CROI 2002 - Nadir Onlus

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Spedizione in A.P. - art.2
comma 20/c
legge 662/96
Reg.Trib. Roma n.373
del 16.08.2001
n.4
Primavera 2002
Rivista di Informazione sull’HIV
CROI 2002
SEATTLE
IT’S A LONG WAY...
’ stata la frase ripetuta in varie occasioni con cui Jorma
E
Koskinen, membro dell’EATG, ha aperto la Conferenza ECCATH
di Atene lo scorso mese di ottobre. Si riferiva al lungo cammino
che hanno affrontato e che debbono affrontare le persone con HIV
per convincere i ricercatori, i medici, le industrie, le istituzioni, ad
ascoltarne la voce, le richieste, le esigenze, le necessità.
In questi mesi un ulteriore passo avanti è stato compiuto:
Boehringer Ingelheim Italia e Abbott International hanno invitato,
rispettivamente il 10 gennaio a Roma e il 7 febbraio a Tenerife, due
membri di Nadir (Mauro Guarinieri e Filippo von Schloesser) a presentare le “Patients Perspectives” alle rispettive forze di marketing e vendita.
Abbiamo descritto la nostra visione del ruolo che in una patologia
come quella dell’HIV svolgono associazioni come EATG e NADIR
ed in particolare il paziente informato che partecipa alle scelte
terapeutiche che riguardano la propria salute: uno dei cateti del
triangolo medico/terapia/paziente.
Abbiamo descritto le difficoltà nell’assunzione dei farmaci ART e
HAART, salvataggio, rescue o GIGHAART, dei rischi di fallimento,
dei rischi di resistenza, di quelli degli effetti collaterali che diventano sempre meno gestibili con l’avanzare dell’età e con gli anni di
terapia. Abbiamo anche ipotizzato un farmaco “ideale”, privo di
effetti collaterali, in un dosaggio semplice con un’AUC così alta
che non vi siano rischi di fallimento e di resistenza.
Abbiamo chiesto aiuto a capire il linguaggio, spesso complesso
dell’industrie farmaceutiche, a volte non in linea con le urgenze dei
pazienti o con l’impegno sociale che ci dichiarano le industrie che
producono farmaci salvavita.
Le forze vendita dell’industrie ci hanno confermato che le nostre
presentazioni sono state fondamentali per permettere loro di capire che cosa succede nella quotidianeità delle persone che assumono farmaci e al di là di quello che sono i brevi incontri con i
medici dei centri clinici a cui essi si rivolgono.
Desideriamo ringraziare Abbott International e Boehringer
Ingelheim per la sensibilità dimostrata nel coinvolgerci in un
momento di formazione interna.
NADIR
IN QUESTO NUMERO
IT’S A LONG WAY - editoriale - NADIR
HIV, SISTEMA SCHELETRICO E HAART
Marco Bordieri
1
HIV E USO DI STEROIDI ANABOLIZZANTI
2
PATOLOGIE PSICHIATRICHE E ABUSO DI SOSTANZE
IN PERSONE CON HIV
Starace, Ciafrone, Nardini
14
3
CROI: CONFERENCE OF RETROVIRUSES AND
OPPORTUNISTIC INFECTIONS
ASSISTENZA RIPRODUTTIVA A COPPIE CON HIV
Hollander, Vucetich,
Mor, Semprini
HIV e CUTE - parte II
Carla Valenzano
10
Guarinieri, Osorio, Schloesser
13
16
IL VACCINO ANTI - TAT dell’I.S.S.
BOCCA E HIV
David Osorio
Cristian Davi’ - Iuri Bedini
12
Simone Marcotullio
20
HIV, SISTEMA SCHELETRICO e HAART
(La nuova sfida)
Marco Borderi
Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale
Sezione di Malattie Infettive - Università degli Studi di Bologna
Policlinico S.Orsola-Malpigh - Bologna
Esperienze del passato
mpegnata in un confronto quotidiano con le tante
Iproblematiche legate a tossicità, aderenza agli sche-
mi terapeutici, rischio di farmacoresistenza o minaccia
di lipodistrofia, la persona con infezione da HIV è
generalmente portata a pensare al metabolismo osseo
come a quel bellissimo e indispensabile complesso
delle trasformazioni attraverso le quali il proprio sistema scheletrico ogni giorno continuamente si conserva
e si rinnova, rara oasi serena al riparo dalle tante quotidiane potenziali aggressioni da parte del virus o degli
antiretrovirali.
Ad un’analisi più attenta, però, proveniente sia dallo
studio della letteratura specialistica più recente in
merito sia da un colloquio ed una collaborazione più
intensa fra medico e paziente, alcuni segnali ci avvertono che fra le pagine del sempre più ampio e voluminoso vocabolario delle complicanze legate all’infezione
da HIV e/o al suo trattamento si stanno silenziosamente inserendo (minacciosi e inattesi) nuovi termini
come osteopenia, osteoporosi ed osteonecrosi, con
etimi certamente non rassicuranti.
Poros’ è, infatti, un passaggio, una rarefazione (dell’osso); ‘necrosis’ è addirittura la morte cellulare, un
processo quindi come tale irreversibile. Possiamo pertanto ragionare, più o meno intelligentemente, sulla
reversibilità del prestito lipodistrofico o sulla redimibilità del danno morfologico, ma dobbiamo sapere che
dall’osteonecrosi non vi è ritorno.
L’osteoporosi, come ben noto, è un’importante malattia metabolica del sistema scheletrico caratterizzata
da una riduzione progressiva della massa ossea e da
un concomitante sovvertimento microarchitetturale
‘
della struttura stessa dello scheletro, che predispone
ad un elevato rischio di fratture in seguito a traumi di
minima entità. Negli ultimi anni, dopo l’avvento della
terapia HAART, è sempre più frequente il riscontro di
persone con infezione da HIV che presentano una riduzione della massa ossea e una contemporanea disorganizzazione strutturale della colonna vertebrale, con
scomparsa prima delle trabecole orizzontali (vertebra
‘a palizzata’), e poi di quelle verticali (vertebra ‘in cornice’), ed un aumento di fratture spesso in assenza di
traumi evidenti. Un aspetto peculiare da rilevare infatti è che solitamente le fratture vertebrali (soprattutto
dorso-lombari) non si presentano con una chiara sintomatologia dolorosa, ma si caratterizzano invece da
una lenta deformazione del corpo vertebrale (con
diminuzione fino al 20% della sua altezza), in assenza
di un evento fratturativo improvviso, con progressiva
cifosi a largo raggio, dolenzia alla schiena o ai fianchi
per contrattura riflessa antalgica dei muscoli paravertebrali sollecitati in modo anomalo che, anche se
segnalata dal paziente, a volte rischia di essere sottovalutata o difficilmente diagnosticata dal medico. Oggi
ben sappiamo che la relazione tra osteoporosi e
rischio di fratture è nettamente superiore a quelle ben
più celebri esistenti tra ipercolesterolemia e rischio
d’infarto del miocardio, o tra ipertensione arteriosa e
rischio d’ictus; ciò nonostante, si ha come l’impressione che la portata del problema non sia stata ancora
colta nella sua piena entità, nonostante le migliori
conoscenze sulle alterazioni metaboliche e le sempre
più numerose segnalazioni in merito che già da qualche anno sono riportate.
Esperienze
ome vedremo in seguito, già dal 1990 ci sono state
Cmolte segnalazioni sui potenziali seri rischi in propo-
sito, a posteriori certamente non sopravvalutate.
Fra i diversi autori che hanno scritto sul metabolismo
osseo, quello che più di tutti ha avuto il merito di fare
affiorare (o per lo meno di rendere meno sommerso) il
problema è stato forse Pablo Tebas, il cui cognome
riporta automaticamente e inevitabilmente il pensiero (e
la memoria) alla città greca di Tebe, famosa dall’antichità per una donna e un enigma.
La domanda che la Sfinge ora pone alla nostra intelligenza, e che nessun emule d’Edipo ha ancora saputo
risolvere, è la seguente: è l’HIV o l’HAART a ferire il
sistema scheletrico?
Rispondere a questo quesito non è pura e semplice
accademia, perché le implicazioni pratiche che ne conseguono sono non solo dissimili, ma diametralmente
opposte.
Da un punto di vista strettamente etimologico, i due
imputati possono essere entrambi parimenti colpevoli, in
quanto ‘farmacos’ è un termine greco che significa veleno, e ‘virus’ una parola latina per indicare un veleno.
Pertanto lo scontro fra un farmaco e un virus è sempre
la lotta fra due veleni, e in questo caso il campo di battaglia è lo scheletro di una persona con infezione da HIV.
Vediamo ora una rassegna in ordine temporale dei
momenti principali e dei protagonisti nella cronaca
ormai più che decennale di questa storia.
1990
Emblematicamente, la prima segnalazione del potenziale pericolo non arriva da un infettivologo, bensì da un patologo molecolare tedesco, Werner Mellert, che studia da anni la suscettibilità in vitro all’HIV di diverse linee cellulari,
ed ha già all’attivo in questo senso alcuni lavori sul Sistema Nervoso Centrale (SNC). Sulla scia di Tateno e di
Werner, nel 1990 a Monaco Mellert dimostra che sia i fibroblasti sia gli osteoblasti sono potenziali bersagli target
dell’HIV, chiamato ancora spesso nell’articolo, vista l’acerbità dell’era, HTLV-III. Poi, Mellert tornerà ai suoi ‘mice’ di
laboratorio e agli esperimenti sul SNC, ma l’eredità che ci consegna è preziosa: l’HIV è in grado di infettare direttamente l’osteoblasto.
1993
Hernandez Quero è un infettivologo spagnolo che si occupa per lo più di leishmaniosi, epatite da HCV ed infezioni
polmonari. Nel 1993 a Granada decide però di andare a studiare gli indicatori ematici e urinari del turnover osseo, e
dimostra una significativa riduzione dello stesso nelle persone con infezione da HIV. Da qui Hernandez Quero congettura, senza l’autorizzazione di Mellert, che alla base delle ridotta attività osteoblastica vi possa essere un’aumentata produzione di citochine.
2
1995
Serrano è un eclettico patologo spagnolo che da molti anni studia il sistema scheletrico. Nel 1995 a Barcellona, esegue quello che a tutt’oggi rimane il più elegante e vasto studio istomorfometrico sul problema: mediante doppia marcatura tetraciclinica, Serrano dimostra che la riduzione del turnover osseo segnalata da Hernandez Quero non avviene
(come nell’osteoporosi primitiva) per un ridotto reclutamento osteoblastico, bensì per una riduzione della quantità
media di matrice ossea prodotta da ogni singolo osteoblasto. Patologo come Mellert, e spagnolo come Hernandez
Quero, Serrano aggiunge un elemento importante a sostegno dell’ipotesi di un’infezione diretta dell’osteoblasto da
parte dell’HIV, con conseguente alterazione funzionale.
1997
Nicolas Paton è un infettivologo inglese che da tempo lavora sul metabolismo, sulla composizione corporea e sulla
bioimpedenziometria. Nel 1997 a Londra dimostra che il danno osseo è prevalente sulla colonna vertebrale a livello dl
L1-L4, ove maggiore è la componente d’osso trabecolare, al quale compete più dell’80% dell’omeostasi metabolica del
calcio. Successivamente Paton si dedicherà anche allo studio della sindrome lipodistrofica nelle persone asiatiche
(Antiviral Therapy, 2000), che ha probabilmente qualche momento eziopatogenetico comune con l’alterazione metabolica ossea.
1998
Haug, internista norvegese, studia da anni i micobatteri e il metabolismo della vitamina D, pertanto trova naturale esaminare più a fondo la riduzione degli indici di turnover osseo descritta tre anni prima da Hernandez Quero. Nel 1998
ad Oslo Haug dimostra: 1) una riduzione dei livelli plasmatici della Vitamina D parallela al progredire dell’infezione da
HIV, 2) una diminuzione dei livelli plasmatici d’osteocalcina (indice importante di neoformazione ossea, insieme all’isoenzima osseo della fosfatasi alcalina), 3) una correlazione diretta con la diminuzione dei CD4+, 4) un aumento del
Tumor Necrosis Factor. Haug andrà avanti su quest’ipotesi e, l’anno successivo, insieme con Aukrust, dimostrerà negli
stessi pazienti una ripresa significativa di questi parametri dopo terapia HAART.
1999
Nel corso di quest’anno, Joseph Kovacs al convegno sulla nutrizione di Cannes, ma anche il tedesco Meyer, il canadese Daniel Johns, lo statunitense Timpone ed altri, segnalano l’aumento imprevisto di casi di necrosi ossea avascolare
(AVN) a carico della testa del femore, anche bilateralmente, nelle persone con infezione da HIV. Ma anche qui, a ben
guardare, già dal 1990 reumatologi (lo svizzero Gerster, lo spagnolo Belmonte, lo statunitense Rademaker), ortopedici (il francese Chevalier, lo statunitense Stovall) ed altri ancora ne avevano descritto casi. Le correlazioni interessanti
trovate erano essenzialmente due: la presenza d’anticorpi antifosfolipidi e soprattutto l’ipertrigliceridemia.
Sempre nel 1999, Cunney (un microbiologo irlandese che da Dublino si è trasferito a Hamilton, in Canada) pubblica un
importante lavoro in cui correla il danno osseo ai bassi livelli sierici di testosterone (dato poi non confermato da Tebas,
e sul cui cut-off non c’è accordo unanime) e soprattutto, dato esplicitato per la prima volta, all’uso di regimi contenenti
inibitori della proteasi (PI).
2000
Pablo Tebas è un infettivologo spagnolo di Madrid che nel 1994 si trasferisce alla Washington University di St. Louis
(la stessa della Rita Levi Montalcini) nel gruppo di William Powderly, e comincia a pubblicare lavori quasi tutti sui PI.
Anticipato da un abstract alla Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections di San Francisco, esce su AIDS
il celebre e discusso lavoro in cui i pazienti in terapia con regimi contenenti PI presentano percentuali maggiori d’osteopenia, sia a livello lombare (osso trabecolare) che femorale (osso corticale). Sempre Tebas, su Antiviral Therapy,
segnala negli stessi pazienti un aumento degli indici di turnover osseo, contrariamente quindi a quanto descritto precedentemente da Hernandez Quero e da Haug.
Weiel e Lenhard contesteranno duramente questi dati su AIDS, ponendo l’accento sulle modeste dimensioni del campione, l’assenza di un dato di baseline e, soprattutto, di un’analisi inter- ed intra-classe, necessaria per distinguere le
diverse responsabilità dei farmaci utilizzati. La risposta di Tebas, sempre su AIDS, sarà molto diplomatica: egli dirà di
non aver attribuito la responsabilità dell’osteopenia ai PI, ma di avere semplicemente osservato una maggior frequenza di ridotta densità minerale ossea (BMD) nei pazienti sottoposti a regimi contenenti PI.
Adriana Dusso è una nefrologa della stessa Università di Tebas, la Washington University di St. Louis, e da tempo studia il metabolismo della vitamina D. La Dusso osserva che i PI inibiscono in vitro l’attività dellaa-1-idrossilasi renale
(della famiglia del citocromo P450), con conseguente blocco del ciclo della vitamina D. Come avviene in vivo, quest’inibizione è maggiore per ritonavir>indinavir>nelfinavir.
Tebas nota che esiste una correlazione fra osteopenia e lipodistrofia, ma a suo avviso non statisticamente significativa, come se si trattasse di due complicanze indipendenti della terapia con regimi contenenti PI, e confermerà l’osservazione alla Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections di Chicago l’anno successivo. Due ricercatori
australiani, però, non sono d’accordo: David Nolan, di Perth, ritiene che vi sia significatività statistica, e Hoy, di
Melbourne (estendendo un follow-up già anticipato alla Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections di
San Francisco), aggiunge un dato molto interessante, l’assenza di miglioramento dell’osteopenia dopo la sostituzione
del PI, lasciando supporre quindi la possibile responsabilità degli inibitori nucleosidici della trascriptasi inversa (NRTI)
nell’eziopatogenesi dell’alterazione ossea.
Andrew Carr, del St. Vincent’s Hospital di Sidney, divenuto celebre per l’ipotesi eziopatogenetica che legherebbe i PI
alla lipodistrofia (per omologia fra la regione catalitica dell’HIV e le due proteine CRABP-1 e LPR), parte dall’osservazione di Hoy per dimostrare, all’analisi multivariata, che l’osteopenia è correlata in misura statisticamente significativa
al basso Body Mass Index pre-terapia e, soprattutto, agli alti livelli plasmatici d’acido lattico. Carr si avvicina così all’ipotesi eziopatogenetica di Brinkman che legherebbe gli NRTI alla sindrome lipodistrofica (per inibizione della DNA-polimerasi-g mitocondriale), ma non spiega ancora il meccanismo con cui l’alta lattatemia possa provocare l’osteopenia.
Graham Moyle, del gruppo di Gazzard del Chelsea and Westminster Hospital di Londra, riscontra all’opposto un effetto protettivo dell’HAART sulla massa ossea, con una minor percentuale d’osteopenia nei soggetti trattati rispetto ai
naive, in sintonia quindi con le precedenti osservazioni di Haug e Aukrust.
Non mancano, ovviamente, nel 2000 le segnalazioni sull’osteonecrosi (AVN): Glesby a New York ne descrive 14 casi,
Clumeck a Bruxelles 5, Roudiere a Parigi 7, e vi sono segnalazioni anche di Scribner su AIDS, di Low alla Conference
3
on Retroviruses and Opportunistic Infections di San Francisco, di
Brown al 38th Annual Meeting of the IDSA di New Orleans. Fra le
tante responsabilità sospettate (PI, ipertrigliceridemia, lipodistrofia,
immunoricostituzione), la sola associazione statisticamente significativa rilevata è con una pregressa polmonite da Pnemocysti Carini
(PCP), verosimilmente trattata con corticosteroidi.
Henry Masur, ricercatore del National Institute of Health (NIH) di
Bethesda, studia con risonanza magnetica nucleare 339 persone con
infezione da HIV asintomatica e, al 38th Annual Meeting of the IDSA
di New Orleans, l’8 Settembre descrive il riscontro di ben 15 casi di
AVN in fase iniziale, ancora asintomatica, con un’incredibilmente alta
percentuale del 4.4%. Le correlazioni che Masur trova sono: l’uso di
farmaci ipolipemizzanti per l’ipertrigliceridemia, la terapia con testosterone o corticosteroidi, la pratica del body-building. Non nota invece alcun legame con i valori di CD4+ o col progredire dell’infezione.
L’altissima prevalenza riscontrata da Masur suscita molto scalpore,
tanto che la notizia è subito ripresa il giorno dopo da Lawrence
Altman, editorialista del New York Times.
biscono la DNA-polimerasi-g mitocondriale, portando ad un aumento
dei livelli sierici dell’acido lattico, conseguente acidosi metabolica e
rimozione di basi dall’osso, sistema tampone necessario per mantenere l’equilibrio acido-base. I limiti del lavoro di Carr sono da lui stesso denunciati: si tratta di uno studio non prospettico né randomizzato, su pazienti tutti di sesso maschile, senza un gruppo di controllo, e
con esami densitometrici (DEXA) di solo total body.
Jeannie Huang, endocrinologa di Boston, parte dalle osservazioni di
Nolan e Hoy sulla correlazione fra osteopenia e lipodistrofia, e trova
una densità minerale ossea inversamente proporzionale all’accumulo
di tessuto adiposo viscerale, a tal punto da farle pensare che sia proprio l’accumulo di tessuto adiposo nel midollo osseo a provocare le
anomalie dell’osteogenesi. La Huang, però non trova una responsabilità diretta da parte dei farmaci; anzi, i pazienti trattati con regimi
contenenti NNRTI avrebbero addirittura una densità minerale ossea
superiore a quella riscontrata nei soggetti naive.
Altri dati pubblicati su AIDS nel corso del 2001 sono estremamente
contrastanti: Adeyemi Lawal, a New York, trova le stesse percentuali di osteopenia fra epoca pre- e post-HAART, dato confermato da
Hernando Knobel a Barcellona. David Nolan, a Perth, osserva che i
pazienti in terapia con regimi contenenti indinavir hanno addirittura
una BMD superiore a quella riscontrata nei soggetti naive. Antonia
Moore, a Londra, come Cunney e Tebas nota una correlazione statisticamente significativa fra uso di PI e ridotta BMD.
Inoltre il Clinical Infectious Diseases pubblica due lavori sull’AVN, e
su Antiviral Therapy sono raccolti i sei studi e la comunicazione orale
del gruppo di Tebas sull’istomorfometria, presentati al 3rd
International Workshop on Adverse Drug Reaction and Lipodystrophy
in HIV di ottobre ad Atene.
2001
Soltanto quattro mesi dopo l’osservazione di Masur, alla Conference
on Retroviruses and Opportunistic Infections di Chicago (e successivamente su JAIDS) Jeanne Keruly descrive 17 casi di AVN a
Baltimora, pone l’accento sull’aumento dell’incidenza ma, a differenza di Masur, trova una correlazione statisticamente significativa con
bassi livelli di CD4+ e lunga durata d’infezione da HIV.
Andrew Carr su AIDS tenta di spiegare quanto aveva precedentemente descritto su Antiviral Therapy e alla Conference on
Retroviruses and Opportunistic Infections: a suo avviso gli NRTI ini-
CAVEATS (La realtà capovolta)
non permettono di valutare l’entità del turnover scheletrico, definibile solo dal dosaggio ematico o urinario dei markers rilasciati
durante la neoformazione od il riassorbimento del tessuto osseo, e
non tutti gli studi hanno preso in considerazione le alterazioni del
metabolismo calcio-fosforo e dei markers del turnover osseo.
4) I limiti legati al breve tempo di osservazione: a) la sequenza delle
varie fasi del rimodellamento osseo (attivazione>riassorbimento>formazione) richiede almeno 100 giorni, b) il 10% dello scheletro è continuamente sede di rimodellamento attivo, c) occorre 1
anno perché la mineralizzazione ossea sia completa, d) lo scheletro
necessita complessivamente di 8-10 anni per essere completamente rinnovato, e) a partire dai 40 anni di età l’attività degli osteoblasti non è più sufficiente per colmare le lacune scavate dagli osteoclasti, perciò si verifica sempre un bilancio scheletrico negativo con
perdita di massa ossea. Se consideriamo allora che l’HAART è
comunemente impiegata da non più di cinque-sei anni, e che l’età
media delle persone con infezione da HIV si sta elevando costantemente, è verosimile che il problema osseo assuma un’entità di primaria importanza nei prossimi due-quattro anni. Sarebbe pertanto
doloso farsi trovare allora impreparati di fronte a questo nuovo
aspetto correlato all’infezione da HIV e/o al suo trattamento.
e conclusioni cui sono pervenute gli studi appena elencati posso-
Lno a prima vista apparire discordanti o persino contraddittorie, e
ricordare la celebre rassegna sulla lipodistrofia che Sharon Safrin
pubblicò su AIDS nel 1999 analizzando allora dodici studi di autori
diversi, ma in realtà occorre considerare attentamente alcuni parametri fondamentali:
1) Le caratteristiche del campione esaminato: in alcuni studi i
pazienti sono tutti uomini giovani, mentre in altri si tratta di gruppi
misti di età diverse; nello studio di Tebas, ad esempio, il gruppo in
terapia con inibitori della proteasi ha un’età media di 41 anni vs. 33
degli altri (dopo il raggiungimento del picco di massa ossea inizia
una graduale e progressiva riduzione della BMD, che ammonta ad
una perdita dello 0,5-1 % per anno), spesso non è descritto come
sono scelti i pazienti e i controlli, e non è mai valutato l'intake alimentare del Calcio.
2) Le caratteristiche dei controlli: in alcuni studi i risultati sono rapportati ai valori standard della taratura delle macchine densitometriche utilizzate, e non ad un reale gruppo di controllo.
3) I limiti dell’indagine densitometrica: i dati ottenuti usando la densitometria a raggi X (DEXA-Dual X-ray Absorptiometry) determinano bene la BMD e predicono il rischio di frattura da osteoporosi, ma
Alla luce della letteratura citata e di queste ultime considerazioni, si può pertanto affermare che verosimilmente la genesi dell’alterazione ossea nelle persone con infezione da HIV è un fenomeno multifattoriale che riconosce momenti eziopatogenetici differenti, potendo ricondursi:
- direttamente all’HIV, con ingresso del virus nelle cellule ossee, conseguente alterazione dei normali processi citologici,
e riduzione del turnover osseo
- all’uso degli antiretrovirali, che possono alterare processi metabolici coinvolti, a vari livelli, nella regolazione
del turnover osseo, con conseguente aumento dello stesso
- ad alterazioni del sistema immunitario che accompagnano il controllo efficace sul virus
(citochine prodotte da linfociti T attivati)
- a tutti e tre i meccanismi insieme.
Appare quindi chiara la necessità di studi longitudinali, condotti su casistiche il più ampie possibili, volti alla valutazione:
- della densità minerale ossea (non solo la DEXA, ma anche la TAC, che distingue tra componente corticale e spongiosa
dell’osso, riesce a quantificare il contenuto minerale a livello dell’osso trabecolare delle vertebre)
- delle alterazioni metaboliche che potrebbero sottendere alla perdita di massa ossea
- dell’incidenza di fratture.
Solo così, come con la prosecuzione di lavori istomorfometrici, si potrà dare risposta ai numerosi interrogativi che ancora ostano ad una corretta identificazione del problema, e tutelare al meglio le persone con infezione da HIV dalle eventuali possibili conseguenze. Tali studi appaiono particolarmente importanti soprattutto perché potrebbero essere in grado di valutare l’utilità dell’impiego dei farmaci notoriamente attivi sul metabolismo osseo, come calcio, vitamina D o bifosfonati.
Importanti passi avanti sono stati indubbiamente compiuti, ma molti ancora vanno tentati, per vincere questa nuova sfida fra la
Sfinge e la nostra intelligenza, nella convinzione che presto ci sarà qualcuno (e non sarà una DEXA, una BIA, un’ECO, una TAC
o una RMN, ma più verosimilmente un essere che cammina con quattro, due e tre gambe) che, armato del desiderio di conoscere, forzerà i propri dubbi e svelerà alfine l’enigma di HIV, HAART e metabolismo osseo.
Nel prossimo numero di DELTA il Dr. Borderi affronterà la complessa tematica della prevenzione e della terapia.
4
Assistenza riproduttiva a coppie con HIV
Lital Hollander, Alessandra Vucetich, Gil Mor, Augusto Enrico Semprini
ESMAN Medical Consulting
no di ridurre il rischio di infezione sessuale e verticale avrebbero
dovuto riportare in primo piano il tema della famiglia e della genitorialità come diritto fondamentale della persona e componente irrinunciabile della sua qualità della vita. Purtroppo oggi in Italia non è
cosi.
L’offerta di servizi di concepimento assistito e di riproduzione assistita alle coppie sieropositive e sierodiscordanti è infatti limitata a
pochissimi centri pubblici senza adeguata disponibilità sul territorio
nazionale. Infine, l’informazione disponibile circa questi servizi è a
dir poco insufficiente. In sostanza l’assistenza riproduttiva alle coppie con HIV consiste nell’offrire la possibilità di un concepimento e
della nascita di un bambino sano. Ne consegue che l’assistenza
riproduttiva (detta anche A.R.T.) ha due scopi fondamentali:
olte persone infette con il virus HIV-1 potrebbero desiderare di
Mavere un figlio. Infatti, l’infezione da HIV colpisce prevalente-
mente persone giovani, in età fertile. Queste persone vivono pienamente le dimensioni sentimentali e familiari delle quali il progetto di
genitorialità fa parte integrante. Per moti anni le discussioni sulla
vita familiare delle persone sieropositive furono influenzate da timori connessi all’infezione del partner e/o dei figli, e a quelli di “creare degli orfani”. Come spesso accade nel caso dell’HIV, questi timori non si applicano ad altre malattie altrettanto contagiose e pericolose.
Negli ultimi anni le aspettative di vita e di salute sono migliorate
grazie alla disponibilità di terapie antiretrovirali di combinazione.
Questo fatto, accanto alla disponibilità di metodiche che permetto-
1. Preventivo - consiste nell’adozione di tecniche e metodiche che limitino al massimo il rischio di infezione del partner sieronegativo e/o del bambino
2. Riproduttivo - rappresentato dal superamento di eventuali problemi di fertilità della coppia e nell’offerta della tecnica riproduttiva più adatta a ciascuna coppia
Le coppie eterosessuali con HIV si dividono in tre categorie, ciascuna delle quali rappresenta bisogni differenti dal punto di vista dell’assistenza riproduttiva:
- Coppia HIV discordante - Uomo sieropositivo, donna sieronegativa
- Coppia HIV discordante - Donna sieropositiva, uomo sieronegativo
- Coppia HIV positiva - Entrambi i partner sono sieropositivi. Una ulteriore distinzione determina
se i partner sono affetti da HIV di ceppi diversi o dallo stesso ceppo di HIV.
Riproduzione, HIV e counselling
La complessità dell’argomento della riproduzione assistita e del tema della genitorialità per la
famiglia con uno o due genitori HIV positivi impone la necessità di counseling a tutti gli individui che considerano un concepimento. Come in altri tipi di counseling sull’HIV esiste il bisogno
doppio di fornire informazione e di assistere l’individuo a identificare e gestire i propri vissuti,
timori e aspettative a riguardo dell’argomento in questione. Il seguente elenco, tutt’altro che
esauriente, riporta alcuni dei temi del counseling sulla A.R.T. nelle coppie con HIV:
- Elaborazione del desiderio di avere figli e del suo significato per la persona/coppia
- Esplorazione di eventuali pressioni sociali/familiari/religiose sul tema della famiglia e dei figli
- Identificazione ed elaborazione di timori ed ansia il rischio d’infezione al partner
sieronegativo e/o al figlio e sulla morte del/i genitore/i infetto/i
- Rinforzo dei benefici della prevenzione della trasmissione sessuale / verticale
- Esplorazione delle aspettative dell’esperienza di avere figli
- Offerta d’informazione veritiera, comprensibile e priva di giudizio sulle metodiche esistenti,
e i risultati pubblicati, sull’iter medico e diagnostico da seguire, sui costi
- Counseling sulla gravidanza, sul parto e sull’allattamento al seno
Assistenza riproduttiva
e prevenzione
della trasmissione
l tema della prevenzione sessuale nelle coppie
IHIV discordanti riveste un enorme importan-
za. Diversi dati pubblicati rivelano che molte di
queste coppie non praticano il sesso sicuro in
modo continuo e consistente ed esistono molte
evidenze che il tentativo di procreare è uno dei
motivi per l’abbandono dell’uso del preservativo. Il seguente riquadro riporta i risultati di
alcuni degli studi pubblicati negli ultimi anni.
Nelle coppie che tentano il concepimento la
prevenzione della trasmissione per via sessuale
si attua essenzialmente limitando il contatto del
partner non infetto (o nel caso di partner infetto con ceppo di HIV diverso) con liquidi conte-
nenti materiale virale. In altre parole, il concepimento non può avvenire tramite un rapporto sessuale non protetto, ma tramite inseminazione.
Nel caso in cui è la donna a essere HIV positiva si tratta semplicemente del prelievo dello sperma dal partner maschile e il suo posizionamento in vagina. La procedura potrebbe addirittura essere eseguita in casa mediante l’auto-inseminazione. In questo modo si evita semplicemente il contatto sessuale e il rischio d’infezione all’uomo sieronegativo. Viceversa, quando il partner maschile è portatore del virus (indipendentemente dallo stato sierologico della donna), lo sperma può essere un veicolo d’infezione. In questo caso andrebbe applicata la metodologia dello sperm washing (lavaggio dello sperma).
Non esistono tuttora metodi che prevengano la trasmissione verticale, dalla madre sieropositiva al nascituro. Tuttavia, il trattamento farmacologico in gravidanza, associato al taglio cesareo elettivo (prima cioè dell’inizio del parto, segnalato da rottura delle membrane) ha
mostrato di ridurre il rischio dell’infezione al bambino dal 20% fino all’1-5% dei casi, secondo le diverse casistiche.
Questo articolo si focalizza soprattutto sui dati riguardanti il trattamento delle coppie HIV discordanti mediante sperm washing, e le indicazioni per il trattamento dell’infertilità nelle coppie con HIV.
- I De Vincenzi e il “European Study Group of Heterosexual Transmission of HIV (N Engl J Med 1994): su 245 coppie HIV discordanti
solo il 48,4% riferisce di utilizzare il preservativo in modo consistente, il 23,8% lo usa nel 50% dei rapporti, il 23,4% lo usa “raramente
o mai”
- JH Skurnick et al (Clin Infect Dis, 1998). Un confronto tra 224 coppie HIV discordanti e 78 coppie HIV concordanti ha rivelato che i
rapporti vaginali non protetti dopo la rivelazione dello stato di sieropositività del partner maschile è stato uno dei fattori significativamente correlati con la concordanza sierologica (cioè l’infezione secondaria della donna)
- NL Beckerman (AIDS Patient Care STDS, 2002): Uno studio che indagato sulle maggiori difficoltà emotive delle coppie HIV discordanti ha rivelato che il dilemma sull’impatto dell’HIV sulle scelte riproduttive è uno dei problemi più frequentemente riscontrati nelle
coppie HIV discordanti per sieropositività maschile
- N Devanter et al (AIDS Patient Care STDS, 1998): Lo studio, condotto in 71 coppie HIV discordanti per sieropositività maschile in
America (dove non esiste il metodo di lavaggio dello sperma) ha rivelato che i tassi di gravidanza nella coppia erano simili a quelli della
popolazione generale nelle stesse fasce di età.
5
La riproduzione assistita nelle coppie HIV
discordanti per sieropositività maschile
Luna coppia sierodiscordante per il virus HIV. In queste coppie il
Il principale fattore di rischio per la trasmissione sessuale è rappresentato dalla carica virale seminale. Questa è stata messa in correlazione con elevata carica virale plasmatica e con conteggi più bassi
di CD4. Tuttavia, in alcune persone sono stati osservati valori altamente discrepanti con carica virale seminale elevata in presenza di
valori bassi o addirittura negativi di viremia (PL Vernazza et al. AIDS
1997; 11: 8: 987 – 993).
Il metodo di lavaggio dello sperma è stato messo a punto dal Dr.
Augusto Enrico Semprini nel 1989 dietro pressioni di coppie sierodiscordanti pronte a concepire a tutti i costi. La ricerca di questo
metodo è partita dall’osservazione che il virus HIV non sembra essere associato agli spermatozoi in quantità rilevanti. Viceversa, la carica virale seminale è rappresentata da virus libero nel liquido seminale e da una seconda frazione associata ai leucociti seminali, una
popolazione cellulare equivalente ai macrofagi del sangue che hanno
funzioni immunitarie, di protezione del seme da infezioni (figura 1).
La metodica di sperm washing è un procedimento relativamente
semplice che consiste in tre fasi (vedi figura 2):
certezza di raccogliere solo spermatozoi mobili e non cellule seminali infette.
1. Centrifugazione a gradiente (metodo Percoll): lo sperma viene
centrifugato in un fluido a densità variabile (gradiente). La componente cellulare: spermatozoi e leucociti seminali, essendo più pesanti del fluido rimangono da una parte. Il liquido seminale, più leggero,
viene spinto sotto il potere della centrifuga e si separa dalla parte
cellulata.
I livelli del virus HIV nella frazione seminale mobile si riducono a
meno dello 0,1% del contenuto originale nel campione seminale e
tale frazione non è risultata infettiva quando incubata in vitro con
colture di linfociti del sangue periferico. Nella pratica di oggi, ogni
frazione seminale viene sottoposta a test della carica virale, con
metodo PCR. Soltanto preparati risultati negativi al test PCR vengono utilizzati per le inseminazioni.
a decisione di avere un figlio potrebbe risultare molto difficile per
rischio maggiore è rappresentato dall’infezione della donna e, solo
secondariamente del figlio. Esistono evidenze, nella popolazione di
queste coppie, che il tentativo di concepimento attraverso rapporti
sessuali non protetti può rappresentare un significativo fattore di
rischio di trasmissione dell’HIV. Mandelbrot e colleghi hanno riportato la loro esperienza decennale con coppie sierodiscordanti che
abbiano ottenuto una gravidanza in seguito a concepimento naturale con il metodo noto con il nome “timed intercorse”. Questo metodo mira di limitare il rischio di trasmissione grazie al monitoraggio
ecografico della donna e la limitazione dei rapporti sessuali non protetti al giorno dell’ovulazione. Su 104 gravidanze consecutive, in 92
coppie seguite, sono state riportate due sieroconversioni al settimo
mese di gravidanza, e due nel periodo postparto (percentuale di trasmissione pari al 4.4% per gravidanza) (L. Mandelbrot et al. Lancet
1997; 349: 850).
2. Secondo lavaggio: la componente cellulare viene lavata per
rimuovere le tracce di liquido seminale.
3. Migrazione (swim-up) spermatozoale: la parte cellulare viene
posta in un apposito terreno che mantiene la vitalità delle cellule. Gli
spermatozoi hanno la caratteristica peculiare di essere dotati di
mobilità intrinseca. Pertanto migreranno nel mezzo, mentre i leucociti seminali rimarranno nel punto di partenza. Se si raccoglie il
mezzo posto a una certa distanza dal “punto di partenza” si ha la
Dal 1989 è stata accumulata una notevole esperienza con l’utilizzo
del metodo per la riproduzione assistita. In Italia sono state finora
eseguite oltre 2,700 procedure di lavaggio dello sperma, seguite da
altrettanto cicli di assistenza riproduttiva. Lo stesso metodo è stato
adottato da alcuni centri Europei: due centri in Spagna, sei in
Germania, uno in Gran Bretagna, tre in Francia, e uno in Svizzera.
La tabella seguente riassume l’esperienza maturata in questi centri.
Al giorno d’oggi il numero dei cicli di sperm washing seguito da assistenza riproduttiva eseguiti in Italia supera i 2,500. Nessun caso di
sieroconvesione della donna è mai stato riportato. Ne consegue che,
in confronto ai dati dello studio Madelbrot riportati sopra, lo sperm
washing seguito da A.R.T. è in grado, se non di eliminare del tutto il
rischio d’infezione, almeno di ridurlo notevolmente.
6
Assistenza riproduttiva e fertilità della coppia
IMPORTANZA DELLE CAUSE DI INFERTILITA’ SUL PROLUNGAMENTO DEI TENTATIVI SPONTANEI O ADDIRITTURA IMPOSSIBILITA’ A CONCEPIRE.
Il 10% delle coppie desiderose di un figlio incontra difficoltà a ottenere un concepimento e necessita di trattamenti per infertilità e
riproduzione assistita. Nelle coppie HIV discordanti è stata osservata una prevalenza maggiore di alcuni dei fattori che contribuiscono all’infertilità di coppia (vedi tabella). Questi fattori sono essenzialmente riconducibili alla maggiore presenza di infezioni del tratto
genitale maschile e femminile che, in alcuni casi si traducono in
ostruzione tubarica nella donna. Inoltre, la qualità seminale risulta
compromessa in oltre il 15% dei maschi sieropositivi. Non sappiamo
se questa frequenza di dispermia nei maschi sieropositivi sia dovuta all’infezione da HIV, ai farmaci necessari per controllare la malattia oppure può essere riconducibile alle infezioni genitali che sono
particolarmente frequenti in questa situazione.
Fattori di infertilità frequentemente osservati in coppie
HIV discordanti
La diagnosi d’infertilità della coppia è di fondamentale importanza nella coppia con HIV per:
1. evitare che la coppia si assumi i rischi legati ai tentativi di concepimento spontaneo se tale concepimento non può avvenire;
2. evitare ripetuti e inutili tentativi di inseminazione artificiale
che hanno bassissime probabilità di riuscita e coinvolgono costi
psicologici e logistici
Lo scopo del servizio di assistenza riproduttiva alle coppie con
HIV è quello di offrire alla coppia l’ottenimento di una gravidanza, possibilmente entro 12 mesi, salvaguardando la salute del/la
partner non infetto/a e del nascituro. Pertanto, questi centri
dovrebbero effettuare la valutazione dei fattori d’infertilità della
coppia e proporre, a ciascuna coppia, la metodica assistenziale
più adatta.
Le metodiche di assistenza
riproduttiva
Il concepimento assistito può essere ottenuto
grazie all’impiego di uno dei seguenti metodi:
-
inseminazione intrauterina (IUI) su ovulazione spontanea
IUI su ovulazione stimolata
Fertilizzazione in Vitro con Embrio Transfer (FIVET)
Iniezione Intracitoplasmatica di Spermatozoi (ICSI)
La scelta del metodo più adeguato si basa sulla valutazione
della presenza e gravità di fattori d’infertilità della coppia.
Le indicazioni dei diversi metodi sono riassunte nella
tabella 3.
INSEMINAZIONE
Inseminazione Intra-Uterina
su ciclo spontaneo (IUI)
Questa è la metodica più semplice, nella quale non è necessario
alcun intervento farmacologico sulla donna. Sono previsti una
serie di controlli con ecografia vaginale che permettono di individuare il giorno di maggiore fertilità della donna. Il ginecologo
infatti controlla la dimensione del follicolo ovarico in crescita
all’interno dell’ovaio, fino a poterne stabilire il giorno ovulatorio. Il
monitoraggio ecografico dell’ovulazione viene iniziato all’8° - 9°
giorno dall’inizio del flusso, e viene eseguito circa ogni 48 ore per
la durata di circa una settimana.
Il ciclo si conclude il giorno in cui viene eseguita la preparazione
seminale e viene effettuata l’inseminazione intrauterina.
7
IUI su ciclo stimolato
2. Monitoraggio ecografico della crescita follicolare durante la stimolazione farmacologica.
3. Induzione dell’ovulazione, mediante iniezione dell’ormone luteinizzante (hCG 5000), responsabile della maturazione e dell’espulsione degli ovociti dai follicoli. Avviene normalmente tra il 10° ed il
17° del ciclo, quando i follicoli hanno raggiunto un ottimale grado di
sviluppo (18 mm).
I rischi legati al ciclo stimolato sono rappresentati dalla possibile
formazione di cisti ovariche, dall’aumento delle gravidanze multigemellari e dalla possibilità di eccessiva risposta follicolare dell’ovaio
“sindrome da iperstimolazione”.
n un ciclo mestruale naturale giunge a maturazione un solo ovoci-
Ita alla volta. L’ovocita si trova all’interno del follicolo (piccola cisti
fisiologica in cui esso matura). Il follicolo si accresce grazie alla stimolazione ormonale regolata dall’ipofisi. Verso la metà del ciclo un
aumento dell’ormone luteinizzante (LH) consenta la maturazione
completa e l’espulsione dal follicolo dell’ovulo che, a questo punto,
è pronto per essere fecondato.
1. Induzione ovulatoria multipla con la somministrazione di gonadotropine, farmaci che stimolano le ovaie a produrre ovociti. I farmaci
vengono somministrati giornalmente, verso sera, a partire dal terzo
giorno del ciclo mestruale.
FIVET – Fertilizzazione In Vitro con Embrio Transfer
4. Induzione dell’ovulazione con profasi 5000.
5. Prelievo (pick up) degli ovociti. Effettuato in anestesia generale
in regime di day hospital. Ha una durata media di 15-20 minuti e
viene effettuato sotto guida ecografica. Attraverso la vagina si
giunge tramite un ago sottile, all’interno dei follicoli ovarici, aspirandone il liquido che contiene gli ovociti.
6. Fertilizzazione in vitro. Gli ovociti prelevati vengono trasferiti in
laboratorio e conservati in un incubatore a 37° in speciali terreni di
coltura. In seguito gli verrà aggiunto il preparato seminale risultato
dalla sperm washing.
7. Embrio Transfer. Gli embrioni ottenuti vengono depositati con un
sottile catetere di plastica all’interno della cavità uterina. Per evitare il rischio di multifetalità non vengono trasferiti più di due-tre
embrioni alla volta. Gli altri embrioni possono essere congelati e utilizzati in un ciclo successivo. Ogni embrione trasferito ha una percentuale di impianto di meno del 20%, mentre la percentuale di gravidanza per ogni transfer di 2 o 3 embrioni è stimabile intorno al
30%.
La FIVET (Fecondazione in Vitro con Embrio transfer) è una tecnica
attraverso cui si ottiene in laboratorio la fertilizzazione dell’ovocita
da parte di uno spermatozoo: in questo modo l’embrione si origina
al di fuori della sede naturale: l’apparato genitale femminile.
Il ricorso a questa tecnica è indicato in donne con alterazioni delle
tube o con endometriosi e quando vi sia un problema nel liquido
seminale del partner quali un ridotto numero ed una ridotta motilità
degli spermatozoi.
Qualunque sia l’indicazione per la FIVET, la preparazione ed il programma di trattamento è il medesimo.
I ciclo della FIVET della durata media di circa sei settimane, calcolate dall’inizio del trattamento farmacologico fino al test di gravidanza, si articola nelle seguenti fasi:
1. Soppressione della normale ovulazione, mediante la somministrazione di farmaci “analoghi del GnRH”.
2. Induzione ovulatoria multipla con la somministrazione di gonadotropine.
3. Monitoraggio ecografico della crescita follicolare.
ICSI – IntraCytoplasmic Sperm Injection
ad alta risoluzione ed una specifica apparecchiatura denominata
micromanipolatore - uno strumento in grado di ridurre al minimo i
movimenti manuali della biologa. Il giorno successivo all'iniezione
intracitoplasmatica si controlla l'avvenuta fertilizzazione, e dopo
circa 48–72 ore dal prelievo ovocitario si procede al transfer embrionario.
L’efficacia della ICSI è molto elevata. I dati recentemente presentati su 65 cicli
ICSI hanno evidenziato tassi di gravidanza pari al 50% delle coppie con gravi
problemi di infertilità maschile (Vucetich A et al, 2002).
ei casi in cui lo spermiogramma (esame del liquido seminale)
Nabbia evidenziato gravi alterazioni, può rendersi necessario pro-
cedere all’esecuzione della FIVET con tecnica ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi).
Non vi sono sostanziali differenze nella preparazione ad un ciclo di
ICSI rispetto ad un ciclo di FIVET.
Una procedura differente deve essere invece adottata in laboratorio. In questo caso si effettua in laboratorio l’inserimento di un singolo spermatozoo all’interno dell’ovocita utilizzando un microscopio
Sperm washing e assistenza riproduttiva – la situazione italiana
infertilità.
Le coppie nelle quali è HIV positiva la donna (indipendentemente
dallo status sierologico dell’uomo) possono ricorrere alla tecnica di
auto inseminazione nel caso di buona fertilità della coppia.
Nel caso di esistenza di fattori di infertilità della coppia si crea la
necessità di procedere con FIVET e ICSI. Siccome in questi casi la
fertilizzazione è extracorporea, non esiste il problema dell’infezione
al partner maschile.
Tuttavia, il liquido follicolare aspirato nel corso del pick up ovocitario è infettivo. Pertanto il laboratorio che si occupa della fecondazione degli ovociti dovrebbe essere munito di strutture dedicate al
trattamento di materiale biologico infetto.
In Italia non esiste tuttora un laboratorio FIVET “sporco” e l’unico
centro europeo che offre questo servizio è localizzato a Barcellona
in Spagna. I contatti di questo centro sono forniti di seguito.
onostante la facilità di esecuzione del metodo di sperm washing,
Ne gli ottimi risultati in termini di sicurezza e di efficacia la sua
estensione sul territorio nazionale non è avvenuta. Infatti, il servizio
di IUI è tuttora disponibile in un solo ospedale pubblico (SACCO di
Milano), mentre le FIVET vengono eseguite presso l’ospedale San
Paolo, anch’esso situato a Milano. L’inserimento del servizio FIVET
all’ospedale SACCO è previsto entro la fine dell’anno.
La metodica ICSI non è al momento disponibile in nessuna struttura pubblica, e può essere eseguita sotto il coordinamento dello studio del Dr. Semprini a Milano.
Un elenco di indirizzi e numeri di telefono è disponibile alla fine di
questo articolo, insieme alla lista di esami che dovrebbero eseguire
le coppie che intendono avvalersi dei servizi di assistenza riproduttiva in una delle strutture sovramenzionate.
L’assistenza riproduttiva alle donne HIV positive con problemi di
8
Elenco esami per la coppia HIV discordante
Esami per il partner maschile
1. Tampone batteriologico uretrale con ricerca di clamidia,
tricomonas e micoplasma
2. Coltura batteriologica dello sperma (spermiocolltura)
3. Ricerca di anticorpi anti HIV con test ELISA
e Western blot
4. Viremia per HIV (PCR quantitativa)
5. Valutazione CD4 e CD8
6. Emocromo, formula leucocitaria, piastrine
7. HBs-Ag, anti-HBs, anti-HBc, anti-HCV
8. Se anti HCV positivo: viremia per HCV, Anticorpi anti
HGV e pCR per HGV
9. Transaminasi, GOT e GPT
10. VDRL TPHA (test della sifilide)
11. Prolattina, LH, FSH, TSH, testosterone
12. Anticorpi anti CMV
13. Esame del cariotipo – per coppie che fanno FIVET
Esami per la partner femminile
1. Isterosalpingografia (per le coppie che fanno IUI)
o isteroscopia (per le coppie che fanno FIVET)
2. Tampone batteriologico vaginale con ricerca di clamidia,
tracomonas e micoplasma
3. Ricerca di anticorpi anti HIV con test ELISA e Western blot
4. Emocromo, formula leucocitaria, piastrine
5. HBs-Ag, anti-HBs, anti-HBc, anti-HCV
6. Anticorpi anti HGV
7. Transaminasi, GOT e GPT
8. VDRL TPHA (test della sifilide)
9. LH, FSH, TSH effettuati tra la terza e la quinta giornata del ciclo
10. Progesterone e prolattina effettuati in 22ma e 24ma giornata del ciclo
11. Anticorpi anti CMV
12. PAP test eseguito nell’arco degli ultimi 12 mesi
13. Rubeo test, toxoplasmosi – per coppie che fanno FIVET
14. Esame del cariotipo – per coppie che fanno FIVET
Elenco esami per la coppia HIV discordante
Contatti per servizi ART
Esami per il partner maschile
1. Tampone batteriologico uretrale con ricerca di clamidia, tricomonas e micoplasma
2. Coltura batteriologico dello sperma (spermiocolltura)
3. Ricerca di anticorpi anti HIV con test ELISA e Western blot
4. Viremia per HIV (PCR quantitativa)
5. Valutazione CD4 e CD8
6. Emocromo, formula leucocitaria, piastrine
7. HBs-Ag, anti-HBs, anti-HBc, anti-HCV
8. Se anti HCV positivo: viremia per HCV, Anticorpi anti HGV e pCR per HGV
9. Transaminasi, GOT e GPT
10. VDRL TPHA (test della sifilide)
11. Prolattina, LH, FSH, TSH, testosterone
12. Anticorpi anti CMV
13. Esame del cariotipo – per coppie che fanno FIVET
Ospedale SACCO
tel: 02 38203413
email: [email protected]
Ospedale San Paolo
Tel: 02.81841
Studio Semprini
Tel: 02 5832 0182
Email: [email protected]
Dr. Oriol Coll
Clinica eugin Barcelona
Tel: 00 34 93 322 11 22
Email: [email protected]
Sito web: www.eugin.net
9
HIV e CUTE
Parte 1I°
Manifestazioni dermatologiche a carattere infettivo
in presenza di HIV
Carla Valenzano
INFEZIONI VIRALI
Esantema acuto o rash dell’infezione primaria da HIV
ella maggior parte dei pazienti la primo-infezione da HIV è asintomati-
Nca, ma nel 10-20 % dei casi è possibile la comparsa di una sindrome
simil-influenzale che compare 3-6 settimane dopo l’esposizione (figura 1).
Il 75% dei pazienti con infezione primaria sintomatica presenta manifestazioni cutanee.
L’esantema è caratterizzato dalla comparsa di macule eritematose di aspetto morbilliforme (figura 2) o roseoliforme localizzate al tronco e alle estremità e lesioni papulo-squamose localizzate a palme e piante, simili alle
lesioni della sifilide secondaria. In alcuni casi sono state descritte forme a
carattere orticarioide, emorragico, necrotico o pustoloso. E’ possibile
anche un coinvolgimento mucoso con esantema orofaringeo, genitale ed
erosioni o ulcerazioni esofagee.
Herpes simplex
’herpes è molto frequente e le sue manifestazioni sono solitamente limiLtate a lesioni cutaneo-mucose che compaiono secondo una sequenza par-
Le manifestazioni cutaneo-mucose sono inoltre accompagnate da una sindrome simil-mononucleosica con febbre, astenia, faringite, glossite, cefalea, rigonfiamento dei linfonodi e artralgie.
Il rash perdura per 4-5 giorni per poi risolvere completamente. I pazienti
affetti sono altamente infettivi, e l’HIV può essere ritrovato nel circuito sanguigno e nel liquido cerebrospinale. La sieroconversione si verifica solo
dopo circa 6 settimane dalla manifestazione acuta.
E’ stata descritta la comparsa di candidosi orale ed esofagea, presenti per
lo più nelle fasi avanzate dell’infezione, anche nella fase acuta sintomatica
della primo-infezione.
Malgrado l’assenza di prove dirette, è probabile che il rash della primo-infezione da HIV sia una manifestazione specifica dell’infezione retrovirale.
ticolare (infezione primaria, latenza, infezioni ricorrenti multiple).
L’agente patogeno è l’herpes simplex virus (HSV). E’ un virus a DNA, del
diametro di 150-200 nm. Se ne conoscono due tipi, HSV-1 e HSV-2, distinti
in base a criteri strutturali ed epidemiologici. Nondimeno essi condividono
numerosi antigeni, e si riscontra un elevato grado di omologia tra i genomi
di questi virus. L’HSV-1 infetta soprattutto la parte superiore del corpo, è
trasmesso per contatto diretto interumano di lesioni erpetiche o con la saliva di portatori sani. L’HSV-2 è responsabile dell’herpes delle regioni genitali, malattia sessualmente trasmessa (MST) e dell’herpes del neonato, che si
infetta durante il passaggio nel canale del parto. Questa distinzione non è
assoluta poiché l’HSV-1 può essere isolato da lesioni genitali e l’HSV-2 da
lesioni labiali.
Dopo l’infezione primaria, il virus scompare rapidamente dalle lesioni cutaneo mucose. Tuttavia – e qui risiede l’intero problema – esso, per neuroprobasia, va ad annidarsi nel ganglio sensitivo corrispondente (ganglio di
Gasser per l’HSV-1 e gangli sacrali per l’HSV-2), dove rimane quiescente ,
ma soltanto in apparenza, poiché la trascrizione del menoma virale continua,
anche se non porta alla sintesi di proteine virali, in quanto si producono
mRNA anomali (cosiddetti antisenso). Ma in qualsiasi momento, sotto
influenza diverse, questo stato di latenza può essere interrotto e il virus
scende lungo l’assone a ricolonizzare il territorio cutaneo-mucoso dove
aveva avuto luogo l’infezione primaria; qui esso causa lesioni più limitate,
ma spesso recidivanti. Queste forme ricorrenti sono ancora oggi assai poco
aggredibili con la terapia, poiché gli antivirali a nostra disposizione non sono
in grado di distruggere il virus nel suo rifugio gangliare.
L’intensità dell’infezione primaria e l’insorgenza di recidive dipendono dalla
qualità delle difese immunitarie, cellulo-mediate soprattutto.
L’herpes rappresenta la più frequente causa di dermatovirosi in corso di
malattia da HIV, al punto che un herpes cutaneo-mucoso cronico (durata
superiore ad un mese) è un criterio per la diagnosi di AIDS.
Gli herpes cronici perianali degli omosessuali (figura 2) sono stati la prima
infezione opportunistica (insieme alla pneumocistosi) che ha portato al riconoscimento della pandemia da HIV. Si tratta per lo più di ulcerazioni croniche, necrotiche, multiple, confluenti, in cui l’HIV può essere facilmente isolato costituendo un’importante fonte di contagio. I margini delle lesioni ulcerative torbide a fondo necrotico presentano margini costellati da lesioni
vescico-pustolose ed è qui che si devono effettuare i prelievi per l’immunofluorescenza e le colture virali necessarie per la diagnosi.
Quadri analoghi sono stati descritti su vulva (figura 4), gambe, viso (figura
5), mani e cuoio capelluto.
La comparsa di queste lesioni rappresenta un fattore prognostico negativo
poiché implica la presenza di una forte immunodepressione (<100
CD4/mm3).
Un trattamento preventivo indefinito con aciclovir è a volte necessario per
evitare recidive multiple ma può portare alla selezione di ceppi aciclovir resistenti (timidin-chinasi negativi). Sono infatti numerosi i casi di herpes cronico grave, in corso di infezione da HIV, resistenti all’aciclovir.
Alternative terapeutiche sono rappresentate dal foscarnet o dalla vidarabina, poco utilizzata perché neurotossica e scarsamente efficace in vitro.
Sono possibili, inoltre, forme di herpes disseminato con coinvolgimento
cutaneo (figura 6) ed eccezionalmente viscerale, meningoencefaliti ed epatiti fulminanti.
Per quanto riguarda gli herpes simplex recidivanti orali, genitali o anali sembra siano più frequenti o nei soggetti HIV+ che nella popolazione generale.
LEUCOPLACHIA
ORALE VILLOSA
cordoniforme del bordo
linguale destro. Sul dorso
linguale glossite candidosica pseudomembranosa.
CORIORETINITE
e lesione ulcerativa del
sopracciglio da CMV. Alla
periferia della lesione
sono presenti elementi
vescico-crotosi ad aspetto francamente erpetiforme.
Varicella
nfezione indotta dal virus varicella-zoster (VZV), appartenente al gruppo
Idegli Herpesvirus, che si replica nel nucleo dei cheratinociti.
La varicella corrisponde all’infezione primaria e la disseminazione del virus per
via ematica è responsabile dell’eruzione. Gli anticorpi compaiono al 5° giorno,
per raggiungere il titolo massimo al 20° giorno. Essi persistono per più anni,
senza impedire al virus la permanenza nei gangli sensitivi dei nervi cranici o
spinali.
Dopo un’incubazione di 14 giorni, l’invasione è brave, non violenta, con febbricola e malessere generale; è seguita da un’eruzione di macule rosee, presto
sormontate da vescicole “ a goccia di rugiada”. Il giorno seguente, il liquido si
intorbida, la vescicola si fa ombelicata e si dissecca in 3 giorni per formare una
crosta che cade nel giro di una settimana, lasciando una macula depigmentata, talora una cicatrice atrofica. Sono possibili cicatrici anetodermiche o cheloidee. L’eruzione esordisce sul tronco, sul capillizio, e si estende agli arti,
rispettando palme e piante, infine raggiunge il viso. Sono presenti micropolia-
10
denopatie, splenomegalia e un transitorio aumento dei mononucleati nel sangue. La guarigione avviene nell’arco di 15 giorni.
La comparsa di una varicella è un’eventualità rara, ma non eccezionale, negli
adulti infettati dall’HIV e si caratterizza per il decorso clinico particolarmente
protratto, per la resistenza alle terapie convenzionali, ma soprattutto per l’alterata cronologia eruttiva.
E’ infatti possibile osservare nello stesso paziente accanto ad elementi crostosi in risoluzione, nuovi elementi frutto di gittate subentranti e sovrapposte. Sono comunque descritte forme di varicella in
HIV particolarmente gravi ed estese, chiamate “varicella maligne”,
a carattere pustoloso (figura 7), necrotico o emorragico, con grave
compromissione dello stato generale e coinvolgimento di molteplici
organi interni. Queste forme sono particolarmente resistenti alla
terapia.
Herpes zoster
’ una ganglionevrite posteriore acuta, per lo più dovuta alla riattivazione di
EVZV dallo stadio di latenza nei neuroni dei gangli posteriori; qualche volta
tuttavia è legata a una nuova esposizione a virus esogeni.
La fase prodromica dura 3-4 giorni ed è caratterizzata da dolore a disposizione metamerica, unilaterale, urente con lieve compromissione dello stato generale e adenopatie distrettuali dolenti. Successivamente compare l’eruzione
unilaterale, a banda, non oltrepassante la linea mediana. Alcune chiazze eritematose si ricoprono in alcune ore di vescicole ripiene di un liquido limpido, raggruppate a grappolo, talvolta confluenti in bolle dal contorno policiclico.
Possono essere presenti alcuni elementi aberranti dal lato opposto. Dopo 2-3
giorni il contenuto delle vescicole si intorbida ed esse si afflosciano per poi
essiccarsi formando crosticine che cadono una decina di giorni più tardi. La
sindrome neurologica comprende dolori accessuali parossistici, lancinanti nell’anziano; ed un ipo-anestesia del territorio colpito (“anestesia dolorosa”). Le
alterazioni secretorie sudorali, vasomotrici e la scomparsa del riflesso pilomotore sono rare. Spesso è presente una minima reazione meningea. La guarigione sopraggiunge in 2-4 settimane. Le cicatrici acromiche con alone pigmentato, spesso prive di sensibilità, consentono la diagnosi retrospettiva.
Lo zoster toracico ed oftalmico sono particolarmente frequenti nei pazienti
con infezione da HIV. L’incidenza dello zoster è 17 volte più alta nei sieroposi-
tivi rispetto ai soggetti sieronegativi della stessa età.
Si tratta per lo più di zoster banali, non complicati. D’altra parte le recidive
nello stesso dermatomero o a distanza sono più frequenti.
Quando l’immunodeficienza è grave è possibile la comparsa di zoster emorragici estesi, complicati (figura 8), ad evoluzione necrotica.
L’herpes zoster può comparire molto presto nella storia naturale dell’infezione
da HIV, a volte contemporaneamente alla prima infezione, ed in genere quando la conta dei linfociti CD4 è di 500/mm3.
In alcuni casi può addirittura rappresentare la prima manifestazione dell’infezione da HIV assumendo il carattere di infezione diagnostica.
Contrariamente agli zoster osservati nei pazienti sottoposti a chemioterapia,
la disseminazione cutanea o viscerale è rara. Sono però possibili e descritte in
letteratura forme di herpes zoster cronico disseminato con lesioni poco numerose, papulo-nodulari, ipercheratosiche, ulcerate, brulicanti di virus varicellazoster (VZ). La sierologia del VZ è di regola positiva con tassi elevati, ma può
anche essere negativa.
La terapia è quella degli zoster abituali, l’aciclovir ad alte dosi (30mg/kg/die
per via endovenosa) è riservata alle forme disseminate, croniche od estese,
eventualità rara.
Citomegalovirus
Più del 70% della popolazione generale presenta anticorpi anti-CMV.
Tuttavia, gli anticorpi formati dopo la disseminazione del virus per via ematica non sono in grado di impedire né la viremia né l’interessamento degli organi bersaglio. L’infezione primaria è spesso asintomatica, e in seguito il CMV
persiste nell’organismo a livello dei macrofagi, delle cellule endoteliali e delle
cellule progenitrici del midollo osseo. In questa fase il virus viene escreto nelle
urine, nello sperma e nella saliva, senza sintomatologia di sorta. I difetti dell’immunità cellulo-mediata (emopatie, trapianti d’organo, trattamenti immunosoppressivi o infezione da HIV) tendono a favorire la riattivazione del virus con
insorgenza di manifestazioni cliniche, sistemiche e/o cutaneo-mucose, che in
alcuni casi possono risultare letali
Le infezioni da CMV sono particolarmente frequenti nei pazienti HIV+ con
meno di 100 CD4/ mm3 e costituiscono un criterio per la diagnosi di AIDS.
Si tratta per lo più di infezioni disseminate neurologiche, retiniche, polmonari
o digestive. D’altra parte le localizzazioni cutanee sono curiosamente rare.
Inoltre è difficile formulare una diagnosi di certezza poiché il CMV è rinvenibile in cute sana di soggetti con infezione viscerale, in lesioni cutanee indotte da
altri microrganismi (in particolare HSV), in cicatrici, in lesioni di sarcoma di
Kaposi o in lesioni di angiomatosi bacillare.
Le manifestazioni cliniche di un’infezione cutanea da CMV sono estremamente polimorfe, comprendendo noduli, ulcere cutanee (figura 10) e orali, vescicobollose, ascessi, lesioni verrucose, porpore e soprattutto ulcere perineali.
MOLLUSCHI
CONTAGIOSI
atipici del volto in
paziente terminale,
comparsi da parecchi
mesi e confluenti in
ampie chiazze neoplastiformi nonostante ripetute e varie terapie.
VARICELLA ATIPICA
con grandi elementi
vescico-bollosi di diversa
taglia, disseminati a “cielo
stellato”, alcuni ombelicati, con circostante alone
eritematoso-flogistico.
Infezioni da papilloma virus humani (HPV)
li HPV, di cui a tutt’oggi se ne conoscono oltre 70 tipi, si presentano come
Gvirus a DNA dotati di uno spiccato tropismo per gli epiteli squamosi pluri-
stratificati. Gli HPV sono in grado di indurre uno specifico effetto citopatogeno del quale il coilocita (grande cellula dal nucleo eccentrico circondato da uno
pseudovacuolo) costituisce il miglior corrispettivo morfologico, essendo l’espressione di un’infezione di cellule permissive con produzione di virioni. Nelle
neoplasie intraepiteliali indotte da certi tipi di HPV oncogeni, il ciclo produttivo si riduce notevolmente, in quanto la trasformazione neoplastica è associata all’integrazione di un gran numero di copie del DNA virale. Invece nelle
lesioni benigne il DNA virale non è integrato.
La mancanza di un modello animale o di un sistema di coltura che permetta la
replicazione virale è un ostacolo allo studio dell’infettività degli HPV, del quale
bisogna tuttavia sottolineare l’importanza, dato che è attualmente ben documentato il potere oncogeno di alcuni tipi di questi virus. Le uniche informazioni epidemiologiche disponibili provengono dall’epidemiologia delle verruche.
Per quanto riguarda la trasmissione dei virus, la trasmissione sessuale dei condilomi e degli HPV dotati di tropismo genitale è ben documentata; questa evenienza impone il trattamento di entrambi i partner nonché la ricerca di altre
MST eventualmente associate. Il periodo di incubazione dei condilomi acuminati è in media di 3 mesi (3 settimane-8 mesi) e il rischio di contrarre la malattia in seguito a contatto sessuale infetto è elevato (si stima che l’infettività sia
pari al 60-70%). Il fattore di rischio più importante è rappresentato da dall’alto numero di partner. Le lesioni indotte dagli HPV costituiscono la principale
fonte di agenti patogeni, ma è possibile che lo sperma e la mucosa uretrale
siano parte del serbatoio virale.
Le lesioni cutaneo-mucose indotte dagli HPV sono estremamente numerose e
comprendono le verruche distinte in plantari, volgari e piane comuni; la epidermodisplasia verruciforme di Lewandosky-Lutz; i papillomi genitali distinti in
condilomi anogenitali, tumore di Buschke-Lowenstein o condiloma gigante del
pene, condilomi piani del collo uterino e papulosi bowenoide
Numerosi studi dimostrano che le infezioni genitali ed anali (più raramente
buccali) da HPV sono più frequenti nei pazienti sieropositivi che in soggetti con
identiche abitudini sessuali sieronegativi (condilomi genitali nell’uomo e nella
donna, condilomi anali negli omosessuali). I sierotipi più spesso isolati sono
rappresentati dagli HPV 6, 11 e 18. Esistono, d’altra parte, studi in cui non è
stato rilevato alcun aumento d’incidenza in corso di infezione da HIV rispetto
alla popolazione sieronegativa.
Non è raro, comunque, isolare HPV in regione genitale ed anale, in assenza di
lesioni cliniche, in soggetti sieropositivi. Pertanto i carcinomi anali, le displasie
ed i carcinomi del collo uterino si presentano, in questi pazienti, con frequenza superiore a quella riscontrabile nella popolazione generale. I carcinomi invasivi del collo uterino, infatti, sono attualmente considerati dai Centers for
Disease Control (CDC) un criterio per la diagnosi di AIDS.
I condilomi genitali dei soggetti sieropositivi sono spesso più profusi (figura
12) e più difficili da trattare perché resistenti alla terapia, in particolare all’interferon (figura 13).
Condilomi ed infezione da HIV sono due Malattie Sessualmente Trasmesse
(MST) strettamente correlate sul piano epidemiologico. Le lesioni mucose
indotte dagli HPV favoriscono, infatti, la disseminazione dell’HIV nella popolazione eterosessuale e omosessuale.
Sono descritti in letteratura casi di verruche disseminate (volgari e piane) e di
epidermodisplasia verruciforme (di Lewandowsky-Lutz) con evoluzione rara in
carcinomi spinocellulari.
Tutti questi fenomeni sono correlati all’immunodepressione indotta dall’HIV.
Osservazioni di fenomeni di transattivazione di geni HPV da parte di proteine
HIV, condotte su modelli in vitro, inducono ad ipotizzare che HIV e HPV interagiscano a livello molecolare.
Leucoplachia orale villosa
escritta da Greenspan nel 1984
in omosessuali sieropositivi di San
DFrancisco, la leucoplachia orale villosa non era conosciuta prima dell’epi-
demia da HIV.
Può interessare tutti i pazienti infettati dall’HIV, qualunque sia stata la modalità di infezione, ed è divenuta una delle manifestazioni cutanee più frequenti
nella fase di sieropositività. La sua frequenza sembra aumentare progressivamente, poiché sempre meglio conosciuta e ricercata dagli specialisti, in stadi
in cui è appena riconoscibile. Si manifesta quando l’immunodeficienza diviene
relativamente importante (in media 300 linfociti CD4/ mm3).
La leucoplachia orale villosa caratterizzata da lesioni biancastre, mal delimitate, disposte irregolarmente sui bordi e sulla superficie dorsale della lingua,
eccezionalmente sulla mucosa gengivale. Le lesioni sono aderenti, indolori, a
disposizione lineare, filiformi o cordoniformi e si ispessiscono progressivamente assumendo il caratteristico aspetto “capelluto” o “villoso” (figura 14).
HIV E CUTE parte III sarà pubblicao sul n° 6 di DELTA.
La bibliografia è disponibile sul sito web di Nadir.
11
Generalmente croniche possono assumere carattere incostante con risoluzioni spontanee temporanee.
Elemento di recente identificazione e di estrema importanza è la presenza di
numerosi virus di Epstein-Barr (EBV) all’interno delle cellule epiteliali dove è
possibile osservare virioni completi in replicazione, fatto unico nel capitolo
delle lesioni neoplastiche legate all’EBV. E’ possibile isolare occasionalmente
anche HPV e lieviti quali la Candida albicans.
Numerose sono le terapie proposte: aciclovir per os (da 1 a 3g/die), la zidovudina, l’acido retinico topico, la crioterapia, la podofillina.
A partire dal 1988, è stata descritta una dozzina di casi di leucoplachia orale
villosa (EBV+) in soggetti immunodepressi sieronegativi (trapiantati renali
soprattutto). Rari casi di leucoplachia orale villosa (EBV-) sono stati descritti
in soggetti non infettati dall’HIV, immunodepressi e non.
BOCCA e HIV
a bocca, a causa della quantità di tessuto
Lmucoso, dell’umidità e delle molteplici
superfici che vi sono (denti, lingua, palato, trachea) è una fonte adatta ad ospitare batteri e
virus a causa delle funzioni che svolge nel
corpo umano, tra cui quella tipica legata alla
nutrizione, al gusto e al sesso.
Manifestazioni tipiche
Molte manifestazioni legate all’HIV sono
usualmente riscontrabili nel cavo orale ed è
per questo che è importante che sia il medico
che il paziente prestino attenzione ad alcune
patologie tipiche della presenza del virus. Tra
queste manifestazioni, le più diffuse sono:
- Periodontite: se le gengive sanguinano
durante il lavaggio del denti, ciò può segnalare
la presenza di un’infezione tipica dell’HIV: la
gengivite di Vincent. Questa patologia, in particolare, oltre ad un continuo sanguinamento,
si accompagna a dolori molto intensi. I dentisti
generalmente suggeriscono come unico rimedio risolutivo gli sciacqui con acqua calda e
sale, vecchio rimedio della “nonna”, tuttora
molto efficace. Se viceversa, le gengive sono
molto arrossate, è il caso di rivolgersi al dentista che potrebbe effettuare l’ablazione del tartaro ed eventualmente un trattamento con
antibiotico.
- Parodontite: nel caso in cui la gengivite non
venga curata rapidamente, l’infezione batterica può progredire spostandosi dalla sede gengivale a quella dell’osso. Le gengive, infatti, si
ritraggono a seguito dell’infezione, scoprendo
la base dei denti e portando in superficie la
zona dell’osso ove si impiantano i denti stessi.
Lentamente i denti perdono la propria stabilità
ed iniziano a muoversi, finendo poi per cadere.
Tale processo generalmente vari mesi o anni.
Più presto si interviene, più presto si arresta
tale evoluzione. Normalmente, il dentista
riesce ad intervenire, se consultato tempesti-
David Osorio
vamente, con una tecnica chiamata del “curettaggio profondo” che si pratica con anestesia
locale, spesso in quattro sedute. Nel caso la
parodontite sia già avanzata in maniera irreversibile formando sacche di infezione sotto i
denti, il dentista proporrà cure più complesse
quali la pulizia delle radici e la chirurgia delle
gengive, a volte con trapianto delle gengive
stesse.
- Parodontite ulcero necrotica è un’infezione alle gengive, più comune nelle persone sieropositive, che progredisce in tempi molto
brevi. Le gengive si arrossano, sanguinano, si
feriscono, si ritraggono, l’alitosi diventa particolarmente evidente e tale patologia comporta
un forte dolore alle mandibole
e la perdita dei denti nonché il
rischio di setticemia in quanto i
batteri possono passare facilmente dalle gengive al sangue.
- Bocca secca: una delle
caratteristiche più comuni tra
le persone HIV+ è l’insufficienza di saliva in bocca. Tale
carenza può essere causata o
direttamente dall’HIV o da
alcuni farmaci, si citano in particolare gli antidepressivi ed il
vecchio Videx a causa del tampone, ed inoltre tutti i farmaci a
base di oppiacei, tra cui morfina, codeina, metadone, l’eroina. In caso di bocca secca la
regola principale da seguire è
quella di bere molta acqua,
mantenere il cavo orale sempre
pulito ed, eventualmente, consultare il dentista il quale potrà
prescrivere un farmaco che
aumenti la salivazione. Come consiglio pratico
si ricorda che la gomma americana senza zucchero stimola la salivazione e si suggerisce
anche di dormire in ambienti sufficientemente
umidificati.
- Alitosi: tale caratteristica di alcune persone
produce un effetto molto sgradevole, ma a
volte, oltre ad essere dovuta all’uso di tabacco, di alcuni alimenti quali l’aglio o la cipolla,
può essere causata da difficoltà di digestione.
Molto spesso, però, l’alitosi indica un problema di denti (carie), di gengive (sangue, tartaro), o di infezioni vere e proprie.
- Leucoplachia orale: si tratta di macchie
bianche nel cavo orale, per lo più sotto la lingua. Non producono alcun dolore né, generalmente, nessuna patologia specifica, ma sono
solo un segnale della presenza dell’HIV.
Questa patologia è descritta nell’articolo
“Manifestazioni Dermatologiche” a pagina 12
della Dr.ssa Valenzano in questo numero.
- Candidosi: si presenta in tutte le mucose,
con particolare frequenza a livello vaginale
(cfr. Delta n.2, HIV e Donna) ed orale. A livello orale è molto dolorosa e va eliminata velocemente, prima che possa trasferirsi nell’esofago e produrre reali difficoltà nel processo
12
digestivo. Il modo più semplice di trattarla in
fase iniziale sono gli sciacqui con bicarbonato
di sodio, ma la nistatina o altri funghicidi sono
efficaci e più frequentemente prescritti dai
medici.
- Herpes: è importante che le persone sieropositive sappiano che l’herpes si presenta
anche all’interno della bocca e in tutte le
mucose del cavo orale. Deve essere trattato
come qualsiasi altra manifestazione di herpes
simplex.
- Afte: sono ulcerazioni che si presentano sulla
lingua, spesso molto fastidiose o dolorose e
generalmente scompaiono nel giro di 4 – 5
giorni. Spesso appaiono in occasione di stress
psicologico o fisico. Non vi è un rimedio specifico, i medici cercano di attutirne il dolore con
l’uso di aciclovir.
Pulizia e profilassi
E’ importante che tutti adottino precisi criteri
di igiene orale usando con frequenza lo spazzolino da denti ed il filo dentale che si acquista
in tutte le farmacie. La frequente pulizia dei
denti e delle gengive è lo strumento più efficace per prevenire la maggior parte delle patologie descritte più sopra. In particolare è importante che le persone con danno immunologico
prevengano qualsiasi ulcerazione nel cavo
orale onde evitare di indebolire le proprie barriere contro batteri e virus. I medici di famiglia
e gli infettivologi debbono effettuare una particolare attenzione all’analisi della bocca e del
cavo orale per prevenire l’insorgenza di qualsiasi patologia.
... e il dentista?
E’ un problema che almeno una volta hanno
affrontato tutte le persone sieropositive:
“Debbo dirgli quale è il mio stato sierologico?” La maggior parte delle persone sieropositive non ritiene opportuno dischiudere
tale informazione al proprio dentista. A tale
proposito, però, sorgono due problemi: il
primo è soggettivo, e cioè, un dentista
scrupoloso che conosce la situazione di
salute del paziente HIV+ può diagnosticare
più facilmente una patologia legata all’HIV,
così come suggerire terapie o effettuare
interventi più adatti allo stato di salute del
paziente. Il secondo problema è oggettivo:
il medico deve prendere le proprie precauzioni a prescindere dallo stato sierologico
del paziente e comunque fornire strumenti
disinfettati a tutti i pazienti. Si suggerisce
comunque avvisare il dentista del proprio
stato sierologico in quanto, in caso di un
incidente professionale, questi possa ricorre alla PEP, se necessario (vedi Delta n.3,
pag. 8). A questo proposito, però, si
aggiunge un’ulteriore “ problema nel problema”: quanti dentisti sono disposti a
curare i pazienti portatori di HIV nel proprio
studio privato? E, quanti dentisti hanno
rifiutato di curare persone sieropositive?
HIV E USO DI STEROIDI ANABOLIZZANTI
Iuri Bedini - Cristian Davì
egli ultimi anni l’uso di steroidi anabolizzanti nella Waisting Sindrome (perdita di peso da HIV)
Ne nella Lipodistrofia si è rivelato sempre più diffuso. In particolare è stato notato che l’aumento della massa muscolare e della forza in generale, ha creato un miglioramento della qualità della
vita. Rimane ancora aperto il dibattito sul beneficio/tossicità di questi farmaci.
Dal punto di vista chimico, basterà ricordare che per steroidi anabolizzanti si intendono i farmaci
che derivano dal testosterone con opportune manipolazioni, come togliere (nandrolone) o aggiungere gruppi metilici (es. metiltestosterone, bolasterene, metandrosenolone ecc.) ossidrilici (oxandrolone, òesterolone, oxabolone) spostamento di doppi legami (metandrolstenolone, metenolone,
bolderonone), aggiunta di atomi di fluoro o cloro (fluossimensterone, clortestosterone, ecc.) nell’intento in generale di mantenere effetti anabolizzanti con meno effetti androgeni.
L’effetto anabolizzante si riferisce alla crescita muscolare e quello androgeno si riferisce agli effetti collaterali causati dagli steroidi. I più comuni sono:
- negli uomini; perdita dei capelli, comparsa di peli superflui, leggero aumento dell’aggressività,
acne, ginecomastia e nei casi di cicli prolungati, ingrossamento della prostata e tossicità epatica.
- nelle donne; aumento dei peli superflui, abbassamento della voce, ingrossamento della clitoride
e nei casi di cicli prolungati tossicità epatica.
Pur essendo coscienti dei sopra elencati effetti collaterali non si può ignorare il miglioramento del
peso e della massa muscolare magra.
Nello studio presentato all’Ottava Conferza CROI di Chicago, la Dottoressa Kath Mulligan ha
riportato i risultati dello studio ACTG 329 su 38 donne, che avevano perso più del 5% del peso
corporeo in un anno. Le donne sottoposte a un ciclo di Nandrolone Decaonato hanno avuto un
significativo aumento di peso rispetto al braccio dello studio che riceveva placebo. Gli effetti collaterali riscontrati non sono stati considerati gravi tali da interrompere il trattamento.
Gli steroidi più utilizzati e comuni nella Waisting Sindrome sono elencati di seguito.
Nandrolone Decaonato (Decadurabolin). Idosaggi consigliati sono:
- nelle donne, 100mg ogni due settimane o 50mg/sett. per 12 settimane
- negli uomini, 200/600 mg/sett. per 12 settimane
Il decadurabolin è un farmaco altamente anabolizzante con effetti androgeni minimi e lieve
epatotossicità e ritenzione idrica. Usato in combinazione con il testosterone è stata notata una
maggiore crescita muscolare.
Testosterone enantato (o cipionato). I dosaggi consigliati sono:
- nelle donne, 100mg/sett. per dodici settimane
- negli uomini. 250mg/sett. per dodici settimane
Gli effetti collaterali riscontrati sono: ritenzione idrica, perdita dei capelli e ginecomastia (negli
uomini) , abbassamento della voce ed ingrossamento della clitoride(nelle donne).
Stanozonolo (Winstrol) - non più reperibile in Italia . I dosaggi consigliati sono:
- nelle donne 50mg/sett. per dodici settimane.
- negli uomini 50mg tre volte/sett. per dodici settimane.
Gli effetti androgeni riscontrati sono minimi fatta eccezione per la epatossicità che ne consegue
mentre è stata riscontrata una rilevante crescita muscolare e una totale assenza di ritenzione idrica. Il farmaco attualmente non viene venduto in Italia.
Methenolone (Primobolan). I dosaggi consigliati sono:
- nelle donne 25/50mg/sett per dodici settimane.
- negli uomini 100/400mg/sett. per dodici settimane.
Il Primobolan è considerato lo steroide più “gentile” pur avendo buoni effetti anabolizzanti, non
crea ritenzione idrica e gli effetti virilizzanti nelle donne sono minimi. E’ considerato un farmaco
sicuro per le donne.
Un effetto collaterale comune a tutti gli steroidi sopra citati è il leggero aumento della libido che
decade a poche settimane dall’interruzione del ciclo. Ogni ciclo va intervallato da almeno dieci settimane di riposo. Ad ogni fine trattamento è consigliabile controllare i valori delle transaminasi e
della bilirubina.
Ulteriore effetto indesiderato derivante dall’uso di testosterone è l’aumento dell’emoglobina e dell’ematocrito che pertanto debbono essere costantemente monitorati per prevenire danni più gravi.
A causa di tali effetti collaterali i medici non sono generalmente propensi a prescrivere gli anabolizzanti sopratutto in presenza di una patologia grave come quella dell’HIV dove aggravare un quadro clinico con effetti collaterali prodotti da un farmaco, può rendere la malattia da HIV di più difficile gestione.
Ulteriori trial ed informazioni possono essere reperiti sul sito HIV/anabolizzanti www.medibolics.com.
Nel prossimo numero di Delta continueremo la lista degli anabolizzanti di più comune impiego, ma
ricordiamo ai nostri lettori che l’uso di tale tipologia di farmaco, deve essere sempre controllato dal
medico.
13
Patologie psichiatriche e abuso di sostanze in persone con infezione da HIV:
TRATTAMENTI COMBINATI E INTERAZIONI FARMACOLOGICHE
Fabrizio Starace, Annunziata Ciafrone, Giuseppe Nardini
Servizio Psichiatria di Consultazione ed Epidemiologia Comportamentale
A.O. Cotugno, Napoli
l frequente rilievo, nelle persone sieropositive per HIV, di
Iciati
disturbi psichiatrici direttamente o indirettamente assoall’infezione e/o di comportamenti da abuso di sostanze, rende complesso l’approccio terapeutico, sia per le
possibili interazioni tra i trattamenti da associare, che per
il controllo e/o il contenimento degli effetti collaterali.
Sul piano clinico è oggi ampiamente riconosciuta (ancorché
raramente praticata) la necessità di un approccio integrato
alla patologia organica, a quella mentale ed alla dipendenza patologica. Allo stesso modo, dal punto di vista farmacologico, questi tre livelli devono necessariamente essere
considerati parti di un unico piano terapeutico: in pratica,
nella scelta del trattamento farmacologico occorrerà verificare le reciproche influenze che i singoli farmaci possono
esercitare gli uni sugli altri. Un ulteriore livello di complessità è costituito dalle caratteristiche a lungo termine degli
approcci terapeutici prescelti. Ciò implica una maggiore
attenzione ai problemi di tossicità da accumulo, all’insorgenza di effetti collaterali e indesiderati ma anche alle conseguenze negative che tali eventi possono determinare sull’aderenza e sulla prosecuzione del complesso dei trattamenti stessi.
I farmaci antiretrovirali e gli psicofarmaci possono interferire tra loro sia nella farmacocinetica che nella farma-
In tabella 1 sono riassunte le potenziali interazioni tra
i farmaci antiretrovirali e gli psicofarmaci più comunemente utilizzati. Nella prima colonna viene incluso
anche l’alcool in quanto principio attivo freq-uentemente assunto
n approfondimento ulteriore merita il tema delle interazioU
ni tra metadone e antiretrovirali. E’ noto, infatti, che il
metadone rappresenta il trattamento più frequentemente
impiegato, in Italia, per il trattamento della dipendenza da
eroina, e che questa condizione riguarda una quota consistente di persone sieropositive per HIV. Il metadone assunto
per via orale raggiunge concentrazioni plasmatiche apprezzabili già dopo trenta minuti; entro quattro ore si ottiene il picco
della concentrazione. Alle dosi terapeutiche il legame alle
proteine plasmatiche è pari al 90%. Il metadone viene metabolizzato a livello epatico, dove un ruolo preminente è svolto
dal sistema enzimatico del citocromo P450. La farmacocinetica e la farmacodinamica del metadone rendono conto della
molteplicità delle possibili interazioni (tabella 2).
14
codinamica. Ad esempio, i neurolettici, gli antidepressivi
triciclici ed alcuni antiparkinsoniani possono ridurrre la biodisponibilità degli antiretrovirali assunti per via orale per
l’azione anticolinergica esercitata sulla muscolatura intestinale, ed il conseguente rallentamento della peristalsi.
Anche gli antidepressivi serotoninergici, potendo indurre
diarrea, possono ridurre l’assorbimento per l’accelerazione
del transito intestinale. Va inoltre considerata la competizione tra antiretrovirali e antipsicotici per il legame alle
proteine plasmatiche: è noto che il grado di saturazione
che le diverse molecole possono determinare, condiziona la
maggiore o minore disponibilità di farmaco competitivo
libero; in particolare, farmaci a reazione acida, come il diazepam, competono con gran parte dei farmaci anteretrovirali per il legame con l’albumina, mentre quelli a reazione
basica, come l’imipramina, competono selettivamente con
saquinavir, indinavir, ritonavir-lopinavir, ed amprenavir per
il legame con l’a-1 glicoproteina.
I farmaci antiretrovirali sono in gran parte metabolizzati a
livello epatico: i processi catabolici prodotti dagli enzimi
microsomiali, ed in particolare dal sistema enzimatico del
citocromo P450 (CYP450), rivestono un ruolo di primaria
importanza per le interazioni con altri farmaci.
olti farmaci antiretrovirali possono indurre
M
effetti collaterali indesiderati sulla sfera psichica, simulando veri e propri quadri psichiatrici.
Così, può determinarsi in corso di terapia con
zidovudina o stavudina una franca condizione di
mania, mentre con gli inibitori delle proteasi indinavir, ritonavir e saquinavir possono emergere
quadri caratterizzati da allucinazioni o sintomi
depressivi. Una particolare frequenza di tali sintomi è stata riportata in corso di terapia con efavirenz, al punto da rendere necessaria l’interruzione della terapia e lo switching verso farmaci
meglio tollerati.
In tabella 3 sono sinteticamente riportati i principali sintomi psichiatrici potenzialmente indotti da
farmaci antiretrovirali.
Alcuni effetti indesiderati degli psicofarmaci
possono risultare risultare particolarmente dannosi in corso di terapia antiretrovirale (tabella 4).
La clozapina, che nel 3% dei casi induce agranulocitosi, può aggravare l’immuno-depressione da
antiretrovirali. Anche per molti neurolettici convenzionali, come le fenotiazine alifatiche (clorpromazina, promazina) e piperidiniche (tioridazina e flufenazina) è stato riportato un rischio di
agranulocitosi. Il rischio di inibizione midollare è,
inoltre, aumentato con la concomitante somministrazione di farmaci antiretrovirali quali zidovudina, antibiotici quali co-trimoxazolo e anticonvulsivanti quali la carbamazepina. Anche l’antidepressivo mianserina può determinare inibizione
midollare. Qualora l’uso dei farmaci citati venga
ritenuto indispensabile, sarà necessario, in caso
di associazione con antiretrovirali, un regolare
monitoraggio emocromocitometrico.
Infine, occorre considerare che l’impiego di antidepressivi triciclici può indurre l’insorgenza di un
quadro di delirium.
Nell’ambito dell’impiego di antidepressivi in associazione con
i farmaci antiretrovirali, è stata segnalata la maggiore
maneggevolezza degli SSRI citalopram, paroxetina e sertralina e dei nuovi antidepressivi mirtazapina e reboxetina. Per il
controllo dei sintomi psicotici in soggetti sieropositivi per HIV
i neurolettici atipici risperidone, olanzapina e quetiapina sono
ritenuti meglio tollerati per il limitato rischio di insorgenza di
effetti extrapiramidali.
Tra gli stabilizzanti dell’umore, il gabapentin e la lamotrigina
possono essere utilizzati, con sufficienti margini di sicurezza,
per il profilo di tollerabilità e le scarse interazioni con antiretrovirali.
In conclusione, il tema delle interazioni tra farmaci antiretrovirali, psicofarmaci e metadone rinvia - se ve ne fosse necessità - all’importanza dell’interazione tra competenze specialistiche diverse, tutte indispensabili per un intervento terapeutico integrato ed efficace.
La bibliografia è disponibile sul sito web di Nadir.
- A T T E N Z I O N E Alcuni centri clinici italiani ci hanno informato che la
Schering Plough non è in condizioni di rifornirli
dell’interferone pegilato necessario per curare l’epatite C.
Sembra si tratti di un errore di pianificazione irrimediabile.
Mentre allertiamo i medici circa questo problema che
potrebbe obbligarli a sospendere la terapia, siamo in attesa
di una risposta da parte di Schering Plough sull’accaduto.
Pubblicheremo tale risposta su “Nadir Notizie” che sarà
inviato non appena possibile via email.
15
CROI – CONFERENCE ON RETROVIRUSES
AND OPPORTUNISTIC INFECTIONS
SEATTLE, 24 – 28 febbraio 2002
Guarinieri - Osorio - Schloesser
isposta immunitaria alla terapia antivirale, nuovi farmaci, resistenze, interazioni farmacologiche, patogenesi e malattie opporR
tunistiche, sono i temi affrontati alla IX Conferenza sui Retrovirus e
sulle Infezioni Opportunistiche (CROI),
dal 24 al 28 febbraio a
Seattle. Inoltre, questa edizione della CROI ha riproposto i temi
legati ai problemi centrali della terapia per l’HIV quali il quando e il
come iniziare la terapia, il ruolo della ricostituzione immunitaria e le
patologie legate sia all’HIV che alla terapia antiretrovirale stessa.
Immunologia
l tema della ricostituzione immunitaria e della possibile sinergia tra il trat-
Itamento e l’attività autoimmune sono stati sempre un tema di ricerca, non-
ostante fino ad oggi non siano ancora confermati i dati sull’uso della terapia
immunologica a tale scopo. Ci riferiamo in particolare agli Abs 103 e 104
(Kovacs, Sereti), ove è stato confermato che la terapia con IL-2 può portare ad una ampia proliferazione di CD4 ed ad una sopravvivenza prolungata di
tali cellule. Ma ancora non vi sono dati sufficienti per conoscere il ruolo di
queste CD4 ed il loro funzionamento. L’abstract 107 (Altfeld) si è centrato
sulla caratterizzazione della risposta immunitaria nelle persone con HIV. In
tale studio sono state paragonate le risposte CTL nel sangue periferico e nei
linfonodi e si è data una risposta a tale dinamica sia durante il trattamento,
sia in caso di interruzione di trattamento. Le cellule CD8 sono localizzate
principalmente nei linfonodi e forniscono risposte esclusivamente riscontrabili in tali compartimenti, soprattutto durante la HAART. Durante l’interruzione del trattamento in persone con infezione cronica, la circolazione di cellule CD8 contribuisce in maniera sostanziale al rinforzamento delle risposte
CTL specifiche. Appare evidente però che tale conferma ancora non fornisce
un dato specifico per le applicazioni nella pratica clinica.
Nuovi farmaci
Sli in corso di sviluppo,
ono stati presentati i nuovi agenti antiretroviraalcuni di essi ancora in
fase pre-clinica, altri che, salvo imprevisti, potrebbero essere somministrati entro pochi mesi.
Il recettore CCR5 (SCH C) in sviluppo presso la
Schering Plough, (Abs 1; Reynes), mostra in vitro
una potente attività antiretrovirale contro l’HIV-1.
La tollerabilità, la tossicità e la farmacocinetica
virale significativo ed è ben tollerato. I pazienti in
studio, ancora solo 16, hanno mostrato una riduzione media di HIV RNA > 0,9 log. La carica virale ha continuato a scendere all’ottavo giorno
anche senza trattamento. Gli effetti collaterali
riportati sono stati di grado 1 (lieve) e si riferiscono a diarrea (5) ed emicrania (4). Altro studio su
questo farmaco (Abs 5, Sankatsing) afferma che
mane suggeriscono che il farmaco è attivo in
pazienti con le mutazioni tipiche degli NNRTI e che
la risposta al farmaco è maggiore quando il DPC
083 è usato in combinazione con almeno un NRTI
nuovo. È stato affermato che “il farmaco è generalmente ben tollerato”, ma in dettaglio non sappiamo che cosa significhi anche perché è stato
interrotto dal 16% dei pazienti in trattamento a
della molecola sono state studiate su volontari
sani in un dosaggio singolo di 600 mg.
Attualmente 12 adulti HIV+ non in terapia antiretrovirale e con CD4 > 250 hanno ricevuto per 10
giorni 25 mg di questa molecola ogni 12 ore. Tale
studio ha fornito dati preliminari sugli effetti antivirali della molecola, sia in un periodo molto breve
di trattamento sia dopo interruzione, mostrando
una riduzione di almeno 0,5 log sull’80% dei
pazienti, tra cui 4 di essi hanno riscontrato una
riduzione di HIV RNA superiore ad 1,0 log.
Il TMC125, in sviluppo presso la Tibotec (Abs 4,
Gazzard) ha confermato a livello ufficiale quanto
era già stato comunicato all’ECAB: il farmaco,
NNRTI di nuova generazione somministrato per 7
giorni BID ad un dosaggio di 900 mg in pazienti
resistenti agli altri NNRTI, mostra un effetto anti-
su 12 pazienti trattati per una settimana in monoterapia il risultato di diminuzione dell’HIV RNA
nella prima settimana di terapia è stato simile a
quello di un regime a 5 farmaci. Appare evidente
che i fattori per una risposta duratura degli effetti
di tale farmaco non sono ancora conosciuti, così
come non se ne conoscono i possibili effetti collaterali per un periodo superiore ai 7 giorni.
Le risposte al DPC 083, (Abs 6, Ruiz), in sviluppo presso BMS, sono state riferite come positive.
Questo farmaco è stato già somministrato a 51
pazienti (studio 203) che hanno fallito altri regimi
con NNRTI e con HIV RNA > 1000 copie. I profili
genotipici di tali pazienti mostravano mutazioni
conferenti resistenza agli NNRTI nel 94% dei casi.
I pazienti sono stati randomizzati a ricevere o 100
o 200 mg una volta al giorno. I risultati a 8 setti-
causa di eventi avversi (8/51).
Anche l’Abs 7 ha confermato l’efficacia del farmaco, questa volta su pazienti non pre-trattati. In
questo studio (201) il farmaco è stato paragonato
all’efavirenz, ma l’incidenza dei capogiri e dei rash
è stata minore. Lo studio afferma che il DPC 083
fornisce livelli plasmatici trough che superano
l’IC90 per i virus che contengono mutazioni che
conferisco resistenza agli NNRTI.
Sono stati presentati studi in vitro dell’S-1360
(Abs 8, Yoshinaga), inibitore dell’integrasi per uso
orale. Per il momento gli studi pre-clinici mostrano
un profilo farmacocinetico e di tollerabilità accettabili sugli animali. Tale molecola potrebbe rappresentare un nuovo potente agente antiretrovirale.
Sono stati presentati studi anche sui farmaci in
accesso allargato (Atazanavir, Tipranavir) e su
16
farmaci attualmente in uso. Tra di essi quello sull’interazione Amprenavir –
Kaletra (poster 440, C Solas) in cui si afferma che la farmacocinetica del
Kaletra + Amprenavir mostra una diminuzione della Cmin tra il 51% ed il
33% con somministrazioni di 600 e 700 mg BID rispettivamente in paragone
ai pazienti trattati con associazione APV/RTV 600/100 o 750/100 mg BID.
Comunque, l’85% dei pazienti con APV/LPV/r avevano una Cmin di oltre 3
volte la Cmin normalmente osservata con il dosaggio standard di 1200 mg
BID. In maniera opposta, la media del Cmin di LPV non era modificata dall’associazione con Amprenavir a qualsiasi dosaggio. Solas suggerisce l’utilizzo di sistemi di monitoraggio dei livelli ematici in questo tipo di associazione per evidenziare qualsiasi diminuzione o aumento delle concentrazioni
che potrebbe portare ad eventi avversi o a fallimento virologico. Dato che lo
studio si riferiva a 51 e 24 campioni di plasma rispettivamente, Solas conferma che sono necessari ulteriori studi per valutare maggiormente tali regimi. Anche De Luca, con il poster 423, su pazienti in terapia di salvataggio
con LPV/r + APV nei dati presentati a 24 settimane, conferma che i livelli
plasmatici dell’Amprenavir, somministrato con LPV/r, sono più bassi. Inoltre,
una terapia di salvataggio con tale combinazione in pazienti pre-trattati con
le tre classi di farmaco mostra risposte significative nei CD4 e risposte parziali a livello virologico.
E’ stato anche presentato uno studio (Abs 126, R Bertz, Abbott) sull’uso di
Kaletra una volta al giorno in rapporto a due volte al giorno. Sono stati
arruolati 38 soggetti HIV+ non esposti ad alcun trattamento e randomizzati
a LPV 400/100 BID o LPV 800/200 QD con d4T e 3TC; ambedue i bracci
hanno prodotto una simile Cmax e AUC di LPV. I Ctraf non presentavano
alcuna differenza tra la settimana 3 e la 48 pertanto i ricercatori sostengono
che il dosaggio 800/200 QD produce Cmax e AUC simili alla somministrazione 400/100 BID e l’efficacia clinica delle due somministrazioni era simile
dopo 48 settimane
Sono stati presentati alcuni studi su varie associazioni con Atazanavir (con
SQV, con EFV e con RTV). Nell’Abs 42, Haas ha presentato uno studio su 85
pazienti (studio BMS 009) con HIV RNA 1000 - 100000 copie e con CD4 > 100.
A 48 settimane Haas conclude che nei soggetti che hanno fallito altri regimi,
ATV/SQV una volta al giorno porta a soppressione rapida e durevole dell’HIV
RNA ed a un aumento dei CD4. Inoltre, tale combinazione diminuisce il colesterolo totale, l’LDL ed i trigliceridi mentre la combinazione RTV/SQV BID ne
produce un marcato aumento (11% dei valori di colesterolo, 23% di LDL e 93%
Patogenesi
ulla rivista EATN ci siamo spesso chiesti se gli episodi di viremia transSiente, cosiddetti blips, potessero significare fallimento virologico o terapeutico. D Havlir (Abs 93), dell’Università di California, ha presentato uno
studio partendo dal presupposto che sia nei pazienti naive sia in quelli con
limitata esposizione ai farmaci, al raggiungimento dei livelli di viremia non
quantificabile i blips (> 50 copie) sono associati con un livello maggiore di
viremia plasmatici ma non con un fallimento virologico. Lo studio presentato
esamina se i blips predicono un fallimento virologico nei pazienti altamente
pre-trattati in terapia di salvataggio. Nell’ACTG 398, il 25% dei pazienti che
ha raggiunto HIV RNA < 50 copie, ha presentato blips. La conta dei CD4 è
aumentata e non ha mostrato differenze tra i pazienti che hanno avuto blips
e gli altri. Non si è manifestata alcuna associazione tra la resistenza fenoti-
Vaccini
oche sono le novità che si riferiscono alle prospettive per un vaccino conPtro la TBC e contro il MAC. I ricercatori (J L Flynn) puntano su un candidato che includa i bacillo Calmette-Guerin con proteine del M. Tuberculosis
e proteine e peptici di fusione e vaccini DNA. Come noto, i dati di epidemiologia sulla TBC sono sempre più allarmanti, soprattutto per quanto concerne
i paesi in via di sviluppo, sia in Africa che nell’est europeo.
Molto affollata la presentazione di E Emini, della Merck, il quale ha presentato alcuni dati sul vaccino che sta sviluppando per l’HIV-1. Niente di nuovo
Sessione sulle controversie
uando iniziare la terapia antiretrovirale continua ad essere tema affronQtato in tutte le conferenze internazionali. A Seattle R E Chaisson,
dell’Università Johns Hopkins di Baltimora, ha analizzato rischi e benefici
dell’inizio ritardato della terapia tenendo in considerazione che, allo stato
attuale, il virus non può essere eradicato dai serbatoi cellulari. Inoltre, i dati
rilevati in uno studio fatto al Johns Hopkins su 553 pazienti dimostrano che
i pazienti che hanno iniziato la terapia intorno ai 200 CD4 rispondono bene
quanto coloro che hanno iniziato prima in termini di ricostituzione immunitaria, mentre coloro che iniziano il trattamento al di sotto dei 200 CD4 sono a
maggior rischio di progressione della malattia. Chaisson conclude che ritardare il trattamento fino al momento in cui il paziente ha 200 CD4 non sembra aumentare il rischio di progressione. Ciononostante, Chaisson ha confermato che la mortalità è molto più elevata nei pazienti che iniziano tardi che
in coloro che iniziano presto e che l’uso di sostanze quali la cocaina, l’eroina
e l’alcool interferisce nell’aumento dei CD4, ma ciò è dovuto alla scarsa aderenza dei pazienti che ne fanno uso. La carica virale, pur essendo un dato
della progressione della malattia, non fornisce un dato clinico di risposta alla
terapia antiretrovirale. I pazienti che hanno iniziato la terapia antiretrovirale
con numero superiore a 350 CD4 è probabile che debbano affrontare maggiormente la tossicità dei farmaci e l’emergenza di ceppi resistenti ai farmaci senza uno specifico beneficio clinico. La terapia antiretrovirale dovrebbe
essere iniziata pertanto tenendo in conto il numero dei CD4 e la capacità del
paziente ad aderire a regimi complessi e potenzialmente tossici.
dei trigliceridi). L’analisi dei profili lipidici in pazienti pre-trattati suggerisce che
l’uso di Atazanavir può ridurre ilo rischio di eventi cardiovascolari. Ci soffermiamo anche sul poster 445 (Agarwala – BMS) ove si sono studiati gli effetti
di farmacocinetica sull’Atazanavir con e senza ritonavir, ma in pazienti sani. Lo
studio è stato effettuato per 14 giorni su 30 persone sane e mostra che l’esposizione con ATV + RIF con ritonavir produce livelli di PK paragonabili a ATV
+ RIF senza RTV, ma di 2,5 volte più alti utilizzando la dose standard di 300 mg
RIF. Pertanto l’Atazanavir può essere somministrato senza modificazione del
dosaggio standard di ribafutina. E’ da segnalare che questo è uno dei pochi
studi che si occupa di analizzare possibili associazioni tra PI ed un farmaco fondamentale per i pazienti con MAC o TBC. Sempre su pazienti sani è stato presentato il poster 444 (O’Mara) che analizza l’associazione di 200 mg di RTV una
volta al giorno con ATV e EFV e conclude che la combinazione di tali farmaci
annulla l’effetto induttivo dell’EFV sull’ATV, ma aumenta l’esposizione dell’ATV
di 3 volte, rispetto all’ATV da solo.
Sono stati presentati due studi sul Tipranavir . Questa molecola, che ha
sofferto durante la fase di sviluppo del passaggio da Pharmacia – Upjohn
a BI, finalmente inizia a produrre una letteratura. Nel poster 562
(Schwartz) ha presentato i risultati dei profili di resistenza su 41 pazienti. Utilizzando TPV 500mg/RTV 100mg BID o TPV 1000 mg/RTV 100 mg
BID per 48 settimane i pazienti, altamente pre-trattati e con resistenza a
tutti i PI mostravano una diminuzione di 2,39 e 2,24 log di copie HIV/RNA
rispettivamente. Solo 6 pazienti hanno mostrato una diminuzione di efficacia del TPV associata a 16 mutazioni, tra cui la 82, 84 e 90. Livelli elevati di resistenza al Tipranavir sono stati riscontrati solo nel plasma di un
paziente, pertanto i ricercatori sostengono che il profilo di resistenza del
TPV è insolito e una diminuzione dell’efficacia del farmaco si è constata
solo nel 14% dei pazienti che presentavano una media di 16 mutazioni, tra
cui quelle citate. Con il poster 434 (Mc Callister, BI), sono stati presentati gli studi di farmacocinetica del Tipranavir in associazione con 100 o
200 mg di ritonavir. Lo studio, in aperto, su 113 persone HIV-, dimostra
che le concentrazioni plasmatiche di TPV vengono aumentate significativamente in presenza di RTV (100 o 200 mg). Riteniamo comunque che inizialmente questo studio era stato disegnato per “dose finding” in quanto
ha utilizzato 250, 500, 750, 1000, 1250 mg di TPV, ma attendiamo entro
breve di conoscere da BI quali sono gli studi di “dose finding” previsti per
questa molecola.
pica ai farmaci ed i blips di HIV RNA. Analogamente con altri studi,
nell’ACTG 398 il mancato raggiungimento di VL < 50 copie faceva prevedere un rebound virologico. Anche l’analisi dei pazienti arruolati nell’ACTG 359
non ha mostrato associazioni significative tra i blip di RNA (> 500 copie) e il
rebound virologico (> 1000 copie). La Havlir conclude sostenendo che anche
nei pazienti altamente pre-trattati ed in regime di salvataggio, gli aumenti
temporanei di HIV RNA non significa né predice il fallimento virologico (almeno a 38 settimane) nei pazienti che hanno raggiunto una viremia plasmatici
< 50 copie in almeno un’occasione. Definire fallimento virologico in presenza di uno o più blips, dopo una soppressione iniziale a < 50 copie è un concetto troppo limitativo. La Havlir raccomanda che tale osservazione abbia un
significato chiaro nella pratica clinica.
rispetto a quanto abbiamo riportato sul numero 3 di Delta, e cioè, gli studi di
fase 1 sono iniziati su volontari sieropositivi e sieronegativi e prevedono
dosaggi crescenti di un vaccino con vettore adenovirale usato per priming e
per boosting e per boosting dopo priming con vettore DNA. Emini prevede
che gli studi iniziali forniranno una stima dell’immunogenicità del vettore adenovirale nell’essere umano e se la soppressine dell’immunogenicità che può
essere mediata dall’immunità pre-esistente contro il vettore possa essere
superata.
STI – Interruzione Strutturata di Terapia. B Hirschel dell’Università di
Ginevra ha spiegato il razionale triplice dell’Interruzione Struttura di Terapia:
stimolare la risposta immunitaria dopo la soppressione della viremia con il
trattamento (autovaccinazione), aumentare i tempi senza l’uso di farmaci
(qualità della vita, effetti collaterali e costi) e indurre, tra coloro che sono
resistenti al trattamento, la reversione a ceppo selvaggio e pertanto migliorare il successo della terapia di salvataggio susseguente. Per quanto concerne l’autovaccinazione, gli unici risultati di rilievo provengono dai pazienti
che hanno iniziato la HAART durante l’infezione primaria: fino al 60% sono
riusciti a controllare la viremia al di sotto di 5.000 copie fino ad un anno
senza HAART, mentre tra i pazienti che hanno iniziato- il trattamento più
tardi, solo il 17% è riuscito a mantenere la viremia al di sotto delle 5.000
copie dopo 4 cicli di STI (2 settimane in terapia, 8 settimane senza). Inoltre,
Hirschel ha riferito che mentre i test in vitro mostravano una stimolazione
delle risposte linfocitarie citotossiche (CTL), tale stimolazione non rispondeva a viremia bassa senza terapia, ovvero i pazienti con carica virale più alta
tendevano ad avere una risposta CTL più attiva. Hirschel conclude sostenendo che, al momento, l’STI fornisce solo una promessa di minori effetti
collaterali e di un costo meno gravoso e ciò può essere di interesse per i
paesi in via di sviluppo. Ma i rischi ed i benefici di tale sistematica debbono
essere tuttora studiati in trials ampi e per lunghi periodi. Attualmente sono
in corso di pianificazione vari studi sull’ STI: interruzione lunga guidata dal
calendario (ad esempio due mesi sì e due mesi no) o dalla conta dei CD4
17
(sospensione appena si raggiungono i 350 CD4); interruzione breve basata
sull’esperienza di uno studio pilota su pazienti trattati con indinavir e ritonavir + stavudina e lamivudina ove non si sono osservati rebound su un trattamento una settimana sì e una settimana no. Quest’informazione non deve
essere considerata come una possibile alternativa allo schema terapeutico:
Hirschel parlava di dati iniziali e di studi ancora in corso di pianificazione.
Allertiamo i nostri lettori a non prendere iniziative di interruzione senza parlarne con il proprio medico e solo sulla base di quanto riferito nelle conferenze che presentano studi ancora in corso di pianificazione (ndr).
Il ruolo del monitoraggio dei livelli ematici nella pratica clinica (TDM) è un
altro tema di ampio dibattito. D Back, dell’Università di Liverpool, è torna-
to sul tema ma non ha aggiunto molto rispetto a quanto presentato ad
Atene nello scorso ottobre e già riportato sul numero 2 di Delta. In breve,
il TDM può essere utilizzato nella pratica clinica se vi è una relazione definita tra l’esposizione ad un farmaco e la sua tossicità o la sua efficacia,
quando vi è una ampia variabilità nell’esposizione ad un farmaco ed una
finestra terapeutica relativamente piccola. Gli unici candidati al TDM sono
i PI e gli NNRTI. Tuttavia Back ha fatto un passo avanti in quanto ha legato
i livelli ematici al fenotipo (attuale o virtuale) per generare un quoziente inibitorio. Ciò in quanto le concentrazioni plasmatiche trough al di sopra dei
livelli accettabili possono generare effetti collaterali e non aumentare l’efficacia del farmaco.
Coinfezione HIV/HCV
inalmente la coinfezione HIV/HCV ha avuto un ruolo di primo piano. Nel corso della CROI di quest’anno sono stati presentati oltre 40 abstracts ed un simFposio sulle coinfezioni. Non solo il numero degli abstracts, ma soprattutto la qualità degli studi, è sensibilmente migliorata. I “pezzi grossi”, come l’ACTG
e le compagnie farmaceutiche, sono finalmente passati all’azione!
Trattamento dell’infezione HCV su pazienti sieropositivi
bbiamo avuto modo di ascoltare i risultati preliminari dello studio ACTG
relativi alla risposta virologica sostenuta (HCV RNA negativa dopo sei mesi
A5071, su 133 pazienti con coinfezione HIV/HCV randomizzati per riceve- dall’interruzione del trattamento) prima di esprimere un parere definitivo
re Interferone pegilato-alfa 2 (Pegasys, Roche) alla dose di 180 mg la settimana, oppure Interferone-alfa 2 alla dose di 6 milioni di unità tre volte la settimana per 12 settimane, seguite da 3 MIU TIW. Entrambi i gruppi hanno
ricevuto ribavirina 600 mg al giorno, per poi passare alla dose di 1 gr. nel
caso in cui tale dosaggio fosse tollerato dai pazienti. Tutti i pazienti in trattamento ARV avevano CD4 >100/ml e HIV-RNA < 10.000. Un piccolo sottogruppo di pazienti con CD4 > 300 non era in trattamento antiretrovirale.
Risultati – al termine delle 24 settimane di trattamento, il 44% dei pazienti
aveva HCV RNA < 50 c/mL nel braccio in trattamento con IFN pugilato vs.
15% nel braccio trattato con IFN standard, utilizzando un’analisi intent-totreat (drop-out = fallimento). Considerando il genotipo 1, generalmente
meno sensibile al trattamento, le percentuali scendevano, rispettivamente, a
33% e 7%. Il genotipo 2 e 3era associato ad una migliore risposta (80% nel
braccio trattato con IFN pegilato e 40% nel braccio trattato con IFN standard). Nel complesso, circa il 14% dei pazienti hanno interrotto il trattamento per effetti collaterali dovuti ai farmaci utilizzati; un dato simile a quello
osservato in pazienti con sola infezione HCV. Vale la pena di attendere i dati
Con o senza ribavirina?
resentando un follow-up relativo allo studio già presentato alla conferenPza IAS di Buenos Aires il gruppo di Madrid ha per senato i risultati dello
studio in aperto che prevede l’uso di Peg-Intron (Shering) più ribavirina.
Sono stati arruolati 65 pazienti con CD4 > 300 cellule/ml ed HIV-RNA <
5000 c/mL. I pazienti hanno ricevuto Peg-Intron 150 mg la settimana per tre
mesi, per poi vasara a 100 mg. la settimana per oltre tre mesi nel caso in cui
il genotipo fosse 2 o 3 (9 mesi nel caso in cui il genotipo fosse 1 o 4). La dose
di ribavirina era di 800 mg. al giorno. Complessivamente il 54% dei pazienti
aveva carica virale (HCV RNA) negativa al termine del trattamento, 37% per
il genotipo 1 e 4, e 63% per il genotipo 2 e 3. Si tratta di risultati simili a quelli dello studio ACTG, a 24 settimane. La percentuale di riposta sostenuta era
del 33%. Il 14% dei pazienti ha interrotto il trattamento, nella maggior parte
dei casi per sindrome pseudo-influenzale e complicazioni neuropsichiatriche.
Due studi hanno cercato di determinare quanto sia rapida la riduzione della
carica virale utilizzando interferone pegilato vs. interferone standard in
pazienti con coinfezione HIV/HCV. Sono stati considerati 8 pazienti, tutti con
genotipo 1, arruolati in uno studio Roche che ha randomizzato i pazienti per
ricevere IFN pugilato + Ribavirina, IFN pegilato + ribavirina (placebo) vs.
interferone + ribavirina (4 pazienti in trattamento con Peg + o – ribavirina e
4 in trattamento con IFN + ribavirina). Inoltre, sono stati presi in considerazione 10 pazienti, 9 dei quali con genotipo 1, nello studio ACTG 5071 (5 Peg
e 5 IFN Standard). A tutti i pazienti sono stati prelevati campioni di sangue
nei primi fiotti di trattamento per determinare la velocità nella riduzione della
carica virale (HCV) dopo l’inizio del trattamento.
18
sullo studio.
Un altro studio, condotto dall’HRN (Hepatitis Resource Network), ha randomizzato un gruppo di pazienti con coinfezione HIV/HCV per ricevere
interferone standard una volta al giorno vs. interferone standard tre volte
la settimana in associazione a ribavirina 800 mg. al giorno. Sono stati
arruolati 180 pazienti, 90 per ogni braccio di studio. Tutti i pazienti avevano CD4 > 100. Questo studio ha arruolato circa il 50% di pazienti noncaucasici (una percentuale maggiore rispetto ad altro studio sino ad opra
condotto). Alla 12^ settimana il 23% dei pazienti, equamente distribuiti
tra i due gruppi, ha interrotto il trattamento, nella maggior parte dei casi
per effetti collaterali associati all’IFN (la sindrome peudo-influenzale ed
i disturbi neuropsichiatrici sono stati gli effetti collaterali maggiormente
riportati). Il 25% dei pazienti assegnati al gruppo in trattamento con IFN
una volta al giorno, vs. il 10% dei pazienti che assumevano IFN tre volte
la settimana, hanno avuto la carica virale in 12 settimane (in entrambi i
casi, i dati sono stati inferiori a quelli a 24 settimane dello studio ACTG).
I dati Roche erano particolarmente difficili da interpretare, vista la variabilità della risposta. Non è stata osservata la caratteristica riduzione “bi-fasica”
della carica virale (una veloce riduzione della carica virale seguita da una
seconda fase più lenta). Solo tre pazienti hanno risposto al trattamento dopo
24 settimane, 2 dei quali hanno avuto carica virale negativa dopo 5 giorni, ed
uno dopo 28 giorni di trattamento. Il resto dei pazienti ha avuto una riduzione della carica virale minima. I dati ACTG erano leggermente migliori. La
riduzione della carica virale, sia nella prima sia nella seconda fase del braccio Peg vs. IFN standard era significativamente maggiore (un dato che generalmente correla con la potenza). Il tempo necessario ad “eradicare” il virus
dall’organismo nel gruppo Peg era di soli 194 giorni, mentre nel braccio in
trattamento con IFN standard il tempo stimato era di 2400 giorni. Il messaggio principale è che l’interferone Peg è superiore all’IFN standard sia nei
pazienti HIV+ sia nei pazienti HIV- e che tale trattamento dovrebbe essere
ormai considerato lo standard di cura per l’HCV. Non sono stati presentati
dati che dimostrino la superiorità del Peg-Intron rispetto a Pegasys. I pazienti con coinfezione HIV/HCV hanno generalmente una risposta inferiore a
quella osservata nei pazienti senza coinfezione.
1.
2.
3.
4.
5.
Abstract LB-15. Chung et al.
Abstract 651. Sulkowsky et al.
Abstract 652. Perez-Olmeda et al.
Abstract 121. Torriani et al.
Abstracct 122. Sherman et al.
Trapianti in pazienti HIV+
’anno scorso i dati su trapianti eseguiti su persone sieropositive sono stati
Lassi scarsi. Quest’anno le cose sono andate molto meglio.
Sono stati riportati i dati riguardanti l’esito di 26 trapianti di fegato eseguiti
su persone sieropositive, tra il settembre 1997 ed il dicembre 2001, presso
l’università di Pittsburgh, l’Università di Miami, il King’s College di Londra,
l’Università della California a San Francisco e l’Università del Minnesota. In
un caso si trattava di trapianto da donatore vivente, mentre negli altri casi si
trattava di trapianti da cadavere a vivente. Il trapianto da vivente a vivente
ha richiesto un successivo trapianto da cadavere a vivente. 17 pazienti erano
HCV+, 6 HBV+, mentre in 3 casi si trattava di fallimento epatico fulminante. Il tempo medio di sopravvivenza è, per ora, di 15 mesi (intervallo: 1-53).
Malattie cardiovascolari ed HIV
ebbene vi siano sempre maggiori preoccupazioni rispetto alla possibile
Sassociazione tra il trattamento ARV e maggior rischio di sviluppare malat-
tie cardiovascolari (CHD) non esistono, sino ad ora, dati conclusivi che provino con chiarezza un legame causa-effetto tra trattamento e sviluppo precoce di CHD. Ha destato particolare impressione la relazione del Dr Sam
Bozzette, presentata nella sessione late-breakers, intitolata “Cardio and
Cerebrovascular Outcomes with Changing Process of anti-HIV therapy in
36,766 US veterans”. Il Dr Bozzette ha analizzato i dati relativi all’uso di
ARV, ricoveri ospedalieri, ogni causa di morte, e mortalità associata a malattie cerebro-vascolari su un arco di 8.5 anni, utilizzando il database dei veterani americani. Come già osservato in altri studi di coorte l’uso della terapia
HAART è correlata ad una riduzione significativa della mortalità e della morbilità associata all’infezione da HIV. Il Dr Bozzette ha tuttavia osservato che
gli eventi cardiovascolari sono rimasti sostanzialmente stabili nell’arco degli
8.5 anni presi in considerazione. Sulla base dello studio, il Dr Bozzette conclude che non è possibile osservare alcun cambiamento significativo.
Tuttavia, prima di accettare tali conclusioni vale la pena di fare un paio di
considerazioni in materia. Primo, potrebbe essere ancora troppo presto per
osservare un cambiamento significativo nella storia naturale delle CHD. Le
malattie cardiovascolari non si presentano nell'arco di una notte, ma richiedono generalmente 20-30 anni. Minimizzare il significato della dislipidemia e
dell’intolleranza al glucosio, nei sei anni passati, è come dire ad un adole-
7 pazienti sono morti: 5 per reinfezione con HCV, 1 paziente ha interrotto il
trattamento HAART ed ha rigettato l’organo per un assorbimento insufficiente degli immunosoppressori. Un paziente ha avuto una pancreatite grave
associabile all’intervento. Il numero medio di cellule T al momento dell’intervento era di 192 cellule/ml (intervallo: 76-506), salito ora a 295. La tolleranza al trattamento HAART dopo il trapianto è risultato essere un fattore predittivo rispetto alla sopravvivenza. Un anno dopo il trapianto, le percentuali
di sopravvivenza erano identiche a quelle osservate nei pazienti sieronegativi. Tutti i pazienti trapiantati sono stati trattati indefinitamente con IFN e
ribavirina.
1. Abstract 125. Ragni et al.
scente che il fumo non fa male. Generalmente, non è possibile osservare
tumori al polmone o malattie polmonari ostruttive in ragazzi di 20 anni.
Tuttavia, considerando individui che abbiano fumato per almeno vent’anni,
l'associazione tra tumore al polmone e fumo è altissima. Quando i ricercatori si dicono preoccupati che i pazienti con HIV possano sviluppare, precocemente, una malattia cardiaca, non stanno semplicemente parlando del numero totale di anni necessari allo sviluppo dell’arteriosclerosi, ma dell’età del
paziente e del modo in cui potrebbe eventualmente presentarsi la malattia.
Un altro problema è quello relativo alla raccolta dei dati. Come sappiamo
bene, l’analisi dei dati retrospettivi è funzione diretta del modo in cui gli stessi dati sono stati inseriti. Il database dei veterani americani è un sistema
meraviglioso, da un punto di vista tecnico, ed è probabilmente uno dei migliori database sanitari al mondo. Tuttavia, i dati non sono sempre inseriti correttamente, ed è frequente il caso di dati mancanti. Concludere, come ha
fatto Bozzette, che i medici non dovrebbero tener conto del rischio di malattie cardiovascolari nella scelta del trattamento antiretrovirale è un affermazione pericolosa ed azzardata. Crediamo che le complicazioni metaboliche a
lungo termine dovrebbero essere considerate un rischio potenziale, senza
tuttavia dimenticare che l’obiettivo principale rimane quello di tenere sotto
controllo la replicazione virale e la progressione clinica.
Rischio cardiovascolare nelle donne
ono stati presentati diversi studi di base sulle malattie cardiovascolari. Si
tentativo di correlare i livelli CAMs con gli esami metabolici. Non è stata
Spensa che le molecole che aderiscono alla cellula (CAMs) possano gioca- osservata alcuna differenza significativa nella quantità di CAMs, considere un ruolo importante nello sviluppo precoce dell’arteriosclerosi. Livelli elerando gruppo etnico e tipo di trattamento (IP vs. NNRTI vs. NRTI vs. nessun
vati di CAMs sono associati alle malattie cardiovascolari, ed in modo particolare all’infarto al miocardio ed all’arteriosclerosi carotidea. Il Dr
Baussermann ha presentato l’abstract 693-T “Circulating Cell Adhesion
Molecules Are Elevated in HIV+ Women” riportando un’analisi “cross sectional” su campioni di siero prelevati da 74 donne, nell’arco di due anni, nel
trattamento). Tuttavia, i livelli di CAMs erano particolarmente elevati considerando le donne sieropositive, rispetto a quanto osservato sulle donne sieronegative. I valori CAMs risultavano inversamente proporzionali ai valori
LDL ed ai valori HDL-3. Saranno necessari ulteriori studi per valutare la relazione tra malattie cardiovascolari ed HIV nelle donne.
Una domanda ancora senza risposta…
tati altri quatto studi che mostrano un aumento del rischio cardiovascolare
tale proposito, vale la pena di tornare alla questione iniziale: se in altre
Aparole il trattamento antiretrovirale sia associato, o meno, ad un aumen- su pazienti con HIV. Wall e colleghi (abstract 659-T) hanno condotto uno stuto del rischio di malattie cardiovascolari. Il Dr Mauss e colleghi (abstract
689-T) hanno esaminato 187 campioni di siero prelevati da pazienti naive
(17%), da pazienti trattati solamente con NRTI (11%), con regimi contenenti
NNRTI (37%) o IP (35%). Solo 1/3 dei pazienti aveva un’alterazione dei livelli di LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”), un dato equivalente a quello
osservato nella popolazione generale. Il resto dei soggetti aveva un livello
elevato di VLDL che, una volta analizzato, ha rivelato un gran numero di particelle TG, che non sono ritenute aterogeniche. Gli stessi soggetti avevano
livelli elevati di colesterolo HDL. Il Dr Mauss conclude che la terapia ART
potrebbe essere associata ad un rischio di malattie cardiovascolari assi
minore rispetto a quello riportato da altri ricercatori.
Al contrario, altri gruppi di ricerca hanno già potuto osservare un aumento
degli eventi cardiovascolari. Reisler e colleghi (abstract 36) hanno condotto
un’analisi retrospettiva su 5 studi clinici CPCRA (3050 pazienti) che ha rivelato un rischio di malattie cardiovascolari di 9.29, rispetto al rischio di progressione verso l’AIDS. Il Dr Tedaldi e colleghi (abstract 659 M) ha riportato una maggiore incidenza di malattie cardiovascolari in pazienti HIV+ con
coinfezione HIV/HCV rispetto alla sola infezione da HIV. Sono stati presen-
Il dibattito continua
siste una sempre maggiore evidenza rispetto al fatto che l’HIV, ed il tratEtamento ARV, sia associato a numerose alterazioni metaboliche come
iperlipidemia, intolleranza al glucosio, obesità centrale, ed ipertensione, tutti
fattori associati alle malattie cardiovascolari. Esistono inoltre fattori di
rischio stabili, come sesso, età e storia familiare. Aumenta l’enfasi relativa al
rischio associati al fumo, alla dieta, all’esercizio fisico ed al controllo del diabete e dell’ipertensione. Sebbene non sia ancora possibile stabilire quale sia
dio prospettico su 111 pazienti e 25 pazienti sieronegativi utilizzati come controllo. Il rischio medio di sviluppare una malattia cardiovascolare in 10 anni
era del 4% nella coorte di pazienti sieropositivi rispetto all’1% nel gruppo di
controllo. I ricercatori hanno inoltre calcolato il rischio associato al trattamento ARV, riportando il 6% di rischio nel gruppo trattato con IP rispetto al
3% nei pazienti mai trattati con inibitori della proteasi. Le analisi del Dr
Leport e colleghi (abstract 698-T), che hanno presso in esame il database
HOPS, confermano i dati di Wall, relativi ad una maggiore associazione tra
uso di IP e rischio cardiovascolare. Considerando la coorte HOPS, l’associazione tra infarto al miocardio ed uso degli IP rimane significativa anche nel
caso in cui il dato sia corretto considerando altri fattori di rischio (i.e. fumo,
ipertensione, diabete, età, sesso e dislipidemia). Dall’altro lato, Klein e
Hurley hanno analizzato retrospettivamente 4159 pazienti con HIV e 40.000
persone sieronegative senza essere in grado di osservare alcuna differenza
rispetto agli eventi cardiovascolari, considerando il tipo di trattamento utilizzato. Tuttavia i ricercatori hanno potuto osservare un aumento delle ospedalizzazioni nei pazienti sieropositivi, rispetto a quanto osservato nelle persone
sieronegative (6.5 vs. 3.8 eventi per 1000 persone / anno).
il peso da attribuire all’infezione da HIV e/o al trattamento ARV, aumenta il
consenso rispetto alla necessità di considerare il rischio di malattie cardiovascolari, come uno dei fattori di cui tener conto nella scelta del trattamento antiretrovirale, e la maggior parte dei ricercatori concordano sul fatto che
i pazienti in trattamento dovrebbero essere attentamente monitorati per individuare segni e sintomi associati al rischio coronario.
19
Il Vaccino anti - Tat dell’I.S.S.
Simone Marcotullio
Report della Conferenza tenuta il 23/02/2002 a Siena dalla Dott.ssa Barbara Ensoli, direttore del Reparto
di Infezioni da Retrovirus presso l’Istituto Superiore di Sanità, dal titolo “Sviluppo di un vaccino contro HIV
/ AIDS: dal laboratorio al paziente”.
l virus dell’ HIV – 1 è definito come “quasi- siti sopraelencati. La proteina Tat è un immunospecie”, ossia esistono tanti sottotipi del geno, transattivatore virale, ossia appena il
virus caratterizzati dalla diversità dell’involu- virus entra nella cellula, prima dell’integrazione,
cro. Da ciò la difficoltà di trovare un vaccino, sintetizza la proteina Tat per riprodursi. Questa
ossia un minimo comune denominatore che proteina, rilasciata in ambiente extracellulare è
possa essere riconoscibile e perciò utilizzabile conservata e inoltre aumenta l’infettività virale
da una sostanza potenzialmente candidata allo (quindi potenzialmente utilizzabile per il conscopo.
trollo, sperato, della replicazione virale).
Un vaccino, per definizione, deve dare due tipi Negli studi preclinici del vaccino preventivo su
di risposta all’infezione dal virus (in questo topi e scimmie (attraverso il virus SHIV89.6P)
caso l’ HIV): una risposta umorale da parte di si è controllata la sicurezza e l’immunogeniticellule B, cioè una produzione di anticorpi che cità. Si è utilizzata su 20 scimmie la proteina
“legano” con l’HIV, e una risposta cellulo- Tat (10) e il DNA di Tat (10), il tutto per 50
mediata, quella dei linfociti T (i CTLs), che settimane. Le conclusioni per la Tat sono che
uccidono le cellule infette dal virus (es: CD8+ la proteina non è tossica, ha indotto una
cellula citotossica).
risposta umorale e di CTLs, ha protetto 5 su 7
Esistono due tipologie di vaccini: uno preventi- scimmie vaccinate dallo sviluppo della malatvo, da somministrarsi agli individui non infetta- tia. 3 su 3 scimmie di controllo sono morte. 2
ti, e uno terapeutico, da utilizzarsi invece nelle scimmie invece sono state vaccinate ma non
persone già HIV+. Numerosissime sono le stra- sono state protette. Per il vaccino DNA di Tat,
tegie vaccinali per combattere l’HIV. Quella di 4 su 4 scimmie sono state protette, vi è stata
cui si parla in questa sede è basata su una prouna buona risposta di CTLs, i controlli sono
teina dell’envelop (involucro) del virus. La stramorti e in 9 casi su 11 si è raggiunto l’obiettitegia viene considerata efficace se blocca l’envo della protezione. Per quel che riguarda,
trata del virus nella cellula e la replicazione virainvece, la preclinica del vaccino terapeutico
le. L’obiettivo del vaccino è quello di simulare
ciò che avviene nei “Long Term non sia di Tat che di DNA di Tat, esso è risultato
Progressors” ossia in coloro che si sono infet- sicuro, non tossico e non si è riscontrato un
tati con il virus, ma non sviluppano la malattia. aumento di viremia.
I problemi riscontrabili nel raggiungere questo E’ in progetto solo sul vaccino Tat (non, quindi,
obiettivo sono principalmente due: non si riesce sul DNA di Tat) la sperimentazione di fase I sula indurre un numero alto di anticorpi neutraliz- l’uomo per verificare la sicurezza sia per il vaczanti (la cosiddetta immunizzazione sterilizzan- cino preventivo (50 soggetti) sia per quello
te) e la specifica variabilità virale dell’envelop terapeutico (70 soggetti). Questa fase avverrà,
del virus a causa dei diversi sottotipi e dei secondo i progetti, in Italia (Roma e Milano) a
“ricombinanti”. Il vaccino candidato dovrà dun- partire dall’estate del 2002. La fase II (cioè la
que avere come obiettivo il blocco della replica- verifica dell’immunogeniticità e del dosaggio)
zione virale, cioè si supera l’idea di un vaccino avverrà successivamente per entrambi i vaccineutralizzante per approdare a quella di un vac- ni, preventivo e terapeutico, in Italia e in Africa.
cino contenitivo. Il prodotto vaccinale deve La fase III (efficacia) è prevista, per il terapeuavere tre caratteristiche: essere un prodotto tico in Italia ed in Africa, per il preventivo solo
“chiave” nel ciclo del virus, essere immunogeni- in Africa.
co (deve dare una risposta umorale cellulare) e Lo Sponsor del trial è al momento L’Istituto
infine essere conservativo (ossia valido per tutti Superiore di Sanità ed è gestito interamente
dalla PAREXEL. La produzione del vaccino si
i sottotipi).
Da queste considerazioni è scaturita l’idea del farà in Scozia in quanto in Italia non vi è la tecvaccino Tat che incontrerebbe tutti e tre i requi- nologia necessaria.
I
RIVISTA DI INFORMAZIONE SULL’HIV
n.4 Primavera 2002
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Il numero 4 di Delta è dedicato alla memoria di
JOHN WILLIAMS
FOTOGRAFO
Caracas, 31 ottobre 1948
Miami, 7 aprile 1997
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