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Diabete: cinquant’anni di progressi
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Dai test per misurare la glicemia, ai farmaci, ai kit per l’iniezione: negli ultimi tempi tutto è
cambiato per i malati. Per fortuna, in meglio
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Giovanna Dall'Ongaro
Mercoledì 10 Giugno 2015, 00:01
Quando Michael Brownlee, ora stimato medico e professore al Diabetes Research
Center dell’Albert Einstein College of Medicine di New York, decise di iscriversi
alla facoltà di Medicina faticò a venire ammesso. E non certo per i suoi voti, ma
perché «non sarebbe stato in grado di praticare la medicina a lungo. Meglio dare
l’occasione a qualcuno con un’aspettativa di vita normale». Il cinico ragionamento
si basava su calcoli statistici: intorno agli anni Sessanta del secolo scorso
solamente il 50% dei diabetici di tipo 1 viveva fino a quaranta, cinquanta anni. E
con una diagnosi ricevuta all’età di 8 anni anche Michael Brownlee avrebbe dovuto
seguire lo stesso triste destino.
Per fortuna però i progressi nella terapia e nella ricerca hanno smentito le
previsioni permettendo allo stesso Brownlee di contribuire a migliorare la qualità
di vita dei diabetici. Perché? Cosa è cambiato per i malati negli ultimi
cinquant’anni? Dai sistemi per misurare la glicemia, alla varietà dei farmaci
prescritti, alla possibilità di prevenire le complicanze, quasi tutto oggi è diverso da
come era mezzo secolo fa. Al confronto tra la situazione attuale e quella del passato
è dedicata una parte del 75° incontro annuale dell’American Diabetes Association.
Il professor Enzo Bonora presidente della Società Italiana di Diabetologia ci aiuta a
ripercorrere, punto per punto, i principali progressi delle ultime cinque decadi.
I test per la glicemia
«Cinquant’anni fa i pazienti diabetici potevano misurare il livello di glucosio nel
sangue esclusivamente in laboratorio. Solamente all’inizio degni anni Ottanta si è
passati ad apparecchi domiciliari, che però erano voluminosi e poco precisi. In
seguito ne sono stati prodotti di più affidabili, facili da gestire e sofisticati, che non
si limitano a indicare i valori al momento della misurazione ma che forniscono
altre utilissime informazioni. Come i valori medi della glicemia per un lungo
periodo o le variazioni nell’arco della giornata. Queste notizie sono fondamentali
per calibrare nel modo migliore la terapia a beneficio del paziente, per ridurre le
complicanze della malattie, ma anche per contenere il più possibile la spesa
sanitaria», spiega Bonora.
Se guardiamo all’Italia, la necessità di ridurre le spese è giustificata dai dati: le
persone che hanno ricevuto una diagnosi di diabete sono quasi 4 milioni e almeno
un altro milione si stima non sia stato diagnosticato, per un totale di 5 milioni (uno
ogni 12 persone). In oltre il 90% dei casi noti e in tutti i casi ignoti si tratta di
diabete tipo 2. Non tutti i diabetici misurano la glicemia con la stessa frequenza e il
numero di strisce fornite dal Sistema Sanitario Nazionale di cui hanno bisogno per
testare il campione di sangue varia da caso a caso.
Alla luce di questi dati, l’unico modo per avere cure efficaci spendendo meno è
differenziare la terapia, determinando il numero di misurazioni appropriate.
«Se si assumono farmaci che non causano ipoglicemia il numero di misurazioni
può stare sotto le 100 all’anno, un paio alla settimana, se si assumono farmaci orali
che possono causare ipoglicemie le misurazioni devono essere almeno 200
all’anno circa 4 alla settimana, se si fa terapia insulinica con una sola iniezione al
giorno le misurazioni devono salire ad almeno una al giorno e se si fa terapia
insulinica con 2 o più iniezioni al giorno le misurazioni diventano da 2 a 6 al
giorno», spiega Bonora.
Differenziare l’offerta in base alle diverse esigenze, dopo avere individuato un
limitato ventaglio di condizioni cliniche, è il principio a cui si è ispirata di recente
la Regione Veneto.
Come si misura la glicemia? Ai diabetici di cinquant’annni fa gli apparecchi di
ultima generazione sembrerebbero invenzioni fantascientifiche: sofisticati
computer capaci di archiviare dati e condividerli in remoto su piattaforme web
consultabili da specialisti che si trovano a chilometri distanza dal paziente, oppure
sensori sottocutanei che garantiscono un monitoraggio continuo, utili nei casi in
cui i livelli di glucosio siano particolarmente instabili, collegati via bluetooth a
telefonini o tablet su cui leggere i dati. Rispetto a un test del sangue come quello
dell’emoglobina glicata A1C che fornisce un parametro indicativo dell’andamento
medio degli ultimi tre mesi, questi strumenti hanno il grande vantaggio di
fotografare i picchi rapidi, gli abbassamenti e i rialzi improvvisi dei valori di
glucosio.
Prevenire le complicanze
Ce ne sono di acute come la chetoacidosi nel diabete di tipo 1 (dovuta a grave
carenza di insulina) oppure di croniche, comuni a entrambi i tipi di diabete, come
la nefropatia, la retinopatia, la neuropatia o i problemi cardiovascolari. Le
complicanze del diabete possono anche condurre a cecità, insufficienza renale con
necessità di dialisi o trapianto, a infarto e ictus. Prima del 1993 queste condizioni
venivano considerate specifiche conseguenze della patologia, ma non era
chiarissimo il legame con i valori glicemici elevati. I risultati dello studio Diabetes
Control and Complications Trial (DCCT) pubblicati quell’anno sul New England
Journal of Medicine fecero chiarezza. Ora sappiamo che i problemi alla vista o il
malfunzionamento renale, come gli altri disturbi, dipendono dal livello di glucosio
nel sangue: mantenendo i valori il più possibile vicino alla normalità il rischio di
andare incontro a quelle complicanze si riduce di molto.
«Da quello studio in avanti i dubbi sono diventati certezze e gli obiettivi terapeutici
sono diventati più ambiziosi. Tenere le glicemie quanto più vicino possibile alla
norma riduce fortemente il rischio di complicanze croniche. Ecco perché il vero
successo della cura sta nel saper fornire informazioni precise sui valori della
glicemia. Più che per altre malattie, nel caso del diabete, il paziente è il vero
protagonista della terapia. Conoscere e comunicare i valori esatti è fondamentale
per poter impostare la terapia più appropriata, sia essa basata su pastiglie o
iniezioni», commenta Bonora.
L’insulina
Tutto ruota intorno a lei, l’insulina: l’ormone prodotto dal pancreas che regola la
glicemia nel sangue. Chi è affetto da diabete di tipo 1, malattia di origine
autoimmune che distrugge le cellule del pancreas che producono insulina, deve
necessariamente compensare la mancata produzione dell’ormone con iniezioni più
volte al giorno, in genere quattro.
In questi casi la mancanza di insulina è assoluta. I diabetici di tipo 2, per lo più in
sovrappeso, con uno stile di vita sedentario e un’alimentazione scorretta,
continuano a produrre insulina anche se in modo non sufficiente alle necessità
dell’organismo. La mancanza di insulina, in questo caso, è relativa.
Per il diabetico di tipo 1 la terapia insulinica è un trattamento salva-vita, ma anche
per il diabetico di tipo 2, a cui inizialmente sono somministrati farmaci orali,
consigliata una dieta e il quotidiano esercizio fisico, con l’avanzare degli anni
quella stessa terapia diventa indispensabile perché la produzione di insulina tende
a calare sempre più. In Italia un diabetico tipo 2 su quattro è in terapia con
insulina, spesso con una sola iniezione al giorno. Negli ultimi anni i sistemi per
assumere questo ormone si sono evoluti: dalle iniezioni tradizionali si è passati alla
“penna” insulinica e a pompe in miniatura che erogano in continuo insulina a varie
velocità, chiamate microinfusori. Anche la composizione stessa dell’insulina è
stata più volte “aggiornata”.
«Negli ultimi anni abbiamo assistito a grandi cambiamenti per quanto riguarda i
farmaci utilizzati dai diabetici. Fino a una ventina di anni fa l’insulina a
disposizione era di origine animale, estratta dal pancreas di mucche o maiali. Poi si
è riusciti a ottenere insulina umana grazie all’ingegneria genetica sfruttando la
sintesi dei batteri», ricorda Bonora.
A Sol Sobel direttore della Endocrine Division della FDA che nel 1982 firmò
l’autorizzazione al commercio dell’insulina sintetica non era sfuggita l’importanza
dell’evento: «Eccetto il mio atto di matrimonio, questo è il documento più
importante che abbia mai firmato», aveva commentato.
Da quel momento in poi la produzione di insulina si è specializzata sempre più
permettendo lo sviluppo degli analoghi dell’insulina, molecole modificate per
diventare ancora più rapide o molto lente nell’effetto, capaci di garantire sia una
buona copertura nelle 24 ore che in occasione dei pasti.
«Cinquant’anni fa esistevano 4/5 tipi di insulina, ora ce ne sono 13 capaci di agire
in modo mirato, solo nel momento del bisogno. Quelle rapide coprono l’esigenza
del pasto, mentre le lente servono a garantire che per tutta la giornata ci sia quella
certa quota di insulina che è necessaria per evitare che la glicemia salga troppo.
Anche per i farmaci orali si sono fatti molti progressi. Un tempo ne esistevano due
classi, oggi ce ne sono 7 che in certi casi hanno più principi attivi non del tutto
sovrapponibili»”, conclude Bonora.
Tanti progressi, ma ancora molta strada da fare. E Fred Whitehouse, direttore
emerito di Dipartimento alla Henry Ford Health System di Detroit, non può fare a
meno di ricordare al meeting dell’American Diabetes Association che «ciò che
vuole la gente è guarire dal diabete ma la guarigione ancora non è possibile».
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