NewsMagazine n. 8 - Dipartimenti

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UNIVERSITÀ CATTOLICA – MILANO
Dipartimento di Sociologia
Gruppo Interstizi & Intersezioni
Newsletter n.8
Primavera-Estate 2007
La vita mi duole a pezzi, a sorsate, per interstizi
(Fernando Pessoa)
Cari destinatari,
con un augurio interstiziale tra primavera ed estate vi giunga la nostra Newsletter, che si arricchisce stavolta di un Forum a più voci
su un interessante Seminario sulla Scrittura (Ecrire entre / Scrivere tra, Università Cattolica, Milano, marzo 2007) di cui si era data
notizia nella Newsletter precedente. Saluto e ringrazio qui la folta schiera dei nostri Corrispondenti, ai quali si sono aggiunti nuovi
nomi di docenti qualificati, attivi in altre aree delle scienze umane rispetto a quelle già rappresentate e ai loro confini: è davvero un
piacere constatare la disponibilità a collaborare alla tematica “Interstizi e Intersezioni’ da parte di colleghi e amici che hanno provenienze tanto diverse, sia geograficamente (abbiamo attualmente rappresentate tredici sedi universitarie, di cui tre all’estero) che per
area o disciplina (che sono ora ben ventitré).
Arrivederci dunque alla prossima Newsletter, in autunno, con un cordiale saluto dal nostro Gruppo.
Milano, giugno 2007
Giovanni Gasparini
SOMMARIO
1. Incontri
- Forum su ‘Ecrire entre/Scrivere tra’:
1. (E. Tedeschi), Comunicare la sociologia
2. (E. Galazzi), Linguistica e interstizi
3. (P. Volonté), Fra parole e immagini nella fisica
4. (F. Introini), Verso una scienza della testimonianza
5. (C. Pasqualini), Scrittura e interstizialità in Edgar Morin
- (F. Lesemann), Le GIRA: Un réseau de réseaux transdisciplinaires de recherche sur les Amériques
- (F. Melzi d’Eril), François Cheng: ‘Laurea honoris causa’
2 Libri & Scritti
- (E. Tedeschi), Sociologia e scrittura. Metafore, paradossi, malintesi: dal campo al rapporto di ricerca
- (F. Rigotti), M. Indiveri, V.M. Bonito, N. Novello (a cura di), Finisterrae. Scritture dal confine
- (S. Tomelleri), E. Morin, C. Pasqualini, Io, Edgar Morin. Una Storia di vita
- (M. C. Tarsi), G.L. Beccaria, Per difesa e per amore
- (G. Gasparini), V. Cesareo, I. Vaccarini, La libertà responsabile. Soggettività e mutamento sociale
- (G. Leonelli), G. Gasparini, Un folle volo. Note ed esercizi di critica empatica
3. Arte & Comunicazione
- (C. De Carli), Arte e spiritualità nei chiostri dell’Università Cattolica
- (A. Valente), La Passione, l’evento che accade ancora
- (A. Dall’Asta S.I.), Mostra ‘Vite Murate’
4. Vita quotidiana
- (C. Cristofani), Angoli di Terra
- (G. Gasparini), Ricordando Pierre Sansot, studioso “interstiziale” (1928-2005)
Pubblicazioni recenti
1. Incontri
Forum su ‘Ecrire entre/Scrivere tra’ - (Università Cattolica, Milano, 8 marzo 2007):
1. Comunicare la sociologia
Il seminario «Ecrire “entre”» ha rappresentato, per i «soggetti scriventi» delle scienze sociali, una preziosa e
rara occasione di confronto su un tema, quello della comunicazione scientifica e della qualità della scrittura,
solitamente trascurato dai sociologi. Il format dominante della comunicazione sociologica è ormai quello
conformista e anodino imposto dalle riviste scientifiche anglosassoni, che ingabbia le interpretazioni sociologiche in schemi standardizzati (Gasparini), incapaci di restituire al lettore lo spessore della ricerca,
l’entusiasmo della scoperta, la poesia della relazione che il ricercatore sperimenta sul campo e nel processo
di costruzione dei dati. Questi sono sempre il risultato di una negoziazione e di un «patto» non scritto con gli
attori sociali, ovvero il «punto cieco» che il gruppo sociale rappresenta per il sociologo (Colombo). La ricerca sociale implica una «pratica della differenza» (Demetrio) che, se viene sottratta al testo, produce un resoconto scientifico finale mutilato e muto, privo di tutti quei saperi e di quelle pratiche e metodologie di raccolta e relazione che il sociologo attiva, sul campo, con creatività e immaginazione. Certo, non si può ridurre la
sociologia soltanto a una questione di buona scrittura, né è possibile confondere la sociologia con la letteratura. Tra le numerose differenze fra queste due discipline (che i sociologi più rigorosi intendono mantenere distinte), mi sembra si possa accogliere quella suggerita dal dibattito seminariale: se letteratura significa «inventare mondi possibili» (Demetrio), la sociologia forse può essere definita come l’osservazione e la descrizione di mondi possibili. Occorre essere consapevoli della centralità della scrittura nel processo di produzione sociologico. La missione della nostra disciplina è osservare e descrivere. Poi, interpretare (consci che già
nell’osservazione e nella descrizione stiamo parzialmente interpretando). In questo primo passaggio, emerge
il valore della scrittura come il luogo della separazione e della distanza, senza le quali saremmo eccessivamente coinvolti dal campo: uno sguardo troppo ravvicinato coglie solo il dettaglio e tralascia l’insieme. La
scrittura aiuta a guadagnare quel distacco che definisce lo scienziato sociale. Augé lo chiama: «il non-luogo
personale e la messa a distanza». Ma la scrittura è anche traduzione, meglio: «trasposizione» secondo Augé.
La traduzione rimanda a un gesto meccanico, sostenuto dal vocabolario; la trasposizione, in musica, è un salto di tonalità, è un mutamento gestaltico, che però mantiene inalterati i rapporti fra i gradi della scala. Quindi
è un trasportare un significato da una cultura a un’altra, cambiando la struttura sintattica e grammaticale, ma
cercando di ritrovare un senso e un’affinità del sentire che avvicini le due culture (quella dei «nativi», descritti dalla sociologia, e quella dell’osservatore de-scrivente). Un altro passaggio fondamentale è quello di
sottoporre le proprie descrizioni di realtà agli altri: ai pubblici della sociologia, che vanno dagli studenti, ai
curiosi, alla comunità scientifica. Comunicare la sociologia significa assumersi la responsabilità della qualità
della scrittura, perché l’opera è ormai aperta, come già da tempo ha spiegato Umberto Eco, ed è completa
soltanto quando il lettore la realizza, ricodificandola secondo il suo gusto e la sua competenza, costruendo
significati che non sempre sono voluti dall’autore. Ecco perché la sociologia deve assumersi la responsabilità
della sua scrittura, studiando e portando attenzione ai suoi pubblici, e agli usi e alle pratiche che tali pubblici
attivano nel processo della lettura. Tenendo sempre ben presente che un testo sociologico sostenuto da una
buona scrittura è certo più attraente, ma soprattutto è più convincente (Rigotti).
Enrica Tedeschi, Università di Roma Tre
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2. Linguistica e interstizi
Il seminario Ecrire “entre”/Scrivere “fra” ha fatto crescere in me il desiderio di avventurarmi con maggiore
energia negli interstizi, di fare ricerca in luoghi di confine laddove il linguista può rimettere in gioco le sue
conoscenze e, perché no?, le sue certezze. Invitata alcuni anni fa ad un convegno ove il meticciato culturale
contemporaneo era affrontato dai punti di vista antropologico, urbanistico, letterario, storico e linguistico,
avevo creduto ad un eccesso di amicizia gratuito prima di prendere coscienza della connessione stretta, direi
quasi necessaria, di tali discipline nell’interrogare una realtà ibrida (l’ibridismo di Bhabha) ormai corrente,
che ci interpella da diverse angolature. Le voci delle città, tentacolare e cosmopolita, le periferie, i nonluoghi di Marc Augé che occupano spazi geografici e simbolici incisivi, mi hanno poi attratta e affascinata
attraverso gli scritti scientifico-letterari di alcuni sociologi, in particolare David Lepoutre con il suo indimenticabile Coeur de banlieue (1997) e Stéphane Beaud con Pays de malheur! (2004), récit de vie che destabilizza quanti osano leggerlo fino all’ultima pagina. Senza contare il film L’Esquive, che lascia i nostri studenti
attoniti e curiosi della realtà e del linguaggio dei loro coetanei delle cités. L’interdisciplinarità è un prezioso
arricchimento e quasi una necessità della ricerca nelle zone di frontiera tra le aree disciplinari. Lo spunto per
una seconda riflessione mi è offerto da varie allusioni fatte durante il seminario (dai Professori Gasparini,
Rigotti e da altri) sul “come “redigere un testo scientifico, altro argomento cruciale proposto ogni anno
all’attenzione degli studenti. Nei paesi che prevedono prove di valutazione scritte per le materie non linguistiche, il quesito del peso da dare alla lingua resta reale e dibattuto. Contrariamente ad un luogo comune obsoleto ma tenace che vede il contenuto delle scienze primeggiare incontestato sulla lingua, pellicola di trasmissione accessoria e per così dire trascurabile, sono convinta che esiste un’estetica del testo scientifico,
corrispondente ad un ideale di chiarezza, precisione, non ambiguità, concisione, ricchezza informativa…Ma
c’è di più. Jack Goody insegna che il linguaggio non è solo lo strumento esterno della comunicazione del sapere: la scrittura non è solo una forma di presentazione del sapere ma ne determina i contenuti. In altre parole, come ha scritto Marc Lévy Leblond, un fisico che ha riflettuto in modo approfondito sull’argomento, “La
langue tire la science”: la scrittura, il pensiero scritto (si parla beninteso della lingua materna ), apre la via ad
uno sviluppo critico e creativo del sapere.
Homi Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 1999; Matilde Callari Galli,Danielle Londei, Anna Soncini Fratta (a cura di), Il meticciato culturale. Luogo di creazione, di nuove identità o di conflitto?, Clueb, Bologna 2005; Jack Goody, La raison graphique [1977], Les Editions de Minuit
1979; Jean Marc Lévy Leblond, «La langue tire la science», in La pierre de touche. La science à l’épreuve, Folio Gallimard, 1996, pp. 228-251.
Enrica Galazzi, Università Cattolica, Milano
3. Fra parole e immagini nella fisica
Come tutte le figure di scienziati, anche i fisici sono soggetti scriventi. Non solo nel senso più immediato per
cui producono, in collaborazione coi loro macchinari, grandi quantità di quelle che Bruno Latour chiamerebbe iscrizioni letterarie, ma anche nel senso più rigoroso per cui sono, nella loro stessa identità professionale e
sociale, dei rivendicatori di conoscenza, e usano quindi la scrittura come lo strumento professionale fondamentale. Questo tuttavia non basta a farne degli scrittori, dei soggetti capaci di fare uso della libertà che la
scrittura concede loro (secondo la definizione proposta da Giovanni Gasparini). Come descrivere
l’atteggiamento dei fisici rispetto alla scrittura? Quali indicatori utilizzare? La via più facile potrebbe passare
per esempio attraverso la misura della ricchezza lessicale dei loro testi. Voglio proporre, invece, una strada
meno ovvia ma ugualmente istruttiva. L’idea di base è che nella scrittura letteraria l’immagine sia sempre solo un commento al testo: la parte interstiziale, la finestra aperta e poi subito richiusa, che avrebbe potuto anche non esserci senza che il significato ne restasse compromesso. Contingente, inessenziale, anche quando
istruttiva e utile. Qualora, al contrario, il testo divenisse commento all’immagine, ovvero interstizio tra le
immagini, didascalia, fumetto, sottotitolo (come per esempio nel fotoromanzo), allora la scrittura non sarebbe più letteraria. La sua funzione di complemento limiterebbe, infatti, la libertà concessa all’autore. Che accade nella fisica? I fisici fanno naturalmente uso di immagini: fotografie, tabelle, schemi e, soprattutto, grafici. In questo i loro testi non sembrano discostarsi molto da quelli delle scienze sociali. Ma c’è una differenza
fondamentale. Se lo scienziato sociale usa di norma immagini e grafici per supportare visivamente un discorso che è in sé, intrinsecamente, letterario, il fisico usa abitualmente il linguaggio verbale per supportare acusticamente o mentalmente un discorso che è in sé, intrinsecamente, iconico. Esempi empirici potrebbero
chiarire meglio questa affermazione. La rivendicazione di conoscenza del fisico passa solitamente attraverso
un testo che non parla da solo, che non svolge un discorso compiuto – se si prescinde dall’apparato iconico
di cui si circonda. Non è un testo, ma sono brani di testo, didascalie di quel vero testo che è il grafico, che agli occhi del fisico invece – lui sì – parla da solo.
Paolo Volonté, Università di Bolzano
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4. Verso una scienza della testimonianza
Ci sono due modi di interpretare il titolo dell’incontro seminariale “scrivere tra”. Il primo fa riferimento
all’attitudine del ricercatore e alla sua capacità di mantenere, nelle sue attività di ricerca, una significativa attitudine multidisciplinare, occupandosi, parallelamente, di scienze sociali e letteratura. In questo caso si tende a sottolineare il guadagno complessivo della riflessività dello scienziato che può giovarsi di importanti
contributi per coltivare ispirazione, “pensiero laterale” e immaginazione sociologica. Ma le produzioni – gli
scritti letterari e scientifici – rimangono ben distinti. Il secondo modo di intendere il senso di “scrivere tra”
chiama invece in causa lo statuto epistemologico delle scienze sociali e ci interpella circa l’esistenza, la consistenza del loro confine con la letteratura e la legittimità del suo attraversamento. Nessun dubbio che un testo estetico-letterario possa esprimere contenuti di interesse sociologico, così come è ormai fuori dubbio che
le scienze sociali possano eleggere il testo estetico-letterario a proprio oggetto di indagine e illuminare in esso e per suo tramite l’esistenza di peculiari processi in quelle province finite di significato che sono gli ambiti della produzione artistica e culturale. Smuove interrogativi più radicali – o comunque solleva la necessità
di maggiori attenzioni sul piano metodologico – la possibilità di comprendere attraverso i testi estetici e letterari la “società in sé”. In questo caso, infatti, il materiale “mitico” – in senso semiotico – dischiuso dalle produzioni estetiche non consente un accesso diretto, ingenuo e immediato ad un “referente” storico sociale: il
“caso Toaff” che ha occupato per settimane le pagine culturali e non solo dei nostri quotidiani, o le critiche
mosse a René Girard e al suo uso delle Sacre Scritture e dei miti arcaici come “prove” sono la più chiara esemplificazione della questione cui stiamo alludendo. Ma la domanda più radicale e finora differita che scaturisce a livello epistemologico dall’accostamento di letteratura e scienze umane è quella circa l’effettiva esistenza di un loro confine. Sulla scia della duplice svolta postmoderna e “debolista” delle scienze umane e sociali, questo confine si è andato via via assottigliando, fino a formulare la distinzione tra i due ambiti in termini di “generi letterari”. Cosa si vuole davvero dire con questa affermazione? Dal mio punto di vista, dipende da chi la enuncia. Può tanto coincidere con la totale negazione dello statuto di scientificità delle scienze sociali rispetto ad altri domini della conoscenza e in questo caso le scienze sociali scivolano nel letterario
inteso come mero “espressivo”. Oppure può essere affermazione di stampo costruttivista e in questo caso
“letterario” diverrebbe metafora per significare l’impossibilità di qualsiasi scienza a fondare l’oggettività dei
propri asserti in base alla conformità a un supposto “reale in sé”. Insomma: scientifico uguale oggettivo, letterario uguale soggettivo. Dacché hanno cercato di darsi uno statuto autonomo, le scienze sociali hanno sempre dovuto fare i conti con la soggettività. Si è cercato di eluderla, oppure di farne il centro per la costruzione
di nuovi modelli e paradigmi di conoscenza e oggettività. Può irritare il fatto che, recandosi nelle grandi librerie, gli scaffali delle scienze sociali siano un trionfo di libri ben diversi da Il Sistema sociale, spesso a cura
di giornalisti e professionisti della comunicazione spesso molto più abili – questo è vero – di noi sociologi a
scovare nelle pieghe dell’attualità argomenti intriganti e di indubbia rilevanza sociale. Quante volte anche
noi abbiamo detto sdegnati, nella migliore delle ipotesi, “ma questa è letteratura!”. Lo stesso mondo
dell’informazione e dell’opinione pubblica sta tuttavia mutando. Alcune ricerche condotte con il pubblico
della stampa mostrano chiaramente che i lettori, sospettosi dell’informazione che si vuole presentare come
“oggettiva”, spesso preferiscono informatori che dichiarino apertamente il proprio punto di vista “ideologico”. Come dire: l’oggettività non sta nel debrayage dell’enunciatore, ma piuttosto nel suo embrayage, nella
chiara enunciazione dei presupposti a partire da cui si osserva il mondo e si scrive. Se anche l’oggettività, per
dirla con Eco, è un effetto di senso della scrittura, tanto vale allora la soggettività. Stiamo entrando, a mio
modo di vedere, in un’epoca orientata alla testimonianza “in presa diretta”. È con questa che, probabilmente,
ora devono confrontarsi anche le scienze sociali. E nel fare ciò, possono tornare a volgersi all’antropologia e
alla scrittura del suo sapere, che per prime hanno saputo avvicinarsi a questa declinazione “testimoniale” della conoscenza.
Fabio Introini, Università Cattolica, Milano
5. Scrittura e interstizialità in Edgar Morin
All’interno del panorama della sociologia contemporanea, uno studioso che tiene insieme molte delle parole
chiave che sono state richiamate all’attenzione nel seminario “Ecrire entre/Scrivere tra” mi sembra essere
Edgar Morin. Innanzitutto perchè nella sua persona e nel paradigma da lui coniato, ovvero il paradigma della
complessità, Morin riunisce e sintetizza l’idea di interstizialità e di interdisciplinarità, offrendoci inoltre un
esempio concreto di come sia possibile “scrivere fra”. Una scelta intellettuale, quella di Morin, non priva di
costi, in termini di riconoscimenti accademici. Negli anni Cinquanta, quando come ricercatore di Sociologia
iniziò la sua carriera al CNRS di Parigi, non fu facile per lui confrontarsi con l’allora prassi di ricerca imperante. A Parigi, così come probabilmente nel resto del mondo, ciascuno studiava e faceva ricerca dichiarando
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una forte appartenenza disciplinare, evitando il più possibile gli sconfinamenti, ritenuti addirittura pericolosi.
Il suo essere tra, il suo essere sociologo ma non solo sociologo, il suo richiamo costante al dialogo con le altre scienze lo hanno fatto apparire al mondo accademico un outsider. Sin dai suoi primi studi socioantropologici, Morin comprese che per studiare l’uomo non poteva non confrontarsi con discipline e con linguaggi differenti come quello del cinema, della letteratura, della poesia, dell’antropologia, della sociologia,
così come della biologia e delle scienze cognitive. Di qui l’interstizialità e lo stile inter/transdisciplinare di
Morin, ovvero il tentativo di studiare i fenomeni antropologici e sociali con un metodo della complessità, un
metodo che tesse insieme, annoda e riannoda saperi, discipline, linguaggi, stili narrativi differenti. Ma veniamo brevemente alla questione dello “scrivere tra”. La liaison tra pensiero e vita, tra soggetto e oggetto è
uno dei principi cardine dell’epistemologia moriniana, che trova pertanto un’evidente declinazione anche
nella sua scrittura. A testi di natura socio-antropologica ed epistemologica egli ha affiancato testi autobiografici, testi in cui il soggetto analizza il soggetto, il soggetto osserva se stesso mentre conosce l’oggetto: autobiografie (Autocritica; Il vivo del soggetto; I miei demoni; Io, Edgar Morin) e diari (Diario di California;
Diario di un libro), molti dei quali pubblicati. Nei diari, così come nelle autobiografie, egli racconta la vita
quotidiana ma al contempo riflette sui principali eventi e mutamenti socio-culturali che si trova a vivere. Lo
stile narrativo di questi lavori è chiaramente differente da quello delle sue opere scientifiche, ma il suo intento primario (e credo ben riuscito) è proprio quello di pensare le due tipologie di scrittura come complementari. Quando negli anni Novanta scrisse il volume Per uscire dal XX secolo, Morin decise di tenere un diario di
questo libro, pubblicato con il titolo Diario di un libro. I due testi, nella loro diversità, sono assolutamente
sinergici. Il libro e il diario del libro sono un esempio di come sia possibile scrivere tra, di come, da forme
scritturali differenti, si possano ricavare spunti interessanti per cogliere “lo spirito del tempo”. Lo stesso
Marc Augé, africanista prima e antropologo dei mondi contemporanei poi, che da sempre pubblica ricerche
di natura antropologica, di recente si è confrontato anche con la letteratura, dando alle stampe un romanzo
dal titolo La madre di Arthur. La strada sembra dunque tracciata, ora sta a noi scegliere di proseguire in questa direzione…
Cristina Pasqualini, Università Cattolica, Milano
Le GIRA: Un réseau de réseaux transdisciplinaires de recherche sur les Amériques
Le GIRA est un regroupement, un réseau de réseaux d’environ 80 chercheurs de divers horizons nationaux
des Amériques (principalement du Canada, du Mexique, d’Argentine et du Brésil) et disciplinaires des sciences humaines qui s’interrogent – à partir de leurs ancrages nationaux, institutionnels et disciplinaires respectifs, de leurs intérêts et thématiques de recherche propres – sur leur identité et sur leurs responsabilités individuelles et collectives de chercheur travaillant dans les Amériques. Les membres du GIRA se définissent
comme des acteurs réflexifs, c’est-à-dire qu’ils se conçoivent comme participant de et à la transformation des
cadres culturels et sociaux prévalents. Ils prennent acte que la réalité ne cesse de dépasser ces cadres établis
et en contestent le bien-fondé et le caractère souvent normatif. Aussi s’efforcent-ils de se décentrer des cadres et des espaces reconnus, qu’ils soient nationaux, institutionnels ou disciplinaires, afin d’aider à transformer les regards et les perspectives d’action. En tant qu’acteurs réflexifs, les membres du GIRA
s’inscrivent dans un projet de changement culturel et social qui vise la promotion et la consolidation des valeurs humanistes fondées sur la reconnaissance des droits et de la citoyenneté dans le cadre d’un "espace public démocratique" en partie constitué, mais surtout à constituer à l’échelle des Amériques. C’est dans la
perspective d’une compréhension continentale que le GIRA se définit d'emblée par ses interactions avec plusieurs chercheurs et groupes de recherche disséminés aux quatre coins des Amériques, et qui partagent ces
mêmes questionnements. Ces collaborations et échanges ont permis au GIRA de construire progressivement
sa problématique de recherche au cours des huit dernières années, en mettant en lumière et en développant
un questionnement commun à l’échelle continentale sur ce qu’est et ce que signifie le continent américain en
termes de productions identitaires, de frontières, de rapports entre langues et cultures, de mouvements de
population, de développement social, de productions culturelles, etc. Chacune des sociétés du continent américain participe du processus de globalisation en cours qui intensifie et transforme les relations entre les peuples, entre les ethnies et les groupes culturels à l’intérieur des ensembles nationaux, ainsi que les rapports entre État et société civile. Ce processus contribue à produire et à accélérer des mécanismes de métissages
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culturels, de "brouillage" de frontières (aussi bien géographiques, politiques que symboliques),
d’épuisements des institutions traditionnelles, mais aussi de production de nouvelles synthèses culturelles.
Pour informations, voir le site www.gira.info. Le Groupe interdisciplinaire de recherche sur les Amériques
(GIRA, www.gira.info). Informations: [email protected], coordinateur du GIRA
Frédéric Lesemann, Université du Québec, Montréal
‘Laurea honoris causa’ (Lingue e letterature straniere) a François Cheng, Università degli Studi di
Bergamo - 6 marzo 2007
Nel discorso pronunciato il 19 giugno 2003 in occasione del suo insediamento all’Académie Française, François Cheng non esitava a definirsi un itinerante la cui “quête” non conosce confini e limiti di tempo. Il suo
destino di errant come lui stesso l’ha più volte definito e ripercorso nel suo primo romanzo, Le Dit de Tianyi, largamente autobiografico, è racchiuso in un’immagine, quella di un monaco taoista errante, riconoscibile
da lontano per il suo largo cappello di paglia e la sua tunica svolazzante, la cui vita era stata un’ininterrotta
tensione nostalgica degli spazi celesti. Questa icona del monaco errante ci guida alla conoscenza di François
Cheng, “pellegrino dell’Occidente,” dal momento in cui nel 1949 mette piede sul suolo francese grazie a una
borsa di studio di due anni. In seguito al cambiamento di regime nel suo paese, François Cheng prenderà la
decisione di non rientrare nel suo paese e di fermarsi in Francia. Non conoscendo ancora bene il francese
Cheng attraverserà un periodo di “ mutisme absolu” e dovrà affrontare il mestiere più difficile che nessun libro può insegnare, quello di esistere. Malgrado le enormi difficoltà materiali in cui si dibatteva, Cheng frequenterà i corsi della Sorbonne, quelli di Demiéville al Collège de France, leggerà avidamente tutta la letteratura francese. Nel 1960 comincia a pubblicare a Taiwan e a HongKong traduzioni di Baudelaire, di Rimbaud, di Laforgue, di René Char, di Michaux. Entrerà inoltre progressivamente in contatto con Lacan, Levinas, Roland Barthes, Gilles Deleuze. Dopo aver ottenuto la cittadinanza francese nel 1971, insegnerà
all’Università di Paris VII e in seguito all’Institut des Langues Orientales. Per la cultura cinese, una visione
cosmologica e globale si basa sui principi del Soffio e del Vuoto mediano, materia e spirito, irrinunciabile
luogo di circolazione vitale che coinvolge lo Ying e lo Yang, in un processo di mutua interazione. Il Soffio
ha dunque nel pensiero cinese un contenuto etico poiché, secondo il confucianesimo, la sorgente della morale
umana è proprio quel Soffio che regge l’universo. A partire da questo concetto il pensiero cinese ha proposto
una concezione unitaria dell’universo: lo stesso Soffio muove gli astri, anima gli atti creativi dell’uomo che
appartengono alla vita dell’universo. Da cinquant’anni Cheng vive fra due culture, “porteur” di due lingue,
quella cinese e quella francese cariche di tradizione e di storia, eppur tanto diverse. Egli ha operato la scelta
del francese come strumento della sua creatività senza escludere la sua lingua d’origine ma anzi innescando
un processo dialogico mai interrotto fra il pensiero cinese e quello occidentale.
Francesca Melzi d’Eril, Università degli Studi di Bergamo
2. Libri & Scritti
E. Tedeschi, Sociologia e scrittura. Metafore, paradossi, malintesi: dal campo al rapporto di ricerca,
Laterza, Roma-Bari 2005.
Questo lavoro nasce da un disagio: quello del ricercatore che ha lavorato a lungo sul campo e che percepisce
come malessere il contrasto, talvolta notevole, fra i numerosi livelli di scrittura che il campo richiede (fra i
quali abbondano le descrizioni dei paesaggi esterni ed interiori) e la scrittura “oggettiva” e asettica cui si allineano i resoconti finali di ricerca e, ancor più, le stesure finali dei nostri libri. Come già denunciava Robert
Merton, i libri di metodologia presentano schemi ideali di come si debba condurre la ricerca sul campo, di
quali siano i comportamenti e gli atteggiamenti raccomandati. Ma chiunque abbia fatto ricerca sa quanto siano irrealistiche le prescrizioni dei manuali e quanta capacità di problem solving occorra per risolvere le innumerevoli insidie del campo. Insidie teoriche e metodologiche (di focalizzazione dell’obiettivo, di corretta
raccolta dei dati), ma anche insidie relazionali e di ruolo (i rapporti con gli attori sociali, con gli informatori,
l’immagine del ricercatore sul campo). La scrittura asettica predicata dalla monografia ottocentesca rimuove
fallimenti e ostacoli, cadute ma anche felici momenti di serendipity, ignorati dai manuali ma molto frequenti
sul campo. Soprattutto, la scrittura accademica rimuove la soggettività del ricercatore, che sarebbe utilissima
per comprendere lo sviluppo del lavoro empirico, le reali procedure messe in atto, i problemi relazionali e le
conseguenti distorsioni del significato. La pratica di una scrittura autoriflessiva viene consigliata, in questo
lavoro, come strumento di ricerca e come metodo di raccolta, elaborazione, analisi dei dati, soprattutto nella
fase etnografica del lavoro sociologico, caratterizzata dalla stesura delle note di campo, dalla raccolta delle
interviste, dalla riflessione sulle memo teoriche e metodologiche. Viene proposta, infine, una rivisitazione
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della grounded theory di Glaser e Strauss (1967), come ipotesi di sviluppo di una scrittura capace di restituire il più possibile al lettore le condizioni di produzione della ricerca.
Enrica Tedeschi
M. Indiveri, V. M. Bonito, N. Novello (a cura di), Finisterrae. Scritture dal confine, Carocci, Roma
2007.
Libro «interstiziale e intersettivo» quant’altri mai, questo bel Finisterrae. Scritture dal confine, giacché il
confine è per eccellenza la striscia che apre e chiude, che separa e unisce; è il margine su cui la cosa termina
e inizia, il tracciato di diverse e possibili coesistenze. In uno dei saggi che compongono il volume Antonio
Prete insiste sull’orizzonte e la sua poetica: e dell'orizzonte pone in rilievo il suo essere la linea che mette in
scena la presenza dell’altrove e insieme la sua esclusione, che «circonda, contiene, definisce, ma allo stesso
tempo sfonda, disperde, sorpassa» [p. 54]. Unisce e separa, l’orizzonte, terra e cielo, Gea e Urano, anzi, è il
loro talamo nuziale sul quale essi si amano, si toccano, si abbracciano, si congiungono. E la finestra, di cui
scrive Roberto Fiorini ad essa affacciandosi, che cos’è se non soglia, bordo, limite dell'interno con l’esterno,
margine, bordo, recinzione? Persino il territorio urbano, nel saggio di Antonio Clemente, o meglio l’attraversamento di esso, non è visto come spostamento per arrivare a destinazione, viaggio per raggiungere la meta:
è piuttosto frequentazione di uno spazio tra «partenza e arrivo; movimento e stasi; velocità e rallentamento;
riflessione e intuizione» [p. 117]. Infine, gesto interstiziale, gesto del limite appare, in questa lettura, il saluto, e qui bisogna fermarsi a ringraziare Magda Indiveri per il saggio più intrigante della raccolta (Lo «dolcissimo salutare». Bordi dell'incontro e del congedo). Salutare è, più d'ogni altro gesto e fenomeno qui analizzato, riconoscere il limite, dare un bordo ma anche esprimere un desiderio di integrità – ti saluto dunque ti
auguro buona salute – nel momento di un addio inteso come sporgersi da un margine sconosciuto: Beatrice
che passa e saluta Dante o «altrui». Saluto insomma come esercizio di indugio, di esitazione sul margine, di
starvi sopra leggeri. dondolanti e sospesi.
Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana, Lugano
E. Morin, C. Pasqualini, Io, Edgar Morin. Una Storia di vita, FrancoAngeli, Milano 2007.
Da quasi un secolo gli scienziati sociali studiano le profonde trasformazioni in corso nello spazio di senso e
di azione della nostra vita quotidiana. Viviamo in una situazione sociologica e antropologica inedita: l’epoca
moderna è stata il luogo di nascita della democrazia, con i suoi principi di solidarietà, uguaglianza, fratellanza; della mondializzazione e dell’accelerazione del progresso tecnoscientifico, che hanno generato un benessere diffuso nelle società occidentale; ma la modernità è anche il luogo della concorrenza e delle disuguaglianze sociali, che a vari livelli della vita sociale, planetario e locale, alimentano un legittimo risentimento.
Nelle nostre pratiche quotidiane affiorano nuove domande, nuovi modi di esercitare la conoscenza e il sapere
sull’uomo. La complessità delle situazioni e i modi nuovi in cui la conoscenza interviene a regolarne gli sviluppi richiedono forme nuove di riflessione e governo. Il libro di Edgar Morin e Cristina Pasqualini Io, Edgar Morin. Una Storia di vita, nato da una conversazione durata più di due anni, è un importante tentativo
di ricostruzione biografica di un pensiero antropologico e sociologico, quello di Morin, che ha cercato nel
corso della seconda metà del Novecento di tenere insieme e dare un senso alla complessità umana contemporanea. Nel libro si cerca di ricostruire il legame tra la storia di vita e la storia delle idee di Morin attraverso
tre dialoghi: sulla esperienza di vita del pensatore francese (la seconda guerra mondiale, la resistenza contro
il nazismo), sul rapporto tra il suo pensiero e la sua biografia, e infine sulla condizione umana nell’epoca
planetaria. Cristina Pasqualini ha anche dialogato con alcuni studiosi italiani che, a loro volta, in modo unico
e originale, hanno fatto proprio e rielaborato, nei loro differenti ambiti disciplinari, la lezione moriniana: Alberto Abruzzese, Gianluca Bocchi, Fausto Colombo, Giovanni Gasparini, Giuseppe Gembillo, Mauro Maldonato, Sergio Manghi e Oscar Nicolaus. Come ha scritto Mauro Ceruti nella Prefazione al volume, l’opera
di Morin “ci appare oggi come una grande pedagogia per il nuovo cittadino planetario, i cui modi di pensare
possono essere all’altezza delle sfide dei nostri tempi, sempre più complesse e diversificate. Ecco allora
l’importanza di questo libro, una testimonianza biografica e intellettuale che Edgar Morin ha voluto ricostruire e ripercorrere con Cristina Pasqualini, scelta, attraverso una sorta di naturale filiazione, come sua biografa”.
Stefano Tomelleri, Università degli Studi di Bergamo
G. L. Beccaria, Per difesa e per amore, Garzanti, Milano 2006.
La lingua italiana dei nostri giorni è sottoposta a un vero e proprio assedio da più direzioni: un turbinio di parole, caotiche, concitate, confuse, che si affollano a informare, suggerire, persuadere, che siamo spesso co-
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stretti a subire più che a dominare e usare. La lingua dei giornali, della televisione, di internet, della pubblicità, degli slogan è continuamente alla caccia del potenziale “cliente”: uno straripante “mare di voci” moltiplica all’infinito i messaggi, mentre si va perdendo la coscienza del ruolo insostituibile della parole come atto
linguistico e comunicativo, cioè come momento di conoscenza e appropriazione della realtà, e condivisione
(comunicazione) con l’altro. La lingua italiana rischia l’appiattimento dello stereotipo del linguaggio burocratico, o all’opposto è forzata dall’esuberanza innaturale delle parole “alla moda”, quelle della pubblicità e
dei mass media; dopo un periodo di fruttuoso interscambio tra dialetti, varietà regionali e lingua nazionale,
essa va livellandosi inesorabilmente; anacronistica nei burocratismi duri a morire ed è nello stesso tempo incalzata da neologismi e forestierismi, che rischiano di impoverirla. Il volume di Beccaria, che si mantiene su
un tono piacevolmente colloquiale, è un viaggio appassionato attraverso l’Italia linguistica di oggi e disegna
un panorama sfaccettato e problematico, ma senza scivolare nei facili toni apocalittici di un’ingiustificata
“fantalinguistica” che proclami l’inevitabile fine dell’italiano. La lingua italiana ha infatti una solida tradizione di cultura ed è proprio questa a rappresentare l’unica “difesa” efficace del nostro patrimonio linguistico: il ricorso alla lettura, alla riflessione cioè sui testi, necessariamente lenta, meditata, e alla letteratura, nella
quale si racconta la nostra storia di uomini, il nostro destino comune. È solo fermandosi a riflettere su quanto
è nei libri che si può capire il senso delle parole che usiamo e sentiamo, il senso del nostro operare quotidiano.
Maria Chiara Tarsi, Università Cattolica, Milano
V. Cesareo, I. Vaccarini, La libertà responsabile. Soggettività e mutamento sociale, Vita e Pensiero, Milano 2006.
Si tratta di un libro impegnativo e ambizioso, frutto di un lungo lavoro e di un confronto serrato con la teoria
sociologica e il pensiero sociale dell’ultimo secolo. Mi sembra che esso si ponga all’intersezione di tre prospettive, che metaforicamente chiamerei una stanza e due porte. La stanza è quella della Sociologia: una
grande camera ricca di analisi e proposte, che spaziano dai classici agli autori contemporanei più in vista; essa viene percorsa nella sua ampiezza facendo leva su una serie di figure caratteristiche, dall’homo sociologicus all’homo psychologicus (bollato per il suo minimalismo che combina “elevata soggettività e bassa significatività esistenziale”), con una fiducia forse eccessiva nella capacità di tenuta attuale degli ideal-tipi weberiani. La prima porta è quella della Filosofia: il discorso tiene aperta stabilmente questa prospettiva, dal momento che mette insieme ripetutamente sociologi e filosofi sociali di grande respiro, come Jurgen Habermas
e Charles Taylor; verso quest’ultimo s’indirizzano apertamente le simpatie degli autori. La seconda porta,
una soglia anch’essa spesso superata nel testo, è quella della Politica sociale, a cui allude apertamente l’homo
civicus (il tipo più adeguato ed equilibrato, secondo Cesareo e Vaccarini) e si indirizzano una serie di indicazioni sullo stato regolatore e il Welfare. La proposta teorica centrale che viene elaborata è quella di ricorrere
al termine e concetto di “persona” in luogo di individuo o attore, come è frequente invece nelle scienze sociali: si tratta di un orientamento condivisibile, a patto di indicare quale stanza si intenda scegliere, se quella
della Sociologia o quella della Filosofia sociale. Per finire, mi sembra che manchi nel volume un tipo sociologico sempre più diffuso nei sistemi contemporanei: si tratta dell’homo praecarius, con tutto il carico di disagio e di problematicità irrisolta che portano i milioni di persone (lavoratori? cittadini?) le quali oggi lo rappresentano.
Giovanni Gasparini, Università Cattolica, Milano
G. Gasparini, Un folle volo. Note ed esercizi di critica empatica, Mimesis, Milano 2006.
Il volume di Gasparini porta in esergo i versi danteschi dell’Inferno che evocano l'impresa di Ulisse: “de' remi facemmo ali al folle volo”. Se questa ardita metamorfosi della nave(pesce) in uccello è portata al suo grado ulteriore, al suo compimento, il volo diventa pensiero; pensiero vivente, non mera computazione. Questo
significa il darsi insieme della sapienza del percorso e del fuoco che vi si trasfonde, della necessità e della
libertà, che sono modi di nominare il “pensare con il cuore”. Di chi scrive e di chi legge, al loro unisono.Volo d’uccello questo stesso libro ma anche epifania nel tempo cronologico del tempo ontologico, di
quell’eterno che misteriosamente e incessantemente abita il presente; che attrae a sè uomini e umanità, natura
e cultura, ma anche vi si nasconde e sfugge ogni tentativo di possesso. La metafora dantesca mostra un secondo aspetto, quello del passaggio dalla tecnica, i remi, alla natura, le ali. Così questo libro, che reca il sottotitolo “Note ed esercizi di critica empatica”, vuol essere “remo” per navigare nel mare della poesia e non
subito creazione. Ma anche questi due momenti non possono essere separati nella vita, il fare dal conoscere,
la poesia dalla verità. Il “remo” già nasce per imitazione della natura, dell’intimo suo gesto, non del prodotto
finale. Ed intimo suo gesto non è solo il nuotare del pesce, per se stesso, ma in lui dell'acqua e del mondo;
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così è del verso, in cui “parla” l’aria, così è della critica in cui “parla” il mondo. La vita senza verità langue o
muore, la verità senza vita è sterile o genera mostri. Chi cerca l'eterno, chi vuole abitare lo “spazio” della trasformazione, non può che perdere gli steccati che separano le discipline nel sistema del sapere e correre il rischio del fraintendimento, non può che affidarsi alla certezza d’essere stato e d’essere nel soffio e nella parola di un essere più grande; di aver con dignità voluto ciò che egli per l'uomo vuole, di aver creduto ad una
lingua oltre la diversità dei linguaggi.
Giuseppe Leonelli, medico antroposofo, Milano
3. Arte & Comunicazione
Arte e spiritualità nei chiostri dell’Università Cattolica
La mostra d’arte contemporanea che si è svolta nei chiostri dell’Università Cattolica in preparazione della
Pasqua 2007 ha evidenziato, alla sua quarta edizione intitolata:“Ma voi, chi dite che io sia?”, una crescente
singolarità, all’incrocio di molteplici relazioni, particolarmente vive e significative. Il Centro Pastorale che
ne è il soggetto proponente ha scelto, secondo un’antica e consolidata tradizione della Chiesa che è quella di
aggiornare e incarnare l’annuncio, di raggiungere durante la Quaresima tutti coloro che, a vario titolo, frequentano l’università sul percorso della loro quotidianità. Nel movimento che ha informato il percorso espositivo si possono riconoscere la centralità dell’opera come sorgente di innumerevoli esperienze,
l’intenzionalità educativa, diverse sperimentazioni comunicative, intuibili valenze liturgiche. Raro è anche il
rapporto istaurato con gli artisti invitati, che hanno accettato di misurarsi con gli episodi prescelti del vangelo
di Marco trasponendoli in opere create appositamente per questa mostra, facendo anche ritrovare il senso di
una committenza che, nel lungo corso di storia della Chiesa, ha sempre straordinariamente reso credibile e
avvicinabile il deposito della fede. La mostra è stata realizzabile nella veste di un approccio interdisciplinare
perché, a loro volta, gli storici dell’arte e gli studiosi di teologia hanno suggerito spunti interpretativi, fornendo al fruitore diverse chiavi di lettura, in un processo di ricerca e di approfondimento attivi, in primis, per
chi li ha intrapresi. Tale dimensione propriamente universitaria, di cui si vorrebbe far più spesso esperienza,
si riaggancia al richiamo sul valore della comunità universitaria che Benedetto XVI ha premesso al discorso
di Regensburg e che nobilita il nostro lavoro.
Cecilia De Carli, Università Cattolica, Milano
La Passione, l’evento che accade ancora
Efficace connubio tra Teatro e Preghiera può definirsi il “Passio”, spettacolo sul tipo della Sacra rappresentazione svoltosi all’aperto tra i chiostri dell’Università Cattolica di Milano il 28 marzo 2007. Tratto
dall’opera omonima di Gianni Gasparini (ed. Servitium/Città Aperta 2007), con la regia di Maria Pia Pagliarecci e sotto l’egida del Centro Iniziative Teatrali “Mario Apollonio” e del Centro Pastorale, Passio è stato
molto di più che una via crucis fra gli spazi quotidiani di studenti e docenti, ma una vera e propria occasione
di partecipazione, sotto due punti di vista: da un lato per il diretto coinvolgimento del pubblico, come ad es.
nell’unzione delle mani e nell’accensione dei lumi (II Stazione del Canto), dall’altro per l’insieme di persone
così diverse che hanno lavorato a questo progetto, studenti italiani e stranieri, docenti (tra cui il pro-rettore
De Natale e il prof. Bernardi, promotore del progetto), impiegati amministrativi, bidelli, attori professionisti,
un frate, un coro di quaranta ragazzi, un laureato violinista…Un Canto in nove stazioni per rivivere oggi la
passione, morte e risurrezione di Gesù, alternato a un Contro-canto in tre movimenti sulle passioni e i drammi dell’uomo contemporaneo, hanno in qualche modo stravolto, in un mercoledì prima di Pasqua, la vita universitaria, portando i partecipanti a meditare sulle parole toccanti e forti del testo. Le sette lingue recitate
da studenti di madrelingua portoghese, francese, spagnola, inglese e rumena, oltre all’italiano e al latino, colpiscono e danno all’“Evento” che riaccade un carattere fondamentale, quello della sua universalità. La passione di Gesù duemila anni dopo tocca ancora tutti i paesi, e questo accade ancor più per la passione
dell’uomo contemporaneo che è condivisa da tutte le nazioni del mondo. Particolarmente forte sotto questo
punto di vista è risultato il contro-canto su “La morte violenta”, nel quale si sono innalzate tra la folla un po’
per volta e ripetutamente le diverse lingue “Noi siamo i morti…Nous sommes les morts…Nosotros somos
los muertos…ecc.», mentre gli attori distribuivano ai partecipanti fotografie dei mali e delle sofferenze del
mondo, come testimonianza e segno per non dimenticare.
Alvaro Valente, studente Università Cattolica, Milano
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Mostra “Vite Murate” alla Galleria San Fedele
Muro. Parola usuale, quasi banale, della vita quotidiana. Parola che presuppone uno spazio fisico in cui siamo soliti articolare movimenti e spostamenti. Certo, lo spazio si distende nella relazione a luoghi definiti, ma
questi ultimi non sono mai semplicemente riconducibili a una logica razionale o funzionale. Come ricorda
Genesi, non nasciamo in uno spazio indifferenziato: lo spazio misterioso e oscuro del momento che precede
la creazione, spazio caotico, informe, magmatico, sul quale solo un soffio leggero indica la possibilità di
un’apertura alla vita, attraverso un gesto di separazione che si origina dalla parola divina, schiude dimensioni
di senso, si apre a tempi e spazi separati. Un ordine è posto perché la vita possa essere accolta, in tutte le sue
forme vegetali e animali. Non c’è più indistinta confusione, ma separazione, che permette il crescere della
vita, la trama delle relazioni. È la separazione che crea lo spazio della nostra storia, spazio vitale e vivibile,
sensato: lo spazio fisico si fa spazio vissuto, simbolico. Spazio in cui viviamo la nostra intimità personale.
Spazio condiviso, di uomini e donne, di famiglie e società. Questo spazio in cui ci si ritrova insieme come
comunità, può divenire anche spazio di conflitti insanabili: dall’una e dall’altra parte dei muri ecco allora le
tensioni profonde della storia, instancabile costruttrice di mura e muraglie, da sempre presidiate da assediati
e assedianti i cui ruoli si confondono nel gioco tragico della paura e della violenza. Non più spazi separati in
cui vivere la pienezza di relazioni interpersonali, come gli spazi compresi dai muri della propria casa e nei
quali prende corpo la pace dei rapporti familiari. Si aprono, invece, spazi delimitati da muri di confine, escludenti e ostili. Soglie che non possono essere oltrepassate, da quando tra al di qua e al di la ogni ponte è
demolito, ogni passaggio soppresso. La separazione diventa muro, impossibilità di comunicare, chiusura,
simbolo di riparo e protezione dal mondo che sta dall’altra parte, percepito come minaccioso, incombente,
pericoloso. Il muro si trasforma, così, nel muro di cinta di una prigione, nel muro di una cella. È un muro che
sprigiona paura, inquietudine, solitudine. Muro di una separazione che si chiama pena, punizione, castigo: e
come ogni separazione imposta genera violenza, in un gioco interminabile e distruttivo di rimandi, finché
nuove ragioni non lo oltrepassano e negano. Solo le ragioni del perdono e della riconciliazione lo rendono
trasparente, come quella bellissima mura di cinta di Gerusalemme, città che nell’Apocalisse di Giovanni
scende dal cielo. Mura di vita e di luce che più nulla devono tenere nascosto, che non racchiudono più rabbia, dolore, vergogna. Non più esistenze da murare, da proteggere o da cui proteggersi. Ben diversi i muri
che oggi attraversano, delimitano e sovrastano i nostri spazi di vita: muri di terribile opacità, incombenti ed
estranianti, come i muri fotografati da alcuni detenuti del carcere di San Vittore, da cui ha origine l’intera
mostra. Muri dell’esclusione e della reclusione. E poi ancora gli altri muri, simboli della cecità dell’uomo
contemporaneo portatrice di dolori, drammi, lacerazioni. Simboli di tutti i muri che si frappongono tra uomini e tra popoli: il muro di Berlino, che squarciava la vita stessa di una città; quello che separa Israele dalla
Cisgiordania; il muro di Ceuta dove migliaia di persone sono pronte a saltare il confine che divide le enclavi
spagnole dal Marocco; il muro tra Stati Uniti e Messico, tra Stati Uniti e Cuba. Muri materiali, di pietra o di
cemento. O muri simbolici, ma non per questo meno minacciosi e inquietanti. Quali sentieri di riconciliazione? Questa è la domanda chiamata ad attraversare la coscienza di ogni uomo perché questi muri possano diventare sempre più trasparenti, perché possano lasciarsi attraversare da cammini di fraternità e di pace.
Andrea Dall’Asta S.I., Direttore della Galleria San Fedele, Milano
4. Vita quotidiana
Angoli di Terra
(Coin de Terre). L’Office International du Coin de Terre et des Jardins Familiaux conta più di 3 milioni di
ortisti associati distribuiti in15 paesi europei. Questa organizzazione interviene presso la Commissione ed il
Parlamento europei per rinforzare la presa di coscienza di quanto gli orti e i giardini familiari siano necessari
per il miglioramento della qualità della vita urbana e debbano essere giuridicamente protetti poiché consentono di svolgere, nella convivialità, un’attività piacevole e salutare per tutta la famiglia, anche in alternativa
alla monotonia del lavoro. Chi volesse approfondire, visiti il sito www.jardins-familiaux.org. E da noi? Male,
anzi malissimo. Nell’accezione comune di Orti Urbani possiamo annoverare miserevoli iniziative comunali,
ridotte per lo più a cronicari di poveri cristi. Nessuna gaiezza, poca qualità ambientale, limitazioni normative
scoraggianti, diffidenza dei residenti circostanti. Eppure ogni “Piano di Governo del Territorio” (novello
strumento della pianificazione urbanistica) prevede obiettivi di basso o nullo consumo di aree, favorendo il
rinnovamento edilizio dei lotti già urbanizzati e la conservazione delle aree agricole. Ma per la fruizione della quota periurbana di queste aree verdi, in passato definite “a standard”, le amministrazioni comunali sono
sempre a corto di buone idee e soprattutto di “buone pratiche”. A Milano sono ben evidenti due contrastanti
esempi di scuola. Nel primo, in via Marco d’Agrate, il Comune ha realizzato un gruppo di nuovi orti a mar-
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gine di un giardino pubblico, ma inaccettabili errori progettuali hanno determinato l’assenza di domande di
assegnazione da parte dei cittadini e gli orti sono stati smantellati con grande spreco di risorse! Nel secondo,
in via Chiodi, accanto al Parco Teramo, campeggia un bel gruppi di orti che, in attesa di un’improbabile collaborazione normativa del Comune, sono stati allestiti in area privata e privatamente regolamentati. Nonostante il canone/mq leggermente superiore a quello comunale, non sono bastati 130 orti a soddisfare le richieste. Qui le attività ricreative familiari, non riservate ai soli pensionati, affiancano gioiose la coltivazione
di ortaggi, favorita da un’efficiente rete idrica di prima falda. Da un’analisi, anche superficiale, del fenomeno, emergono molti dati che dovranno essere ben valutati. Uno per tutti: molti utenti hanno dichiarato di avere eliminato il va e vieni domenicale dalla seconda casa. E in questo paese, devastato dall’urbanizzazione
dissennata delle località turistiche e dal traffico del week-end, ben venga un po’ di vita all’aperto, ma sotto
casa. Il segnale alla pubblica amministrazione è forte e chiaro!
Claudio Cristofani, architetto, Milano
Ricordando Pierre Sansot, studioso “interstiziale” (1928-2005)
Il nome di Pierre Sansot non dice molto agli studiosi e lettori italiani, che ricorderanno forse il suo Elogio
della lentezza (Nuova Pratiche ed., Milano 1999, ed. orig. Paris 1998), libro singolare che testimonia
l’approccio maturato negli ultimi anni dall’autore francese, diventato in Francia notissimo e apprezzato: un
approccio interstiziale appunto, a metà strada tra socio-antropologia della vita quotidiana e racconto autobiografico, tra scienze sociali e letteratura. A partire dagli anni Novanta i libri di Sansot, docente di antropologia
a Montpellier, hanno affrontato le esperienze ordinarie della vita quotidiana in Francia, dal punto di vista della gente normale: la condizione urbana, lo sport, i giardini pubblici, il camminare e il viaggiare, e così via; da
ultimo Sansot aveva pubblicato anche libri di fiction, varcando il confine tra i due tipi di scrittura. Il suo libro
più importante e impegnativo, a cui non è estranea l’influenza di un maestro quale fu Gaston Bachelard, resta
Poétique de la ville (Klincksieck, Paris 1973), uno dei rarissimi studi sulla città in cui l’attenzione socioantropologica al paesaggio urbano si coniuga con una sapiente attenzione alla poetica latente della città: una
poetica che solo un occhio sensibile e lirico può essere in grado di cogliere. Anche per questo si vorrebbe ricordare qui la figura singolare di questo autore quasi ignoto in Italia, di cui un collega francese ha scritto che
“amava insegnare, soprattutto agli adulti, e vi si dedicava con l’energia di un attore sulla scena. I suoi corsi
erano molto apprezzati e attiravano parecchi ascoltatori di ogni disciplina e di tutte le età”. Grazie, Pierre
Sansot!
Giovanni Gasparini
Pubblicazioni recenti
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Marc Augé, Il mestiere dell’antropologo, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
Marc Augé, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Bruno Mondadori, Milano 2007.
René Girard, Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Massa 2006.
Edgar Morin, Il Metodo 3. La conoscenza della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano 2007.
Francesca Rigotti, Il pensiero delle cose, Apogeo, Milano 2007.
Rivista Adultità, diretta da Duccio Demetrio, Etiche, n. 25, I semestre, 2007.
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I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
Tel. 02.7234.2547
Cristina Pasqualini e Fabio Introini
(Segreteria)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
20123 Milano
[email protected]
[email protected]
Tel. 02.7234.3764
Il Gruppo “Interstizi & Intersezioni”:
Piermarco Aroldi, Giovanni Gasparini, Fabio Introini, Cristina Pasqualini, Giovanna Salvioni, Paolo Volonté
Corrispondenti:
Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali)
Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia)
Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies)
Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro)
Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia)
Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte)
Francesca D’Alessandro, Università Cattolica – Milano (Letteratura italiana)
Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica)
Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione)
Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica)
Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design)
Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia)
Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe)
Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche)
Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere)
Giuseppe A.Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia)
Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica)
Alberto Ricciuti, Milano (Medicina)
Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia)
Lucetta Scaraffia, Università La Sapienza di Roma (Storia contemporanea)
Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione)
Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione)
Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia)
Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia:
www.ais-sociologia.it
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