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il Ducato
La seguente pubblicazione è il lavoro individuale di fine corso di Matteo Marini ed è un allegato del Ducato, periodico dell'Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino.
I materiali possono essere riprodotti in tutto o in parte previa esplicita citazione della fonte ma non possono essere utilizzati a scopo commerciale. I testi e le foto (salvo altre indicazioni) sono di Matteo Marini
di Matteo Marini
“Salviamo il mostro. Perché sappiate che questo nostro esperimento
antimercato rischia di chiudere. Noi ce la mettiamo tutta
ma la risposta spetta a voi lettori de il manifesto e ai non lettori
che tuttavia pensano che questo giornale sia un utile personaggio
nella commedia, o tragedia, che stiamo vivendo”.
Francesco Paternò redattore del manifesto , 24 giugno 2006
il Ducato
I conti sono ogni mese più difficili e i tagli sempre a carico dei lavoratori
Un meccanismo al collasso
Stipendi pagati con mesi di ritardo, mancano i fondi per gli investimenti utilizzati per ripianare il debito
Negli anni ‘90 era facile ottenere prestiti.
Poi l’esposizione con le banche
ha raggiunto il doppio del fatturato.
L’amministratore: “I conti migliorano
ma con forti tagli alla spesa corrente”.
In soccorso la Banca della Solidarietà
L
e gocce di sudore macchiano
la scrivania e i tasti del Pc. La
fronte imperlata tradisce una
certa difficoltà. Caldo, afa,
umidità e smog nel centro di
una torrida Roma in pieno luglio, dentro la redazione del manifesto
in via Tomacelli. Le finestre sono spalancate in faccia alle bocche di scarico
degli autobus e delle automobili che circolano in zona piazza Augusto, nel tentativo non riuscito di sacrificare la quiete per un po’ di brezza. Al caldo si aggiunge quindi il frastuono dei motori
perché i filtri dell’aria condizionata sono sporchi e il rischio, ad accenderla, è
di beccarsi tutti quanti la legionella. I redattori, chini sui Pc, vengono distratti
dal gracchiare dell’altoparlante:”In segreteria c’è la busta paga con gli stipendi di aprile e maggio”.
Un piccolo episodio che dà l’idea di una
realtà economica e lavorativa che di
giorno in giorno si fa più complessa.
Vendite in picchiata e debito. Il numero
di copie vendute del “quotidiano comunista” è calato in maniera sensibile. Dal
2001 il crollo non ha quasi avuto soste:
oltre il 28%, passando da 32.400 copie
giornaliere vendute nel 2001 (ma nel
1996 erano 36.000) a 23.500 nel 2007 secondo gli ultimi dati disponibili da Ads
(Accertamento diffusione stampa).
I dati sulle vendite sono solo alcuni dei
numeri che descrivono il disastro. Gli altri bisogna chiederli a chi amministra
una macchina quasi sempre in panne,
che s’ingolfa e borbotta ogni anno ma
che ogni anno continua a tirare avanti
senza esalare l’ultimo sbuffo: “Fino a
pochi anni fa era relativamente facile
farsi prestare dei soldi dalle banche –
spiega Guglielmo Di Zenzo, direttore
amministrativo dimissionario del giornale – il facile accesso al credito ci ha
consentito di andare avanti, ma con
l’andare del tempo abbiamo
accumulato un debito gigantesco che è arrivato anche al
doppio del fatturato in un
anno. Solo gli interessi erano
pari al 10% dei ricavi”.
La cooperativa ha avviato, di
concerto con le banche, un
piano di stabilizzazione e riduzione del debito, che ora
ammonta a circa 16-17 milioni di euro, mentre gli interessi portano via il 5% dei ricavi di ogni anno. Cifre alle
quali è difficile far fronte con
gli incassi delle vendite del
quotidiano, più le altre iniziative editoriali, come manifesto libri e
cd.
Il giornale costa 18 milioni di euro, tanto quanto il ricavo delle vendite e della
pubblicità. E proprio la pubblicità costituisce uno degli anelli deboli della catena. Gli introiti che derivano dagli inserzionisti costituiscono infatti appena il
10 per cento del totale (circa 1,9 milioni
di euro), una risorsa assai più limitata rispetto alla media della stampa italiana,
che si aggira attorno al 45 per cento.
“Ti posso dire che il debito in sé, di tipo
oneroso, nei confronti del sistema bancario è andato negli ultimi anni sempre
diminuendo. Patrimonialmente la situazione va migliorando, economicamente siamo in grande difficoltà perché
diminuzione di copie significa diminuzione di fatturato. Finanziariamente
siamo invece molto molto in difficoltà
perché c’è il problema di ridurre l’indebitamento pregresso, il che significa utilizzare le risorse correnti e quindi viene
a mancare quello che ti serve se non sei
nella condizione di generare utili”.
Compresi gli stipendi dei soci? “Considera che ad aprile abbiamo pagato gli
stipendi di gennaio e
febbraio”.
“Siamo una
cooperativa
a mutualità
prevalente
quasi il 100%
dei lavoratori
è socio”
2
Aiuti di Stato. Unica
nota relativamente
positiva sono i contributi all’editoria. Ogni
anno arrivano all’ex
testata di via Tomacelli (oggi via Bargoni) 4
milioni e mezzo di euro, uno degli importi
più alti, soprattutto se
rapportato alle vendite del giornale. “Il manifesto è una cooperativa a mutualità prevalente, cioè vi lavorano i soci per oltre il
50 per cento del totale. Devo dire che però siamo molto più vicini al 100 per cento”. Il manifesto usufruisce di un sostanzioso aiuto da parte dello Stato che incide per il 25 per cento sul totale. I soci del
manifesto, che sono i giornalisti, i poligrafici e il personale amministrativo, ri-
cevono tutti lo stesso stipendio base:
1200 euro al mese per il direttore come
per il semplice redattore. La differenza
la fanno gli scatti di anzianità e le indennità di caposervizio, direttore e caporedattore.
L’aiuto dello Stato però
non basta.
I conti a fine anno sono
comunque in rosso, i costi sono portati alle stelle
da una macchina non
oliata. Il giornale deve
chiudere presto la sera (le
22 è il termine ultimo) per
non avere difficoltà a raggiungere le edicole di tutta Italia il giorno dopo. Sui
tutti i muri della vecchia
redazione era stato applicato un cartello che ammoniva:”Ricordiamoci che è importantissimo ora più che mai, chiudere il giornale entro le 22. I costi dei ritardi, in perdite di copie, sono impressionanti e nella situazione attuale non possiamo proprio permetterceli!!!”. Poche righe che
valgono più di mille parole. La scelta di
essere un giornale nazionale ha dei co-
sti molto alti: il numero delle copie
stampate è oltre tre volte superiore a
quello delle copie vendute. Nella gerenza ogni giorno compare la cifra che indica la tiratura e che non va
mai sotto le 85.000 copie.
Questo comporta una
spesa elevata per la carta
e la stampa. I primi a rimetterci sono i lavoratori
che spesso sono costretti
ad aspettare mesi prima
di ricevere lo stipendio e
da due anni vanno a turno
in cassa integrazione garantita dallo stato di crisi.
A giugno I soldi infatti devono essere prima utilizzati per pagare le banche,
i fornitori e la distribuzione. I giornalisti e i compagni di lavoro, di necessità, vengono per
ultimi.
Lo stipendio
lordo di base
è 1200 euro
per tutti:
direttori,
redattori
e poligrafici
La speranza. Un tentativo nuovo si sta
compiendo proprio in queste settimane. Il manifesto ha chiesto al manager
Sergio Cusani di preparare attraverso la
Banca della solidarietà una proposta di
DOSSIER
17 mln 4,5 mln 18 mln
Debito
Il debito del giornale
oggi. Il piano di riduzione dell’esposizione con
le banche, concordato
dal 2001, comporta
molti tagli alle spese
correnti
Dallo Stato
L’ammontare dei contributi per l’editoria alla
testata. Incide per circa
il 20 per cento sui
ricavi. La parte più
grossa delle entrate
viene dalle vendite
Costo del giornale
Pari ai ricavi di vendite
e pubblicità. La tiratura
è di 80.000 copie, per
arrivare in tutta Italia,
appena 23.000 quelle
vendute in media ogni
giorno
1,9 mln
Pubblicità
L’incasso dagli sponsor
che è pari a circa il 10
per cento dei ricavi di ogni
anno. Molto inferione alla
media dei giornali italiani,
che gravita attorno al 45
per cento
Nella foto
grande
riunione di
redazione,
in primo piano
l’ex vice
direttore
Pierluigi Sullo
(photo by
Andrea Cerase)
Nelle foto
piccole una
vignetta di
Vauro per la
campagna
abbonamenti
e un monito
appeso nella
vecchia sede
riorganizzazione aziendale. Questo per
sfruttare meglio le potenzialità non solo
della redazione, ma di tutta la macchina
produttiva. Nel contempo ci saranno riflessioni e aggiustamenti dei meccanismi che governano soprattutto la testata, per risparmiare tempo e denaro. Tutto ciò però non si fa senza soldi. Ecco allora che nella “tana del leone” dovrebbero far capolino gli imprenditori. La
manifesto spa (cioè la testata) è infatti
detenuta per il 78% dalla cooperativa il
manifesto. L’obbiettivo sarebbe reperire capitali grazie alla vendita del restante 27,9%. La differenza (più del 50%)
permetterebbe alla cooperativa di mantenere il controllo della testata con nuovi capitali da utilizzare per investimenti
e riduzione del debito. Il rinnovamento
ha portato già a un nuovo riassetto: “Sono stati eletti un nuovo direttore generale e un nuovo consiglio di amministrazione – spiega ancora Di Zenzo – novità quindi ce ne sono, ma ancora non si
conoscono bene le strategie. Io stesso ti
parlo quasi come un semplice spettatore perché sono dimissionario dal mio
ruolo in amministrazione, quindi non
ho parte attiva in questo processo”.
IL PERSONAGGIO
Sergio Cusani
Laureato all’università Bocconi di
Milano, Sergio Cusani è stato consulente finanziario della società
Enimont di Raul Gardini. Durante la
sagione di Mani pulite è stato accusato dal Pm Antonio Di Pietro di aver
reperito i fondi per una maxi tangente di finanziamento ai partiti.
Condannato, ha scontato quattro
anni di carcere. Dal 2001 è impegnato in progetti di recupero detenuti, finanza etica e consulenze ai lavoratori e sindacati. Ha partecipato alla fondazione della Banca della solidarietà. Nel febbraio del 2008 ha presentato, all’assemblea
dei soci del manifesto, una proposta di riorganizzazione
aziendale e diverse idee per innovare il lavoro della redazione, in concerto con altri media come il sito internet o un’agenzia stampa della sinistra.
La storia
Fuori dal Pci
37 anni
di lotte e di crisi
I
l 23 giugno 1969 nasce il manifesto
rivista, fondato da Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato, Luciana Castellina e Ninetta
Zandegiacomi, dirigenti della sinistra del Pci in contrasto con la linea
predominante del partito. Alla nascita
della rivista Berlinguer aveva sconsigliato di procedere con la pubblicazione. Subito dopo l’uscita del secondo numero
con l’editoriale dal titolo “Praga è sola”, in
riferimento all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche,
Rossanda, Pintor e Natoli sono radiati dal
partito.
Il primo numero della rivista il manifesto
vende 75.000 copie.
Nel febbraio del 1971 il manifesto diventa
“il primo quotidiano libero a autogestito”
in Italia. È autofinanziato grazie ad una
sottoscrizione di 50 milioni di lire, il costo
di copertina è 50 lire e ha quattro pagine,
la redazione è al quinto piano di via Tomacelli a Roma. La tiratura del primo numero è di 100.000 copie, la vendita media
del primo anno è di 40.000. Nel maggio del
1972 il manifesto si presenta alle elezioni
con capolista PietroValpreda, l’anarchico
accusato della strage di Piazza Fontana,
ma è un fiasco. Cala la vendita di copie e il
prezzo sale a 90 lire. Nel 1973 viene dichiarata la prima crisi politico-finanziaria.
Nel 1974 il gruppo del manifesto si unisce
a quello del partito di Unità proletaria di
Foa e accetta di sostituire la testatina
“quotidiano comunista” con “unità proletaria per il comunismo”. Alle elezioni
conquista sei deputati in coalizione con
Lotta continua e Avanguardia operaia.
Nel 1977 le divergenze sull’interpretazione della realtà politica e sociale portano il
giornale a dichiararsi indipendente e a riprendere la scritta “quotidiano comunista”. Nel 1982 le copie vendute scendono
a 18.000. Nel 1983, però, il grande successo del giornale del 7 aprile a 10.000 lire vale come incitamento a tenere duro.
Il manifestopassa nel 1977 da quattro a sei
pagine. Si susseguono più crisi finanziarie, nel 1997 la via obbligata è quella della
ristrutturazione e della vendita di un numero a prezzo maggiorato: 50.000 lire. Nel
1994 il giornale dal un formato più grande diventa tabloid, in questi anni proprio
la prima magina del manifesto si contraddistingue per l’irriverenza e la spregiudicatezza. Il caso che ha destato più scalpore è stato quello del titolo “Il pastore tedesco” in riferimento all’elezione di papa
Benedetto XVI.
Nel 2001 viene avviato, in concerto con le
banche, il piano di riduzione del debito.
Nel 2004 e nel 2006 altri due restyling che
gli hanno dato la forma che ha ora. Il 4 febbraio 2005 l’organizzazione della Jihad islamica in Iraq rapisce la giornalista del
manifesto Giuliana Sgrena. Il fatto desta
grande attenzione. Durante le operazioni
di liberazione il militare statunitense Mario Lozano spara e uccide l’agente del Sismi Nicola Calipari.
A giugno 2008 forse uscirà il nuovo progetto grafico che comprende anche l’uso
del colore. L’ultima crisi è quella del 2006.
Il giornale si salva grazie alle sottoscrizioni dei lettori e alla cassa integrazione a
turno dei soci lavoratori.
3
il Ducato
Mariuccia Ciotta racconta la sua “rivoluzione”
“Manifesto nuovo
fuori dalla trincea”
“Una linea meno elitaria per comunicare, anche con il colore”
Direttrice assieme a Gabriele Polo,
spiega il progetto per un giornale
che parli alla gente e non solo ai politici
I
n che prospettive vedi il tuo quotidiano, soprattutto alla luce del
risultato delle elezioni?
La situazione politica ci permette di rilanciare il manifesto, che
potrebbe essere schiacciato da
una scomparsa della sinistra dal parlamento e da un’ondata di destra molto
forte. Penso che sia una grande opportunità per il giornale il non richiudersi
su noi stessi, e pensare di fare l’ultima
trincea contro la destra montante. Al
contrario pensare di cambiare linguaggio, essere più comunicativi con i lettori che si sentono orfani della sinistra e di
strumenti di comunicazione. È arrivato
il momento per noi di uscire dalla concezione un po’ elitaria del giornale che si
rivolgeva ancora allo zoccolo duro dell’inizio, un pubblico decisamente ristretto. Dovremo aprirci molto alle questioni e ai temi che hanno portato alla
sconfitta della sinistra alle elezioni. L’incomprensione della società che cambia
e anche il vuoto culturale enorme che si
è prodotto, a partire dalla televisione.
Non c’è più una percezione del mondo
nel suo insieme, invece dobbiamo andare a vedere cosa succede nella società.
Nel restyling del giornale che uscirà tra
poco la prima pagina, forse l’elemento
che più incuriosisce anche chi non è un
lettore abituale, resterà, vero?
Si sì certo, anzi rispetto a com’è ora verrà parecchio valorizzata.
proposte di Cusani? Un progetto deve
avere un motore economico.
Sai, se riduciamo la foliazione, riduciamo i redattori e facciamo un giornale di
resistenza, a quel punto gli equilibri
economici sono presto raggiunti. Io a
questo non credo perché credo che le
vendite scenderebbero. Se tu vuoi risalire devi osare e rischiare. Quindi questo
nuovo giornale a colori, con un settimanale che dovrebbe uscire la domenica,
con un sito dovrebbe rilanciarsi con le
vendite. Perché la nostra maggiore entrata sono le vendite, non la pubblicità
come nella maggior parte dei giornali. Il
lavoro di Cusani è molto importante
perché noi fino ad ora abbiamo avuto
una gestione del giornale molto familiare, artigianale, che è stata anche molto
preziosa perché ci ha permesso di sopravvivere. Io sono qui dall’inizio, noi
non prendevamo lo stipendio e il nostro
amministratore ci dava ogni tanto cinque mila lire per mangiare i panini. Ci
siamo divertiti perché permetteva di essere liberi, di materializzare i propri sogni di interventi e scritture. Ma è stata
anche dura. Questo modo di pensare alla militanza politica e al volontariato
non può andare avanti.
Ci sono persone che devono mantenere
una famiglia, hanno figli eccetera. Andare avanti a vela, cioè se ci sono gli stipendi bene altrimenti non importa, non
è più possibile. Questo nuovo progetto
va accompagnato da una ristrutturazione aziendale vera, cioè risparmi sui costi, vendite, pubblicità, promozione e
rilanci, quello che fa un’azienda che
vende un prodotto. Dobbiamo vederla
proprio in quest’ottica, come un prodotto editoriale.
Il rinnovamento come si incontra con
le esigenze economiche, e quindi le
In questo la testatina “quotidiano comunista”, ancora presente sulla prima
Quindi un giornale meno “di nicchia”.
Si vedrà già con la nuova impostazione
grafica.
Sì, infatti la scelta che abbiamo intrapreso è stata quella di avere una copertina a colori, che per noi è una novità. Il
fatto di avere una copertina in bianco e
nero voleva dire distinguerci, non era
solo una questione economica. Allora,
distinguersi va bene però bisogna riuscire a comunicare. Bisogna usare il
colore in modo diverso dagli altri giornali. Gli altri lo usano in modo realistico, naturalistico, imbellettano le pagine. Noi lo vogliamo usare per comunicare ai nostri lettori e dare un’informazione più calda. Il giornale nuovo avrà
meno politica di palazzo e più indagini
e inchieste. Questa è la strada, non quella di barricarsi dentro un giornale tutto
politico, di resistenza e con poche pagine come era agli inizi.
Questo è un progetto già in atto.
È già in atto da almeno un anno, ma abbiamo cominciato a pensarlo fin da
quando siamo diventati direttori, quattro anni fa. Abbiamo incontrato molte
difficoltà, perché la direzione mia e di
Gabriele è la prima che non coincide
con quella dei fondatori. Ci siamo trovati da soli, con l’eccezione di Valentino.
Dovremo per esempio attivare un sito
che interloquisca con il giornale, che fino adesso non c’è stato. La perdita di copie si dice che sia una conseguenza della crisi della politica. Ma ci investe anche la crisi della carta stampata, che coinvolge noi come il Los Angeles Times,
Liberation o Le Monde. Perché il quotidiano che continuava a pensarsi come
4
quello che dava le notizie o che parla solo a una stretta fascia di persone che si
occupano di politica è finito. Non esiste
più, bisogna reinventarsi. Giornali grossi come Repubblica e Corriere vivono
perché hanno un indotto enorme, soprattutto grazie alla pubblicità. Noi abbiamo una testatina con scritto “quotidiano comunista”, figurati quanta pubblicità possiamo avere. Quindi la nostra
scommessa è quella di una fascia ristretta di lettorato, ma che comunque
arriva ad essere un bacino di 100.000 lettori come dopo le elezioni politiche. Che
però sono molto discontinui, perché
siamo difficili da leggere e spesso ripetiamo concetti o punti di vista che il nostro lettore si aspetta. Tutti vogliono che
il manifesto continui a vivere, ma non lo
vogliono leggere tutti i giorni perché
pensano che sia una specie di dovere.
Vorrei che il dovere diventasse piacere.
Vorrei che i lettori scoprissero nel nostro
giornale cose che gli altri non raccontano o che noi raccontiamo diversamente, una lettura originale.
DOSSIER
Nella foto
grande
i direttori
Mariuccia
Ciotta e
Gabriele Polo
(foto
di Tania
Agenzia
A3/Contrasto)
Nell’altra
pagina
Mariuccia
Ciotta
assieme a
Marina Forti
al desk. Qui
in basso,
redazione al
lavoro nella
nuova sede
pagina, può essere un elemento di difficoltà?
Guarda noi discutiamo, un giorno sì e
un giorno no della possibilità di togliere la testatina “quotidiano comunista”,
da almeno 20 anni. Ma l’idea di toglierla diventerebbe agli occhi di tutti come
un’ammissione:“il manifesto si è pentito” e questo sarebbe falso oltre che uno
sfacelo dal punto di vista politico ed
editoriale. Io la toglierei, ma più che toglierla le darei un significato diverso di
quello che ha, attraverso un intervento
grafico che comunichi qualche altra cosa. Ho paura che questa parola comunista significhi resistenza contro il tempo che cambia, come Diliberto che vuole rimettere la falce e il martello. Questo
implica una ricerca di quello che significa oggi essere comunisti senza più riferirsi a categorie del passato. Ma toglierla adesso senza fare questo processo di analisi sarebbe sbagliato.
Come ha accolto l’assemblea dei soci il
progetto presentato da Cusani?
C’è stata una votazione che è andata
molto bene, i sì erano in grande maggioranza.
A livello di nuove proposte, anche originali come l’agenzia stampa di sinistra?
Sì, l’Ansa di sinistra, questa era un’idea
di Cusani che secondo me è molto carina, ma è rinviata all’analisi del sito, perché è lì che dovrà andare. Dobbiamo inventare un sito che sia utile al giornale e
che non sia come il Corriere o Repubblica, una replica del cartaceo. Dovrebbe
intrecciarsi col lavoro del giornale e
completare quello che non c’è. Il manifesto quotidiano nel nostro pensiero
non deve avere allegati, ma progetti integrati, come appunto il sito e il setti-
manale della domenica. In più una fonte che venga dal territorio, dalla nostra
rete di lettori, corrispondenti non professionisti. Fare una selezione a livello
mondiale, io non lo farei solo italiano,
dei corrispondenti che possano dare le
informazioni fresche di prima mano da
tutte le parti del mondo sarebbe fantastico.
Cusani, riguardo a questa proposta faceva l’esempio della Thyssenkrupp.
Con i suoi contatti il manifesto avrebbe
potuto dare in tempo molto rapido la
notizia e fornire aggiornamenti.
Sì però Cusani parlava più che altro di
essere i primi. Mi preoccupa invece dare notizie che gli altri non danno, avere
punti di vista, interpretazioni e ricostruzioni del fatto che non siano fatti dalle
altre agenzie stampa, dagli altri giornali
oppure
dal
t e l e v i d e o.
In conclusione, il manifesto rimarrà
sempre un secondo giornale?
Gli analisti dell’editoria sono d’accordo
nel dire che non esiste più un “primo
giornale”. Paradossalmente anche il
Corriere e Repubblica sono diventati
“secondi giornali” o “primi” se vuoi.
Devono ripensare la loro natura che
non è più quella di informare ma di interpretare, dare alla notizia il senso.
Sulla cronaca è vero che siamo molto
carenti. Ma è un problema che vorremo
affrontare. Faccio l’esempio dei due
bambini di Gravina di Puglia ritrovati in
fondo a un pozzo. Noi abbiamo scritto
in maniera alternata di questo fatto
mentre i giornali riempivano pagine su
pagine. Quando sono stati ritrovati ho
scritto un editoriale dicendo che la
grande macchina mediatica aveva addir ittura fuor viato le indagini.
Bisognerebbe ritornare ad avere una
chiave di interpretazione delle cose. Insisto sul fatto che non si tratta di eliminare un certo genere di notizie. Il numero della domenica che sto immaginando si occuperà di scienze, di ambiente, di nuove tecnologie e di alimentazione. Sono cose su cui benissimo
possiamo occuparci. Nessuno ricorda
più che il famoso Gambero rosso era
nato come inserto del manifesto che
trattava di cucina. Ora è un colosso.
Si dice che la sinistra abbia più una vocazione di opposizione che di governo.
Il manifesto ha sempre fatto opposizione all’interno della sinistra. Questo
quindi sarà un trampolino di lancio e
non un motivo di abbattimento.
Parliamoci chiaro, mi dispiace tantissimo che la sinistra sia fuori dal Parlamento, ma la mia generazione, che è
quella che viene dall’esperienza del ’68,
e dall’incontro con la parte migliore del
comunismo ha prodotto il metodo della ricerca continua: il non assestarsi su
delle certezze: continuare a rinnovarsi
per essere se stessi e non rimanere attaccati a delle radici. Questa è la grande
differenza con la sinistra. Su questo
scommettiamo e pensiamo di essere
utili perché vorremmo non essere solo
testimonianza ma lavorare con gente
giovane come te e dire:” Cosa ci accomuna? Perché dobbiamo divertirci insieme a fare le cose?”. Perché ci interessano i cambiamenti. Adesso.
5
il Ducato
La nuova sede del giornale è fuori dal centro storico, lontano da via Tomacelli,
Fermata Ippolito Nievo,
I
l tram numero otto ferma a pochi
passi dalla redazione, nel quartiere Trastevere ai piedi del colle Gianicolo, proprio alle spalle delle vie
che la domenica traboccano di
gente e di bancarelle, per il mercato di porta Portese. Dall’incrocio della
fermata dell’otto parte anche via Ippolito Nievo, dove ha sede l’Unità. Il primo
giornale comunista.
L’attuale sede del manifesto occupa un
paio di piani di un colosso costruito forse negli anni sessanta. La lunga infilata di
terrazze corre ininterrotta per oltre cento metri. Quelle del giornale sono comprese tra il un Caf Acli e altri anonimi uffici. Il manifesto non è più il quotidiano
di via Tomacelli. Ora ha sede in via Bargoni, una novità tra tante, che segna il
percorso come una pietra miliare, dettata da esigenze economiche: l’affitto al
centro di Roma era diventato troppo caro.
Nei primi di gennaio 2007 la redazione
era ancora nel pieno centro di Roma, in
un palazzo in stile fascista liscio e severo,
di marmo e mattoni, affogato nel caos
velato di grigio del centro di Roma. Il terzo e il quinto piano erano la sede della redazione e dei poligrafici. In origine solo
quelle del quinto. Poi lo spazio è diventato insufficiente.
I lunghi corridoi erano rivestiti di un parquet consumato. Dall’uso, dallo spostamento delle sedie e dei tavoli. Grossi pezzi e listelli di legno erano spesso divelti
dalla loro sede lasciando buchi difficili
da non notare. Nella stanza più grande, al
centro del corridoio che percorre tutto il
piano e sul quale si affacciano le stanze
delle diverse sezioni, c’era il desk del caporedattore e le riunioni di redazione
ogni giorno, verso l’una. Sulla superficie
del pavimento, resa ruvida da 30 anni di
mancata manutenzione (o sarebbe meglio dire sostituzione), spiccavano come
nei da contorni indistinti le bruciature
delle sigarette. Decine, forse centinaia di
cicche schiacciate sotto il tacco durante
lunghe discussioni per decidere la linea
del giornale, inventare il titolo di prima o
attendere il risultato di una tornata elettorale. Firma inconfondibile dell’antico
vizio di Valentino Parlato e delle sue
Marlboro rosse. Vizio condiviso con
buona parte dei redattori. La legge sul fumo nei luogo di lavoro qui dentro era rimasta lettera morta, appesa per dovere
d’ufficio alla parete senza troppa convinzione, quasi derisa.
Sul tratto di corridoio di fronte stava la
stanza di Rossana Rossanda, co-fondatrice assieme a Valentino Parlato e Luigi
Pintor tra gli altri, del giornale. Il suo cognome scritto su un cartello grigio, in caratteri ormai quasi indistinguibili a causa dell’età e della polvere. Quell’ufficio
negli ultimi tempi è rimasto vuoto, Rossana ora scrive i suoi corsivi da Parigi.
Proprio a fianco c’era l’ufficio di Mariuccia Ciotta, la direttrice, poco distante
quello di Gabriele Polo e di Valentino.
Toccare la redazione di via Tomacelli era
una questione epidermica, più che altro.
Strati e strati di polvere rivestivano la superficie delle centinaia di libri ammassati, accatastati, impilati sulle scrivanie e
sulle mensole, mano a mano che procedeva il lavoro e passavano i giorni, sempre più curvate dal peso, sul punto di cedere. Un caos senza nevrosi, legittimato
dalla storia del giornale e di chi ancora vi
batteva i tasti. L’odore era quello acre
delle pareti gialle e ingiallite, impregnate da decenni di fumo. L’odore della car-
6
ta e dell’inchiostro, l’odore dei quotidiani. Centinaia e centinaia di “copia omaggio” ritualmente seminate ogni mattina
in tutte le stanze e ogni notte “rapite” dalle scrivanie per essere sostituite all’alba
delle 10 il mattino successivo.
Guardare era soprattutto leggere. Un
manifesto dei Sem terra, i contadini senza terra del Brasile, una foto della prima
pagina nel gennaio del 1991 allo scoppio
della prima guerra in Iraq, “Massacro”
era il titolo, accanto ad altre prime pagine dagli anni ’70. Erano alcuni dei quadri
appesi alle pareti di un colore senape un
po’ triste, solcato da piccoli graffiti, scritte a pennarello o pedate ben definite di
chi si era appoggiato al muro di schiena
con una gamba piegata sotto di sé. Un
DOSSIER
dove era nato nel 1971. Tutto nuovo, stanze luminose e niente traffico
si riparte da Trastevere
Nella foto grande
Luigi Pintor, fondatore del giornale, nella
vecchia sede con
tutta la redazione
(foto Riccardo De
Luca), nell’altra
pagina il palazzo di
via Tomacelli e,
nell’angolo, l’ex
direttore
Riccardo Barenghi
in redazione durante
la notte elettorale
dell’aprile 2001
(copy Andrea
Sabbadini)
In questa pagina
un’istantanea della
sala del desk,
più in basso
la sezione
economica
del giornale e,
nell’angolo,
il corridoio d’entrata
della redazione
aria da opera di manifattura che ancora,
in parte molto ridotta, si può respirare a
via Bargoni ma senza quella carica quasi ingombrante di storia da raccontare.
La nuova sede ha l’odore del nuovo. Le
vetrate che si aprono sulle terrazze non
hanno confronto, in quanto a superficie,
con le vecchie finestre dagli infissi in legno deformato dall’umidità di via Tomacelli. Le pareti bianche appena ridipinte
e il parquet bianco, risistemato prima
dell’insediamento della redazione nella
sua nuova sede, illuminano gli ambienti
di luce fresca. Ora aprire le finestre non è
più un tabù, ma un piacere. La via secondaria non deve quasi sopportare traffico,
gli unici rumori arrivano dalla scuola
elementare di fronte. Durante la ricrea-
zione e la pausa pranzo. Scaffali e archivi quasi non si notano. Il loro volume si è
ridotto. Tutte le carte non indispensabili
sono state mandate al macero. Gli schermi piatti dei computer sono sistemati
sulle scrivanie, ora più ampie e ben disposte ad accogliere tutto.
Una redazione meno fotogenica ma più
funzionale. Anche la connessione internet viaggia più veloce sui nuovi computer. Quello che manca, a voler essere romantici, è l’aria da redazione giornalistica “vecchio stile” che la sede originaria
aveva guadagnato col tempo. E col tempo anche questo nuovo laboratorio acquisterà una sua identità, che ora aleggia
un po’ sfuggente tra le pareti quasi diafane nel cuore di Trastevere.
7
il Ducato
Tanti lettori scrivono alla redazione ogni giorno per chiedere un giornale diverso
“Ti compro ma non mi piaci”
Le critiche alla linea del giornale, all’impostazione grafica o alla mancanza di attenzione a certi temi sociali
Più spazio al web
e alle inchieste
“Comunista sì,
comunista no”
un’etichetta
spesso discussa
L
a pagina delle lettere è l’orecchio teso da un giornale ai
suoi lettori e ne ripropone
l’essenza per comunicare se
non il fatto, quanto meno l’intenzione di un autocritica o la
continua messa in discussione del proprio lavoro.
Nel manifesto il dialogo con i lettori è più
intenso rispetto agli altri giornali. Con
quei lettori che hanno comprato abbonamenti, firmato (e pagato) sottoscrizioni, continuato a sostenere il giornale,
in pratica a salvarlo dalla chiusura, in
tutti i suoi momenti di crisi. Ma sono lettori esigenti, spesso piccati per certe
scelte del giornale, critici nei confronti
della linea editoriale o della valorizzazione di alcune notizie.
“Abbonatevi, ma aspettiamo le vostre
lettere con critiche e suggerimenti” scriveva Valentino Parlato in un appello a sostenere il giornale. Le critiche e i suggerimenti non si sono fatti attendere. Questo forse perché si sentono in diritto e in
dovere di criticare una macchina che in
qualche modo sentono propria.
“Ti leggo da 20 anni, ti sostengo in tutti i
modi, ma sono anche stufo. Innanzitutto
di leggere queste lamentele, perché ci sarà pure crisi di vendita,ma i conti bisogna
saperli fare […] e con te i conti non tornano mai. Possibile?”.
Alle critiche sulla situazione economica
si aggiungono quelle sui contenuti del
quotidiano.
“La pagina della cultura è sempre più autoreferenziale e terribilmente snob.Il mio
manifesto […] dovrebbe fare inchieste sul
territorio”
Lorenzo.
“Cari compagni, rinnovo il mio abbonamento sostenitore, ma condivido con
molti altri lettori l’idea che il giornale deve cambiare: non solo per me, ma per i futuri lettori attratti da un giornale nuovo
capace di essere più leggibile e meno categorico”
Lidia.
“Caro Valentino Parlato almeno tre volte
a settimana acquisto il manifesto e devo
confessare che a me questo giornale non
piace né come contenuti né come impostazione grafica. Lo trovo lugubre, privo
di stimoli culturali, lontano dai problemi reali della gente e poco interessante”.
Nunzio, Torino.
Molti i consigli per guidare il giornale
verso un cambiamento obbligato da esigenze di mercato e che vada incontro
proprio alle aspettative dei lettori.
“Voi siete sul pezzo, quello che respiro
quotidianamente lo vedo descritto e analizzato nelle vostre pagine.Voi avreste gli
strumenti per dare risposte agli illusi e
speranze ai disillusi. Allora perché avete
tutti questi problemi? Forse perché tutti i
8
Alcune pagine con le lettere giunte al manifesto
giornali sono in crisi e stanno investendo
sempre più su internet. Da qui un mio
consiglio […] Smettete di arrivare in tutte le edicole, costa troppo. Concentratevi
sul web, migliorate il giornale online” .
Anselmo.
“Il nostro futuro prossimo sta nella formula web+freepress e siamo già in grande ritardo. Per questa nuova avventura
sarei disposto a raddoppiare la mia quota sociale”.
Gianni, Barzanò (Lc).
La discussione sull’opportunità di mantenere la scritta “quotidiano comunista”
non è solo interna al giornale.
“Uscite dalla gabbia dell’essere un “quo-
tidiano comunista”, togliete questo riferimento (glorioso ma inattuale) di cui
non avete bisogno.[…] Date spazio a chi
scrive bene e parla di temi di grande attualità sociale. […] Non costringete chi
non arriva a fine mese a rinunciare ad
una copia del nostro giornale.In attesa io
continuo a comprarvi.
Giorgio, Bologna.
“Vi seguo da quando è nato il giornale[…]
Innanzi tutto sono tra coloro che sostengono la necessità che sia mantenuta la dicitura “quotidiano comunista. In secondo luogo Valentino Parlato ha scritto che
per modestia non viene pubblicato il dibattito all’interno del giornale e credo che
ciò sia un errore perché i lettori hanno diritto di conoscere come si confrontano le
vostre posizioni”.
Gianna.
Accanto alla richiesta di essere un giornale troppo ancorato su posizioni anacronistiche, ci sono le critiche ad una linea secondo alcuni troppo deferenti nei
confronti di alcune figure o posizioni
politiche. Critiche che si fanno più aspre
in campagna elettorale.
“Sono rimasto scioccato dall’intervista a
Veltroni: è un’investitura ufficiale? È la
discesa in campo del manifesto a fianco
del Pd? Ma allora perché non lo dite ufficialmente? È da tempo che sul vostro (prima avrei detto il nostro) giornale ci sono
solo due candidati […] Speravo che il manifesto non cadesse in questo burrone”.
La polemica
di alcuni spazi pubblicitari di aziende considerate “poco di sinistra” ha mosso la penna di alcuLanipresenza
lettori. La discussione ha trovato spazio nella rubrica di lettere di Valentino Parlato, Scritto e Parlato
Come azionista e abbonato dal 1994 non sono assolutamente d’accordo sulla pubblicità di Mediaset sul manifesto
di venerdì 16 novembre. Cosa sta succedendo? E per cortesia non tirate fuori la storia della sopravvivenza, per quello
che mi riguarda preferisco una sottoscrizione o l’iniziativa
dell’album di famiglia che è interessante, divertente e culturalmente utile. Cordiali Saluti.
Riccardo Verona
Cari compagni del manifesto, abbiamo sempre fatto tutto
senza chiedervi nulla. Ora noi, a dir la verità, una cosa ve la
vorremmo chiedere: come mai ultimamente l’ultima pagina
del giornale è tutta dedicata alla sponsorizzazione di aziende come Tim & co? Il 16 novembre, in particolar modo,
siamo rimasti sconcertati dalla presenza, sempre in ultima
pagina, di una pubblicità Mediaset… che amarezza!
Silvia e Antonio
Cari compagni, no… la pubblicità Mediaset sul manifesto
del 16 novembre no. Piuttosto pago 5 euro il quotidiano ma
la pubblicità di Silvio sul mio giornale non la voglio.
Giovanni, Brescia
Anche quest’anno vi siete giocati il mio abbonamento. Come
si fa a preferire i soldi di Silvio Berlusconi a quelli dei propri
lettori?
Antonio
Cari compagni […]
Non vi risponderò con l’argomento (vero) che abbiamo un
dannato bisogno di denaro e
neppure con quello (ipocrita)
che pecunia non olet. Io penso
che un quotidiano comunista
come il manifesto debba dare
spazio alla voce dell’avversario per batterlo e sbugiardarlo.
[…] Quindi – penso io – facciamolo parlare, persino con
la pubblicità sulle pagine del
manifesto e quindi tentiamo
di far diventare più chiaro e di
maggiori prospettive questo
scontro[…].
Valentino Parlato
DOSSIER
Stefano Milani, di Politica e Società
L’ultimo arrivato:
“In redazione
serve più dialogo”
Stefano Milani nella redazione del Manifesto
S
tefano,qual è la strada che ti ha
portato al manifesto?
Ho frequentato la scuola di
giornalismo di Roma, Tor Vergata, dopo essermi laureato alla Sapienza in Lettere moderne. Ho fatto un primo stage al Messaggero poi, siccome volevo provare uno stage
differente, ho mandato il curriculum qui.
Sono arrivato nella redazione economica, da Galapagos per la prima settimana.
Cosa ti attirava del manifesto?
Beh naturalmente ci sono motivazioni
politiche, ma anche il "mito" del manifesto come scuola di giovani giornalisti è
un'idea che dall'esterno ancora c'è. Questo non solo tra i non addetti ai lavori, ma
anche i giornalisti continuano a considerarla una fucina, una grossa scuola. Io ho
avuto una doppia esperienza come ti dicevo. Al Messaggero c'era grande organizzazione, con computer di ultima generazione, insomma funzionava tutto.
Sono arrivato al manifesto con i 486 che si
impallavano, le agenzie che c'erano e non
c'erano, però alla fine il lavoro era anche
più
g r a t i f i c a n t e.
Quando sei arrivato qui?
Due anni fa proprio prima delle elezioni
2006, in piena crisi manifesto e si iniziava
a parlare di cassa integrazione.
Era l'anno dell'ultima sottoscrizione.
Sì, era l'ultima, cominciata all'inizio del
2006, e io sono arrivato a marzo.
Ti sei trovato subito bene?
Sì benissimo. La sensazione, fin da subito, è sentire il giornale come un po' tuo.
Ho fatto due stage di tre mesi, poi, avendo
la fortuna di vivere a Roma, ho cominciato a collaborare come esterno scrivendo
un po' per tutte le sezioni , anche di sport.
Poi mi sono ripresentato l'anno dopo, finita la scuola, e adesso eccomi qui.
Qual è la tua percezione della macchina
manifesto? Cosa c'è che non va?
Secondo me un grosso problema è l'incomunicabilità tra le diverse sezioni, le diverse anime del manifesto. C'è molto poco gioco di squadra. Ci sono sezioni troppo chiuse in se stesse. E questo lo puoi vedere anche da come viene fuori il giornale. Per farti un esempio pratico, alle 10 di
sera magari una notizia che è rimbalzata
tutto il giorno tra Società ed Economia ti
accorgi che non ce l'ha nessuna delle due.
Questa secondo me è una cosa incredibile: un giornale di 18 pagine che non riesce
a coordinarsi. Il manifesto è un collettivo,
ma spesso sfugge un po' di mano. Alcune
volte questo può essere un pregio perché
ti porta anche ad avere notizie o a dare
spazio a fatti che le altre testate non considerano, altre volte però succede che notizie che ci devono essere non ci sono.
Quando sono entrato c'era molta più partecipazione e collaborazione. Adesso al
cosa mi sembra un po' più arida.
Un problema da risolvere per risollevare
il giornale.
Credo sia anche un fatto di generazione.
C'è una spaccatura tra "i vecchi", che
hanno fondato e portano avanti il giornale da quasi 40 anni, e chi arriva adesso e
vede che non è possibile lavorare come 40
anni fa. I lettori vogliono un altro tipo di
giornale e si vede questa dicotomia tra chi
è più conservatore e i più giovani. Alcune
sezioni sono ancorate in un passato un
po' troppo ideologico. Giusta l'ideologia
del manifesto, guai. Però i tempi cambiano e se adesso vendiamo a malapena
20.000 copie significa che dovremo fare
un giornale un pochino più fresco e più
nuovo in questo senso.
Proprio sulla vendita di copie. Secondo
te qual è stato l'errore o la strategia sbagliata?
La linea del giornale secondo me a volte
non è molto chiara. Conosco gente che
legge il manifesto e mi dice che alcune
Viene dalla scuola di Tor Vergata, a Roma
“Tante cose non vanno ma sono ottimista,
è impossibile che il manifesto non esca”
volte trovano un giorno una linea e il giorno dopo una diversa. Faccio l'esempio
del caso del rinnovo delle licenze per i tassisti a Roma, che ho seguito personalmente. L'argomento ce lo dividevamo
con Economia ma tra le due sezioni avevamo due visioni differenti ma che apparivano entrambe nelle nostre pagine.
Questo secondo me in un giornale come
il manifesto è un problema, non siamo il
Corriere della Sera. Il manifesto deve dare
una linea precisa e ferma. Abbiamo lettori molto esigenti sotto questo punto di vista, molto più degli altri.
Questo traspare anche dalle lettere che
arrivano ogni giorno in redazione dei
lettori confusi.
Esattamente, questo secondo me è im-
portante. Tenere una parte, che non significa giustificare tutto , ma comunque
avere una linea che sia quella. Il nostro è
un lettore attento, c'è un fenomeno incredibile delle lettere che arrivano anche
per una sola virgola fuori posto.
In conclusione, qui tutti la vedono nera.
Tu come la vedi?
Io sono sempre ottimista, non riesco a
immaginarmi il manifesto che non esce
in edicola, secondo me è impossibile. La
storia ultima ha dimostrato che ogni volta che ha paventato di non uscire più si è
mobilitato il mondo. Adesso poi con la sinistra fuori dal governo e dal parlamento
è una grossa scommessa, può ritornare a
esistere sul mercato editoriale e a essere
credibile.
ALL’ESTERO
Giornali dei redattori in crisi
il caso Le Monde
Un’altra redazione indipendente che rischia grosso, in Europa, è
quella di Le Monde, il prestigioso quotidiano francese. La Société
des rédacteurs du Monde (Società dei redattori) detiene la maggioranza delle azioni del giornale ma i motivi della crisi sono opposti a
quelli che mettono in difficoltà il manifesto. L’ex direttore Jean Marie
Colombani ha compiuto, durante i suoi mandati (è stato direttore dal
1994 al 2007), l’acquisizione di diverse testate locali e diverse attività anche di genere differente da quelle editoriali. Questo ha fatto
lievitare il debito del giornale che ora ammonta circa 150 milioni di
euro. La redazione ha più volte contestato (tra l’altro con il primo
sciopero della storia del quotidiano) il piano di ristrutturazione dell’azienda, che prevedeva un taglio di 130 unità tra cui 80 giornalisti: un
quinto della redazione.
9
il Ducato
DOSSIER
Crollo di lettori dei quotidiani della sinistra di pari passo con la crisi politica
Allarme “rosso” nella stampa
Le vendite di manifesto, Unità e Liberazione non arrivano, sommate, a 100.000 copie: il livello di guardia
L’analisi e il commento dei numeri.
Gabriele Polo:”La sinistra ha fallito
non ha più identità, è scomparsa”
Q
uota 100.000 è il livello di
guardia. Quando si scende al
di sotto per la sinistra scatta
l’allarme. Al di là del numero
tondo, che è solo una soglia
psicologi ca, la curva discendente della stampa “rossa”, quella
schierata a sinistra, ha preso, da alcuni
anni a questa parte, la via di un rapido
declino. Sono i dati a parlare: l’Unità, il
manifesto e Liberazione, insieme, non
raggiungono le 100.000 copie vendute
come media giornaliera (un sesto del
Corriere della Sera). La stima si basa sui
dati Ads (Accertamento diffusione
stampa) e della Fieg (federazione italiana editori di giornali). La flessione della
vendita della stampa quotidiana è un
fatto conosciuto, ma il fenomeno, nel
caso della sinistra, sembra più accentuato, soprattutto se paragonato ai quotidiani generalisti come il Corriere della
Sera o Repubblica. Entrambi hanno infatti subito oscillazioni attorno all’1%:
Repubblica in positivo, dal 2001 a oggi,
mentre il Corriere ha perso circa l’1,8%
di copie. Diverso è il discorso per la
Stampa, che ha visto un calo più consistente delle vendite nello stesso periodo: -17,26%.
Il confronto risulta impari anche prendendo in considerazione i quotidiani di
opposto orientamento come Libero o il
Giornale. I due giornali più rappresentativi del “lettorato” di destra hanno tenuto due andamenti contrastanti. Il
Giornale, di proprietà della famiglia
Berlusconi, ha ceduto, negli ultimi sette anni, il 5,78%, mentre l’incedere di Libero disegna una ripida curva verso l’alto: +280%.
“Le vendite dei giornali di sinistra diminuiscono perché i partiti di massa perdono sempre più presa e vengono sostituiti da nuove forme di aggregazione – è
l’opinione di Paolo Mancini, professore
Ordinario di Sociologia delle Comunicazioni alla Facoltà di Scienze Politiche
dell'Università di Perugia – a ciò si devono aggiungere internet e l’incremento della televisione”.
L’Unità dal 2001 ha subito un calo di
vendite di oltre il 23%, in picchiata da oltre 71.000 copie al giorno a poco più di
48.000. Il grafico mostra una linea abbastanza regolare nei primi anni 2000, per
farsi più ripida tra il 2004 e il 2006 e ammorbidirsi nell’ultimo anno.
Secondo Fabio Luppino, della redazione politica dell’Unità, la questione non
riguarda la sinistra in genere. Le tre testate vanno distinte nel loro percorso:
“Innanzi tutto ci sono troppi giornali,
c’è troppa dispersione. Bisognerebbe
puntare a un grande giornale di opinione, alternativo ai cosiddetti generalisti
come Repubblica e Corriere. L’Unità ha
una storia a sé, diversa da manifesto e
Liberazione”. Ma c’è anche un collegamento diretto con la politica. Un cordone ombelicale che però va allentato: “
L’Unità è il giornale che rappresenta i
Ds, ma ha cercato di interpretare in modo laico questo ruolo. Cerchiamo di
rappresentare tutto ciò che c’è a sinistra
perché ci vuole maggiore lettura e rappresentazione della realtà”.
Per il manifesto la situazione non è molto dissimile. Il calo delle vendite sembra
molto sensibile negli anni ’90, quando
la diffusione (che si calcola sommando
10
Sopra la tabella con le
vendite dei
principali
quotidiani,
in basso il
grafico con la
curva
discendente
delle vendite
di manifesto e
Unità (dati
Ads)
NB: i dati conteggiano le
copie
vendute in
edicola
e non tengono
conto degli
abbonamenti
In basso la
lavagna con le
vendite giornaliere del manifesto a Roma
Vendite
Testata
2004
2005
2006
2007
2008
Repubblica
Corriere
Libero
il Giornale
la Stampa
il Sole24Ore
l’Unità
il manifesto
569.271
597.879
58.193
200.008
292.276
189.973
63.932
28.834
570.467
591.518
71.484
200.385
266.319
184.465
59.191
29.670
565.337
579.229
127.064
201.654
268.066
208.754
48.902
23.703
565.697
578.807
126.390
200.224
268.295
207.500
48.237
23.561
564.355
579.008
125.410
196.049
266.835
205.449
46.895
22.832
le vendite, gli abbonamenti e le copie
gratuite) passa dai 36.000 del 1996 ai
30.000 del 2000. Dal 2001 al 2007, secondo i dati Ads, le vendite sono invece
calate di oltre il 23%, da 32.400 a 23.500.
Unico dato in controtendenza è quello
del 2005, l’anno del rapimento di Giuliana Sgrena in Iraq. La momentanea risalita delle vendite del manifesto è dovuta forse alla grande esposizione mediatica seguita al sequestro e liberazione della giornalista. A questo si è in seguito aggiunto il tragico epilogo, con la
morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari e le polemiche accese dall’incriminazione del militare statunitense Mario
Lozano.
Il crollo delle testate della sinistra, se-
condo Gabriele Polo, direttore del manifesto, è una questione tutta politica: “I
giornali della sinistra vendono meno
perché la sinistra non c’è, è scomparsa.
Benché vada con un cartello elettorale
non ha un’identità, non ha una credibilità, non ha una sua visibilità e non ha
intrapreso un percorso di rifondazione
vero, che si ponga come alternativa di
sistema e quindi i giornali politici ne risentono”.
Per quanto riguarda Liberazione, organo del partito di Rifondazione comunista, non si hanno dati Ads per realizzare
una serie storica di confronto e l’amministrazione del quotidiano non acconsente alla loro diffusione. Il sito della
Fieg (Federazione italiana editori di
giornali) riporta solo due cifre, riferibili
forse all’anno in corso o, con più probabilità al 2006. Tiratura: 60.000 copie Diffusione: 27.000. Le vendite, considerata
la diffusione pari a quella del manifesto,
si dovrebbero attestare più o meno sui
livelli dei “cugini”, poco sopra le 20.000
copie.
Anche per Liberazione si può ipotizzare,
comunque, un calo delle vendite in relazione alla tendenza generale. Lo conferma anche Antonella Marrone, della
redazione politica del quotidiano: “Il
calo c’è e si sente, ma penso che per Liberazione sia più contenuto degli altri
due. I giornali politici, certo, sono molto legati al periodo. Bisogna ammettere
però che la politica sta perdendo appeal, anche in quella parte generalmente più consapevole e impegnata. Il lettore motivato del manifesto e Liberazione comunque continua a comprare, bisogna però arrivare anche “fuori dall’area” dove si possono trovare nuovi lettori e nuovi interessi”.
“Questi giornali non forniscono più le
informazioni che sono necessarie ad
agire nella società – spiega ancora Mancini - la notizia importante non sta né
sull’Unità né sul manifesto ma sul Sole
24ore. Allo stesso modo per valutare e
interpretare la situazione politica servono il Corriere e Repubblica. Quelli della sinistra sono nati come organo di partiti di massa (in questo caso il Pci poi Pds
e Rifondazione ndr), ma sono gli stessi
partiti che non esistono più come forma
di aggregazione, almeno non nell’accezione che avevano una volta”.
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