei processo, né
tantomeno all’oggettività del caso. Cage amava definirlo, in rapporto alla sua propria
musica, un’«estremista poetico».
Tra il 1960 e il 1969 Feldman portò a termine una cinquantina di opere che a uno sguardo
complessivo appaiono profondamente omogenee. I tratti comuni più vistosi che emergono da una loro disamina sono un rinnovato interesse per il timbro e l’orchestrazione,
l’uso di una nuova forma di notazione definita da Feldman free durational notation in cui,
diversamente dalle prime notazioni grafiche delle Projections e delle Intersections, sono
le durate e non le altezze ad essere lasciate indeterminate, e una esplorazione sempre più
approfondita della dimensione armonica, verticale del suono.
La free durational notation, messa definitivamente a punto nella serie delle Durations, ha
un antecedente importante nel Piece for Four Pianos del 1957 e nei pezzi composti negli
anni immediatamente successivi. In quel brano, che a sua volta possiamo ricondurre a
Intermission 6 del 1953 considerandolo come uno sviluppo di idee già implicite in quel
pezzo, le altezze sono segnate con precisione mentre le durate, comunque lente, sono
lasciate alla discrezione dei quattro pianisti. Poiché essi leggono tutti la medesima parte,
viene a crearsi, inoltre, secondo le stesse parole di Feldman «una serie di riverberazioni di
un’unica fonte sonora». Si tratta insomma di una sorta di canone per aumentazione e diminuzione non misurate. I quattro esecutori infatti iniziano simultaneamente, per poi procedere indipendentemente gli uni dagli altri, con conseguenze importanti sul piano della
percezione del tempo: se i silenzi e le ripetizioni delle opere dei primi anni Cinquanta ne
bloccavano il divenire fin dal suo primo manifestarsi, qui il disorientamento dell’ascolto è
determinato piuttosto dall’emergere di una temporalità diffusa e pluriversa. I prolungati
ritardi e le sfasature imprevedibili che si creano necessariamente tra un pianista e l’altro
sembrano rendere reversibile il tempo e l’ascoltatore perde di conseguenza ogni punto
di riferimento assoluto per smarrirsi in un flusso senza fine. Cupo e misterioso, pervaso
di un umore languido, il Piece for Four Pianos è indubbiamente uno dei pezzi più affascinanti di Feldman, forse anche perché, in contrasto con la natura cromatica della maggior
parte degli aggregati usati nella sua musica, qui molti di essi sono ascrivibili ad atmosfere
tonali – come i due che aprono il brano, ad esempio, riconducibili alle triadi di sol minore
e mi minore, per tacere delle molte ottave, quinte e terze presenti nel brano o di intere
sezioni nelle quali aleggia chiaramente la tonalità di do minore. Tutto ciò rende il tessuto
cromatico assai più morbido e conferisce al pezzo un tratto inequivocabilmente lirico. I
settantacinque eventi sonori allineati su cinque sistemi sono di varia natura: suoni singoli,
aggregati di diversa densità (da due a otto suoni), scarne costellazioni di suoni isocroni
(tre di due e due di quattro suoni); il tutto impreziosito qua e là dalla presenza di acciaccature, corone e, nel finale, di risonanze prodotte dagli armonici. L’unità della percezione è garantita dalla lentezza dell’incedere e dalle frequenti ripetizioni che compensano
l’eventualità di un’eccessiva sovrapposizione di eventi eterogenei, e aiutano quindi ogni
esecutore ad evitare di trovarsi troppo in anticipo o troppo in ritardo rispetto agli altri.
[da Marco Lenzi, L’estetica musicale di Morton Feldman, Milano, Ricordi-LIM, 2009, pp. 56-57]
DUE TESTI DI SYLVANO BUSSOTTI SU JOHN CAGE
Rivedendo Cage come gramsciana verità
(2007)
Alto e sottile, curvo a scrutare paginoni bucati di una mia partitura intitolata Breve, lo
si vede vestito elegantemente con, dal colletto, pendula una sobria cravatta. Immagine
inconsueta, scattata a Düsseldorf, e per l’abbigliamento e per il fatto che John Cage ha
una espressione intenta, molto seria e partecipe: la stessa che, raramente, riscontriamo
quand’è ritratto mentre partecipa a pubbliche interpretazioni musicali.
Consueto è vederne l’ovale di un faccione ridente, non per allegria ma in verità. Nel meraviglioso volume Silence dove Cage ha raccolto le riproduzioni a stampa della sua vastissima collezione di manoscritti, non soltanto musicali, di opere a lui offerte o dedicate oppure insieme a lui perpetrate, lo sguardo è assalito dalla necessità di studio, del
meravigliarsi, della dialettica perenne del pensiero polifonica o vuota, brutale oppure
minuscola, capricciosa e misterica, sontuosa, indigente, misera quale l’apatico ritornello
volatile della natura, ma sempre Vera.
La Verità, più in Arte che nei tranelli di filosofia o confessioni, resta impronunciabile.
Oltre al poema, dietro al dipinto tra le righe romanzate di ogni scrittura, ci sogniamo la
musica udendola tanto avvincente, capace di annullare la spietata orologeria del tempo,
dall’addormentarci come in un solido senza mai volerne uscire. L’applauso, oppure più
goduto, il dileggio, dan voce alla insofferente passività di pubblici disseminati in artificiose scatole sonore, conchiglie accostate all’orecchio per udire la risacca ossessiva della
nostra presenza medesima. Ha conosciuto John Cage chi lo ha veduto mimare con le
braccia lese le lancette del vecchio orologio da un banale podio di maestro concertatore
e direttore d’orchestra, appunto: orologeria a-sentimentale.
E viene da pensare a Gramsci – a quel pensiero cui il fascismo dietro le sbarre volle impedire di pensare: impossibile da Gramsci non risalire a de Sade, imprigionato del pari.
Siamo certi dì non ammanettare anche John? – Gramsci, quando mette in discussione
l’opera dell’intellettuale, ne misura ritmo, accento e gittata offrendo i polsi alla incoscienza pubblica. Cage oramai lo si esalta e il suo Suono, troppo tardivamente, fa parte delle
pratiche musicali nel mondo non meno, forse, di feste mozartiane o barbarie operistiche
di balli e melodrammi.
Per sua somma rivalsa e a profitto d’innumerevoli, piccole scimmie, brave a spulciare
insetti graziosi dalla innocua puntura sulla nostra canizia di tonsura. Dal finestrino di un
treno proveniente da Venezia Santa Lucia e diretto alla capitale, mi parla indolenzito
lamentando forti dolori: «J’ai mal à l’O», intendendo lì per lì, ma si tratta d’ossa: esagerando immancabili reumatismi causati dal pernottare quasi a fior d’acque, acque morte,
ospitato da Peggy insieme a Merce, celebre danzatore e amica non meno celebre, dentro
al Museo affacciato sul Canal Grande. Lui faceva sosta a Padova e in casa di mia zia Maria
passava regolarmente a farsi ripetere, interminabili e noiose, le nomenclature latine dei
funghi. Con me era la lingua francese che avevamo in comune, assieme al gusto grafomaniaco d’inventarsi pittografie (altri le avrebbero così definite), dense d’intrecci fra pentagrammi, vecchi valori della scrittura musicale, invenzioni e capricci.
La coppia di compositori che alla Rai milanese lavorava, lo aveva iscritto a un celebre quiz
televisivo nella speranza di farglielo guadagnare. Espertissimo di funghi e senza tema
per quelli velenosi. Cage sapeva scovarne ovunque, cucinarli, assaporarne le amarognole
squisitezze; allora dissonante nel suono così detto sperimentale, il maggior rischio di
cibi anche malfamati non lo scoraggiava. Corde di pianoforti sfregate dai coltelli: vinse
il quiz.
Partecipando a tanti suoi concerti apprendo presto le tecniche compositive e interpretative di quella serie d’opere intitolata Variations. Me ne confeziono un esemplare: quadratini di carta comunissima da osservarsi in controluce. All’epoca, la carta esisteva; lo
si capiva da minute imperfezioni nella grana se osservata In controlttce. Squadrarne il
verso, dipingere un punto nero a figurare un suono, soprammettere un altro quadratino
trasparente su cui tracciare a caso traiettorie rette di parametri. Eseguire: tastiere, sventramento interno di corde metalliche, pedali, pizzicati, percussioni. Minutaggi modesti
che si allargano quando entrano in campo estratti d’Opera.
Aspetterei per esprimermi sui componimenti di Philip Glass, da cui ebbi il divertimento
di poter interpretare assieme all’autore, di Mauricio Kagel, con cui rientravo in aereo da
un soggiorno negli Stati Uniti, scherzando lungo l’interminabile volo sulla mancanza nei
nostri lavori degli echi popolareschi con i tanti applausi che ci avrebbero attesi; di Christian Wolff, dolcemente silenzioso nel dare tutta la fiducia alle ineffabili armonie di cui
sembrava geloso, nell’idea dì tenersele per sé (il penultimo, Erik Satie, non potevo averne
fatto la conoscenza personate – sarebbe stato meravigliato – davanti alla sua quotidiana
passeggiata, andata e ritorno Auteuil-Parigi, attirando invece l’attenzione sul ricorrente
titolo Solo).
Così chiamavo io stesso una composizione scritta in omaggio alla secolare, solitaria e
concentrata pratica interpretativa.
Introduce al mistero da camera La Passion selon Sade. Non è la prima volta che, assieme
a voce e percussione, la elettronica s’insinua in organico – accadde negli USA oppure in
Svezia, in Austria e altrove – ma sono passati troppi anni perché un mezzo, a me generalmente quasi estraneo, non avanzi oggi studiose, forti e brillanti capacità d’analisi del
suono: irrinunciabili. Pittografie musicali volte, dall’oggi, ad un passato non più recente. Si
ascoltano con curiosità, Quell’anno a Darmstadt avevano annunciato Arnold Schoenberg:
misi da parte la sommetta necessaria, mi mossi. Nel brullo pendio s’avvicendarono altri
giovanotti, altre ninfe, diverse figurine. In luogo del babbo arrivò John Cage. Allora non
ne sapevo davvero nulla.
Parigi, aprile 2007
Da John Cage, 16° festival di Milano Musica, Milano Musica-Teatro alla Scala, 2007, pp. 144-146. (I
riferimenti a Philip Glass, Mauricio Kagel, Christian Wolff presenti nel testo riguardano le musiche in
programma di uno dei concerti del festival milanese, per cui Bussotti scriveva queste note).
John Cage & David Tudor – John Cage Trust
La «musica» di John Cage
(1977)
Middelburg - Al bar di un alberghetto sperduto, e scosso dai venti violentissimi dei mari
del nord, trovo, aperto alla pagina degli spettacoli, un numero della Stampa arretrato di
qualche giorno; mi attrae lo sguardo, il sorriso ironico, l’orecchio smisurato che a malapena rientra nel riquadro di una foto vecchia di oltre ventanni: il musicista John Cage, dice
la didascalia. L’articolo è di Massimo Mila. Ma faccio appena in tempo a scorrerne capo e
coda – è la recensione della traduzione italiana di un’intervista, pubblicata in Francia, con
Cage – poiché intervengono rumorosi arrivi di musicisti. Siamo in parecchi a Middelburg
per la terza edizione di questo festival. A chi giunge, trafelato, dall’Italia, il pettegolezzo più urgente da fare sembra quello sul treno musicale portato a spasso da Cage in
Emilia-Romagna. Ma è possibile? Lascio cadere il giornale. Faccio mentalmente rapidi
calcoli. Nel 1958 (appunto, venti anni fa) Cage divertiva già tutti parlando a Darmstadt di
questa sua idea d’un treno musicale in viaggio, ricolmo di gente che esegue ogni tipo di
musica, ecc.; poi, nel 1972, al festival di Pamplona quell’idea del treno gli fu mutuata da
altri, ed anche allora un treno sonante percorse qualche pezzetto di Spagna bruciata. È
probabile si contino ulteriori percorsi, in diversi paesi, del giocattolo ferroviario. Scorro
il programma del festival olandese cui sto partecipando e vedo che non vi si eseguono
musiche di Cage: solo un pezzo di Wolff, uno di Feldman, un’esibizione di Steve Reich. È
qui estremamente laconica la presenza di una certa scuola statunitense, da noi tuttora
seguita con eccitazione, in un programma per venti giorni stracolmo di concerti, spettacoli, proiezioni, dibattiti, iniziative musicali attualissime. Oggi che Cage è diventato uno
splendido vecchio, con barba bianca e arruffata, che da parecchio tempo veste solo in
jeans, trovarmi di fronte quella vecchia immagine dove porta vestito e cravatta e un viso
pulitissimo, affinché l’ironia possa invaderlo pienamente, con dolce aggressività, mi dà
intensa tristezza: anche se a tutta prima non saprei spiegarmene il perché.
Una relazione profonda, tra il mio lavoro e l’opera di Cage è a tutti nota. E poi amo
moltissimo In sua musica. Dico bene la Musica. Ricordo perfettamente, sul finire degli
anni cinquanta, quando Heinz-Klaus Metzger di prepotenza guidò un esitante, rabbuiato
Adorno verso l’apprezzamento e lo studio delle maggiori opere cageane, come Metzger
– ritenuto allora il vero e più autorevole teorico di Cage – sprezzasse, apertamente infastidito, le implicazioni mistico-fìlosofiche del compositore americano, definendolo dilettante in questo campo del pensiero, convinto com’era che Cage fosse un importantissimo
compositore, tutto il resto contando ben poco. Ma sbrigativamente Metzger commise
allora l’unica imprudenza di concedere molte indulgenze, non tanto al maestro – il quale sopportava con impassibile tranquillità gli sferzanti sarcasmi dell’amico – quanto alla
crescente schiera dei cortigiani (debbo definirli così) che in giro per il mondo avrebbero
fatto negli anni successivi la parte dei megafoni. Complici indulgenze se – fatta eccezione per quei rari e grandi ricreatori, nell’interpretazione, come Cathy Berberian, David
Tudor e pochissimi altri – tutti codesti megafoni sembrano, oggi, trasmettere il tono giusto. Poiché pochissimi allora, ed oggi tanti di meno, si soffermarono, con Metzger, sugli
aspetti strettamente musicali del lavoro di Cage. La gestualità immediatamente efficace,
viva nel mero consumo di un atto qualsiasi, delle derivazioni cageane, nel confondersi
apparentemente anonimo dei convertiti (ma in realtà li diresti attentissimi ad un loro
preciso tornaconto di piccola fama personale; gratuita, entro un mercato generale assai
consistente di circolazione delle idee, purché appaiano clamorose) finisce per stabilire
più che un’abitudine, un vizio. Vero e proprio. Ho pensato al megafono perché, così come
il rudimentale amplificatore, volgarizza e distorce ogni voce, la progressiva riduzione del
dettato cageano, da parte di pochi agitatori, ai suoi primitivi schemi di guerriglia, riscuote
l’ovvio successo d’ogni facilità. E dove giunge per ultimo, come passatempo estivo, questo successo di chiacchiera? In Italia, puntualmente, come sento dire.
Il gran vecchio ha ragione per essere soddisfatto? Si direbbe che il suo «pensiero» trovi
un consenso vistosamente estroverso negli spazi animati da folla in disordine (Venezia, piazza san Marco anni orsono; Parigi, les halles poco prima della demolizione; oggi
un treno; e ancora); mentre sul versante riflessivo le università di mezzo mondo hanno
dimestichezza ormai ordinaria con la figura di Cage; argomento da libreria. La celebre
«indifferenza degli scopi» teorizzata da un Cage degli inizi, viene oggi ribadita nell’immagine di «libero» vitalismo del suono; col fascino discreto della filosofia all’orientale «non
imporre nulla, lasciar essere, permettere a ogni persona, come a ogni suono, di essere il
centro del mondo». E ancora «che i suoni si identifichino in noi e che ci si possa identificare nei suoni». Viene da domandarsi in cosa queste frasi generiche, quando suonino
misticamente povere di spirito, differiscano dal miele che sussurra, mentre ti assedia,
il buddhista metropolitano rasato e squittente di campanellini nello straccio arancione.
Vorremmo maggiore rispetto per una vecchiaia prestigiosa. Di fatto i libri di e su Cage, le
idee correnti, sembrano pesare di più nella notorietà del musicista delle sue stesse musiche. Si sostituisce, con sintomatica rimozione, la predicazione agli atti e la provocazione,
se mi è consentito, ai «miracoli». Schematizzando secondo un linguaggio ecclesiale non
intendo ironizzare. Un’attenta analisi della scrittura, il serio ascolto di alcune composizioni metterebbero in contraddetto imbarazzo l’atteggiamento sotto cui si baratta, suo
malgrado, il musicista. Ribadendone freddamente il concetto di «musica», non superato,
né subalterno all’idea di «organizzazione del suono» già da Cage proposta nel 1937, oggi
ridotta all’inerte vivere dell’io medesimo, secondo l’ideologia, lamentata sopra, del «centro del mondo». AI vieto sogno di sentirsi centro, ombelico ripiegato in sé, sogno proprio
all’infanzia, preferiamo riconoscere il ritorno insistito, e moroso, negli anni, di John Cage
ai nodi della musica, allo specifico, in particolare, della scrittura: il più spesso e comunque
irrinunciabile per le sempre non soltanto originalissime invenzioni grafiche, ma complesse intuizioni formali assolutamente primigenie. Senza dimenticare l’apparente civetteria
di rimandi al genere classico (concerto, balletto, innumerevoli forme cameristiche, predominanza totale del pianoforte; infine «scoperta» del microfono come parassita amplificatore; strumento in sé, certo, ma biologicamente stretto alla tradizionale formulazione,
per estorcerne atti critici).
Vorrei riferirmi appena a tre opere basilari, di tre periodi quasi equidistanti, non certo
dimenticati oggi, eppure sempre meno eseguite. Quando Boulez (allora per la prima
volta in tournée americana come direttore d’orchestra, negli spettacoli di prosa di JeanLouis Barrault) tornò in Europa con i quattro pesanti volumi della Music of Changes di
John Cage, disse, e lo scrisse, che si trattava di manoscritti fra i più importanti per la
costituzione del nuovo linguaggio seriale. Eppure era già una composizione ampiamente
determinata dai famosi metodi casuali, come lancio di monete o consultazione del libro
cinese dell’I Ching. Pertanto lo sforzo di una monumentale organizzazione viene portato
avanti dall’allora ancor giovane compositore americano verso risultati sonori di completa
«bellezza». L’adesione di Boulez durerà un istante. Mentre diversi anni
dopo Cage porta in Europa il suo Concerto per pianoforte e orchestra e ne illustra, in un
celebre seminario darmstadtese, le grandi pagine interamente disegnate mediante un
segno raffinatissimo, che nulla ha da invidiare ai disegni dei grandi astrattisti del novecento. Il dettato indicherà profondi mutamenti del rapporto di un musicista con la pagina,
certo, ma ci accorgiamo adesso che sostanzialmente osserva, senza neanche tanto criticare o sorridere, il rituale in frac del gran coda nero tardo-ottocentesco; cadenze; tutti;
alternanze di solista e orchestra; autonomia (gli a soli) dei singoli strumenti ma dominati
dal gesto pianistico sempre in primo piano. Dico che sembrò, leggendo, un pieno insulto
alla necessità razionale di determinare, particolarmente maniaca nei francesi, e subito si
voltarono le spalle. Però suona, oggi, come un denso tessuto di armonie, di inconfondibile
segno. Nonché la presenza come schönberghiana di registri pianistici perpetuamente
confrontati agli estremi, in fortissimo chiaroscuro di contrasti. Altrettanti anni più tardi,
all’incirca, Cage compirà una nuova partitura – vera e propria – di grande importanza:
Atlas Eclipticalis per orchestra. Il metodo più che mai sembrerebbe esoterico. Ricalcando
su fitti pentagrammi di grandi fogli da musica ordinari densissime «costellazioni» di suoni
ripresi dalle tavole di un antico, prezioso atlante celeste, Cage compie ancora una lucida
operazione di confronto fra le parentele ideogrammatiche dei segni. I puntolini che traducono le stelle della volta celeste nei meticolosi riporti dell’antico astronomo, in nulla
differiscono da quelli che segnano ai musicisti le note da eseguire: cosi come pentagrammi e traiettorie astrali hanno in comune la gittata che percorre orizzonti nell’iter temporale per noi notturno, per la musica istantaneo e concertante. Il suono reso da quest’opera
è di una incantevole qualità; non meno affascinerà della corrispondente contemplazione
notturna di stelle cadenti con l’intermittente sorpresa di un gesto espressivo. Eppure
non dirò evasiva l’attenzione all’irraggiungibile occaso. Senza particolari emozioni, se
ricordiamo come, proprio in quegli anni, l’avventura tecnologica interplanetaria teneva
gli occhi spalancati alla coscienza dei popoli. Nella partitura un concertato fittissimo di
modi esecutivi, scoperte formali, moduli d’aggregazione rigorosamente sperimentali, ad
ognuno dei quali corrisponderà la precisa scoperta di una nuova dimensione del dettaglio. In un tutto che si sviluppa ellitticamente nello spazio sonoro di esatta similitudine
del grande movimento astrale.
Il Cage che oggi viene mostrato in giro firmava allora un vasto trattato d’ironia sonora
mentre, più semplicemente, gli accadeva di scriversi musica addosso suo malgrado. È
una musica che procede assai oltre le apostoliche pose e pazientemente ne attende, sì,
con indifferenza lo storico cristallizzarsi. Basti osservare (come si è voluto a scopo di
riflessione, schematicamente, prima di affrettarsi a comprendere tutto Cage nella stanchezza e all’oscuro di un cumulo d’anni) che le musiche menzionate non avrebbero in
buona parte, mettiamo, appreso il suo proprio sillabario di fenomenologia acustica all’allora nascente Salvatore Sciarrino?
Per questo si ritorni un attimo al treno. Ricorderò anche, più precisamente, una significativa differenza d’impostazione tra i percorsi degli anni sessanta e il viaggio verso gli anni
ottanta che ci assilla quest’oggi. Allora, che dominasse l’approssimativo unanimismo, dal
vago sapore panteistico, per cui salivano vecchi e sbuffanti vagoni allegri «musicisti»
d’ogni risma che, sui propri strumenti, sonavano «musiche» di qualsiasi specie. Tenuto
presente il costante impiego di fischianti apparecchi radio d’ogni tipo, la caratteristica
fascia sonora, più distorta e più acuta che mai, di timbro inconfondibilmente cageano,
sommergeva il tutto certamente, con estatico sarcasmo. Aggiornando le immagini, il treno si contempla quest’oggi per quello che è: gran macchina nobile dentro lo spazio e
nel tempo, di cui microfonie selvagge, ma pigre e sorridenti nella stanca manovra del
profeta, rendono sensibili e avvertiti, presenti alla coscienza quegli aspetti musicali che il
tutto indifferenziato porta perennemente dentro sé ed ai quali nessuno fa mai caso. Ecco
perché mi assalirebbe nostalgia del vapore. E dicevo Sciarrino. Con prassi radicalmente
opposta il giovine maestro siciliano evoca instancabilmente ciò che aleggia (è una parola
sua) al di sopra, entro ed oltre la musica; mentre il vecchio maestro americano soffia via
dalla musica quelle che vede come ultime faville dell’immane falò. Si tende l’orecchio in
un caso. Ci si turano tutte due le orecchie nell’altro (parlo della reazione gestuale immaginabile in un corpo di comune spettatore, o comune mortale). Contrari che non s’incontra-
no, poiché tanto contrari non sono, entrambi i movimenti di quell’ideale hanno la musica
come oggetto. Per me un oggetto amato. Che Cage la riconosca viva e presente in qualsiasi moto d’oggetti e corpi e cose e individui nell’aria – appunto: spazio, tempo – non incrina l’amoroso curvarsi del musicista tradizionale sulla sua viola impugnando l’archetto,
oppure, intento a percuotere un suo infimo legno con bacchettina di metallo, poniamo, il
modesto scandire ritmo memorabile. Confluendo al pensiero di ognuno la carezza sonora
risveglia facoltà di scoperta. Non vorremmo sembrar di concludere, allora, legittimando
una nuova indifferenza. Se il corpo a reagire gestisce nell’esprimere un benessere, addirittura il piacere, è il pensiero che ne informa lo spirito; è dell’idea il richiamo, e di un lucido
rigore la prassi dovrà alimentarsi. Dunque importa semplicemente, solamente la musica.
Ma importa moltissimo. Perché il fondersi entro la musica di tutta l’umana testimonianza, nell’integrità del suo senso, con la totale germinazione della vita, vanifica ogni altra
intelligente o innocente ambizione. La musica di Cage suona. E suona, coerentemente,
assai diversa da Cage stesso. A lui risponde con un peso e un afflato sufficienti a coprire
il futuro, venendo da lontananze a noi tutti comuni. Va riportata l’attenzione a questo.
A John Cage dedicando una forma d’amore la più difficile, critica e disincantata; quella
forma che non si scompone misurando le ore ma rimarrà. Atemporale.
da John Cage. Dopo di me il silenzio (?), a cura di F. Mogni, Milano, emme edizioni, 1977, pp.127-133.
Sylvano Bussotti a Stoccolma, 1967
JOHN CAGE
John Cage nasce nel 1912 da un inventore e da una giornalista.
Studia pianoforte presso insegnanti privati ma a sedici anni
decide di diventare scrittore. A diciotto anni lascia il college
per un viaggio in Europa, dove rimane per un anno e mezzo.
A Parigi si interessa all’architettura, alla pittura, alla poesia e
alla musica. Conosce la musica di Stravinskij, di Bach e soprattutto quella di Erik Satie. Viaggia in Germania, Spagna e
Italia. Compie le prime prove di composizione. Nel 1931 torna
in California. Nel 1933 decide di dedicarsi principalmente alla musica. Spedisce alcune
sue composizioni a Henry Cowell, che lo consiglia di studiare presso un allievo di Schönberg, Adolph Weiss. A New York prende anche alcune lezioni da Weiss e Cowell. Sul finire
del 1933 decide di rivolgersi a Schönberg per diventare suo allievo. Schönberg accetta di
dargli lezioni gratuitamente. Studia con lui per due anni.
Nel 1936 trova lavoro a Seattle, alla Cornish School Of The Arts, come compositore di
musiche per balletto. Nel 1939 fonda alla Cornish School un’orchestra di percussioni per
cui compone molti lavori, quasi sempre associati alla danza. Nel 1940 gli viene commissionata una musica per una coreografia, Bacchanale, in cui sperimenta per la prima volta
la tecnica del pianoforte preparato. In quel periodo incontra il danzatore e coreografo
Merce Cunningham, che diventa il suo principale collaboratore e compagno di vita.
Fino alla fine degli anni Quaranta la musica di Cage è quasi esclusivamente per percussioni e pianoforte preparato, ed esplora varie risorse rumoristiche, ma sempre con finalità
espressive e secondo una tecnica di rigorosa strutturazione per quanto riguarda il ritmo e
l’orchestrazione. Si interessa precocemente all’impiego di strumenti elettrificati.
Tra il 1946 e il 1948 scrive il suo lavoro più elaborato ed esteso per pianoforte preparato,
le venti Sonatas and Interludes.
Nella seconda metà degli anni quaranta si interessa alla musica e alla filosofia indiana, e
poi al Buddhismo Zen, attraverso cui inizia a concepire la musica come un sistema che
dovrebbe imitare la natura ‘nel suo modo di operare’ e come un fatto puramente vitale,
senza scopo o intenzione. Nel 1950 la scoperta dell’I Ching, il libro cinese dei mutamenti
risalente all’epoca confuciana, lo conduce verso una concezione per cui la composizione
musicale diviene il frutto di risposte casuali a domande poste dal compositore. Compone
così la Music of Changes, per pianoforte, nel 1951, a partire da elementi deliberatamente scelti (aggregati sonori) disposti però nel tempo secondo procedimenti casuali. Da
questo momento Cage userà sempre l’indeterminazione come metodo, per definire una
musica oggettiva, in cui i materiali prescelti vengono ordinati in modo da escludere la
memoria e la scelta. In questo periodo visita la camera anecoica dell’università di Harvard, ricavandone la consapevolezza dell’impossibilità del silenzio assoluto. Il silenzio è
piuttosto per Cage il paradigma dell’equivalenza di tutti i suoni come potenzialmente
musicali. Ispirandosi alle tele bianche di Robert Rauschenberg, Cage concepisce nel 1952
4’33” la sua opera ‘silenziosa’, e nello stesso anno avvia un progetto di composizione
sperimentale su nastro magnetico.
La summa di tutte le sue tecniche sperimentali è il Concert for Piano and Orchestra composto nel 1958 che, poco dopo la ‘prima’ di New York viene eseguito a Colonia, e segna
l’inizio di una crescente fortuna europea. L’impatto di Cage sugli sviluppi della musica eu-
ropea è di vasta portata. Il suo interesse per media differenti dalla musica si sviluppa negli
anni Sessanta, e le sue composizioni includono sempre più aspetti gestuali e parateatrali ,
che sono uno dei più importanti contributi alla nascita della performance art.
La multimedialità del suo lavoro si accentua: HPSCHD del 1969 è un lavoro dalla durata
di circa cinque ore in cui si uniscono: 7 clavicembali che suonano estratti “sorteggiati” di
musiche di Cage e di autori classici, 52 nastri di suoni generati dal computer, 6400 diapositive proiettate da 64 proiettori, 40 film. Gli spettatori entrano ed escono liberamente
dall’auditorium. Cage intensifica inoltre il suo lavoro sulla parola come puro elemento
fonico, e produce anche poesia visiva, nonché opere radiofoniche sperimentali.
Sul finire degli anni Settanta Cage torna a comporre per organici più relativamente tradizionali ma sempre con notazioni sperimentali, fino ai cosiddetti number pieces degli
anni Ottanta, in cui scopre il concetto di ‘armonia anarchica’, un’armonia generata da una
polifonia causale di isolati suoni tenuti. Compone le cinque Europeras, decostruendo la
forma dell’opera lirica e ricorrendo a un elaborato montaggio casuale di tutti gli elementi
sonori e visivi che formano lo spettacolo operistico.
Cage muore improvvisamente nel 1992, a un mese dai festeggiamenti per il suo ottantesimo compleanno.
SYLVANO BUSSOTTI
Sylvano Bussotti è nato a Firenze il 1 ottobre 1931. Inizia lo
studio del violino con Margherita Castellani ancora prima di
compiere i cinque anni di età. Al Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze studierà l’armonia e il contrappunto con
Roberto Lupi e il pianoforte con Luigi Dallapiccola: studi che
interromperà a causa della guerra, senza conseguire alcun titolo di studio.
Determinanti, per la sua educazione, il fratello Renzo e lo zio
materno Tono Zancanaro, pittori entrambi e, più tardi, l’incontro con il poeta Aldo Braibanti. Dal 1949 al 1956 approfondisce, da autodidatta, lo studio
della composizione. A Parigi, nel periodo che va dal 1956 al 1958, frequenta i corsi privati
di Max Deutsch, incontra Pierre Boulez e Heinz-Klaus Metzger, che lo condurrà a Darmstadt, dove conosce John Cage.
Inizia in Germania, nel 1958, l’attività pubblica, con l’esecuzione delle sue musiche da
parte del pianista David Tudor, seguita dalla presentazione a Parigi di brani eseguiti da
Cathy Berberian sotto la direzione di Pierre Boulez.
L’Universal Edition e, successivamente, gli editori Moeck e Bruzzichelli pubblicano in quegli anni alcune sue partiture. Sarà infine con Casa Ricordi, che nel 1956, Bussotti stringe
un importante rapporto editoriale.
Soggiorna in U.S.A. nel 1964-65, invitato dalla Fondazione Rockfeller a Buffalo e New
York, dopo il conferimento di tre premi da parte della SIMC negli anni 1961, 1963 e 1965.
Nel 1967 riceve il premio “all’Amelia” dellaBiennale Di Venezia; nel 1974 il premio “Toscani
d’Oggi” e nel 1979 il premio Psacaropulo a Torino. A Berlino, nel 1972, risiede per un anno,
ospite delle DAAD per la Fondazione Ford. È stato direttore artistico del Teatro La Fenice di Venezia e del Festival Pucciniano di Torre del Lago. Ha insegnato storia del teatro
musicale all’Accademia di Belle Arti a l’Aquila. Nel 1980 è stato docente di composizione
e analisi alla Scuola di Musica di Fiesole, direttore della sezione Musica alla Biennale di
Venezia dal 1987 al 1991.
Fin da ragazzo lavora alla composizione musicale cosi come al disegno e alla pittura; sue
mostre d’arte si allestiscono in vari paesi del mondo. Dall’attività concertistica si sviluppa l’esperienza teatrale che lo porta ad occuparsi di cinema e di televisione . Dal 1965
l’aspetto fondamentale della sua attività è costituito da spettacoli di teatro musicale, sintesi della propria esperienza creativa realizzati nell’ambito del BUSSOTTIOPERABALLET,
nome abbreviato in B.O.B., da lui fondato a Genazzano nel 1984 e che allestisce concerti,
spettacoli, mostre d’arte e manifestazioni di ampio respiro internazionale.
Sylvano Bussotti è Accademico dell’Accademia Filarmonica Romana, Accademico di S.
Cecilia, Cavaliere dell’ordine di Mark Twain, Cavaliere di Mickey Mouse, Cittadino Onorario della Città di Palermo, Commandeur de l’Ordre des Artes e des Lettres dello Stato
Francese.
MORTON FELDMAN
Morton Feldman, nato a New York nel 1926, studiò inizialmente pianoforte con Vera Maurina-Press (allieva di Ferruccio Busoni), mentre più tardi (dal 1941) si dedicò allo studio della
composizione, prima con Wallingford Riegger e successivamente (dal 1944) con Stefan Wolpe. Nel 1950 Feldman, a un
concerto della New York Philharmonic conobbe John Cage,
un incontro decisivo per la sua formazione. Con Cage, Christian Wolff, Earle Brown e David Tudor formò presto un attivo
sodalizio artistico. Ebbe in seguito un contatto costante con
Edgard Varèse, e molto importanti furono le amicizie con i
pittori dell’espressionismo astratto come Philip Guston, Franz Kline, Willem de Kooning,
Jackson Pollock, Robert Rauschenberg e Mark Rothko e con gli scrittori Frank O’Hara e
Samuel Beckett.
Nel 1973 fu nominato professore di composizione all’università di Buffalo, nel 1984 e 1986
fu docente di composizione ai Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt. Morì nel 1987 a
Buffalo.
Morton Feldman iniziò a comporre già negli anni Quaranta, sebbene i suoi lavori giovanili
siano stilisticamente molto differenti da quello che avrebbe composto dopo l’incontro
con Cage. A partire dagli anni Cinquanta utilizzò sistemi di notazione musicale non convenzionali che in seguito abbandonò per necessità di maggiore precisione nel controllo
della sua musica, e per evitare che la particolare notazione venisse travisata come un
invito all’improvvisazione.
Nel 1977 compose la sua unica opera, Neither, su testo di Samuel Beckett.
A partire dalla fine degli anni settanta iniziò a produrre lavori di durata molto lunga, raramente più brevi di mezz’ora: questi lavori comprendono Violin and String Quartet (1985,
due ore circa), For Philip Guston (1984, quattro ore circa), fino all’estremo String Quartet
II del1983, la cui durata supera abbondantemente le cinque ore. La maggior parte delle
sue composizione è edita da Peters (New York/Lipsia) e da Universal (Vienna).
CLAUDIO AMBROSINI
Claudio Ambrosini, nato a Venezia nel 1948, è compositore
e direttore d’orchestra. Ha studiato lingue e letterature straniere all’Università di Milano, dove si è laureato nel 1972. Ha
poi studiato strumenti antichi con Pietro Verardo e musica
elettronica sotto la guida di Alvise Vidolin al Conservatorio di
Venezia tra il 1972 e il 1975. In questi anni è attivo come videoartista presso la Galleria del Cavallino di Venezia, producendo
tra le prime opere sperimentali italiane.
Ha vinto nel 1985 il Prix de Rome e l’anno seguente ha rappresentato l’Italia all’International Rostrum of Composers
dell’UNESCO. Ha ricevuto commissioni dalla RAI, dalla WDR, dal Governo francese, dal
Teatro La Fenice di Venezia e altre istituzioni.
Nel 2007, in occasione del 51. Festival Internazionale di Musica Contemporanea, ha vinto
il Leone d’oro alla musica del presente.
Dal 1976 ha spesso lavorato presso il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università
di Padova e nel 1979 ha fondato l’Ex Novo Ensemble di Venezia, che si dedica all’esecuzione di musica contemporanea. Nel 1983 ha fondato il Centro Internazionale per la
Ricerca Strumentale, di cui è ancora attualmente direttore.
Nel 2011 ha vinto il XXX Premio Abbiati nella sezione Novità Assoluta con l’opera Il Killer
di Parole composta insieme a Daniel Pennac.
ALVIN LUCIER
Alvin Lucier è uno dei più influenti compositori della generazione anagraficamente e artisticamente successiva a John
Cage. Nato nel 1931, ha studiato con Aaron Copland e Lukas
Foss, e si è recato a Roma nel 1960. Il contatto con le esperienze di Cage e David Tudor, e l’amicizia con diversi musicisti
statunitensi residenti in Italia, ha prodotto in lui una svolta
radicale nelle sue procedure e nel suo orientamento estetico.
Il suo lavoro successivo è influenzato dal pensiero scientifico e
risulta in una radicale esplorazione poetica dei fenomeni acustici
e della percezione sonora, in una ricerca musicale sulle caratteristiche fisiche del suono, del
luogo in cui risuona, del rapporto tra l’esecutore e la materia sonora, e tra questa e l’ascolto.
I am sitting in a room, una performance per voce sola e registrazione sonora, utilizza la parola parlata per rivelare le caratteristiche fisiche dello spazio acustico in cui accade e, allo
stesso tempo, utilizza un enunciato autoreferenziale per desemantizzarlo gradualmente,
dolcemente, facendolo scivolare in una dimensione puramente sonora, anzi armonica.
A lungo docente presso la Wesleyan University, Lucier ha fatto parte del gruppo Sonic
Arts Union insieme a Robert Ashley, David Behrman e Gordon Mumma. La sua influenza
è chiaramente discernibile nei lavori dei suoi allievi Nicolas Collins, Arnold Dreyblatt, Judy
Dunaway, Douglas Kahn, Ron Kuivila, Mladen Milicevic, Ed Osborn e Daniel James Wolf.
MAURO BEGGIO studia la batteria dall’età di tredici anni frequentando la “Scuola Popolare di Musica Dizzy Gillespie” di
Bassano del Grappa. Nel 1986 durante il seminario Siena Jazz
conosce Enrico Rava con il quale inizia a collaborare dal gennaio 1987. Nello stesso anno con l’ Enrico Rava Quartet incide
il suo primo LP dal titolo Animals. Dall’ inizio della sua carriera ha modo di alternarsi tra formazioni precostituite (Enrico
Rava Quartet, Enrico Pieranunzi Trio, Quartetto di Claudio Fasoli, Gibellini-Tavolazzi-Beggio Trio, Lydian Sound Orchestra)
ed un intensa attività di freelancer suonando con musicisti
italiani e stranieri come: Johnny Griffin, Toots Thielemans, Lee
Konitz, Palle Danielsson, Franco Ambrosetti, Paul Bley (con il
quale incide il CD “One Year After”), Franco D’Andrea, Guido Manusardi, Stefano Bollani,
Massimo Urbani.
SIMONE BENEVENTI, percussionista, ha studiato con Francesco Repola, Jonathan Faralli, Eric Sammut (CNR_Paris) e
Christian Dierstein (Basel Musikhochschule). Oltre all’attività
solistica, attualmente collabora con ensemble italiani ed europei quali Algoritmo, mdi ensemble, Icarus ensemble, Wiener
Klangforum, Repertorio zero, Barcelona 216, Ensemble Abstray
e altri, realizzando molte prime esecuzioni di compositori quali
Battistelli, Fedele, Francesconi, Gervasoni, Lopez-Lopez, Maresz, Nova, Romitelli, Sani. Collabora inoltre con varie orchestre lirico-sinfoniche tra cui Teatro alla Scala, Maggio Musicale
Fiorentino, Opera di Roma, Teatro Lirico di Cagliari, Fondazione Toscanini, Orchestra Nazionale della Catalunya-OBC. Nel
repertorio cameristico ha suonato con musicisti quali Ilya Grubert, Mario Caroli, Nuccio
D’Angelo, Igor Polesinsky, Thierry Miroglio. Ha inciso per Stradivarius, Aeon e altre etichette. È direttore artistico dal 2009 del Festival “Percussione temporanea” a Reggio Emilia.
AMALIA DE GÖTZEN si è diplomata con il massimo dei voti
in pianoforte con Daniele Dazzan e in musica elettronica con
Nicola Bernardini presso il Conservatorio Pollini di Padova.
Si è laureata in Ingegneria Elettronica presso l’Università di
Padova sotto la guida del Prof. Giovanni De Poli e ha conseguito il Dottorato di Ricerca presso l’Università di Verona
sotto la guida del Prof. Davide Rocchesso. Dal 2002 la sua
ricerca si svolge nell’ambito dell’Informatica Musicale: dall’interazione uomo-macchina tramite feedback sonoro alle arti
performative, scrivendo numerosi articoli scientifici su questi
argomenti. Attualmente coordina le attività del laboratorio
SaMPL del Conservatorio “C. Pollini” di Padova.
AGOSTINO DI SCIPIO si è iniziato al suono e alla musica da
autodidatta, e successivamente si è diplomato al Conservatorio di L’Aquila, in Composizione (G.Bizzi, M.Cardi) e Musica
Elettronica (M.Lupone). Seguendo un approccio assai personale e indipendente all’esecuzione strumentale e al trattamento del suono, comporre significa per Di Scipio anche
progettare l’infrastruttura elettroacustica dei propri lavori,
così come il software e lo scambio energetico tra le fonti sonore e l’ambiente circostante. Rappresentativi sono i brani
del progetto Ecosistemico Udibile e i lavori per formazioni
da camera ed elettronica dal vivo, che insieme ad alcune installazioni sonore gli hanno guadagnato attenzione internazionale. Artista residente DAAD (Berlino 2004-05), IMEB (Bourges 2003 e 2007), ZKM
(Karlsruhe 2006). Docente di Musica Elettronica al Conservatorio di Napoli, ha insegnato
in varie sedi internazionali ed è stato Edgar-Varèse-Professor alla Technische Universität
di Berlino. Attivo anche come interprete, Di Scipio è autore di saggi di analisi e critica
delle tecnologie e delle arti pubblicati in Italia e all’estero. Ha curato il volume antologico
Teoria e prassi della musica nell’era dell’informatica (G.Laterza, 1995) e monografie quali
Heidegger, Hölderlin & John Cage di M.Eldred (Semar) e Universi del suono di I.Xenakis
(LIM/Ricordi).
Materiali e info http://xoomer.virgilio.it/adiscipi
CIRO LONGOBARDI ha compiuto gli studi pianistici con Carlo
Lapegna, perfezionandosi in seguito con Alexander Lonquich
e Bernhard Wambach, e in musica da camera con Franco Gulli, Maurice Bourgue e Franco Rossi. Nel 1994 si classifica finalista e miglior pianista presso il Concorso Gaudeamus di
Rotterdam e vince il Kranichsteiner Musikpreis nell’ambito del
37° Ferienkurse di Darmstadt. Da allora ha suonato per numerose istituzioni, tra cui Festival Traiettorie di Parma, Festival Milano Musica, Ravenna Festival, Rai Nuova Musica Torino,
Nuova Consonanza e I Concerti del Quirinale Roma, Biennale
di Venezia, Saarländischer Rundfunk Saarbrücken, Ferienkurse Darmstadt, Festival Synthése Bourges, Festival Manca Nizza, Fondazione Gaudeamus Amsterdam (Muziekgebouw), ZKM Karlsruhe, Peter B. Lewis
Theatre (Guggenheim Museum) New York, Festival di Salisburgo. Ha registrato per Stradivarius, Limen, Mode, Neos, Tactus, RaiTrade. Appassionato divulgatore del repertorio
contemporaneo, ha tenuto conferenze-concerto e masterclass per i Conservatori di Rotterdam, di Ghent e di Bruxelles (Koninklijk Konservatorium), per la University of Chicago,
per la Manhattan School of Music di New York e per i conservatori di stato italiani.
http://www.cirolongobardi.com
GIOVANNI MANCUSO, si è diplomato in pianoforte con Wally
Rizzardo presso il Conservatorio di Venezia nel 1992 e presso
i Corsi di perfezionamento in musica da camera presso l’Accademia “Incontri col Maestro” di Imola,s empre con il massimo dei voti. Ha studiato presso la Scuola Civica di Milano,
perfezionandosi nel repertorio cameristico contemporaneo
con Renato Rivolta. Ha approfondito lo studio del linguaggio
jazzistico sotto la guida di Umberto de Nigris.
Come compositore si è perfezionato con di Salvatore Sciarrino (1990-92) e ha in seguito vinto numerosi premi tra i quali:
Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo
- Lisbona 1994; Grieg Memorial Conpetition (Oslo 1995); Rockefeller Foundation (New York, 2003); European Association for Jewish Culture (London – Paris) 2003 Grant Award. Ha vinto la settima edizione del Concorso Internazionale
Orpheus per nuove opere da camera (Spoleto) con l’opera “Obra Maestra” ispirata a
Frank Zappa. Ha ricevuto commissioni da molte prestigiose istituzioni musicali tra cui
la Biennale di Venezia, l’Orchestra Giovanile Italiana, Milano Musica, l’Orchestra Nazionale RAI. Ha registrato come direttore e pianista per la RAI, NBC - Oslo, RNE - Madrid.
Sue composizioni sono state trasmesse da Rai Radio 3, Norwegian Broadcasting Company, VPRO (Olanda); Radio Brema, RNE (Spagna) ed eseguite in Italia, Francia, Spagna,
Portogallo, Olanda, Sud Africa, Germania, Libano, Brasile, USA. Collaborazioni con Raiz,
Elliott Sharp, Pietro Tonolo, Frederic Rzewski, Philip Corner, Malcolm Goldstein, Butch
Morris, Carlo Boccadoro, Sentieri Selvaggi, Lukas Ligeti.
Ha fondato nel 1991 l’ensemble e gruppo di studio Laboratorio Novamusica con il quale
ha tenuto concerti in tutta Europa. Nel 2002 ha fondato l’etichetta discografica Galatina
Records (distribuita da FMP - Berlino) pubblicando sei cd con i suoi progetti musicali realizzati con il Laboratorio Novamusica. Ha presentato alla Biennale Musica 2009 July 19th
or How to establish a Second Republic founded on the blood of a State Massacre per voce
ed ensemble su un testo di Salvatore Borsellino (singolare caso di brano commissionato
e successivamente censurato dalla Biennale Musica). Vive a Venezia e insegna Teoria e
solfeggio al Conservatorio “B. Marcello” di Venezia.
ALDO ORVIETO, dopo gli studi al Conservatorio di Venezia
incontra Aldo Ciccolini, al quale deve molto della sua formazione musicale.
Ha inciso più di cinquanta dischi dedicati ad Autori dell’età
classica e del Novecento per le case italiane Dynamic, Stradivarius, Ricordi, Nuova Fonit Cetra; per ASV e Black Box Music
(London), Cpo (Georgsmarienhütte), Hommage (Hamburg),
Mode Records (New York), Naxos (Hong Kong), riscuotendo
unanime consenso della critica.
Ha registrato produzioni e concerti per le principali radio
europee tra cui: BBC, RAI, Radio France, le principali Radio
tedesche (WDR, SDR, SR), le Radio svizzere (RTSI, DRS), la
Radio Belga (RTBF), la Radio Svedese.
Ha suonato come solista con molte orchestre tra cui le Orchestre RAI di Milano e Torino,
l’OSNR, l’orchestra del Teatro La Fenice di Venezia, del Teatro Comunale di Bologna,
dell’Arena di Verona, dell’ORT di Firenze, l’Ensemble 2e2m di Parigi, Accroche Note di
Strasburgo, e in formazioni da camera con prestigiosi complessi di fama internazionale.
Ha svolto intensa attività concertistica e discografica con i violinisti Luigi Alberto Bianchi,
Felix Ayo, e Dora Bratchkova con i violoncellisti Arturo Bonucci e Nicola Piovano, con i
pianisti John Tilbury e Marco Rapetti, con le cantanti Sara Mingardo, Monica Bacelli, Gemma Bertagnolli e Luisa Castellani
Ha partecipato a molte prime esecuzioni assolute e gli sono stati dedicati molte nuove
composizioni. Di particolare rilievo la prima esecuzione assoluta nel 2009 del ritrovato
Concerto (1946) per pianoforte e orchestra di Bruno Maderna, e la prima esecuzione in
tempi moderni delle Variazioni (1946) per pianoforte e orchestra di Camillo Togni; importanti prime esecuzioni e dediche di lavori da parte di Salvatore Sciarrino, Claudio Ambrosini, Sylvano Bussotti, Stefano Gervasoni, Aldo Clementi, Fabio Nieder, Luis De Pablo,
Ivan Vandor. È stato tra i fondatori dell’ Ex Novo Ensemble e, nel 2004, della rassegna
concertistica Ex Novo Musica.
Ha avuto una presenza costante nei più importanti Festival dedicati alla musica moderna
e contemporanea, tra cui: Münchener Philarmoniker, Berliner Festspiele, Akademie der
Künste (Berlin), Mozarteum Salzburg, Gulbenkian (Lisboa), Concerts Ville de Genève,
Festival d’Avignon, Ars Musica Bruxelles, Festival di Strasbourg, Warsaw Autumn, Zagreb
Biennale, Gaudeamus Foundation (Amsterdam), Tish Center for the Arts (New York),
Huddersfield Contemporary Music Festival, Biennale di Venezia, Milano Musica.
DEBORA PETRINA è pianista di repertorio classico-contemporaneo, compositrice, cantante e tastierista, attiva nella scena del cantautorato sperimentale.
Come interprete al pianoforte ha registrato negli USA un CD
e un DVD audio con inediti di Morton Feldman (OgreOgress),
ha preso parte al progetto discografico A Call for Silence curato da Nicolas Collins per la Sonic Arts Network – UK.
Ha suonato prime assolute di Maderna, Rota, Togni, Cage,
Katunda e Feldman al Teatro la Fenice, alla Fondazione Cini
e al Teatro alle Fondamenta Nuove a Venezia, al Mills College (Oakland), alla Conway Hall a Londra, all’Istituto Italiano
di Strasburgo, al Festival Musica/Realtà e Spazio Oberdan a
Milano, al Teatro di Como, per gli Amici della Musica di Padova e la Biennale dei Giovani
Artisti del Mediterraneo a Roma. Ha suonato dal vivo per RAI Radio3, con musiche di
Kurtág e Janacek. Collabora dal 1999 con l’Orchestra di Padova e del Veneto.
In qualità di cantautrice ha vinto fra gli altri il Premio Ciampi 2007. I suoi pezzi sono stati
più volte inseriti nelle playlist dei preferiti di David Byrne, che segue un suo progetto
discografico orchestrale ed è presente nel suo ultimo album, in uscita il prossimo autunno. Ha collaborato con Elliott Sharp (che l’ha invitata a suonare a The Stone, a New
York), Ascanio Celestini, John Parish, Tiziano Scarpa, Carlo Carcano, Danilo Gallo, Zeno
De Rossi, Piero Bittolo Bon, e con la danzatrice Simona Bertozzi. È stata invitata dall’Instituto Cubano de la Musica all’Avana a presentare un suo progetto sulla musica cubana
dell’800. È stata invitata alla prossima edizione del Jazz Festival di Madrid.
Compone musiche per teatro e video. Come performer di teatro-danza ha lavorato con
coreografi come Iris Erez, Sara Wiktorowicz, Avi Kaiser, ha curato la regia di spettacoli
interpretati da lei stessa (She-Shoe), un solo di danza, voce, suoni e video, il cui videoclip
ha ricevuto un prestigioso riconoscimento in Giappone. A Londra ha presentato Feldman
Dances, un’interpretazione coreografata, al piano, di brani scritti per la danza da Morton
Feldman.
http://www.debora-petrina.com – http://www.facebook.com/deborapetrina
ALVISE VIDOLIN
Regista del suono, musicista informatico e interprete Live
Electronics, ha compiuto studi scientifici e musicali a Padova. Ha curato la realizzazione elettronica e la regia del suono
di molte opere musicali collaborando con compositori quali
Ambrosini, Battistelli, Berio, Clementi, Donatoni, Guarnieri,
Nono, Sciarrino, per esecuzioni in festival quali Biennale di
Venezia, Maggio Musicale Fiorentino, Milano Musica, Festival
delle Nazioni di Città di Castello, Ravenna Festival, Settembre
Musica di Torino, Festival d’Automne e IRCAM di Parigi, Festival
di Salisburgo, Wien Modern, Münchener Biennale, Konzerthaus e Musik-Biennale di Berlino, Donaueschinger Musikstage, Warszawska Jesien', CCOT Festival di Taipei, e in teatri quali Scala, Fenice, Opera di
Roma, Comunale di Bologna, Almeida di Londra, Alte Oper di Francoforte, Staatstheater
di Stoccarda, Théâtre National de Chaillot, Odéon e Opéra Bastille di Parigi, Opéra National du Rhin di Strasburgo. Collabora dal 1974 con il Centro di Sonologia Computazionale
dell’Università di Padova ed è stato cofondatore dell’Associazione di Informatica Musicale Italiana, responsabile del Laboratorio permanente per l’Informatica Musicale della
Biennale di Venezia, responsabile della produzione musicale del Centro Tempo Reale di
Firenze (1992-1998) e docente di musica elettronica presso il Conservatorio “B. Marcello” di Venezia (1976-2009). È inoltre membro del comitato scientifico dell’Archivio Luigi
Nono, docente di musica elettronica all’Accademia Internazionale della Musica di Milano
e Socio dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti. Svolge attività didattica e di ricerca
nel campo del Sound and Music Computing, studiando le potenzialità compositive ed
esecutive offerte dai mezzi informatici e dai sistemi multimodali.
L’ensemble FIORI D’ICARUS è la formazione ‘juniores’, costituitasi di recente, dell’ICARUS ENSEMBLE, formatosi nel
1994. Ensemble di livello internazionale è presente in Messico (Festival Cervantino (1996, 2003, 2005), Festival Donatoni (1995, 1996), Forum Manuel Enriquez (2002, 2003, 2005)
Oaxaca Festival (2007), in Argentina (Teatro Colon di Buenos
Aires (1998)), in Olanda (Gaudeamus Week (1998)), in Belgio
(Ars Musica 2004, Bruxelles e Mons), in Inghilterra (Huddersfiel Contemporary Music Festival (2002), Festival Musica
2000 (Cardiff), Swansea Festival), in Giappone (Art Festival
of the New Generation (ensemble in residence) a Tokyo (2000)), Svizzera (Tag fur der
Neue Musik, Zurich 2004 e ISMC Lugano 2004), in Croazia (Biennale di Zagabria (2001,
2003, 2005, 2009), Stati Uniti (UK for NY a New York (2001)), Spring Festival of the
Italian Music di San Francisco (2008), Egitto (Opera House del Cairo, Opera House di
Alessandria nel 2009), Francia Festival Manca di Nizza (2000, 2005, 2008), Italiart a
Digione (2009), Festival Deodat de Severac (2007), in Germania (Musikhochschule 1995,
2003 e Gasteig 1996 a Munchen e Theaterhaus Pragsattel di Stuttgart 2003), in Azerbaijan SonorFestival 2003 a Baku, in Indonesia (Giacarta e Bali nel 2009), Irlanda, Romania,
Moldavia, Maltafest.
In Italia ha suonato per quasi tutte le maggiori istituzioni e Festivals.
E’ attualmente Ensemble in residenza al Teatro di Reggio Emilia.
Tra le collaborazioni si segnalano quelle con i registi Yoshi Oida (2003) per la realizzazione dell’opera Alex Langer di Verrando, con Daniele Abbado (2004) per l’opera The Rape
of Lucretia di Britten e per Miracolo a Milano di Giorgio Battistelli, con Franco Ripa di
Meana per Il tempo sospeso del volo, con Francesco Micheli per Fidelio Off (2009), con
l’artista Christian Boltanski (2005) per l’installazione “Tant que nous sommes vivants”,
con Lorenzo Mijares per De Cachetito Raspado di Trigos, con gli studi Agon, Fabrica (Benetton), con Otolab (Sincronie 2004, 2005, Chew-Z 2006 e Rec 2006 e tutti i concerti
legati al progetto “Prove di volo”) con Luca Scarzella (Lips, Eyes, Bang di Francesconi e
The Rape of Lucretia di Britten), con Roberto Paci Dalò e i Giardini Pensili per lo spettacolo Organo Magico Organo Laico, con David Ryan, con gli attori John De Leo, Michele
De Marchi, Ivana Monti. Le ultime produzioni hanno incluso esponenti della scena elettronica e post techno internazionale quali Staalplaat Soundsystem, (Olanda), Pan Sonic
(Finlandia), Matmos (USA), Andi Toma dei Mouse on Mars (Germania). Tra i direttori
ospiti si segnalano Giorgio Bernasconi, Pietro Borgonovo,Erasmo Gaudiomonte, Giovanni
Landini, Andrea Molino, Renato Rivolta, Yoichi Sujiama, Juan Trigos, Pierre André Valade,
Pierangelo Valtinoni, Jonathan Webb. Icarus si è spesso unito ad altri ensembles quali
Alter Ego, Neuevocalsolisten (Germania) e Cantus (Croazia) , Coro Claudio Merulo per
progetti speciali.
Sono regolarmente ospiti di trasmissioni radiofoniche sulla Rai e i loro concerti sono
passati per le reti nazionali giapponesi, messicane, argentine, olandesi, francesi, svizzere,
rumene e azerbaigiane.
Hanno inciso per Ricordi, Stradivarius, Bottega Discantica, Sincronie, Ariston, Spaziomusica.
ANNAMARIA MAGGESE
Conseguita la Maturità Classica, si iscrive al Conservatorio “G.
Frescobaldi” di Ferrara, dove conclude, nel 1989, sotto la guida del Prof. G. Semeraro, gli studi pianistici iniziati nel paese
natale, San Pietro in Casale, con la Prof.ssa P. Tartari.
Sempre presso lo stesso Conservatorio, si diploma nel 1994 in
Clavicembalo con la Prof.ssa S.Rambaldi, nel 1998 in Musica
corale e Direzione di Coro col M° M. Sgroi e nel 2002 in Composizione col M° R. Becheri.
Vincitrice dei concorsi a cattedre per Accompagnatore pianistico e per Teoria, Solfeggio e Dettato musicale, è titolare
della cattedra di Teoria,Ritmica e Percezione musicale presso
il Conservatorio “C. Pollini” di Padova dal 2006.
Dal 1995 al 1999 ha svolto attività di Assessore alla Scuola ed alla Cultura presso il Comune di San Pietro in Casale.
Nel 1998 e 1999 ha frequentato, come allieva effettiva, i Corsi di Direzione di Coro tenuti
dai Maestri Zagni, Kirschner, Bortoluzzi e Rizzo presso l’Associazione Polifonica di Ravenna.
Nel 2002 ha conseguito il diploma di Musica da Camera, presso il Conservatorio “Venezze” di Rovigo, con i Proff. D. Vicentini e A. Zanetti.
Nel 2006 ha registrato, in duo con Stefano Franzoni, il disco ‘Calace-Pettine-Ranieri: Tre
concerti per mandolino e pianoforte’.
Nell’ottobre 2006 si è diplomata in Musica da Camera col M° P.N. Masi , presso l’Accademia pianistica di Imola “Incontri col Maestro”, in formazione duo pianistico con la Prof.ssa
Maria Lucia Andreotti.
Oltre a dirigere la Corale “San Giacomo Maggiore”, ha svolto e svolge attività concertistica in formazioni cameristiche e come accompagnatrice al pianoforte, organo e clavicembalo.
SITOGRAFIA E BIBLIOGRAFIA
Il web abbonda di informazioni su Cage, spesso molto ben organizzate. I principali siti
di riferimento sono:
johncage.info – a cura di André Chaudron, contiene dettagliate discografie, bibliografie,
un catalogo completo commentato di tutte le composizioni, una lista delle esecuzioni
programmate, l’accesso alla lista di discussione ‘Silence’ e un’indice delle collaborazioni
tra John Cage e Merce Cunningham.
cagecomp.home.xs4all.nl – a cura di Paul van Emmerik, offre anch’esso cataloghi completi della musica, e del lavoro letterario e visivo di Cage, una bibliografia, discografia,
filmografia aggiornata, e la più completa cronologia, costantemente aggiornata, della
vita di Cage.
johncage.org – a cura di Laura Kuhn, è il sito ufficiale del John Cage Trust, si segnala in
particolare per il blog di curiosità e notizie di prima mano.
www.ubu.com – UbuWeb contiene la più grande quantità disponibile in un solo sito di
materiale audio e video di Cage.
A partire da questi siti sarà facile risalire a ogni informazione necessaria.
L’editoria italiana non è mai stata generosa con Cage. Si segnalano qui i volumi più
importanti e relativamente recenti, forse non tutti reperibili.
’8]V\1OUSSilenzio. Rimini, Shake, 2009
Nuova traduzione della prima fondamentale raccolta di scritti di Cage del 1961.
’8]V\1OUSLettera a uno sconosciuto, a cura di Richard Kostelanetz, Roma, Socrates, 1996.
Traduzione di Conversing with Cage, un montaggio di centinaia di interviste rilasciate
negli anni da J.C., scomposte e raggruppate per temi.
’8]V\1OUSPer gli uccelli. Conversazioni con Daniel Charles. A cura di Davide Bertotti,
Torino, testo & Immagine, 1999.
Nuova traduzione italiana del ciclo di interviste del 1977.
’8]V\1OUS, a cura di Gabriele Bonomo e Giuseppe Furghieri. Milano, Marcos y Marcos,
1998 (Riga, 15).
Raccolta di saggi di Cage e articoli storici e appositamente scritti per il volume
’8]V\1OUS, a cura di Gino Di Maggio, Achille Bonito Oliva, Daniele Lombardi, con un
percoso fotografico di Roberto Masotti, Milano, Mudima, 2009.
Un’altra raccolta più recente, graficamente preziosa, corredata da numerose foto e
illustrazioni.
Programma a cura di Veniero Rizzardi.
7;>/@/:¸/@B3|c\^`]USbb]RW
/[WQWRSZZO;caWQORW>OR]dO
1S\b`]R¸/`bSRSUZWAbcRS\bWRSZZ¸C\WdS`aWbuRW>OR]dO
=`QVSab`ORW>OR]dOSRSZDS\Sb]
^`][]aa]Sa]abS\cb]RO3ACSC\WdS`aWbuRW>OR]dO
QcWaWOTTWO\QOZ¸/aaSaa]`Ob]OZZO1cZbc`O
RSZ1][c\SRW>OR]dO
AMICI DELLA MUSICA DI PADOVA
dWOAO\;OaaW[]!%>OR]dO’bSZ"'&%#$%$!’eSP(eeeO[WQW[caWQO^OR]dO]`U
CENTRO D’ARTE DEGLI STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA
dWOAO\;OaaW[]!%>OR]dO’bSZ"'&%!%’eSP(eeeQS\b`]RO`bSWb
ORCHESTRA DI PADOVA E DEL VENETO
dWO;O`aWZW]RO>OR]dO'>OR]dO’bSZ"'$#$&"&$#$$ $’eSP(eee]^d]`QVSab`OWb
Ufficio Stampa=`QVSab`ORW>OR]dOSRSZDS\Sb]’bSZ"'$#$&"&’S[OWZ(^`Saa.]^d]`QVSab`OWb
Per informazioni e prenotazioniS[OWZ(UW]dO\W.]^d]`QVSab`OWb’eSP(eeeW[^O`OZO`bS^OR]dOWb