il Ducato La seguente pubblicazione è il lavoro individuale di fine corso di Matteo Marini ed è un allegato del Ducato, periodico dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino. I materiali possono essere riprodotti in tutto o in parte previa esplicita citazione della fonte ma non possono essere utilizzati a scopo commerciale. I testi e le foto (salvo altre indicazioni) sono di Matteo Marini di Matteo Marini “Salviamo il mostro. Perché sappiate che questo nostro esperimento antimercato rischia di chiudere. Noi ce la mettiamo tutta ma la risposta spetta a voi lettori de il manifesto e ai non lettori che tuttavia pensano che questo giornale sia un utile personaggio nella commedia, o tragedia, che stiamo vivendo”. Francesco Paternò redattore del manifesto , 24 giugno 2006 il Ducato I conti sono ogni mese più difficili e i tagli sempre a carico dei lavoratori Un meccanismo al collasso Stipendi pagati con mesi di ritardo, mancano i fondi per gli investimenti utilizzati per ripianare il debito Negli anni ‘90 era facile ottenere prestiti. Poi l’esposizione con le banche ha raggiunto il doppio del fatturato. L’amministratore: “I conti migliorano ma con forti tagli alla spesa corrente”. In soccorso la Banca della Solidarietà L e gocce di sudore macchiano la scrivania e i tasti del Pc. La fronte imperlata tradisce una certa difficoltà. Caldo, afa, umidità e smog nel centro di una torrida Roma in pieno luglio, dentro la redazione del manifesto in via Tomacelli. Le finestre sono spalancate in faccia alle bocche di scarico degli autobus e delle automobili che circolano in zona piazza Augusto, nel tentativo non riuscito di sacrificare la quiete per un po’ di brezza. Al caldo si aggiunge quindi il frastuono dei motori perché i filtri dell’aria condizionata sono sporchi e il rischio, ad accenderla, è di beccarsi tutti quanti la legionella. I redattori, chini sui Pc, vengono distratti dal gracchiare dell’altoparlante:”In segreteria c’è la busta paga con gli stipendi di aprile e maggio”. Un piccolo episodio che dà l’idea di una realtà economica e lavorativa che di giorno in giorno si fa più complessa. Vendite in picchiata e debito. Il numero di copie vendute del “quotidiano comunista” è calato in maniera sensibile. Dal 2001 il crollo non ha quasi avuto soste: oltre il 28%, passando da 32.400 copie giornaliere vendute nel 2001 (ma nel 1996 erano 36.000) a 23.500 nel 2007 secondo gli ultimi dati disponibili da Ads (Accertamento diffusione stampa). I dati sulle vendite sono solo alcuni dei numeri che descrivono il disastro. Gli altri bisogna chiederli a chi amministra una macchina quasi sempre in panne, che s’ingolfa e borbotta ogni anno ma che ogni anno continua a tirare avanti senza esalare l’ultimo sbuffo: “Fino a pochi anni fa era relativamente facile farsi prestare dei soldi dalle banche – spiega Guglielmo Di Zenzo, direttore amministrativo dimissionario del giornale – il facile accesso al credito ci ha consentito di andare avanti, ma con l’andare del tempo abbiamo accumulato un debito gigantesco che è arrivato anche al doppio del fatturato in un anno. Solo gli interessi erano pari al 10% dei ricavi”. La cooperativa ha avviato, di concerto con le banche, un piano di stabilizzazione e riduzione del debito, che ora ammonta a circa 16-17 milioni di euro, mentre gli interessi portano via il 5% dei ricavi di ogni anno. Cifre alle quali è difficile far fronte con gli incassi delle vendite del quotidiano, più le altre iniziative editoriali, come manifesto libri e cd. Il giornale costa 18 milioni di euro, tanto quanto il ricavo delle vendite e della pubblicità. E proprio la pubblicità costituisce uno degli anelli deboli della catena. Gli introiti che derivano dagli inserzionisti costituiscono infatti appena il 10 per cento del totale (circa 1,9 milioni di euro), una risorsa assai più limitata rispetto alla media della stampa italiana, che si aggira attorno al 45 per cento. “Ti posso dire che il debito in sé, di tipo oneroso, nei confronti del sistema bancario è andato negli ultimi anni sempre diminuendo. Patrimonialmente la situazione va migliorando, economicamente siamo in grande difficoltà perché diminuzione di copie significa diminuzione di fatturato. Finanziariamente siamo invece molto molto in difficoltà perché c’è il problema di ridurre l’indebitamento pregresso, il che significa utilizzare le risorse correnti e quindi viene a mancare quello che ti serve se non sei nella condizione di generare utili”. Compresi gli stipendi dei soci? “Considera che ad aprile abbiamo pagato gli stipendi di gennaio e febbraio”. “Siamo una cooperativa a mutualità prevalente quasi il 100% dei lavoratori è socio” 2 Aiuti di Stato. Unica nota relativamente positiva sono i contributi all’editoria. Ogni anno arrivano all’ex testata di via Tomacelli (oggi via Bargoni) 4 milioni e mezzo di euro, uno degli importi più alti, soprattutto se rapportato alle vendite del giornale. “Il manifesto è una cooperativa a mutualità prevalente, cioè vi lavorano i soci per oltre il 50 per cento del totale. Devo dire che però siamo molto più vicini al 100 per cento”. Il manifesto usufruisce di un sostanzioso aiuto da parte dello Stato che incide per il 25 per cento sul totale. I soci del manifesto, che sono i giornalisti, i poligrafici e il personale amministrativo, ri- cevono tutti lo stesso stipendio base: 1200 euro al mese per il direttore come per il semplice redattore. La differenza la fanno gli scatti di anzianità e le indennità di caposervizio, direttore e caporedattore. L’aiuto dello Stato però non basta. I conti a fine anno sono comunque in rosso, i costi sono portati alle stelle da una macchina non oliata. Il giornale deve chiudere presto la sera (le 22 è il termine ultimo) per non avere difficoltà a raggiungere le edicole di tutta Italia il giorno dopo. Sui tutti i muri della vecchia redazione era stato applicato un cartello che ammoniva:”Ricordiamoci che è importantissimo ora più che mai, chiudere il giornale entro le 22. I costi dei ritardi, in perdite di copie, sono impressionanti e nella situazione attuale non possiamo proprio permetterceli!!!”. Poche righe che valgono più di mille parole. La scelta di essere un giornale nazionale ha dei co- sti molto alti: il numero delle copie stampate è oltre tre volte superiore a quello delle copie vendute. Nella gerenza ogni giorno compare la cifra che indica la tiratura e che non va mai sotto le 85.000 copie. Questo comporta una spesa elevata per la carta e la stampa. I primi a rimetterci sono i lavoratori che spesso sono costretti ad aspettare mesi prima di ricevere lo stipendio e da due anni vanno a turno in cassa integrazione garantita dallo stato di crisi. A giugno I soldi infatti devono essere prima utilizzati per pagare le banche, i fornitori e la distribuzione. I giornalisti e i compagni di lavoro, di necessità, vengono per ultimi. Lo stipendio lordo di base è 1200 euro per tutti: direttori, redattori e poligrafici La speranza. Un tentativo nuovo si sta compiendo proprio in queste settimane. Il manifesto ha chiesto al manager Sergio Cusani di preparare attraverso la Banca della solidarietà una proposta di DOSSIER 17 mln 4,5 mln 18 mln Debito Il debito del giornale oggi. Il piano di riduzione dell’esposizione con le banche, concordato dal 2001, comporta molti tagli alle spese correnti Dallo Stato L’ammontare dei contributi per l’editoria alla testata. Incide per circa il 20 per cento sui ricavi. La parte più grossa delle entrate viene dalle vendite Costo del giornale Pari ai ricavi di vendite e pubblicità. La tiratura è di 80.000 copie, per arrivare in tutta Italia, appena 23.000 quelle vendute in media ogni giorno 1,9 mln Pubblicità L’incasso dagli sponsor che è pari a circa il 10 per cento dei ricavi di ogni anno. Molto inferione alla media dei giornali italiani, che gravita attorno al 45 per cento Nella foto grande riunione di redazione, in primo piano l’ex vice direttore Pierluigi Sullo (photo by Andrea Cerase) Nelle foto piccole una vignetta di Vauro per la campagna abbonamenti e un monito appeso nella vecchia sede riorganizzazione aziendale. Questo per sfruttare meglio le potenzialità non solo della redazione, ma di tutta la macchina produttiva. Nel contempo ci saranno riflessioni e aggiustamenti dei meccanismi che governano soprattutto la testata, per risparmiare tempo e denaro. Tutto ciò però non si fa senza soldi. Ecco allora che nella “tana del leone” dovrebbero far capolino gli imprenditori. La manifesto spa (cioè la testata) è infatti detenuta per il 78% dalla cooperativa il manifesto. L’obbiettivo sarebbe reperire capitali grazie alla vendita del restante 27,9%. La differenza (più del 50%) permetterebbe alla cooperativa di mantenere il controllo della testata con nuovi capitali da utilizzare per investimenti e riduzione del debito. Il rinnovamento ha portato già a un nuovo riassetto: “Sono stati eletti un nuovo direttore generale e un nuovo consiglio di amministrazione – spiega ancora Di Zenzo – novità quindi ce ne sono, ma ancora non si conoscono bene le strategie. Io stesso ti parlo quasi come un semplice spettatore perché sono dimissionario dal mio ruolo in amministrazione, quindi non ho parte attiva in questo processo”. IL PERSONAGGIO Sergio Cusani Laureato all’università Bocconi di Milano, Sergio Cusani è stato consulente finanziario della società Enimont di Raul Gardini. Durante la sagione di Mani pulite è stato accusato dal Pm Antonio Di Pietro di aver reperito i fondi per una maxi tangente di finanziamento ai partiti. Condannato, ha scontato quattro anni di carcere. Dal 2001 è impegnato in progetti di recupero detenuti, finanza etica e consulenze ai lavoratori e sindacati. Ha partecipato alla fondazione della Banca della solidarietà. Nel febbraio del 2008 ha presentato, all’assemblea dei soci del manifesto, una proposta di riorganizzazione aziendale e diverse idee per innovare il lavoro della redazione, in concerto con altri media come il sito internet o un’agenzia stampa della sinistra. La storia Fuori dal Pci 37 anni di lotte e di crisi I l 23 giugno 1969 nasce il manifesto rivista, fondato da Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato, Luciana Castellina e Ninetta Zandegiacomi, dirigenti della sinistra del Pci in contrasto con la linea predominante del partito. Alla nascita della rivista Berlinguer aveva sconsigliato di procedere con la pubblicazione. Subito dopo l’uscita del secondo numero con l’editoriale dal titolo “Praga è sola”, in riferimento all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, Rossanda, Pintor e Natoli sono radiati dal partito. Il primo numero della rivista il manifesto vende 75.000 copie. Nel febbraio del 1971 il manifesto diventa “il primo quotidiano libero a autogestito” in Italia. È autofinanziato grazie ad una sottoscrizione di 50 milioni di lire, il costo di copertina è 50 lire e ha quattro pagine, la redazione è al quinto piano di via Tomacelli a Roma. La tiratura del primo numero è di 100.000 copie, la vendita media del primo anno è di 40.000. Nel maggio del 1972 il manifesto si presenta alle elezioni con capolista PietroValpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, ma è un fiasco. Cala la vendita di copie e il prezzo sale a 90 lire. Nel 1973 viene dichiarata la prima crisi politico-finanziaria. Nel 1974 il gruppo del manifesto si unisce a quello del partito di Unità proletaria di Foa e accetta di sostituire la testatina “quotidiano comunista” con “unità proletaria per il comunismo”. Alle elezioni conquista sei deputati in coalizione con Lotta continua e Avanguardia operaia. Nel 1977 le divergenze sull’interpretazione della realtà politica e sociale portano il giornale a dichiararsi indipendente e a riprendere la scritta “quotidiano comunista”. Nel 1982 le copie vendute scendono a 18.000. Nel 1983, però, il grande successo del giornale del 7 aprile a 10.000 lire vale come incitamento a tenere duro. Il manifestopassa nel 1977 da quattro a sei pagine. Si susseguono più crisi finanziarie, nel 1997 la via obbligata è quella della ristrutturazione e della vendita di un numero a prezzo maggiorato: 50.000 lire. Nel 1994 il giornale dal un formato più grande diventa tabloid, in questi anni proprio la prima magina del manifesto si contraddistingue per l’irriverenza e la spregiudicatezza. Il caso che ha destato più scalpore è stato quello del titolo “Il pastore tedesco” in riferimento all’elezione di papa Benedetto XVI. Nel 2001 viene avviato, in concerto con le banche, il piano di riduzione del debito. Nel 2004 e nel 2006 altri due restyling che gli hanno dato la forma che ha ora. Il 4 febbraio 2005 l’organizzazione della Jihad islamica in Iraq rapisce la giornalista del manifesto Giuliana Sgrena. Il fatto desta grande attenzione. Durante le operazioni di liberazione il militare statunitense Mario Lozano spara e uccide l’agente del Sismi Nicola Calipari. A giugno 2008 forse uscirà il nuovo progetto grafico che comprende anche l’uso del colore. L’ultima crisi è quella del 2006. Il giornale si salva grazie alle sottoscrizioni dei lettori e alla cassa integrazione a turno dei soci lavoratori. 3 il Ducato Mariuccia Ciotta racconta la sua “rivoluzione” “Manifesto nuovo fuori dalla trincea” “Una linea meno elitaria per comunicare, anche con il colore” Direttrice assieme a Gabriele Polo, spiega il progetto per un giornale che parli alla gente e non solo ai politici I n che prospettive vedi il tuo quotidiano, soprattutto alla luce del risultato delle elezioni? La situazione politica ci permette di rilanciare il manifesto, che potrebbe essere schiacciato da una scomparsa della sinistra dal parlamento e da un’ondata di destra molto forte. Penso che sia una grande opportunità per il giornale il non richiudersi su noi stessi, e pensare di fare l’ultima trincea contro la destra montante. Al contrario pensare di cambiare linguaggio, essere più comunicativi con i lettori che si sentono orfani della sinistra e di strumenti di comunicazione. È arrivato il momento per noi di uscire dalla concezione un po’ elitaria del giornale che si rivolgeva ancora allo zoccolo duro dell’inizio, un pubblico decisamente ristretto. Dovremo aprirci molto alle questioni e ai temi che hanno portato alla sconfitta della sinistra alle elezioni. L’incomprensione della società che cambia e anche il vuoto culturale enorme che si è prodotto, a partire dalla televisione. Non c’è più una percezione del mondo nel suo insieme, invece dobbiamo andare a vedere cosa succede nella società. Nel restyling del giornale che uscirà tra poco la prima pagina, forse l’elemento che più incuriosisce anche chi non è un lettore abituale, resterà, vero? Si sì certo, anzi rispetto a com’è ora verrà parecchio valorizzata. proposte di Cusani? Un progetto deve avere un motore economico. Sai, se riduciamo la foliazione, riduciamo i redattori e facciamo un giornale di resistenza, a quel punto gli equilibri economici sono presto raggiunti. Io a questo non credo perché credo che le vendite scenderebbero. Se tu vuoi risalire devi osare e rischiare. Quindi questo nuovo giornale a colori, con un settimanale che dovrebbe uscire la domenica, con un sito dovrebbe rilanciarsi con le vendite. Perché la nostra maggiore entrata sono le vendite, non la pubblicità come nella maggior parte dei giornali. Il lavoro di Cusani è molto importante perché noi fino ad ora abbiamo avuto una gestione del giornale molto familiare, artigianale, che è stata anche molto preziosa perché ci ha permesso di sopravvivere. Io sono qui dall’inizio, noi non prendevamo lo stipendio e il nostro amministratore ci dava ogni tanto cinque mila lire per mangiare i panini. Ci siamo divertiti perché permetteva di essere liberi, di materializzare i propri sogni di interventi e scritture. Ma è stata anche dura. Questo modo di pensare alla militanza politica e al volontariato non può andare avanti. Ci sono persone che devono mantenere una famiglia, hanno figli eccetera. Andare avanti a vela, cioè se ci sono gli stipendi bene altrimenti non importa, non è più possibile. Questo nuovo progetto va accompagnato da una ristrutturazione aziendale vera, cioè risparmi sui costi, vendite, pubblicità, promozione e rilanci, quello che fa un’azienda che vende un prodotto. Dobbiamo vederla proprio in quest’ottica, come un prodotto editoriale. Il rinnovamento come si incontra con le esigenze economiche, e quindi le In questo la testatina “quotidiano comunista”, ancora presente sulla prima Quindi un giornale meno “di nicchia”. Si vedrà già con la nuova impostazione grafica. Sì, infatti la scelta che abbiamo intrapreso è stata quella di avere una copertina a colori, che per noi è una novità. Il fatto di avere una copertina in bianco e nero voleva dire distinguerci, non era solo una questione economica. Allora, distinguersi va bene però bisogna riuscire a comunicare. Bisogna usare il colore in modo diverso dagli altri giornali. Gli altri lo usano in modo realistico, naturalistico, imbellettano le pagine. Noi lo vogliamo usare per comunicare ai nostri lettori e dare un’informazione più calda. Il giornale nuovo avrà meno politica di palazzo e più indagini e inchieste. Questa è la strada, non quella di barricarsi dentro un giornale tutto politico, di resistenza e con poche pagine come era agli inizi. Questo è un progetto già in atto. È già in atto da almeno un anno, ma abbiamo cominciato a pensarlo fin da quando siamo diventati direttori, quattro anni fa. Abbiamo incontrato molte difficoltà, perché la direzione mia e di Gabriele è la prima che non coincide con quella dei fondatori. Ci siamo trovati da soli, con l’eccezione di Valentino. Dovremo per esempio attivare un sito che interloquisca con il giornale, che fino adesso non c’è stato. La perdita di copie si dice che sia una conseguenza della crisi della politica. Ma ci investe anche la crisi della carta stampata, che coinvolge noi come il Los Angeles Times, Liberation o Le Monde. Perché il quotidiano che continuava a pensarsi come 4 quello che dava le notizie o che parla solo a una stretta fascia di persone che si occupano di politica è finito. Non esiste più, bisogna reinventarsi. Giornali grossi come Repubblica e Corriere vivono perché hanno un indotto enorme, soprattutto grazie alla pubblicità. Noi abbiamo una testatina con scritto “quotidiano comunista”, figurati quanta pubblicità possiamo avere. Quindi la nostra scommessa è quella di una fascia ristretta di lettorato, ma che comunque arriva ad essere un bacino di 100.000 lettori come dopo le elezioni politiche. Che però sono molto discontinui, perché siamo difficili da leggere e spesso ripetiamo concetti o punti di vista che il nostro lettore si aspetta. Tutti vogliono che il manifesto continui a vivere, ma non lo vogliono leggere tutti i giorni perché pensano che sia una specie di dovere. Vorrei che il dovere diventasse piacere. Vorrei che i lettori scoprissero nel nostro giornale cose che gli altri non raccontano o che noi raccontiamo diversamente, una lettura originale. DOSSIER Nella foto grande i direttori Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo (foto di Tania Agenzia A3/Contrasto) Nell’altra pagina Mariuccia Ciotta assieme a Marina Forti al desk. Qui in basso, redazione al lavoro nella nuova sede pagina, può essere un elemento di difficoltà? Guarda noi discutiamo, un giorno sì e un giorno no della possibilità di togliere la testatina “quotidiano comunista”, da almeno 20 anni. Ma l’idea di toglierla diventerebbe agli occhi di tutti come un’ammissione:“il manifesto si è pentito” e questo sarebbe falso oltre che uno sfacelo dal punto di vista politico ed editoriale. Io la toglierei, ma più che toglierla le darei un significato diverso di quello che ha, attraverso un intervento grafico che comunichi qualche altra cosa. Ho paura che questa parola comunista significhi resistenza contro il tempo che cambia, come Diliberto che vuole rimettere la falce e il martello. Questo implica una ricerca di quello che significa oggi essere comunisti senza più riferirsi a categorie del passato. Ma toglierla adesso senza fare questo processo di analisi sarebbe sbagliato. Come ha accolto l’assemblea dei soci il progetto presentato da Cusani? C’è stata una votazione che è andata molto bene, i sì erano in grande maggioranza. A livello di nuove proposte, anche originali come l’agenzia stampa di sinistra? Sì, l’Ansa di sinistra, questa era un’idea di Cusani che secondo me è molto carina, ma è rinviata all’analisi del sito, perché è lì che dovrà andare. Dobbiamo inventare un sito che sia utile al giornale e che non sia come il Corriere o Repubblica, una replica del cartaceo. Dovrebbe intrecciarsi col lavoro del giornale e completare quello che non c’è. Il manifesto quotidiano nel nostro pensiero non deve avere allegati, ma progetti integrati, come appunto il sito e il setti- manale della domenica. In più una fonte che venga dal territorio, dalla nostra rete di lettori, corrispondenti non professionisti. Fare una selezione a livello mondiale, io non lo farei solo italiano, dei corrispondenti che possano dare le informazioni fresche di prima mano da tutte le parti del mondo sarebbe fantastico. Cusani, riguardo a questa proposta faceva l’esempio della Thyssenkrupp. Con i suoi contatti il manifesto avrebbe potuto dare in tempo molto rapido la notizia e fornire aggiornamenti. Sì però Cusani parlava più che altro di essere i primi. Mi preoccupa invece dare notizie che gli altri non danno, avere punti di vista, interpretazioni e ricostruzioni del fatto che non siano fatti dalle altre agenzie stampa, dagli altri giornali oppure dal t e l e v i d e o. In conclusione, il manifesto rimarrà sempre un secondo giornale? Gli analisti dell’editoria sono d’accordo nel dire che non esiste più un “primo giornale”. Paradossalmente anche il Corriere e Repubblica sono diventati “secondi giornali” o “primi” se vuoi. Devono ripensare la loro natura che non è più quella di informare ma di interpretare, dare alla notizia il senso. Sulla cronaca è vero che siamo molto carenti. Ma è un problema che vorremo affrontare. Faccio l’esempio dei due bambini di Gravina di Puglia ritrovati in fondo a un pozzo. Noi abbiamo scritto in maniera alternata di questo fatto mentre i giornali riempivano pagine su pagine. Quando sono stati ritrovati ho scritto un editoriale dicendo che la grande macchina mediatica aveva addir ittura fuor viato le indagini. Bisognerebbe ritornare ad avere una chiave di interpretazione delle cose. Insisto sul fatto che non si tratta di eliminare un certo genere di notizie. Il numero della domenica che sto immaginando si occuperà di scienze, di ambiente, di nuove tecnologie e di alimentazione. Sono cose su cui benissimo possiamo occuparci. Nessuno ricorda più che il famoso Gambero rosso era nato come inserto del manifesto che trattava di cucina. Ora è un colosso. Si dice che la sinistra abbia più una vocazione di opposizione che di governo. Il manifesto ha sempre fatto opposizione all’interno della sinistra. Questo quindi sarà un trampolino di lancio e non un motivo di abbattimento. Parliamoci chiaro, mi dispiace tantissimo che la sinistra sia fuori dal Parlamento, ma la mia generazione, che è quella che viene dall’esperienza del ’68, e dall’incontro con la parte migliore del comunismo ha prodotto il metodo della ricerca continua: il non assestarsi su delle certezze: continuare a rinnovarsi per essere se stessi e non rimanere attaccati a delle radici. Questa è la grande differenza con la sinistra. Su questo scommettiamo e pensiamo di essere utili perché vorremmo non essere solo testimonianza ma lavorare con gente giovane come te e dire:” Cosa ci accomuna? Perché dobbiamo divertirci insieme a fare le cose?”. Perché ci interessano i cambiamenti. Adesso. 5 il Ducato La nuova sede del giornale è fuori dal centro storico, lontano da via Tomacelli, Fermata Ippolito Nievo, I l tram numero otto ferma a pochi passi dalla redazione, nel quartiere Trastevere ai piedi del colle Gianicolo, proprio alle spalle delle vie che la domenica traboccano di gente e di bancarelle, per il mercato di porta Portese. Dall’incrocio della fermata dell’otto parte anche via Ippolito Nievo, dove ha sede l’Unità. Il primo giornale comunista. L’attuale sede del manifesto occupa un paio di piani di un colosso costruito forse negli anni sessanta. La lunga infilata di terrazze corre ininterrotta per oltre cento metri. Quelle del giornale sono comprese tra il un Caf Acli e altri anonimi uffici. Il manifesto non è più il quotidiano di via Tomacelli. Ora ha sede in via Bargoni, una novità tra tante, che segna il percorso come una pietra miliare, dettata da esigenze economiche: l’affitto al centro di Roma era diventato troppo caro. Nei primi di gennaio 2007 la redazione era ancora nel pieno centro di Roma, in un palazzo in stile fascista liscio e severo, di marmo e mattoni, affogato nel caos velato di grigio del centro di Roma. Il terzo e il quinto piano erano la sede della redazione e dei poligrafici. In origine solo quelle del quinto. Poi lo spazio è diventato insufficiente. I lunghi corridoi erano rivestiti di un parquet consumato. Dall’uso, dallo spostamento delle sedie e dei tavoli. Grossi pezzi e listelli di legno erano spesso divelti dalla loro sede lasciando buchi difficili da non notare. Nella stanza più grande, al centro del corridoio che percorre tutto il piano e sul quale si affacciano le stanze delle diverse sezioni, c’era il desk del caporedattore e le riunioni di redazione ogni giorno, verso l’una. Sulla superficie del pavimento, resa ruvida da 30 anni di mancata manutenzione (o sarebbe meglio dire sostituzione), spiccavano come nei da contorni indistinti le bruciature delle sigarette. Decine, forse centinaia di cicche schiacciate sotto il tacco durante lunghe discussioni per decidere la linea del giornale, inventare il titolo di prima o attendere il risultato di una tornata elettorale. Firma inconfondibile dell’antico vizio di Valentino Parlato e delle sue Marlboro rosse. Vizio condiviso con buona parte dei redattori. La legge sul fumo nei luogo di lavoro qui dentro era rimasta lettera morta, appesa per dovere d’ufficio alla parete senza troppa convinzione, quasi derisa. Sul tratto di corridoio di fronte stava la stanza di Rossana Rossanda, co-fondatrice assieme a Valentino Parlato e Luigi Pintor tra gli altri, del giornale. Il suo cognome scritto su un cartello grigio, in caratteri ormai quasi indistinguibili a causa dell’età e della polvere. Quell’ufficio negli ultimi tempi è rimasto vuoto, Rossana ora scrive i suoi corsivi da Parigi. Proprio a fianco c’era l’ufficio di Mariuccia Ciotta, la direttrice, poco distante quello di Gabriele Polo e di Valentino. Toccare la redazione di via Tomacelli era una questione epidermica, più che altro. Strati e strati di polvere rivestivano la superficie delle centinaia di libri ammassati, accatastati, impilati sulle scrivanie e sulle mensole, mano a mano che procedeva il lavoro e passavano i giorni, sempre più curvate dal peso, sul punto di cedere. Un caos senza nevrosi, legittimato dalla storia del giornale e di chi ancora vi batteva i tasti. L’odore era quello acre delle pareti gialle e ingiallite, impregnate da decenni di fumo. L’odore della car- 6 ta e dell’inchiostro, l’odore dei quotidiani. Centinaia e centinaia di “copia omaggio” ritualmente seminate ogni mattina in tutte le stanze e ogni notte “rapite” dalle scrivanie per essere sostituite all’alba delle 10 il mattino successivo. Guardare era soprattutto leggere. Un manifesto dei Sem terra, i contadini senza terra del Brasile, una foto della prima pagina nel gennaio del 1991 allo scoppio della prima guerra in Iraq, “Massacro” era il titolo, accanto ad altre prime pagine dagli anni ’70. Erano alcuni dei quadri appesi alle pareti di un colore senape un po’ triste, solcato da piccoli graffiti, scritte a pennarello o pedate ben definite di chi si era appoggiato al muro di schiena con una gamba piegata sotto di sé. Un DOSSIER dove era nato nel 1971. Tutto nuovo, stanze luminose e niente traffico si riparte da Trastevere Nella foto grande Luigi Pintor, fondatore del giornale, nella vecchia sede con tutta la redazione (foto Riccardo De Luca), nell’altra pagina il palazzo di via Tomacelli e, nell’angolo, l’ex direttore Riccardo Barenghi in redazione durante la notte elettorale dell’aprile 2001 (copy Andrea Sabbadini) In questa pagina un’istantanea della sala del desk, più in basso la sezione economica del giornale e, nell’angolo, il corridoio d’entrata della redazione aria da opera di manifattura che ancora, in parte molto ridotta, si può respirare a via Bargoni ma senza quella carica quasi ingombrante di storia da raccontare. La nuova sede ha l’odore del nuovo. Le vetrate che si aprono sulle terrazze non hanno confronto, in quanto a superficie, con le vecchie finestre dagli infissi in legno deformato dall’umidità di via Tomacelli. Le pareti bianche appena ridipinte e il parquet bianco, risistemato prima dell’insediamento della redazione nella sua nuova sede, illuminano gli ambienti di luce fresca. Ora aprire le finestre non è più un tabù, ma un piacere. La via secondaria non deve quasi sopportare traffico, gli unici rumori arrivano dalla scuola elementare di fronte. Durante la ricrea- zione e la pausa pranzo. Scaffali e archivi quasi non si notano. Il loro volume si è ridotto. Tutte le carte non indispensabili sono state mandate al macero. Gli schermi piatti dei computer sono sistemati sulle scrivanie, ora più ampie e ben disposte ad accogliere tutto. Una redazione meno fotogenica ma più funzionale. Anche la connessione internet viaggia più veloce sui nuovi computer. Quello che manca, a voler essere romantici, è l’aria da redazione giornalistica “vecchio stile” che la sede originaria aveva guadagnato col tempo. E col tempo anche questo nuovo laboratorio acquisterà una sua identità, che ora aleggia un po’ sfuggente tra le pareti quasi diafane nel cuore di Trastevere. 7 il Ducato Tanti lettori scrivono alla redazione ogni giorno per chiedere un giornale diverso “Ti compro ma non mi piaci” Le critiche alla linea del giornale, all’impostazione grafica o alla mancanza di attenzione a certi temi sociali Più spazio al web e alle inchieste “Comunista sì, comunista no” un’etichetta spesso discussa L a pagina delle lettere è l’orecchio teso da un giornale ai suoi lettori e ne ripropone l’essenza per comunicare se non il fatto, quanto meno l’intenzione di un autocritica o la continua messa in discussione del proprio lavoro. Nel manifesto il dialogo con i lettori è più intenso rispetto agli altri giornali. Con quei lettori che hanno comprato abbonamenti, firmato (e pagato) sottoscrizioni, continuato a sostenere il giornale, in pratica a salvarlo dalla chiusura, in tutti i suoi momenti di crisi. Ma sono lettori esigenti, spesso piccati per certe scelte del giornale, critici nei confronti della linea editoriale o della valorizzazione di alcune notizie. “Abbonatevi, ma aspettiamo le vostre lettere con critiche e suggerimenti” scriveva Valentino Parlato in un appello a sostenere il giornale. Le critiche e i suggerimenti non si sono fatti attendere. Questo forse perché si sentono in diritto e in dovere di criticare una macchina che in qualche modo sentono propria. “Ti leggo da 20 anni, ti sostengo in tutti i modi, ma sono anche stufo. Innanzitutto di leggere queste lamentele, perché ci sarà pure crisi di vendita,ma i conti bisogna saperli fare […] e con te i conti non tornano mai. Possibile?”. Alle critiche sulla situazione economica si aggiungono quelle sui contenuti del quotidiano. “La pagina della cultura è sempre più autoreferenziale e terribilmente snob.Il mio manifesto […] dovrebbe fare inchieste sul territorio” Lorenzo. “Cari compagni, rinnovo il mio abbonamento sostenitore, ma condivido con molti altri lettori l’idea che il giornale deve cambiare: non solo per me, ma per i futuri lettori attratti da un giornale nuovo capace di essere più leggibile e meno categorico” Lidia. “Caro Valentino Parlato almeno tre volte a settimana acquisto il manifesto e devo confessare che a me questo giornale non piace né come contenuti né come impostazione grafica. Lo trovo lugubre, privo di stimoli culturali, lontano dai problemi reali della gente e poco interessante”. Nunzio, Torino. Molti i consigli per guidare il giornale verso un cambiamento obbligato da esigenze di mercato e che vada incontro proprio alle aspettative dei lettori. “Voi siete sul pezzo, quello che respiro quotidianamente lo vedo descritto e analizzato nelle vostre pagine.Voi avreste gli strumenti per dare risposte agli illusi e speranze ai disillusi. Allora perché avete tutti questi problemi? Forse perché tutti i 8 Alcune pagine con le lettere giunte al manifesto giornali sono in crisi e stanno investendo sempre più su internet. Da qui un mio consiglio […] Smettete di arrivare in tutte le edicole, costa troppo. Concentratevi sul web, migliorate il giornale online” . Anselmo. “Il nostro futuro prossimo sta nella formula web+freepress e siamo già in grande ritardo. Per questa nuova avventura sarei disposto a raddoppiare la mia quota sociale”. Gianni, Barzanò (Lc). La discussione sull’opportunità di mantenere la scritta “quotidiano comunista” non è solo interna al giornale. “Uscite dalla gabbia dell’essere un “quo- tidiano comunista”, togliete questo riferimento (glorioso ma inattuale) di cui non avete bisogno.[…] Date spazio a chi scrive bene e parla di temi di grande attualità sociale. […] Non costringete chi non arriva a fine mese a rinunciare ad una copia del nostro giornale.In attesa io continuo a comprarvi. Giorgio, Bologna. “Vi seguo da quando è nato il giornale[…] Innanzi tutto sono tra coloro che sostengono la necessità che sia mantenuta la dicitura “quotidiano comunista. In secondo luogo Valentino Parlato ha scritto che per modestia non viene pubblicato il dibattito all’interno del giornale e credo che ciò sia un errore perché i lettori hanno diritto di conoscere come si confrontano le vostre posizioni”. Gianna. Accanto alla richiesta di essere un giornale troppo ancorato su posizioni anacronistiche, ci sono le critiche ad una linea secondo alcuni troppo deferenti nei confronti di alcune figure o posizioni politiche. Critiche che si fanno più aspre in campagna elettorale. “Sono rimasto scioccato dall’intervista a Veltroni: è un’investitura ufficiale? È la discesa in campo del manifesto a fianco del Pd? Ma allora perché non lo dite ufficialmente? È da tempo che sul vostro (prima avrei detto il nostro) giornale ci sono solo due candidati […] Speravo che il manifesto non cadesse in questo burrone”. La polemica di alcuni spazi pubblicitari di aziende considerate “poco di sinistra” ha mosso la penna di alcuLanipresenza lettori. La discussione ha trovato spazio nella rubrica di lettere di Valentino Parlato, Scritto e Parlato Come azionista e abbonato dal 1994 non sono assolutamente d’accordo sulla pubblicità di Mediaset sul manifesto di venerdì 16 novembre. Cosa sta succedendo? E per cortesia non tirate fuori la storia della sopravvivenza, per quello che mi riguarda preferisco una sottoscrizione o l’iniziativa dell’album di famiglia che è interessante, divertente e culturalmente utile. Cordiali Saluti. Riccardo Verona Cari compagni del manifesto, abbiamo sempre fatto tutto senza chiedervi nulla. Ora noi, a dir la verità, una cosa ve la vorremmo chiedere: come mai ultimamente l’ultima pagina del giornale è tutta dedicata alla sponsorizzazione di aziende come Tim & co? Il 16 novembre, in particolar modo, siamo rimasti sconcertati dalla presenza, sempre in ultima pagina, di una pubblicità Mediaset… che amarezza! Silvia e Antonio Cari compagni, no… la pubblicità Mediaset sul manifesto del 16 novembre no. Piuttosto pago 5 euro il quotidiano ma la pubblicità di Silvio sul mio giornale non la voglio. Giovanni, Brescia Anche quest’anno vi siete giocati il mio abbonamento. Come si fa a preferire i soldi di Silvio Berlusconi a quelli dei propri lettori? Antonio Cari compagni […] Non vi risponderò con l’argomento (vero) che abbiamo un dannato bisogno di denaro e neppure con quello (ipocrita) che pecunia non olet. Io penso che un quotidiano comunista come il manifesto debba dare spazio alla voce dell’avversario per batterlo e sbugiardarlo. […] Quindi – penso io – facciamolo parlare, persino con la pubblicità sulle pagine del manifesto e quindi tentiamo di far diventare più chiaro e di maggiori prospettive questo scontro[…]. Valentino Parlato DOSSIER Stefano Milani, di Politica e Società L’ultimo arrivato: “In redazione serve più dialogo” Stefano Milani nella redazione del Manifesto S tefano,qual è la strada che ti ha portato al manifesto? Ho frequentato la scuola di giornalismo di Roma, Tor Vergata, dopo essermi laureato alla Sapienza in Lettere moderne. Ho fatto un primo stage al Messaggero poi, siccome volevo provare uno stage differente, ho mandato il curriculum qui. Sono arrivato nella redazione economica, da Galapagos per la prima settimana. Cosa ti attirava del manifesto? Beh naturalmente ci sono motivazioni politiche, ma anche il "mito" del manifesto come scuola di giovani giornalisti è un'idea che dall'esterno ancora c'è. Questo non solo tra i non addetti ai lavori, ma anche i giornalisti continuano a considerarla una fucina, una grossa scuola. Io ho avuto una doppia esperienza come ti dicevo. Al Messaggero c'era grande organizzazione, con computer di ultima generazione, insomma funzionava tutto. Sono arrivato al manifesto con i 486 che si impallavano, le agenzie che c'erano e non c'erano, però alla fine il lavoro era anche più g r a t i f i c a n t e. Quando sei arrivato qui? Due anni fa proprio prima delle elezioni 2006, in piena crisi manifesto e si iniziava a parlare di cassa integrazione. Era l'anno dell'ultima sottoscrizione. Sì, era l'ultima, cominciata all'inizio del 2006, e io sono arrivato a marzo. Ti sei trovato subito bene? Sì benissimo. La sensazione, fin da subito, è sentire il giornale come un po' tuo. Ho fatto due stage di tre mesi, poi, avendo la fortuna di vivere a Roma, ho cominciato a collaborare come esterno scrivendo un po' per tutte le sezioni , anche di sport. Poi mi sono ripresentato l'anno dopo, finita la scuola, e adesso eccomi qui. Qual è la tua percezione della macchina manifesto? Cosa c'è che non va? Secondo me un grosso problema è l'incomunicabilità tra le diverse sezioni, le diverse anime del manifesto. C'è molto poco gioco di squadra. Ci sono sezioni troppo chiuse in se stesse. E questo lo puoi vedere anche da come viene fuori il giornale. Per farti un esempio pratico, alle 10 di sera magari una notizia che è rimbalzata tutto il giorno tra Società ed Economia ti accorgi che non ce l'ha nessuna delle due. Questa secondo me è una cosa incredibile: un giornale di 18 pagine che non riesce a coordinarsi. Il manifesto è un collettivo, ma spesso sfugge un po' di mano. Alcune volte questo può essere un pregio perché ti porta anche ad avere notizie o a dare spazio a fatti che le altre testate non considerano, altre volte però succede che notizie che ci devono essere non ci sono. Quando sono entrato c'era molta più partecipazione e collaborazione. Adesso al cosa mi sembra un po' più arida. Un problema da risolvere per risollevare il giornale. Credo sia anche un fatto di generazione. C'è una spaccatura tra "i vecchi", che hanno fondato e portano avanti il giornale da quasi 40 anni, e chi arriva adesso e vede che non è possibile lavorare come 40 anni fa. I lettori vogliono un altro tipo di giornale e si vede questa dicotomia tra chi è più conservatore e i più giovani. Alcune sezioni sono ancorate in un passato un po' troppo ideologico. Giusta l'ideologia del manifesto, guai. Però i tempi cambiano e se adesso vendiamo a malapena 20.000 copie significa che dovremo fare un giornale un pochino più fresco e più nuovo in questo senso. Proprio sulla vendita di copie. Secondo te qual è stato l'errore o la strategia sbagliata? La linea del giornale secondo me a volte non è molto chiara. Conosco gente che legge il manifesto e mi dice che alcune Viene dalla scuola di Tor Vergata, a Roma “Tante cose non vanno ma sono ottimista, è impossibile che il manifesto non esca” volte trovano un giorno una linea e il giorno dopo una diversa. Faccio l'esempio del caso del rinnovo delle licenze per i tassisti a Roma, che ho seguito personalmente. L'argomento ce lo dividevamo con Economia ma tra le due sezioni avevamo due visioni differenti ma che apparivano entrambe nelle nostre pagine. Questo secondo me in un giornale come il manifesto è un problema, non siamo il Corriere della Sera. Il manifesto deve dare una linea precisa e ferma. Abbiamo lettori molto esigenti sotto questo punto di vista, molto più degli altri. Questo traspare anche dalle lettere che arrivano ogni giorno in redazione dei lettori confusi. Esattamente, questo secondo me è im- portante. Tenere una parte, che non significa giustificare tutto , ma comunque avere una linea che sia quella. Il nostro è un lettore attento, c'è un fenomeno incredibile delle lettere che arrivano anche per una sola virgola fuori posto. In conclusione, qui tutti la vedono nera. Tu come la vedi? Io sono sempre ottimista, non riesco a immaginarmi il manifesto che non esce in edicola, secondo me è impossibile. La storia ultima ha dimostrato che ogni volta che ha paventato di non uscire più si è mobilitato il mondo. Adesso poi con la sinistra fuori dal governo e dal parlamento è una grossa scommessa, può ritornare a esistere sul mercato editoriale e a essere credibile. ALL’ESTERO Giornali dei redattori in crisi il caso Le Monde Un’altra redazione indipendente che rischia grosso, in Europa, è quella di Le Monde, il prestigioso quotidiano francese. La Société des rédacteurs du Monde (Società dei redattori) detiene la maggioranza delle azioni del giornale ma i motivi della crisi sono opposti a quelli che mettono in difficoltà il manifesto. L’ex direttore Jean Marie Colombani ha compiuto, durante i suoi mandati (è stato direttore dal 1994 al 2007), l’acquisizione di diverse testate locali e diverse attività anche di genere differente da quelle editoriali. Questo ha fatto lievitare il debito del giornale che ora ammonta circa 150 milioni di euro. La redazione ha più volte contestato (tra l’altro con il primo sciopero della storia del quotidiano) il piano di ristrutturazione dell’azienda, che prevedeva un taglio di 130 unità tra cui 80 giornalisti: un quinto della redazione. 9 il Ducato DOSSIER Crollo di lettori dei quotidiani della sinistra di pari passo con la crisi politica Allarme “rosso” nella stampa Le vendite di manifesto, Unità e Liberazione non arrivano, sommate, a 100.000 copie: il livello di guardia L’analisi e il commento dei numeri. Gabriele Polo:”La sinistra ha fallito non ha più identità, è scomparsa” Q uota 100.000 è il livello di guardia. Quando si scende al di sotto per la sinistra scatta l’allarme. Al di là del numero tondo, che è solo una soglia psicologi ca, la curva discendente della stampa “rossa”, quella schierata a sinistra, ha preso, da alcuni anni a questa parte, la via di un rapido declino. Sono i dati a parlare: l’Unità, il manifesto e Liberazione, insieme, non raggiungono le 100.000 copie vendute come media giornaliera (un sesto del Corriere della Sera). La stima si basa sui dati Ads (Accertamento diffusione stampa) e della Fieg (federazione italiana editori di giornali). La flessione della vendita della stampa quotidiana è un fatto conosciuto, ma il fenomeno, nel caso della sinistra, sembra più accentuato, soprattutto se paragonato ai quotidiani generalisti come il Corriere della Sera o Repubblica. Entrambi hanno infatti subito oscillazioni attorno all’1%: Repubblica in positivo, dal 2001 a oggi, mentre il Corriere ha perso circa l’1,8% di copie. Diverso è il discorso per la Stampa, che ha visto un calo più consistente delle vendite nello stesso periodo: -17,26%. Il confronto risulta impari anche prendendo in considerazione i quotidiani di opposto orientamento come Libero o il Giornale. I due giornali più rappresentativi del “lettorato” di destra hanno tenuto due andamenti contrastanti. Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, ha ceduto, negli ultimi sette anni, il 5,78%, mentre l’incedere di Libero disegna una ripida curva verso l’alto: +280%. “Le vendite dei giornali di sinistra diminuiscono perché i partiti di massa perdono sempre più presa e vengono sostituiti da nuove forme di aggregazione – è l’opinione di Paolo Mancini, professore Ordinario di Sociologia delle Comunicazioni alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Perugia – a ciò si devono aggiungere internet e l’incremento della televisione”. L’Unità dal 2001 ha subito un calo di vendite di oltre il 23%, in picchiata da oltre 71.000 copie al giorno a poco più di 48.000. Il grafico mostra una linea abbastanza regolare nei primi anni 2000, per farsi più ripida tra il 2004 e il 2006 e ammorbidirsi nell’ultimo anno. Secondo Fabio Luppino, della redazione politica dell’Unità, la questione non riguarda la sinistra in genere. Le tre testate vanno distinte nel loro percorso: “Innanzi tutto ci sono troppi giornali, c’è troppa dispersione. Bisognerebbe puntare a un grande giornale di opinione, alternativo ai cosiddetti generalisti come Repubblica e Corriere. L’Unità ha una storia a sé, diversa da manifesto e Liberazione”. Ma c’è anche un collegamento diretto con la politica. Un cordone ombelicale che però va allentato: “ L’Unità è il giornale che rappresenta i Ds, ma ha cercato di interpretare in modo laico questo ruolo. Cerchiamo di rappresentare tutto ciò che c’è a sinistra perché ci vuole maggiore lettura e rappresentazione della realtà”. Per il manifesto la situazione non è molto dissimile. Il calo delle vendite sembra molto sensibile negli anni ’90, quando la diffusione (che si calcola sommando 10 Sopra la tabella con le vendite dei principali quotidiani, in basso il grafico con la curva discendente delle vendite di manifesto e Unità (dati Ads) NB: i dati conteggiano le copie vendute in edicola e non tengono conto degli abbonamenti In basso la lavagna con le vendite giornaliere del manifesto a Roma Vendite Testata 2004 2005 2006 2007 2008 Repubblica Corriere Libero il Giornale la Stampa il Sole24Ore l’Unità il manifesto 569.271 597.879 58.193 200.008 292.276 189.973 63.932 28.834 570.467 591.518 71.484 200.385 266.319 184.465 59.191 29.670 565.337 579.229 127.064 201.654 268.066 208.754 48.902 23.703 565.697 578.807 126.390 200.224 268.295 207.500 48.237 23.561 564.355 579.008 125.410 196.049 266.835 205.449 46.895 22.832 le vendite, gli abbonamenti e le copie gratuite) passa dai 36.000 del 1996 ai 30.000 del 2000. Dal 2001 al 2007, secondo i dati Ads, le vendite sono invece calate di oltre il 23%, da 32.400 a 23.500. Unico dato in controtendenza è quello del 2005, l’anno del rapimento di Giuliana Sgrena in Iraq. La momentanea risalita delle vendite del manifesto è dovuta forse alla grande esposizione mediatica seguita al sequestro e liberazione della giornalista. A questo si è in seguito aggiunto il tragico epilogo, con la morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari e le polemiche accese dall’incriminazione del militare statunitense Mario Lozano. Il crollo delle testate della sinistra, se- condo Gabriele Polo, direttore del manifesto, è una questione tutta politica: “I giornali della sinistra vendono meno perché la sinistra non c’è, è scomparsa. Benché vada con un cartello elettorale non ha un’identità, non ha una credibilità, non ha una sua visibilità e non ha intrapreso un percorso di rifondazione vero, che si ponga come alternativa di sistema e quindi i giornali politici ne risentono”. Per quanto riguarda Liberazione, organo del partito di Rifondazione comunista, non si hanno dati Ads per realizzare una serie storica di confronto e l’amministrazione del quotidiano non acconsente alla loro diffusione. Il sito della Fieg (Federazione italiana editori di giornali) riporta solo due cifre, riferibili forse all’anno in corso o, con più probabilità al 2006. Tiratura: 60.000 copie Diffusione: 27.000. Le vendite, considerata la diffusione pari a quella del manifesto, si dovrebbero attestare più o meno sui livelli dei “cugini”, poco sopra le 20.000 copie. Anche per Liberazione si può ipotizzare, comunque, un calo delle vendite in relazione alla tendenza generale. Lo conferma anche Antonella Marrone, della redazione politica del quotidiano: “Il calo c’è e si sente, ma penso che per Liberazione sia più contenuto degli altri due. I giornali politici, certo, sono molto legati al periodo. Bisogna ammettere però che la politica sta perdendo appeal, anche in quella parte generalmente più consapevole e impegnata. Il lettore motivato del manifesto e Liberazione comunque continua a comprare, bisogna però arrivare anche “fuori dall’area” dove si possono trovare nuovi lettori e nuovi interessi”. “Questi giornali non forniscono più le informazioni che sono necessarie ad agire nella società – spiega ancora Mancini - la notizia importante non sta né sull’Unità né sul manifesto ma sul Sole 24ore. Allo stesso modo per valutare e interpretare la situazione politica servono il Corriere e Repubblica. Quelli della sinistra sono nati come organo di partiti di massa (in questo caso il Pci poi Pds e Rifondazione ndr), ma sono gli stessi partiti che non esistono più come forma di aggregazione, almeno non nell’accezione che avevano una volta”.