.
EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO
re dell’evoluzionismo, il quale dice espressamente di attenersi alle
posizioni conciliatrici di monsignor Frassinous. Qualche commentatore ha accolto quest’idea con indignazione. Va detto, tuttavia,
che in Kircher essa ha un significato preciso: la moltiplicazione delle specie a partire da quelle create in limitato numero dal Creatore,
dipende dalla mutabilità insita in loro e persino nella superficie del
globo, superficie che si è modificata anch’essa a causa del Diluvio
universale nel volgere del tempo. Se non si tratta di evoluzionismo
in senso moderno, si tratta in ogni caso di una visione dinamica della natura dei viventi e della Terra stessa.
Va infine notato che se Kircher ammette una variabilità intrinseca
ai viventi, e la accetta persino per l’uomo, egli si indigna tuttavia e rifiuta come assurda la tesi di Isaac de la Peyrère (-), secondo il
quale la Bibbia ammetterebbe l’esistenza di altri esseri umani prima di
Adamo, i cosiddetti “preadamiti”.
Qualche odierno sostenitore del creazionismo può obiettare che
Kircher è stato un visionario isolato che non merita attenzione, e che
in effetti non ne ha ricevuta molta. È invece vero che egli è stato a suo
tempo un esperto naturalista e un personaggio autorevole, che ha insegnato a lungo nel Collegio Romano, dotandolo di un museo ancor
oggi esistente. Va notato, inoltre, che questo Collegio è l’istituzione più
importante tra le molte fondate dai gesuiti e che ospita l’Università
Gregoriana. Del resto Kircher è ancor oggi tenuto in grande considerazione dai suoi confratelli.
Veniamo ora ai negatori della generazione spontanea e ai sostenitori dell’origine di tutti gli animali da uova, tra i quali si distingue il grande microscopista fiammingo Jan Swammerdam. Questi, in base a osservazioni di altri autori, male interpretate, e in base ad alcune proprie osservazioni, credette di vedere ben formato entro ciascun uovo di rana,
l’animale che da esso sarebbe uscito (Biblia naturae, Leyden -, postumi). Swammerdam era dotato di una bizzarra personalità, in quanto
a una capacità di osservazione limpida e acuta univa un’immaginazione
visionaria. Egli immaginò quindi che dentro all’animale che si sviluppava nell’uovo fossero contenute altre uova con dentro completamente
formati gli individui della generazione successiva e così via, ma non all’infinito, poiché – come la filosofia insegna – entro un uovo di dimensioni finite non possono essere contenute infinite generazioni.
Questa implicazione gli sembrò molto opportuna perché in buon
accordo con la fine del mondo prevista nelle Sacre Scritture. Non solo,

PIETRO OMODEO
.
Frontespizio del Miraculum Naturae di Jan Swammerdam (Londra )
FIGURA

.
EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO
l’ipotesi appariva anche conforme al dogma del peccato originale: essendo tutti i futuri esseri umani presenti fin dall’inizio nelle ovaie di Eva
essi erano stati contaminati tutti dal suo peccato. Swammerdam, pur essendo luterano convinto, non esitò a esporre il suo castello di idee scientifico-teologiche al cattolico Nicola Malebranche, abate oratoriano.
Malebranche (-) era un entusiasta seguace della filosofia e
della fisica di Cartesio, che a quel tempo erano sospettate di essere eretiche, e si era dato da fare per allontanare questo pericoloso sospetto
o, se si vuole, per cristianizzare il cartesianesimo.
Tra gli argomenti da lui portati a questo scopo ce n’era uno molto
semplice, derivato dal dialogo che Cicerone aveva scritto per confutare le tesi di Epicuro. Nel dialogo, intitolato De natura deorum, l’oratore romano sostiene che la bellezza della Natura, l’equilibro che in essa si osserva e la perfezione delle creature che essa ospita, testimoniano le somme qualità delle divinità che ad essa presiedono e hanno tutto prodotto. Concludeva a sua volta Malebranche: se poi queste creature vengono intese, come vuole Cartesio, al modo di perfettissime
macchine, ciò va a maggior gloria dell’Onnipotente che le ha create.
Avendo simile posizione, Malebranche non esitò a incoraggiare
Swammerdam, il quale, forte di questo consenso, espose in una sua
opera, intitolata Miraculum Naturae (Leyden ), quello che si può
considerare il manifesto del preformismo e della creazione in actu di
tutti i viventi. Malebranche espose a sua volta quelle idee (ma quasi per
inciso) nel suo libro intitolato Recherche de la vérité (Paris -).
L’atto di nascita del creazionismo in actu, secondo cui in un fiat
venne creata ogni cosa, corrisponde più o meno a quello che oggi è ritenuto il creazionismo “verace”; esso può quindi essere datato al ,
non al tempo di Mosè.
Ho detto che non so in qual modo gli oppositori dell’evoluzionismo possano reagire di fronte a simile disinvoltura nell’interpretare le
vicende della creazione. Ma non è difficile immaginare che, stringendosi nelle spalle, dicano: “discorsi da incompetenti che non ci riguardano”. Ma hanno torto. In effetti, se Mattioli, Agricola e Kircher si
esprimono in un modo che oggi a qualcuno può sembrare troppo libero e disinvolto, ciò dipende dal fatto che allora la creazione non veniva messa in discussione da nessuno, ma che il creazionismo, che oggi qualcuno presenta come un dogma, non era stato inventato ancora.
L’idea più correntemente accettata in proposito era quella medioevale, secondo la quale la Natura era stata delegata a proseguire il

PIETRO OMODEO
.
Frontespizio della Recherche de la vérité di Nicola Malebranche, pubblicata a Parigi
nel 
FIGURA

.
EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO
miracolo della creazione. Dante stesso ne parla con convinzione. Ma
questa concezione, che faceva della Natura un’entità chiave, e in certo modo divina, convinceva poco in tempo di controriforma, sia perché non documentata in alcun testo sacro, sia perché era troppo facile sostituire la Natura al Creatore stesso e quindi passare da un monoteismo a un panteismo.
Torniamo all’idea lanciata da Swammerdam più per motivi religiosi che scientifici. L’idea della preformazione piacque comunque al
microscopista Nicolaas Hartsoeker (-), che propose una modifica, che non nelle uova fossero state incluse tutte le generazioni a
venire, bensì nella testa degli spermatozoi ().
Il medico francese François De Plantade (-), venutone a
conoscenza, escogitò prontamente una beffa, nella quale sono cascati
in molti. Pubblicò infatti un opuscolo nel quale erano descritti e illustrati alcuni spermatozoi entro i quali si potevano scorgere i feti destinati a evolvere in adulti muniti di spermatozoi, in ciascuno dei quali
era contenuto un altro feto.
Fu Antonio Vallisneri (-) a lanciare il preformismo in modo più meditato, sviluppando gli spunti sopra citati. Ne era venuto a
conoscenza attraverso il breve trattato di Swammerdam e forse anche
per il tramite dell’opera di Malebranche propagandata dagli oratoriani e, se non mi sbaglio, anche dai giansenisti; e Vallisneri aveva una nascosta predilezione proprio per i giansenisti.
L’autorevole medico e naturalista così si esprime nel trattato Istoria della generazione dell’uomo, e degli animali (, in Opere fisicomediche, Venezia , vol. II):
Nell’ovaio di ogni e qualunque femmina stanno nascosti tutti i feti che di mano in mano vengono a salutare il giorno, per essere tutti stati creati in un colpo dall’onnipotente e sapientissima mano di Dio nella prima Madre: onde il
nascere degli uomini, degli animali, e diremo ancor delle piante e di quanto è
sopra la terra, non è che un manifestarsi di ciò che era involto, occultato e in
un angustissimo spazio ristretto; a concepire la qual cosa, quantunque la nostra immaginazione si spaventi, la ragione però ci sforza di concederlo.
Con Vallisneri la teoria dell’inscatolamento dei germi, inventata da
Swammerdam e Malebranche, diventa il più completo e definitivo manifesto del creazionismo estremo, come si direbbe oggi.
Sorprende molto che Vallisneri, studioso di grande valore e difensore rigoroso della razionalità in campo scientifico, e anche credente

PIETRO OMODEO
molto tiepido, abbia fatto proprio il modello della creazione una tantum. Questo suo comportamento ha però due giustificazioni. La prima è che per questa via egli si metteva al riparo dal ricorso alla Provvidenza nel campo naturalistico che, invocata di continuo nei sermoni
e nei libri di edificazione e nelle conversazioni quotidiane, vanificava
l’impegnativa ricerca di una risposta a tanti perché. Ad esempio, alle
domande: di cosa si nutre la cicala priva di bocca e nel cui intestino
non si trova che un po’ di liquido? È proprio possibile che si nutra di
rugiada? A questa domanda, e ad altre dello stesso tipo, c’era sempre
chi rispondeva: “la Provvidenza soccorre anche il più minuto insetto”.
Come mai l’ape costruisce cellette perfettamente esagonali e di identiche dimensioni? Qui giungeva puntuale la risposta rinunciataria: “la
Provvidenza ha disposto così”.
La seconda giustificazione riguarda – allora come ora – la spinta,
talvolta molto energica, a utilizzare i principi delle scienze esatte in tutti i campi della scienza. Il creazionismo soddisfaceva a due principi allora in auge: la divisibilità all’infinito della materia propugnata da Cartesio e il calcolo infinitesimale propugnato da Leibniz e Newton.
Alcuni fatti che si trovano discussi in scritti medici e naturalistici
che vanno dalla fine del Seicento a quasi metà del Settecento sono
istruttivi in proposito e anche divertenti.
Per opposti motivi i gesuiti erano duramente contrari al creazionismo in actu, che metteva da parte la Provvidenza sempre vigile e sollecita per ogni creatura grande e piccina. Ne dà prova, tra gli altri, padre
Filippo Buonanni S.J. (-), laborioso naturalista che insegnava al
Collegio Romano, il quale protesta contro quegli eretici che pretendono «quasi che delle sue creature faccia Egli [cioè Dio] come la serpe,
che sgravata dal parto più non ci pensa», infatti «s’egli le produce, anche assiste loro e con regola di somma Provvidenza le governa».
D’altronde i gesuiti non potevano essere d’accordo sul creazionismo e la fissità della specie, non solo per quanto aveva scritto Athanasius Kircher nell’Arca Noë, ma per la convinzione che la generazione
spontanea di animali di ogni genere fosse una realtà indiscutibile.
È quindi una grande sorpresa trovare che negli anni Quaranta del
Settecento il preformismo viene accolto e propugnato da due ecclesiastici molto in vista. Uno era il canonico Benedetto Stay (-),
gesuita dalmata, che ha scritto un lungo poema in esametri latini intitolato semplicemente Philosophia (Roma ). L’altro era nientemeno che il cardinale Melchior de Polignac (-), membro di

.
EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO
una famiglia aristocratica molto in vista in Francia, amico di Malebranche e grande diplomatico. A lui la città di Roma è debitrice della splendida scalinata che da piazza di Spagna conduce alla chiesa di
Trinità dei Monti.
Il poema di Polignac, intitolato Antilucretius, cioè “contro Lucrezio” e anch’esso in esametri latini, era stato concepito prima di quello
di Stay (che l’aveva sentito recitare e l’aveva preso a modello), ma era
apparso solo nel  poiché tanto il cardinale quanto il curatore designato per la pubblicazione dell’opera erano morti nel frattempo. Il titolo è molto significativo poiché rende chiaro che l’ipotesi ultracreazionista posta al centro del poema sta lì come contraltare all’evoluzionismo enunciato da Lucrezio nel grande poema d’ispirazione epicurea
intitolato De rerum natura.
Il totale degli esametri latini scritti dal cardinale de Polignac e dal
canonico Stay ammonta a quasi venticinquemila. Gli autori conoscevano bene il latino e la metrica, ma venticinquemila versi sono tanti e
nessuno dei due era disoccupato, soprattutto il cardinale de Polignac.
Viene quindi da domandarsi: per quale motivo tanta erudita fatica?
Le date di pubblicazione di varie opere rappresentano in questo
caso una guida utile. La data della Philosophia è il , dell’Antilucretius il  (siamo arrivati agli inizi dell’Illuminismo); il romanzo filosofico di De Maillet, nel quale si leggono le prime idee trasformiste,
circolava manoscritto fin dal ; la Vénus physique di Maupertuis è
del ; Giambattista Vico aveva affermato, già nel , che alla sua
origine l’uomo non aveva vissuto nell’età dell’oro ma che aveva vissuto al modo delle fiere. Insomma, fin dai suoi primi passi l’Illuminismo
si pone le grandi domande esistenziali: chi siamo? Da dove veniamo?
Dove andiamo? E cerca le risposte a queste domande nelle scienze naturali. Intanto arrivano dall’Asia e dall’Africa le prime scimmie antropomorfe e sono in molti a chiedersi quale sia il loro posto nella natura, e a proporre la loro parentela con la nostra specie.
Il creazionismo e il meccanicismo cartesiano elaborati da Malebranche sembrano fornire risposte alternative e meno blasfeme. Inoltre, verso la metà del Settecento, Linneo li applica alla zoologia e alla
botanica, sostenendo la fissità delle specie, ma in forma meno rigida di
quanto di solito si suppone.
Sennonché le tesi dei preformisti non si accordano con quanto gli
studiosi di embriologia stavano appurando. In particolare, Caspar
Wolff (-) con la sua grande opera sull’embriologia epigenetica

PIETRO OMODEO
(Theoria generationis, ) manda in crisi le tesi dell’inscatolamento
dei germi e altre critiche fanno tramontare del tutto il preformismo,
che scompare di scena alla fine del Settecento. Quanto alla tesi che la
perfezione delle creature testimoni la somma abilità del Creatore, essa dura più a lungo e farà parte del curricolo di studi teologici che
Charles Darwin seguirà all’università di Cambridge negli anni -.
Essa però non soddisfa quelli che continuano a chiedere e a chiedersi:
chi siamo? Da dove veniamo?
Non tutti i tentativi di risposta suonano blasfemi come quelli di
Julien Offroy de La Mettrie (-), di Denis Diderot (-)
e di De Lisle de Sales (-) (i due ultimi finiranno in carcere per
l’audacia delle loro idee). Altri autori, come Carlo Linneo (Carl von
Linné, -), cercano di conciliare il loro credo con fatti che
non possono ignorare. Linneo, ad esempio, che ben conosceva le
scimmie antropomorfe, nell’XI edizione del suo Systema Naturae
() pone l’orang-utan nel genere Homo, assegnandogli il nome di
Homo nocturnus.
Diderot racconta maliziosamente che il cardinale de Polignac di
fronte alla gabbia dell’orango, dopo averlo considerato con attenzione, avrebbe esclamato: “Parla che ti battezzo”. Lord Monboddo, scozzese, discute a sua volta in tutta serietà se questo scimmione possa essere un uomo selvatico che non ha ancora imparato a parlare.
Monsignor Nicholas Patrick Wiseman (-), divenuto poi arcivescovo cattolico di Westminster e cardinale, nonché autore di uno
dei migliori trattati di antropologia pubblicati nel primo Ottocento, ritorna alle posizioni di Kircher e così si esprime nel suo Discorso sui rapporti tra scienza e religione rivelata del :
La potenza divina amava forse manifestarsi per sviluppi graduali, sollevandosi
– per così dire – a passo a passo dall’inanimato all’organizzato, da ciò che è
privo di sensibilità a ciò che agisce per istinto, dall’irrazionale all’umano. Che
repugnanza c’è nel ritenere che dopo la prima creazione del primo grossolano abbozzo di questo mondo fino al momento in cui esso fu rivestito di tutti
i suoi ornamenti e proporzionato ai bisogni e alle abitudini dell’uomo, la
Provvidenza abbia voluto procedere con altrettanta gradualità, in modo che
la vita avanzasse a poco a poco verso la perfezione, vuoi nelle sue facoltà interne, vuoi nelle sue strutture esterne?
Il contenuto di questo brano, e in particolare il riferimento al progresso, diciamo così, neuropsicologico degli animali e dell’uomo, fan-

.
EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO
no pensare a un influsso di Lamarck o di Cabanis sul pensiero di Wiseman. Comunque, simile apertura non è durata a lungo, poiché i gesuiti nella seconda metà dell’Ottocento si sono schierati con veemenza contro le idee trasformiste ed evoluzionistiche introdotte dal loro
antico confratello. Anche lo stesso Wiseman recederà dalle sue posizioni conciliatrici.
Con questo io concludo, e chiedo scusa di essere stato un po’ monotono e puntiglioso. Ma così dovevo fare per sbloccare una diatriba
nata su un presupposto erroneo e per aprire, spero, una dialettica più
proficua.


David e il Neandertal.
Gli stereotipi colti sulla preistoria

di Antonio Brusa
.
Il successo didattico della preistoria
Il punto di partenza di ogni ragionamento sulla didattica della preistoria – quasi obbligato, sia per il prestigio dell’autore, sia per la non
eccessiva abbondanza della letteratura specifica – è costituito da un articolo di Peter Stone (), nel quale lo studioso metteva sinteticamente a punto le ragioni per le quali è importante studiare a scuola
questa parte della storia dell’umanità.
La preistoria, scriveva Stone, è un campo di straordinarie applicazioni didattiche. Si presta alla costruzione di laboratori, affascinante ricaduta scolastica e divulgativa dell’archeologia sperimentale. Permette di partire da documenti e scavi locali, per ricavarne conclusioni facilmente generalizzabili a tutto il genere umano. Sollecita la capacità, anche dei giovani studenti, di lanciarsi in ipotesi ardite ma al
. Questo lavoro si basa su un’indagine rivolta a un corpus di manuali di storia, pubblicati negli ultimi venti anni: circa  manuali europei (di  paesi diversi) e una trentina
di manuali africani, asiatici e americani (la differenza di numero deriva dal fatto che la ricerca è stata condotta presso il Georg Eckert Institut, e riflette la composizione della sua
pur ricca biblioteca). Per creare una “profondità temporale”, con l’aiuto di Mario Iannone, di Historia Ludens, sono stati analizzati oltre  manuali italiani, dalla fine dell’Ottocento a oggi; il fondo utilizzato è quello di Didattica della Storia, presso il Dipartimento di
Scienze Storiche e Sociali dell’Università di Bari. Una ricognizione, seguita da un primo
“catalogo degli stereotipi”, in Gadaleta (, pp. -). Alberto Salza (, pp.  ss.) scrive di preistoria tenendo presente in controluce il complesso dei miti e degli stereotipi, dei
quali si parla in questo lavoro, che, quindi, gli è largamente debitore. Ho trovato nella letteratura un solo saggio sulla preistoria nei manuali (Rúiz Zapatero, Álvarez-Sanchís, ),
che mostra l’evoluzione della trattazione didattica in Spagna. Lo splendido e informato
contributo di Stockzowski () dà conto dei manuali francesi e russi e fornisce un’analisi degli stereotipi prevalentemente antropologica.

ANTONIO BRUSA
tempo stesso verosimili. È un terreno dove si incrociano naturalmente molte discipline: e per questo motivo risulta di grande interesse per
gli insegnanti, perennemente affamati di strumenti interdisciplinari.
Per ultimo, la preistoria rappresenta la porzione infinitamente maggiore di storia dell’umanità. Per questo complesso di vantaggi, Stone
si felicitava per l’ingresso di questa disciplina nel national curriculum
inglese, e, implicitamente sollecitava, dalle pagine di “Teaching History”, anche i lettori di altri paesi a considerare attentamente i benefici didattici.
In realtà, anche un rapido sguardo all’immensa produzione manualistica, che ha caratterizzato la vita delle scuole nel mondo occidentale, permette di cogliere la prodigiosa espansione della preistoria, negli ultimi decenni del secolo scorso. Nella prima parte del Novecento, infatti, a questo periodo venivano solitamente dedicate poche righe e frettolose, giusto per introdurre i discorsi più importanti, quelli sulla storia a partire da Sumer e soprattutto dalla Grecia.
Nella seconda, invece, aumenta non solo la quantità di pagine, ma
soprattutto la loro qualità: sia nella ricchezza delle informazioni,
spesso aggiornate all’ultima scoperta, sia nella bellezza degli apparati iconografici (carte, disegni, foto, ricostruzioni). Il fatto strano è che
tale crescita non è stata favorita da una pubblicistica di sostegno, storica o pedagogica. Al contrario, sembra quasi che la preistoria si sia
autopromossa nelle scuole. Sicuramente hanno giocato un loro ruolo, in questo successo, il suo fascino, forse anche il pregiudizio che si
tratti di un periodo più facile da studiare, e quindi particolarmente
indicato nelle fasi iniziali del curricolo. Certamente ha avuto un peso la forte pressione dei media e della divulgazione in generale, campi nei quali la preistoria ha conosciuto uno sviluppo enorme. Ma,
poiché a questo incremento – come si è appena detto – non ha corrisposto un parallelo interesse degli studiosi alla trattazione didatti-
. Fra i pochi, in Italia, a sostenere con ostinazione la necessità del suo insegnamento
è Biancofiore (, ). Nel corso degli anni Settanta-Ottanta, poi, lo studio della preistoria è oggetto sostenuto da alcune associazioni di insegnanti, come il CIDI e l’MCE, anche
per un nascente interesse didattico per l’antropologia e le scienze umane (AA.VV., ; Marini, Borgognini, ). Come studio curricolare a pieno titolo cfr. Calvani (). Un convegno sul tema è Olivari ().
. Almansa Sánchez () mostra l’assoluta predominanza dei media nella diffusione delle conoscenze archeologiche e preistoriche: di queste, oltre il % verrebbe dalla televisione.

.
D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A
ca e ai problemi della divulgazione, si è creata una situazione ambigua, caratterizzata dall’esplosione di conoscenze da una parte e dalla carenza di studi dall’altra. Credo che proprio queste siano le condizioni ideali per la crescita rigogliosa di stereotipi di ogni tipo. E
forse presentendo ciò, la prima delle ragioni elencate da Stone, per
promuovere lo studio scolastico della preistoria, fu la necessità di lottare contro gli stereotipi. Ma, a quel tempo, allo studioso sembrò sufficiente segnalare la questione con un’allusione a Raquel Welch, l’avvenente interprete di un celebre film degli anni Sessanta, Un milione di anni fa, nel quale gli uomini se la dovevano vedere con i dinosauri, per mettere sotto accusa l’anacronismo, il peccato mortale
dello storico (lo sappiamo dai tempi di Lucien Febvre), e sottintendere il suo rimedio naturale: rimettere in ordine cronologico, al loro
giusto posto, le conoscenze.
.
Il dinosauro è uno stereotipo colto
Oggi, a distanza di tempo – come conferma, peraltro, la straordinaria
produzione di Stone (Stone, Mackenzie, ; Stone, Molyneaux, ;
Stone, Planel, ; Malone, Stone, Baxter, ) – dobbiamo riconoscere che l’espansione sociale delle conoscenze sulla preistoria è stata
accompagnata da un analogo, impetuoso incremento di stereotipi. Il
numero, la qualità e la pervasività di questi stereotipi ci consigliano di
riconsiderarne natura e funzioni. Appare limitato valutarli come semplici “idee sbagliate”, testimoni, magari un po’ ridicoli, dell’ignoranza, del cattivo funzionamento della scuola o del malefico influsso della televisione. Essi sembrano il frutto di problemi, molto profondi, che
riguardano i rapporti fra il sistema di produzione scientifico e la diffusione delle conoscenze. Propongono non più, soltanto, problemi di
insegnamento, ma seri interrogativi sul modo stesso di produrre scienza, e ci costringono a tornare sulle domande, che la storica Régine Pernoud (, p. ) si poneva sul finire del secolo scorso: «Perché questo scarto fra scienza e sapere comune? Come e in quali circostanze
questo fossato si è scavato?». Interrogativi resi più pressanti proprio
. Don Chaffey, One Million Years BC, rifacimento inglese (Hammer Film, ) di un
pasticcio hollywoodiano degli anni Quaranta, dall’identico titolo: un film largamente astorico, accusa Wikipedia, proprio perché mette insieme uomini e dinosauri.

ANTONIO BRUSA
dalla contraddittorietà di una situazione, che vede mescolati strettamente motivi di soddisfazione e di delusione.
Per quanto la Pernoud si riferisse al suo Medioevo, il parallelo con
la preistoria è ben motivato dalla considerazione che questi due periodi sembrano accomunati dall’identico destino, di essere le epoche
storiche maggiormente afflitte da questo particolare virus conoscitivo.
E che sia una comparazione fruttuosa, lo capiamo dal fatto che essa ci
conferma in una prima congettura: questi stereotipi sono spesso di origine accademica. “Stereotipi colti”, vorremmo chiamarli, per distinguerli dagli “stereotipi quotidiani”, quelli generati, per lo più, dai problemi della nostra vita di tutti i giorni, come gli stereotipi che riguardano il genere, la generazione e i rapporti con gli altri (stranieri, diversi, emarginati, poveri) (Brusa, ). Questa semplice distinzione
ha delle conseguenze di qualche interesse. Gli stereotipi quotidiani sono sicuramente quelli maggiormente studiati; hanno dato origine a una
vasta letteratura e a un dibattito molto sentito sulle loro implicazioni
didattiche (interamente a questa classe di stereotipi è legata la questione della “correttezza politica”). Essi ci appaiono come un’indebita intrusione, nel mondo della scienza, di atteggiamenti deprecabili del
vivere quotidiano.
Gli stereotipi colti, invece, manifestano un percorso inverso. Trovano una loro origine nel mondo scientifico, per quanto, a volte, la
loro grande diffusione lascerebbe intendere il contrario (ma si deve
ammettere che non si incontrano facilmente dinosauri o vassalli per
le strade). Essi, perciò, testimoniano la pervasività della conoscenza
scientifica, e proprio il loro aumento appare più come un effetto paradossale dell’enorme diffusione della scienza, che una sua regressione, di fronte alle esigenze deplorevoli della vita di ogni giorno.
Inoltre, mentre gli stereotipi quotidiani richiedono, per il loro studio
e la loro comprensione, un campo di discipline che va dalle scienze
sociali alle psicologie e alle pedagogie, lo studio degli stereotipi colti obbliga in prima persona lo storico: qui si tratta esclusivamente di
conoscenze storiche e del loro uso. Viene investito, in pieno, quel
«triangolo fra resti del passato, archeologo e pubblico», che secon-
. Arcuri, Cadinu (): una trattazione sintetica ed efficace degli stereotipi che qui si
chiamano “quotidiani” e nel testo dei due psicologi sociali “stereotipi” tout court, dal momento
che non viene presa in considerazione l’esistenza di “stereotipi colti”. Furnhan (, pp. 
ss.): stereotipi di genere, di generazione e interculturali nell’apprendimento della storia.

.
D AV I D E I L N E A N D E RTA L . G L I S T E R E O T I P I C O LT I S U L L A P R E I S T O R I A
do Philippe Jockey (, p. ) identifica l’essenza dell’archeologia e, potremmo dire, della stessa storia.
Non tutti gli stereotipi “colti” sembrano della stessa natura. Ve ne
sono alcuni che svolgono un curioso ruolo di “vaccino”, e che vale la
pena di segnalare, perché la loro funzione sembra quella di impedire
ai loro portatori di preoccuparsi eccessivamente di aggiornare le proprie conoscenze. Ad esempio, nel campo degli studi sul Medioevo, ce
ne sono due, diffusissimi: “il Medioevo è un periodo buio”; “il Medioevo è la storia dei papi e degli imperatori”. La maggior parte dei
docenti (e anche dei manuali) li conosce e li cita come stereotipi, da
evitare e da sostituire con conoscenze precise. Rassicurati dallo scampato pericolo, perciò, molti si ritengono vaccinati da tutti gli altri stereotipi. Invece, si sono vaccinati contro l’aggiornamento. Hanno abbassato, per così dire, le loro difese, con conseguenze disastrose, come dimostra lo sterminato elenco degli stereotipi, ricavabili dai manuali europei.
Per l’appunto, “il dinosauro che attacca gli uomini” sembra lo
“stereotipo vaccino” fondamentale della preistoria. È raro trovare
un insegnante che non lo citi come conseguenza nefasta dei media
(ovviamente della televisione, dei vari Jurassik Park e dei cartoni
animati) e come dimostrazione della sua personale preoccupazione
in un buon insegnamento. Ma il fatto è che, una volta messi al loro
posto uomini e dinosauri, sembra che le dighe contro le conoscenze stereotipate collassino, e si venga sommersi da una quantità così
ingente di conoscenze sbagliate sulla preistoria, che siamo costretti
a un’opera di classificazione e di ordine: per evitare, infine, che tutto si esaurisca nella compilazione dell’ennesimo “sciocchezzaio”,
corredato dalle lamentazioni sulla scuola (queste sì di una ritualità
. Nel dialogo fittizio fra Jean Clottes e i nipoti, quella sui dinosauri è la prima domanda alla quale lo studioso deve rispondere (Clottes, , p. ); Gould (, p. ) attribuisce la “mania dei dinosauri” agli abusi del marketing, e osserva che il % degli adulti americani, al principio degli anni Novanta, era convinto della contemporaneità fra uomini e dinosauri. Per parte mia, rilevo che la copertina di un celeberrimo testo divulgativo
scientifico presentava fin dagli anni Venti un dinosauro che, «appoggiando le zampe sopra
una delle nostre case più alte, avrebbe potuto mangiare al balcone del quinto piano» (Flammarion, , p. ). A quasi un secolo di distanza, l’Enciclopedia dei ragazzi, distribuita in
oltre . copie e presentata da Remo Bodei (in “Corriere della Sera”,  agosto ,
p. ) come uno strumento per sconfiggere «il sapere da fast food», intitola il primo volume dedicato alla storia La preistoria e i dinosauri (Rizzoli-Corriere della Sera, Milano ).

ANTONIO BRUSA
stereotipata) e da un sarcasmo che pare inevitabile, ma il cui unico
risultato è quello di esorcizzare il terrore dell’impotenza, di fronte a
processi di socializzazione della cultura, considerati definitivamente indomabili.
L’osservazione che non tutti gli stereotipi sono uguali, invece, ci
aiuta a pensare una strategia scientifico-didattica, che non disperda le
energie nella vana rincorsa alla produzione inesauribile di cliché, e ci
permetta di concentrarle in alcuni punti nodali. A questo scopo, sembra utile isolare – oltre ai “vaccini”, di cui sopra – alcuni stereotipi che
definirei “strutturali”, perché non si riferiscono a un oggetto in particolare, ma «intervengono come schemi di comprensione a disposizione per apprendere il mondo, schemi per leggere gli eventi, per ricostruirli e renderli intelligibili» (Grandière, , p. ). Questi costrutti conoscitivi appaiono diversi dagli “stereotipi fattuali”, che riguardano questo o quell’aspetto del passato, e appaiono originati da un difetto di conoscenze o da conoscenze non aggiornate (spesso anche poco accurate o imprecise).
.
Gli ominidi si evolvono in fila indiana
Lo stereotipo “strutturale”, da cui conviene iniziare la nostra indagine, è sicuramente il più noto e diffuso: la linea evolutiva umana.
Una sequenza di uomini in fila indiana, che, partendo dai più antichi, dai caratteri scimmieschi, giunge ai tipi moderni, simili a noi.
Nella confezione di questo stereotipo convergono molti fattori: il
sessocentrismo, perché si tratta, nella maggioranza dei casi, di individui maschi; lo stereotipo generazionale (sono spesso giovani e aitanti, per lo più armati di bastoni e, man mano che si evolvono, di
. È bene sottolineare che questo lavoro è limitato alla ricerca e alla valutazione del fenomeno degli stereotipi e non si pone il compito di un bilancio complessivo dell’insegnamento della preistoria, né dà una valutazione della manualistica esaminata: della quale va
detto, anzi, che spesso è di grande qualità. Peraltro, chi scrive è anche autore di manuali e,
come tanti, vittima di disegnatori molto fantasiosi (cfr. Brusa, , dove si possono ammirare le pecore al tempo di Erectus, o i bambini neolitici che giocano con spade di legno).
Sulla metodologia e i problemi di indagine sui manuali cfr. Bourdillon (); sugli apparati paratestuali e sul loro rapporto con il testo cfr. Brusa () e Jud, Kaenel (), una
raccolta magnifica di immagini, scolastiche e divulgative, della preistoria, in ambiente svizzero e tedesco.

.
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lance); un eurocentrismo implicito, dal momento che marciano da sinistra verso destra, sulla falsariga della scrittura occidentale, e dunque del progresso verso il futuro (secondo una visione euro-moderno-centrica della storia). Alcune di queste caratteristiche rendono
questo stereotipo simile a quelli analizzati dalla pedagogia e dalle
scienze sociali (la predominanza del maschio giovane, la violenza
ecc.), ma altre riflessioni ci fanno certi che quest’immagine tradizionale non veicola soltanto dei pregiudizi del quotidiano, quanto piuttosto una visione complessa del passato.
Su questa icona, infatti, si può fondare il racconto dello sviluppo
progressivo che dai primi ominidi conduce all’uomo moderno. A sua
volta, il racconto ci insegna un modello di sviluppo lineare e per tappe; un senso della storia, che procede da un passato di brutalità verso
un mondo civile.
L’evoluzione cladistica è, da qualche decennio, il paradigma della
ricostruzione del passato più remoto della storia umana (per quanto
con le note differenziazioni e i dibattiti più accesi). Per giunta, gli studiosi non fanno più riferimento, se non per combatterlo, al modello lineare. Nonostante ciò, la popolarità dell’icona lineare appare incontestabile. Fra i motivi di questo successo, vi è sicuramente il fatto che essa è di immediata comprensione, facilmente riproducibile e soprattutto (come abbiamo appena visto) è un modello ricco di significati, per
quanto deprecabili. Il modello cladistico non è – al contrario – dotato
di un’icona dalle qualità comparabili. Forse questi sono i motivi per i
quali oggi troviamo la rappresentazione lineare ovunque, in moltissimi manuali (per quanto essi possano presentare un testo aggiornato)
. Se si tiene conto, poi, di alcune varianti di questa icona (la serie dei crani, dei cervelli
o degli scheletri), tutti posti in serie crescente, si riconosce che la diffusione della sequenza lineare ha i caratteri della pervasività. Alcune descrizioni verbali della sequenza in Striano,
Striano (, p. ); Caramanica, Bartolomeo (, p. ); Colombo, Florio (, p. ). L’icona è abituale anche nella letteratura divulgativa e nella stampa: dalla scimmia al computer
(in “Il Giornale”,  maggio , p. ); o la versione ironica di Bucchi (in “la Repubblica”,
 novembre ). Dalla medusa all’uomo, invece, la copertina suggestiva di “Science et
Vie”, , , pp.  ss. (numero speciale: L’évolution a-t-elle un sens?); una rappresentazione essenziale e severa in AA.VV. (, p. ); I. Backouche, Les hommes de la préhistoire, Lito, Paris, s.d. (gioco didattico). Discute le illustrazioni “classiche” dell’evoluzione, come viziate dall’idea del progresso e della complessità crescente, Gould (, pp. -).
. Di questa progressione, da sinistra a destra, se ne fa una sorta di razionalizzazione
paleografica, nella quale la linea evolutiva è paragonata al “rotolo” classico, per cui «proseguendo a srotolare verso destra comparirebbero nuove forme di vita più complesse» (Ar-

ANTONIO BRUSA
.
Evoluzione delle donne (da Batias-Rascalou, Casali, )
FIGURA
e, non ci deve sorprendere, anche come logo di convegni scientifici,
nei quali, naturalmente, ci si è lamentati abbondantemente della diffusione di idee preconcette sulla preistoria.
Dal punto di vista didattico, poi, sembra che l’attenzione degli
insegnanti (e degli studiosi di didattica) si sia specialmente concentrata sulla difficoltà, da parte dei giovani studenti, di immaginare
correttamente tempi così lunghi, di milioni di anni; così come si è
intervenuti sul sessocentrismo evidente dell’icona, sostituendo i maschi con le femmine (cfr. FIG. .). Si sono inventate, perciò, soluzioni sempre più affascinanti, divertenti, efficaci e politicamente
boit, , p. ). Si deve notare, peraltro, che l’incipiente diffusione dell’icona multilineare sembra anch’essa legata all’idea di marcia verso il progresso, per quanto diviso in corsie,
come in uno stadio di atletica, o in un’autostrada, in cui tutti rispettano il codice: un bell’esempio è l’immagine riportata in Dohui (, pp. -). Identico risultato in “Science et
Vie”, , , pp.  ss. (numero speciale: Qui a inventé l’homme?). Fra le proposte “alternative”, segnalo Giardina (, p. ), nel quale gli umani sono rappresentati in marcia
sincronica, e trionfalmente virile, verso il lettore; ugualmente spavaldi gli umani raffigurati in una sorta di «foto di famiglia impossibile» (riportata a norma poco dopo da una sequenza lineare) in Cantarella et al. (, pp.  e ).
. Batias-Rascalou, Casali (): la sequenza è scimmia-ominide (Lucy?)-ragazza vestita e con un cesto di fiori (ma il testo è comunque un bell’esempio di letteratura divulgativa per
l’infanzia). Dalla stampa domenicale svizzera, invece, l’immagine di una sequenza di ominidi,
conchiusa da donne che progrediscono nude, sempre più moderne e slanciate (Roeder, ,
p. ). Tutto l’imbarazzo dell’illustratore, invece, nella copertina di Facchini (): c’è la sequenza maschile, ma non tutti portano le armi (Neandertal porta dei fiori: omaggio a un rinvenimento peraltro contestato), sono “disassati”, ma salgono tutti una scala evolutiva.

.
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corrette: per insegnare meglio, dobbiamo concludere con qualche
apprensione, un rapporto sbagliato fra passato remoto dell’umanità
e presente.
.
Le ben radicate origini degli stereotipi
È un’icona relativamente giovane, quella della sequenza evolutiva
umana, perché è a partire dagli anni Ottanta che la troviamo come dominatrice incontrastata delle prime pagine dei manuali. Pur tuttavia,
è riuscita a catalizzare intorno a sé una trama fitta di riferimenti (costituiti in larga misura da stereotipi fattuali, sedimentatisi lentamente
nel corso del tempo), che la rendono, paradossalmente, assai appetibile dal punto di vista didattico. Essa appare all’insegnante un’immagine ricca e utile, dal momento che “trascina con sé” molte altre conoscenze. Al tempo stesso, il suo “sradicamento” diventa assai problematico, proprio perché – insieme con l’immagine lineare – occorrerebbe bonificare il terreno dalla grande quantità di immagini fattuali della preistoria. Questo grumo di conoscenze costituisce lo scenario, che anima e rende vivo il racconto dell’evoluzione. Lo riassumono Brigitte e Gilles Delluc (, p. ), due allievi di LeroiGourhan, con appassionata ironia:
L’uomo dei tempi preistorici, un disgraziato coperto di stracci, sembra un
barbone della notte dei tempi. È un bruto, una mezza scimmia, bellicoso,
carnivoro e, senza alcun dubbio, cannibale. È una vittima sfortunata dei
grandi animali, dal diplodoco fino all’orso delle caverne. Un sopravvissuto,
una specie di manichino patchwork, assemblato da persone piene di immaginazione in un vecchio museo di etnografia. Questo infelice riesce a malapena a scampare, indossando eskimi fra i ghiacci, rifugiandosi nelle caverne e praticando la caccia. Per di più, si fa volentieri con funghi, più o meno
allucinogeni, e con bevande sospette. La sua compagna è ugualmente ben
assortita. Vestita di pelli sbrindellate, sommersa da una torma di bambini,
è un’obesa, sempre incinta, quando non svolge la funzione di misteriosa e
paffuta dea della fecondità.
In questo racconto si riconoscono, uno per uno, i temi fondamentali, in cui è possibile organizzare gli stereotipi fattuali più diffusi
nella manualistica (con l’esclusione dell’uso di allucinogeni, s’intende). C’è la vita preistorica, difficile e dura, con gli umani che si

.
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.
Eterno femminino per i finlandesi (da Leinen et al., )
FIGURA
nili, dal Neolitico al mondo classico, in un manuale slovacco (Kovač, , p. ). La storia della rappresentazione del Neandertal è
sintomatica, in questo contesto. Infatti, al principio, gli autori avevano a disposizione almeno un modello nobile e austero, il celebre
Pensatore di Auguste Rodin: preferirono, quasi invariabilmente, rifarsi alle immagini di un illustratore ceco, František Kupka, più
conformi all’idea di antenato scimmiesco e inintelligente.
. Heinke (, pp.  ss.). Hurel (, p. ) mostra una bella sequenza di ricostruzioni di Neandertal, a partire appunto dal primo modello, creato nel , sulla scorta
di Auguste Rodin. “Il bovino Neandertal” è l’ironica didascalia alla celebre ricostruzione
del Museo di Storia Naturale di Chicago (Spodek, , p. ). Non mancano, ovviamente, Neandertal simpatici, come Java, l’aiutante neandertaliano di Martin Mystère, nel cele-

ANTONIO BRUSA
In questo racconto, spesso le donne sono specializzate nella raccolta di vegetali e svolgono ruoli domestici (cura dei bambini, vestiti,
cottura). Ma, turbati da questa comprimarietà, vi sono degli autori che
assegnano loro dei compiti decisivi, come l’invenzione dell’agricoltura e poi, ancora, in una foga di correttezza politica, ante litteram e alquanto casereccia: «La terra sulla quale fu posto il fuoco si cosse, divenne dura come la pietra. E una mamma, più intelligente, mentre vegliava il fuoco, avrà notato quell’indurirsi, e avrà fabbricato il primo
vaso di terracotta per conservarvi l’acqua e non raccoglierla più solo
sul palmo della mano» (Paribeni, , p. ). Gli fa eco, a oltre sessant’anni di distanza, un testo moderno: «Esse inventarono un sistema
per trasformare i chicchi in pane e trasferirono lo stesso sistema all’argilla: la raccolsero nei terreni umidi, la impastarono con acqua, le diedero la forma e la fecero cuocere in grandi forni all’aperto. Così inventarono la ceramica» (Baffi, Beni, , p. ). Un illustratore olandese, infine, combina insieme i diversi temi, della specializzazione e
della violenza, in un destino di genere non propriamente felice.
In un manuale tedesco contemporaneo (Askani, Wagener, ,
p. ), trovo una raffigurazione straordinariamente significativa: un
umano (preistorico ma potrebbe essere un contemporaneo) colto in
un atteggiamento di evidente ammirazione per le opere della civilizzazione occidentale (FIG. .). L’ascendenza colta di questa immagine è indubbia. Ce la dichiara uno dei più autorevoli storici del secolo scorso, Arnaldo Momigliano (, p. ): «I selvaggi infatti non sono altro che uomini i quali si sono fermati nello sviluppo a uno stadio corrispondente a quello che per i popoli civili è ormai preistorico. Potremmo dire un poco paradossalmente, ma con sostanziale ve-
bre fumetto di Bonelli. «Una ricostruzione precisa è più un piacere per l’occhio che un aiuto alla riflessione», chiude un po’ sconsolato Rauscher (, p. ): e su questo punto cfr.
anche Jockey ().
. In un caso, ho trovato l’invenzione dell’allevamento attribuita alle donne (Caocci, ,
p. ), mentre la scoperta femminile del tessile è abbastanza tradizionale (Alberici, , p. ).
. Le rappresentazioni delle caverne, citate sopra, presentano tutte le attività femminili richiamate nel testo. L’immagine olandese è da Hildingron, Schulp (, pp.  ss.). I
manuali di età nazista sono piuttosto accurati nel distinguere le attività domestiche femminili dalla caccia e dalla guerra maschili: Jenrich et al. (, p. ); Nickel (, p. ); Göbel (, p. ). Ho trovato pochi riferimenti, invece, a un mitico periodo matriarcale. Fra
questi Brancati (, p. ) e AA.VV. (, p. ). Sugli stereotipi femminili cfr. Ángeles
Querot ().

.
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.
Un primitivo secondo un manuale tedesco (da Askani, Wagener, )
FIGURA
rità, che i selvaggi sono dei popoli preistorici viventi ai nostri giorni». E, forse proprio sulla scorta di questa convinzione di fondo, i
“primitivi”, ampiamente utilizzati nella manualistica corrente, sono
rappresentati volentieri mentre brandiscono armi e scudi. E, ovunque, troviamo la scena che combina emblematicamente ferinità remote e attuali: la caccia al pachiderma.
. Più sfumato, uno storico contemporaneista del dopoguerra (Procacci, , p. )
avverte che si tratta di un’ipotesi, quella che «il modo di vita di queste popolazioni possa
essere simile a quello degli uomini primitivi». In mezzo, alcune certezze: che gli uomini primitivi fossero inferiori ai barbari o alle classi diseredate moderne (Comani Mariani, , p.
); che vivessero in uno stato di inferiorità civile (Vanni, , p. ). Esempi di primitivi:
Grassman (, p. ), che cade nell’infortunio dei Tasaday (abbastanza generalizzato);
Walzik (, p. ); Péter (, p. ); Erkki Leimu et al. (, pp.  s.); Hildingron,
Schulp (, pp. -); Berents et al. (, p. ); Barti (, pp. -), che mette a confronto primitivi e neandertaliani.
. Péter (, p. ): mammuth; Enikö (, p. ): immagine di Zdenek Burian
(), artista ceco, ripresa da molti manuali di diverse nazioni, fra cui Galloy, Hoyt (,
p. ); Catteuw (, p. ); Michailovskji (, p. : mammuth); Vigasin, Samoszvanceva (, pp.  ss.); Kolpakov et al. (, p. : mammuth); AA.VV. (, p. : rinoceronte).
Esempi italiani: Feliciani, Filippini (, p. ); Aromolo (s.d., p. ). Mentre Alberici ()
scrive di «animali strani, serpenti, orsi spaventosi ed elefanti», in Biagi et al. (, p. ) e
Colombo, Florio (, p. ) il nemico è la tigre dai denti a sciabola; mentre il mammuth
scompare, come tutti gli animali più grandi, perché sterminato dall’uomo in Di Tondo,
Guadagni (, p. ). Da notare che Lars Grant-West, splendido disegnatore di “National
Geographic” (aprile , pp.  ss.), non si è lasciata scappare la lotta fra il piccolo florensis, appena scoperto, e l’elefante nano, con la stessa prontezza di “Scientific American”, ,
, , pp. - (Becoming human). Impossibile, a questo punto, non ricordare il sospetto di Alberto Salza (, p. ) nei confronti di quei «professori di preistoria che fanno
impantanare i mammut».

ANTONIO BRUSA
Questa rapida scorsa di stereotipi “fattuali” ci avverte che disegni,
ricostruzioni, a volte foto, si rincorrono, da nazione a nazione, superano barriere linguistiche, didattiche e politiche: hanno creato, nel corso di oltre un secolo di imprestiti e ricopiature – clonazioni, le chiama
Stephen J. Gould –, una sorta di “corpus iconico internazionale”. Si è
costituita, così, una biblioteca di immagini globale, poderosa e complessa, che convive intrecciandosi in modi sempre nuovi e diversi con
conoscenze precise e aggiornate, della quale occorrerebbe una ricostruzione storica analitica, per mostrare i percorsi, individuare i capostipiti e le modalità di trasmissione: lo stesso Gould auspica uno studio che, sul modello della filologia classica, individui gli “stemmi” degli errori fondamentali (Gould, , p. ).
In questo mondo violento, anche l’evoluzione avviene per passaggi traumatici. I deboli, i perdenti vengono eliminati e la storia consegna la vittoria al più forte. Non sorprende, perciò, che il concetto
“strutturale” di estinzione sia interpretato come una sconfitta: ecco la
sequenza infinita di immagini di Neandertal inevitabilmente tristi, forse presaghi della loro sicura fine (e questo nonostante l’indubbio successo di specie, che per quanto estinte, hanno popolato la terra per
centinaia di migliaia di anni). In questa preistoria immaginata, c’è posto per uno solo al mondo. Anche questo è un risvolto, inquietante,
. Una probabile fonte iconografica, largamente utilizzata dalla manualistica e dalla
divulgazione è una pubblicazione di “Time”, edita in Italia come supplemento di “Epoca”
(AA.VV., ), della quale riporta una truce sequenza mesolitica, con teste decapitate e fatte ballare sul tamburo.
. E questo anche se il testo conosce la compresenza degli umani: «fino a poco tempo fa si credeva che l’evoluzione fosse stata un processo lineare. [...] In realtà ci furono circa  specie umane, che lottarono per la sopravvivenza, fino a che una sola restò» (Rosa Leone, , p. ). «Nella sua espansione, Homo sapiens non esita a scontrarsi con gli altri
gruppi, che in genere dispongono di una tecnologia più arretrata e a distruggerli, [...] viene a conflitto con l’uomo neandethalense (sic) e lo sottomette e lo distrugge» (AA.VV., ,
pp. -). Anche del florensis si rappresenta l’identica triste fine, nonostante la didascalia
dichiari che non abbiamo nessuna testimonianza di incontri tra Homo florensis e sapiens (in
“National Geographic”aprile , p. ). Il capitolo che qui si deve aprire, quello sulla
“razza”, è talmente vasto che, come nel caso del creazionismo, sono costretto a tralasciarlo. Per quanto riguarda l’Italia, segnalo soltanto il fatto che nella prima metà del secolo scorso, le razze erano un dato acquisito e scontato (Momigliano, , p. ) e che man mano
questa convinzione scema, diventa anche politicamente scorretta, ma non scompare del tutto: Striano, Striano (, p. ); Frugoni, Magretto (, p. ). Peraltro, Cipollari e Portera (, p. ) denunciano il perdurare del concetto di razza nei manuali delle elementari (insieme con il concetto di “primitivo”).

.
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.
L’uomo preistorico come Ercole, Conan o Tarzan per un manuale russo (da Vigasin,
Samoszvanceva, )
FIGURA

ANTONIO BRUSA
del modello lineare di evoluzione. E, ancora una volta, l’intervento pedagogico sembra accrescere questa sensazione spiacevole (pur involontariamente). Ecco ad esempio come un’attività didattica innovativa suggerisce di trattare in classe la questione dell’incompatibilità genetica (data per scontata) fra sapiens moderno e Neandertal: «Scrivi
una sceneggiatura per una fiction TV, nella quale un maschio neandertaliano si innamora perdutamente di una femmina di sapiens, ma entrambi sono tristi, perché hanno capito che non possono sposarsi, perché glielo impedisce il loro DNA» (Pahl, , p. ).
.
Le culture identitarie preferiscono il Neolitico
Dalla preistoria ci si libera con la cultura: questa è una convinzione
chiara, fin dai manuali più antichi. E, come si può immaginare, questo
processo di liberazione è accompagnato da una vasta schiera di stereotipi fattuali: dall’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, dal
nomadismo che è visto sempre come un’alternativa precedente alla sedentarietà, alla divisione sociale del lavoro, alla tecnologia e all’organizzazione sociale, alle onnipresenti palafitte. Non ci soffermeremo su
questi, per riservare la nostra attenzione all’indagine degli aspetti
strutturali di questo passaggio, perché ci permettono di ritornare sulla questione iniziale, del successo della preistoria, cercando delle risposte più interne al mondo didattico e storiografico.
Alcune domande, infatti, ce le pone la produzione manualistica
africana. Il nutrito gruppo di manuali che ho analizzato, tutti degli ultimi decenni del secolo scorso, riserva alla preistoria la stessa sottovalutazione, che abbiamo notato nei manuali europei anteguerra: pochissime pagine (a volte un paio), e via verso la storia che conta, quella della civilizzazione. La sorpresa è ovvia: tutti ci aspetteremmo il contrario, dal momento che proprio in quegli anni si afferma (e non senza pro-
. Costa d’Avorio (AA.VV., a, pp.  ss.). Zimbabwe (Proctor, , p. : caccia, raccolta e rapidamente verso l’agricoltura, senza ominazione). Kenia (Sharman, , pp.  ss.:
sintesi rapidissima); Seibörgen et al. (, pp. -: parlano del mondo, del progresso, una
pagina sull’ominazione e poi il popolo San); Lambrechts (, pp. -). Zaire (De Proover,
, pp. -: dopo aver specificato che lo scopo della storia è quello di dare l’orgoglio dei
propri antenati, passa a presentare i pigmei, i protobantu e i bantu). Botswana (Tlou,
Campbell, , p. : poche pagine di preistoria, e poi si passa ai Khoi). Madagascar (Ralaimihoatra, , p. : i Vazimba, “primitivi” malgasci e poi la colonizzazione indiana).

.
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blemi) l’origine africana dell’umanità. Ci attenderemmo, anzi, una
qualche utilizzazione mitica dell’Eva africana, come peraltro è stato notato nel campo dell’uso pubblico della storia africana (Lainé, ). Invece, quel periodo viene bypassato proprio nei luoghi di elezione del
processo di ominazione. Un convegno sulla riforma dei curricoli di storia, tenutosi nel  fra studiosi provenienti dai paesi anglofoni africani, ci rivela la politica culturale sottesa a questa rimozione.
In quell’occasione (Bude, ) numerosi interventi sottolinearono
il forte collegamento da stabilire fra ambiente, cultura ed educazione
e ne ricavarono la conseguenza che l’educazione non può che occuparsi della cultura ambientale, cioè della propria cultura tradizionale. A sostegno di questa scelta vennero chiamati in causa illustri antropologi, fra
i quali Edmund Leach e Ralph Linton. Ma non si trattò di un trasferimento in periferia della contesa accademica occidentale fra antropologia e storia. Al contrario, in quegli interventi leggiamo che allora si produsse una sintesi potente fra culturalismo, da una parte, e identità nazionale, dall’altra. L’obiettivo del curricolo di storia, dice apertamente
D. N. Sifune, delegato keniota, è di diffondere nella popolazione «patriottismo, lealtà, fiducia in sé, tolleranza, giustizia». Per il raggiungimento di queste virtù, le conoscenze sulla preistoria sono inutili. I manuali, denuncia Sifune (, pp. -), contengono «una massa indigesta di storia primordiale»; dovrebbero enfatizzare, invece, gli aspetti
dell’ambiente e della comunità, dell’organizzazione etnica. «L’educazione coloniale – conclude il delegato ugandese – alienava gli studenti, piuttosto che aiutarli a integrarsi nel loro ambiente» (Olujot, , p. ).
Lo studio scolastico della preistoria, dunque, è visto come un portato della cultura occidentale: e una riprova sorprendente di questa idea
si trova in un manuale etiopico, nel quale la nostra sequenza lineare, lo
stereotipo che abbiamo posto al centro della nostra indagine, è composta da uomini indubbiamente bianchi (AA.VV., , p. ) (FIG. .).
. N. B. Katunzi (Tanzania) espone un concetto di cultura “essenzializzata”, considerata inseparabile dall’ambiente, e sostiene che la storia ha lo scopo di incrementare il nazionalismo (Bude, , pp. -). S. T. Bajah usa Leach e Linton per sostenere la necessità di insegnare la cultura tradizionale, in vista del raggiungimento dell’identità nazionale
nigeriana (ivi, p. -). E. S. Olujot critica aspramente un manuale ugandese, che ha il torto di essere dedicato alla Word History, mentre il bambino deve «capire che i suoi parenti
fanno parte dell’Uganda e che questa è legata politicamente e storicamente all’Africa e al
resto del mondo» (ivi, p. ).
. Le uniche trattazioni ampie della preistoria le ho trovate in manuali stampati in Francia per le scuole africane: AA.VV. (), con oltre venti pagine, nelle quali si mette in eviden-

ANTONIO BRUSA
.
La sequenza etiopica evolve verso gli europei (da AA.VV., )
FIGURA
Ma, poiché lo studio della storia è finalizzato al raggiungimento dell’identità nazionale, la preistoria trova vita stentata anche in altre scuole: in India, in Giappone o nel mondo arabo. Ogni volta, il libro scolastico non partirà dalla Rift Valley o da una savana africana: ma da
Mohenjo Daro (Saradha Balakrishnan, , p. ; Bahrat, ), dalla
Mesopotamia o dall’Egitto, o dalle steppe sconfinate dell’Asia centrale, a seconda della ricostruzione genealogica della propria nazione.
In questo contesto, va al di là della notazione di colore il fatto che, per
il Sud Africa, l’Eva africana non sia più l’ipotetica madre genetica dell’umanità, ma Sarah Baartman, la piccola Sarah, sfortunata donna
Khoi-Khoi, esibita a Parigi come “Venere ottentotta”, alla fine dell’Ottocento, che – in occasione del ritorno in patria delle sue spoglie,
restituite dal Musée de l’Homme – venne proclamata «la madre simza l’importanza dell’Asia nel processo di ominazione (il manuale è destinato alla scuola malgascia); AA.VV. (b, p. ), che sottolinea con forza l’importanza della preistoria africana.
. Solo quattro pagine di preistoria con siti occidentali nei manuali giapponesi (AA.VV.
a, b). Stesso atteggiamento nei manuali del mondo islamico che ho potuto sfogliare, ma che purtroppo non sono in grado di citare, che iniziano volentieri dalla Mesopotamia. Fakhroutdinov (, p. ) apre con un paragrafo sulla preistoria: si tratta ovviamente
degli Sciti.

.
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bolica di tutti i sudafricani». La riscrittura storica nazionalistica muove a partire dalle «testimonianze delle sofferenze», con l’esclusione
quindi del passato più remoto (Triulzi, ).
L’identificazione fra storia e civiltà permette, agli autori dei manuali, di riadattare il modello narrativo lineare al proprio popolo. Ma
per riuscirvi, e presentare conseguentemente la nazione come il decantato delle civilizzazioni passate, essi devono rifarsi al portato
profondo degli stereotipi fattuali, che abbiamo visto sopra, secondo il
quale la preistoria è l’antitesi della storia, l’inumanità prima dell’umanità. In questo modo, l’azione combinata del culturalismo e dell’identitarismo ha ridato fiato a un modello storico didattico che, lentamente ma con sicurezza, stava cambiando nel secondo dopoguerra.
Il confronto con la manualistica dell’Europa postcomunista, pericolosamente segnata dal nazionalismo, ci dà una conferma di questo
processo, quando ci mostra la riscrittura in chiave patriottica della
preistoria. In questa visione identitaria non è la “preistoria” che interessa, ma la “mia preistoria”. Tale prospettiva rende utilizzabile, anche nell’Europa occidentale, soprattutto la preistoria recente, il Neolitico, un periodo che si rivela assai duttile agli scopi formativi nazionali. Ecco i “lacustri”, precursori dell’operosità svizzera, o l’infinita saga dei celti, invocati come padri fondatori – storici e al tempo stesso
mitici – di una buona quantità di Stati e gruppi politici europei, tutti
. La storia africana inizia nel Medioevo, così, perentoriamente, nella peraltro accuratissima indagine storiografica di Calchi Novati, Valsecchi ().
. Una discussione dell’afrocentrismo in Walzer (); un confronto fra modelli
afrocentrici ed eurocentrici in Brusa, Cajani () (anche in www.storiairreer.it/materiali/
indice/StoriaMondiale.htm). In generale, sulla ripresa delle storie “autocentrate” cfr. Procacci (). Per la discussione fra identità, nazionalismo e archeologia cfr. Kohl () e i
testi di P. Stone già citati.
. Croazia: Ferček (, pp.  e ) racconta della preistoria “austroungarica” e di
quella croata, accostata a una Lucy improbabile; Moldavia: Şarov (, pp.  e ) usa la
preistoria per includere lo spazio romeno; Băjanaru () dedica una rapida doppia pagina al Paleolitico, per presentare poi gli indoeuropei; Macedonia: Sharif (, pp.  ss.)
solo preistoria macedone, corredata dalla foto di una gigantesca formazione naturale a forma di elefante (in mancanza di fossili…); Ungheria: Gyapay (): preistoria in Ungheria;
Gyapay, Ritoòk (, p. ); Russia: Vigasin, Samoszvanceva (, p. ) apre la trattazione
con una carta che mostra come il popolamento russo risalga a epoche preistoriche; Lituania: Kurlovičs, Tomašūns (): solo preistoria lituana, come in Kenins (, p. ). E non
mancano i casi in cui la preistoria è assente: Polek, Wilcizyński (). Il recente “canone
delle conoscenze storiche” olandese, rigorosamente etnocentrico, conferma l’esclusione
del Paleolitico, a tutto vantaggio di un Neolitico europeo, megalitico e campaniforme: cfr.
http://www.entoen.nu/default.aspx?lan=e.

ANTONIO BRUSA
bisognosi di assicurarsi della profondità temporale della loro identità.
Figurano, in questa galleria di utili progenitori, anche i “popoli originari” italici – veneti, celti, piceni, japigi e via elencando – testimoni immaginari di identità regionali e locali, le patrie autentiche, soffocate
dalla politica, unitaria e colonialista, di Roma. «Con l’inizio dell’agricoltura l’uomo può considerarsi civile, egli prende amore alla terra
dove dimora stabilmente, ha già una Patria, che lo nutrisce, e che egli
saprà difendere sino all’ultimo sangue contro altri uomini, gli stranieri, che tentassero rapirgliela» (Zanetti, , p. ): queste parole, di un
manuale in uso nelle scuole professionali italiane poco prima dello
scoppio della seconda guerra mondiale, non sembrano riflettere convinzioni del tutto scomparse.
.
Una conclusione che invita a nuovi programmi
Il confronto fra mondi scolastici diversi ci fornisce, a questo punto, ulteriori elementi per riconsiderare il nostro stereotipo fondamentale
della sequenza evolutiva. Come abbiamo visto sopra, infatti, questo è
viziato da numerosi e gravi difetti. Ma, allargando l’analisi anche ai manuali non europei, ne scopriamo un nuovo aspetto: comunque, questa
icona veicola l’idea di un’umanità unita e solidale, e sottolinea che questa è il soggetto dell’evoluzione. E qui leggiamo la contraddizione di
fondo. Per alcuni, l’icona postula una storia collettiva dell’umanità;
per altri, solleva i dubbi che tale storia non sia del tutto condivisa, ma
in realtà sia un’imposizione e che, conseguentemente, la “vera storia”,
sia unicamente la propria.
Se è così, è comprensibile che il successo dell’icona (per quanto essa sia stereotipata) proceda di pari passo con l’espansione delle conoscenze preistoriche. I manuali mostrano chiaramente che la preistoria,
e soprattutto il Paleolitico, acquistano importanza man mano che il
soggetto della loro narrazione tende ad essere l’umanità, mentre ne
perdono proprio quando il soggetto torna ad essere la nazione. Quest’apertura al mondo ha certamente un aspetto spontaneo e di massa,
. Kaeser () e anche Jud, Kaenel (, passim); Díaz Santana (), dove si critica il mito celtico, ma anche la susseguente opposta celtofobia; sulle carte e i miti fondatori cfr. Brusa (b). Per i manuali nazisti, che iniziano volentieri con la “preistoria dei
popoli germanici”, cfr. i testi citati sopra.

.
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nelle scuole occidentali, presso insegnanti, allievi e famiglie. Ma al tempo stesso ha una forte portata scientifica, perché, da una parte, spinge
la storiografia occidentale a occuparsi con maggior cura di ciò che è
accaduto nel resto del mondo; e, dall’altra, la invita a considerare uno
“stereotipo strutturale” da abbattere quello secondo il quale “la preistoria non fa parte della storia”.
La recente riforma della scuola italiana, e con essa l’insegnamento
della preistoria, è tutta dentro questo conflitto. Infatti, proprio per dichiarate ragioni di identità (italiana ed europea) e di tradizione (giudaico-cristiana), la preistoria è stata estromessa dal ciclo di base e confinata nel limbo delle attività preparatorie, in prima e seconda primaria (bambini di cinque-sei anni), con una dizione sconcertante: «studio del passaggio dall’uomo preistorico all’uomo storico». Dunque,
nella scuola italiana la preistoria non fa più parte della storia e, coerentemente, il programma ha eliminato qualsiasi accenno a una dimensione mondiale della storia. Il fatto che tale riforma abbia riscosso più di un consenso nell’accademia storica italiana ci dice che,
come in Kenia o in India o nel mondo arabo, molti storici, in Italia, sono disposti a convivere con lo stereotipo colto della separazione fra
storia e preistoria e a considerare quest’ultima come un elemento straniero e inutile, per quella “cultura originaria” che la scuola dovrebbe,
a loro giudizio, tramandare.
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(, pp. -). Cfr. ancora, in www.storiairreer.it, i contributi di L. Cajani e la rassegna
precisa di L. Vanni. Per gli storici favorevoli alla riforma Moratti cfr. Vitolo ().
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

Evoluzione umana e ricerca
di Carlo Peretto
Il dibattito sull’evoluzione e il suo significato, per ovvi motivi sempre
fortemente attuale, è l’oggetto del tema trattato in questo intervento,
visto nella sua interazione col mondo della ricerca; lo scopo è quello
di focalizzare l’attenzione sul come e sul perché siamo oggi nella condizione di proporre e riassumere idee e congetture estremamente definite quanto articolate sul nostro processo di ominazione.
Credo, in particolare, che sia fondamentale far chiarezza sul reale
significato del metodo di indagine che oggi noi definiamo con le parole “ricerca sperimentale”. Questa costituisce un percorso metodologico inalienabile, in grado di pervenire ai risultati dell’odierna conoscenza, non soltanto nei limiti dell’ambito prettamente tecnologico.
Il confronto, e spesso la contrapposizione, tra “idea” e “materia”
ha consentito solo in fasi molto recenti all’affrancamento laico della
ricerca e dell’interpretazione dei risultati delle indagini scientifiche.
È una storia non indolore che, tuttavia, vista nella sua dimensione
moderna, ha portato a partire da metà Ottocento all’impostazione
corretta della nostra storia evolutiva, sia dal punto di vista biologico
che culturale. La quantità impressionante di documenti fossili, raccolti negli ultimi  anni, costituisce una prova inequivocabile di
questo evento.
.
La forte contrapposizione attuale
Col XX secolo, la scienza sembra essere entrata in una fase critica.
La conoscenza sperimentale pare non essere in grado di controllare
i problemi sociali, economici ed ecologici; ciò porta a modificare la
stessa concezione dell’uomo, del progresso e della ricerca. La nostra
umanità può così essere percepita come una minaccia planetaria,

CARLO PERETTO
priva della capacità di autocontrollo nella prospettiva di un futuro
migliore.
È per questo motivo che l’attenzione dei mass media nei riguardi
della scienza, e quindi della ricerca scientifica, non significa necessariamente adesione e condivisione delle scoperte, quanto piuttosto sospetto e critica. Per molti non si tratta di affermare i continui successi
nello sviluppo delle conoscenze, quanto piuttosto di discuterne il significato, evidenziando le problematiche più propriamente di ordine
morale, etico, religioso ecc. In particolare sono alcuni degli sviluppi
delle indagini scientifiche a essere oggetto di attenzione, come ad
esempio le ricerche sul DNA e sulle sue possibili manipolazioni, sollevando discussioni e contrapposizioni dure e forti. Clonazione, OGM,
staminali sono soltanto alcune parole e sigle entrate nel gergo comune
più per gli atteggiamenti conflittuali che hanno sollevato, che per gli
eventuali risultati raggiunti e i possibili benefici terapeutici.
Nel suo complesso, quindi, livelli integrati e distinti conducono a
una percezione disarticolata e fuorviante della ricerca: . essa è spesso associata alle catastrofi ecologiche, interpretate quali diretta conseguenza dell’inquinamento oggi esistente sul nostro pianeta e ritenuto quasi inarrestabile, nonostante gli sforzi politici per una sua risoluzione (cfr. ad esempio il Protocollo di Kyoto); . al contempo, da
più parti emerge la critica che essa è priva delle necessarie garanzie
sugli effetti che nuove scoperte possono indurre sui singoli individui
o su intere popolazioni e più in generale sull’ambiente naturale; . viene spesso rapportata a eventi che stravolgono l’organizzazione filosofica e “razionale” della realtà, con particolare riferimento alla posizione dell’uomo nell’ambito della natura, soprattutto nella sua prospettiva di evoluzione biologica, oltre che culturale; . è ricondotta,
da molti in modo fuorviante, alla teoria della falsificazione di Popper,
perché impossibilitata al raggiungimento di una verità assoluta non
più discutibile.
Quest’ultimo aspetto, valido nel suo pronunciamento di ordine generale, se non interpretato in modo corretto, potrebbe per molti riassumere in sé tutti e quattro i punti sopraesposti, ponendo la ricerca
scientifica, soprattutto quella sperimentale, nelle condizioni di perdere significato e veridicità agli occhi del grande pubblico, in un atteggiamento che rimane comunque soltanto di ordine speculativo. L’impostazione di Popper evidenzia, al contrario, il procedere della ricerca scientifica e i successivi cambiamenti e posizionamenti delle varie

.
EVOLUZIONE UMANA E RICERCA
teorie. Infatti, a un modello che giustifica la “realtà”, ne segue col tempo uno nuovo che legittima ulteriormente forme e caratteri dell’esistente, includendo ad esempio, in modo tuttavia mai esaustivo, l’origine e lo sviluppo dello stesso universo in sintonia con le leggi fisiche
che ne giustificano la struttura, la formazione del sistema solare e del
nostro pianeta, l’origine della vita e della biodiversità e la nostra stessa evoluzione nel corso degli ultimi milioni di anni.
È evidente, quindi, che l’atteggiamento filosofico del significato e
del procedere della ricerca scientifica non altera la sua centralità e il
progressivo quanto inarrestabile sviluppo della conoscenza.
.
Il procedere della ricerca sperimentale
Ogni teoria va definita e ridefinita di continuo con indagini sperimentali. In questo ambito soprattutto l’evoluzione dell’uomo, ad esempio,
è rafforzata dall’incessante scoperta di fossili, dagli studi molecolari,
dalle indagini cronologiche, dallo studio di quanto rimane delle attività materiali e spirituali degli antichi gruppi umani che vissero nella
preistoria. Ciò significa, in primo luogo, che la ricerca si pone come
obiettivo la risoluzione di problemi particolari, senza voler rispondere a interrogativi di ordine generale. Condividere un’ipotesi, più o meno ampia e articolata, significa indagare i fattori specifici riconducibili a un insieme più ampio, del quale il più delle volte non sono tuttavia noti i limiti.
L’indagine scientifica cerca risposte a domande semplici: cos’è un
atomo, un elettrone, una proteina, un cristallo... In questo modo l’acquisizione delle nuove informazioni, che si succedono nel corso del
tempo, mina prima o poi il sistema generale teorico precedentemente
elaborato, per riproporne uno nuovo più o meno differente, ma certamente più rispondente alle necessità di giustificazione delle nuove scoperte. L’ultima di queste rivoluzioni, per quanto riguarda la stessa
struttura dell’universo, si deve ad Albert Einstein (-) che nella
formula semplice quanto elegante E=mc  riassume il senso di questa
riorganizzazione dell’intero sistema di riferimento fisico.
Per questo motivo la ricerca sperimentale è stata, ed è ancora oggi
per nostra fortuna, un fattore di rottura nell’ambito del sistema sociale nel quale si colloca, sollevando spesso dubbi e contrasti anche acerrimi. Da questo punto di vista la ricerca si può definire un attore dis-

CARLO PERETTO
sacralizzante all’interno della nostra società moderna. Questa è una
considerazione che vale anche per epoche passate, e soprattutto per il
Cinquecento, periodo dal quale emerge prepotentemente una linea di
analisi della realtà, seppur non indolore, che porta allo sviluppo moderno della nostra società, troppo spesso ricondotta soltanto a un
aspetto di ordine tecnologico.
.
Ricerca sperimentale tra passato e presente
Sono dell’avviso che la particolare condizione di rottura e quindi di
riorganizzazione generale del sapere imposto dalla ricerca scientifica,
spesso contrastato violentemente, abbia avuto momenti significativi
anche nel mondo antico, senza tuttavia apportare veri stravolgimenti
nelle condizioni del sapere generalizzato. In particolare vorrei ricordare in questo contesto la volontà di alcuni studiosi moderni di sottolineare l’importanza delle conoscenze scientifiche del mondo greco e
romano, riproposte anche in un’ampia ed elegante mostra allestita
presso il Museo archeologico nazionale di Napoli, dal titolo Eureka. In
questo contesto si ripropone l’importanza delle scoperte in quelle lontane epoche, con particolare riferimento al mondo greco. L’esaltazione delle scoperte di quell’epoca è più che mai legittima, anche se dobbiamo porci la domanda del perché si è arrivati all’oblio di quelle conoscenze e del perché l’immobilità del pensiero ha pervaso i secoli successivi con una visione assoluta e univoca della realtà, quasi fino al XVI
secolo (immobilità che per molti aspetti perdura tutt’oggi). La causa
principale di tutto ciò risiede nella mancata affermazione della laicità
della ricerca scientifica e del conseguente percorso conoscitivo. La sopravvalutazione della “razionalità” di ordine prettamente filosofico e
la dipendenza da essa hanno relegato il tutto nell’ambito della “curiosità”, non significativa nella giustificazione dominante di un fine che
potesse comprendere il tutto, in una visione unitaria e vincolante (teleologismo di Aristotele); un atteggiamento, quest’ultimo, che prevale
in quel periodo come nei secoli successivi, lasciando e rafforzando ulteriormente una visione fissista e statica del mondo che ci circonda.
D’altra parte la laicità nella consapevolezza della conoscenza è uno
stato mentale del tutto particolare, facile da esprimere a parole, ma
complesso nella sua concretezza. È come per gli antropologi annientare se stessi per comprendere gli altri, soprattutto quelli che mag-

.
EVOLUZIONE UMANA E RICERCA
giormente si ritengono diversi, vivendo gli usi e i costumi di popoli differenti in un contesto sociale del tutto nuovo e imprevisto; comportarsi allo stesso modo facendo cose che non si sarebbe mai immaginato di fare e condividendo atteggiamenti sociali e morali inaspettati
quanto imprevedibili.
Oggi, rispetto al mondo antico, siamo in una situazione del tutto
differente. Al contrario di quanto si pensava fino all’Ottocento, l’evoluzione dell’uomo è una realtà confermata e condivisa, anche se attorno a questa certezza si addensano in modo ricorrente continue polemiche e critiche. Sul tema delle origini dell’uomo si imposta infatti uno
dei contrasti più forti tra caso e programma, evoluzione e fissismo, relativo e assoluto, passando dalla discussione dei fossili quali realtà
morfologica a quella del loro più ampio significato in termini di interpretazione generale nel contesto della stessa natura. Questo fenomeno ha anche un lato particolarmente piacevole, mettendo in condizione gli studiosi della preistoria di confrontarsi non solo su aspetti di ordine tecnico e tipologico, ristretti a un ambito tecnicistico, ma anche
e soprattutto sul tavolo della speculazione e del confronto razionale
del significato dei materiali raccolti, in un dibattito di ordine non più
solamente numerico, ma soprattutto filosofico.
Questo atteggiamento rappresenta una novità, in quanto la discussione che si svolge in quelli che potremmo definire “piani alti della razionalità” non si giustifica, come un tempo, negando il dato scientifico e naturalistico, quanto piuttosto lo recepisce come argomentazione inalienabile e allo stesso tempo condizionante per l’interpretazione che può essere desunta a carattere generale.
.
Alle origini della ricerca sperimentale
È bene ricordare, per far chiarezza sull’origine del nuovo atteggiamento sovradescritto, che il raccordo, o meglio il riconoscimento della stretta relazione tra scienze e filosofia, è il risultato di una storia relativamente recente, seppur talvolta con qualche errore di interpretazione e qualche sopravvalutazione. Esso trova la sua origine molto recentemente nella nostra evoluzione culturale, in quel metodo definito
con l’aggettivo “sperimentale”, che rappresenta un’innovazione di
grande portata a partire soltanto dal Cinquecento. È un periodo durante il quale troviamo un’ampia gamma di scienziati, tra cui si posso-

CARLO PERETTO
no ricordare, oltre a Galileo Galilei (-), Nicolò Copernico
(-) e Giovanni Keplero (-). È questa una fase di grande attività conoscitiva e sperimentale, che investe ogni ambito del sapere. Chiunque osservi, ad esempio, i disegni di Leonardo da Vinci nota quanto sia dettagliata la descrizione anatomica, possibile soltanto
grazie a numerose dissezioni non certo condivisibili e ammissibili a
quel tempo. I nuovi approcci della conoscenza rappresentano comunque fattori di attrito con l’apparato dominante di quel tempo, tanto
che in molti casi studiosi vari sono “purificati” col fuoco a causa delle
loro idee diverse da quelle professate dall’apparato di controllo. È il
caso di Lucilio Vannini, oppure di Giordano Bruno che, nato nel ,
nell’anno  è arso sul rogo. D’altra parte lo stesso Galilei abiura per
ben due volte.
Anche le grandi scoperte geografiche aiutano in questa fase nel
cambiamento di prospettiva nei riguardi dell’analisi della natura e
delle sue differenti originalità. Da ogni parte arrivano in Europa cose
nuove e curiose che stravolgono la nostra concezione del mondo limitato al solo ambito europeo. Nascono così grandi raccolte, i gabinetti delle curiosità, assieme alla necessità dello sviluppo della classificazione di piante e animali e comunque di tutto quanto rappresenti
oggetto di interesse.
I modi di interpretare e valutare la natura diventano entità inalienabili per una società in continuo sviluppo, tanto da consentire la
nascita di grandissimi contenitori del sapere naturale, quali giardini
botanici, musei naturalistici, paleontologici, geologici ecc. A tale
proposito basti ricordare, per tutti, il Musée National d’Histoire
Naturelle di Parigi, che si deve soprattutto al lavoro del naturalista
francese Georges-Louis Leclerc de Buffon (-). In questo
contesto la classificazione del mondo animale e vegetale viene risistemata da Carl von Linné (-) nel suo Systema Naturae a
partire dal .
Una conseguenza diretta di quest’enorme attività naturalistica è la
percezione, o meglio l’impressione, che il grado di differenza tra gli esseri viventi, più o meno lontani tra loro, sottenda un’origine comune.
Queste prime ipotesi vengono confermate, pur nella contrapposizione a questa idea di Georges Cuvier (-), anche dallo studio dei
reperti paleontologici. Infatti l’analisi delle sequenza geologiche, contenenti un’infinità di fossili appartenenti a specie estinte, rafforza questo pensiero. Ad esso si oppone Cuvier, convinto fissista, che cerca nel-

.
EVOLUZIONE UMANA E RICERCA
la “teoria delle rivoluzioni del globo”, poi sostenuta e sviluppata dai
suoi allievi con la “teoria delle creazioni successive”, un’interpretazione statica dei fenomeni osservati.
Tuttavia, per nostra fortuna, il tempo delle prime teorie evoluzionistiche è arrivato. E così la prima, impostata su basi scientifiche, si deve a Jean-Baptiste de Lamarck (-) con la pubblicazione nel
 della sua Philosophie zoologique. Secondo questo studioso è determinante il ruolo dell’ambiente quale elemento per lo sviluppo della diversità morfologica. L’organismo viene modificato e i cambiamenti sono ereditati di generazione in generazione. Una moltitudine
di esempi sono riportati quale prova di questa ipotesi: la talpa che ha
perso la vista in quanto vive sotto terra; le oche con le dita palmate perché vivono soprattutto in acqua; la giraffa dal collo lungo per mangiare anche le foglie dei rami più alti degli alberi ecc. Secondo Lamarck
due leggi ne consentono la realizzazione: l’uso e il disuso degli organi;
l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Forti critiche vennero immediatamente portate a sfavore della teoria di Lamarck, e in particolare il più
acerrimo nemico fu proprio il paleontologo Cuvier. L’osservazione più
negativa riguardava la constatazione che non è l’uso a fare insorgere
l’organo, quanto piuttosto il contrario. Ad esempio come sarebbe potuta insorgere l’ala se il volo non era già comunque una prerogativa di
qualche essere vivente?
Oggi sappiamo che questa teoria, importante perché è la prima
che cerca di spiegare in modo organico l’evoluzione, non è valida
scientificamente. Oggi sappiamo che le caratteristiche acquisite dal
fenotipo (ad esempio colore più scuro della pelle perché abbronzata, muscoli più forti a causa dell’intenso allenamento...) non sono
ereditabili, cioè non passano al genotipo e quindi ai figli. Sappiamo
che soltanto le mutazioni del genotipo comportano un cambiamento nelle generazioni successive e quindi soltanto queste sono ereditabili.
Lo stesso nonno di Darwin, Erasmus, è un convinto evoluzionista:
una certa aria di famiglia influenza il nipote che sarà ben più famoso.
E arriviamo così alla teoria di una evoluzione per cause interne: Charles R. Darwin (-) sostiene e dimostra questa tesi in Origine delle specie, pubblicato nel  (l’Origine dell’uomo risale al ). Sostiene che alla base dell’evoluzione vi è la variabilità individuale sulla
quale lavora la selezione naturale. L’osservazione della natura aveva
permesso a Darwin di sviluppare la sua grandissima intuizione, anche

CARLO PERETTO
se all’epoca non si sapeva nulla sull’esistenza e sulle proprietà del genoma. Dovrà passare ancora molto tempo, anche attraverso gli studi
sull’ereditarietà dell’incompreso Gregor Mendel (-), prima
che si arrivi a capire in modo sufficientemente articolato i meccanismi
della variabilità genetica e delle modalità di trasmissione delle informazioni alle generazioni future.
.
Ricerca scientifica ed evoluzione dell’uomo
Non è un caso quindi che la paleontologia umana, o meglio la capacità
di ricostruire il nostro percorso evolutivo, inizia il suo lavoro conoscitivo a metà Ottocento, dapprima contrastata e poi via via nel tempo
accettata, sviluppata e sostenuta dalla ricerca scientifica. Certo la visione dinamica della natura e della nostra storia evolutiva non è esente da critiche, provenienti sia dal mondo scientifico (costantemente alla ricerca di ulteriori conferme), sia da quello che propende per una
visione decisamente dualistica, spesso ancorata a una contrapposizione netta tra fisica e metafisica, materia e mente, soggettivo e oggettivo,
tecnicismo e coscienza.
Al giorno d’oggi, aiutati tuttavia dai fossili, possiamo ripercorrere
un cammino lungo milioni di anni, durante i quali il complesso processo, a cui è stato dato il nome di ominazione, ha portato alla ribalta
la nostra specie, capace di modificare l’intero pianeta. Il processo evolutivo è stato lungo, con una capacità molto elevata di risoluzione degli ostacoli e dei pericoli ogni volta differenti che la natura di certo non
ci ha risparmiato.
Forse per questo motivo l’uomo è un essere del tutto originale,
avendo fatto confluire in quella che chiamiamo cultura tutta una serie di modi di fare, atteggiamenti e interventi che derivano dalla biologia, ma che gli hanno consentito di attenuare, se non talvolta evitare completamente, quella che Darwin chiama selezione naturale.
La cultura, che come sappiamo ha la possibilità di modificare l’ambiente, diventa in questo modo un elemento di protezione, consentendo all’uomo di svincolarsi dalla selezione naturale e di poter vivere in ogni dove. La cultura, in sostanza, consente di evitare qualsiasi specializzazione di tipo ambientale e offre la possibilità di vivere in qualsivoglia habitat naturale. L’uomo è in grado di costruire
contesti anche del tutto artificiali che gli permettono di vivere in si-

.
EVOLUZIONE UMANA E RICERCA
tuazioni inimmaginabili fino a poco tempo fa, quali lo spazio o la superficie di altri corpi celesti.
.
Evoluzione e cultura
Sorprende il fatto che lo sviluppo delle capacità adattative ad ambienti differenti abbia portato ad una situazione del tutto nuova, conosciuta col termine di autoconsapevolezza, limitandoci per ora in
questo contesto rispetto all’ambito ben più ampio e complesso della coscienza.
La consapevolezza di ciò che esiste o che è esistito sta alla base
della capacità di poter indagare e di poter ricostruire la propria storia. Forse questa è la vera differenza con le altre specie animali: siamo i soli a disegnare, fin nei più minimi dettagli, la galleria degli antenati. Ci ritroviamo nella condizione di poter percepire e definire
la relazione spazio-tempo, individuando le cause e i fattori che
l’hanno condizionata e modellata di continuo. È una proprietà del
tutto nuova che, riprendendo le parole di Boncinelli, potremmo definire emergente. Una capacità che ci consente di raccontare la nostra storia, l’ominazione, con la definizione dei suoi passaggi strategici, dalla stazione eretta, ai primi strumenti, dall’acquisizione dei
grandi spazi aperti della savana fino alla diffusione sull’intero pianeta, attraverso il recupero di tutte quelle testimonianze che giustificano il racconto fin nelle sue parti più complesse.
Potremmo anche riconciliarci, nel racconto di questa lunga storia,
con una certa visione dualistica, ponendo l’accento sul rapporto biologia-cultura, consapevoli comunque che i due ambiti non sono e non
si potranno mai disgiungere, quanto piuttosto influenzare vicendevolmente in una perenne osmosi senza vincoli temporali del prima e
del dopo. In questo ambito la memoria individuale delle conoscenze
culturali si sovrappone e si integra allo stesso tempo con quella naturale (memoria di specie), direttamente riconducibile al patrimonio genetico e a quanto da esso derivato in termini biologici. Siamo infatti
oggi consapevoli che solo quest’ultimo ha la possibilità di perpetuare
di generazione in generazione una quantità altissima di informazioni
in modo del tutto autonomo, al contrario di quanto avviene per quelle culturali che devono ogni volta essere apprese nuovamente dagli individui di tutte le generazioni che si succedono nel tempo.

CARLO PERETTO
.
Una considerazione finale
Si potrebbe pensare che siamo quindi meno originali di quanto il nostro antropocentrismo possa immaginare. Siamo infatti l’oggetto di
un’evoluzione sostanzialmente regolata da cause interne, rispetto alla
quale abbiamo messo in atto un’ampia gamma di strategie, soprattutto dovute alle conoscenze scientifiche e culturali, in grado di attenuare gli effetti della selezione naturale. È evidente, tuttavia, che questa
consapevolezza erode la garanzia di stabilità e di sicurezza che normalmente desideriamo e verso la quale esprimiamo, in modo più o meno inconscio, un forte desiderio di appropriazione.
L’evoluzione, quindi, sancisce l’idea che l’esistenza, la nostra, deve essere assunta come una sorta di osmosi con la mutevolezza delle
cose, invitandoci ad accettare razionalmente il rapporto con l’imprevedibile.
A mio avviso proprio in quest’ultima affermazione si ritrova l’astio
che molti hanno nei riguardi della conoscenza scientifica. Con questo
rifiuto si perviene a un’interpretazione fuorviante del significato stesso della nostra vita, che per assunto deve essere assolutamente dissociata da possibili disequilibri.
Il rigetto storico dell’evoluzionismo è quindi favorito da un atteggiamento rivolto alla normalizzazione della vita quotidiana, pertanto
finalizzata al mantenimento delle garanzie di ordine culturale, economico e sociale, con la certezza assoluta che nulla possa cambiare in futuro. Tutto questo sta anche alla base dell’atteggiamento filosofico del
fissismo e della nascita dell’assoluto comportamentale.
.
Un’ultima riflessione
In conclusione, sono dell’avviso che non vi sono dubbi nell’affermare
che a partire dalla fine del Quattrocento si siano affermate quelle innovazioni concettuali e metodologiche che hanno trasformato la pratica conoscitiva dando vita alla scienza moderna.
La possibilità di discutere di ogni cosa e di non avere riferimenti
assoluti in termini di conoscenza, facoltà peraltro acquisita non senza
contrapposizioni e condanne, ha consentito, nel corso degli ultimi secoli, di sostituire al principio di autorità quello di tolleranza per diri-

.
EVOLUZIONE UMANA E RICERCA
mere le controversie come stile di discussione tra gli uomini. Si può sostenere, allora, che questo è un modo di fare verso il quale il contributo dei naturalisti è stato determinante.
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
Parte seconda
Fossili, molecole, genealogie

La fenotipia ossea
nella ricostruzione dell’evoluzione umana
di Francesco Mallegni
.
Premessa
I dati paleoantropologici confermano che i primi stadi dell’evoluzione
umana sono iniziati in Africa subsahariana e precisamente nell’ampia
fascia che partendo dall’Etiopia riguarda tutta l’Africa sudorientale;
essa ebbe il suo inizio con la separazione del ramo “preumano” da
quello della antropomorfe. Ma come è possibile dare indicazioni così
precise, anche se è ancora opportuno ammantarle di un alone di dubbio? Quello che ritroviamo è costituito da frammenti di osso e non altro, resti di antichi cadaveri distrutti dall’azione dei mangiatori di carogne (le sepolture saranno una conquista tardivissima da parte dell’uomo, databili, all’inizio, a . anni da oggi) o dall’azione degli
elementi (sole, pioggia, vento, acidità del terreno ecc.). Ma sono questi frammenti che permettono ai paleoantropologi di individuare i caratteri che documentano il modo in cui le creature di cui costituirono
l’apparato scheletrico riuscirono a relazionarsi all’ambiente; si tratta
infatti dell’unico apparato anatomico che può essere indagato.
.
I preominidi e le più antiche forme di ominide
All’inizio la differenziazione dai pongidi, la famiglia i cui componenti
sono geneticamente e strutturalmente più vicini all’uomo, è lenta. Il
primo reperto da cui parte questa differenziazione potrebbe essere il
Sahelanthropus tchadensis; esso fu rinvenuto nel Ciad, quindi piuttosto lontano dalla zona precedentemente definita ed è databile grosso
modo fra i - milioni di anni fa (Brunet et al., ). Da alcuni è considerato un pongide femmina (gorilla). Solo un’altra serie di reperti de-

FRANCESCO MALLEGNI
nominati Orroin tugenensis (colline Tugen in Kenia), leggermente più
recenti ( milioni di anni fa) e rinvenuti in una formazione geologica
detta di Lukeino (Senut et al., ) dà più garanzie di questo distacco; i resti da cui sono rappresentati (anche resti di femore) dimostrerebbero infatti un inizio di conquista della stazione eretta e della deambulazione bipede; queste sono prerogative che distinguono l’uomo dai
pongidi, i primati più a lui simili, come detto in precedenza.
Altri reperti ossei, ancora più recenti (databili tra i , e i , milioni di anni fa), sono stati rinvenuti ad Aramis in Etiopia (Haile-Selassié,
) e definiti come Ardipithecus ramidus; sono rappresentati da denti, da mandibole, da una base del cranio e da frammenti di omero.
È necessario sottolineare che il foramen magnum nell’occipite è
spostato più in avanti di quello degli scimpanzé, ciò indicherebbe una
predisposizione alla locomozione bipede. Tuttavia, i caratteri dell’omero e dei denti sono ancora molto simili a quelli dei pongidi e particolarmente a quelli dello scimpanzé. Ancora però non si parla di australopiteci, il genere le cui molte specie vivranno più o meno contemporaneamente fino a lambire i , milioni di anni da oggi e anche
oltre (cfr. in seguito il genere Paranthropus). A partire da circa  milioni di anni i fossili attribuibili alle linee ominidi si fanno più abbondanti; i caratteri “umani” (del bipedalismo, soprattutto) sono più definiti e allora i paleoantropologi coniano la definizione di genere Australopithecus (nell’accezione del termine iniziale, scimmie dell’Africa australe, dato loro dai primi studiosi di questo antico materiale) ai
resti del primo essere datato fra , e , milioni di anni fa (Leakey et
al., , ), e come la specie anamensis; i suoi resti sono stati rinvenuti negli anni Novanta del secolo scorso. Molti denti, parti di mascellare, di mandibola e ossa dell’arto superiore costituiscono il suo
record fossile. Anamensis (FIG. .) possiede caratteri più “umani” di
Ardipithecus: la sua dentatura è meno primitiva e l’omero è abbastanza simile a quello umano; anche le tibie suggeriscono il possesso
completo del bipedalismo (Leakey et al., ).
Altri resti, animali e vegetali, indicano un ambiente relativamente
umido e forestato; è opinione corrente che il progressivo inaridimento
della parte sudorientale dell’Africa, scenario naturale delle prime “manifestazioni umane”, sia stato accompagnato da foreste galleria intorno
ai corsi d’acqua; ciò avrebbe permesso la sopravvivenza di queste forme preumane, le loro escursioni in ambienti aperti (da qui l’inizio del
bipedalismo), la possibilità della conquista di territori anche molto lon-

.
L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A
.
Una serie di reperti attribuibili ad Australopithecus anamensis, tra i quali (in alto a sinistra) la mandibola  olotipo della specie
FIGURA
tani dalle zone in cui questi ebbero origine. Seguono ad anamensis altri reperti morfologicamente ancor meglio definibili; il loro nome di
specie è ancora più noto (anche ai mass media) e il loro record fossile
ne ha permesso una conoscenza ancora migliore rispetto a quello delle
forme precedenti: ci riferiamo ad Australopithecus afarensis.
I resti fossili provengono dall’Etiopia, dal Kenia e dalla Tanzania e
sono stati datati fra  e  milioni di anni fa. Il famoso scheletro parziale AL - chiamato “Lucy” e altri resti, rinvenuti in Hadar (Etiopia)
e a Laetoli (Tanzania) (ossa e impronte di piedi) negli anni Settanta dello scorso secolo (Johanson et al., ), già avevano indicato che lo sviluppo del cranio, dei denti e dell’apparato locomotorio poterono aver
avuto sviluppi cronologicamente anche molto differenziati.
In effetti questa specie ha mantenuto alcuni caratteri dentari e cranici tipici dei pongidi con canini grandi e molto dimorfici, faccia prognata e volume encefalico piccolo – - cc. Gli attuali scimpanzé
hanno una capacità cranica di  cc e i gorilla di  cc. Gli arti superiori mantengono in afarensis alcuni caratteri arcaici, più vicini a
quelli dei pongidi, particolarmente la lunghezza rispetto a quella degli
inferiori e l’anatomia della mano; si tratta di caratteri probabilmente
collegati con l’abilità residua di attività arboricola. Gli arti inferiori sono decisamente strutturati al bipedalismo, nonostante alcuni caratteri
arcaici quali le falangi allungate. Si pensa che la specie afarensis po-

FRANCESCO MALLEGNI
trebbe essere suddivisa in due o più specie per via di una considerevole variabilità dimensionale (McHenry, ), con probabili maschi
grandi e femmine di piccolo formato, quindi a grande dimorfismo sessuale. In caso affermativo afarensis potrebbe essere l’ultimo antenato
diretto di tutti i successivi ominidi e la sua definizione sistematica dovrebbe cambiare in Preanthropus africanus (Strait et al., ). Leggermente più recente di afarensis, si rinviene nella regione del El Ghazal
di Bahr, vicino a Toro Koro nel Ciad (Brunet et al., ), un mandibola datata a -, milioni di anni fa, in base a resti di fauna. Il reperto
viene definito Australopithecus bahrelghazali. Il rinvenimento dimostra la presenza inequivocabile di ominidi pliocenici in Africa nordoccidentale e inoltre la loro distribuzione larga e una diffusione abbastanza precoce. Dobbiamo allora tenere conto delle famose foreste galleria che potevano costituire possibili transiti in regioni anche lontane
dalla zona di origine seguendo corsi d’acqua importanti (vedi in questo caso il Nilo) con la rete degli affluenti, a meno che non si debba
ammettere siano esistiti più punti di insorgenza di questo genere. Certamente tutte queste specie non si possono accettare se non ammettendo un’insorgenza a cespuglio (Wood, a, b) con tanti rami
destinati a estinguersi nel tempo, tranne uno che porterà a Homo, specie sopravvivente sapiens. Facciamo un esempio banale e non del tutto rispondente: un cespuglio di rose con tanti polloni sviluppatisi da
un unico ceppo ma che vanno a costituire varie entità.
Oltre che le tre specie attribuite al genere Australopithecus, dobbiamo includere una nuova forma che non soltanto viene definita come nuova specie, ma persino un nuovo genere, Kenyanthropus platyops (Leakey et al., ), cioè “l’uomo dalla faccia piatta del Kenia”. Esso viene da una stratificazione datata a ,-, milioni di anni fa. La relativa morfologia è differente dagli altri ominidi (gli altri australopiteci mostrano un forte prognatismo). Inoltre, Kenyanthropus mostra una
capacità cranica ridotta. Quindi i ritrovamenti delle varie ossa indicherebbero come parecchie forme di ominidi arcaici avrebbero potuto coesistere in Africa fra  e  milioni di anni fa.
Da circa  milioni di anni nella famiglia degli ominidi almeno due linee evolutive coesistono: in entrambi a poco a poco si va delineando uno
sviluppo progressivo dei caratteri cranio-facciali sempre meglio distinguibili da quelli dei pongidi: facce meno prognate e denti anteriori molto ridotti. Tuttavia la prima tendenza evolutiva ha dovuto sviluppare un
potente apparato masticatorio, particolarmente nei denti giugali (riscon-

.
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trabili anche nelle grandi dimensioni delle strutture ossee). La seconda
tendenza, al contrario, ha determinato la riduzione della dentatura laterale e delle strutture ossee relative; a questi aggiustamenti è seguito uno
sviluppo cerebrale progressivamente più capace (encefalizzazione) e una
quasi sicura alimentazione a base anche di proteine animali.
La più antica forma conosciuta con un apparato dentario che utilizza prevalentemente i denti giugali compare a circa ,-, milioni di
anni fa in Africa orientale e australe (in Etiopia, nel Kenia e forse nel
Malawi orientale) e viene definita come robustus. Un cranio completo,
il cosiddetto “cranio nero”, a causa del colore degli strati di fossilizzazione in cui è stato raccolto e che lo hanno tinto, detto poi, con il nuovo appellativo di genere, Paranthropus, specie aethiopicus, è stato trovato in Kenia: la sua sigla è KNM-WT .. Può essersi sviluppato da
afarensis ed essere capostipite, nella relativa morfologia craniofacciale, delle forme che hanno sviluppato ancora di più il loro apparato masticatorio. In particolare Paranthropus mostra una capacità cranica ridotta ( cc), insieme a una cresta sagittale sulla volta, l’elemento tipico di questo gruppo, e un facciale sviluppato, quale morfologia anatomica “robusta”. Questa primitività è quasi da antropoide. Le forme
di Paranthropus, rappresentate da un buon numero di fossili, datati fra
più di  milioni a più o meno un milione di anni, sono da attribuire a
due varietà della stessa specie, anche se sono molto simili: boisei, orientale (FIG. .), e robustus del Sud Africa. La loro capacità cranica è di
circa  cc (Tobias, ).
.
Il calvario OH , denominato Paranthropus boisei
FIGURA

FRANCESCO MALLEGNI
Il Paranthropus aethiopicus potrebbe essere l’antenato diretto di
P. boisei, il robustus, data la sua posizione geografica (Sud Africa),
potrebbe essere considerato dunque una variante geografica del boisei, data anche la sua antichità maggiore. Tutte e tre sono forme che
possiamo supporre specializzate nel consumo delle fibre vegetali e
coriacee (architettura masticatoria potente, faccia grande e piana,
poco prognata; archi zigomatici forti, denti laterali enormi, denti anteriori ridotti, cresta sagittale sulla volta cranica per inserzioni dei
muscoli masticatori potenti; grande e forte mandibola). Per tutto ciò
questi ominidi non possono essere associati all’altro genere più o meno coevo (Australopithecus) che era certamente onnivoro. Un po’
prima di un milione di anni i parantropi, nelle due forme, scompaiono senza lasciare discendenza; questo loro perdurare, quando da
tempo sono in circolazione i rappresentanti del genere Homo e si sono estinte le australopitecine, può essere spiegato con la mancanza
di competizione tra i due generi (Homo e Paranthropus), impegnati,
almeno l’ultimo, a sfruttare risorse alimentari meno variegate. Anche
in Sud Africa sono presenti australopiteci della specie africanus dopo i  milioni di anni da oggi: essi datano prima del P. robustus e sono rappresentati dai resti cranici del famoso “bambino di Taung”.
Ulteriori resti, datati a -, milioni di anni fa sono stati rinvenuti a
Sterkfontein e a Makapansgat; grazie a questi è possibile ricostruirne la morfologia e l’anatomia: dentatura giugale un po’ meno sviluppata e struttura facciale meno forte, quindi abbastanza differente dagli altri A. arcaici e dai P. robusti; per questo A. africanus è stato chiamato “gracile”.
Al giorno d’oggi i rapporti filogenetici di africanus non sono del
tutto chiari; le sue strutture anatomiche sono molto simili a quelle dei
pongidi: alcune ossa craniche, le proporzioni fra gli arti superiori e inferiori sono simili a quelli dei pongidi tanto da pensare a un’abilità alla vita arboricola (l’arto superiore è molto forte per l’arrampicamento)
oltre al bipedalismo (Clarke, ). Non c’è contrasto quindi con la
morfologia di afarensis, che non mostra un simile sviluppo negli arti
superiori (McHenry, Berger, ). Un altro fossile è stato trovato in
Etiopia e viene datato fra  e  milioni di anni fa; trovato in Bouri (Etiopia) è un cranio parziale recentemente attribuito a una nuova specie,
Australopithecus ghari (Asfaw et al., ). Il gahri può rappresentare
un buon collegamento fra l’afarensis e Homo (anche se la capacità cranica è ridotta – sui  cc – i denti, nonostante le grandi dimensioni,

.
L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A
hanno una morfologia più vicina a quella di Homo, così come le proporzioni fra l’omero e il femore). Tuttavia, le proporzioni fra l’omero
e le ossa dell’avambraccio sono simili a quelle dei pongidi.
.
L’origine del genere Homo
Quasi in contemporanea ai parantropi si colloca l’origine del genere
Homo; essa dovrebbe essere collegato a una fluttuazione climatica
fredda, seguita da inaridimento e dalla riduzione delle risorse alimentari. Si forma un nuovo taxa, datato fra , e , milioni da oggi, e va
sotto la definizione di Homo habilis, che è quindi da considerare il primo rappresentante di questo nuovo genere. I suoi resti sono stati trovati in parecchi luoghi dall’Africa orientale, quale Olduway (Tanzania), in Kenia, in Etiopia e in Malawi e forse in Sud Africa. Inizialmente tutti i resti non parantropini e non assegnabili ad africanus sono stati ipotizzati appartenere ad habilis. Tuttavia, la comunità scientifica solo recentemente ha accettato l’istituzione di questa specie (Tobias, a). Alcuni studiosi hanno contestato il valore di questa istituzione (Leakey et al., ); si pensava che habilis potesse essere un
congenere di australopithecus africanus o “gracile” (Wood, Collard,
). Le differenze con africanus non sono molte, ma sono sufficienti
da includere habilis nel genere Homo. Semmai la sua eterogeneità lo fa
considerare come appartenente a due distinte specie: habilis e rudolfensis (Wood, b). Entrambi mostrano una capacità cranica maggiore rispetto a quella delle australopitecine e denti giugali più piccoli, con un diametro mesio-distale importante.
I resti cranici presentano maggiore sviluppo delle regioni frontale
e parietale, l’occipitale è più arrotondato e la base meno pneumatizzata; i denti hanno dimensioni più piccole e i giugali indicherebbero un
loro utilizzo rispetto a quello delle australopitecine (FIG. .). Per la
prima volta si ha la quasi certezza della produzione di strumenti litici,
attività rapportabile esclusivamente al genere Homo.
Homo habilis e rudolfensis differirebbero per alcune morfologie
importanti; habilis ha una capacità cranica media di  cc; la faccia è
molto prognata e abbastanza convessa; il toro sopraorbitale è incipiente; lo scheletro postcraniale ha proporzioni che si avvicinano a
quelle di africanus (arto superiore più forte e relativamente più lungo
di quello inferiore, adatto per una vita semiarboricola). Il rudolfensis

FRANCESCO MALLEGNI
.
Il calvario KNM-ER , denominato Homo habilis
FIGURA
.
Il calvario KNM-R , denominato Homo rudolfensis
FIGURA

.
L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A
riori fossili più recenti, Swanscombe (Inghilterra), Atapuerca (Sima de
los Huesos in Spagna) e Steinheim (Germania), datati a circa . anni fa, mostrano un numero maggiore di caratteri di progressione (incipiente cranio sferoidale, inizio di faccia in estensione, allineamento dei denti anteriori, toro sopraorbitario quasi unico, inizio
dello spazio retromolare ecc.). Si tratta di esemplari morfologicamente vicini ai futuri neandertaliani, per cui sarebbe logico chiamarli neandertaliani antesignani.
I neandertaliani precoci che seguono, adattati alle pressioni selettive della glaciazione del Riss, hanno tratto probabilmente vantaggio
dal miglioramento climatico avvenuto fra  e . anni da oggi per
colonizzare zone prima non disponibili per la presenza delle barriere
geografiche (distese glaciali continentali).
Alcuni gruppi si sono spinti fino in Medio Oriente, dove hanno
sviluppato una morfologia particolare. Con la glaciazione ulteriore del
Würm, l’Europa è di nuovo divenuta relativamente isolata. Le popolazioni neandertaliane, unico gruppo umano in Europa fino a .
anni fa, popolano i territori europei specializzandosi nelle cacce e nell’alimentazione di tipo carnivoro. I caratteri morfologici sono: contorno cranico rotondeggiante (visto dal dietro), faccia ad estensione, ponte nasale alto, toro sopraorbitario continuo, occipite a “chignon” caratterizzato dal solco sopriniaco, grande capacità cranica (media .
cc), spazio retromolare e terzo molare visibile quando la mandibola è
vista di lato. L’areale di diffusione non oltrepassa a oriente l’Uzbekistan e non penetra a sud nell’Africa.
In quest’ultimo continente, la tendenza evolutiva indicata dalla documentazione fossile pleistocenica sembra condurre alla comparsa
delle prime popolazioni con morfologia moderna. Queste forme africane possono essere denominate rhodesiensis e, iniziando forse meno
di . anni fa, cominciano a mostrare una morfologia differente e
più moderna, già presente in cepranensis. Esse sono: il cranio di Kabwe
(Zambia, precedentemente Rhodesia), di Bodo in Etiopia, di Saldanha
in Sud Africa, di Ndutu in Tanzania, di Salé a Rabat (Marocco). La loro capacità cranica è notevole (fra . e . cc), l’altezza cranica è
aumentata e l’espansione nella larghezza delle ossa parietali è sensibile, l’occipitale è arrotondato. La morfologia di questi fossili africani
pleistocenici è tuttavia chiaramente distinguibile da quella dei fossili
europei coevi (già decisamente avviati verso la morfologia neandertaliana) così come da quella delle forme asiatiche di erectus.

FRANCESCO MALLEGNI
.
Homo sapiens
È sempre in Sud Africa che compaiono le prime forme decisamente
moderne. I tratti morfologici che appaiono e che si conservano praticamente inalterati fino ai nostri giorni sono i seguenti: cranio a volta
alta e piuttosto breve; osso frontale con andamento verticale o subverticale; parietali espansi, squama occipitale generalmente arrotondata e sprovvista di un toro evidente, capacità cranica variabile (.
e . cc), faccia piuttosto appiattita e recessa rispetto alla porzione
più avanzata del neurocranio, fossa canina evidente, regione sopraorbitaria priva di toro continuo e comunque con certi tratti più sviluppati negli individui di sesso maschile, con arcate sopraorbitarie in forma di due archi (con tuberosità sopraorbitaria e arco sopraccigliare separati da un’incisura sopraorbitaria), mandibola con mento ben ossificato e priva di spazio retromolare.
Le principali autoapomorfie di sapiens sono globularità del neurocranio e retrazione della faccia (Lieberman et al., ). Valori di indice di globularità maggiori di , e valori di indice di ritrazione facciale minori di , discriminerebbero l’uomo anatomicamente moderno dalle forme umane arcaiche.
La recentissima scoperta avvenuta ad Herto (Middle Awash, Etiopia) di resti umani sufficientemente completi e dall’anatomia pressoché moderna ma con alcune somiglianze con fossili africani più antichi (datati radiometricamente con convincente attendibilità a . anni fa) (White et al., ; Clark et al., ), sembra dare
sempre più forza all’ipotesi di un’origine africana della nostra specie;
con questi reperti si possono associare i fossili di Florisbad, Laetoli
(Ngaloba, LH ), Guomde (KNM-ER  e ) Omo Kibish II, Dares-Soltan e Jebel Irhound. A questi si aggiungono reperti ancora
morfologicamente più definiti verso il sapiens e sono: Omo Kibish I,
Klaises Rivers Mouth e Border Cave (circa . BP). L’affresco che
si può tracciare, dall’analisi dei fossili africani, è quindi abbastanza
chiaro nel delineare l’esistenza di una continuità regionale africana
della linea evolutiva che ha visto la definizione dell’anatomia della nostra specie, ma lascia ancora molti punti interrogativi sui legami tassonomici che legano fossili dall’aspetto polimorfo che ritroviamo in
Africa (ma anche in Medio Oriente) fra circa  e  anni da oggi.
I fossili di Herto, in particolare, forniscono prova dell’esistenza di un

.
L A F E N O T I P I A O S S E A N E L L A R I C O S T R U Z I O N E D E L L’ E V O L U Z I O N E U M A N A
rappresentante della nostra specie dalle caratteristiche anatomiche
moderne in un periodo cronologico compatibile con le stime possibili in base ai dati genetico-molecolari (Cann, ) ma non chiariscono la tassonomia e i legami filogenetici fra molti rappresentanti del
gruppo polimorfico di fossili ascrivibile al Pleistocene medio e superiore africano. In particolare non possono chiarire se le diverse caratterizzazioni morfologiche siano dovute solo alla diversa cronologia o
a meccanismi evolutivi differenziati in diverse aree geografiche o a
una combinazione di queste due.
A partire da . anni fa si assiste alla diaspora di sapiens dall’Africa e allora abbiamo i due siti di Skhul e di Qafzeh, in Medio
Oriente, che dimostrano il loro arrivo (Stringer, , ; Stringer,
Trinkaus, ; Trinkaus, , , ; Vandermeersch, ).
Questi reperti sembrano essere i precursori diretti (protocromagnoniani) dei gruppi umani che invasero l’Europa circa . anni fa.
Anche il resto del mondo in diversi periodi fu raggiunto da Homo sapiens: in Cina (siti di Liujiang, di Laishui, di Zhou-kou-dian Upper Cave); in Indonesia (siti di Wadjak) (Storm, ) a iniziare da . anni fa; così pure in Australia (Lake Mungo e Talgai ecc.) con datazioni il
primo a ±. anni fa (Thorne et al., ) e il secondo a circa .
anni (Brown, ). In America a partire da circa . anni fa.
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

DNA ed evoluzione umana
di Gianfranco Biondi e Olga Rickards
.
La nascita dell’antropologia molecolare
L’espressione “antropologia molecolare” è nata da un’invenzione di
Emile Zuckerkandl, il quale la usò per la prima volta nell’estate del
 al convegno su La classificazione e l’evoluzione dell’uomo, organizzato da Sherwood Washburn a Burg Wartenstein in Austria presso
il Centro conferenze europeo della Fondazione Wenner-Gren per la
Ricerca Antropologica (Washburn, ). Alla riunione, Zuckerkandl
sostenne l’idea che le molecole fossero in grado di fornire informazioni utili sulla filogenesi esattamente come i fossili (Lewin, ), ma lo
scetticismo prevalse tra gli studiosi e solo Theodosius Dobzhansky si
schierò a favore dell’importanza che le molecole avrebbero assunto negli studi evolutivi (Biondi, Rickards, ).
La biologia sistematica ha finito poi per accettare il nuovo approccio, cioè lo studio molecolare dell’evoluzione, dato che questo si è dimostrato estremamente utile per comprendere le relazioni evolutive tra
le specie; e in antropologia ha permesso di risolvere alcuni problemi
cruciali della nostra evoluzione: in particolare, le separazioni all’interno delle scimmie antropomorfe, compresa quella che ci ha diviso dagli
scimpanzé, e l’origine dell’uomo moderno e i suoi rapporti filogenetici
con l’uomo di Neandertal. Ma l’antropologia molecolare è andata anche oltre a ciò, perché ha definito dei modelli evolutivi che hanno permesso di chiarire i rapporti tra i cambiamenti genetici e quelli anatomici. Non sempre, infatti, il confronto tra i soli complessi morfologici
è in grado di individuare completamente le relazioni evolutive che legano le specie. E un esempio illuminante di ciò è rappresentato dai rapporti filogenetici tra l’uomo e lo scimpanzé: nel comportamento e nell’anatomia assai diversi, ma geneticamente molto simili (Biondi,
Rickards, , , ; Biondi, Martini, Rickards, Rotilio, ).

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
L’invenzione più straordinaria dello studio molecolare dell’evoluzione è certamente quella dell’“orologio molecolare” elaborata nel
 da Linus Pauling ed Emile Zuckerkandl, i quali avevano osservato che quanto più le specie erano simili tanto più lo erano le loro proteine e di conseguenza le loro somiglianze genetiche. Era noto che le
specie figlie di un medesimo progenitore avessero all’inizio della loro
storia forme identiche di una certa molecola, in quanto copie di essa,
e che da quel momento in poi le mutazioni inducessero cambiamenti
differenziali capaci di andarsi a sommare e che la variabilità osservata
fosse direttamente proporzionale al tempo trascorso dal momento della divergenza. In pratica, il ritmo delle mutazioni – indipendente dall’ambiente in cui vivono gli organismi – scandisce la velocità alla quale si differenziano geneticamente i gruppi. Il problema quindi consisteva nel riuscire a stabilire la velocità della divaricazione e ciò fu possibile mutuando dalla paleontologia le date delle separazioni tra le specie e dall’analisi genetica la quantità delle variazioni. A partire da questi dati è stato poi possibile calcolare il ritmo dell’accumulo dei cambiamenti rapportandoli al tempo impiegato per realizzarsi. Grazie allo studio di una proteina, l’emoglobina, Pauling e Zuckerkandl sono
approdati a un’idea che ha rivoluzionato il modo di indagare la storia
dell’evoluzione organica (Biondi, Rickards, ).
.
La filogenesi delle scimmie antropomorfe
Il DNA è entrato nella ricerca antropologica all’inizio degli anni Ottanta del XX secolo e grazie a Charles Sibley e John Ahlquist, due ricercatori interessati al problema della divergenza gorilla-scimpanzéuomo. In particolare, la questione da chiarire riguardava proprio le
modalità attraverso cui la loro separazione si era realizzata: ovvero,
se era avvenuta nello stesso momento o in momenti diversi. Nel primo caso, infatti, da un tronco comune si sarebbero originate contemporaneamente le tre linee evolutive, mentre nel secondo, gli
eventi si sarebbero succeduti nel tempo. Sibley e Ahlquist hanno risolto il caso ricorrendo alla tecnica dell’ibridazione del DNA, che
permette di valutare il grado di somiglianza totale dei genomi. Il DNA
di due specie viene posto in una provetta alla quale si fornisce l’energia, per esempio calore, necessaria per rompere i legami chimici
che tengono uniti i due filamenti di ogni molecola e poi, una volta

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
che si sia ottenuta una miscela di singoli filamenti dei due DNA, si toglie via via energia in modo che si possano ricomporre molecole a
doppio filamento. Nel corso di questo processo si verranno a formare delle molecole ibride, in cui i due filamenti appartengono alle due
specie. Successivamente si misura quanta energia si deve fornire al
sistema per rompere le catene ibride, sapendo che quanto più sono
simili le specie, cioè quanto maggiore è il numero di basi condivise,
tanto meglio i filamenti ibridi si appaieranno e tanto più forti risulteranno i legami tra essi.
Il lavoro di Sibley e Ahlquist è consistito nel misurare il calore necessario per rompere le molecole ibride di DNA delle coppie uomoscimpanzé, uomo-gorilla e scimpanzé-gorilla. E in tal modo valutare le
differenze genetiche tra le specie, che poi sono state convertite nei
tempi delle separazioni evolutive grazie all’orologio molecolare. Fino
a quel momento, la maggior parte degli antropologi era convinta che
la linea evolutiva umana si fosse separata molto anticamente dal tronco scimpanzé-gorilla, addirittura oltre  milioni di anni fa, e che queste specie fossero tra loro geneticamente più simili di quanto ciascuna
di esse non lo fosse con l’umanità. Ma l’esito dell’esperimento dei ricercatori ha sovvertito il pensiero comune. Intanto, la divergenza tra
l’uomo e le antropomorfe africane non superava i - milioni di anni
fa e, inoltre, l’uomo e lo scimpanzé risultarono geneticamente più affini di quanto ciascuno di loro lo fosse con il gorilla. Il percorso evolutivo dei tre parenti, quindi, doveva essere stato del tutto diverso da
quello immaginato e precisamente il gorilla si era distaccato per primo, mentre uomo e scimpanzé avevano proseguito ancora insieme prima di arrivare alla loro successiva divisione.
Nel corso degli anni successivi, l’enorme sviluppo delle biotecnologie ha permesso di stimare in modo decisamente più accurato i tempi delle separazioni evolutive all’interno delle scimmie antropomorfe.
I primi a staccarsi dal tronco comune sono stati i gibboni e i siamanghi circa  milioni di anni fa, poi si è staccato l’orango circa  milioni di anni fa, poi il gorilla circa  milioni di anni fa e infine, circa  milioni di anni fa, si sono separati i due parenti più prossimi: l’uomo e lo
scimpanzé. Assai più recentemente, circa  milioni di anni fa, lo scimpanzé ha subito una divergenza evolutiva interna che ha portato alla
nascita delle due specie tuttora viventi: lo scimpanzé comune (il Pan
troglodytes) e lo scimpanzé pigmeo o bonobo (il Pan paniscus). E quest’ultima specie è la più vicina a noi, non solo dal punto di vista gene-

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
tico, ma anche per quanto riguarda le abitudini comportamentali
(Goodman, ; Goodman et al., ; Patterson et al., ).
Il lavoro di Sibley e Ahlquist ha permesso di risolvere uno dei casi
più controversi della storia dell’antropologia: la posizione tassonomica
del ramapiteco, un primate miocenico vissuto tra  e  milioni di anni
fa in oriente, dall’area indo-pakistana alla Turchia. Le sue prime testimonianze furono rinvenute nel  in un sito fossilifero dei monti
Siwalik, nell’India settentrionale, da Edward Lewis e per lungo tempo
si era ritenuto che il ramapiteco fosse un antenato diretto dell’uomo, in
quanto sembrava presentare una morfologia dell’arcata dentaria simile
alla nostra, cioè parabolica e non ad U come nelle antropomorfe, ma la
datazione molecolare lo ha allontanato dalla nostra filogenesi. E studi
anatomo-morfologici più approfonditi ne hanno fatto un antenato dell’orango. Le supposte somiglianze con la linea evolutiva umana, infatti, erano dovute solo a un’errata ricostruzione della sua mandibola a
partire dai frammenti fossili rinvenuti negli scavi archeologici.
.
L’origine dell’uomo moderno
Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, la nascita della nostra specie
è stata spiegata dai paleoantropologi mediante due modelli. Quello
“multiregionale” rifiutava la possibilità di ricondurre l’origine dell’umanità moderna a un unico luogo e sosteneva, per contro, che in ogni
continente del Vecchio mondo i rappresentanti più antichi del genere
Homo si fossero evoluti indipendentemente in noi sapiens (Thorne,
Wolpoff, ). La prima formulazione di questo modello è stata suggerita nel  da Franz Weidenreich ed è poi stata ripresa da Milford
Wolpoff e Alan Thorne, che ne sono divenuti i paladini moderni
(Thorne, Wolpoff, ; Wolpoff, ). L’ammissione che ogni forma
locale di uomini pre-sapiens si fosse differenziata in sapiens nel corso
di oltre due milioni di anni equivaleva ad accreditare l’idea che l’umanità attuale fosse composta da specie diverse. Ma ciò non era assolutamente compatibile con il fatto, riconosciuto unanimemente dagli
studiosi, che tutti noi costituiamo invece una sola specie e così i multiregionalisti hanno introdotto nel modello una nuova variabile: un
flusso continuo di geni tra le popolazioni dei diversi continenti che
avrebbe dovuto garantire un’evoluzione convergente verso la specie
unitaria. Si deve notare, tuttavia, che la quantità di ibridazione neces-

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
saria allo scopo era però troppo alta rispetto a ciò che si poteva ricavare dalle numerose simulazione demo-ecologiche del passato effettuate in molti laboratori sparsi un po’ ovunque nel mondo.
Wolpoff e Thorne ritenevano che la serie di ominini fossili orientali avesse conservato una precisa continuità anatomica, i cui caratteri distintivi si sarebbero formati proprio al momento in cui la regione fu colonizzata dall’Homo erectus, circa  milioni di anni fa (Ciochon, Larick,
; Balter, Gibbons, ). Quegli antichi uomini rinvenuti nei siti
archeologici di Giava possedevano ossa craniche assai spesse e arcate
sopraorbitarie e denti molto voluminosi. Insomma, una costituzione
corporea massiccia che si sarebbe mantenuta inalterata fino al momento della comparsa degli uomini moderni. Anche l’Australia, la cui colonizzazione risale a . anni fa, poteva essere inserita nella continuità morfologica dell’area indonesiana, perché i suoi fossili sembravano mostrare la gamma dei caratteri propri dei giavanesi, per quanto con
alcuni tratti innovativi. E lo stesso si poteva dire per l’Asia settentrionale, sebbene la coerenza tra antico e moderno fosse stata garantita da
un diverso aggregato di caratteri, ma con ciò fornendo, sempre secondo Wolpoff e Thorne, un ulteriore sostegno al modello multiregionale.
Nei reperti cinesi, difatti, sarebbe stato possibile evidenziare una gracilità complessiva delle ossa, un appiattimento della faccia divenuta più
piccola, un arrotondamento della fronte e una riduzione dello sviluppo dei denti. Le antiche popolazioni della Cina e dell’Indonesia, quindi, avrebbero mostrato l’intera gamma di variabilità che oggi riscontriamo tra le popolazioni che vanno dal nord dell’Asia all’Australia.
Quelle che erano considerate le prove inconfutabili della continuità
morfologica rilevata nelle due regioni asiatiche sembravano definitive,
e in più David Frayer si era venuto convincendo che fosse possibile rintracciare la continuità anche in Europa, dove molti caratteri neandertaliani sarebbero passati immutati nei sapiens europei.
La comunità dei paleoantropologi interpreta oggi in tutt’altro modo i tratti morfologici portati a sostegno del modello multiregionale.
Molte delle fattezze considerate peculiari della continuità asiatica, infatti, non testimonierebbero altro che il percorso evolutivo condiviso
dai rappresentanti più arcaici del nostro genere: saremmo cioè in presenza solo di caratteri antichi che si sono mantenuti inalterati. Il disegno evolutivo continuista non è riuscito a superare l’esame della verifica sperimentale e si può concludere che le prove morfologiche non sostengono affatto quel modello della nostra origine (Lahr, Foley, ).

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
Il modello alternativo, denominato “fuori dall’Africa”, è stato
proposto nel  da Christopher Stringer e Paul Andrews. Per i due
studiosi, noi eravamo nati in Africa intorno a . anni fa e la
transizione dalle forme arcaiche a quelle attuali aveva avuto luogo solo in quel continente e come conseguenza di una speciazione puntiforme. Ecco allora che, essendo i sapiens una specie distinta, non
sarebbe stato possibile alcun incrocio con le linee più antiche di Homo che ancora sopravvivevano nel Vecchio mondo. Gli uomini at.
Sopra: modello dell’evoluzione multiregionale, secondo il quale i caratteri dell’uomo
attuale nei vari continenti sarebbero stati ereditati dagli uomini più antichi che vissero in ognuno di essi. La nostra unità genetica deriverebbe dall’elevato flusso genico
tra i vari gruppi. Sotto: modello dell’origine africana recente (out of Africa), secondo
il quale le specie antiche di Homo in Asia, Australia ed Europa furono soppiantate
dagli uomini moderni immigrati dall’Africa (da Biondi, Rickards, ).
FIGURA

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
tuali, insomma, dopo essere migrati dall’Africa verso l’Asia e l’Europa avrebbero finito per sostituire completamente le forme locali
preesistenti, tra cui i neandertaliani che vivevano in Europa, in Medio Oriente e nella parte più occidentale delle terre asiatiche. Neppure l’idea dell’evoluzione monocentrica, però, era originale e recente, essendo stata proposta già nel  da William Howells con il
nome di modello “dell’Arca di Noè”.
.
Il DNA mitocondriale
Il DNA più utilizzato negli studi sull’evoluzione umana è stato quello
mitocondriale. Si tratta del DNA presente nei mitocondri del plasma
cellulare ed è costituito da una molecola a doppia elica, circolare e
chiusa, lunga solo . bp (coppie di basi); e contiene appena  geni con poche sequenze non codificanti. L’mtDNA (DNA mitocondriale) è presente in ogni cellula in un numero di copie che va da centinaia a migliaia e ciò implica che, a differenza di quanto avviene con
i geni nucleari di cui si hanno solo due copie, c’è una notevole probabilità di trovare qualche molecola di mtDNA intatta anche in campioni di tessuto fortemente degradato. L’mtDNA è ereditato per via
materna, senza ricombinazione, ed evolve quindi solo per accumulo
di mutazioni nel corso del tempo. Inoltre, l’mtDNA evolve in media
da  a  volte più velocemente dei geni del DNA nucleare di funzione comparabile e può essere considerato, pertanto, un orologio
molecolare con un battito accelerato. Queste due caratteristiche lo
rendono lo strumento ideale per studiare le relazioni antenato-discendente nelle popolazioni umane, che si sono diversificate evolutivamente in tempi assai recenti, senza l’interferenza di quel fenomeno che interviene con le ricostruzioni basate sui geni nucleari: cioè,
il rimescolamento a ogni generazione dei patrimoni genetici maschile e femminile.
.
Nel DNA la soluzione del problema
A metà degli anni Ottanta, sempre dello scorso secolo, si sono inseriti nella disputa tra multiregionalisti e sostenitori del modello “fuori dall’Africa” gli antropologi molecolari Rebecca Cann, Mark Sto-

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
neking e Allan Wilson. Il problema che dovevano risolvere riguardava le parentele che era possibile ricostruire tra le diverse popolazioni attuali di Homo sapiens a partire dalla loro variabilità genetica.
Gli antropologi molecolari potevano contare, in quegli anni, sul notevole progresso tecnico che si era verificato nelle biotecnologie e
che aveva reso possibile l’analisi diretta del DNA, sebbene con procedimenti ancora laboriosi. Alla base di quell’esame c’era stata la
scoperta di una particolare classe di enzimi, le endonucleasi di restrizione, che hanno la capacità di riconoscere alcune cortissime sequenze di basi e di tagliare in loro corrispondenza la doppia elica.
Per ricostruire il percorso genealogico della nostra specie, gli studiosi hanno analizzato nel  il DNA mitocondriale di  soggetti
provenienti da ogni continente con  enzimi di restrizione e hanno
ottenuto  linee mitocondriali diverse (Cann, Stoneking, Wilson,
). E dal momento che il DNA mitocondriale è di esclusiva origine
materna, l’albero filogenetico disegnato con le diverse linee non rappresentava altro che l’evoluzione dell’umanità al femminile. Il dendrogramma si suddivideva in due rami principali: uno composto solo da alcuni tipi mitocondriali africani e l’altro da tutti i rimanenti,
riuniti in più gruppi, o cluster, che comprendevano anche gli africani non considerati prima. La topologia dell’albero metteva in evidenza che l’antenata dell’uomo moderno era africana e che i suoi discendenti, cioè le linee mitocondriali africane finite nei cluster non
africani, avevano poi conquistato il resto del mondo e dato origine
alle popolazioni locali.
Lo studio aveva anche messo in evidenza che durante il processo
di espansione l’uomo moderno non si era incrociato con nessuna popolazione autoctona, ovvero con nessun gruppo di uomini che prima
dei sapiens aveva lasciato l’Africa per migrare nel resto del Vecchio
mondo. Altrimenti, il contributo di questi ultimi al patrimonio genetico dei sapiens si sarebbe manifestato in forma di tipi mitocondriali
più antichi e pertanto più divergenti, e in tal modo l’albero avrebbe
presentato delle diramazioni che si staccavano prima di quella africana. In definitiva, una topologia del tutto diversa, non più con due ma
con una serie di percorsi principali, nella quale i rami supplementari
avrebbero costituito la testimonianza delle mutazioni che gli uomini
arcaici avevano tramandato a quelli moderni. I pre-sapiens, infatti, si
erano evoluti alcune centinaia di migliaia di anni prima e avevano avuto molto tempo per accumulare mutazioni che avrebbero aumentato

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
la variabilità genetica di noi moderni, se ci fosse stato incrocio. L’età
dell’antenata comune di tutta l’umanità attuale fu stimata tenendo
conto che l’orologio molecolare batteva con una velocità media pari
a un accumulo di mutazioni del -% per milione di anni. E quel ticchettio, applicato alle differenze genetiche osservate, indicò .. anni fa.
Grazie alla scoperta della reazione della polimerizzazione a catena o PCR, alla fine di quegli anni Ottanta è stato poi possibile determinare direttamente la sequenza in basi del DNA. Finalmente si poteva leggere l’informazione biologica contenuta nella successione
delle quattro molecole che spiegano la vita e il gruppo di Wilson ha
ripetuto l’esperimento utilizzando la nuova tecnologia. E senza sorpresa, i risultati sono stati convalidati. In particolare è stata analizzata la regione di controllo “D-loop” del DNA mitocondriale, che è
ipervariabile e quindi è la più idonea per datare eventi evolutivi vicini nel tempo. In essa le mutazioni si accumulano a un tasso pari all’% per milione di anni e così la quantità di variabilità trovata nella
nostra specie, circa il %, ha indicato ancora una volta che l’antenaFIGURA .
Rappresentazione schematica dell’albero filogenetico costruito da Rebecca Cann e dai
suoi colleghi dell’Università di Berkeley a partire dai dati del DNA mitocondriale. Le relazioni evolutive tra i diversi tipi mitocondriali testimoniano la nostra origine recente e
africana e confutano l’ipotesi multiregionale (da Biondi, Rickards, )

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
ta era vissuta tra . e . anni fa (Vigilant et al., ). La
giovanissima età dei sapiens, la loro origine africana e la successiva
sostituzione in tutto il Vecchio mondo delle specie più antiche di uomini è stata convalidata in seguito anche dagli studi sul DNA nucleare, compreso quello del cromosoma Y che racconta l’evoluzione al
maschile. E finalmente è stato possibile concludere che il multiregionalismo non ha retto alle prove sperimentali fornite dall’antropologia molecolare.
.
Non discendiamo dai neandertaliani
Il modello multiregionale prevedeva una trasformazione graduale dell’umanità – a partire dalle prime forme di Homo che erano migrate
fuori dall’Africa circa  milioni di anni fa – verificatasi durante tutto il
Pleistocene in ogni continente del Vecchio mondo. In Africa, l’uomo
attuale si sarebbe evoluto direttamente dall’Homo ergaster; in Asia,
dall’Homo erectus; e in Europa, dall’Homo heidelbergensis e dall’Homo neanderthalensis. Questa ipotesi, come abbiamo visto, è stata falsificata da Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson, che hanno
dimostrato inequivocabilmente come la nostra origine fosse recente e
africana. Tuttavia, i loro esperimenti non sono stati giudicati dirimenti per escludere che i sapiens si fossero incrociati con gli uomini di
Neandertal una volta giunti in Europa e quindi che noi e loro non fossimo altro che due sottospecie della stessa specie: Homo sapiens neanderthalensis e Homo sapiens sapiens. L’unico modo per far luce sulla
questione era legato all’analisi del DNA di quegli antichi ominini: una
possibilità che ormai era presente nel bagaglio tecnico degli antropologi molecolari.
La storia del DNA antico (aDNA) ha avuto inizio in Cina nel ,
quando alcuni studiosi sono riusciti a recuperare dei frammenti di
acido nucleico da una mummia di . anni. Successivamente, verso la fine di quel decennio, Erika Hagelberg e Satoshi Horai hanno
amplificato con la PCR dei tratti di DNA estratto da ossa antiche e a
quel punto si erano coagulate le condizioni per affrontare la domanda antropologica relativa al nostro rapporto genetico con l’uomo di
Neandertal. Il DNA di elezione usato nelle analisi sui fossili è quello
mitocondriale, perché è semplice da studiare – trasmettendosi per
via materna e quindi senza ricombinazione – ed è presente in ogni

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
cellula in migliaia di copie. E quest’ultima caratteristica è di estrema
importanza, in quanto dopo la morte di un individuo e con il passare del tempo il suo DNA tende a degradarsi, cioè a rompersi in piccoli
frammenti, ed è evidente allora che se ce ne sono più copie aumenta
la probabilità di trovare alcuni tratti sufficientemente lunghi per essere studiati. L’unico svantaggio insito nell’mtDNA, se così si può dire, riguarda il fatto che ci permette di ricostruire l’evoluzione solo
lungo la via materna (Rickards, ; Rickards, Martínez Labarga,
, ).
A partire dalla fine degli anni Novanta dello scorso secolo, Svante
Pääbo e poi altri ricercatori hanno studiato alcune sequenze di mtDNA
di diversi reperti neandertaliani, compreso quello famoso rinvenuto
nella Valle di Neander vicino Düsseldorf nel  e che ha dato il nome alla specie. I risultati di tutti gli esperimenti sono stati concordanti e hanno dimostrato che quella forma è estranea alla nostra specie
(Biondi, Rickards, ). La variabilità genetica dei neandertaliani, infatti, si posiziona completamente al di fuori di quella dell’umanità moderna. L’ulteriore conferma dell’estraneità dell’uomo di Neandertal rispetto a noi è venuta dagli studi effettuati sui resti dei sapiens antichi,
che hanno indicato come non ci sia alcun salto genetico tra loro e noi;
mentre la loro differenziazione genetica rispetto ai neandertaliani è
della stessa grandezza di quella già segnalata per l’umanità attuale
(ibid.; Tarsi et al., ).
L’uomo moderno, possiamo concludere, né discende dai neandertaliani né si è incrociato con essi: noi siamo Homo sapiens e loro sono
stati Homo neanderthalensis, una specie che si è estinta poco meno di
. anni fa senza lasciare prole. I neandertaliani, insomma, sono
stati un ramo secco dell’evoluzione.
Relativamente alla questione neandertaliana, una notizia davvero
interessante è stata riportata sul numero di “Nature” del  maggio
. Il gruppo di Svante Pääbo, infatti, ha comunicato al convegno
su Biology of Genomes, tenutosi presso il Cold Spring Harbor Laboratory di New York, di aver sequenziato circa un milione di coppie di
basi del DNA nucleare estratto dal reperto neandertaliano rinvenuto
nella Grotta di Vindija, in Croazia. Quello appena compiuto è il primo passo del “Progetto genoma neandertaliano”, che Pääbo ha iniziato nel  e che consentirà in un futuro non troppo lontano di poter confrontare i nostri geni con quelli dell’ominino estinto e di far luce così su tempi e modi dell’origine di malattie e tratti anatomo-morfologici peculiari.

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
.
Il popolamento del mondo
Le indicazioni molecolari sulla migrazione della nostra specie dall’Africa verso gli altri continenti ci portano indietro fino a circa
.-. anni fa e individuano nel Corno d’Africa il punto di
partenza. La rotta seguita dai nostri antenati in cammino verso l’Oriente è stata tracciata lungo le coste dell’Arabia, dell’Iran, del Pakistan e dell’India, e poi ancora oltre fino alle isole del Pacifico. In Australia e in Nuova Guinea, i primi sapiens sono giunti circa . anni fa, mentre la colonizzazione del Pacifico non va oltre i . anni
fa e quella della Nuova Zelanda risale a solo  anni fa. Anche la
prima colonizzazione dell’Europa è recente, risalendo a circa .
anni fa, ma è solo con la fine dell’ultima glaciazione (quella di
Würm), e quindi attorno a . anni fa, che la nostra espansione
ha raggiunto anche le terre più settentrionali. Di particolare interesse, per l’Europa, è stata la migrazione dal Medio Oriente di popoli
neolitici (una fase culturale compresa tra . e . anni fa), che
hanno portato nel nostro continente le pratiche agricole. L’ultima
grande area geografica ad essere popolata dall’uomo è stata l’America, dove l’Homo sapiens – e prima di lui nessun’altra specie vi era mai
giunta – è arrivato dalla Siberia attraverso lo stretto di Bering, verosimilmente lungo una rotta costiera e in un periodo compreso tra
. e . anni fa.
.
Il popolamento antico dell’Italia
L’analisi del DNA delle antiche popolazioni italiane ha messo in evidenza una notevole somiglianza tra le sequenze paleolitiche e quelle
neolitiche, il che lascia supporre una continuità genetica nei popoli del
nostro paese, sostenuta anche dall’analisi scheletrica. Il significato di
tale continuità è particolarmente suggestivo, perché dimostrerebbe
come nelle prime fasi del processo di neolitizzazione la componente
arcaica della popolazione italiana fosse decisamente cospicua se non
addirittura intatta: la transizione neolitica, quindi, si sarebbe innestata sulle vecchie tradizioni in modo da cambiare gli aspetti culturali antichi, ma almeno all’inizio non quelli biologici. Inoltre, ulteriori studi
condotti su reperti più recenti, che coprono l’arco temporale che va

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
dal Bronzo antico al Rinascimento, hanno permesso di inquadrare la
popolazione italiana nel contesto genetico europeo e mediterraneo. In
particolare è risultata notevole l’influenza genetica dei popoli del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente sulle genti stanziate nelle regioni meridionali della penisola, in armonia con la descritta continuità
dei rapporti culturali e commerciali che si sono instaurati tra le due
aree geografiche fin dall’età del Bronzo (Tarsi et al., ).
.
Le antropomorfe africane nel genere Homo
Le varie stime della somiglianza genetica uomo-scimpanzé concordano su valori decisamente elevati, e quella del gruppo di Morris Goodman del  ha fissato tale affinità a un valore compreso tra ,% se
consideriamo le variazioni sinonime – quelle in cui una base di una tripletta è rimpiazzata da un’altra che però fa riconoscere il medesimo
amminoacido – e ,% se invece si considerano quelle non-sinonime
– che determinano le sostituzioni amminoacidiche nelle proteine. Tanta “uguaglianza” genetica – confermata pure dal confronto tra il nostro genoma e quello dello scimpanzé, di cui abbiamo attualmente la
sequenza completa (The Chimpanzee Sequencing and Analysis Consortium, ) – ha suggerito a Goodman non solo di ridurre lo spazio tassonomico tra l’uomo e l’antropomorfa africana, ma anche di accoglierla nel nostro stesso genere Homo, che così si troverebbe a essere costituito, oltre che dalla specie Homo sapiens, anche da altre due
specie: Homo troglodytes, o scimpanzé comune, e Homo paniscus, o
scimpanzé pigmeo o bonobo.
Il riordino della tassonomia di alcune scimmie antropomorfe,
Goodman lo aveva già anticipato in due occasioni nel . Prima al
Dual Congress tenutosi in Sud Africa e successivamente sulla rivista
“Molecular Phylogenetics and Evolution”, dove aveva asserito: «Pan
e Homo sono gruppi fratelli per i quali è stato stimato che l’ultimo antenato comune risalga a  milioni di anni fa. Così per il principio dell’equivalenza con altri cladi di primati della stessa età, Pan e Homo dovrebbero essere trattati come sottogeneri di Homo». E la stessa convinzione era stata espressa anche da Jared Diamond nel  nel libro
Il terzo scimpanzé. Decisamente oltre si è spinta invece Elizabeth Watson, che sempre al Dual Congress aveva suggerito di includere in Homo anche il gorilla. Per la Watson, infatti, nel nostro genere dovreb-

GIANFRANCO BIONDI, OLGA RICKARDS
bero trovare posto entrambe le antropomorfe africane, con i nomi Homo gorilla per il gorilla e Homo niger per gli scimpanzé. La studiosa ha
riunito gli scimpanzé in un’unica specie e non l’ha denominata troglodytes, bensì niger, dato che il primo nome era già stato usato per un
orango nel  da Christianus Emmanuel Hoppius.
Nel rapporto uomo-scimpanzé, il preconcetto ideologico è tradizionalmente prevalso sui risultati scientifici, e ciò per almeno quattro
secoli, dato che già nel Seicento era evidente quanto fosse straordinaria la somiglianza organica dell’antropomorfa africana con noi. Eppure, per riuscire a inserire con successo la relazione biologica tra l’uomo e lo scimpanzé nella giusta collocazione naturalistica è stato necessario attendere la fine del Ventesimo secolo, e Morris Goodman. E
si può notare come tale relazione ricalchi quella suggerita da Carlo
Linneo nel Settecento. Infatti, per il padre della biologia moderna, come risulta da una lettera indirizzata nel  a Johann Georg Gmelin,
l’uomo avrebbe potuto essere chiamato scimmia o, al contrario, la
scimmia avrebbe potuto essere chiamata uomo, ma lui non ha ritenuto saggio giungere a tanto e nel suo Systema Naturae del  si è limitato, si fa per dire, a inserire tutti nello stesso ordine. Una prudenza
non eccessiva, quella di Linneo, se si pensa che in quell’epoca il potere degli ecclesiastici era immenso, e immensa era anche la loro fascinazione per il fuoco. Tuttavia, oltre alla nostra, Linneo si è preso la libertà di inserire nel genere Homo anche un’altra ben strana specie:
l’Homo nocturnus, che altri non era se non l’orango.
Una volta che allo scimpanzé – e forse anche al gorilla – sarà riconosciuta la propria dimora nel genere Homo sarà giocoforza cambiare
nome a tutta la prima parte della serie dei nostri antenati. La successione fossile della sottofamiglia degli ominini entrerà al completo in
Homo e tutte le forme che attualmente compongono il cespuglio della nostra evoluzione e che sono estranee a quel genere – e che ora costituiscono i generi Orrorin, Ardipithecus, Kenyanthropus, Australopithecus e Paranthropus – si ridurranno al rango tassonomico di semplici specie.
Di seguito si riporta la tassonomia classica della sottofamiglia degli
ominini (in parentesi l’eta della specie e la nuova denominazione).
– Genere Orrorin: Orrorin tugenensis ( ma, Homo tugenensis);
– genere Ardipithecus: Ardipithecus kadabba (, ma, Homo kadabba), Ardipithecus ramidus (, ma, Homo ramidus);

.
DNA ED EVOLUZIONE UMANA
.
Albero filogenetico degli ominini (in milioni di anni)
FIGURA







H. sapiens
H. cepranensis
A. bahrellghazali
K. platyops
Ar. kadabba
Ar. ramidus
A. afarensis
H. habilis
A. garhi
H. rudolfensis
H. georgicus
O. tugenensis
H. neanderthalensis
H. antecessor
H. heidelbergensis
H. ergaster
A. anamensis
H. floresiensis
H. erectus
A. africanus
P. boisei
P. aethiopicus
P. robustus
– genere Australopithecus: Australopithecus anamensis (-, ma, Homo anamensis), Australopithecus afarensis (- ma, Homo afarensis),
Australopithecus africanus (-, ma, Homo africanus), Australopithecus bahrelghazali (,- ma, Homo bahrelghazali), Australopithecus
garhi (, ma, Homo garhi);
– genere Kenyanthropus: Kenyanthropus platyops (, ma, Homo
platyops);
– genere Paranthropus: Paranthropus aethiopicus (, ma, Homo
aethiopicus), Paranthropus boisei (,-, ma, Homo boisei), Paranthropus robustus (- ma, Homo robustus);
– genere Homo: Homo rudolfensis (,-, ma), Homo habilis (,-,
ma), Homo ergaster (,-, ma), Homo georgicus (, ma), Homo erectus (,-, ma), Homo floresiensis (. anni), Homo antecessor
(. anni), Homo cepranensis (. anni), Homo heidelbergensis (.-. anni), Homo neanderthalensis (.-.
anni), Homo sapiens (da . anni).
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

Lettere degli antenati.
Antropologia, genealogia, genetica
di Pier Giorgio Solinas
.
Re e radici
Qualche tempo fa, sulle pagine della rivista elettronica di “National
Geographic”, è apparsa la notizia d’una scoperta, fatta da un gruppo
di biologi del Trinity College di Dublino, ripresa dalla rivista statunitense di genetica “American Journal of Human Genetics”, la più importante, credo, in questo campo. La scoperta era annunciata con un
titolo suggestivo: Millions of Men May Be Descended From Irish King.
Milioni di uomini potrebbero essere discendenti d’un antico re irlandese, un re leggendario che sarebbe vissuto . anni fa, che avrebbe
fondato una dinastia e nello stesso tempo popolato con la sua progenie il paese. Questo re antenato – si chiamava Niall – è considerato un
po’ come l’eroe fondatore della nazione; fu capace di opporsi ostinatamente e abilmente ai conquistatori romani, e riuscì a mettere le basi
di uno Stato irlandese, se non di una specie di impero.
Non tutti gli storici sono convinti che alla leggenda corrispondano
dei fatti veri, così come l’epopea li tramanda, anzi, sembra che alcuni
dubitino perfino che questo re sia davvero esistito. I biologi del Trinity
College, al contrario, ne sono persuasi. Anzi, pensano di averne dimostrato la verità storica frugando nell’archivio biologico ch’egli avrebbe
lasciato dietro di sé: l’eredità genetica trasmessa generazione dopo generazione nei cromosomi dei suoi dodici figli (così dice la leggenda:
Niall non solo era un conquistatore, era un vigoroso fecondatore), e
poi ai nipoti, ai pronipoti, lungo quindici secoli, vale a dire, più o meno, cinquanta o sessanta generazioni (Moore et al., ).
La quantità di persone che oggi risulterebbero discendenti da questo
straordinario progenitore è spettacolare, qualcosa come due o tre milioni di individui, una parte consistente dell’intera popolazione irlandese.

PIER GIORGIO SOLINAS
Un altro re, anzi un imperatore, Gengis Khan, è stato chiamato in
causa come prolifico generatore di numerosa stirpe, su una scala molto maggiore. Anche in questo caso, le prove della discendenza di milioni di uomini dall’antenato-sovrano sono principalmente biologiche,
nient’altro che i messaggi genetici trasmessi attraverso un’immensa genealogia che si propaga, dal capostipite imperiale, vissuto nel XIII secolo, fino alla sua “progenie” attuale (Zerjal et al., ). Non diversamente da quel che accade nel caso dell’“egemonia gaelica”, anche qui
il lignaggio diventa popolo, benché su una scala geografica e demografica molto maggiore. La durata, in termini di generazioni e di anni
non è molto diversa (sette o otto secoli), ma lo spazio appare enormemente dilatato rispetto al caso irlandese. Un intero continente: qualcosa come diecimila chilometri di larghezza e altrettanti di lunghezza,
definiscono il teatro biologico e demografico d’una storia genetica
d’ampiezza inusitata. In questo teatro, in effetti, il grande e il piccolo
si congiungono. Ogni singolo individuo custodisce in ognuna delle sue
cellule, l’eredità dei caratteri trasmessa lungo i secoli; una specie di storia incarnata nella singola persona. Al tempo stesso, è la storia che congiunge in una specie di parentela invisibile, ma profonda, milioni di
uomini. Non importa che siano o appaiano etnicamente differenti:
azeri, uzbeki, han (l’etnia oggi prevalente in Cina), oppure coreani, o
anche giapponesi. Quel che la traccia biogenetica assicura è che tutti
condividono dei tratti distintivi, che tutti incarnano in qualche modo
l’identità-archetipo del lontano progenitore, fondatore di imperi e generatore di popoli.
Discuteremo fra poco come e fino a che punto i biologi molecolari accertano questo tipo di discendenza condivisa e, soprattutto, quale sia il vero significato che le si può attribuire. Prima, però, è il caso
di fare qualche altro esempio, stavolta su terreni meno empirici, diciamo simbolici.
Faremo una digressione, molto indietro nel tempo, un tempo,
per dir così, “delle origini”. Il più avo di tutti, il più sacro e il più ricco di progenie, evidentemente, è Adamo. Simbolo mitico della fecondità fondatrice, riflesso del potere creatore, Adamo incarna la figura del progenitore primario, il padre comune al quale, risalendo
passo passo nella catena degli ascendenti, alla fine tutte le genealogie si ricongiungono. Libera da impegni di fede o da vincoli creazionisti, anche la scienza finisce per imbattersi in questo personaggio,
magari sotto mentite spoglie. La trasfigurazione più importante è

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
quella che ricorre, negli studi di biologia evolutiva, nell’acronimo di
MRCA (most recent common ancestor, l’antenato comune più recente).
Naturalmente, al posto di Adamo c’è semplicemente un vertice di
coalescenza, una figura del tutto ipotetica (più spesso c’è una “Eva”,
o qualcosa del genere). In ogni caso, un nome convenzionale che si
usa per evocare, appunto, la figura d’un fondatore superinclusivo, il
progenitore di tutti i progenitori.
Il paradosso di Adamo, o del suo corrispondente scientifico, consiste nel possedere al tempo stesso la qualità di “primo”, ossia più lontano, e ultimo, ossia più recente: è il più lontano fra i most recent antenati del genere umano. D’altra parte, la sua peculiare natura di progenitore necessario, di nodo genealogico che la stessa catena generativa porta alla luce quando si percorre nella sua interezza, fa sì ch’egli
sia, per dir così, unico e plurimo. Scendendo nella ramificazione di
gruppi e sottogruppi, i fondatori di sottoprogeniture si moltiplicano,
replicano la missione del primo. Padri, generatori e virtuali antenati
aspirano a una sorta di dominio nella genealogia dell’intero genere
umano. Una fertilità patriarcale che ha la virtù di propagarsi, ignorando, se non censurando, la fecondità materna.
Un’iconografia ingenua, non meno che enigmatica, accompagna
questi motivi nel corso dei secoli, nutrendosi di simbologie bibliche,
cristiane, di allegorie vegetali e di metafore corporee (“tronco”, “radici”, “rami”, ma anche “testa”, “braccia”).
Nella FIG. . è riprodotta una delle tante immagini (un’incisione in un libro di preghiere del Trecento) del motivo della verga di
Jesse, o Albero di Jesse. In questa versione è raffigurato l’albero genealogico di Davide, da cui nasce Maria, madre di Gesù, a partire
da un antenato lontano, Jesse, appunto, che compare qui come un
gran vecchio adagiato alla base del grande albero della sua discendenza.
Ciò che vorrei far notare qui non è tanto l’espansione della discendenza – che, anzi, viene contenuta entro la logica selettiva d’una
stirpe ristretta: è una sorta di dinastia – quanto l’immagine, direi quasi un concetto reso materiale, fisicamente consistente, di corpo che diventa albero, di capostipite che si fa progenie. Come si vede, il tronco
della stirpe è una propaggine del corpo del fondatore, verrebbe quasi
da dire che, radicato com’è nell’inguine, o nei lombi, dell’avo, raffigurato in posizione semisdraiata, alla stregua d’un soggetto di natività,
voglia suggerire l’idea d’una generazione perenne, da seme maschile,

PIER GIORGIO SOLINAS
.
L’Albero di Jesse, da un libro d’ore del sec. XIV, Ed. R. , Bibl. Riccardiana, Firenze
FIGURA
lungo una catena di successori in cui il progenitore si perpetua moltiplicando le sue filiazioni consecutive.
Se vi fossero dubbi sul significato, diciamo, viscerale del concetto
di continuità riproduttiva tra il corpo del fondatore e la sua emanazione vitale nell’albero dei discendenti si potranno consultare innumerevoli altre raffigurazioni, in cui, con minori ambiguità, ciò che fu
denominato virga Iesse, che si fa tronco e poi si ramifica, affonda le sue
radici, semplicemente, nell’inguine della figura ancestrale primaria
. Lo schema iconografico non riguarda solo le genealogie propriamente intese. Christiane Klapisch-Zuber, nel suo L’ombre des ancêtres (Klapisch-Zuber, ), riproduce la
figura dell’Albero domenicano (Bale o Strasburgo) del , nel quale il corpo disteso del
fondatore (san Domenico) figura come sorgente d’una estesa discendenza spirituale. Dalla veste aperta sull’addome sorge il tronco che si dirama nei molti rami secondari dell’ordine religioso. L’autrice riconduce questa imagine al motivo della virga Iesse, una reminiscenza ripresa dalla tradizione biblica e trasformata in raffigurazione ricorrente: il germoglio vegetale dal corpo del capostipite.

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
(cfr. in Manna, , una quantità di esempi, fino a quello, per noi forse più leggibile, del dipinto di Matteo da Gualdo del , nel quale
l’antenato sdraiato è Adamo e l’albero si erge letteralmente dal sesso).
Che cosa si ricava da questo simbolo di identità corporea alberoprogenitore? Innanzi tutto, ripeto, il fatto che la vita acquista, per opera della metafora vegetale, il carattere d’una permanenza, sempre presente e, in un certo senso, senza morte. I fondatori e i successori fanno
parte dello stesso albero, un albero che vive dalle radici alle foglie. Quest’albero è sì una mappa del tempo, nel senso che i successori e i predecessori sono messi in fila, secondo un ordine coerente di precedenza, ma
è anche la carta sinottica d’uno svolgimento che mantiene i padri e i figli in una specie di eterna simultaneità o, quanto meno, di coevità.
In secondo luogo, la generazione unilineare, se non unisessuata.
Le espressioni che ho usato finora, “fertilità patriarcale”, “capostipite che si fa progenie”, possono aiutare solo a introdurre, imperfettamente, un motivo simbolico e insieme formale, sul quale dovremo
concentrare un po’ la nostra attenzione. Di che si tratta? Dire che l’albero mitico censura la discendenza in linea femminile può essere un
modo per rappresentare la questione: non ci sono madri, non c’è Eva
e non vi sono neppure le madri intermedie. Ma, fino a che punto? Si
può immaginare sul serio che, dietro queste immagini, ci sia una concezione della discendenza che cancella la maternità? Che si pensasse
la storia del genere umano come un’arborescenza in cui gli uomini nascono da uomini?
Basti, per ora, porre la questione: è già molto. Sarebbe difficile dimostrare che, sì, in fin dei conti gli uomini del Medioevo pensavano
che quella che contava fosse la paternità (che fosse il padre a portare
l’identità, la vera forma del figlio) o, magari, che pur sapendo benissimo come stavano le cose cercavano semplicemente di appropriarsi
“ideologicamente” del potere di progenitura, oscurando il ruolo della
fecondità femminile.
. D’altra parte, quella della maternità non è la sola censura che il paradigma virga Iesse si porta dietro. Di fatto, tacitamente, scarta anche tutte le paternità concorrenti che, di
norma, compongono un ordinario albero di ascendenza. I discendenti di ogni piccolo o
grande Adamo che s’incontra nelle genealogie della tradizione occidentale tracciano catene di successione a un solo posto, che non lascia spazio alle altre linee: dei quattro bisnonni che, di norma, dovrebbero essere annoverati (FFF, FMF, MFF, MMF) tre vengono omessi.
La selezione, a questo livello, sacrifica i tre quarti delle linee ancestrali convergenti.

PIER GIORGIO SOLINAS
Quel che più ci interessa è il fatto che, in definitiva, non solo sia
stato possibile costruire un’immagine selettiva della parentela, coerente ed efficiente, ma che questa abbia potuto conservarsi fino a oggi come paradigma dominante nella coscienza genealogica comune.
.
Parentele elettroniche, comunità biologiche
Facciamo di nuovo un gran salto, di nuovo ai nostri giorni. Lasciamo
le origini e il Medio Evo e veniamo alle pratiche della parentela moderna, anzi, ultramoderna: la parentela elettronica, le genealogie in rete e i siti web di famiglie e di cognome. È uno degli hobby più popolari del nostro tempo: storie di famiglia in formato elettronico, reti
informatizzate che restituiscono network estesissimi di consanguineità
sconosciute, frutto di pazienti lavori d’archivio e di scambi d’informazioni fra gruppi, a distanza. La novità più recente è che ormai tutto
questo si abbina a meticolosi programmi di test genetici: la parentela
elettronica si corrobora con un metodico lavoro di screening sul DNA
di famiglia.
Per capire un po’ meglio di che cosa si tratta è bene cominciare con
qualche esempio. L’esempio che sceglierò (Parker Family DNA Project.
Descendents of Robert Parker) è solo uno fra i tanti, centinaia o migliaia, che affollano oggi il paesaggio della passione genealogica, soprattutto nel Nord America, in Gran Bretagna e in Europa in genere.
Il progetto Parker, come tutti quelli che sono compresi nell’archivio
Family Tree (Solinas, ), consiste nel determinare l’identità genetica della famiglia e stabilirne l’estensione. In sostanza, si tratta di affiancare alla carta genealogica una carta genetica: estrarre il testo del
DNA Parker nelle sue estensioni di lignaggio e nelle sue ramificazioni
di sublignaggi.
Anche qui c’è un Adamo, un piccolo Adamo ancestrale che è al
tempo stesso il punto zero della sequenza (l’elenco sommario dei discendenti, ordinati lungo una scala di nove generazioni, viene fornito
in una pagina introduttiva del sito web) e l’archetipo dell’identità condivisa. Anche qui la discendenza ammessa è esclusivamente maschile:
i campioni genetici inclusi nell’archivio provengono necessariamente
da donatori Parker maschi. L’antenato alfa ha un nome, è noto. Si chiama Robert Parker, nato intorno al  in Inghilterra, a Plymouth. Padre di sei figli, fondatore della vasta progenie che si propaga in terra

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
d’emigrazione lungo i tre secoli della storia americana, il Parker numero uno (PO ) figura fin dalle prime battute del progetto come la fonte d’una comune appartenenza biologica. Ognuno dei discendenti maschi custodisce nella propria persona la memoria biomolecolare dell’antenato, anzi, in qualche modo è la replica. I curatori del programma lo specificano espressamente: «Ogni maschio con cognome
Parker, in questo diagramma ha un cromosoma Y che è la copia del
cromosoma Y di Robert Parker. Questo passaggio di codice genetico
da padre a figlio è la chiave dell’uso del DNA Y per la ricerca genealogica. Qualunque individuo maschio di cognome Parker, in questa carta, avrà un DNA coincidente con il campione PO ».
A proposito del cromosoma Y bisogna subito specificare due cose, due elementi cruciali nella storia, e ancor più nell’antropologia che
stiamo cercando di illuminare. Il cromosoma Y, come si sa, è, insieme
a quello X, il cromosoma responsabile della determinazione biologica
del sesso d’ogni individuo. È il ° nel genoma umano, si trasmette solo in linea maschile: per eccellenza è l’unico elemento dell’eredità genetica a trasmissione patrilineare. Come il cognome, che appunto passa da padre a figlio, a nipote e pronipote maschi, questa parte del DNA
umano si presta più di ogni altra a identificare dei lignaggi, su lunghe
durate, su catene di decine di generazioni. È una parte alquanto irregolare dell’architettura genomica, qualcosa che sta fra l’inutile, il marginale e il deviante. Il cromosoma Y, in effetti, pare che serva a poco:
«un minuscolo e pressoché inattivo mozzicone di ripensamento genetico», dice Matt Ridley (). Una parte di scrittura del DNA che non
codifica, se ne sta per conto suo e non si ricombina. In un saggio molto citato oggi (Jobling, Tyler-Smith, ), un testo che si occupa proprio dell’importanza che questo minuscolo mozzicone genetico riveste come marcatore evolutivo, il cromosoma Y viene paragonato spiritosamente a una specie di delinquente giovanile: pieno di cianfrusaglie, povero di qualcosa di utile, riluttante a socializzare con il prossimo, e con un’irrimediabile tendenza a degenerare.
Proprio perché non-ricombinante, proprio perché sex-specifico
(a trasmissione maschile), il polimorfismo dei marcatori nella sequenza nucleotidica del cromosoma Y si presta come nessun altro a
differenziare linee multigenerazionali di identità. Le mutazioni che si
producono in un qualunque anello della catena generativa si trasmettono alla generazione successiva, poi a quelle seguenti, così da caratterizzare con precisione la linea – l’aplotipo – i cui membri ereditano

PIER GIORGIO SOLINAS
quella mutazione. Ovviamente, quanto più numerosi saranno i marcatori prescelti per testare l’appartenenza o meno di un certo individuo al gruppo aplotipico, tanto più alto risulterà il grado di definizione dell’identità genetica di gruppo. In parole più semplici, l’insieme dei contrassegni genetici adoperati per verificare la presenza o
l’assenza di un certo complesso di caratteri distintivi, fornirà la base
misurabile dell’identità, una specie di denominatore biomolecolare
che dovrebbe coincidere con il campo del cognome: il contrassegno
genetico del lignaggio.
Torniamo ora ai nostri Parker, il caso da “grande fratello”, la famiglia in vetrina che spiamo nel suo lavoro di ricostruzione della comune identità genealogico-genetica. Ora la vetrina sembra illuminarsi
più nitidamente, e forse più drammaticamente. Quel che i promotori
del progetto-cognome stanno facendo è un gioco, forse. Forse un gran
gioco di società che produce sempre nuovi partner: riconoscersi, ampliare la conoscenza verso parentele ignorate (quanti altri Parker ignoti non potrebbero contenere affinità biogenetiche che rivelerebbero
una parentela fino a quel punto sconosciuta?). O forse è una cosa ancora più seria, ossia provare a mettere a disposizione un pezzo del proprio sé (alla fin dei conti, un campione biologico consegnato al laboratorio per essere sequenziato) in modo tale che se ne possano estrarre, scientificamente, i caratteri d’una identità profonda: la più profonda, la più vera delle identità?
In effetti, questa specie di gioco è tutt’altro che un passatempo.
C’è un responsabile, che spesso fa anche da presidente d’una parallela associazione di famiglia, e che persegue per anni la sua paziente
raccolta di campioni da immettere nella banca dati dell’aplotipo-cognome. La compagnia di riferimento somministra un formulario per
la raccolta dei campioni e comunica le regole da seguire; prima fra
tutte, la selezione per sesso: il database non conterrà che campioni
Y, cioè maschili. Il successo del progetto dipende ovviamente dalla
ricchezza dei dati: dalla completezza dei marcatori, dall’ampiezza del
. I test su campioni del DNA mitocondriale, che si trasmette esclusivamente in linea
femminile, sono possibili e praticati (le agenzie e i laboratori offrono nel loro campionario
di servizi anche questi). Ma il tipo di dati, e soprattutto di classificazioni, è del tutto differente: i “matriclan” o i “lignaggi” matrilineari che si delineano, sprovvisti di cognome, definiscono più che delle genealogie al femminile, dei grandi gruppi demografici, su scale
temporali molto maggiori.

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
campione e dal grado di precisione dei test. Man mano che il numero dei record aumenta, che i dati vengono interpretati e che le tabelle dei risultati vengono riunite, il mosaico si definisce con finezza di
dettagli. Al momento, per esempio – gennaio  –, i Parker partecipanti al progetto, ossia uomini di cognome Parker che aderiscono
al programma di test, che quindi hanno inviato i loro campioni (un
modesto prelievo fatto con uno spazzolino all’interno della bocca,
costo:  dollari per  marcatori,  per  marcatori,  per )
sono più di ottanta ( adesioni,  campioni ricevuti,  analizzati).
I risultati vengono pubblicati regolarmente via via che il laboratorio
li emette, così che, possiamo dire, la tabella dei profili, individuo per
individuo, ciascuno corredato della stringa completa dei suoi  o 
DYS – diciamo, per brevità, un po’ grossolanamente, loci – risulta
consultabile nella sua estensione.
In sostanza, la banca dati del cognome-lignaggio Parker consiste
in un tabulato di una settantina di record (ogni record è un individuo,
un donatore) per i  o  marcatori previsti dal protocollo del progetto. Chi si aspettasse rivelazioni dai risultati di laboratorio e, ancor
più, dalla loro raccolta in uno schedario comparativo, resterebbe deluso. La serie dei valori che gli utenti si ritrovano tra le mani non parla di alcun “carattere” ereditario riconoscibile. Dice semplicemente
quante volte si ripete in un certo locus una certa sequenza basica, alla
quale, il più delle volte, gli analisti del laboratorio non associano alcun
tratto fisico identificabile. A che serve, allora? E perché gli attori principali, le persone cui quelle cellule-campione appartengono, ci si appassionano tanto?
È una domanda che mi sono posto molte volte, e non posso dire
di aver trovato una risposta. Non credo che i motivi dichiarati (nei programmi e nei commenti che accompagnano i risultati) bastino a illuminarci. Nondimeno, seguendo più attentamente le forme di costruzione del discorso biogenealogico qualche elemento interessante può
venire in chiaro.
.
Alla ricerca di congiunzioni
Sappiamo già una cosa, di non poco conto. Sappiamo che gli attori conoscono già una certa versione del copione nel quale sono chiamati a
recitare: la genealogia scritta o ricostruita dagli archivi. Hanno nomi,

PIER GIORGIO SOLINAS
date, filiazioni, rami, segmenti e generazioni. Tutto questo si ritrova,
almeno nel progetto “cognome Parker”, nero su bianco, alla portata
di tutti i partecipanti. Il capostipite è vissuto quattro secoli fa, ha avuto due mogli, sei figli, di cui si conoscono i nomi. Tre di loro hanno dato origine a loro volta a linee di filiazione secondaria e poi, alle generazioni successive, ad altre linee. In tutto, si contano un centinaio di
discendenti portatori di cognome, distribuiti su nove generazioni.
Che cosa c’è da scoprire di più?
I propositi, tutto sommato piuttosto modesti, che i programmicognome dichiarano nelle loro premesse, non dicono abbastanza:
verificare quanto risulti confermata una certa ascendenza, ricordata o presunta, cercare di capire se le varianti dei cognomi (poniamo,
Parkeer, Parkar, Palkar) possono essere collegate al cognome focale ecc.
Un po’ di malizia investigativa potrà servire ad andar oltre la prudenza di facciata (una prudenza “scientifica” che gli utenti apprendono dalla sobrietà delle agenzie di supporto per i database e per i test).
. In realtà, le cose sono un po’ meno semplici. Qui, nel caso Parker come in molti altri, più che di una genealogia si deve parlare di una serie o di un grappolo di genealogie.
Attraverso le adesioni raccolte per cognome, i partecipanti, non necessariamente imparentati fra loro, da diverse parti del paese, o da fuori, portano, oltre che il loro campione d’identità genetica, la loro memoria di pedigree: alberi costruiti per fonti scritte, ricostruzioni, liste o diagrammi che si presentano come altrettante linee, virtualmente indipendenti. Il
protocollo di registrazione, e quindi l’agenzia che organizza tutto questo convergere di progetti cognome, Family Tree DNA, tratta ciascuna di queste singole raccolte come linee, o lignaggi in partenza distinti, e dunque indipendenti. Nel nostro esempio vi sono una decina
di “lignaggi” di questa fatta, tutti (parliamo di nuovo di genealogie scritte) intestati a un antenato-cespite. Altra cosa risulta essere la classificazione genotipica. Di norma, questa si basa unicamente sulla distanza genetica: maggiore il numero di discordanze nei DYS o nei STR,
maggiore la distanza; minore il numero di sostituzioni, maggiore la probabilità che i soggetti appartengano effettivamente a una discendenza comune (ossia, a un lignaggio). I
Parker trattano queste classi di somiglianza come “gruppi”. Se vi sono concordanze molto
ricorrenti, il profilo condiviso viene considerato come aplotipo modale del gruppo (una
sorta di anticamera al riconoscimento come lignaggio) e, quando sia possibile, collegato alla linea ancestrale identificata per record scritti nell’altra via.
. Tra le numerose agenzie e società che gestiscono questi servizi, quelle più importanti
Family Tree DNA, Oxford Ancestors, Ybase: Genealogy by Numbers, DNA Heritage (con
mappa interattiva per aplogruppi e albero filogenetico, globale), Geneanet, sono collegate
con laboratori di genetica, universitari o no, presso i quali vengono eseguiti i test. La Chiesa dei mormoni (Church of Jesus Christ of Latter-Day Saints), nella storica sede di Salt Lake
City, con il suo immenso archivio genealogico informatizzato e il suo complesso di servizi
della Sorenson Molecular Genealogic Foundation, rappresenta tuttora l’istituzione più potente. Si possono già leggere articoli e interventi sul fenomeno montante: ad esempio Shriver, Kittles () e, più antropologico, Nash ().

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
Innanzi tutto, il vocabolario. Formule esplicite, come “aplotipo di famiglia” o “core haplotype” d’un cognome (fin dal programma pioniere condotto da Bryan Sykes, che giunse, una decina d’anni fa, a rilevare l’aplotipo Sykes, “Sykes core haplotype”), sono d’uso comune.
Espressioni ancora più ad effetto, come “firma genetica” o “impronta
digitale genetica”, suggeriscono una connessione diretta fra cognome
e codice biomolecolare. Più misurate, le definizioni come “tipo modale” o “tipo ancestrale” (di lignaggio) o, ancor più discretamente,
“aplotipo centrale” si limitano a indicare modelli di frequenza statistica saliente, tale da autorizzare una correlazione significativa tra portatori e collezione di tratti.
Il senso indiretto di questi messaggi, in ogni caso, è quello d’una
speranza, o di un’attesa: che alla fine del percorso venga fuori una specie di autenticazione biologica, la scoperta di legami dimenticati e di
convergenze iscritte nel testo biochimico più intimo della propria
identità corporea. L’archetipo, il modello allelico che prende forma intorno a criteri di maggiore convergenza (e tipicità) è un ideale pazientemente perseguito. Riuscire a raccogliere in una rete di stretta vicinanza biologica gli indici di convergenza fra individui donatori significa dare alla confluenza in un comune antenato un’evidenza molto più
forte di quella che può dare la semplice traccia anagrafica. Le prove
sono a portata di mano; sono nelle nostre cellule, nei loro recessi fondamentali: i prodotti viventi della storia genealogica ne sono i documenti attivi e attuali.
L’immagine stessa dell’albero, o di quello che un tempo era l’albero, muta sensibilmente: la FIG. . visualizza il network di distanza genetica fra i membri d’un certo gruppo di soggetti portatori di cognome.
Qui il cognome è Graves (con qualche variante: Greaves ed altri).
Il campione è piuttosto numeroso: oltre duecento record al novembre
, ramificati in una quantità di siti, negli Stati Uniti, in Canada, in
Inghilterra, in Germania.
Come si vede, il grafico non raffigura un vero e proprio albero di
discendenza, ma una mappa reticolare di maggiore o minore distanza
genetica. In sostanza, i cerchi rappresentano, in proporzione alla maggiore o minore grandezza, la frequenza d’un certo insieme di marcatori condivisi (ad esempio il pallino n. . è portatore d’un tipo più
frequente), mentre la lunghezza delle linee che connettono i nodi indica il numero di mutazioni che differenziano l’uno dall’altro. Non si
tratta qui di rintracciare i legami parentali, anello per anello, lungo la

PIER GIORGIO SOLINAS
.
Network filogenetico dei Graves, elaborato con il software Phylogenetic Network
Analysis, accessibile in rete (http://www.fluxus-engineering.com)
FIGURA
catena figlio, padre, nonno ecc. La catena parentale, nei suoi dettagli,
resta in ombra. Nondimeno, la rete di connessione genotipica autorizza a ipotizzare la confluenza, o meglio la coalescenza, a una certa
profondità storica, in un capostipite. Che si tratti del più recente antenato comune (diciamo PRAC, traducendo l’acronimo inglese MRCA),
o di quello più lontano (molto più raramente: un antenato lontano fonde, o confonde, i diversi lignaggi), intorno alla figura del progenitorefondatore prende forma quella sorta di formula della distinzione di lignaggio: una specie di araldica aplotipica.
. Tuttavia, la banca dati del sito e il prospetto d’insieme dei risultati dei test
(www.gravesfa.org/DNA_test_results.html) consentono in questo caso di raggiungere, con
una connessione diretta, le carte genealogiche (una colonna di antenati, codificati in sigla,
su cui si può cliccare per aprire la pagina relativa a questo o quel donatore-record). Un sito molto ben organizzato dal punto di vista informatico: la banca dati delle genealogie per
mappa e carte è puntualmente collegata a quella dei record aplotipi.

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
L’antenato eponimo, si comprende bene, deve essere in questo
senso scoperto, o riscoperto. Il suo profilo storico, attestato per via di
deboli informazioni tramandate nella memoria d’archivio, potrà essere sostanziato di evidenze fisiche incontrovertibili. Sta a noi portarlo
alla luce, e riscattare così dall’incertezza l’identità del suo titolare.
Sembra una specie di evocazione dall’aldilà, ma c’è ben poco di magico in questa evocazione.
I genea-genetisti, in effetti, non lavorano sul passato: non vanno a
riesumare le ossa dei progenitori per ottenere campioni di DNA da sequenziare, e neppure si interessano di segni indiretti, magari di analogie o contaminazioni fra reperti. I loro reperti sono vivi, e le parentele
che essi sperano di scoprire riguardano individui tra loro coevi e presenti. Certo, il bello dell’impresa consiste anche nel trovare delle datazioni probabili: quante generazioni fa dovrebbe esser vissuto il progenitore ignoto da cui proviene quel particolare tratto distintivo che
condividiamo? La distanza fra i discendenti attuali e il nodo di coalescenza, in effetti, si può calcolare in base a criteri interni alle regole biologiche di frequenza delle mutazioni.
Ma il valore della scoperta, ripeto, riguarda i vivi. È un po’ come potenziare le relazioni attuali attribuendo loro una durata, un capitale di
profondità storica. Quando i Graves di Baltimora e i Greaves di Minneapolis, che fino ad ora non si conoscevano neppure, scoprono attraverso la banca dati che i loro DNA condividono un tratto ancestrale che
rende plausibile la loro comune discendenza da un lontano antenato
sconosciuto, quel che prende forma non è solo un vago sentimento di
cuginanza (“to’, siamo parenti!”). C’è qualche cosa di più o, almeno,
qualche cosa di diverso. Una lignaggio elettronico, e genomico, acquista
consistenza, una specie di creazione computazionale o biochimica che,
curiosamente, veste i panni arcaici d’una nomenclatura tribale: “lignaggi”, appunto, o magari “clan”, se non addirittura “patrilignaggi”.
Non di rado l’antenato fondatore, colonizzatore e capo di stirpe,
diventa simbolo e nome di associazioni che promuovono la sua parentela postuma. L’associazione dei discendenti di Edmund Rice
(), per esempio, inalbera proprio il nome del primo progenitore
. Edmund Rice, si dà notizia nelle schede informative che corredano i dati genealogici, emigrò in America nel , si stabilì a Sudbury, nel Massachusetts, mise su una numerosissima famiglia e divenne presto il più grosso proprietario della zona. I suoi discendenti diretti, fino ai great great grandchildren, contano circa millequattrocento persone.

PIER GIORGIO SOLINAS
americano come titolo di riconoscimento condiviso. Il nome anagrafico, non più semplicemente individuale, assume il valore d’un titolo
collettivo. A questo, ossia al nome e all’identità storica accertata, si aggiunge (meglio, si sovrappone) il profilo genetico che si ricostruisce in
laboratorio sulla collezione dei test dei discendenti attuali.
Cari cugini – annuncia trionfalmente il presidente dell’associazione – abbiamo
ora stabilito l’aplotipo di Edmund Rice, ovvero il marcatore genetico. Il nostro
aplotipo è una collezione di numeri unici di pezzi del cromosoma Y-DNA, ottenuto sotto specifiche condizioni. Questa piccolissima porzione di DNA è passata attraverso le generazioni da padre a figlio, e così via. Anche se, certo, non
abbiamo fatto realmente nessun test sul DNA di Edmund, siamo sicuri di conoscere ora come fosse il suo cromosoma Y. Quindi, in teoria quel che dobbiamo fare è di testare qualsiasi maschio che pensi di poter essere connesso.
Nessuna traccia scritturale, atto di matrimonio, certificato di nascita,
o ricordo tramandato nella tradizione di famiglia, potrà eguagliare
questa certificazione intrinseca, impressa nei caratteri cifrati della vita
stessa. Il ricordo impersonale incorporato nella scrittura biomolecolare è una carta più resistente di qualunque altra carta scritta con l’inchiostro: è la scrittura-impronta, è la cifra della distinzione originaria.
.
La parte sommersa dell’albero
Fermiamoci per un momento. Abbiamo seguito finora, quasi esclusivamente, le piste ancestrali che seguono i principi della logica agnatica. Il cromosoma Y, trasmesso esclusivamente da padre in figlio, esclude completamente le discendenze in linea femminile. La regola biologica, per quanto unilaterale possa sembrare, non può essere messa in
discussione dalle preferenze degli utenti, e nemmeno dalle speranze
degli scienziati. I lignaggi a discendenza patrilineare, dunque, hanno
un’incontestabile ragione costitutiva. I cognomi, etichette che si mantengono lungo le generazioni solo in forza di regole sociali, o giuridiche, scorrono esattamente lungo le stesse catene di trasmissione che
seguono l’eredità genetica degli aplotipi Y.
Sappiamo bene, peraltro, che il modello agnatico, patrilineare, non
è l’unico che la genetica sia capace di praticare. Anzi. L’eredità in linea
femminile è perfettamente rintracciabile, lungo la linea della successione dei marcatori mitocondriali che, appunto, si trasmettono esclu-

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
sivamente di madre in figlia. È possibile dunque, almeno in teoria, definire degli aplotipi mitocondriali, e dunque, in qualche senso, dei “lignaggi materni”. Malgrado la diversa frequenza nella comparsa di mutazioni significative, e dunque la maggiore scala temporale sulla quale
si definiscono questi “matrilignaggi”, in effetti molti sforzi sono stati
fatti per delineare una geografia aplotipica per le grandi discendenze
genomiche in linea materna.
Nondimeno, la classificazione per grandi gruppi cladistici, così come, anzi soprattutto, le genealogie di gruppi familiari nell’ordine dei secoli e delle poche generazioni, prediligono ormai decisamente l’altro registro, quello del cromosoma Y. I matriclan non trasmettono cognomi,
dunque il test mitocondriale è inutilizzabile per gli scopi dei programmi-cognome. Per questo motivo le agenzie di raccolta e analisi dei campioni prescrivono ai clienti potenziali una condizione tassativa: il donatore deve essere maschio. Se una donna vuole partecipare può farlo solo attraverso un consanguineo maschio, un fratello, o magari suo padre.
Non ho molti commenti da fare su questo punto, almeno per ora.
Ma mi piace cogliere l’occasione per parlare d’un certo modo, un modo antropologicamente molto particolare, di usare la classificazione
mitocondriale, e di accostarla a quella, rigorosamente androcentrica,
di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti.
Lo farò con un esempio indiano. Da anni faccio ricerca in India, in
una parte dell’India, il Bengala, di radicata e profonda cultura brahmanica, sebbene il mio interesse si concentri soprattutto su culture
non hindu. Ebbene, anche qui arriva la suggestione, seducente e solenne allo stesso tempo, della genealogia genetica. Ho trovato pochi
casi, per la verità, ma quelli che ho trovato sono tanto più significativi
se si pensa alle dimensioni delle comunità genealogiche di riferimento, e alla straordinaria e sofisticata cultura del calcolo genealogico che
in questo paese è documentata da tempi immemorabili e, soprattutto,
sociologicamente attiva tutt’oggi.
I Chitpavan sono una grande comunità castale di brahmani (qualcosa come mezzo milione di persone); brahmani, ossia appartenenti alla casta di vertice nella gradazione classica della gerarchia hindu. È una
comunità per modo di dire: famiglie Chitpavan si trovano in una quantità di città e villaggi del subcontinente, e all’estero, a partire dall’area
di Konkan. L’itinerario di immigrazione che i cultori delle genealogie e
dei cognomi (in questo caso i Dixit) rintracciano, attraverso il Kashmir,
il Punjab, giunge fino al Maharastra. I cognomi sono moltissimi, e qui

PIER GIORGIO SOLINAS
i cognomi corrispondono a vere sezioni strutturate sul tipo del lignaggio, dette gotra. Manohar, Dixit, Ranade, Kane e una quantità di denominatori di gotra, possono considerarsi come nomi d’eccellenza nell’albo ideale delle caste. Come si sa, la tutela dell’identità di casta è affidata a una rigorosa norma di endogamia che non ammette incroci matrimoniali con partner d’altre caste. In sostanza, i membri d’un lignaggio
di casta o sottocasta brahmanica devono evitare qualunque unione che
non sia con un uomo o una donna della stessa casta o sottocasta. Solo
così la purezza e l’appartenenza si trasmettono senza degradarsi.
L’identità di casta e di famiglia, dunque, si presenta, ancor oggi,
con le credenziali illustri d’una integrità di appartenenza alla quale,
ora, la genetica fornisce un supporto supplementare potentissimo. Ebbene, la carta aplotipica, che i Dixit si preoccupano di procurarsi attraverso Family Tree DNA, fornisce il profilo genetico del gotra, del lignaggio. La genealogia Y-DNA e quella registrata nella memoria di famiglia – affidata ai libri di genealogisti specialisti (Kulwrutants) – si
combinano. Anche in questo caso, dunque, l’ipotesi di una derivazione comune guida il piano dell’impresa, ma su una scala incomparabilmente maggiore: «Determinare la linea di base dei marcatori del cromosoma Y per tutti i sessanta cognomi Chitpavan, e quindi confrontarli, per stabilire quali di questi cognomi si sono evoluti in altri cognomi oggi correnti. Sarebbe interessante, insomma, vedere se si sono
introdotte nuove linee di discendenza paterna, e se queste hanno portato agli attuali  cognomi».
Quattrocento cognomi, centinaia di migliaia di persone: il network
genealogico di riferimento si avvicina alle dimensioni di un universo
demografico. E però, è un universo conchiuso nei suoi confini di identità di rango, di status e di endogamia.
E di sembianza: i Chitpavan sono generalmente più chiari di pelle,
hanno i capelli più fini, gli occhi più chiari: sono più vicini al tipo fisico
europeo che indiano. Sono generosi, riflessivi, altruisti, tenaci, ingegnosi… Le identità di famiglia, di cognome, di gotra, di casta si incapsulano
l’una nell’altra trovando conferme entro raggi concentrici di inglobamento. Il mito, la memoria mitica della genealogia, che qui è ricca e solida, dialogano con l’ispezione genotipica: possono i test e i risultati del
sequenziamento confermare la tradizione? «Sarebbe allettante vedere se
tutti convergono nelle sole  linee paterne che la nostra mitologia rivendica. Se disponessimo di una quantità abbastanza consistente di dati da diversi cromosomi Y Chitpavan, questo ci aiuterebbe a stabilire la

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
loro comune discendenza da un unico antenato maschio nel passato, così da poter suffragare le affermazioni dei “Kulwrutanatas”».
Fin qui restiamo ancora entro il circuito Y, sia pure su dimensioni
così larghe da non poter essere comparate alle grandezze dei cognomi
in Occidente.
I Chitpavan in realtà hanno preso a cuore, prima di quello paterno, il loro DNA materno, il corredo genetico delle madri Chitpavan. Si
può dire anzi che attribuiscano all’eredità in linea materna un ruolo
più basilare: unificante e primordiale al tempo stesso. La derivazione
comune da un’Eva minore (una delle ipotetiche “sette sorelle” che
Brian Sykes ha popolarizzato nelle sue ricerche) serve a orientare in
una specie di vaga geografia delle origini la sorgente femminile dell’identità Chitpavan: un luogo indeterminato, tra il Mar Nero e il Medio
Oriente, forse vicino all’altipiano anatolico, o alla Siria, all’Irak. Orizzonte oscuro, perché le linee di fecondità materna, i gotra delle spose,
la loro appartenenza di casta, si dimenticano rapidamente; per millenaria costumanza la sposa che entra nella casa maritale cede la sua appartenenza paterna di lignaggio e assume quella dello sposo: letteralmente diventa parte del nuovo gotra di accoglienza.
A noi questo interessa, e interessa in una prospettiva che consente
un preciso accostamento tra genetica, gerarchia di casta e gerarchia di
genere. Comparare scientificamente, entro la stessa popolazione e la
stessa società, le “evidenze genetiche” relative alla storia biologica dei
gruppi, in parallelo per via Y-DNA e per via mtDNA: è quel che importanti studi hanno cominciato a realizzare, in primo luogo quello di Michael Bamshad et al. (), pubblicato pochi anni fa, e che ha fatto sensazione. Quel che emerge da questo lavoro è al tempo stesso audace e
inquietante, poiché, appunto, giunge a documentare, sulla base di una
campionatura statistica e con un severo protocollo di rilevazione genetica, che la distribuzione gerarchica dei gruppi castali corrisponde a una
precisa gradazione di identità biologica. Le caste più alte, in primo luogo i brahmani, «hanno una più alta affinità con (i tipi) europei che con
quelli asiatici»: «Complessivamente – scrivono gli autori della ricerca –
tutti i dati mostrano un trend, per le caste alte, verso una maggiore somiglianza con gli europei, mentre le caste basse sono molto più simili
agli asiatici». Per i cultori dell’identità Chitpavan, non occorre dire,
questi risultati suonano molto graditi: la costituzione genetica del “noi”
si fonde con quella sociale e mitica; la casta porta nel suo patrimonio
collettivo di comunione biologica un valore distintivo innato.

PIER GIORGIO SOLINAS
L’interesse della ricerca di Bamshad (ma tra i firmatari vanno ricordati Michael Hammer e Lynn B. Jorde), infatti, non è solo d’ordine genetico o statistico, o demografico, è anche, e marcatamente, storico. La distinzione brahmanica che l’impresa di laboratorio trova così nitida nelle sue evidenze empiriche si congiunge con la tradizione
letteraria, vedica e scritturale in genere, che stabilisce una polarità fondamentale, nel popolamento dell’India, fra immigrati-conquistatori,
arya, da una parte, e autoctoni-dasyu (“dravidici”), dall’altra. La storia dell’arianizzazione del subcontinente è lunga diversi millenni, su
più piani: linguistico e di scambio demografico, oltre che politico e religioso. La gerarchia castale ne è lo specchio: le caste alte non sono altro che le eredi dell’élite arya straniera, mentre le caste inferiori e i fuori casta conservano la base antica del popolamento preariano. Questo,
almeno, è lo schema, al tempo stesso tradizionale, mitico, teologico e
storico (e poi etnico e linguistico) che Bamshad prende dalle teorie
ch’egli ritiene più accreditate. Gli invasori ariani, indoeuropei si stabiliscono come dominatori sulle popolazioni protoasiatiche. Un’immigrazione che si prolunga per millenni, e che si protrae fin quasi all’età
moderna.
La geografia biologica del popolamento attuale, così come la divergenza aplotipica che si delinea sulla scala di status, la gerarchia di
casta, rivelano tali corrispondenze, tali regolarità, da far comparire sulla scena della storia dell’India una dimensione completamente nuova,
quella della sua puntuale testabilità biologica. Le distanze genetiche
fra alte e basse caste nel mtDNA mostrano che la divergenza rispetto ai
modelli genotipici asiatici si accresce fra i Kshatriya, rispetto ai Shudra
e ai fuori casta, ed è ancora maggiore quando si passa ai brahmani. In
particolare, «tra le caste alte, la distanza genetica fra bramini ed europei (,) è minore di quella fra Kshatriya ed Europei (,) o tra Vaysya ed europei (,)».
In breve, i dati relativi al polimorfismo nel cromosoma Y dimostrano che il popolamento dell’India deriva da una mescolanza indoeuropea («Y-Chromosome variation confirms Indo-European
admixture»). Il modo in cui questa admixture europea-asiatica si delinea nell’incrocio tra i dati genotipici da una parte e quelli linguistici e archeologici dall’altra si inserisce profondamente non solo nella
logica della gerarchia di status, ma anche in quella della gerarchia tra
sessi. Poiché, infatti, la distribuzione del fondo genotipico mitocondriale “asiatico” è molto più estesa di quella dell’aplotipo Y “euro-

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
peo”, e quest’ultimo risulta più regolarmente conforme a una gradazione castale (crescente verso l’alto, decrescente verso il basso), si
può ricavare l’immagine, d’insieme, d’una base materna più marcatamente indiana e asiatica, e un vertice patrilineare, Y-aplotipico decisamente affine a modelli europei: «La spiegazione più plausibile
per questi risultati, e quella più conforme con i dati archeologici, è
che gli indiani Hindu contemporanei sono di origine proto-asiatica
con mescolanza ovest-euroasiatica».
La mistura demografica dispone gli uomini e le donne su un asse
di rango biologico asimmetrico:
La mescolanza con i maschi euroasiatici era maggiore che con le femmine euroasiatiche. Di qui la maggiore affinità con i cromosomi Y europei. […] Questa spiegazione concorda sia con l’ipotesi per cui una proporzione più alta di
euroasiatici siano diventati membri delle caste superiori, allorché la gerarchia
delle caste era ai suoi esordi, sia con l’ipotesi alternativa, quella secondo la
quale la stratificazione sociale precede l’incursione euro-asiatica, così che gli
euroasiatici tendevano ad inserirsi nelle posizioni più alte.
Gli invasori, o immigrati europei, o euro-asiatici, entrano nello spazio
sudasiatico, spazio fisico, spazio demografico, spazio genetico; portano i propri geni e li diffondono nella popolazione locale: uomini che
conquistano e si riproducono attraverso la parte femminile delle genti sottomesse. Per un verso, gli uomini, i maschi arya conquistatori e
poi dominatori (nucleo delle caste elevate nella società hindu) trasmettono agli autoctoni la loro impronta genetica, per via maschile;
per un altro verso la ricevono dai loro partner inferiori: le donne sono
portatrici dell’impronta locale che tende, inversamente, a risalire nella linea di rango. La mobilità sociale, pur entro un regime di severa restrizione endogamica (di casta), si apre la via appunto attraverso la risalita ipergamica delle donne di casta inferiore (il matrimonio anuloma, con quel tanto di unioni miste tra inferiori e superiori, tra famiglie
di status lievemente diseguale). Bamshad introduce insomma, non so
con quanta consapevolezza antropologica, un elemento d’ordine squisitamente sociale nel cuore del suo rilevamento biogenetico: «La frequenza degli aplotipi euro-asiatici nella fondazione delle caste medie
e alte può risultare sottostimata a causa della mobilità sociale verso l’alto di donne di bassa casta. Queste donne, presumibilmente, erano in
condizione di introdurre aplotipi mtDNA proto-asiatici nelle caste medie ed alte».

PIER GIORGIO SOLINAS
.
Scienza, hobby, mito?
La parte finale di questo mio contributo tocca il problema del valore
cognitivo della genealogia genetica e del suo uso sociale. Di che tipo
di conoscenza si tratta, in definitiva? Una specie di genetica per i profani? Qualcosa che promette di svelare i segreti biologici dell’origine
dei cognomi, o di raggiungere lungo la pista cromosomica il piccolo
Adamo di famiglia nel quale sta racchiusa la formula biogenetica della futura discendenza? In questa letteratura elettronica amatoriale, in
effetti, Adamo riappare, qua e là: se non altro come nome simbolico.
Talora figura come superantenato, come una specie di “noi” primordiale personificato; altre volte distribuito in tante incarnazioni distinte, al limite come partner ancestrali di singoli iscritti al database. In
molti casi il titolare di record, ossia il singolo iscritto al programma cognome, si trova fornito di una specie di doppia identità: una al presente, la sua attuale, e una al passato o, piuttosto, ad un presente che
non si è disfatto del passato: quello del suo progenitore-archetipo genetico del quale può dirsi replicante. Entrambi partecipano alla stessa
linea vitale di coalescenza. Per quanto retorica e indiretta possa apparire, questa sorta di coscienza supplementare lascia intravedere un sapere, una rappresentazione parentale, largamente inedita. Di quale tipo di sapere si tratta, in realtà?
. Ad esempio, la piccola epopea genealogica che i promotori del programma Beatty,
sempre negli Stati Uniti, riassumono nella scheda di presentazione del loro sito, raccoglie
 lignaggi, molti dei quali datati al XVI secolo. I “lignaggi”, sparsi fra l’Irlanda, l’America, il Giappone, l’Australia, di cognome Beatty e simili, appartengono – torna la domanda
cruciale – allo stesso ceppo genealogico? («Did this surname derive from a common ancestor or from among totally unrelated individuals? - years ago?»). I test incoraggiano
la congettura; rivelano coalescenze tra linee, fino a un primo e più consistente gruppo, il
Gruppo A, che «ha un antenato comune, chiamato Adamo, che visse probabilmente in Scozia prima del ».
. La forma ricorrente di ordinamento dei tabulati (Y-DNA Results) è più o meno questa: la prima colonna, o le prime due colonne, riportano il kit number (il numero di identificazione del campione organico soggetto di test: un numero, o un ID number, corrisponde
a un individuo); accanto, l’antenato di riferimento, quando è noto per cartas, e la sua datazione. Per esempio, nel caso Ball (Ball Surname Y Chromosome DNA Study): # (kit number), si collega ad un William Ball, Virginia (nome dell’antenato noto, del cui aplogruppo
è portatore il soggetto #),  circa (data approssimativa dell’antenato), di seguito
vengono poi le caselle dei loci, DYS, e dei relativi valori di frequenza.

.
L E T T E R E D E G L I A N T E N AT I . A N T R O P O L O G I A , G E N E A L O G I A , G E N E T I C A
Sarebbe troppo superficiale liquidare la questione con un’alzata di
spalle, come si trattasse d’un sapere divulgativo in cui la scienza è materia imbastardita del senso comune, d’una passione di moda, d’una
tendenza newagista insieme stravagante e pignola. Credo proprio che,
non solo etnograficamente, ma anche in termini di episteme e di produzione simbolica, la faccenda sia molto più seria. L’incontro fra la
scienza e la gente comune, fra i laboratori (o le agenzie che se ne servono per gestire i database) e gli utenti-donatori va ben oltre la gerarchia ordinaria che distanzia i competenti dai profani. In realtà, i cultori dilettanti di genealogia, soprattutto quando sono anche fornitori
(paganti) di campioni biologici d’identità personale, si trovano nella
condizione ambivalente di committenti e di oggetto di studio. Committenti o clienti che si sottopongono a un esame di verità, essi sono in
pari tempo l’oggetto del responso. Per un verso, intraprendono questo singolare processo di reductio (in un certo senso, recedendo dalla
propria individualità, subiscono un trattamento dividualizzante), per
costituirsi come fili d’un reticolo astratto che, quasi, oltrepassa la singolarità contingente delle singole esistenze. Per un altro verso, invece,
si fanno costruttori d’una mito-antropologia che genera mondi simbolici prima sconosciuti, mondi di parentalità potenziata, mondi che
pretendono di espandersi verso il passato e che chiedono alla prova
biochimica di fornire linguaggio e garanzia di esattezza. Gli scienziati,
palesemente interessati alla riuscita dell’impresa, per i propri fini
(espandere i loro database, disporre d’una varietà di casi e opportunità comparative), finiscono tuttavia per diventare partecipi di questa
sorta di trascendimento comune. I gruppi, i lignaggi, i cognomi, gli “alberi” (tutti riconvertiti in aplotipi e aplogruppi) si caricano di identità
stratiformi: etniche, preistoriche, storiche, ma anche, per dir così, “tecnologiche”, scientificamente integrate nelle strategie di sapere e di autorialità delle équipe di laboratorio.
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
PIER GIORGIO SOLINAS
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
Parte terza
La trasmissione di un sapere scientifico

Comunicare e interpretare
la preistoria nei musei
di Michele Lanzinger
Questa riflessione intende limitarsi a offrire alcuni spunti sugli stili di
comunicazione e sulle modalità di interpretazione per i musei di indirizzo preistorico. Il breve contributo non rendiconta delle diverse modalità di interpretazione museologica adottate in Italia e all’estero nel
campo della preistoria, indagine ancora mancante e quanto mai opportuna, né, sempre nel settore della preistoria, propone alcun commentario sulle buone pratiche di azione interpretativa già in uso presso numerosi musei.
Un primo e fondamentale ragionamento, a monte di ogni ulteriore considerazione, riguarda l’attenzione che dovrebbe essere prestata
ai diversi elementi che compongono il ciclo di vita del patrimonio culturale oggetto della valorizzazione museale. Il reperimento e lo studio
del bene, la sua tutela e conservazione e, infine, attraverso i procedimenti della museologia e della museografia, la mediazione culturale,
sono elementi fondamentali per descrivere e per permettere di comprendere, nella sua interezza di bene culturale, il senso del patrimonio
oggetto di valorizzazione.
Si ritiene che tutti questi elementi dovrebbero essere resi pubblicamente percepibili mediante gli apparati e le azioni di mediazione
culturale del museo. Solo così, per mezzo della comprensione di tutte
queste fasi, possono costituire oggetto di apprezzamento le ragioni del
fare ricerca, l’obbligo etico di tutelare e conservare il patrimonio culturale, infine e ovviamente, e non necessariamente per ultimo, la specifica informazione culturale circa il patrimonio esposto.
Visto da una prospettiva esterna al procedimento interpretativo e
alla dimensione specifica delle scienze preistoriche, questa impostazione tende a mettere in rapporto il successo in termini di partecipazione dei visitatori/utenti del museo con il consenso sociale e politico sugli investimenti (economici, di marketing territoriale, di investi-

MICHELE LANZINGER
.
Archeologia imitativa: l’esperienza del visitatore si confonde con l’esperienza dell’antenato preistorico (replica sperimentale di macinatura dei cereali presso il Museo delle palafitte del Lago di Ledro)
FIGURA
mento sulle risorse umane…) a favore delle azioni di conservazione e
tutela. Così, il rapporto tra le istanze relative alla conservazione dei
“beni” e quelle relative alla valorizzazione e promozione delle “attività” culturali possono trovare un virtuoso equilibrio, raccogliere
consenso e sostenere, nel tempo, l’intera traiettoria di significato e di
azione del museo.
Ciò premesso, con “comunicare e interpretare la preistoria” si
prende atto dell’ingresso anche nel lessico italiano di termini neolatini diffusamente adottati nella museologia di tradizione anglosassone (communication e interpretation), i quali, almeno per il contesto
di cui si parla, nel caso del primo esaltano la dimensione del mettere in comune e della partecipazione, nel caso del secondo quello di
tradurre in termini valevoli sul piano conoscitivo e pratico i concetti riferibili ai materiali e ai contesti museali. Termini ideologicamente distanti da quelli di: “divulgare”, “illustrare”, “educare”, “insegnare”, “trasmettere”, i quali tendono a prefigurare un’azione unilineare di trasmissione dei saperi da un soggetto emettitore a un sog-

.
C O M U N I C A R E E I N T E R P R E TA R E L A P R E I S T O R I A N E I M U S E I
getto ricevente, per lo più passivo. Quello che, sempre adottando un
anglicismo, è noto come “approccio top-down”, ovvero, nel fare riferimento al dibattito interno al movimento della Science & Society,
del deficit model .
In termini di museo questo approccio ha conseguenze significative. La centralità culturale si sposta dall’oggetto esposto all’esperienza
di visita e, come ovvia conseguenza, l’attenzione si concentra sulla conoscenza delle aspettative del visitatore. Esse assumono sempre maggiore rilevanza perché saranno queste, infatti, le diverse tipologie di visitatore e le sue aspettative, a orientare gli stili di comunicazione e di
interpretazione del museo.
Tra le diverse categorie di visitatori, la meno interessante è quella di chi, per via della sue conoscenze pregresse, è assolutamente indifferente agli strumenti di interpretazione. Si tratta di casi veramente rari, soprattutto se si pensa a quanto ampia può essere la mappa di rimandi e di riferimenti messa in campo da una progettazione
museale di qualità.
Più soventemente il visitatore non dispone di apparati di conoscenza pregressa bastevoli per interpretare autonomamente un’esposizione museale. È per questo motivo che la museologia da tempo ha
adottato tecniche via via più sofisticate per sostenere degli apparati di
interpretazione che, per simmetria, dovrebbero corrispondere a pari
interesse da parte del soggetto in visita museale. Nel proseguire in questa analisi semplificata dei possibili diversi visitatori, assume un ruolo
forse non tanto diverso il “visitatore-cliente” catturato al museo nell’ambito di un’azione di marketing territoriale. In questo caso, all’intenzione di massimizzare la frequentazione del museo, anche a fini turistici e commerciali, corrisponde un atteggiamento non alieno dal desiderio di svago e intrattenimento. Infine, quasi a comprendere questi
e quelli, si mette in evidenza la categoria degli studenti delle diverse
età i quali, per via di arrivi voluti o coatti, sono soggetti importanti per
qualsiasi politica di sviluppo museale.
Tutte queste diverse categorie di utilizzatori condividono lo stesso
fattore discriminante nel confronto dell’esperienza di visita del museo:
esse decidono quando, dove, cosa e come apprendere sulla base dei loro personali interessi. Infatti, se l’apprendimento può essere visto co. A tal proposito cfr. P. Greco, Il modello Venezia, http://icws.sissa.it/conferences/cs.
introduzione.pdf.

MICHELE LANZINGER
.
Ricostruzione di un villaggio palafitticolo: la scenografia più adatta alla simulazione della preistoria a scopo didattico e divulgativo (Museo delle palafitte del Lago di Ledro)
FIGURA
me l’acquisizione di informazioni, prima che esso avvenga (l’apprendimento), il soggetto destinatario dell’azione di apprendimento (il visitatore) deve esprimere interesse nel confronto di quest’ultima. L’interesse pertanto permea tutti i tentativi e precede l’apprendimento, il
quale, per questi motivi, può essere definito come «il processo di ricordare cosa ti ha interessato» (L. Beck, T. Cable, Interpretation for the
st Century, Sagamore Publishing, Champaign, IL, ). Ciò è vero,
o forse ancora più vero, per la categoria degli studenti. Essi raramente hanno un ruolo nella decisione di visitare o meno un museo e come
conseguenza, se non sono interessati, semplicemente non interagiscono e non accendono la luce del loro personale interesse. In queste condizioni la visita diventa qualcosa di altro, indifferente al messaggio culturale che il museo desidera trasmettere.
Per via di queste premesse, si può affermare che l’atto di ricevere
informazioni è una questione profonda e personale, anche perché la
conoscenza e le esperienze che progressivamente acquisiamo costruiscono, di fatto, quello che noi siamo. Come a dire che “io sono quello
che ricordo”. Ecco perché quando l’esperienza viaggia all’incontrario
dei propri convincimenti, come nel caso degli studenti forzati a un’e-

.
C O M U N I C A R E E I N T E R P R E TA R E L A P R E I S T O R I A N E I M U S E I
sperienza culturale non voluta (“non ritenuta interessante”), non solo
non vi sarà alcun apprendimento, ma l’esperienza stessa si concluderà
con un rafforzamento di negatività e del rifiuto che inevitabilmente andrà a contaminare altre future esperienze consimili.
Anche per evitare simili situazioni, non si dice nulla di nuovo nel
ricordare che per far scoccare la scintilla dell’interesse, l’azione di mediazione culturale deve porre in relazione il soggetto dell’interpretazione con l’esperienza di vita delle persone che compongono il pubblico. Come è noto la gente apprende integrando e immagazzinando
le informazioni nel contesto delle loro passate esperienze. Ciò ha a che
fare con la teoria delle mappe cognitive ed è una precondizione ben
nota a chi si occupi di età evolutiva, di pedagogia e di teoria dell’insegnamento.
Mettere in rapporto il messaggio con la conoscenza e le esperienze del pubblico è dunque un “contratto” tra il museo e il visitatore che,
nel corso della visita, oltre ad acquisire nuove informazioni, opera un
autonomo rinforzo di quelle pregresse e immagazzinate nella propria
memoria individuale. Per questo motivo la comunicazione non è più
da considerarsi un processo lineare trasmettitore-ricevitore ma emerge un nuovo paradigma per il quale la “costruzione del significato”
(meaning-making) è vista come un processo di negoziazione tra le parti. Invece che trasmessa l’informazione è creata.
Poiché, come si è visto, gli individui nel ricevere una nuova informazione sagomano il significato di essa sulla base delle storie e delle
passate conoscenze ed esperienze, per il progettista della comunicazione museale è fondamentale conoscere l’uditorio, suddividerlo in
segmenti omogenei per determinate caratteristiche (età, genere, formazione e grado di cultura…), e quindi disporre di messaggi teoricamente validi per ciascuno dei livelli di conoscenze pregresse (di cultura) dei possibili utilizzatori del museo.
Segnalata l’esigenza di conoscere bene il visitatore, va precisato
che il proposito dell’interpretazione va ben oltre la sola fornitura di
informazioni. Essa deve rivelare qualcosa per noi stessi e deve esserci un buon bilanciamento tra l’importanza della dimensione cognitiva e quella dell’emozione e dell’apprendimento-divertimento.
Naturalmente l’interpretazione include l’informazione. Infatti, se
non c’è informazione, il programma di comunicazione è, al massi. Di ciò non ci si occuperà nel presente scritto.

MICHELE LANZINGER
mo, un programma di intrattenimento. Come a dire, «l’informazione è il materiale grezzo, l’interpretazione quello rifinito» (ibid.).
Riferendosi ora alle esposizioni museali di interesse preistorico, ma
anche alle esposizioni archeologiche, esse canonicamente traducono in
spazio museale il processo di ricerca che, per il tramite dei reperti in
esposizione, ha contribuito alla definizione di un determinato segmento di disciplina scientifica. Si hanno così disposizioni seriali di oggetti in
sequenze cronostratigrafiche, insiemi di reperti omogenei per tipologia
o luogo di reperimento, disegni interpretativi o diorami. In fin dei conti produciamo definizioni, così come la matematica produce formule.
Viceversa, la presentazione interpretativa di un museo dovrebbe
essere progettata come una storia che informa, intrattiene e illumina!
Anche in questo caso la storia dovrebbe relazionarsi in qualche modo
con la personalità e l’esperienza del visitatore-spettatore. Nella semiologia dell’esposizione, negli apparati scritti, nelle azioni di “didattica
museale” e nelle azioni interpretative, nella messa in scena, nelle azioni di archeologia imitativa, la conoscenza andrebbe trattata in modo
immaginativo e dovrebbero essere presenti almeno questi aspetti:
esempi, cause ed effetto, analogie, esagerazioni nella scala del tempo e
dello spazio, similitudini, metafore, aneddoti, citazioni, humour, ripeFIGURA .
Un altro esempio di archeologia imitativa: costruzione e uso di giavellotti presso il Museo delle palafitte del Lago di Ledro

.
C O M U N I C A R E E I N T E R P R E TA R E L A P R E I S T O R I A N E I M U S E I
tizioni, eventi contemporanei di paragone (ibid.). Si tratta dunque di
trovare la formula che permetta di andare oltre la serialità degli oggetti
esposti e di introdurre apparati o promuovere azioni che facilitino l’affermarsi di questa inusitata forma di dialogo tra museo e il suo pubblico. Sia esso un dialogo mediato dagli apparati informativi, sia il contatto con le risorse umane impiegate nelle sale, sia infine un’azione
educativa specificatamente organizzata. Tutto ciò, con l’obiettivo di
interpretare (nel senso di tradurre) i saperi che gli oggetti esposti, in
quanto tali, non sono in grado di comunicare ai diversi pubblici.
Non solo storie tuttavia. La sperimentazione e la manipolazione è
un ulteriore passaggio obbligato verso la costruzione del dialogo tra il
museo, i suoi reperti, i suoi visitatori. Se il percorso della ricerca passa attraverso la falsificazione delle prove, un buon modo di falsificare
è quello di prendere in mano gli oggetti, osservarli e riprodurli sperimentalmente. Peraltro, se ciò è vero da un punto di vista pratico, lo è
anche da un punto di vista epistemologico. Di nuovo, richiamando le
condizioni di base della comunicazione museale, l’obiettivo di coinvolgere il visitatore nell’esperienza di visita al museo è sicuramente fa.
La didattica dell’archeologia può avvenire in un contesto ludico e partecipato (esempi di attività svolte nel Museo delle palafitte del Lago di Ledro)
FIGURA

.
I N S E G N A R E L’ E V O L U Z I O N E D E L L’ U O M O N E L L A S C U O L A S U P E R I O R E
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

La preistoria a scuola?
Coniughiamola al presente
di Tomaso Di Fraia
Per ragioni di trasparenza nei confronti dei lettori, devo anzitutto indicare il mio profilo scientifico-professionale, piuttosto anomalo: docente nei licei e al tempo stesso impegnato nella ricerca a livello universitario nel campo dell’archeologia preistorica. Tale combinazione,
con  anni di insegnamento della storia nel biennio del liceo scientifico, da una parte mi ha permesso di capire le reali esigenze della
scuola, dall’altra mi ha fornito l’opportunità di verificare se, come e
a quali costi sia possibile collegare ricerca e insegnamento, per giunta in un settore sempre trascurato nella tradizione didattica della nostra scuola, cioè l’insegnamento della storia nella scuola media superiore e in particolare nel biennio iniziale (Di Fraia, ). Sulla base
di tali premesse spero di poter evitare derive filosofiche più o meno
astratte, anche se qualche riflessione teorica sarà inevitabile.
La preistoria non è, o meglio – realisticamente – non dovrebbe
essere un campo riservato a pochi iniziati, né una semplice miniera
di strane curiosità, e soprattutto – questo è il senso del titolo di questo contributo – non è un ambito lontano dai nostri interessi, dal nostro modo di concepire la vita, dai nostri problemi reali, dico di noi
che viviamo nel XXI secolo.
Per evidenziare tali potenzialità nello studio della preistoria,
vorrei proporre, schematicamente, alcuni possibili argomenti per
percorsi didattici, che hanno tra l’altro il vantaggio (ma purtroppo,
date le condizioni della nostra scuola, può trattarsi oggettivamente
di uno svantaggio!) di essere necessariamente interdisciplinari (Di
Fraia, ). Tuttavia, voglio subito aggiungere che tali proposte di
riflessione e di approfondimento possono essere estese anche al di
fuori della scuola, a tutte le persone interessate a una divulgazione
scientifica seria e anche a un dibattito culturale costruito su solide
fondamenta.

TOMASO DI FRAIA
Prima di presentare tali tematiche vorrei però sottolineare un
punto che ritengo cruciale. La preistoria costituisce un terreno e un
osservatorio privilegiato per capire che, come in tutto il mondo biologico l’unica cosa certa e “stabile” è, paradossalmente, il mutamento, così anche nella lunga storia dell’uomo tutto è processuale,
comprese le nostre caratteristiche biologiche. Bisogna quindi abbandonare il pregiudizio, o comunque l’idea ingenua e assai diffusa, secondo cui esiste un dinamismo della natura nel suo complesso, ma l’uomo in quanto tale ne sarebbe sostanzialmente esente, come se l’ultimo gradino evolutivo occupato (cioè lo status di Homo
sapiens) fosse una sorta di assoluto, raggiunto una volta per tutte,
senza preoccuparsi di capire fino in fondo come e perché l’uomo vi
è arrivato e quindi nemmeno se sia stato o sia ancora suscettibile di
ulteriori trasformazioni.
In realtà non esiste biologicamente una “natura umana”, data una
volta per tutte; proprio studiando la preistoria e lavorando quindi su
tempi molto lunghi (decine di migliaia di anni, se ci limitiamo a Homo sapiens) possiamo infatti capire che:
. siamo il prodotto di una lunghissima serie di mutazioni, trasformazioni, modificazioni, adattamenti; la storia del genere Homo, e prima ancora quella degli australopiteci, è fatta di molteplici forme (cioè
specie) di più o meno lunga durata, con periodi in cui più specie sono esistite contemporaneamente e forse sono convissute, o si sono
combattute, in uno stesso ambiente;
. quello che a noi appare assolutamente definito e stabile (compresa la “natura umana”) corrisponde a una fase tutto sommato breve
dell’evoluzione del genere Homo;
. anche nella nostra specie alcune caratteristiche biologiche si sono evolute nel tempo.
Passo ora a proporre tre temi di indagine e di riflessione.
.
L’identità etnica, ovvero perché non possiamo non dirci meticci
I processi fondamentali attraverso cui si è definita l’identità etnica
dei diversi gruppi umani sono riassumibili in tre grandi fasi fondamentali.
. L’origine della nostra specie è oggi considerata unica dalla stragrande maggioranza degli studiosi, se si eccettuano pochi “multire-

.
LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE
gionalisti”, attestati su posizioni ormai a mio parere indifendibili (ma
su questo punto cfr. i contributi specifici in questo volume). Si riconosce cioè un’unica linea di ascendenza per Homo sapiens, ricostruita
dapprima attraverso il DNA mitocondriale (per risalire alla madre originaria, la cosiddetta “Eva africana”, secondo l’abusata e banalizzata
espressione mediatica) e successivamente confermata anche dagli studi sul cromosoma Y, relativo alla linea maschile.
. In seguito alla diffusione della nostra specie in ambienti diversi,
attraverso processi di deriva genetica e adattamento per mutazione/selezione si è verificata una progressiva differenziazione, che si è
poi stabilizzata e cristallizzata quando ogni gruppo ha trovato la
propria nicchia ecologico-culturale (dal Paleolitico al Neolitico).
. A partire soprattutto dall’età dei metalli (almeno dal  a.C.),
si è verificato un crescente rimescolamento etnico, grazie soprattutto alla maggiore mobilità.
A proposito della mobilità umana – un fenomeno che ha già oggi, e ancor più avrà in futuro, effetti sconvolgenti sull’assetto mondiale –, sul piano della ricostruzione storica, dopo il tramonto delle
vecchie teorie diffusionistiche, che pretendevano di spiegare meccanicamente lo sviluppo e la complessità di molti processi culturali nei
termini di un presunto migrazionismo, resta comunque aperto il problema di individuare, laddove è possibile, gli spostamenti dei gruppi umani e di valutarne l’entità in termini geografici e popolazionistici e la portata in termini culturali. Jehanne Féblot-Augustins
(), dopo aver raccolto una grande massa di dati, ha potuto concludere che mentre nella parte più antica del Paleolitico (circa
..-.. anni fa) la distanza massima nella circolazione
delle materie prime non superava i - km, tra .. e .
anni tale distanza raggiunge i  km, cambiando anche le modalità
e l’entità dello sfruttamento delle risorse coinvolte. Con il Paleolitico superiore (circa .-. anni fa), infine, si ha una buona
percentuale di casi di trasporto di materie prime intorno ai  km,
molti casi oltre i  km, mentre si registrano  percorsi fra  e 
km e uno eccezionale di  km. Ciò evidentemente dimostra una
notevole capacità di realizzare scambi a lunga o lunghissima distanza, ma a rigore niente ci dice sull’ampiezza dei tragitti effettivamente percorsi da uno stesso individuo o gruppo umano e tanto meno
sull’eventualità che determinati gruppi si trasferissero definitivamente da un luogo a un altro.

TOMASO DI FRAIA
Dapprima lo studio dei gruppi sanguigni e più recentemente
quello del DNA antico e moderno ci hanno fornito indicazioni relative ai rapporti parentelari e a vari aspetti demografici, delineando gli
scenari degli spostamenti umani su vasta scala e su tempi lunghi o
lunghissimi. Oggi tuttavia è possibile un livello di analisi molto più
fine, laddove ricorrano alcune condizioni favorevoli. Recentemente
infatti è stato elaborato un metodo, basato su microanalisi dei tessuti scheletrici, per stabilire se singoli individui siano nati e abbiano
trascorso l’infanzia o parte di essa in una determinata regione, e successivamente si siano trasferiti altrove. Tali metodiche sono state avviate in Germania e negli USA già nella seconda metà degli anni Ottanta e poi applicate significativamente nella seconda metà degli anni Novanta; non mi risulta, salvo errore, che in Italia siano stati condotti e pubblicati studi del genere. Si tratta in particolare delle analisi delle presenze percentuali nelle ossa di bario (BA) e stronzio (SR)
e degli isotopi stabili di quest’ultimo. La base biologica del metodo
è costituita dal processo per cui nello smalto dei denti, subito dopo
la loro eruzione, restano fissati il bario e lo stronzio assunti con la dieta durante l’infanzia, mentre nelle altre ossa il rapporto bario-calcio
e stronzio-calcio si modifica ininterrottamente fino alla morte. Poiché nei diversi ambienti naturali (ad esempio terreni granitici rispetto ad altri ricchi di carbonati) bario e stronzio sono presenti in misura molto più differenziata rispetto a quella che potrebbe essere fornita all’organismo umano da diverse diete nello stesso territorio, differenze marcate tra le quantità di tali elementi presenti nei due diversi tipi di ossa indicano che un individuo ha trascorso la prima infanzia in una certa zona e l’ultimo periodo della propria vita in un’altra. Tale metodo, applicato tra l’altro in Germania agli inumati del
vaso campaniforme di una serie di necropoli della Baviera (Price,
Grupe, Schröter, ), ha dato i seguenti risultati:
– la percentuale degli immigrati nel sud della Baviera oscilla tra il
, e il ,%;
– tra gli immigrati, la percentuale delle donne è un po’ più alta di
quella dei maschi (% contro il %);
– è stato stimato che alcuni individui, per spostarsi dalla zona in
cui avevano trascorso l’infanzia a quella dove morirono, dovettero
percorrere almeno  km;
– la direzione prevalente degli spostamenti è da NE a SO, cioè da
terreni granitici a sedimenti calcarei e a loess;

.
LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE
– nelle necropoli più antiche la percentuale degli immigrati varia
dal  al %, in quelle più recenti dal  al %.
La mobilità accertata riguarda dunque una percentuale variabile da circa / alla metà della popolazione dei vari siti; ciò potrebbe
indicare che una parte della popolazione si spostava in situazioni di
crisi (per esempio eccessivo incremento demografico nella comunità di origine) e/o per qualche sorta di specializzazione che comportasse la necessità di effettuare spesso trasferimenti anche molto
lunghi. Bisogna inoltre cercare di chiarire in che misura tali trasferimenti si possano considerare definitivi o comunque prevedessero
una permanenza prolungata, cioè se la percentuale di immigrati va
considerata come un gruppo che a un certo punto si è unito alla comunità presunta sedentaria e con questa ha convissuto per un periodo abbastanza lungo; oppure se gli individui nati altrove fossero
presenti per periodi relativamente brevi. Poiché il tempo minimo
necessario perché si depositino nelle ossa elementi in tracce in proporzioni diverse da quelle accumulate precedentemente è alquanto
lungo, bisogna presupporre una presenza abbastanza prolungata e
non un semplice soggiorno di settimane o di pochi mesi; del resto
l’inclusione degli immigrati in un’unica necropoli è indicativa di una
riconosciuta appartenenza alla comunità, anche se non si possono
escludere in assoluto forme di riconoscimento “etnico”, in senso lato, pur al di fuori del radicamento in un particolare territorio (vedi
i moderni rom). Tuttavia si pongono ancora altri problemi. Anzitutto l’assimilazione nelle ossa di sostanze corrispondenti a quelle
del territorio delle singole necropoli potrebbe essere avvenuta attraverso vari soggiorni (anche brevi) in siti diversi di una stessa regione geopedologicamente caratterizzata. È evidente che tale criterio può essere applicato anche alla comunità presunta sedentaria:
infatti gli individui che mostrano una sostanziale corrispondenza tra
la dieta della prima infanzia e quella dell’ultimo periodo di vita potrebbero comunque essersi spostati, nel corso della loro esistenza,
nell’ambito di un territorio geologicamente omogeneo; e in tal caso
il nomadismo o altre forme di mobilità sarebbero sottostimate. Naturalmente tale eventualità deve essere presa in considerazione, a
fortiori, per quella parte di popolazione che risulta immigrata. Il fatto che gli studi da me consultati non registrino, salvo errore, casi di
individui con percentuali di stronzio corrispondenti per l’infanzia e
per il momento della morte e contemporaneamente diversi da quel-

TOMASO DI FRAIA
li caratteristici degli individui vissuti per un tempo abbastanza lungo nel territorio in cui è ubicata la sepoltura, sembra indicare comunque che gli stanziamenti nei luoghi raggiunti dopo i trasferimenti non dovevano essere brevi. In definitiva, per le popolazioni
del vaso campaniforme, potrebbe configurarsi uno scenario in cui la
mobilità di un numero consistente (anche percentualmente) di persone si sarebbe realizzata, nel corso delle singole esistenze, sia attraverso spostamenti geografici ragguardevoli (nell’ordine anche di
centinaia di chilometri), sia attraverso dislocazioni più limitate, magari nell’ambito di territori geologicamente omogenei. Naturalmente il problema più importante, per la ricostruzione dei processi storici, è costituito dalle ragioni e dalle modalità di tali fenomeni migratori, e forse in parte nomadici, e dalle conseguenze culturali su
scala europea.
A questo punto, vediamo di tratteggiare i probabili scenari in
modo cronologicamente e culturalmente articolato.
a) Per tutto il Paleolitico e il Mesolitico (..- a.C.) la
popolazione mondiale sarebbe rimasta scarsa e molto sparpagliata;
alcune stime indicano che la popolazione mondiale potrebbe essere
stata di .-. individui prima dell’espansione di Homo
sapiens verso l’Europa, raggiungendo forse i - milioni durante il
Paleolitico e il Mesolitico (Cavalli-Sforza, Menozzi, Piazza, , p.
).
b) Dal Neolitico (circa  a.C.) la popolazione complessiva aumenta, ma le comunità, il cui numero è ora maggiore, sono pur sempre piccole in termini assoluti (varie decine o al massimo qualche
centinaio di individui, tranne rare eccezioni), spesso esogamiche,
tanto più quando rischiano l’estinzione per crisi economiche, epidemie ecc.
c) L’archeologia ci mostra che fino all’età del Bronzo (III millennio
a.C.) la durata degli abitati è stata relativamente breve e quindi attraverso successivi spostamenti ci sono state notevoli possibilità di
mescolamento demografico, assorbimento ecc.
d) Gli scambi matrimoniali devono aver costituito un fattore frequente e importante nei processi di ibridazione, sia in senso biologico che culturale, come è documentato anche dall’etnografia.
e) Con l’età dei Metalli (IV-I millennio a.C.) i processi di mobilità
si accentuano (ricerche di metalli e altre materie prime particolari,
aumento delle ricchezze accumulate, conflittualità, sistemi di tra-

.
LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE
sporto più efficienti grazie all’invenzione della ruota e più tardi all’utilizzazione del cavallo ecc.).
f) Probabilmente con l’età del Ferro (primi secoli del I millennio
a.C.) con i fenomeni di sinecismo e di protourbanesimo le diverse
unità etniche tendono a divenire molto più compatte, tenaci e durature nel tempo.
g) Tuttavia si verificano anche nell’età del Ferro vari processi di
espansione (vedi i Celti), anche nella forma di “microemigrazioni”
(vedi il caso di M. Bibele, in Emilia, dove una comunità etrusca è
coadiuvata da gruppi armati Celti), di osmosi fra popolazioni limitrofe (vedi Latini/Italici/Etruschi) e quelli più macroscopici di colonizzazione (in Italia: Greci e Fenici, ma anche Etruschi).
h) I Romani, come è noto, realizzarono molti progetti di colonizzazione, ma probabilmente senza che da ciò, tutto sommato, derivassero grandi fenomeni di flussi genici.
i) Dopo una serie di spostamenti di gruppi umani, ben organizzati ma pur sempre minoritari (invasioni barbariche ed espansione
mussulmana), il Medioevo conosce una lunga fase sostanzialmente
stabile. Invece con l’età moderna si aprono nuovi processi di colonizzazione e ibridazione, specialmente nel continente americano.
l) Infine con l’industrializzazione, la crescita demografica della
popolazione europea, l’aumento e il perfezionamento dei mezzi di
trasporto e comunicazione, le nuove necessità economico-sociali
portano a rilevanti esodi interni ed esterni. Per gli ultimi - anni per molti di noi è sufficiente fare riferimento alla propria situazione personale: se guardiamo ai nostri ascendenti, in tre o quattro
generazioni spesso si sono verificate forti commistioni tra individui
di diverse regioni italiane, se non addirittura apporti da altri paesi.
.
Il rapporto uomo-cibo,
ovvero perché non possiamo non dirci onnivori
Per quanto concerne la dieta onnivora, ovviamente il cuore del problema (biologico, filosofico e morale) riguarda la possibilità, o la liceità, o la necessità di cibarsi di carne e prodotti animali. Quando si
parla di onnivori e in particolare di carnivori non si deve pensare
soltanto a predatori o, nel caso dell’uomo preistorico, a cacciatori di
medi o grossi erbivori, ma alla capacità di sfruttare tutte le nicchie

TOMASO DI FRAIA
faunistiche: dai molluschi, agli insetti, ai piccoli uccelli e pesci, a tutti i prodotti animali che possono fornire cibo (ad esempio uova, larve, miele ecc.).
Ciò che colpisce in molte posizioni animaliste o vegetarianiste è
anzitutto un preoccupante deficit di cultura storica, intesa in senso
lato. Infatti, strapazzando un altro famoso aforisma, dopo quello
sfruttato nel titolo del paragrafo, si potrebbe dire che “l’uomo è ciò
che è perché mangia ciò che mangia” o, meglio, “perché nella sua
storia evolutiva ha mangiato ciò che ha mangiato”. Ho l’impressione che, sul piano antropologico-filosofico, la posizione dei vegetariani integrali rifletta il pregiudizio di tipo fissista già illustrato sopra, per cui le cose in natura sarebbero date una (sola) volta per tutte; il concetto cioè di “naturalità” come elemento assoluto e primario, che guiderebbe ogni realtà successiva. Ciò è vero, ma solo in una
certa misura, cioè nel senso che l’elemento primario non cessa di esistere e di interagire, ma lo fa in contesti sempre nuovi e con esiti dialettici, che via via possono arrivare a modificarne la natura originaria. In realtà la naturalità per molti è un mito o un feticcio che sembra poter esonerare dalla fatica e dalle difficoltà della ricerca razionale e della problematicità delle scelte etiche: secondo tale impostazione, una volta stabilito ciò che è naturale e ciò che non lo è, tutte le decisioni e i comportamenti ne dovrebbero discendere quasi
automaticamente.
Purtroppo tale pregiudizio o semplificazione si insinua anche in
ambienti e in persone insospettabili. È sintomatico, ad esempio, che
nemmeno una personalità come Umberto Veronesi, impegnata tra
l’altro nella missione di diffondere la scienza e il metodo scientifico
(dirige una fondazione che mira a questo scopo), sfugga a tale sorte. Infatti mi è capitato di sentire Veronesi sostenere le seguenti tesi (cito a memoria): “I primati sono quasi tutti vegetariani; gli scimpanzé, con un DNA simile al nostro per il %, lo sono. Mangiare
carne non risponde al nostro istinto fondamentale, alla nostra natura”. In queste affermazioni vi sono due passaggi indebiti, perché: .
la nostra natura, come abbiamo visto, non è un dato acquisito una
volta per tutte; . e comunque non può essere identificata sulla base di una comparazione superficiale. Ora, una percentuale come
quella ricordata da Veronesi di per sé non dimostra nulla, per quanto concerne il punto chiave della questione: infatti proprio in quel
% di differenza si situa il risultato del salto evolutivo, dovuto sicu-

.
LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE
ramente anche alla dieta onnivora. Occorre dunque evitare qualunque accostamento con le scimmie antropomorfe attuali basato
su un’ontologia astratta e soprattutto astorica. Questa a mio avviso è una significativa spia proprio della carenza di una cultura storica e ancor più di un approccio metodologico storicamente corretto ai problemi scientifici in vari campi.
a) Ma quali sono i dati dell’evoluzione del genere Homo riguardanti il regime alimentare? Senza nessuna pretesa di sistematicità,
dobbiamo prendere in considerazione almeno i seguenti punti.
Gli australopiteci erano essenzialmente vegetariani; il loro apparato dentario, notevolmente robusto e morfologicamente idoneo alla triturazione di vegetali, anche coriacei, sembra aver costituito la loro risposta a un ambiente in cui erano prevalenti o facilmente reperibili tali risorse alimentari. Inoltre, se si confronta il
bacino di Lucy (l’Australopithecus afarensis meglio conservato)
con quello del “ragazzo di Turkana” (Homo habilis), si vede che il
bacino del primo è molto più ampio, evidentemente per contenere una notevole massa di tessuti intestinali, a loro volta necessari
per digerire grandi quantità di vegetali.
b) I primi rappresentanti del genere Homo avevano un volto assai
più piccolo, mandibola e denti meno massicci, ed erano privi di
cresta sagittale (presente invece negli australopiteci, specialmente
nel robustus, per ancorare i potenti muscoli masticatori), benché
complessivamente avessero una corporatura più grande.
c) Il funzionamento del cervello nell’uomo assorbe una parte notevole (circa -%) dell’apporto energetico complessivo, mentre tale valore scende all’-% negli altri primati, e al -% negli
altri animali. Anche se lo sviluppo del cervello nel genere Homo
può aver avuto più concause, una dieta ricca di sostanze particolarmente nutritive deve averne costituito una condizione essenziale. La riduzione di volume dell’apparato intestinale, resa possibile
da una più alta percentuale di cibi molto nutrienti, può a sua volta aver favorito la destinazione al cervello di una parte più consistente del metabolismo complessivo. Una controprova indiretta è
costituita dal fatto che i primati col cervello più grande si nutrono
di alimenti più ricchi.
In sostanza, tutto induce a ritenere che si sia prodotto un circolo virtuoso: «Dopo la fase iniziale di accrescimento cerebrale, la
dieta e l’aumento dimensionale del cervello probabilmente agiro-

TOMASO DI FRAIA
no in maniera sinergica: un cervello più grande produceva un comportamento sociale più complesso, che portava a cambiamenti nelle tattiche di procacciamento del cibo e a un’alimentazione migliore, le quali a loro volta favorivano l’ulteriore evoluzione cerebrale»
(Leonard, ).
In questo quadro l’opzione vegetariana odierna oggettivamente va
contro la nostra costituzione biologica. Sarebbe importante che i vegetariani fossero consapevoli che il loro comportamento tende a invertire
un trend che è cominciato oltre tre milioni di anni fa e che è proseguito
anche dopo l’affermazione della specie sapiens. In altre parole, mentre
gli australopiteci e poi gli ominidi hanno cercato di ampliare la gamma
delle risorse alimentari, includendovi anche gli animali, e così facendo
hanno favorito un certo tipo di evoluzione, oggi il vegetariano fa l’operazione esattamente opposta, rinunciando a qualcosa per cui il nostro
organismo ha impiegato tantissimo tempo ad adattarsi. Infatti, sia pure
in modi molto differenziati, in ragione delle diverse risorse ambientali,
tutte le popolazioni umane studiate dagli etnologi mostrano una dieta
comprensiva di cibi sia vegetali che animali.
È giusto dunque essere conservatori riguardo al cibo, perché
questo significa sfruttare al meglio tutto il progresso adattativo realizzato dai nostri antenati in molte migliaia di anni attraverso una serie di importanti innovazioni: dall’apporto carneo, alla cottura dei
cibi, al consumo del latte in età adulta. In questo caso infatti, paradossalmente, essere conservatori corrisponde al massimo di innovazioni, mentre le pretese innovazioni dei vegetarianisti sono dei tentativi oggettivamente regressivi, di cui, oltre alla debolezza teorica,
bisogna sottolineare la difficoltà e i pericoli insiti nella loro attuazione. Infatti, poiché le trasformazioni e gli adattamenti biologici si
sono assestati attraverso una lunghissima selezione specifica e intraspecifica, non sappiamo quale potrebbe essere l’esito, specialmente
a lunga scadenza, dell’adozione di un vegetarianesimo integrale.
Anche in questo caso deve valere il principio di precauzione, tanto
più che negli ultimi venti anni alcuni studiosi hanno collegato una
serie di malattie odierne (obesità, ipertensione, coronaropatie, diabete) anche all’allontanamento dalla dieta e dallo stile di vita dei
cacciatori, raccoglitori e agricoltori preistorici: una dieta onnivora e
un adeguato consumo energetico.
Un caso particolare è quello dell’assunzione del latte nella dieta
degli adulti; ovviamente gli individui in possesso della lattasi (l’enzi-

.
LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE
ma, presente nei lattanti, in grado di scindere il lattosio e di permetterne quindi la digestione) ne possono usufruire, gli altri no. In questo caso, a differenza di molti altri aspetti dell’alimentazione, c’è quindi un vincolo fortissimo, costituito dall’impossibilità organica di digerire il latte, così come succede, a una certa percentuale di persone,
per le bevande alcoliche. In altre parole, mentre chi tollera l’alcol o il
latte può decidere se assumerli o meno, chi non li tollera non dispone di questa opzione. Affermare, come fanno alcuni vegetariani, che
assumere latte da adulti è sbagliato e biologicamente pericoloso è
quindi un’inaccettabile generalizzazione, o addirittura una posizione
dogmatica, se si sostiene che l’unico modo corretto (“secondo natura”) di assumere latte è quello del lattante. E comunque la persistenza della lattasi negli adulti non è un dato primigenio, bensì il risultato di un processo originato da una serie di mutazioni genetiche che
nel corso del tempo si sono affermate tanto da caratterizzare un’alta
percentuale delle popolazioni attuali.
Anche le posizioni etiche dei vegetarianisti, pur essendo animate
da intenzioni per certi versi lodevoli, mi sembrano estremamente deboli sul piano scientifico e logico. Francamente non capisco come si
possa affermare, come fa Peter Singer (), che l’uccisione degli animali è una forma di sfruttamento inaccettabile, addirittura paragonabile alla schiavitù umana dei tempi andati. Come si concilia, infatti,
l’affermazione secondo cui non è lecito uccidere gli animali per cibarsene con il fatto che gli animali carnivori e quelli onnivori uccidono per tale scopo? Paradossalmente, se si negasse all’uomo tale possibilità, da una parte gli si negherebbe un diritto riconosciuto a tutti
gli animali onnivori, dall’altra gli si attribuirebbe implicitamente una
superiorità morale, reintroducendo dalla finestra ciò che si pretende
di cacciare dalla porta, giacché è proprio Singer a rigettare l’idea, tradizionalmente cristiana, di un’assoluta superiorità dell’uomo rispetto
agli altri animali. Secondo l’impostazione animalista, l’uomo risulterebbe l’unico essere vivente che, consapevole della sofferenza delle
sue potenziali vittime, si asterrebbe meritoriamente dal cibarsi di carne. Si potrebbe magari sostenere che la superiorità dell’uomo si realizza proprio in questa scelta (di rinuncia); e tuttavia resterebbe una
contraddizione cruciale tra questa opzione umana e il fatto che, per
raggiungere tale consapevolezza, i nostri lontani antenati abbiano dovuto uccidere altri animali per cibarsene, fino a fare della dieta onnivora un dato costitutivo della loro stessa fisiologia.

TOMASO DI FRAIA
In definitiva, potremmo dire che anche nella dieta, come per
altri aspetti fisiologici, siamo vincolati in una certa misura dal nostro passato evolutivo. Così, ad esempio, anche se teoricamente è
ipotizzabile uno stile di vita che riduca l’apporto energetico e parallelamente il lavoro fisico, quest’ultimo non potrà scendere sotto una certa soglia, pena una serie di problemi sanitari (Leonard,
, p. ).
.
Il rapporto uomo-risorse e le scelte politiche,
ovvero perché anche la preistoria è sempre storia contemporanea.
Il caso delle terremare.
Il vocabolo “terramara” in dialetto emiliano sta per “terra marna”,
cioè terra grassa, e in particolare serviva a indicare nell’Ottocento
quel terreno estratto da piccoli rialzi o tumuli (alti dai  ai  metri)
presenti in varie località della pianura padana e costituiti da depositi
antropici preistorici formatisi nel corso dell’età del Bronzo media e
recente (XVII-XII secolo a.C.). Per estensione il termine è passato a indicare proprio i rispettivi abitati preistorici. Si tratta di:
Villaggi generalmente quadrangolari, circondati da un argine e da un fossato; le dimensioni, durante le prime fasi del Bronzo medio, di norma non sono superiori ai due ettari. Tale evidenza sembra interpretabile come il risultato di una colonizzazione della pianura da parte di comunità che sono in
grado di sfruttare i suoli pesanti e argillosi grazie all’uso dell’aratro a trazione animale come pure di edificare abitati complessi con tecniche costruttive elaborate e con cognizioni di ingegneria idraulica tali da rendere possibile la realizzazione di fossati, terrapieni e bonifiche con palificazioni. [...]
Per quanto riguarda l’organizzazione interna degli abitati, [le ricerche hanno] evidenziato l’esistenza [...] di un’organizzazione intensa e pianificata
dello spazio (Cardarelli, , pp. -).
I diversi approcci adottati nel corso del tempo rispetto allo studio
delle terremare offrono casi esemplari di derive ideologiche, in cui
ciò che emerge con forza è appunto la volontà di piegare l’oggetto di
studio alle esigenze ideologiche e addirittura alla lotta politica vera e
propria (Peroni, ; Tarantini, ). Così Luigi Pigorini verso la fine dell’Ottocento, soprattutto sulla base dell’organizzazione degli
abitati terramaricoli secondo un preciso reticolo ortogonale, ritenne

.
LA PREISTORIA A SCUOLA? CONIUGHIAMOLA AL PRESENTE
che le terremare fossero la prefigurazione del castrum romano e i terramaricoli gli antenati dei Latini e della civiltà romana. Al contrario
Giovanni Patroni arrivò nel  a sostenere che
i terramaricoli [...] si erano assoggettati al più rigido e feroce comunismo, livellatore implacabile anzi cancellatore dello individuo e della famiglia. [...]
Gli anziani e i più forti dovevano riunirsi in un specie di Soviet che disponeva tirannicamente delle forze e del lavoro dei singoli. [...] Non esistevano né
mariti né mogli né padri né figli riconosciuti come tali. [...] Il culto dell’individualità e della proprietà, di cui non si trova né potrebbe trovarsi esempio
nelle terremare, è veramente cosa romana e perché romana, mediterranea.
Non saprei se in tali affermazioni sia più grave l’abdicazione al rigore
scientifico o il delirio ideologico, ma probabilmente la seconda cosa ha
prodotto la prima.
Quali erano le basi delle società terramaricole e quali furono le ragioni della loro prosperità? Sinteticamente possiamo indicare i seguenti punti:
. bonifiche del territorio e attenta gestione delle acque, realizzate
anche attraverso forme di coordinamento territoriale;
. struttura razionale degli abitati, che raggiungono spesso dimensioni ragguardevoli (fino a  ettari), denotando un notevole livello di
coesione sociale e collaborazione (Peroni, );
. sviluppo particolare del settore primario (in cui svolge un ruolo
importante l’allevamento bovino), delle produzioni specializzate e degli scambi, a livelli molto avanzati; per quest’ultimo aspetto sono altamente significativi i ritrovamenti di pesi da bilancia (Cardarelli, Pacciarelli, Pallante, );
. crescita demografica (fino a un totale di circa . persone),
moltiplicarsi degli insediamenti, prosperità complessiva inedita.
Nonostante questo quadro, o probabilmente in buona misura in
conseguenza di esso, le terremare conoscono una rapida crisi, che, verso il  a.C. e forse nell’arco di non più di una generazione, portò alla loro scomparsa, con una probabile diaspora degli abitanti. Gli archeologi hanno cercato di individuare le cause di tale crollo e sono arrivati a escludere eventi naturali catastrofici (come potrebbero essere
forti oscillazioni climatiche, alluvioni o al contrario fasi di grave siccità);
tutt’al più è stata colta una tendenza a un graduale deterioramento climatico, che comunque di per sé non avrebbe potuto avere un effetto
scatenante. Pertanto hanno rivolto l’attenzione ai seguenti fattori:

TOMASO DI FRAIA
. conflittualità interna (competizione per l’accesso alle risorse probabilmente decrescenti) e forse anche esterna (come suggerirebbero
l’ampliamento e il rafforzamento di argini e terrapieni nell’ultima fase di vita di alcuni abitati), in un periodo di profondi sommovimenti
in varie aree del Mediterraneo;
. coordinamento territoriale insufficiente, al contrario degli “imperi idraulici”, sorti in Mesopotamia e in Egitto proprio in funzione
di una gestione delle risorse idriche su ampia scala e con il coinvolgimento cooperativo di molti gruppi umani. A questo proposito mi piace citare, mutatis mutandis, una battuta fulminante messa da Italo
Calvino sulla bocca del personaggio narrante del Barone rampante,
un giudizio impietoso dei ritardi e delle difficoltà dell’Italia: «Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti».
Nel caso delle terremare sarebbe mancata insomma la capacità politica di gestire la crisi o, una volta avvenuta, di riorganizzare le comunità su nuove basi;
. rapporto troppo predatorio con la natura (in particolare la deforestazione, attestata dagli spettri pollinici), fenomeno di cui gli stessi
terramaricoli sembrano aver preso coscienza e percepito le prime
conseguenze, come sembra attestare il ridotto (forzato o intenzionale?) consumo di legname nell’ultima fase di vita di alcuni insediamenti. Insomma, sarebbe mancato ai terramaricoli quel senso del limite, la cui assenza molti secoli dopo segnerà la fine delle comunità
umane sull’isola di Pasqua.
In conclusione, è fin troppo evidente che le terremare sono un ottimo esempio di intreccio tra fattori ambientali e sociopolitici nella
crisi di un intero sistema. Tutto ciò non ci dice niente sulle sfide che
dobbiamo affrontare oggi a livello locale e a livello planetario? Chissà se riusciremo a capire che anche la Terra, per quanto concerne la
finitezza delle risorse e l’interdipendenza dei diversi sistemi, in fondo non è altro che una grande isola di Pasqua o un insieme di abitati terramaricoli!
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“Origini”, XXIV, pp. -.

Gli autori
Francesco Frati, Dipartimento di Biologia evolutiva, Università di Siena
Pietro Omodeo, Dipartimento di Biologia evolutiva, Università di Siena
Antonio Brusa, Dipartimento di Scienze storiche e sociali, Università
di Bari
Carlo Peretto, Dipartimento di Biologia ed Evoluzione, Università degli Studi di Ferrara
Francesco Mallegni, Dipartimento di Biologia, Università di Pisa
Gianfranco Biondi, Dipartimento di Scienze ambientali, Università
dell’Aquila
Olga Rickards, Dipartimento di Biologia, Università di Roma Tor
Vergata
Pier Giorgio Solinas, Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Università di Siena
Michele Lanzinger, Museo tridentino di Scienze naturali, Trento
Cinzia Dal Maso, giornalista, scrive per “la Repubblica” e “Il Sole-
Ore”
Brunella Danesi, Associazione nazionale insegnanti di Scienze naturali
Tomaso Di Fraia, Dipartimento di Scienze archeologiche, Università
di Pisa