Il riscaldamento globale: come contrastarlo?

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Il riscaldamento globale: come contrastarlo?
Una reale presa di coscienza relativa alla salute del pianeta e, in generale, alle tematiche ambientali comincia
a diffondersi nella comunità scientifica, in quella politica
e nell’opinione pubblica verso l’inizio degli anni Settanta
del secolo scorso, anche se alcune voci isolate si erano
già levate in precedenza per segnalare fenomeni legati
soprattutto all’inquinamento.
È del 1972 il rapporto The Limits to Growth (I limiti dello sviluppo), commissionato dal Club di Roma, un’associazione non governativa fondata nel 1968, che riuniva
scienziati, economisti, politici, attivisti per i diritti sociali
e uomini d’affari di tutto il mondo. In questo studio, tre
professori del MIT di Boston utilizzano un modello di simulazione al computer per analizzare l’interazione tra lo
sviluppo umano e la Terra e il conseguente andamento
nei decenni a venire.
Le variabili prese in considerazione sono cinque: popolazione mondiale, produzione di cibo, industrializzazione, inquinamento, uso delle risorse del pianeta.
Le conclusioni, scioccanti, prevedono il collasso economico e sociale della Terra entro il XXI secolo per esplosione della popolazione umana, esaurimento delle risorse e danni dovuti all’inquinamento, a meno che la
crescita della popolazione e lo sviluppo economico non
subiscano un drastico rallentamento.
La pubblicazione del rapporto (che ha avuto varie edi1
zioni, nell’ultima delle quali (del 2004) si propone una
sorta di consuntivo a 30 anni di distanza dalla prima edizione) è accompagnata da polemiche sia sulla metodologia adottata, sia sui risultati ottenuti, che non si sono
ancora esaurite. The Limits to Growth segna in ogni caso
l’ingresso dello stato di salute del pianeta tra i temi caldi
del dibattito mondiale.
CHE COSA STA SUCCEDENDO AL CLIMA?
Nel 1979 si è tenuta a Ginevra la prima Conferenza
mondiale sul clima. In questa occasione la comunità
scientifica ha denunciato che i cambiamenti climatici in atto possono avere conseguenze a lungo termine
sull’ambiente e sull’uomo.
C’è però ancora una grande resistenza ad accogliere l’ipotesi di una relazione diretta tra attività umana e mutamento
climatico.
Dopo quasi 10 anni, nel 1988, viene istituito l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Comitato intergovernativo per il cambiamento climatico, IPCC), un gruppo di
esperti provenienti da vari Paesi (oggi 130) che ha il compito di valutare:
• lo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche e socioeconomiche sulle cause del cambiamento climatico globale;
• l’impatto che esso può avere sugli ecosistemi e
sull’uomo;
• le strategie possibili per evitare
o mitigare il cambiamento e le sue
conseguenze.
L’IPCC non conduce ricerche originali, né si occupa direttamente della raccolta di dati; la sua principale
attività è la pubblicazione di rapporti periodici basati sulla letteratura scientifica disponibile.
A partire dal 1990 ha pubblicato quattro rapporti, l’ultimo dei
quali nel 2007. Secondo i rapporti
dell’IPCC, che riassumono l’opinione della comunità scientifica sul
cambiamento climatico, il riscaldamento globale registrato a partire
dagli anni Settanta non può più
essere spiegato soltanto attraverso
le oscillazioni climatiche naturali
e buona parte di esso è dovuta ad
attività umane. In base agli scenari formulati dall’IPCC nel suo rapporto più recente, entro il 2100 le
temperature medie potrebbero
Fig. 1.
Secondo i rapporti IPCC l’immissione di acqua dolce nell’oceano Atlantico settentrionale, derivata dallo scioglimento della calotta antartica, potrebbe interferire con i meccanismi di trasporto di calore dall'Equatore alle alte latitudini e, di conseguenza, con l’intera circolazione
oceanica. Dobbiamo aspettarci un’intensificazione dei fenomeni estremi: nella fascia tropicale e subtropicale cicloni e uragani; nell’area del
Mediterraneo ondate di calore, come quella, dell’estate del 2003 (nella figura l’aumento delle temperature medie dell’estate 2003).
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presentare un aumento compreso tra 1,8 e 4 °C, causando vistosi mutamenti del clima. Principale imputata, l’impennata della concentrazione di gas serra nell’atmosfera
dovuta all’impiego di combustibili fossili, ma anche alla
maggior produzione di metano, all’aumento del vapore
acqueo e di altri prodotti di sintesi, come i clorofluorocarburi e altri gas serra. Ogni anno vengono liberate nell’atmosfera circa 25 miliardi di tonnellate di Co2, meno della
metà delle quali sono riassorbite dal pianeta attraverso la
fotosintesi clorofilliana delle piante. Questa alterazione del
ciclo del carbonio è problematica per la sua entità e per la
sua velocità (fig. 1).
STRATEGIE PER IL FUTURO
Nel 1992, nel corso del Vertice della Terra di Rio, viene presentata la Convenzione quadro delle nazioni unite sui
cambiamenti climatici (Convenzione sul clima), entrata
in vigore il 21 marzo 1994 dopo essere stata ratificata da
50 Paesi, che oggi sono diventati 194.
L’obiettivo della Convenzione è stabilizzare le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a un livello tale da escludere ogni interferenza delle attività umane sul sistema
climatico. La Convenzione sancisce la responsabilità
comune degli Stati nella gestione dei problemi legati ai
cambiamenti climatici e sottolinea la particolare responsabilità dei Paesi industrializzati che emettono quantità
di gas serra al di sopra della media, pur disponendo delle competenze e delle risorse finanziarie necessarie per
adottare misure adeguate a ridurle.
Sanciti questi importanti principi, si rende però necessario adottare misure concrete, operative e vincolanti per
la riduzione delle emissioni di gas serra a livello internazionale. È questo l’obiettivo del protocollo di Kyoto firmato nel 1997 durante il vertice di Kyoto. Con questo ulteriore accordo internazionale i Paesi industrializzati si
impegnano, entro il 2012, a ridurre mediamente almeno
del 5,2% le loro emissioni di gas serra (per la precisione
CO2, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoro di zolfo), rispetto alle emissioni
registrate nel 1990. Per i Paesi dell’Unione Europea, la
riduzione dovrà essere complessivamente dell’8%; per
l’Italia “solo” del 6,5%. L’accordo prevede anche la possibilità di vendere o acquistare quote di emissione di
gas serra; per esempio, un Paese che supera la quota di
emissioni che gli sono concesse può acquistare quote di
emissione da un altro Paese che, invece, resta al di sotto
della quota stabilita.
Il Protocollo di Kyoto entrò in vigore nel 2005, dopo
la ratifica di più di 55 Stati, responsabili del 55% delle
emissioni di CO2. Alla fine del 2005 i Paesi che hanno
aderito a questo trattato sono 157.
Ridurre le emissioni da parte dei Paesi industrializzati
implica un nuovo orientamento dell’approvvigionamento energetico che limiti l’uso dei combustibili fossili per
far spazio a fonti di energia pulita. Questa riconversione
energetica ha costi elevatissimi, che sono alla base delle resistenze incontrate dal Protocollo di Kyoto a livello
economico e politico e delle assenze tra i Paesi aderenti a
esso, la più clamorosa delle quali è quella degli Stati Uniti, responsabili del 36% circa del totale delle emissioni
di gas serra.
DOPO KYOTO
Nonostante l’impegno preso a Kyoto, i risultati raggiunti
sono assai inferiori alle aspettative: gran parte dei Paesi
che hanno sottoscritto il Protocollo non è riuscita a mantenere le proprie emissioni di gas serra al di sotto dei
limiti stabiliti; anzi, in molti casi (per esempio quello
dell’Italia) le emissioni sono aumentate.
Nel 2011, i 194 Paesi membri della Convenzione quadro
delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, riuniti a
Durban, nella Repubblica Sudafricana, hanno deciso il
prolungamento del Protocollo di Kyoto con un secondo
periodo dal 2013 al 2020. Si sono inoltre accordati per
l’elaborazione, entro il 2015, di un trattato (che dovrà
entrare in vigore al più tardi nel 2020) vincolante per
tutti i Paesi membri che dovranno impegnarsi ad adottare delle misure di riduzione in funzione delle loro emissioni effettive di gas serra (fig. 2).
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Fig. 2.
Una manifestazione in occasione della conferenza sul clima di Durban (Sudafrica), nel
2011.
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