Carta canta
dischi
Con i «nuovi» Grinderman
Nick Cave torna a «sporcarsi le mani»
Undici pezzi per un cd sensuale, vorticoso e coinvolgente
di John Vignola
Tutti conoscono il Festival di Sanremo. Pure Nick Cave, che lo definisce «quello strano revival lirico di oggi,
che ho visto qualche volta sul satellite. Siete tutti molto magri». Del resto, a Sanremo è stato veramente, nel
2001, per ricevere la Targa Tenco alla Carriera: un’occasione in cui veniva premiata una storia strana, partita dalla sua Australia alla fine dei settanta, con i Boys
Next Door e i Birthday Party, sull’onda di «rock’n’roll,
sesso e autodistruzione» (parole sue), e proseguita poi
su una scia sempre più raffinata, legata alla letteratura
noir, al folk, al cinema, a un concetto esteso e ondivago di ballata.
Sussurri e grida, insomma,
fino al recente
Abattoir Blues/
The Lyre Of Orpheus, u n disco complesso, pensato e
concepito con
un lavoro certosino, d’ufficio quasi.
Og g i Nick
Cave cambia
faccia, e difficilmente verrebbe ospitato in Riviera.
Dalla copertina di Grinderman
Con un paio
di baffi spioventi e sconvenienti, accompagnato da tipi dallo sguardo poco raccomandabile, – se li si guarda bene sono gli stessi di
sempre, solo un po’ più sporchi – ha messo assieme i
Grinderman, nome cavato da una strofa di Memphis
Slim, per un album che uscirà fra una decina di giorni.
«Ero stufo dei Bad Seeds (la band che lo accompagna
di solito, in realtà formata da Warren Ellis e Jim Sclavunos, con lui pure nel nuovo progetto, ndr), o meglio,
volevo tornare a sporcarmi le mani».
Ecco così Grinderman, cd di undici pezzi, della durata
complessiva di un vecchio lp, quaranta minuti, pensato come un tributo «modernista» al blues, suonato quasi in presa diretta da quattro desperados: sensuale, vorticoso, coinvolgente, classico. «Un’avventura, che sto vivendo senza pelle, con pezzi che sono cresciuti uno sull’altro, come un fungo, come se si spillasse la birra. Ho
ritrovato la forza del passato, anche un po’ della disperazione, ho ripreso in mano la chitarra e ho lavorato
con il vecchio Nick (Launey, produttore anche di altri
lavori, ndr), sicuro che mi avrebbe fatto fare tutto quello che mi pareva, con poche discussioni. È successo:
abbiamo preso brani che vanno dalle parti della musica
nera, del jazz di Coltrane (Alice), del garage dei sessanta. Non mi interessava volare alto, ma esprimere visceralmente tutte le mie emozioni, scaricarmi».
Chi parla non è esattamente lontano dal successo: i
suoi ultimi cd hanno venduto centinaia di migliaia di
copie, in tutto il mondo. Oggi sceglie una via che forse scontenterà i fan del Cave più spirituale e complesso,
d’atmosfera, ma di sicuro guadagna in freschezza. «Mi
sono chiesto cosa vorrebbe dire ricominciare oggi, avere
diciott’anni e trovarsi a suonare, pensando solo a quello.
Ci sono passato anch’io, e
non m i sono
br uciato per
puro miracolo. R ig uadagnare le energie è una cosa importante. Certo, chi
oggi è giovane sente magari cose elettroniche, magari nemmeno
compra gli album. Questa è
la mia, non la
su a giovinezza, e va bene
così».
Pensato soprattutto per essere suonato dal vivo, Grinderman non è
un progetto estemporaneo, «è una band vera e propria,
con le sue ansie e la voglia di andare in giro per il mondo. Faremo una tournée intensa fra la fine della primavera e il resto dell’anno, sperando di coinvolgere qualsiasi tipo di pubblico». Il perno di tutto è il blues, la sua
attualità, che, Cave precisa, «non ha altri paragoni nella
musica del secolo scorso. C’è il senso del ritmo, così come nelle tragedie classiche, il dramma nella quotidianità, le vie sporche, gli incontri con il diavolo e via di seguito. Un racconto primitivo».
Come si può conciliare quello che ha fatto per Grinderman con
il suo passato recente?
Sono figli della medesima penna, perché la persona
è la stessa: io (ride, ndr). In realtà non mi sono mai sentito così bisognoso di nuova linfa vitale. La fabula di
Grinderman, se vuole, è anche quella di una persona
che vorrebbe tornare a casa, ma non sa dove sia finita e
quindi finisce per urlare di dolore. Nello stesso tempo
ride, anche, sia chiaro, perché è ancora un essere feroce.
Ecco, in questi pezzi non c’è una vera storia, una trama
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da raccontare e cose del genere. Ciò che conta e contava
è soltanto la suggestione, l’ipnosi di parole e suoni.
Viene in mente, in maniera inevitabile, il suo primo gruppo importante, i Birthday Party, all’alba degli ottanta.
Non so quante affinità ci siano. All’epoca suonavamo
decisamente peggio. Molto peggio (sputa per terra, ndr).
Poi, c’era una voglia di autodistruggersi, di andare al limite, che oggi non mi appartiene più. Con Grinderman
vorrei trovare nuove forze, non perdere quelle che ho.
In Australia a quell’epoca non avevamo una scena rock
forte, eravamo quasi certi che non saremmo durati, che
saremmo tutti morti, in un modo o nell’altro, e non solo artisticamente.
La brutta musica esisteva, è sempre esistita. Però, fino a
una certa epoca non c’erano dei controlli così forti sui
generi. Se un album era brutto, lo era liberamente, così come se un altro era bello. Oggi moltissimi cercano
soltanto formule da replicare: siccome la tecnologia del
make up sonoro è forte, niente è più veramente orrendo. Tutto suona impersonale, però, e per emozionarsi
bisogna andare a cercare le cose sotterranee.
Quindi non è particolarmente favorevole ai lettori multimediali
e in generale agli accorgimenti elettronici per migliorare la resa di
un cd, per ripulire gli errori.
Non particolarmente. Che bell’eufemismo. Diciamo
che non stiamo più facendo musica, ma solo aspirapol-
Nick Cave (al centro) con Warren Ellis, Martyn Casey, Jim Sclavunos, i Grinderman
Ho letto che sta per pubblicare un altro romanzo, oltre alla sceneggiatura di un film. È vero?
Non credo nell’immediato. Ci sono parole sparse, qua
e là, che potrebbero anche diventare un romanzo, ma
sono ancora da mettere in comunicazione le une con le
altre. Poi, in realtà, io lavoro sulle immagini in questo
momento: le parole servono per evocare immagini, o
tutt’al più emozioni. Il resto non mi interessa granché.
Sta dicendo che si vuole riappropriare di un’arte più istintiva?
È questo oggi il rock, secondo lei?
Non sono la persona che può valutare queste cose,
non sono un critico, un giornalista. Semplicemente, so
che oggi manca parecchio l’anima alla scena del rock.
( fa una faccia disgustata, ndr) Rock: ogni volta che pronuncio questa parola rischio di vomitare. Si usa senza capire cosa voleva dire prima.
Prima di cosa?
Prima che entrassimo nei suoni seriali, impersonali.
vere per le orecchie. I ragazzi non si immaginano nemmeno che una volta c’era un mondo fatto di cose solide come vinili. Stanno con le cuffie tutto il giorno e
non immaginano nulla, non vedono nulla, non sentono nulla.
Paradosso dell’era della comunicazione.
Sì. Magari ci vorrà parecchio tempo, però si tornerà
indietro, rispetto a tutto ciò. Non si può ascoltare musica senza sentirla fisicamente, all’aperto, senza avere un
supporto.
Con i Grinderman punta anche a questo tipo di fisicità,
immagino.
Beh, sarà un po’ il nostro avamposto. Oltre a suonare in giro, faremo altro. E non è detto che questo sarà il
nostro unico album, anzi. L’idea è quella di non smettere finché non avremo le vesciche sulle mani. Cercate
di seguirci, se potete. Più che una preghiera, un ordine
cortese. Non ve ne pentirete.
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libri
Pizzi, cinquecento spettacoli
in tutto il mondo
Allemandi dedica una monografia
al celebre regista d’opera
H
a l’aspetto imponente di opera omnia il grosso volume che Allemandi ha dedicato a Pier Luigi
Pizzi, uno dei massimi registi e scenografi della lirica italiana. In 432 pagine di grande formato la lunga e fortunata carriera dell’artista milanese di nascita ma
veneziano d’adozione viene ripercorsa punto per punto
grazie alle molte fotografie e all’agevole testo di Lorenzo
Arruga, che conduce il lettore attraverso le varie «stagioni» della produzione scenica di Pizzi, a cominciare dagli
rebbe impossibile elencarle qui in poche righe, ma si vogliono citare almeno titoli come la Semiramide di Rossini
al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi (1981), il Parsifal wagneriano alla Fenice (1983), il Maometto secondo ancora di Rossini al festival di Pesaro del 1993 (nel 2005 il regista si occuperà ancora di quest’opera curando la prima
rappresentazione in tempi moderni della variante composta per Venezia) e la più recente Gioconda di Amilcare
Ponchielli allestita al Gran Teatre Liceu di Barcellona.
Pier Luigi Pizzi. Inventore di teatro, testo di Lorenzo Arruga,
Allemandi, Torino 2006, 432 pagine, illustrato, euro 75.
«Pizzi in teatro ha fatto sempre e solamente e veramente teatro. Non c’è spettacolo, in mezzo secolo, che non abbia pensato e realizzato se non per andare a confrontarsi là, in scena,
con gli attori o i cantanti e il pubblico, nel momento della verità. Ha letto, ha visitato il mondo, ha conosciuto le innumerevoli parole degli artisti, e ancora più le loro immagini d’ogni
tempo e paese. Ogni sua scelta ne porta l’eco, ogni suo schizzo, ogni documento fotografico ne contiene il ricordo, perché
questa è la cultura; ogni sua invenzione s’irraggia e si riflette nel mondo delle figure e delle azioni, perché questa è l’arte. (…) L’arte della regia non è il racconto dello spettacolo, l’arte della scenografia non è il bozzetto o la foto di scena, l’arte
del costumista non è il figurino o il ritratto generico del personaggio: è interpretare il copione, la partitura, nella sua totalità, per farli vivere. Non tutti comprendono a fondo questa così complessa professionalità, questa così naturale vocazione: ci
sono per esempio scenografi che misurano il successo cui mirano dall’impressione suscitata ad apertura di sipario; ci sono
persino critici musicali, cui viene affidata per tradizione la recensione del teatro d’opera, che continuano a pensare alla parte scenica d’uno spettacolo come un complemento visivo dell’interpretazione musicale, un’appendice di secondo rango. Si
potrebbe discutere queste concezioni, cercarne le ragioni storiche e di costume; ma qui sarebbe tempo perso, perché Pizzi non ne è mai stato sfiorato: dall’inizio, in modi diversissimi
e con esiti artistici differenziati, è sempre stato interprete integro della totalità dell’opera da mettere in scena, di cui difatti
ha sempre conosciuto le battute e le parti non meno del direttore d’orchestra, degli attori o dei cantanti.»
da Pier Luigi Pizzi. Inventore di teatro, pp. 7-8
spettacoli di prosa per la Compagnia dei Giovani, sul finire degli anni cinquanta, per passare poi all’attività insieme a Giorgio De Lullo e successivamente all’intenso
lavoro a fianco di Luca Ronconi, che produrrà allestimenti memorabili, come ad esempio il Nabucco del 1977
diretto da Riccardo Muti, o – sempre negli anni settanta – La valchiria di Wagner, ripresa poi nel 1980 con Zubin Metha. Ma la parte centrale del libro è dedicata alle
tantissime opere che Pizzi ha curato occupandosi, oltre
che della scenografia e dei costumi, anche della regia. Sa-
Insomma il volume offre una panoramica esauriente e
dettagliata della carriera di questo maestro, anche se per
forza di cose parziale, data la natura prolifica del protagonista, che nel frattempo ha dato alla luce un raffinato Crociato in Egitto di Giacomo Meyerbeer ed è ritornato
alla prosa con un’indovinata ed divertente messinscena
delle goldoniane Ultime sere di Carnovale.
Da segnalare infine l’importante lavoro di cronologia
e ricerca iconografica di Franca Cella che correda il volume. (l.m.)
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La «Notte delle Dissonanze»
secondo Sandro Cappelletto
In volume un’analisi del celebre Quartetto mozartiano
«L
a musica delle Dissonanze
comincia con un Adagio, e sembra non volersi muovere; non un piglio
sostenuto, affermativo, ma
un’incertezza totale: noi
potremmo chiamarla ansia. (…) C’è un’ostinazione impaurita, smarrita,
nel passo del violoncello che inizia, non stacca
e non varia; nella viola
che mormora, sussulta,
declina, ricomincia e si
impenna, esitando; nel
cammino del secondo
violino – mi bemolle, re,
do diesis, re – che procede svagato e imprevedibile, si assenta, incupisce, risorge, accelera; nella breve
frase del primo che per due
volte comincia e sale, grida,
s’arresta, tace e di nuovo attacca. È l’immagine di un’anima rotta, spezzata, che non trova ascolto, che
vaga dentro, raccontata da un’armonia opaca, irrisolta: un “io”
diviso. Il tempo scorre, la musica
sosta, ripete se stessa, nell’ossessione dell’ombra sonora proiettata dal violoncello. Le pause valgono come il suono, lo seguono
e precedono, lo fanno attendere,
sono interne al suo orizzonte, al
suo dilatarsi e svanire continuo:
non c’è – dalla prima all’ultima
– una battuta senza segno di legato, linea che ondeggia e collega voce a voce, come incaricando
ora l’una ora l’altra di proseguire
il racconto immobile, di non paralizzarlo in attesa che (…) si allenti la tensione che sembra impedirne il procedere.»
da Mozart. La notte delle dissonanze, pp. 52-53.
Questo è solo un assaggio, una
pagina rubata dal bel volume dedicato da Sandro Cappelletto alla Notte delle Dissonanze, quella
notte del 12 febbraio 1785 in cui, al
cospetto del padre Leopold e dell’amico Franz Joseph Haydn, Mo-
La famiglia Mozart litografia, 1850.
Sandro Cappelletto
Mozart. La notte delle Dissonanze
EDT, Torino 2006, pp. 154, euro 15.00.
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zart presenta per la prima volta il Quartetto in do maggiore op. x, detto appunto «delle Dissonanze», ventidue battute che hanno suscitato un grande e acceso dibattito, e che sin da subito hanno
procurato al Salisburghese molte critiche, per il loro carattere quasi «eversivo» rispetto agli standard musicali dell’epoca. Ma più che voler costruire un ulteriore discorso intorno alla celebre composizione,
in questa sede si vuole
presentare un libro che
ha il pregio di avvicinare anche chi non è strettamente addetto ai lavori alle atmosfere emotive, al
contesto culturale e sociale in
cui queste note prendono vita
nella geniale mente del giovane
Amadeus.
Pur restando un’opera saggistica,
estremamente documentata nell’analisi musicologica e storica –
che mette in relazione Mozart
con il suo tempo e allo stesso modo, per contrasto, ne fa emergere
la grandezza e il temperamento
dai tratti estremamente moderni, vicini alla tormentata sensibilità contemporanea – il libro (che
ha anche dato lo spunto per uno
spettacolo teatrale curato dallo
stesso Cappelletto, cfr. VeneziaMusica e dintorni n. 13, p. 23) –
appassiona il lettore, presto catturato dalla partizione dei capitoli, che lo conducono con agilità e
sapienza verso terreni scoscesi ai
più, senza però mai lasciarlo solo davanti ai passaggi più intricati. Insomma un’opera scientifica
e allo stesso tempo avvicinabile
e spesso avvincente. E tra le cose preziose che si incontrano non
si può non citare, in conclusione,
l’«Interludio» di Sylvano Bussotti e in appendice Convenzione e originalità La «dissonanza» nel Quartetto
k 465 di Mozart, un’intensa analisi firmata da György Ligeti. (l.m.)
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libri
«il Patalogo»
racconta la stagione teatrale
Nel numero 29 l’alfabeto dei «Nomi dell’anno»
Un record di pagine quest’anno per il
ra Pa n zeri), e che ogni volta rifiorisce
Patalogo, l’annuario del teatro italiano ediquasi magicamente.
to da Ubulibri e giunto alla ventinovesi- il Patalogo 29 – Annuario del teatro 2006,
Ma il Patalogo da sempre si caratterizza
Ubulibri, Milano 2007, illustrato,
ma edizione: raggiungendo quota 400 si
anche per le sue parti speciali, quelle che
400 pagine, euro 59
aggiudica la palma della più lunga tra le
di anno in anno cambiano forma e conopere ideate e dirette da Franco Quadri
tenuti, e che costituiscono un po’ il baroa partire dal 1977, anno di elaborazione del mitico numero
metro della situazione teatrale italiana e internazionale. E
uno, quando la sezione teatrale lasciava il posto a quelle dein questa ricchissima nuova edizione ritorna una formudicate al cinema, alla televila già sperimentata con sucsione e alla musica, in un vocesso in passato, quella della
lume che comprendeva tutti i
scansione alfabetica, questa
diversi settori del mondo delvolta dedicata ai «Nomi dello spettacolo.
l’anno». Nelle sue più di cenA meno di dodici mesi dal
to pagine la sezione compie
trentesimo compleanno, che
una panoramica a tutto toncoinciderà con i festeggiado sui protagonisti del teatro
menti per i trent’anni di atdi oggi, in un mix che comtività della Ubulibri – l’uniprende le celebrazioni per i
ca casa editrice indipendencent’anni di Samuel Beckett,
te che si occupa di teatro e
gli spettacoli per le Olimpiacinema in Italia – il Patalodi di Luca Ronconi, l’umogo si presenta in forma smarismo dell’argentino Copi,
gliante, sempre più corredale lauree honoris causa di Euto di informazioni, commengenio Barba e la graffiante
ti e approfondimenti, a partidrammaturgia di Bernardre dalle sezioni «di servizio»,
Marie Koltès, per citare solche affiancano all’elencaziotanto alcune delle lettere di
ne dei dati su tutti (o quasi) gli
questo eclettico alfabeto teaspettacoli allestiti nel nostro
trale. Ma centrali in questo
paese un’esaustiva griglia di
racconto delle scene 2006 solettura – composta da stralno anche il lavoro del grande
Nella copertina di Andrea Lancellotti Studio su Medea diretto da
ci di recensioni, dichiarazioChristoph Marthaler, gli otAntonio Latella.
ni di poetica oltre a moltissitant’anni di Judith Malina e
me immagini – che costruisce nell’insieme un’unica, granl’apocalittica scrittura di Rodrigo García, oltre alla Biennade narrazione (o meglio ancora drammaturgia) dell’annale veneziana di Romeo Castellucci e al coraggioso e riuscito
ta teatrale. Un lavoro estenuante di ricerca e preProgetto «Arrevuoto. Scampia Napoli» ideato da
cisione che Franco Quadri condiviRoberta Carlotto e curato da Marco
de con un’agguerrita e infaMartinelli con i ragazzi delil Patalogo organizza e proticabile squadra (capila periferia partenomuove anche i Premi Ubu, il più importante
tanata da Barbapea. (l.m.)
riconoscimento per il teatro italiano. Ecco qui di seguito i vincitori per il 2006 dopo la doppia votazione della giuria composta da 53 critici. Spettacolo dell’anno: Gli uccelli di Aristofane, regia di Federico Tiezzi. Miglior regia: Federico Tiezzi per Gli uccelli di Aristofane. Miglior scenografia: Tiziano Santi per Troilo e Cressida di
William Shakespeare, Il silenzio dei comunisti di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin e Lo specchio del diavolo di Giorgio Ruffolo. Miglior attore: Luigi Lo Cascio per Il silenzio dei comunisti. Miglior attrice: Maria
Paiato per Il silenzio dei comunisti. Miglior attore non protagonista: Arturo Cirillo per Le intellettuali di Molière. Miglior attrice non protagonista: Gianna Giachetti per Il padre di August Strindberg. Nuovo attore o attrice (under 30): ex aequo Alessandro
Argnani, Raffaele Esposito e Lorenzo Gleijeses. Nuovo testo italiano: Il sorriso di Daphne di Vittorio Franceschi. Nuovo testo straniero: La chiusa di Conor McPherson (Teatro Stabile di Genova). Miglior spettacolo straniero presentato in Italia: Winch Only di Christoph Marthaler (kunstenfestivaldesarts). Premi speciali: 1. al Progetto «Arrevuoto. Scampia-Napoli», ideato da Roberta Carlotto, curato da Marco Martinelli e prodotto dal Teatro Mercadante di Napoli, per la valenza sociale, pedagogica e umana del progetto, condotto in un contesto sociale particolarmente difficile, e per la forza espressiva dei suoi esiti scenici. 2. al Progetto «Domani»,
ideato da Luca Ronconi e Walter Le Moli e prodotto dal Teatro Stabile di Torino, per la complessità e la riuscita artistica di un’iniziativa nella quale il teatro concorre a trovare nuova linfa espressiva nella riflessione sulla contemporaneità. 3. alla Biennale Teatro 2005,
diretta da Romeo Castellucci, per il rinnovamento apportato ai concetti di festival e di teatro. 4. al Teatrino Giullare per l’originalità
con cui usa il teatro di figura per ridare vita e profondità di interpretazione a importanti classici contemporanei.
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