Agricoltura e clima - Ambiente e Territorio

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AGRICOLTURA E CLIMA
Bruxelles 30 settembre 2009
PREMESSA
I cambiamenti climatici in corso impongono un inderogabile impegno ad intraprendere tutti gli
interventi possibili per ripristinare condizioni di equilibrio mediante l’aumento di efficienza nella
produzione e nell’impiego di energia, la riduzione delle emissioni di gas climalteranti, la
contrazione dell’uso dei combustibili fossili e l’impiego delle fonti rinnovabili, l’adozione di modalità
sostitutive nei sistemi di trasporto, la gestione responsabile del territorio e, in generale, la modifica
complessiva degli stili di vita.
Rilevanti sono le conseguenze climatiche sulle tendenze di sviluppo socio-economico e di utilizzo
delle risorse naturali che coinvolgono il sistema produttivo ed energetico di tutti i Paesi, sia
industrializzati, che in via di industrializzazione.
RESPONSABILITA’ E RUOLO DEL SETTORE AGRICOLO NELL’AMBITO DELLE STRATEGIE
CLIMATICHE
Negli ultimi anni l’impresa agricola ha recuperato un ruolo strategico, divenendo strumento
necessario per raggiungere gli obiettivi di tutela dell’ambiente, salvaguardia del territorio, qualità e
sicurezza alimentare. Le imprese agricole si sono trovate nella necessità di ricorrere a nuove e
innovative scelte produttive, sempre più indirizzate verso un'offerta comprensiva anche di
numerosi servizi ad elevato “valore aggiunto”, quali quelli ambientali.
Tra agricoltura ed ambiente esiste una relazione dinamica e le aree agricole e forestali
rappresentano il risultato di una costante interazione tra fattori naturali ed antropici.
L'agricoltura, in quanto principale utilizzatrice dei terreni rurali, interagisce profondamente sui
sistemi naturali e rappresenta un fattore determinante per la qualità dello spazio rurale e
dell'ambiente. Infatti, se, da un lato, l’esercizio dell’attività agricola sui territori ha contribuito, nel
corso dei secoli, alla creazione ed alla salvaguardia di una grande varietà di habitat naturali e di
paesaggi, al tempo stesso, pratiche agricole ed un utilizzo della terra sconsiderato rischiano di
incidere negativamente sulle risorse naturali.
Nell’ambito delle problematiche legate ai cambiamenti climatici, le attività agricole possono agire
come sorgenti di gas serra o, inversamente, come assorbitori netti di carbonio, in considerazione
della naturale capacità della vegetazione di fissazione e di immagazzinamento nei suoli, nei
soprassuoli e nei prodotti legnosi della CO2 atmosferica.
Il settore agricolo, quindi, deve essere considerato in una duplice prospettiva: l’agricoltura deve
considerarsi, da un lato, come soggetto attivo, in quanto possibile responsabile di emissioni di gas
climalteranti e, dall’altro lato, come soggetto passivo, rispetto alla vulnerabilità del settore nei
confronti degli effetti negativi del clima.
Responsabilità dell’agricoltura come settore attivo (in termini di emissioni)
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I principali gas-serra prodotti dall’agricoltura sono l’ossido di azoto e il metano che hanno, peraltro,
un potenziale climaterante ben maggiore della CO2 (si stima, ad esempio, che il metano abbia un
potenziale climalterante di circa 23 volte superiore rispetto alla CO2).
Le emissioni di metano sono collegate alla zootecnia e alla risicoltura, mentre le emissioni di
ossido d’azoto derivano dalle fertilizzazioni azotate e dalle deiezioni zootecniche.
Tra i fattori che possono determinare la produzione di emissioni da parte del settore agricolo deve
essere annoverato anche l’impiego di combustibili fossili, necessario allo svolgimento delle attività
aziendali (lavorazioni, irrigazione, trattamenti, ecc.).
Per quanto riguarda la situazione italiana, secondo i dati elaborati e comunicati ufficialmente
dall’Ispra alla Convenzione sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), riferiti all’anno 2007,
l’agricoltura, senza considerare il contributo fornito dalle cd. attività LULUCF (Uso del suolo,
Cambio d’ uso del suolo e Forestali) è responsabile del 7,7% delle emissioni nazionali totali.
Diversamente, considerando anche il contributo positivo svolto delle attività LULUCF, la
percentuale di emissioni attribuibili all’agricoltura è del 6,7% rispetto al dato complessivo nazionale
Pur non trattandosi di una percentuale elevata, se confrontata a quella di altri settori, e’ evidente
che anche l’agricoltura sarà chiamata ad individuare opportune politiche, strategie ed azioni per
contenere gli impatti negativi dei propri processi produttivi.
Emissioni settore agricolo italiano
Percentuale emissioni agricoltura sul totale nazionale (elaborazioni su dati ISPRA - 2007)
Percentuale delle emissioni di CO2 equivalenti agricole rispetto al totale,
calcolato senza il contributo LULUCF (Land Use, Land-Use Change and
Forestry)
6,7%
Percentuale delle emissioni di CO2 equivalenti agricole rispetto al totale,
calcolato comprendendo il contributo LULUCF (Land Use, Land-Use
Change and Forestry)
7,7%
Agricoltura come settore passivo ed importanza delle strategie di adattamento
Il modello di produzione agricola, in termini di efficienza e di produttività, è condizionato in misura
consistente, oltre che dalle capacità di gestione e di pianificazione dell'imprenditore, da una diretta
dipendenza dagli elementi caratterizzanti il luogo di produzione, quali la fertilità del suolo e le
condizioni climatiche.
Nell’ambito delle tematiche connesse ai cambiamenti climatici, l’agricoltura assume, quindi, un
ruolo passivo, che risulta amplificato enormemente dai livelli di rischio climatico, costringendo le
imprese agricole ad adottare necessari meccanismi di adattamento, per rispondere ai numerosi
condizionamenti diretti ed indiretti (variazioni qualitative e quantitative delle produzioni, alterazioni
degli stadi fenologici, del sistema fitopatologico e delle esigenze in termini irrigui e di lavorazioni,
spostamento degli areali produttivi, modifica delle vocazionalità d’area, ecc.).
Va rilevato che un elemento determinante, rispetto alla naturale capacità di adattamento del
settore agricolo, è rappresentato dalla velocità di evoluzione dei fenomeni climatici, che
caratterizza il cambiamento climatico in corso. I sempre più frequenti fenomeni estremi (incendi,
violenti tempeste, inondazioni e siccità), insieme alla comparsa di altre anomalie climatiche (gelate
precoci o tardive, maggiore variabilità della stagionalità, alterazioni della frequenza delle
precipitazioni interstagionali e interannuali, comparsa di nuove malattie animali e vegetali)
rappresentano pressioni in grado di mettere effettivamente a rischio la solidità del sistema agricolo,
provocando una generale perdita di rendimento e di qualità delle produzioni nella maggior parte
delle regioni mediterranee, sino a sfociare in una tendenza alla riduzione o all’abbandono delle
attività agricole e forestali, in queste come in altre aree vulnerabili.
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Relativamente allo scenario di riferimento, emerge la necessità di mettere a punto opportune
misure di adattamento, finalizzate a far fronte ai cambiamenti climatici attraverso azioni di
adeguamento alle mutate condizioni ambientali e di prevenzione degli effetti connessi. Un’efficace
strategia di adattamento può consentire non solo di ridurre il rischio ed i danni conseguenti alle
variazioni del clima, ma anche di sfruttare i benefici derivanti dalle nuove opportunità economiche
che si aprono in questo contesto.
Se è l’intero sistema ambientale, economico e sociale ad essere esposto ai cambiamenti climatici,
le azioni di adattamento devono, quindi, intervenire ad ogni livello, sia umano che naturale, con la
necessità di un approccio pro-attivo di tutti i soggetti (pubblici e privati) coinvolti.
La strategia di adattamento non può essere considerata alternativa a quella di mitigazione, ma ne
rappresenta un complemento necessario per la stretta relazione tra i costi di adattamento e i costi
di mitigazione: in generale, più investimenti sono realizzati per ridurre la concentrazione di gas
serra, minore sarà la necessità di interventi di adattamento e viceversa. Inoltre, le azioni di
adattamento e di mitigazione, spesso parzialmente coincidenti, devono essere compatibili tra loro
e pianificate congiuntamente.
Le imprese agricole sono, dunque, chiamate ad internalizzare le strategie di adattamento
rendendole strumento di competitività aziendale, sfruttando le opportunità connesse all’adozione di
pratiche e di tecnologie all’avanguardia attraverso l’adozione di modelli volontari di
comportamento.
IL CONTRIBUTO DELL’AGRICOLTURA ALLE STRATEGIE DI MITIGAZIONE
Rispetto all’indissolubile rapporto esistente tra clima ed agricoltura, non può essere sottovalutato il
contributo positivo che il settore agricolo può assicurare nell’ambito della lotta ai cambiamenti
climatici. Infatti, le attività agricole e le attività connesse a quelle agricole, oltre a presentare
elevate potenzialità in termini di produttività e di competitività, possono rivestire un ruolo centrale di
presidio ambientale del territorio, essendo in grado di influire in modo consistente su alcuni
preoccupanti fattori di rischio di interesse collettivo, quali, ad esempio, l’erosione, il dissesto
idrogeologico, gli incendi e la siccità.
Il ruolo sociale dell’agricoltura in ambito climatico si deve estendere, quindi, alla sua funzione ed al
suo collocamento nell’ambito delle cosiddette strategie di mitigazione.
Da un punto di vista generale, deve essere considerato il contributo del settore nell’ambito delle
riduzioni delle emissioni nette di CO2 e di altri gas serra, attraverso la produzione di biomassa per
finalità energetiche in sostituzione di fonti fossili di energia e l’adozione di pratiche agricole che
favoriscano il sequestro del carbonio (carbon sink) nella biomassa e nei suoli (rispetto a questo
contributo si pensi all’adozione di misure volte a ridurre l’uso di concimi azotati, alla diffusione
dell’impiego del compostaggio, alla produzione di biogas, alla lavorazione dei terreni in base a
principi ambientali e alla diffusione dell’agricoltura biologica).
D’altra parte, non può trascurarsi che l’evoluzione del modello produttivo agricolo amplia
notevolmente le potenzialità di questo settore ad offrire risposte e strumenti efficaci nella lotta al
cambiamento climatico, con molteplici e differenziate opzioni, quale, a titolo di esempio, la
valorizzazione e la promozione di modelli di produzione e di consumo sostenibili.
Clima e agricoltura multifunzionale
La scelta di coinvolgere attivamente il settore agricolo nelle politiche di mitigazione climatica risulta
assolutamente in linea, tra l’altro, con l’orientamento dell’Unione Europea, che attraverso la riforma
della PAC, ha sancito il ruolo “multifunzionale” dell’agricoltura, intendendo giustificare le politiche di
sostegno del reddito attraverso la capacità del settore di fornire servizi alla collettività, diversi dalla
semplice produzione di generi alimentari.
Oggi più che mai la competitività stessa dell’agricoltura si coniuga con tecniche produttive in grado
di conservare le risorse naturali, ridurre e, possibilmente, evitare l’inquinamento ambientale, fornire
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prodotti sani e di qualità, conservare la biodiversità, l’integrità ecologica ed il benessere animale,
obiettivi a cui si aggiunge quello del contributo alla mitigazione degli effetti negativi dei
cambiamenti climatici, anche attraverso la produzione di energia pulita.
Contributo dell’agricoltura nella rivisitazione dei modelli di consumo
In generale, il ruolo positivo che l’agricoltura può ricoprire in ambito climatico appare strettamente
legato alla capacità delle politiche settoriali di restituire al territorio una centralità, sviluppando
nuove attività e nuove forme di occupazione, in un contesto culturale che necessariamente
prevede anche una rivisitazione dei modelli di consumo.
Nuovi ed incoraggianti comportamenti vanno oggi in direzione di questo modello di sostenibilità.
Si pensi ad esempio:
- alla promozione di modelli di consumo caratterizzati dalla riduzione dei trasporti dei prodotti
alimentari (quello che Coldiretti ha denominato progetto “chilometri zero) in risposta alla domanda
di un numero crescente di consumatori che adottano, anche nell'alimentazione, stili di vita attenti al
risparmio energetico ed alla salvaguardia dell’ambiente e del clima;
- alla diffusione della filiera corta (intesa in senso spaziale), concetto legato alla valorizzazione del
consumo dei prodotti stagionali e territoriali. Tale modello rappresenta l’occasione più a portata di
mano per offrire valide opportunità reddituali alle imprese e dare impulso allo sviluppo del territorio;
- all’istituzione dei mercati di vendita diretta, ai fini della riduzione della distanza tra produttore e
consumatore;
- alla difesa, attraverso opportune politiche di etichettatura, dell’identificazione delle produzioni
alimentari con il territorio di provenienza, per un “made in Italy” alimentare in grado di porre il
territorio al centro dello sviluppo.
E ancora:
- alla lotta agli ogm per impedire la delocalizzazione delle produzioni;
- alla diffusione dell’uso di oggetti, abiti ed utensili completamente biodegradabili e sicuri da un
punto di vista sanitario, provenienti da fibre vegetali o da bioplastiche (attraverso lo sviluppo delle
bioraffinerie).
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LA CONFERENZA DI COPENHAGEN SUL CLIMA
La Conferenza di Copenhagen, che si svolgerà dal 7 al 18 dicembre, costituisce la quindicesima
Conferenza delle Parti (COP15) in seno alla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle
Nazioni Unite (UNFCCC) e rappresenta un momento importante del negoziato internazionale sul
clima per sancire definitivamente la volontà internazionale di cooperare per la stabilizzazione della
temperatura media globale, mediante la drastica riduzione delle emissioni di gas climalteranti.
L’evento dovrebbe essere accompagnato dalla sottoscrizione di un trattato internazionale in grado
di proseguire, con obiettivi sempre più ambiziosi, il percorso tracciato dal protocollo di Kyoto.
Il successo della conferenza dipenderà molto dall’impegno finanziario che i Paesi industrializzati
decideranno di sostenere per facilitare il trasferimento di tecnologie “pulite”. Si parla di cifre
dell’ordine di 100 miliardi di dollari l’anno, cui l’Unione Europea dovrebbe contribuire per un 2030%
Il presupposto fondamentale su cui sarà basato il nuovo trattato di Copenhagen è l’attuazione
dell’art. 2 della Convenzione Quadro, che mira alla stabilizzazione della concentrazione di gas ad
effetto serra in atmosfera in modo da prevenire pericolose interferenze antropogeniche al sistema
climatico.
L’attuazione di questo obiettivo deve essere effettuata nel rispetto di tre principi:
•
il principio di precauzione (secondo il quale l'incertezza delle conoscenze scientifiche non
può essere usata come scusa per posticipare un intervento quando esiste comunque il
rischio di un danno irreversibile);
•
il principio della responsabilità comune ma differenziata (per il quale tutti i Paesi della terra
sono responsabili dei cambiamenti climatici generati dalle attività umane, ma tale
responsabilità è differente fra i vari Paesi a seconda delle condizioni di sviluppo socio
economico ed industriale);
•
il principio di equità (l’equità è l’elemento portante nel riconoscimento della legittimità sia
degli impegni assunti e delle decisioni adottate, che degli attori - cioè delle istituzioni
nazionali ed internazionali - che assumono il ruolo di rappresentanza e rappresentatività dei
popoli e delle loro istanze di benessere sociale ed economico) 1.
Le principali implicazioni insite nel negoziato che punta alla stabilizzazione della
temperatura media globale.
L’obiettivo della stabilizzazione della temperatura media globale è strettamente legato al livello di
concentrazione atmosferica dei cosiddetti gas serra, che implica il raggiungimento di una
condizione di equilibrio in cui le emissioni siano corrispondenti agli assorbimenti, situazione in cui
le emissioni nette verrebbero considerate uguali a zero.
Nel 1990, assunto come anno di riferimento per l’attuazione di tutti gli atti di natura climatica (a
cominciare dal protocollo di Kyoto), le emissioni globali di anidride carbonica (il principale gas
serra) erano poco più del doppio degli assorbimenti globali da parte dell’ambiente terrestre e
marino. Con questa premessa, il raggiungimento della condizione di equilibrio (sempre con
riferimento all’anno 1990) implica due possibilità: un taglio di oltre il 50% delle emissioni antropiche
globali oppure un incremento equivalente degli assorbimenti globali (detti carbon sinks) di almeno
il 50%.
Definendo quest’ultima ipotesi non realistica (anche perché con il riscaldamento climatico le
capacità di assorbimento globale tendono a diminuire), appare chiaro come l’obiettivo resti quello
1
La definizione di equità si articola, poi, in equità partecipativa (per l’assunzione delle decisioni), in equità
operativa (per la suddivisione dei costi e dei benefici delle decisioni adottate per prevenire e per adattarsi ai
cambiamenti climatici), in equità intergenerazionale (per tenere nel debito conto gli effetti delle decisioni sulle
future generazioni).
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di fermare la crescita delle temperature mediante una drastica riduzione delle emissioni di origine
umana. Tuttavia, un ruolo importantissimo in questa strategia è giocato dal fattore tempo. Il
periodo necessario per raggiungere la stabilizzazione delle temperature dipende, infatti, dalla
velocità con cui si riesce ad incidere sul tasso di incremento delle emissioni nette globali. Il
problema si può tradurre in un’espressione del tipo “più siamo veloci ad intervenire, più tempo
avremo a disposizione per finire il lavoro”.
Il dibattito internazionale è molto vivo su questo aspetto proprio perché ci si rende conto che la
definizione dell’intervallo temporale in cui declinare gli impegni di riduzione delle emissioni (in
sostanza, la scelta degli obiettivi al 2020 e al 2050 e l’individuazione dello stesso anno 1990 come
riferimento di partenza) sia necessariamente da rapportare all’effettiva capacità e disponibilità dei
sistemi umani di modificare le proprie modalità di sviluppo socio economico che interferiscono con
il sistema clima.
Un’altra implicazione riguarda le modalità di attuazione degli accordi internazionali, che devono tener
conto dei principi e delle priorità poste dalla Convenzione Quadro. Si tratta delle strategie di
attuazione che devono riguardare sia la mitigazione (prevenzione delle cause antropiche dei
cambiamenti del clima), sia l’adattamento (prevenzione delle conseguenze negative e dei danni
causati dai cambiamenti climatici). Poi c’è il problema delle priorità (i Paesi industrializzati, che sono
anche i maggiori responsabili dell’inquinamento del pianeta, devono assumere un ruolo guida ed
attuare per primi impegni ed obblighi, in modo che i Paesi in via di sviluppo possano
successivamente fare la loro parte); della scelta della tipologia degli impegni (che non riguardano le
sole azioni di protezione del clima ma devono comprendere tutta una serie di impegni collaterali ed
integrativi che aiutino lo sviluppo dei Paesi più poveri in modo sostenibile) e delle azioni, che devono
riguardare in primis la riduzione delle emissioni antropiche dei gas serra, l’aumento degli assorbitori
naturali di tali gas e la diminuzione della vulnerabilità territoriale e socio economica ai cambiamenti
del clima, ma comprendendo anche interventi collaterali ed integrativi che spaziano dal settore
economico (con la creazione di opportuni fondi e di opportune forme di cooperazione internazionale),
al settore tecnologico (mediante il trasferimento di nuove tecnologie, di know-how e di capacità
tecnico-scientifiche), al settore scientifico (la ricerca sui cambiamenti del clima, le osservazioni
climatiche), fino ad arrivare al settore della comunicazione e della partecipazione dei cittadini
(formazione, informazione e consapevolezza del pubblico).
Premesse del negoziato
Rispetto ad alcuni segnali positivi dal punto di vista politico (Australia, Usa e Giappone con
leadership più sensibile alle tematiche ambientali e un leggero ammorbidimento anche della Cina) la
strada per la firma del nuovo Trattato di Copenhagen sembra ancora ricca di difficoltà. A
dimostrazione di ciò deve considerarsi la media delle riduzioni annunciate finora dai paesi ricchi per il
2020, (sempre avendo come riferimento il 1990). Rispetto a quel 40% che, secondo gli scienziati,
sarebbe necessario raggiungere per mantenere il surriscaldamento del pianeta entro i 2°C (obiettivo
minimo solo recentemente condiviso), ad oggi la media per i paesi industrializzati (OECD) non arriva
che al 14% (dato su cui incide molto, tra l’altro, il rilevante peso di riduzione del 20% della UE).
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OSSERVAZIONI E PROPOSTE
Risulta evidente che la prossima Conferenza di Copenhagen rappresenta un’occasione importante
per promuovere un’agricoltura sostenibile a livello globale che sia, al contempo in grado di
affrontare la sfida del raggiungimento del fabbisogno di sufficienza alimentare. Questo obiettivo
può essere raggiunto anche e soprattutto riconoscendo un ruolo centrale al settore agricolo nelle
strategie di adattamento e di mitigazione dei cambiamenti climatici.
Si tratta, dunque, di mettere a punto specifiche politiche, sia a livello comunitario che mondiale, in
grado di modificare una paradossale situazione di empasse in cui, nonostante il ruolo positivo
costantemente riconosciuto, in tutti i consessi politici e scientifici, al settore primario in ambito
climatico, a tutt’oggi non sono state adottate adeguate soluzioni per attribuire anche un valore
economico ad attività che presentano un elevato livello di utilità sociale ed ambientale.
Alla luce di quanto detto e con l’intento di fornire un contributo al più ampio dibattito che a
Copenhagen interesserà il rapporto tra agricoltura e clima, si formula una serie di osservazioni:
1) come riconosciuto anche dalla FAO, l'agricoltura è uno dei settori più sensibili al clima e,
perciò, potenzialmente più vulnerabile
Le attività agroforestali sono fortemente subordinate alle condizioni naturali e sono le sole attività
economiche la cui efficienza dipenda in modo diretto da condizioni meteorologiche incontrollabili.
Ma, se è vero che l’adattamento alle condizioni naturali ha sempre rappresentanto una normale
variabile nello svolgimento delle attività agricole, attualmente, l'estensione e la complessità dei
fenomeni incontrollabili e imprevedibili collegati al clima costituiscono una minaccia diversa e
preoccupante. Per questi motivi, il cambiamento climatico è destinato sempre più a costituire un
fattore preponderante nelle decisioni gestionali delle imprese agricole e deve essere considerato
un fattore di pressione in grado di comprometterne la solidità economica e la competitività.
2) la sufficienza alimentare mondiale costituisce una funzione primaria ed insostituibile
Il ruolo primario svolto dall’agricoltura nella lotta alla sufficienza alimentare, impone di riflettere
sulla necessità di considerare le emissioni derivanti dalle attività di produzione sotto una diversa
ottica. Pur evidenziando che il trend delle emissioni climateranti derivanti dal settore agricolo è
comunque in diminuzione, anche grazie agli sforzi ed all’impegno delle imprese verso
un’agricoltura sempre più sostenibile, in ogni caso, le emissioni del settore primario non possono
essere considerate con gli stessi parametri rispetto a quelle di altri settori.
La produzione alimentare, infatti, è indispensabile ed irrinunciabile, soprattutto in un momento
storico, quale quello attuale, in cui la crisi alimentare rappresenta un’emergenza a livello mondiale.
3) la peculiarità delle emissioni derivanti dall’attività agricola impone un’attenzione diversa
nell’ambito delle politiche di adattamento e di mitigazione
Le emissioni di gas ad effetto serra di origine agricola risultano del tutto peculiari, perché, a
differenza di quelle di origine industriale, risultano caratterizzate e determinate da processi
biologici variabili naturali.
In termini di responsabilità in ambito climatico, dunque, se, da un lato, l’agricoltura potrà e dovrà
cogliere l’opportunità di migliorare ulteriormente le sue performances ambientali, dall’altro lato, non
è accettabile che l’applicazione delle strategie di adattamento e di mitigazione per il settore
agricolo si trasformino in ulteriori penalizzazioni in termini di vincoli e costi, senza nessuna
concreta possibilità di valorizzazione e senza un adeguato riconoscimento dei contributi positivi
che l’agricoltura offre in termini di bilancio delle emissioni.
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4) rispetto al rischio di ulteriori penalizzazioni, va ricordato anche che un importante
contributo alle strategie climatiche da parte dell’agricoltura europea è già in corso
Consistenti miglioramenti in ambito ambientale sono stati effettuati ed un livello più alto di
efficienza nell'utilizzo dell'energia, delle risorse e dei nutrienti è stato raggiunto dall’agricoltura
europea nel quadro dell’attuale legislazione ambientale.
In questo senso, le imprese agricole hanno, già da tempo, effettuato un investimento su qualità,
ambiente e clima. I costi necessari per la garanzia di rispetto di elevati standards ambientali
incidono in modo rilevante sulla competitività, anche a livello internazionale, delle imprese europee
soprattutto nel confronto con le aziende operanti in Paesi che, ancora, ritengono di poter
rimandare queste scelte.
5) l’agricoltura ha bisogno di una strategia climatica caratterizzata da un quadro politico
stabile ma al tempo stesso flessibile
Sono necessari meccanismi che possono offrire incentivi e remunerare gli sforzi delle imprese
agricole per garantire e stabilizzare la loro situazione di fronte alle incertezze relative
all'applicazione delle misure di adattamento e mitigazione.
In particolare, occorre che alle attività agricole, oltre ad essere imputata una responsabilità come
fonti di emissione (source), venga riconosciuto anche il ruolo positivo offerto dallo strumento dei
carbon sinks.
In questo senso, sarà necessario operare affinché, nell’ambito degli inventari nazionali delle
emissioni di gas serra, per le attività agricole venga effettuato il “bilancio netto” tra “carbon sources”
(cioè tra emissioni generate nelle attività di produzione agricole) e “carbon sinks”, cioé assorbimenti
generati dall’accumulo di carbonio come biomassa vegetale e come sostanza organica nel suolo e
nel sottosuolo.
In sostanza, norme semplificate di contabilità per gli effetti esercitati sul clima dalla destinazione
d'uso del terreno, dai cambiamenti di tale destinazione e dalla silvicoltura (cd. attività LULUCF)
devono potersi trasformare in occasioni di valorizzazione economica del ruolo positivo
dell’agricoltura in considerazione delle potenzialità in termini di assorbimento del carbonio.
Occorre rimuovere alcune barriere in questo senso, legate ad un alto grado di incertezza nella
valutazione delle emissioni agricole, alla scarsa disponibilità di informazioni per fissare i dati di
base, agli elevati costi di misurazione e di controllo delle emissioni per verificare le riduzioni e ad
una generale assenza di metodologie e di strumenti condivisi.
Per questo motivo, servono anche investimenti per la ricerca e per il conseguimento di maggiori
dati ed informazioni circa le dinamiche del settore agroforestale, in relazione al suo effettivo
contributo nella strategia climatica.
6) Investire in agricoltura significa risparmiare
Sono necessarie scelte politiche chiare che non possono non considerare l’esigenza di un ulteriore
investimento nel settore agricolo.
Investire in agricoltura, infatti, significa risparmiare, ad esempio, sui costi delle emergenze
alluvionali, dei dissesti idrogeologici e delle penalità imposte a livello internazionale.
Si dovrebbe prevedere, infatti, piuttosto che lo stanziamento di fondi per fronteggiare le
inadempienze al protocollo di Kyoto, il riconoscimento di strumenti economici e remunerativi per le
imprese sul territorio, in un’ottica preventiva ed operativa. Attualmente, invece, i fondi disponibili
sono prevalentemente destinati a far fronte a sanzioni o all’acquisto di crediti di carbonio
dall’estero attraverso i cosiddetti meccanismi flessibili.
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7) Nonostante il ruolo del settore agricolo nell’ambito delle strategie climatiche sia
perfettamente compatibile con il modello dell’agricoltura multifunzionale europea, in questo
ambito la P.A.C. non può rappresentare l’unica risorsa a disposizione per le imprese
agricole europee
E’ necessario valorizzare ulteriormente il contributo dell’agricoltura nell’ambito delle strategie
climatiche, individuando nuove risorse finanziarie da convertire in incentivi per diffondere
tecnologie e sistemi moderni ed innovativi in grado di realizzare concreti risultati di mitigazione e di
adattamento nei diversi settori agricoli: quello zootecnico (attraverso la diffusione di nuove tecniche
di stabulazione, anche con allevamento all’aperto; il recupero degli effluenti; la riduzione delle
emissioni di metano; la produzione di biogas); quello cerealicolo e foraggero (attraverso la
destinazione dei cereali alle filiere agroalimentari e non solo a quelle zootecniche; l’impiego dei
foraggi per l’alimentazione animale; l’impiego di nuove tecniche agronomiche che garantiscano
una maggiore efficienza energetica; l’introduzione di varietà maggiormente resistenti alle crisi
idriche); quello energetico (attraverso la produzione di fonti energetiche rinnovabili da parte
dell’impresa agricola mediante l’impiego di sottoprodotti e residui; la diffusione di sistemi energetici
integrativi come fotovoltaico, solare, eolico, ecc.).
E’ necessario, tuttavia, che la PAC, dopo il 2013 sia in grado di rispondere ai compromessi che
l'UE adotterà nell'ambito della Conferenza di Copenhagen ed in un eventuale accordo post-Kyoto,
continuando a fornire l'aiuto necessario all’agricoltura per superare le difficoltà legate ai
cambiamenti climatici, oltre a rinforzarne il ruolo nelle strategie climatiche.
8) Occorre individuare nuovi strumenti in grado di riconoscere il maggiore valore
ambientale che le produzioni agricole a chilometro zero assicurano rispetto a modelli
produttivi basati sulla filiera lunga
Agendo in un contesto di mercato, questi strumenti potrebbero essere rappresentati, ad esempio,
dalle certificazioni delle emissioni di CO2 che sono in grado di internalizzare, grazie ad un
maggiore prezzo di mercato, i benefici esterni che le filiere corte producono sul territorio,
sull’ambiente e sulla popolazione. In questo modo si raggiungerebbe il doppio obiettivo della
valorizzazione delle produzioni locali di qualità e del riconoscimento degli sforzi in campo
ambientale sostenuti dagli imprenditori agricoli.
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DATI E TABELLE DI RIFERIMENTO 2
IMPEGNI NAZIONALI ASSUNTI NELL’AMBITO DEL PROTOCOLLO DI KYOTO 3
In base agli impegni liberamente assunti dal governo italiano in sede di negoziato del Protocollo di
Kyoto, l’Italia deve ridurre entro il 2012 le proprie emissioni nella misura del 6,5% rispetto ai livelli
del 1990.
Come è noto, inoltre, il Consiglio europeo dell’8-9 marzo 2007 ha definito le misure strategiche di
riduzione delle emissioni atmosferiche dal settore energetico, ponendo, per il 2020, obiettivi
ambiziosi:
•
la riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990;
•
il contributo del 20% delle fonti rinnovabili di energia al consumo totale di energia;
•
la riduzione del 20% dei consumi energetici rispetto alle proiezioni al 2020;
•
il contributo del 10% di biocarburanti per il trasporto
EMISSIONI DÌ GAS SERRA PER SETTORE ECONOMICO E TREND 4
La Relazione sullo Stato dell’Ambiente del 2009 evidenzia che, rispetto all’obiettivo di riduzione
fissato attualmente a livello nazionale (483,3 Mt CO2eq), nel periodo 1990-2006, si è assistito ad
un incremento del 9,9% delle emissioni (567,9 Mt CO2eq nel 2006). Tuttavia il trend di aumento
delle emissioni si è invertito a partire dal 2006 (-1,73% rispetto al 2005). A livello globale l’Italia è
responsabile dell’1,7% delle emissioni complessive provenienti dall’uso dei combustibili fossili,
risultando in nona posizione tra i dieci paesi con i maggiori livelli di emissioni di gas serra.
Tra il 1990 e il 2006, le emissioni di gas serra in Italia sono cresciute complessivamente di 51,0
milioni Mt CO2 eq.. In questo periodo si sono ridotte le emissioni fuggitive (dovute a perdite
accidentali durante le fasi di estrazione e distribuzione degli idrocarburi), quelle provenienti
dall’industria manifatturiera, dall’agricoltura e dall’uso di solventi, mentre sono aumentate quelle
provenienti dai processi industriali, dai rifiuti, dal settore residenziale e dei servizi e, soprattutto,
quelle provenienti dalle industrie energetiche e dai trasporti (+28,7 Mt CO2 eq) (vedi figura 1).
Figura 1
2 Fonti di riferimento: ‐ Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare ‐ Relazione sullo stato dell’ambiente 2009 ‐ ISPRA – Annuario dei dati ambientali 2008 ‐ISPRA ‐ Italian Greenhouse Gas Inventory 1990‐2007 ‐ National Inventory Report 2009 3
Fonte dati: Relazione sullo stato dell’ambiente – Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 2009 4
Fonte dati: Relazione sullo stato dell’ambiente – Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare 2009 Area Ambiente e Territorio Coldiretti
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L’andamento di crescita delle emissioni descritto presenta un’inversione di tendenza dal 2005.
Infatti, nel 2006 si è osservata una flessione delle emissioni rispetto all’anno precedente per la
maggior parte dei settori, a fronte di un incremento per i trasporti, le industrie manifatturiere e l’uso
dei solventi. Complessivamente si registra una riduzione delle emissioni rispetto all’anno
precedente, pari a -1,73% (-10 Mt CO2 eq) per le emissioni totali, e a -0,91% (-4,3 Mt CO2 eq) per
quelle provenienti dai processi di combustione.
Dai dati disponibili si evince che l’Italia non sembra in condizione di raggiungere l’obiettivo di Kyoto
adottando esclusivamente misure nazionali. In tale prospettiva, è indispensabile effettuare una
programmazione degli interventi contemplando, tra le altre misure, il ricorso ai crediti generati
dalle attività forestali, dalle misure flessibili e, in particolare, dagli interventi di cooperazione
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internazionale (Clean development Mechanism, Joint Implementation) definiti dal Protocollo di
Kyoto.
Emissioni in generale e stima dei costi del cambiamento climatico
L’aumento mondiale delle emissioni di gas serra, includendo le emissioni di CO2 non dipendenti
dal consumo energetico e includendo gli altri 5 gas serra, prevede una crescita da 44,2 Gt CO2
equivalenti nel 2005 a 59,6 nel 2030 (figura 2). Le emissioni di CO2 nel settore industriale sono in
aumento alla stessa velocità di quelle del settore energetico, mentre si prevedono in diminuzione
le emissioni legate all’uso del suolo (soprattutto per la deforestazione).
Figura 2
Le differenze fra i Paesi in termini di reddito pro capite, emissioni pro capite ed intensità di energia
rimangono significative. Nel 2004 i 41 Paesi dell’Allegato I della UNFCCC costituivano il 20% della
popolazione mondiale, producevano il 57% del Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale basato sul
potere di acquisto paritario (ppa), ed erano responsabili del 46% delle emissioni globali di gas
serra (figura 3).
In termini economici, lo scenario che prevede il contenimento della concentrazione della CO2 a
550 ppm (ai fini della stabilizzazione della temperatura media globale) implicherebbe globalmente
una riduzione del PIL dallo 0,2% al 2,5%, mentre la riduzione a 450 ppm una riduzione del PIL
dallo 0,5% al 3,0%.
Nella tabella 1 sono riportate le stime dei costi dei cambiamenti climatici come percentuale del PIL
prodotto nell’ambito degli studi più recenti elaborati.
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Figura 3
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Emissioni di gas serra del settore agricolo italiano 5
Nel 2007 sono originate dal settore agricolo il 6,7% delle emissioni nazionali di gas serra (non
considerando le emissioni ed i benefici derivanti dalle attività cd. LULUCF). In termini quantitativi,
si tratta di 37,210 Mt di Co2 eq/a rispetto al totale nazionale di 552,771 Mt di Co2 eq/a 6.
Per il settore, dal 1990 al 2007, si registra un trend in diminuzione dell’8,3% dovuto alla
diminuzione dell’attività, come, ad esempio, il numero di animali allevati e la variazione negli anni
delle superfici agricole.
Percentuale emissioni agricoltura sul totale nazionale (elaborazioni su dati ISPRA - 2007)
Percentuale delle emissioni di CO2 equivalenti agricole rispetto al totale,
calcolato senza il contributo LULUCF (Land Use, Land-Use Change and
Forestry)
6,7%
Percentuale delle emissioni di CO2 equivalenti agricole rispetto al totale,
calcolato comprendendo il contributo LULUCF (Land Use, Land-Use Change
and Forestry)
7,7%
5
Fonte : ISPRA ‐ Italian Greenhouse Gas Inventory 1990‐2007 ‐ National Inventory Report 2009 6
Si segnala che i dati pubblicati a livello nazionale, negli ultimi rapporti 2009, anche riferiti alle annualità precedenti al 2007 (ultimo anno di riferimento) sono stati oggetto di aggiornamento nella comunicazione fornita dall’Italia in adempimento alla Convenzione quadro, con il National Inventory Report 2009. Le tabelle pubblicate a livello nazionale, pertanto, pur confermando i trend indicati dai rapporti, contengono dei dati specifici che sono stati in parte riformulati. Area Ambiente e Territorio Coldiretti
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I principali gas-serra prodotti dall’agricoltura sono l’ossido di azoto e il metano che hanno, peraltro,
un potenziale climaterante ben maggiore della CO2 (si stima, ad esempio, che il metano abbia un
potenziale climalterante di circa 23 volte superiore rispetto alla CO2).
Con riferimento al 2007, il metano di origine agricola ha contributo del 40,7 % rispetto al totale
delle emissioni nazionali di tale gas, mente il protossido di azoto rappresenta il 67,8 % rispetto al
totale delle emissioni nazionali.
GREENHOUSE GAS SOURCE AND
SINK CATEGORIES
Total National Emissions
1. Energy
2. Industrial Processes
3. Solvent and Other Product Use
4. Agriculture
5. Land Use, Land-Use Change and Forestry
6. Waste
7. Other
CH4
N2O
Gg
Gg
1.829,25
308,70
3,08
743,77
9,37
764,32
NA
102,76
17,56
6,10
2,49
69,65
0,06
6,90
NA
Fonte: ISPRA - Inventario delle emissioni (2007)
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GLOSSARIO ED INFORMAZIONI SINTETICHE DI RIFERIMENTO
OBIETTIVI E STRUMENTI DEL PROTOCOLLO DI KYOTO (gli articoli 3.3 e 3.4 del Protocollo)
Il Protocollo di Kyoto riconosce alle foreste e ai suoli agricoli un ruolo importante nelle strategie di
mitigazione dei cambiamenti del clima, sostanzialmente attraverso tre categorie di opzioni:
•
creazione di nuove foreste,
•
appropriata gestione delle foreste esistenti e dei suoli agricoli,
•
uso delle biomasse per la produzione di energia, in sostituzione delle fonti fossili e di altri
materiali.
Gli articoli 3.3 e 3.4 costituiscono i riferimenti di interesse principale per definire il ruolo del settore
primario nelle politiche di implementazione del Protocollo di Kyoto.
L’articolo 3.3 del Protocollo obbliga i Paesi a rendicontare gli effetti delle attività di piantagione
realizzate a partire dal 1990, al netto degli effetti di riduzione delle superfici forestali. Più in
particolare, si tratta delle attività di afforestazione, riforestazione e deforestazione ovvero i
cambiamenti permanenti nell’uso del suolo (da non forestale a forestale e viceversa) e stabilisce
che tutte le quantità di carbonio immagazzinate nel suolo e nel soprassuolo a seguito di tali attività,
qualora siano state realizzate tra il 1° gennaio 1990 ed il 31 dicembre 2012, dovranno essere
obbligatoriamente contabilizzate e considerate ai fini del raggiungimento degli impegni di riduzione
delle emissioni.
GLOSSARIO
Afforestazione: imboschimento. E’ la conversione in foresta, per azione antropica di un’area che non sia stata foresta per almeno 50
anni
Riforestazione: rimboschimento. E’ la conversione, per azione antropica, in foresta di una terra già in precedente forestale, ma che nel
passato è stata convertita ad altri usi, realizzata per mezzo di piantagione, semina e/o azione antropica di sostegno all’affermazione di
modalità naturali di propagazione.
Deforestazione: disboscamento. E’ la conversione per azione antropica di un’area forestale in una non forestale.
Foresta: è un’area con dimensioni minime di 0,01-1,0 ettaro, con un tasso di copertura arborea di almeno 10-30%, con piante in grado
di raggiungere a maturità e in situ, un’altezza minima di 2,5m. Un Paese può scegliere, sia per le dimensioni minime sia per il tasso di
copertura, il limite minimo all’interno del range.
L’art.3.4 del Protocollo riguarda le attività di gestione delle superfici forestali e di quelle agricole,
distinte, queste ultime, in tre categorie:
•
gestione dei prati e pascoli,
•
gestione dei coltivi,
•
rivegetazione di terreni nudi o degradati.
La norma rimanda ad una successiva Conferenza delle Parti la decisione su quali fra le attività
legate all’uso del suolo e alle variazioni dell’uso del suolo che comportano una fissazione del
carbonio atmosferico (oltre a quelle di afforestazione, riforestazione e deforestazione) possono
essere in grado di generare crediti di carbonio a compensazione delle emissioni di gas climaalteranti.
L’interpretazione di quali attività forestali includere fra quelle eleggibili ha richiesto ampi studi e
complesse negoziazioni politiche. A tali scopi, l’IPCC ha preparato un Rapporto Speciale
denominato “Land Use, Land-Use Change and Forestry” (LULUCF) – Uso del Suolo, variazioni
dell’uso del suolo e selvicoltura.
Con l’ausilio di tale rapporto, e dopo quattro anni di negoziati, nel corso della settima conferenza
delle Parti (CoP-7) dell’UNFCCC, svoltasi nel 2001 a Marrakech (Marocco), è stato raggiunto un
accordo finale relativo alle attività di uso del suolo.
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A seguito degli Accordi di Marrakech sono state identificate quattro “attività addizionali” che
possono essere impiegate per mantenere gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni di gasserra:
•
la gestione delle superfici forestali
•
la gestione dei suoli agricoli
•
la gestione dei prati e dei pascoli
•
la rivegetazione
Queste attività addizionali, a differenza delle attività previste nell’art.3.3, non devono essere
conteggiate obbligatoriamente ai fini del raggiungimento degli impegni di riduzione delle emissioni,
ma
possono essere facoltativamente contabilizzate nel bilancio delle emissioni, anche
singolarmente, sulla base di decisioni autonome degli Stati.
Al fine dell’eventuale considerazione di tali attività nel bilancio, inoltre, l’art.3.4 stabilisce che
queste debbano essere esercitate intenzionalmente (human-induced) e realizzate a partire dal
1990.
Mentre per le attività agricole non sono stati definiti dei limiti di rendicontabilità, per le attività di
gestione forestale, ad ogni Paese, è stato assegnato uno specifico livello massimo di
rendicontabilità (cap), con lo scopo di evitare un eccessivo ricorso a queste misure a scapito di
quelle di riduzione delle emissioni di gas di serra connesse ai consumi energetici.
Sempre nell’ambito dell’articolo 3.4, la maggior parte dei Paesi occidentali (Italia compresa) che
hanno ratificato il Protocollo di Kyoto hanno optato per non rendicontare le attività agricole nel
primo periodo di attuazione, cioè entro la scadenza del 2012.
Invece, la gestione forestale è stata selezionata da alcuni Paesi, tra cui l’Italia, che tra l’altro ha
ottenuto un limite di rendicontabilità per le misure di gestione forestale (Cap) in termini relativi
molto elevato: 10,2 milioni di tonnellate CO2 equivalenti per anno (MtCO2) pari a 2,78 milioni di
tonnellate di carbonio.
Secondo gli accordi di Marrakech, la scelta delle attività facoltative da rendere eleggibili e le
relative definizioni va effettuata dai singoli Stati alla luce di una serie complessa di fattori, tra cui:
– il reale potenziale di fissazione delle attività addizionali per raggiungere gli impegni di Kyoto;
– le informazioni disponibili e quelle da rilevare e i relativi costi di inventariazione e monitoraggio.
Va segnalato, inoltre, che nella decisione relativa al ruolo delle attività LULUCF, nei bilanci
nazionali, sono stati tenuti in considerazione due limiti degli interventi delle attività agro-forestali
rispetto alle misure di contenimento e riduzione delle emissioni di gas-serra in altri settori: la
saturazione e la non permanenza degli interventi.
La saturazione avviene con il raggiungimento del potenziale massimo biologico di carbonio
sequestrabile da una foresta o da un suolo agricolo. Essa è quindi condizionata sia dalla limitata
disponibilità di terreni, sia dalla quantità di carbonio che può essere immagazzinato o protetto per
unità di superficie.
Per quanto riguarda la non-permanenza (o potenziale reversibilità), questa concerne il fatto che
l’immagazzinamento del carbonio nella biosfera può essere reversibile, dato che il carbonio può
ritornare in atmosfera a causa della degradazione dei suoli, della riconversione di sistemi agricoli,
dei tagli e incendi delle foreste, ecc..
In campo agroforestale, la questione della non-permanenza è stata risolta nell’ambito del
Protocollo con l’imposizione del principio “once Kyoto land, always Kyoto land”: una volta inserite
nei sistemi di contabilità le aree per l’applicazione degli art. 3.3 e 3.4, i Paesi dell’Allegato I hanno
l’obbligo di monitorarne costantemente gli assorbimenti e, simmetricamente, le emissioni.
GLOSSARIO E SIGLE DI RIFERIMENTO
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Attività LULUCF: Land use, land use change and forestry
raggiungere gli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto
attività agricole e forestali che i diversi Paesi possono usare per
Gestione forestale o Forest management (FM): Pratiche gestionali finalizzate al miglioramento di funzioni ecologiche economiche e
sociali
Gestione dei suoli agricoli o cropland management (CM)
Gestione dei pascoli o Grazing land management (GM)
Rivegetazione o revegetation (RV): interventi che stabiliscono una copertura forestale che non rispetta la definizione di foresta
MECCANISMI FLESSIBILI
Oltre agli interventi domestici, per facilitare il raggiungimento degli obblighi, il Protocollo di Kyoto
ha introdotto alcuni meccanismi flessibili, che sono essenzialmente strumenti economici finalizzati
mirati a ridurre il costo complessivo d'abbattimento dei gas serra, permettendo di ridurre le
emissioni lì dove sia economicamente più conveniente pur nel rispetto degli obiettivi ambientali.
Rientrano in tale nozione l’Emission Trading, la Joint Implementation, il Clean Development
Mechanism.
Alcuni considerano la contabilizzazione dei carbon sinks tra i meccanismi flessibili, di tipo non
economico.
GLOSSARIO
Emission Trading Scheme ovvero Scambio di quote di emissioni (ETS): Il meccanismo consente a ciascun Paese dell’Allegato I,
che ha ridotto le emissioni in misura maggiore rispetto ai propri targets, di vendere tale surplus in un mercato internazionale creato ad
hoc ad altri Paesi dello stesso Allegato che non sono riusciti a raggiungere i propri obiettivi.
Joint Implementation ovvero Attuazione Congiunta (JI): Il meccanismo consente a ciascun Paese dell’Allegato I di realizzare
progetti di abbattimento delle emissioni in un altro Paese del proprio Allegato di appartenenza, acquisendo così unità di riduzione delle
emissioni (Emission Reduction Units, ERU) che possono essere usate in detrazione delle emissioni nazionali dal 2008;
Clean Development Mechanism ovvero Meccanismo per lo sviluppo pulito (CDM): il meccanismo consente ai Paesi dell’Allegato I
di attuare progetti di sviluppo socio-economico “pulito”, basati cioè sull’innovazione tecnologica e le nuove tecnologie ad alta efficienza
e a bassa emissione di gas serra), acquisendo così delle riduzioni di emissioni certificate (Certified Emission Reduction, CER) che
possono essere usate in detrazione delle emissioni nazionali dal 2005;
CARBON SINKS OVVERO BACINI DI ASSORBIMENTO DEL CARBONIO (CS): In generale, elemento dell’ambiente naturale (ad es.le foreste)
suscettibile di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera nel corso del suo ciclo di vita e di rilasciare gas serra al termine, a causa del
processo di decomposizione o dell’utilizzo che ne viene fatto (combustione). In accezione parzialmente diversa, meccanismo che
consente la possibilità di compensare gli eccessi di emissione aumentando l’estensione di strutture di assorbimento naturale
dell’anidride carbonica, quali boschi, foreste e superfici coltivate, ottenendo così delle unità di rimozione (Removal Unit, RMU).
GAS AD EFFETTO SERRA ED UNITA’ DI MISURA
Il paniere di gas ad effetto serra considerato nel Protocollo di Kyoto include i seguenti sei gas:
•
biossido di carbonio (CO2);
•
metano (CH4);
•
protossido di azoto (N2O);
•
idrofluorocarburi (HFC);
•
perfluorocarburi (PFC);
•
esafluoro di zolfo (SF6).
Ai fini della riduzione delle emissioni dei gas-serra, non va tenuto conto solo dei rilasci in atmosfera
dei gas serra provenienti dalle attività umane, ma anche degli assorbimenti che vengono effettuati
dall’atmosfera attraverso idonei assorbitori che eliminano tali gas e li immagazzinano
opportunamente in modo da non aumentare l’effetto serra naturale (sinks).
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Uno dei principali assorbitori di gas-serra e, in particolare dell’anidride carbonica (carbon sink), è
costituito da piante, alberi ed ecosistemi vegetali che attraverso la fotosintesi sottraggono anidride
carbonica dall’atmosfera e la accumulano sotto forma di biomassa.
GLOSSARIO
CARBON SINKS OVVERO BACINI DI ASSORBIMENTO DEL CARBONIO (CS): In generale, elemento dell’ambiente naturale (ad es.le foreste)
suscettibile di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera nel corso del suo ciclo di vita e di rilasciare gas serra al termine, a causa del
processo di decomposizione o dell’utilizzo che ne viene fatto (combustione). In accezione parzialmente diversa, meccanismo che
consente la possibilità di compensare gli eccessi di emissione aumentando l’estensione di strutture di assorbimento naturale
dell’anidride carbonica, quali boschi, foreste e superfici coltivate, ottenendo così delle unità di rimozione (Removal Unit, RMU).
CO2 EQUIVALENTE: E' un'unità comune che permette di misurare l’insieme di emissioni di gas serra diversi con differenti effetti sul clima.
Ad esempio il metano ha un potenziale climalterante di circa 23 volte superiore rispetto alla CO2, conseguentemente una tonnellata di
metano viene contabilizzata come 23 tonnellate di CO2 equivalente.
Perciò, una tonnellata di anidride carbonica equivalente è pari ad 1 tonnellata di anidride carbonica, a 23 tonnellate di metano, a 298
tonnellate di protossido di azoto, ecc, secondo una scala basata sul potere riscaldante dei diversi gas serra (GWP: global warming
potentials).
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