Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 4 – Marzo‑Aprile 2011
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
comitato di direzione
Almerina bove
Corrado d’ambrosio
Alessandro jazzetti
redazione
capo redattore
Mario de Bellis
redazione gazzetta forense
Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo
editore
Denaro Libri Srl Piazza dei Martiri, 58 – 80121 Napoli
proprietario
Associazione: Nemo plus iuris
comitato di redazione
Andrea Alberico
Antonio ArdituRO
Clelia Buccico
Carlo Buonauro
Sergio Carlino
Raffaele Cantone
Alessandra Cesare
Matteo D’Auria
Domenico De Carlo
Mario de Bellis
Andrea Dello Russo
Clelia iasevoli
Catello MARESCA
Daniele Marrama
Raffaele MICILLO
Maria Pia Nastri
Donato PALMIERI
Giuseppe Pedersoli
Angelo Pignatelli
Ermanno Restucci
Francesco Romanelli
Raffaele Rossi
Angelo Scala
Gaetano scuotto
Mariano Valente
comitato scientifico
Fernando Bocchini
Antonio Buonajuto
Aurelio Cernigliaro
Lorenzo Chieffi
Giuseppe Ferraro
Gennaro MARASCA
Antonio Panico
Giuseppe Riccio
Giuseppe Tesauro
Renato Vuosi
n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360° ‑ Roma
nel giugno del 2011
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
Le conciliazioni amministrate. I contratti del servizio di mediazione
9
Fernando Bocchini
Le relazioni industriali dopo Mirafiori 15
Giuseppe Ferraro
Art. 1225 c.c.: applicazione in campo aquiliano e nuova frontiera del danno
non patrimoniale da inadempimento
20
Vittorio Sabato Ambrosio
Il procedimento di equa riparazione ex lege 24 marzo 2001, n. 89
23
Francesco Fuschino
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
30
A cura di Mario de Bellis e Donato Palmieri ]
33
Diritto e procedura penale
L'usura e contesto sociale: vecchi e nuovi problemi interpretativi
37
Maria Antonietta Troncone
Il dopo Drassich. Fatto e fattispecie nella giurisprudenza della Corte costituzionale
e della Corte di cassazione
42
Clelia Iasevoli
Sui “pericolosi percorsi” dei rapporti tra ordinamenti. Il caso Drassich
47
Emanuele de Franco
Il reato di clandestinità
Nota a Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ordinanza del 24.02.2011
Rossella Catena
52
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
61
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
67
70
Diritto amministrativo
Le occupazioni di immobili da parte della P.A. tra normativa e giurisprudenza
82
Aldo Niccoli
Difesa civica e mediazione dopo la Finanziaria 2010.
Motivazione della nomina del difensore civico 82
Pierangelo Bonanno e Giuseppe Pedersoli
L'interpello costituisce un segmento della precedente gara d'appalto
Nota a Tar Campania – Napoli, Sez. VIII, sentenza 10 novembre 2010, n. 23753
92
Angela Libardi
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici, di lavori, servizi e forniture
100
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
La tassazione del trust e le imposte indirette
105
Maria Pia Nastri
Una ulteriore conferma della Cassazione: le norme dello Statuto
del contribuente non hanno forza costituzionale
Nota a Cass., sez. trib., sentenza 11 aprile 2011, n. 8145
110
A cura di Raffaele Cantone
Diritto internazionale
Rassegna di diritto comunitario [
A cura di Francesco Romanelli ]
117
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
diritto processuale civile
Mediazione civile / Giulio d'Andrea
123
diritto penale
Guida in stato di ebbrezza / Alfredo Capuano
124
diritto amministrativo
Occupazione provvedimentale / Ida Sorrentino
125
Recensioni
[ A cura di Enzo Napolano ]
Democrazie sotto pressione: Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato
di Pier Luigi Petrillo, Milano 2011
131
Gazzetta
F O R E N S E
●
La conciliazione
oggetto di duro scontro
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
5
Il nostro Paese si è sempre distinto per l’elevato tasso di
litigiosità soprattutto in materia civile e soprattutto per l’in‑
capacità dei diversi legislatori succedutisi negli anni di far
fronte ad un così alto carico dei ruoli dei vari giudici togati e
non. Nel tempo diverse sono state le strategie (infruttuose!)
messe in campo: giudici onorari, giudici di pace, prescrizioni,
indulti, aumento dei concorsi per reclutamento dei magistra‑
ti ordinari, da ultimo la conciliazione. Ed è proprio quest’ul‑
tima entrata in vigore da qualche mese ad aver procurato un
vero e proprio terremoto nel nostro sistema giudiziario. Infat‑
ti, gli auspicati frutti stentano ad arrivare, anche se da fonti
governative si afferma che occorre aspettare ancora qualche
mese, e soprattutto le avversioni da parte dell’avvocatura e
della magistratura sono altissime.
La prima, chiamando in causa la Corte Costituzionale che
a breve dovrà pronunciarsi, ha sollevato forti dubbi di costi‑
tuzionalità per il carattere di obbligatorietà che urterebbe
contro l’unico sistema riconosciuto dal nostro ordinamento
di accesso alla via delle controversie che è appunto il sistema
giudiziario o arbitrale. Altre forme obbligatorie, prosegue
l’avvocatura non ce ne sono, ed allora si aspetta la Corte af‑
finché come un birillo possa cadere tutta l’impalcatura messa
su dall’esecutivo nell’ultimo anno. La magistratura dal canto
suo se da un lato preme per la conciliazione, dall’altro vede
con un tale sistema scalfire la sua potestà granitica. Manente
si cerca una mediazione tra le parti dove la stessa avvocatura
al suo interno è spaccata. Infatti se il Presidente del Consiglio
Nazionale Forense ha salutato con favore l’annuncio del di‑
castero della giustizia dell’obbligatorietà della presenza
dell’avvocato nelle conciliazioni e pertanto resterebbe immu‑
tata la sfera di mercato e di competenze per l’avvocatura,
dall’altro l’Oua attraverso il suo Presidente cerca di fare bin‑
go non accontentandosi di alcuna mediazione tra le parti,
bensì chiedendo che la conciliazione non sia obbligatoria ma
facoltativa. La partita è ancora lunga è difficilmente le parti
sono disposte dai loro rispettivi fortini a fare un passo in
dietro nei prossimi giorni. Ed allora sarà quasi certamente la
pronuncia ultima dei giudici costituzionali a decretare la le‑
galità o meno della conciliazione obbligatoria nel nostro si‑
stema giudiziario. Non ci resta che aspettare auspicando
semmai che il governo provveda ad aumentare bensì il nume‑
ro dei giudici togati e semmai dando accesso a nuovi giudici
onorari per smaltire l’enorme arretrato. Altresì si spera a
breve in un decreto che riduca il numero dei riti civili presen‑
ti nel nostro sistema: circa trenta!
Per quanto riguarda la nostra rivista abbiamo dato in
questo numero un particolare risalto alla materia della con‑
ciliazione sia tra gli articoli ex professo che tra le questioni
curate dall’avv.to Valente.
Sempre in materia civile riportiamo un’interessante rico‑
struzione sistematica del danno da irragionevole durata del
processo. In materia penale sono stati affrontati i vecchi e
nuovi problemi interpretativi del reato di usura, con forti ri‑
ferimenti alla sensibilizzazione non solo delle forze di polizia,
ma anche dei cittadini e delle associazioni impegnate nel so‑
ciale. Inoltre interessanti spunti d’osservazione sono stati
fatti in materia di reato d’Immigrazione alla luce di una re‑
centissima pronuncia della Corte di Giustizia. In materia di
diritto amministrativo non mancano interessanti spunti ri‑
flessivi sul nuovo codice dei lavori pubblici.
Diritto e procedura civile
Le conciliazioni amministrate. I contratti del servizio di mediazione
9
Fernando Bocchini
Le relazioni industriali dopo Mirafiori 15
Giuseppe Ferraro
Art. 1225 c.c.: applicazione in campo aquiliano e nuova frontiera del danno
non patrimoniale da inadempimento
20
Vittorio Sabato Ambrosio
Il Procedimento di equa riparazione ex lege 24 marzo 2001, n. 89
23
Francesco Fuschino
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
A cura di Mario de Bellis e Donato Palmieri ]
30
33
civile
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
●
Le conciliazioni
amministrate.
I contratti del servizio
di mediazione
● Fernando Bocchini
Ordinario di Diritto Privato
presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
9
SOMMARIO: 1. L’accesso alle conciliazioni amministra‑
te. – 2. L’imputazione giuridica dell’attività di mediazione
(ente, organismo e richiedente: una complicata ambiguità
normativa). – 3. I rapporti negoziali tra utenti e tra utenti e
organismo. Il contratto di servizio di mediazione. – 4. L’atti‑
vità dell’organismo e la responsabilità da inadempimento. – 5.
L’affidamento del servizio di conciliazione.
1. L’accesso alle conciliazioni amministrate
In generale la conciliazione si appalesa come il meccanismo
di più celere soluzione delle controversie perché fa a meno, non
solo della giurisdizione, ma anche di una giustizia privata
(arbitrato). È un meccanismo qualificato di risoluzione auto‑
noma delle controversie, per provenire la composizione della
lite dagli stessi protagonisti della controversia attraverso l’azio‑
ne di cooperazione di un soggetto terzo1. I tratti essenziali
della conciliazione sono appunto la negozialità della compo‑
sizione e la procedimentalizzazione del percorso compositivo2.
È dunque un fenomeno che si svolge come esercizio di autono‑
mia negoziale, ma che non si ricollega ad un unico negozio
tipico né incarna un particolare negozio atipico: è piuttosto
espressione di negozialità, che si svolge mediante un procedi‑
mento negoziale teso alla regolazione di un assetto di interes‑
si3. Atro tratto essenziale è la procedimentalizzazione dell’at‑
tività conciliativa, sia questa attivata dalle parti o sia solleci‑
tata dall’impulso del giudice.
Le tecniche di soluzione concordata delle vertenze, per es‑
sere declinate sull’esercizio dell’autonomia negoziale, sono di
regola rimesse alla iniziativa delle parti che sono libere di sce‑
gliere le regole procedurali considerate più idonee allo scopo
perseguito, individuate dalle stesse parti o concordemente rila‑
sciate alla individuazione del soggetto terzo (conciliatore);
possono anche essere fissate dagli organismi di conciliazione,
cui le parti si rimettono per la soluzione4: sempre è presente una
sequenza procedimentale, con la posizione di un terzo impar‑
ziale con funzione di mediazione tra le contrapposte istanze e
di cooperazione per procurare l’accordo tra le parti5.
1
2
3
4
5
Sono invece “strumenti eteronomi” di risoluzione delle controversie la senten‑
za (per provenire dal giudice quale figura istituzionale della giurisdizione stata‑
le) e il lodo arbitrale (per derivare dall’arbitro che ha il potere di vincolare le
parti): cfr. F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 2004, p. 1202. Rispetto all’arbitrato presenta il tratto ulte‑
riore e significativo che il terzo coinvolto ha la funzione solo di attivatore del
consenso delle parti: è perciò una forma di risoluzione consensuale e non deci‑
soria della controversie, favorita dalla presenza di un terzo: cfr. P. biavati,
Conciliazione strutturata e politiche della giustizia, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,
2005, p. 786.
Vedi in generale Galletto, Il modello italiano di conciliazione stragiudiziale
in materia civile, Milano 2010; Cuomo Ulloa, La conciliazione, Padova 2008;
Santagada, La conciliazione delle controversie civili, Bari 2008; Passanante,
Modelli di tutela dei diritti, Padova 2007.
Circa i rapporti che si instaurano lungo la sequenza procedimentale, v. F. Boc‑
chini, La conciliazione tra negozialità e procedimentalizzazione, in Studi in
onore di Marco Comporti, Milano, 2008, p. 285 ss.
V. per tutti A. Rossi, Conciliazione (Diritto processuale civile), in Encicl. giur.
Treccani, Roma 1998, p.1 ss., ove ogni indicazione.
Non ha trovato seguito l’impostazione, essenzialmente maturata nel mondo
giuslavoristico, di considerare la conciliazione quale “atto decisionale eterono‑
mo” del terzo, cui le parti aderiscono rendendolo operante: Cfr. C.A. Nicolet‑
ti, La conciliazione nel processo civile, Milano 1963. In realtà non di rado nel
processo o presso gli organismi conciliativi accade, in sede di comparizione
delle parti, di assistere a presenze non significative del terzo (giudice o concilia‑
tore), che si limita alla mera registrazione dell’accordo raggiunto o del mancato
accordo, senza proporre ipotesi di componimento o formulare interventi riequi‑
libratori delle opposte posizioni; eppure la istituzionale funzione conciliativa
attribuita dalla legge al terzo conferisce all’accordo raggiunto alla sua presenza
civile
Gazzetta
10
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Più di recente, per varie ragioni (specie la fidelizzazione
degli aderenti) stanno emergendo presso singole istituzioni e
società di vasta dimensione pratiche di organizzazione di appo‑
siti organismi di conciliazione autoregolati, con regolamenti di
procedura predeterminati e dunque obbligatori per i soggetti
che vi accedono: sono le c.d. conciliazioni amministrate (sul
modello dei c.d. arbitrati amministrati ex art. 832 c.p.c.), per
svolgersi le procedure presso specifici organismi conciliativi
secondo i relativi regolamenti. Il fenomeno è stato progressiva‑
mente oggetto di disciplina giuridica fino ad una complessiva
(anche se non esaustiva) regolazione con il D.Lgs. 4 marzo 2010,
n. 28, che detta la disciplina della mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali, con regole
volte a garantire serietà ed efficienza ai sistemi di risoluzione
convenzionale al fine di incentivare il ricorso a tale pratica6.
In particolare, per l’art. 10, comma 3, del decreto, ai fini
della iscrizione nel registro tenuto presso il Ministero della
giustizia, ogni organismo di mediazione è tenuto a depositare,
unitamente alla domanda e al codice etico, il “proprio regola‑
mento di procedura”. E la Relazione illustrativa al decreto
osserva come non si sia prevista una struttura rigida e prede‑
terminata della mediazione civile e commerciale, preferendosi
affidare la stessa alla “esperienza autoregolativa” di soggetti
pubblici e privati aventi determinati requisiti, non lasciandosi
la moderna mediazione irrigidire in formule che colgono del
fenomeno aspetti solo parziali; continua la Relazione: l’elemen‑
to caratterizzante è dato dalla finalità di assistenza alle parti
nella ricerca della composizione non giudiziale di una contro‑
versia. Lo stesso decreto utilizza una formula generale di rico‑
noscimento delle conciliazioni amministrate, prevedendo che
gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed ef‑
ficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su
istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di
mediazione nelle materie previste dal decreto, con l’unico li‑
mite della iscrizione presso il registro tenuto dal Ministero per
la preventiva verifica di serietà ed efficienza (art. 16). Con ri‑
ferimento, anzi, alla conciliazione quale condizione di proce‑
dibilità della domanda giudiziale (art 5, comma 1), è previsto
l’assolvimento dell’onere giuridico, non solo mediante esperi‑
mento del procedimento di mediazione ai sensi dello stesso
decreto, ma anche mediante procedimento di conciliazione
la qualifica di conciliazione in senso tecnico, con tutti gli effetti giuridici che
conseguono al verbale di conciliazione (primo fra tutti la suscettibilità di dive‑
nire titolo esecutivo).
6 Alle conciliazioni amministrate aveva avuto specifico riguardo il D.Lgs. 17
gennaio 2003, n. 4, per il cui art. 38 gli enti pubblici o privati, che diano ga‑
ranzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi conciliativi
deputati, su istanza della parte interessata, a gestire un tentativo di conciliazio‑
ne delle controversie indicate dall’art. 1, previa iscrizione in un apposito registro
tenuto presso il Ministero della giustizia (R.O.C.). Il D.M. 23 luglio 2004,
n. 222, recava il regolamento circa la determinazione dei criteri e delle moda‑
lità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione;
il D.M. 23 luglio 2004, n. 223, fissava il regolamento recante approvazione
delle indennità spettanti agli organismi di conciliazione.
Sulla scorta delle esperienze conseguenti all’applicazione di tale normativa è
maturata la nuova disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione
regolata dal D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, in attuazione dell’art. 60 della
L. 18 giugno 2009, n. 69, secondo i dettami della direttiva 2008/52/CE del 21
maggio 2008. Successivamente, con D.M. 18 ottobre 2010, n. 180, è stato
emanato il Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità
di iscrizione e la tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco
dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spet‑
tanti agli organismi di mediazione.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
previsto dal D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, innanzi alla Con‑
sob7, ovvero procedimento istituito in attuazione dell’articolo
128‑bis del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia di
cui al D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e successive modifica‑
zioni, per i rapporti dei clienti con le banche8.
Conciliazioni amministrate qualificate sono considerate dal
decreto quelle svolte da organismi di conciliazione istituiti dai
consigli degli ordini degli avvocati presso i singoli tribunali
(art. 18)9 o da organismi istituiti da altri consigli di ordini pro‑
fessionali per le materie di propria competenza (art. 19, com‑
ma 1); trovano anche un trattamento di favore le conciliazioni
amministrate da organismi istituiti dalle camere di commercio
(art. 19, comma 2)10: il privilegio accordato è finalizzato solo al
riconoscimento dei relativi organismi, ammessi all’iscrizione
nel registro tenuto dal Ministero a semplice domanda. Allo
stato, non c’è dubbio che i regolamenti adottati dalla Consob e
dall’Unioncamere, per la rilevanza e diffusione sul territorio
della relativa azione, siano destinati a rappresentare i riferimen‑
ti essenziali dell’autoregolazione dei vari organismi.
Comunque avvenga il riconoscimento dell’organismo
conciliativo, in forma agevolata o ordinaria, relativamente
all’attività espletata dall’organismo11, emergono i medesimi
problemi circa i rapporti negoziali che si instaurano tra gli
utenti e tra questi e il singolo organismo.
2. L’imputazione giuridica dell’attività di mediazione (ente, orga‑
nismo e richiedente: una complicata ambiguità normativa)
Il quadro delineato dal D.Lgs. 28/2010, esplicitato dal
D.M. 180/2010, con la previsione di un accesso all’attività di
mediazione sia di enti pubblici che di enti privati, fa emergere
come il sistema delle mediazioni si caratterizzi per una liber‑
tà di costituzione e di accesso degli organismi all’interno di
7 Con Regolamento di attuazione del decreto legislativo, adottato dalla Consob
con delibera del 29 dicembre 2008, n. 16763, concernente la Camera di conci‑
liazione e di arbitrato presso la Consob e le relative procedure, è stabilito che
la Camera amministra i procedimenti di conciliazione e di arbitrato promossi
per la risoluzione di controversie insorte tra gli investitori e gli intermediari per
la violazione da parte di questi degli obblighi di informazione, correttezza e
trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori. È seguito lo
Statuto della Camera di conciliazione e arbitrato, adottato dalla Camera e
approvato dalla Consob con deliberazione 4 marzo 2010, n. 17204.
8 Per l’art. 128‑bis I soggetti di cui all’articolo 115 (banche e dagli intermediari
finanziari) aderiscono a sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie
con la clientela. Con deliberazione del CICR, su proposta della Banca d’Italia,
sono determinati i criteri di svolgimento delle procedure di risoluzione delle
controversie e di composizione dell’organo decidente, in modo che risulti assi‑
curata l’imparzialità dello stesso e la rappresentatività dei soggetti interessati;
le procedure devono in ogni caso assicurare la rapidità, l’economicità della
soluzione delle controversie e l’effettività della tutela.
9Si deve senz’altro evitare che un avvocato che abbia fatto da mediatore in una
controversia possa successivamente assumere la difesa di una delle parti nel
processo, se non altro in ossequio al fondamentale principio della segretezza
della mediazione.
10 C’è da rilevare come proprio le conciliazioni innanzi alle camere di commercio
tra imprese o tra consumatori e imprese abbiano rappresentato il primo signi‑
ficativo riferimento di tale tecnica alternativa di soluzione delle controversie (ai
sensi dell’art. 2 L. 29 dicembre 1993, n. 580). Il sistema camerale nel suo
complesso ha svolto negli anni una essenziale funzione di stimolo verso la
pratica della mediazione‑conciliazione delle liti favorendo la maturazione e
diffusione di una cultura della soluzione della controversia in luogo della deci‑
sione. In tale percorso un ruolo incisivo e di sprone è stato certamente svolto
da Unioncamere, che di recente ha anche approvato in data 17 novembre 2010
un nuovo Regolamento unico con allegati, adottato da tutte le camere di com‑
mercio.
11Sullo svolgimento materiale dell’attività, cfr. A. Uzqueda, Conciliazione am‑
ministrata, in Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre a.d.r., a cura
di A. Buonfante e C. Giovannucci Orlando, Torino, 2006, p. 162 ss.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
un mercato concorrenziale, purché risultino rispettati i requi‑
siti previsti dalla legge. Il controllo ministeriale ha solo la
funzione di verifica di efficienza e serietà dell’esplicazione
dell’attività a tutela degli utenti (ed anche della trasparenza
del mercato, che comunque si traduce a vantaggio degli uten‑
ti). Relativamente alla procedura, la normativa si limita a
prevedere la sequenza degli atti senza alcuna indicazione
circa i rapporti giuridici che sottendono tale sequenza: e in‑
vece la qualificazione di tali rapporti è essenziale per indivi‑
duare gli obblighi a carico dei vari soggetti coinvolti e le re‑
sponsabilità per il relativo inadempimento. In tale quadro è
fondamentale delineare preliminarmente la natura giuridica
dell’organismo e la imputazione della relativa attività per la
responsabilità che alla stessa si connette, nei confronti degli
utenti la mediazione e verso i terzi.
Per intanto è da rilevare che, pure nel silenzio della legge,
l’organismo di mediazione, non agendo in regime di monopo‑
lio, non è tenuto ad accettare la richiesta di espletamento del
servizio, anche senza motivazione (non trova applicazione né
estensivamente né analogicamente il disposto dell’art. 2597
sull’obbligo di contrattare del monopolista).
Quanto alla natura giuridica, è essenziale la definizione
che viene data dal D.Lgs. 28/2010 dell’organismo di mediazio‑
ne: per l’art. 1, comma 1, lett. f), organismo è “l’ente pubblico
o privato, ovvero la sua articolazione, presso cui può svolger‑
si il procedimento di mediazione ai sensi del decreto legislati‑
vo”; definizione ribadita dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.M.
180/2010. Inoltre, per l’art. 16 del D.Lgs. 28/2010, “gli enti
pubblici o privati…sono abilitati a costituire organismi depu‑
tati…a gestire il procedimento di mediazione…Gli organismi
devono essere iscritti nel registro”(comma 1). Il D.M. 180/2010
articola il registro degli organismi tenuto presso il Ministero
della Giustizia in due distinte parti, in modo da contenere le
annotazioni relative, rispettivamente, agli “enti pubblici” e agli
“enti privati” (art. 3, comma 3); prescrive inoltre che “nel re‑
gistro sono iscritti, a domanda, gli organismi di mediazione
costituiti da enti pubblici e privati” (art. 4, comma 1). Alla
stregua di tali generali indicazioni, emerge come manchi nella
legge una scelta di campo circa il criterio di erezione dell’orga‑
nismo e della relativa soggettività: non si comprende se ciò sia
il segno di una irrisolta ambiguità o sia invece il frutto di una
consapevole scelta di lasciare libertà di azione se costituire un
autonomo organismo o organizzarlo come articolazione di un
ente portante: constatazione confermata dalla normativa rela‑
tiva ai requisiti richiesti per l’iscrizione nel registro.
Nel dettare i criteri per l’iscrizione nel registro il D.M.
180/2010 introduce una ambigua figura di “richiedente”
l’iscrizione, cui sono ricondotti i parametri indicati (art. 4,
comma 2): in particolare, la lett. a) richiede la capacità finan‑
ziaria e organizzativa del richiedente, nonché la compatibilità
dell’attività di mediazione con l’oggetto sociale o lo scopo
associativo, con il possesso di un capitale non inferiore a
quello la cui sottoscrizione è necessaria alla costituzione di
una società a responsabilità limitata; la lett. b) richiede il
possesso da parte del richiedente di una polizza assicurativa
di importo non inferiore a 500.000,00 euro per la responsa‑
bilità a qualunque titolo derivante dallo svolgimento dell’at‑
tività di mediazione. L’ambivalenza prosegue con la lett. c)
che richiede “requisiti di onorabilità dei soci, associati, am‑
ministratori o rappresentanti dei predetti enti” e con la suc‑
2 0 1 1
11
cessiva lett. d) che prescrive “la trasparenza amministrativa e
contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico
ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente
costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione
della necessaria autonomia finanziaria e funzionale”. In so‑
stanza vi è un confuso riferimento ora all’organismo ora
all’ente ora alla indecifrabile figura del richiedente. E intanto
la imputazione giuridica dell’attività, cui si connette la respon‑
sabilità patrimoniale per l’operato svolto, ha bisogno di rife‑
rimenti certi e predeterminati a tutela degli stessi soggetti che
si intende tutelare e in generale del mercato.
È possibile sciogliere le delineate ambiguità approfonden‑
do il fondamento dei parametri soggettivi e oggettivi richiesti
dalla normativa. I parametri soggettivi tendono ad assicurare
agli utenti serietà ed efficienza dell’attività di mediazione; i
parametri oggettivi mirano a garantire agli utenti il ristoro
dei danni eventualmente subiti dall’espletamento della proce‑
dura di mediazione. Ne consegue che l’imputazione giuridica
dell’attività deve essere correlata alla responsabilità per l’atti‑
vità svolta. Centro di imputazione della responsabilità non
può dunque essere che la struttura (pubblica o privata) cui si
riconducono le dotazioni e le sicurezze richieste. Con l’ulte‑
riore corollario che l’organismo può essere un’articolazione
di un ente (pubblico o privato) come può integrare esso stesso
un ente autonomo: essenziale è che all’attività dell’organismo
si riconducano le dotazioni e le sicurezze richieste dall’ordi‑
namento per la responsabilità patrimoniale conseguente
all’esercizio dell’attività esplicata.
Nella prima ipotesi, con un formula plastica, si può par‑
lare di un ente portante dell’organismo di mediazione, che si
atteggia come un’articolazione dell’ente stesso, integrante un
ramo di esplicazione dell’attività dell’ente. È l’esperienza più
diffusa, cui del resto si sono conformati quasi tutti i consigli
degli ordini di avvocato. L’organismo è privo di soggettività
giuridica e dunque non ha un’autonoma imputazione giuridi‑
ca: sull’ente si appuntano i rapporti giuridici suscitati dall’or‑
ganismo di mediazione e sull’ente grava dunque la responsa‑
bilità patrimoniale per l’esplicazione dell’attività dell’organi‑
smo. Se trattasi di una società di capitali, risponderà soltanto
la società con il proprio patrimonio; se trattasi di società di
persone o di associazione, risponderanno solidalmente anche
i soci o gli associati. Apposito statuto disciplinerà l’articola‑
zione dell’organismo rispetto all’ente, con indicazione del
controllo da parte dell’ente istitutivo sia sulla gestione dei
servizi che sull’attività.
Nella seconda ipotesi, l’ente (pubblico o privato) costitui‑
sce un nuovo ente con un’autonoma soggettività giuridica e
quindi con autonoma imputazione giuridica dei rapporti
dallo stesso suscitati. Si può pensare allo schema della costi‑
tuzione di società a responsabilità limitata unipersonale
(art. 2463): essenziale è che la costituzione dell’organismo
rientri nell’oggetto sociale dell’ente che lo istituisce. Peraltro,
perché l’organismo possa essere eretto come soggetto autono‑
mo ed avere un’autonoma imputazione, deve essere costituito
con i parametri soggettivi e oggettivi previsti dalla legge.
3. I rapporti negoziali tra utenti e tra utenti e organismo. Il con‑
tratto di servizio di mediazione
Alla stregua dei risultati conseguiti si comprende come i
rapporti contrattuali coinvolti dalla procedura di mediazione
civile
Gazzetta
12
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
si instaurano, più spesso, tra gli utenti e l’ente portante dell’or‑
ganismo; solo talvolta si instaurano con l’organismo quale
autonomo soggetto giuridico. In ogni caso si delineano i me‑
desimi problemi di inquadramento e configurazione dei nego‑
zi che si instaurano tra utenti e struttura conciliativa che, per
semplificare si chiamerà senz’altro “organismo di conciliazio‑
ne” secondo la nomenclatura della legge, indipendentemente
se sia articolazione di un ente o integri un ente autonomo.
Esaminiamo distintamente l’ipotesi di domanda congiunta e
di domanda unilaterale di mediazione.
a) Nella ipotesi di domanda congiunta di mediazione, le
parti litiganti concordano tra le stesse di deferire ad un orga‑
nismo di mediazione la soluzione della controversia e perciò
di sottoporsi ad una procedura di mediazione: in ragione di
ciò congiuntamente formulano all’organismo una richiesta del
servizio di mediazione. Tale richiesta, come in seguito meglio
si vedrà, integra una proposta di stipula di una contratto di
fornitura di un servizio di mediazione. Essendo questo un
negozio non solenne, la proposta non è soggetta ad una forma
vincolata; analogamente l’accettazione dell’organismo non
richiede una specifica forma scritta e può dunque essere
espressa anche tacitamente per facta concludentia attraverso
l’esecuzione dell’attività. La designazione del mediatore rima‑
ne un atto interno all’organismo; solo con la comunicazione
alle parti della data del primo incontro avviene una esterna‑
lizzazione dell’attività e si realizza tacitamente l’accettazione
della proposta di fornitura del servizio di mediazione. Tale
comunicazione svolge dunque una duplice funzione: è tanto
accettazione della proposta di conclusione del contratto di
servizio di mediazione quanto primo atto del servizio stesso.
b) Nella ipotesi di domanda unilaterale di mediazione, la
trama degli atti che conduce alla conclusione dell’accordo tra
le parti litiganti di deferire ad un organismo la soluzione
della controversia e di richiesta all’organismo del servizio di
mediazione è più complessa, per rimanere sfalsati i compor‑
tamenti delle parti e principalmente per potere assumere
l’altra parte litigante un duplice atteggiamento: di adesione
alla richiesta di deferimento della soluzione ad un organismo
o di rifiuto della stessa anche solo attraverso un comporta‑
mento inerte; la controparte litigante può cioè aderire alla
richiesta e quindi sottoporsi all’esperimento della procedura,
così riproponendosi la tecnica di incarico congiunto all’orga‑
nismo; come può declinare l’invito e quindi sottrarsi alla
procedura di mediazione, così non aderendo alla proposta di
mediazione avanzata dalla controparte.
C’è perciò da delineare la qualificazione giuridica che
l’istanza unilaterale assume in sé: se di mandato all’organismo
di convocare la controparte, al fine di verificare la volontà
della stessa di sperimentare una procedura di mediazione, o
se già di richiesta all’organismo del servizio di mediazione e
primo atto della relativa procedura, per le diverse conseguen‑
ze giuridiche che derivano dalle due soluzioni.
Alla stregua della normativa in essere deve propendersi per
la seconda soluzione, non rimanendo l’istanza di mediazione
e il comportamento della controparte litigante giuridicamente
irrilevanti sulla sorte dei diritti invocati (art. 5, comma 5, D.
Lgs. 28/2010) e con riguardo all’eventuale processo che si
dovesse svolgere a seguito del fallimento del tentativo di con‑
ciliazione (art.13 D.Lgs. 28/2010). In particolare, la domanda
di mediazione ha un duplice oggetto: è tanto proposta alla
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
controparte di deferire la controversia ad un organismo di
mediazione, quanto richiesta di un servizio di mediazione; la
successiva comunicazione che l’organismo fa alla controparte
dell’istanza di mediazione implica, di per sé e necessariamen‑
te, la dichiarazione di volontà (tacita) dell’organismo di volere
accettare l’incarico di espletamento di una procedura di me‑
diazione secondo il proprio regolamento. Se la controparte
aderisce, si realizza una formazione progressiva dell’accordo
delle parti, sia di deferire ad un organismo di conciliazione la
soluzione della controversia, sia di richiesta all’organismo del
servizio di mediazione. L’unitario atto di adesione della con‑
troparte, in ragione dei termini della domanda di mediazione
e della comunicazione della stessa da parte dell’organismo,
assume dunque un duplice oggetto: è tanto dichiarazione di
adesione alla proposta di deferire la soluzione della controver‑
sia ad un organismo di mediazione, quanto di accettazione di
richiesta del servizio di mediazione all’organismo (che si è ri‑
velato già consenziente con la comunicazione della domanda
di conciliazione). In sostanza, attraverso tale articolata trama
di atti, si concludono due negozi collegati, per essere funzio‑
nalmente coordinati e rivolti al perseguimento di uno scopo
unitario: la soluzione della controversia.
Con il primo negozio le parti concordano di esperire una
procedura di mediazione per la soluzione della controversia
insorta: contratto meritevole di tutela ai sensi della regola
generale dell’art. 1322 c.c. anche per essere la procedura
conciliativa prevista ed anzi incentiva da un nutrito trend
normativo. In virtù di tale contratto le parti concordano di
deferire la soluzione della controversia ad un organismo di
mediazione e dunque di instaurare una procedura conciliativa,
sicché il successivo rifiuto di una di esse di sottoporsi alla
procedura stessa comporta inadempimento del contratto; e
rappresenta inadempimento del contratto anche ogni ingiu‑
stificata sottrazione alla procedimentalizzazione imposta
dall’organismo conciliativo secondo il proprio regolamento.
La stipula di tale contratto può essere evitata dal preventivo
inserimento di una clausola di conciliazione nei contratti
correnti tra le parti, per la eventualità di insorgenza di una
controversia circa la interpretazione e/o la esecuzione del
contratto (obbligatorietà convenzionale). Come la stipula di
un tale contratto è evitata nelle ipotesi di mediazione prevista
dalla legge come condizione di procedibilità ex art. 5 D.Lgs.
28/2010 (obbligatorietà ex lege), per cui ciascuna parte è te‑
nuta ad attivare preventivamente una procedura di mediazio‑
ne per la soluzione della controversia: l’accesso alla procedu‑
ra di mediazione rappresenta un onere a carico del soggetto
per la tutela dei propri diritti.
Nella ipotesi di pattuizione di clausola di conciliazione il
generale problema di compatibilità della obbligatorietà del
tentativo di conciliazione con il diritto di agire in giudizio ex
art. 24 Cost. non ha ragione di porsi in quanto sono le parti
stesse a derogare volontariamente al ricorso immediato alla
giurisdizione statale. Nella ipotesi di previsione obbligatoria
di mediazione, neppure può riscontrarsi una contrarietà co‑
stituzionale, essendo lo strumento della mediazione conside‑
rato dall’ordinamento non alternativo al giudizio, ma solo
come il rimedio più agevole ed efficace di conseguire il bene
della vita rispetto alla giurisdizione (alla quale è sempre con‑
sentito ricorrere dopo il fallimento del tentativo di concilia‑
zione).
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Con il secondo negozio, come si è anticipato, le parti sti‑
pulano con l’organismo un contratto di servizio di mediazio‑
ne. È un contratto atipico misto che contiene sia tratti del
contratto di prestazione d’opera ai sensi degli artt. 2222 ss.
c.c., per considerarsi la mediazione una prestazione di opera
intellettuale; sia tratti dell’appalto ai sensi dell’art. 1655 ss.
c.c., per svolgersi l’attività di mediazione mediante la organiz‑
zazione dei mezzi necessari12.
Non può parlarsi di mandato in quanto, è vero che sia il
mandato che la prestazione d’opera comportano un facere a
carico del soggetto che assume l’incarico, ma il mandato si
attua attraverso il compimento di negozi giuridici, mentre la
prestazione dell’organismo implica un’attività13. Neppure può
parlarsi di contratto di somministrazione (ex art. 1559 c.c.)
per la fondamentale ragione che la somministrazione implica
l’esecuzione di prestazioni periodiche o continuative, mentre
l’organismo si limita a procurare una prestazione unica che
soddisfa l’interesse degli utenti unitariamente con la redazio‑
ne del verbale conclusivo (di conciliazione o meno).
4. L’attività dell’organismo e la responsabilità da inadempimento
Con la stipula del contratto di servizio di mediazione,
verso il corrispettivo pagato dagli utenti con i depositi previ‑
sti dai singoli regolamenti, l’organismo di mediazione si ob‑
bliga a erogare un servizio che implica la organizzazione di
uomini e mezzi e lo svolgimento di un’attività procedimenta‑
lizzata rivolta alla composizione negoziale della controversia:
messa a disposizione del luogo di trattazione; nomina del
mediatore, individuale o in composizione collegiale; convo‑
cazione delle parti; attività di dialogo e compositiva del terzo
mediatore, con eventuale progetto di soluzione; formulazione
di verbali; e così via. Inoltre il mediatore deve svolgere il pro‑
cedimento conciliativo in un termine predeterminato, even‑
tualmente prorogabile dalle parti.
Peraltro la procedimentalizzazione non può avere l’effetto
perverso di ripulire l’accordo conciliativo dei vizi di nullità per
contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume, secondo il combinato disposto degli artt. 1343 e 1418
c.c. Sarebbe paradossale che un intero impianto normativo di
protezione di consumatori e utenti (peraltro di provenienza
comunitaria) restasse deluso e frustrato dal raggiungimento
di un accordo attraverso una organismo di mediazione. E del
resto, per il D.Lgs. 28/2010, è vero che la mediazione deve
tendere a un “accordo amichevole” (art. 11, comma 1), ma il
verbale di accordo è omologabile dal presidente del tribunale
12 Per costante giurisprudenza il contratto d’appalto ed il contratto d’opera si
differenziano per il fatto che nel primo l’esecuzione dell’opera commissionata
avviene mediante una organizzazione di media o grande impresa cui l’obbliga‑
to è preposto, mentre nel secondo con il prevalente lavoro di quest’ultimo, pur
se coadiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche collaboratore,
secondo il modulo organizzativo della piccola impresa (Cass., 21 maggio 2010,
n. 12519).
13Il contratto di mandato e di locazione d’opera si distinguono in relazione al
rispettivo oggetto, che nel secondo caso è rappresentato da un’attività di coo‑
perazione (estranea alla sfera negoziale), che si traduce nel compimento di
un’opera o di un servizio, materiale od intellettuale, mentre nel primo caso
consiste in un’attività qualificata di conclusione di negozi giuridici per conto e
nell’interesse del mandante, la quale, tuttavia, può concretarsi anche nel com‑
pimento di atti volontari non negoziali aventi rilevanza esterna, diretti alla
conclusione ed al regolare adempimento di contratti tra le parti (Cass., 26 luglio
2005, n. 15607; Cass., 26 ottobre 2004, n. 20739; Cass., 30 marzo 1995,
n. 3803).
2 0 1 1
13
ai fini della efficacia esecutiva, divenendo dunque titolo ese‑
cutivo, sempre che il suo contenuto non sia contrario all’ordi‑
ne pubblico o a norme imperative (art. 12); e ancora, al me‑
diatore, quando ne sia richiesto, è fatto obbligo di formulare
le proposte di conciliazione nel rispetto del limite dell’ordine
pubblico e delle norme imperative (art. 14, comma 2, lett. c).
Il mancato riferimento al buon costume si può spiegare, ma
non giustificare, per riferirsi la disciplina sulla mediazione
alla sole controversie civili e commerciali vertenti su diritti
disponibili: così accogliendo la idea tradizionale del buon
costume, come riferito al pudore sessuale; ma è in corso da
tempo un articolato percorso che tende ad ampliare la portata
dall’area del buon costume dal pudore sessuale (dove tradizio‑
nalmente ha operato) alla c.d. morale sociale. E c’è da ritenere
che, pure in presenza di decreto di omologazione, possano
sempre farsi valere i vizi di nullità dell’accordo, per violazione
di valori considerati indisponibili. È pertanto da ritenere che
l’organismo sia responsabile per inadempimento, non solo
quando non compia un atto della procedimentalizzazione
funzionale alla mediazione, ma anche quando procuri un
accordo nullo (per illiceità), tanto più se l’accordo si conformi
ad una “proposta di conciliazione” proveniente dal mediatore
ex art. 11 D.Lgs. 28/2010. Significativamente, per il 17° con‑
siderando e l’art. 4 della direttiva 2008/52/CE, la mediazione
va gestita in un modo efficace, imparziale e competente; per
l’art. 3 della Direttiva, per “mediatore” si intende qualunque
terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo efficace,
imparziale e competente. Ancora, per il 19° considerando
della direttiva, dovrebbe essere consentito a uno Stato membro
di rifiutare di rendere esecutivo un accordo soltanto se il con‑
tenuto è in contrasto con il diritto del suddetto Stato membro,
compreso il diritto internazionale privato, o se tale diritto non
prevede la possibilità di rendere esecutivo il contenuto dell’ac‑
cordo in questione; ciò potrebbe verificarsi qualora l’obbligo
contemplato nell’accordo non possa per sua natura essere reso
esecutivo. E ancora, per il 27° considerando, la direttiva cerca
di promuovere i diritti fondamentali e tiene conto dei principi
riconosciuti in particolare dalla Carta dei diritti fondamenta‑
li dell’Unione europea14.
In ragione di tale complessa e coordinata attività, giuridica
e materiale, richiesta all’organismo di mediazione, si conferma
che l’incarico delle parti all’organismo di esperire una media‑
zione non può configurarsi come un “mandato collettivo”, con
la conseguenza che la revoca non può venire da una sola delle
parti, quand’anche ricorra una giusta causa (ex art. 1726).
Verificandosi la scadenza del termine senza l’esaurimento
del procedimento di mediazione e, in ogni caso, non compien‑
do il mediatore uno degli atti teleologicamente ordinati alla
composizione ovvero realizzando un accordo conciliativo
nullo, l’organismo va incontro a responsabilità contrattuale
per mancata o inesatta esecuzione della prestazione dovuta
civile
Gazzetta
14 Per il 20° considerando e l’art. 6 della Direttiva, il contenuto di un accordo ri‑
sultante dalla mediazione reso esecutivo in uno Stato membro è riconosciuto e
dichiarato esecutivo negli altri Stati membri in conformità della normativa co‑
munitaria o nazionale applicabile, ad esempio in base al regolamento (CE)
n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000, concernente la competenza
giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile
e commerciale, o al regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio del 27 no‑
vembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle
decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.
14
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
(ex art. 1218 c.c.) secondo il modello di diligenza professio‑
nale (art. 1176, comma 2, c.c.), rispondendo anche dei fatti
del mediatore come suo ausiliario (ex art. 1228 c.c.)15.
Quanto in particolare alla figura del mediatore, deve rite‑
nersi che la inesatta prestazione dello stesso nel condurre la
procedimentalizzazione o relativamente alla nullità dell’accor‑
do conciliativo lo esponga ad una doppia responsabilità: an‑
zitutto nei confronti dell’organismo, per inesatta esecuzione
del contratto di prestazione d’opera intellettuale ex art. 2220
c.c. che lo lega all’organismo; ma anche nei confronti degli
utenti del servizio, potendosi ravvisare nell’attività espletata
di mediazione una responsabilità da contatto sociale nei con‑
fronti degli stessi, esponendo dunque il mediatore a responsa‑
bilità contrattuale verso gli utenti (secondo la ricostruzione
che di recente ha fatto la giurisprudenza della responsabilità
per contatto sociale): è dunque una responsabilità che si ag‑
giunge alla responsabilità contrattuale dell’organismo. Inoltre
l’organismo e il mediatore sono solidalmente responsabili per
i danni che derivano agli utenti dalla condotta illecita del
mediatore nella gestione della procedimentalizzazione.
5. L’affidamento del servizio di conciliazione
Più di recente sta diffondendosi la prassi che, non solo
grandi società, ma anche enti pubblici e in particolari singoli
enti locali (specie comuni), conferiscano con convenzioni a un
determinato organismo conciliativo il servizio di conciliazio‑
ne delle vertenze con gli utenti di propri servizi16. Sono accor‑
di‑quadro con i quali singoli enti, gravati da un ampio con‑
tenzioso per le molteplici richieste di risarcimento avanzate
da consumatori o utenti, affidano ad un organismo concilia‑
tivo l’incarico di sperimentare un tentativo di conciliazione
onde eliminare o quanto meno ridurre il carico del contenzio‑
so. In tal caso, pervenendo richiesta di risarcimento, l’organi‑
smo conciliativo comunica al soggetto danneggiato la volon‑
tà dell’ente di sperimentare un tentativo di conciliazione, cui
il soggetto danneggiato è libero di aderire o meno: nell’ipote‑
si di adesione, si ripropone lo stesso schema sopra delineato
di contemporanea stipulazione di due negozi (sopra esamina‑
ti). Qualora il consumatore o utente abbia sottoscritto una
clausola di conciliazione, con la previsione di esperimento
della stessa presso un predeterminato organismo conciliativo
secondo il regolamento dello stesso, il consumatore o utente
è già astretto all’obbligo di sottoporsi alla procedura conci‑
liativa presso lo specifico organismo conciliativo, secondo il
regolamento dello stesso.
Qualche perplessità potrebbe suscitare la tecnica dell’af‑
fidamento diretto del servizio di conciliazione da parte degli
15 Cfr. Caponi, La conciliazione, cit., c. 170.
16 È usuale rinvenire in tali convenzioni alcune formule standard. Quanto al co‑
mune, lo stesso affida all’organismo conciliativo (ad es. la Camera di commer‑
cio), che accetta, “la gestione del servizio di conciliazione delle controversie
nelle quali l’ente sia parte”; l’ente inoltre “si impegna ad inserire nei contratti
con le imprese fornitrici la clausola di conciliazione con rinvio al regolamento
dell’organismo conciliativo”; analogamente l’associazione di categoria si obbli‑
ga a “inserire nei propri contratti e in quelli delle imprese iscritte la clausola di
conciliazione con rinvio al regolamento dell’organismo di conciliazione”.
Quanto all’organismo conciliativo, lo stesso si impegna a “mettere a disposi‑
zione il servizio di conciliazione per la gestione delle controversie nelle quali il
comune stesso sia parte”; analogamente, l’organismo conciliativo si impegna a
“mettere a disposizione il servizio di conciliazione per la gestione delle contro‑
versie nelle quali siano coinvolte le imprese associate”.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
enti locali, senza l’espletamento di gara con procedura ad
evidenza pubblica ex art. 113, comma 1, D.Lgs. 18 agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali), per non ricorrere i presupposti di deroga al crite‑
rio concorrenziale di selezione, né ai sensi del comma 5 del
medesimo articolo17, né ai sensi del comma 14 dello stesso
articolo18.
In realtà, pur dopo la dichiarazione di illegittimità costi‑
tuzionale dell’art. 113 bis che ammetteva l’affidamento diret‑
to a determinati soggetti della gestione di servizi pubblici
locali privi di rilevanza economica19, potrebbe pensarsi che il
servizio di conciliazione non integri un servizio pubblico lo‑
cale ai sensi dell’art. 112 del D.Lgs. 267/2000 per non avere
ad oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare
fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile
delle comunità locali 20, ma solo un fine inerente alla vita isti‑
tuzionale dell’ente onde evitare allo stesso un eccessivo carico
di contenzioso. È però all’uopo da svolgere alcune considera‑
zioni in senso contrario.
Innanzi tutto, come si è visto, l’ordinamento giuridico
(nazionale e comunitario) sta fortemente incentivando lo
sviluppo del fenomeno delle conciliazioni, determinando la
proliferazione di organismi di mediazione che ormai operano
in concorrenza sul mercato; inoltre, l’incremento del ricorso
alla conciliazione sta movimentando un cospicuo flusso di
risorse economiche di sostegno alla costituzione e all’attività
degli organismi di mediazione; infine, la conciliazione sta
assumendo una importante valenza sociale, sia con lo scopo
di deflazionare il carico giudiziario e consentire la soluzione
celere delle controversie, sia al fine di favorire la tenuta dei
rapporti sociali in luogo della contesa quale deriva dall’eser‑
cizio della giurisdizione. Nel contesto delineato l’esercizio
della mediazione può, allo stato, anche valutarsi come elemen‑
to di sviluppo economico e civile delle comunità locali e così
rientrare nella previsione dell’art. 112 del D.Lgs. 267/2000:
si ritiene pertanto che, alla stregua della valenza sociale as‑
sunta dalla esperienza conciliativa e in ragione del regime di
concorrenza che ormai si è instaurato tra i vari organismi di
mediazione, l’ente locale non possa più compiere un affida‑
mento diretto del servizio di conciliazione senza l’espletamen‑
to di gara con evidenza pubblica.
17 Per Cons. Stato, 31 luglio 2006, n. 4705, l’art. 113 d.lgs. n. 267/2000 prevede
al comma 5 che la “erogazione” dei servizi pubblici sia effettuata conferendo
la titolarità del servizio o a società di capitali individuate mediante gara oppu‑
re, tra l’altro, “a società a capitale interamente pubblico a condizione che gli
enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo
analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più
importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.
V.anche Cons. Stato, 8 gennaio 2007, n. 5.
18 Cfr. Cons. Stato, 23 gennaio 2008, n. 156, che ha annullato l’affidamento di‑
retto del servizio di smaltimento rifiuti.
19 Corte cost., sent. 27 luglio 2004, n. 272.
20 Per Cons. Stato, 22 dicembre 2005, n. 7345, si devono considerare indifferen‑
temente servizi pubblici locali, ai sensi dell’art. 112, t.u.e.l. n. 267/2000, sia
quelli di cui i cittadini usufruiscano uti singuli sia quelli di cui si avvantaggiano
come componenti la collettività, purché rivolti alla produzione di beni e utilità
per obiettive esigenze sociali.
F O R E N S E
●
Le relazioni industriali
dopo Mirafiori
● Giuseppe Ferraro
Ordinario di diritto del lavoro
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
15
Quando ci siamo trovati a riflettere sulla vicenda dello
stabilimento “Giambattista Vico” di Pomigliano molti di noi,
pur consapevoli che si trattava di un’esperienza inusitata e
fortemente problematica, abbiamo intimamente pensato che
riguardasse una situazione episodica e in qualche modo ecce‑
zionale, non suscettibile di essere generalizzata, né tantomeno
di travolgere le linee portanti del sistema di relazioni industria‑
li quale si era andato sviluppando nel nostro ordinamento
giuridico. Si è trattato di un errore di prospettiva dovuto ad
un istinto di conservazione degli studiosi della materia rispet‑
to a fenomeni sociali in accelerata evoluzione. In realtà quella
vicenda conteneva in embrione un alto potenziale disgregativo
e lasciava emergere tutti i segnali di un collasso del sistema di
relazioni industriali, di cui preconizzava il superamento, in
termini semmai confusionari e approssimativi.
Indubbiamente molti eventi tra loro intimamente concate‑
nati lasciavano affiorare una certa instabilità di fondo delle
regole che hanno disciplinato nel periodo post‑costituzionale
il sistema contrattuale, e tuttavia gli spazi di anomia che si
andavano di volta in volta disvelando apparivano deviazioni
parziali rispetto a un processo sostanzialmente uniforme,
destinate ad essere progressivamente assorbite in una visione
storicistica di lunga distanza.
Persino la stagione travagliata degli accordi sindacali se‑
parati, pur facendo emergere una deprecabile competizione tra
le principali organizzazioni sindacali, alimentata da una sub‑
dola complicità del Governo con alcune di esse, poteva essere
progressivamente metabolizzata e in parte superata, come
alcuni rinnovi contrattuali lasciavano intendere, e comunque
non sembrava suscettibile di stravolgere alcuni principi e pras‑
si acquisite sul ruolo istituzionale del sindacato nell’ordina‑
mento giuridico e sulla sua autonoma capacità di produrre
regole di condotta di portata generale.
Sinanche l’Accordo quadro di riforma degli assetti contrat‑
tuali del 22 gennaio 2009, con il successivo Accordo intercon‑
federale del 15 aprile 2009, ancorché anomali per la singolare
pretesa di modificare le regole contrattuali in assenza di uno
dei principali protagonisti, si ponevano sostanzialmente in linea
di continuità con l’Accordo quadro del luglio del 1993, specie
su aspetti nevralgici, quali l’articolazione e il decentramento
negoziale, al punto da essere considerati sin troppo cauti
nell’obiettivo di rivalutare la dimensione negoziale periferica.
In questo contesto l’Accordo di Pomigliano risentiva in‑
dubbiamente di tutti i processi in atto sommariamente evoca‑
ti, ma aveva tuttavia una propria autonoma legittimazione, da
una parte nel favorire un investimento consistente in un’area
territoriale eccezionalmente depressa ed improduttiva, afflitta
da una capillare presenza della delinquenza organizzata e da
una classe politica verbosa ed inefficiente, e da un’altra parte
nel creare condizioni ottimali per implementare tecniche pro‑
duttive efficientistiche, omologate a livello internazionale, e
tali da assicurare la costante saturazione degli impianti.
Ed invece si trattava di un fenomeno di ben altra portata,
che preconizzava gli eventi successivi in un crescendo inarre‑
stabile che avrebbe manifestato tutta la sua carica dirompen‑
te nell’Accordo Mirafiori del 23 dicembre 2010, sottoscritto
presso l’Unione Industriali di Torino dalla Fiat Group Auto‑
mobiles S.p.A., assistita dall’Unione Industriali di Torino, e
da rappresentanti delle Segreterie Nazionali e Provinciali di
FIM, UIM, FISMIC e UGL, nonché dall’Associazione capi e
civile
Gazzetta
16
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
quadri Fiat. Accordo immediatamente seguito, per un singo‑
lare effetto di ritorno, da quello di analoga impostazione e
contenuto, relativo allo stabilimento di Pomigliano, sottoscrit‑
to dopo qualche giorno, e precisamente il 29 dicembre 2010,
a Roma presso la sede Fiat, tra la Fiat S.p.A. e le organizza‑
zioni nazionali e territoriali già precedentemente indicate.
Tralasciando gli aspetti più strettamente inerenti la rego‑
lamentazione dei rapporti individuali, su cui si è ampiamente
soffermata la dottrina giuridica degli ultimi tempi, preme qui
sviluppare alcune sintetiche riflessioni di insieme sulle impli‑
cazioni strettamente sindacali derivanti dagli Accordi in
questione e sulle prospettive che ne potrebbero scaturire,
enunciate con un consapevole radicalismo che metta in risal‑
to gli elementi di novità.
È di tutta evidenza che gli Accordi aziendali Fiat si muo‑
vono in una dimensione agiuridica, ovverossia estranea alle
regole inveterate del nostro ordinamento giuridico, in ciò fa‑
voriti dalla configurazione multinazionale del gruppo Fiat e
dalla connessa esigenza di applicare tecniche organizzative e
produttive più o meno omogenee nei diversi paesi in cui si
trova ad operare. In questa prospettiva l’Azienda elabora
proprie regole di comportamento, che sostanzialmente impo‑
ne alle controparti sindacali, salvo poi a sviluppare una diffi‑
cile opera di raccordo delle proprie decisioni con il tessuto
normativo vigente attraverso operazioni tecniche, spesso ro‑
cambolesche, che si inseguono tra di loro in un equilibrio
permanentemente instabile e precario. Ne risulta in qualche
modo un gioco ad incastro ove basta eliminare un tassello per
sgretolare l’intero puzzle.
È difficile stabilire se tutto ciò risponde ad un disegno
preconfezionato oppure se sia piuttosto determinato dall’istin‑
to selvaggio di un capitalismo globale, fortemente competitivo,
che aspira ad operare al di fuori di ogni vincolo e di ogni re‑
gola di impronta nazionale. Sta di fatto che, esaminata dalla
dimensione dell’ordinamento italiano, costituisce una soluzio‑
ne agiuridica disdettare con incredibile anticipo un contratto
collettivo nazionale condiviso da tutti i sindacati rappresenta‑
tivi del settore che andrà a scadenza a dicembre 2011; così
come rappresenta una soluzione agiuridica sottoscrivere
nell’ottobre del 2009 un contratto collettivo nazionale concor‑
rente con una parte degli stessi sindacati, in costanza di ope‑
ratività del precedente contratto; ed ancora costituisce un
comportamento agiuridico recedere improvvisamente dall’as‑
sociazione datoriale, per poi predisporre un accordo azienda‑
le definito di primo livello, e solo per questo ritenere di essere
svincolati da tutto un sistema di regole che si è sedimentato nel
tempo e ha configurato un sistema di relazioni industriali.
Alla stessa stregua è agiuridico pensare di costituire una
new company su una realtà produttiva preesistente con l’idea,
a dir poco fantasiosa, di collocarsi in una zona franca, avulsa
da regole e condizionamenti di generale applicazione; così
come è agiuridica, se non illecita, l’idea di ipotizzare un tra‑
sferimento in massa dei lavoratori dall’azienda precedente a
quella novellamente costituita attraverso l’istituto della ces‑
sione del contratto, che non può trovare applicazione nella
fattispecie considerata, in quanto consapevolmente derogato
dalla disciplina sul trasferimento d’azienda, concepita con lo
scopo precipuo di sottrarre i lavoratori ad una regolamenta‑
zione di stampo individualistico per correlarli indissolubil‑
mente all’attività produttiva in cui sono inseriti (e ciò con
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
l’ulteriore obiettivo di condizionare le assunzioni individuali
all’accettazione preventiva del pacchetto di regole autonoma‑
mente concepite).
Infine – e per non indugiare eccessivamente sul punto – è
una situazione agiuridica concepire una responsabilità ogget‑
tiva dei sindacati stipulanti anche per comportamenti a carico
di terzi, e persino di OO.SS. dissenzienti, prefigurando così
una clausola penale al di fuori di qualsiasi comportamento
trasgressivo o vagamente inadempiente e addirittura in pre‑
senza di comportamenti perfettamente coerenti con gli impe‑
gni assunti; così come è una situazione agiuridica immagina‑
re che clausole obbligatorie dei contratti collettivi, che dovreb‑
bero vincolare soltanto le associazioni sindacali stipulanti,
possano essere automaticamente travasate negli accordi indi‑
viduali per dilatare il contenuto dell’obbligo contrattuale ben
oltre i limiti prefigurati dal contratto di lavoro subordinato.
E tutto ciò va detto anche a prescindere dalla inossidabile
querelle sulla matrice e titolarità del diritto di sciopero nella
cui struttura indubbiamente si integrano posizioni individua‑
li e collettive in un legame inestricabile.
Gli Accordi in questione si pongono altresì in una dimen‑
sione asindacale, se dobbiamo attenerci al diritto sindacale
che si è andato sviluppando nel periodo post‑costituzionale
attraverso una congerie composita di fonti, nazionali ed ex‑
tra‑statuali.
Senza volere troppo indugiare sul punto, occorre appena
ricordare che il sistema di relazioni sindacali italiano, correla‑
to all’inattuazione dell’art. 39 Cost., si è sviluppato in forme
autonome e spontanee sulla base del riconoscimento del ruolo
egemonico esercitato nel nostro paese dalle principali Confe‑
derazioni sindacali le quali, operando in unità di azione e
rappresentando nei diversi contesti organizzativi la maggioran‑
za dei lavoratori, avevano piena legittimazione a elaborare una
trama regolativa di efficacia tendenzialmente generale e come
tale riconosciuta, esplicitamente e implicitamente, dall’ordina‑
mento giuridico. Questo sistema ha trovato una consacrazione
istituzionale nello Statuto dei lavoratori, e in particolare nel
Titolo III dello stesso, e si è progressivamente evoluto attraver‑
so alcuni storici Accordi interconfederali, tra i quali, in primo
luogo, il Protocollo del 23 luglio 1993 tra CGIL, CISL, UIL,
Confindustria e Governo, ed il correlato Accordo interconfe‑
derale del 20 dicembre 1993 sulla costituzione delle R.S.U., che
hanno costituito le premesse di fatto per un’espansione dell’ef‑
ficacia ed operatività dei contratti collettivi. Soltanto in questo
contesto può comprendersi l’ intenso rapporto di interazione,
e occorrerebbe dire di compenetrazione, tra la fonte legale e
quella contrattuale, che ha rafforzato il ruolo istituzionale del
sindacato e ha convalidato la naturale proiezione della contrat‑
tazione collettiva ad esercitare una funzione regolamentare di
carattere omogeneo e tendenzialmente generale.
Persino a livello aziendale, la costituzione delle R.S.U., di
matrice unitaria, ed esponenziale dell’intera collettività azien‑
dale, ha rappresentato la premessa organizzativa per una rego‑
lazione di fatto del contratto aziendale, convalidando l’opinio‑
ne, ampiamente diffusa, seppure su basi teoriche eterogenee,
sull’efficacia generale del relativo livello contrattuale. Opera‑
zione questa che si è rivelata particolarmente incisiva nel disci‑
plinare i ricorrenti processi di crisi e di trasformazione azien‑
dale con le conseguenti ricadute sulla condizioni di lavoro.
Non certo a caso un tale assetto è stato sostanzialmente
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
avallato dalla Corte costituzionale con importanti sentenze
intervenute in quei casi, non infrequenti, in cui la legislazione
del lavoro delegava funzioni strategiche alla contrattazione
collettiva sul presupposto di una capacità regolativa diffusa e
ad ampio raggio di efficacia.
Indubbiamente un vulnus al sistema descritto è stato rap‑
presentato dal referendum abrogativo dell’art. 19 St. lav. (o di
parti di esso) – promosso nel 1995 da forze sostanzialmente
antisindacali o che comunque contestavano l’egemonia delle
principali Confederazioni alla luce di un’astratta visione
egualitaristica del sistema di relazioni industriali – che ha
prodotto un vero e proprio aborto giuridico, codificato nell’at‑
tuale versione dell’art. 19, avendo decontestualizzato la rap‑
presentatività sindacale dalla “premessa maggiore” contenu‑
ta nella lett. a) della norma e avendola correlata ad un dato
formale ed estrinseco, fortemente condizionato dal compor‑
tamento della controparte datoriale, a cui viene paradossal‑
mente riconosciuto un vero e proprio potere di veto o di ac‑
creditamento al tavolo delle trattative.
Ciò nonostante il sistema sindacale si è rapidamente ri‑
composto, anche una volta superato ogni riferimento al livel‑
lo organizzativo‑confederale, e anzi ha rivelato tutta l’auto‑
noma potenzialità regolativa nel momento in cui i principali
sindacati hanno visto convalidata la propria effettiva rappre‑
sentatività nei diversi contesti in cui si sono trovati ad opera‑
re, con risultati selettivi che sono risultati più marcati di
quelli prefigurati nell’art. 19 dello Statuto. Non certo a caso,
quasi in un processo simultaneo, il criterio selettivo della
maggiore rappresentatività – che pure ha continuato ad ope‑
rare in alcuni contesti normativi – è stato sostituito da quello
che valorizza la comparazione sindacale e quindi implicita‑
mente determina la prefigurazione di una soglia di ingresso
nella categoria degli agenti contrattuali qualificati.
Rispetto all’assetto innanzi evocato, la stagione degli
Accordi sindacali separati ha introdotto evidenti elementi di
perturbazione, ma non lo ha compromesso del tutto, quanto‑
meno nelle strutture portanti, né in termini di politica sinda‑
cale, né in termini di equilibri normativi.
Sotto il primo profilo, almeno sino a un certo punto, è
stata opinione diffusa che il dissenso manifestato in alcune
sedi di alcune importanti OO.SS. era destinato a essere rias‑
sorbito in tempi ragionevoli, come evidenziato dalla sottoscri‑
zione di numerosi accordi unitari e da una sostanziale unita‑
rietà di azione a livello territoriale e decentrato.
Ma anche sul piano degli equilibri normativi, la sottoscri‑
zione di accordi separati non si è mostrata suscettibile di
compromettere il delicato equilibrio che si era venuto a deter‑
minare tra le fonti regolative dei rapporti di lavoro (e ciò fino
a quando non si verificherà un’anomala sovrapposizione di
contratti collettivi di analogo livello e non andrà a concretiz‑
zarsi una contrattazione aziendale di stampo completamente
autonomista).
Tutt’altra situazione affiora con gli Accordi Fiat che se‑
gnano una linea di accentuata discontinuità con il passato
nella misura in cui sono ispirati da una logica autarchica o
autosufficiente perseguita attraverso una complessa trama
giuridica finalizzata ad aggirare progressivamente i vincoli
della disciplina vigente e i condizionamenti del sistema sinda‑
cale per recuperare una condizione ideale di piena autonomia
di manovra.
2 0 1 1
17
Più che agiuridico è fortemente sospetto di antisindacalità
il tentativo di escludere la FIOM dall’esercizio dei diritti sin‑
dacali per mancata sottoscrizione del contratto collettivo
applicato nell’unità produttiva, ove è palese un uso alternati‑
vo e strumentale dell’art. 19 St. Lav., totalmente estraneo
alla sua ratio ispiratrice, anche a seguito della mutilazione
subita per effetto del referendum del 1995.
A parte che l’espediente tecnico sembra di difficile appli‑
cazione, atteso che è improbabile che nella fitta trama della
legislazione del lavoro e degli accordi ad essa collegati non vi
siano accordi collettivi sottoscritti anche dalla FIOM appli‑
cati nell’unità produttiva, è evidente che un uso così opportu‑
nistico della norma, concordato peraltro con associazioni
concorrenti, è in plateale contrasto con la finalità promozio‑
nale e al contempo selettiva incorporata nella norma medesi‑
ma. È chiaro infatti che la norma in questione, anche a segui‑
to del referendum, rimane una norma estensiva o inclusiva
della partecipazione sindacale, in conformità ai principi di
libertà e pluralismo sindacale, che cioè consente di riconosce‑
re i diritti sindacali persino a soggetti che non hanno una
rappresentatività antica e consolidata, ma non autorizza a
privare dei diritti sindacali quei sindacati unanimemente ri‑
conosciuti come maggiormente o comparativamente più
rappresentativi. Del resto se la norma fosse interpretata nei
termini ipotizzati entrerebbe in plateale contraddizione con
quella congerie di norme della legislazione del lavoro che, nel
qualificare i sindacati maggiormente rappresentativi o com‑
parativamente giudicati tali, ha sempre implicitamente inclu‑
so in tale categoria i sindacati storici con ampio seguito asso‑
ciativo, i quali non potrebbero essere rappresentativi a livello
nazionale o territoriale e non esserlo a livello aziendale, dove
pure iscrivono una quota consistente dei lavoratori.
Né vale richiamare la sentenza della Corte costituzionale
n. 244 del 12.7.1996, la quale, in una particolare congiuntura
economico‑sociale, cercò di salvare il fragile equilibrio regola‑
mentare che derivava dall’intervento referendario. Tuttavia la
sentenza in questione per un verso non ha mai sostenuto che i
sindacati maggiormente rappresentativi possano essere esclusi
dall’esercizio dei diritti sindacali se non firmatari di alcuni
accordi contrattuali, per un altro verso ha espressamente stig‑
matizzato la possibilità che si potesse introdurre un innatura‑
le diritto di accreditamento riservato alla controparte datoria‑
le, ritenendo piuttosto che fosse qualificante la capacità del
sindacato di imporsi sul terreno del confronto sindacale. Sotto
questo profilo è importante aggregare consensi, partecipare
alla trattativa, avere la capacità di entrare nel circuito negozia‑
le, ma non v’è certo un “obbligo a firmare” e cioè ad accettare
l’accordo, qualunque esso sia, altrimenti risulterebbe fortemen‑
te condizionata la volontà negoziale del sindacato, costretto a
sottoscrivere accordi insoddisfacenti soltanto per realizzare
obiettivi estranei ai contenuti in trattazione.
È quasi banale in proposito rilevare che in tutti i sistemi
democratici la rappresentatività deriva prioritariamente, se
non esclusivamente, dal seguito associativo riscontrato nei
diversi contesti lavorativi e non può essere invece correlata a
dati formali o nominalisti, che possono in alcuni casi assume‑
re una qualche rilevanza, ma di carattere integrativo o com‑
plementare mai sostitutivo.
Al di fuori della ricostruzione prospettata non sembra
evitabile un giudizio di legittimità costituzionale della norma,
civile
Gazzetta
18
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dall’esito francamente prevedibile in considerazione della di‑
sparità di trattamento e della grave discriminazione perpetra‑
ta ai danni di un soggetto indubbiamente rappresentativo, con
il concorso, peraltro assai poco esemplare, di sindacati con‑
correnti. Nel corso di quel giudizio potrebbe aversi una pro‑
nunzia di incostituzionalità, ove affiorasse con nettezza
l’inidoneità della norma selettiva ad operare al di fuori del
contesto normativo in cui era stata originariamente concepita,
ovvero, in alternativa, si potrebbe avere un’interpretazione
adeguatrice della norma vigente che la renda compatibile con
i principi di libertà e di pluralismo sindacale, solennemente
sanciti anche in ambito comunitario.
Indipendentemente dalle evoluzioni future e dai compro‑
messi che già si intravedono, l’impatto disgregativo degli ac‑
cordi Fiat sul sistema di relazioni industriali si è già ampia‑
mente consumato nonostante l’interesse di alcuni protagonisti
a minimizzarne la portata. In primo luogo perché la politica
sindacale Fiat ha reso evidente la vulnerabilità del sistema
precedente, che si fondava su un delicato compromesso poli‑
tico e giuridico, che poteva reggere soltanto sulla base di un
tacito consenso dei principali protagonisti. Se è bastato revo‑
care l’iscrizione ad una associazione datoriale per sottrarsi ai
vincoli di un sistema sedimentato negli anni, fondato peraltro
su importanti accordi regolativi, vuol dire che quel sistema è
ineffettivo e va rifondato dalle radici. Analogamente, se può
essere sufficiente costituire formalmente una new company
su una struttura produttiva preesistente per sottrarsi alla di‑
sciplina contrattuale nella sua complessa evoluzione, vuol
dire che quel sistema di protezioni legali e contrattuali può
essere facilmente aggirato ed eluso.
Nella vicenda in discussione si sono rivelati tutti i limiti e
le contraddizioni della dottrina gius‑sindacale la quale, nono‑
stante l’intensa produzione scientifica, non è stata in grado di
elaborare un codice uniforme di interpretazione del fenomeno
sindacale nelle sue varie manifestazioni. La stagione degli
accordi separati ha rivelato una radicale contrapposizione
ideologica tra una concezione civilistica ed una ordinamenta‑
le o endosindacale.
Sta di fatto che la prima impostazione ha favorito una
parcellizzazione del fenomeno sindacale, tant’è vero che per
recuperare un minimo di vincolatività degli accordi sindacali
separati è stata costretta a recuperare l’atto individuale di
assunzione e le clausole di rinvio alla contrattazione collettiva
solitamente in esso contenute. Sicché improvvisamente abbia‑
mo scoperto che il contratto collettivo sarebbe vincolante per
le parti negoziali non già per le proprie intrinseche qualità
regolative bensì in virtù di un atto di sottomissione individua‑
le alla relativa disciplina.
Altrettanto esemplare è la discussione sul tema dei rap‑
porti tra contratti collettivi di diverso livello. Nelle vicende
richiamate una parte della dottrina, per legittimare le azzar‑
date scelte aziendali, ha evocato una giurisprudenza che
consentirebbe ampiamente la derogabilità delle clausole del
contratto nazionale da parte del contratto aziendale, sia in
termini peggiorativi sia in termini migliorativi allorquando
la contrattazione collettiva esorbita dai limiti prefigurati
dalla disciplina di livello superiore. Senonché la sopravvalu‑
tazione di questa giurisprudenza, peraltro episodica e discon‑
tinua, si pone in aperta contraddizione con le regole incorpo‑
rate nei principali accordi di regolazione del sistema contrat‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
tuale e con le clausole contenute in tutti i contratti collettivi
nazionali da tempo ormai immemorabile. Com’è possibile non
rendersi conto che avallare una derogabilità ad libitum del
contratto nazionale da parte della contrattazione aziendale
significa ignorare, non solo dati regolamentari consolidati e
vincolanti, ma anche il complesso travaglio sindacale che ha
portato faticosamente ad elaborare “clausole di uscita” dalle
regole nazionali per incentivare il sistema produttivo e per
affrontare complesse situazioni occupazionali? Com’è possi‑
bile ritenere operante una regola di autonomia dei vari momen‑
ti negoziali, che si vorrebbe di generale riconoscimento nella
giurisprudenza, e poi riflettere sui limiti e le modalità in cui le
deroghe possono essere consentite secondo il sistema di rela‑
zioni effettivamente vigente? Quelle sentenze, spesso estempo‑
ranee e da correlare alla singola situazione in esame, rivelano
piuttosto un deficit di cultura sindacale e non possono essere
poste in contraddizione con i processi reali, che vanno sempre
ricostruiti in una logica ordinamentale o inter‑sindacale, che
consenta di interpretare il singolo sistema contrattuale come
ordinamento originale dotato di proprie regole di condotta e
di decentramento sia per quanto riguarda i soggetti legittima‑
ti sia con riferimento alle materie consentite.
È chiaro che organismi sindacali totalmente estranei alle
organizzazioni stipulanti il contratto nazionale possono sot‑
toscrivere accordi sindacali per così dire liberi o autonomi, ma
questi si pongono totalmente al di fuori del sistema di relazio‑
ni sindacali costruito nei vari settori merceologici, così come
si pongono al di fuori dei complessi meccanismi di interazione
tra la legge e il contratto collettivo. Ciò può assecondare
l’estemporanea aspirazione di qualche imprenditore di collo‑
carsi in un limbo felice avulso da vincoli sindacali, ma occor‑
re riconoscere che si tratta di un’aspirazione extra ordinem, la
quale non dovrebbe trovare alcun avallo in una giurispruden‑
za semplicisticamente evocata e consapevolmente travisata.
Può essere utile in proposito appena richiamare antiche
ricostruzioni teoriche che hanno ampiamente esplorato que‑
sta problematica inquadrandola integralmente in una logica
ordinamentale al punto da prefigurare ipotesi di eccesso o
abuso di potere rappresentativo da parte di strutture sinda‑
cali operanti a livello decentrato in contrasto con le regole
del contratto nazionale. Persino autori che in una passata
stagione politico‑sindacale, contraddistinta da una conflit‑
tualità permanente, hanno teorizzato la non vincolatività
delle clausole di tregua sindacale rispetto alla contrattazione
aziendale nella prospettiva di realizzare migliori equilibri
emancipatori delle classi subalterne, si collocavano all’inter‑
no di un discorso endo‑associativo, che pure all’epoca non
aveva regole così strutturate come quelle poi definite nell’Ac‑
cordo del 1993.
I nuovi equilibri che derivano dall’operazione Fiat, se la‑
sciano ben comprendere il modello sindacale che si vuole la‑
sciare alle spalle, non consentono di individuare un modello
alternativo che si vorrebbe preconizzare. Ciò che appare chiaro
al momento è il superamento di un sistema centralistico, fon‑
dato sull’unità di azione delle principali Confederazioni sinda‑
cali e sull’intrinseca idoneità delle stesse a organizzare le rela‑
zioni di lavoro in un’ottica solidaristica ed intercategoriale.
All’estremo di tale modello vi è quello di una aziendaliz‑
zazione delle relazioni industriali, che tuttavia risulta diffici‑
le da implementare nel nostro ordinamento giuridico, non
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
solo per i vincoli contenuti nell’art. 39 della Costituzione, che
ignora la dimensione aziendale, ma anche per la presenza di
un tessuto diffuso di piccole‑medie imprese che possono
guardare con diffidenza una frammentazione del conflitto
industriale.
D’altro canto il modello Fiat non preannuncia neppure
logiche partecipative (nelle diverse versioni in cui si possono
manifestare), se non di stampo subalterno e addomesticato,
come ben evidenziato dal ruolo decisionista, autoritario e
trainante del management aziendale che pone opzioni drasti‑
che imponendo scelte alternative.
È infine il caso di aggiungere che l’assetto che si è venuto
a delineare non ha nulla a che vedere con quello vagamente
ipotizzato nel dibattito di qualche anno fa sulla riforma del
sistema di relazioni industriali, che auspicava un maggiore
spazio alla contrattazione decentrata, ma entro limiti proce‑
durali e contenutistici rigorosamente predeterminati, in parte
poi specificati negli Accordi interconfederali del 2009. Piut‑
tosto si intravede un sistema policentrico, fortemente condi‑
zionato da situazioni di potere contingenti e territorialmente
variabili, in un quadro regolativo sommario ed instabile, su‑
scettibile di continue revisioni.
Nella situazione di anomia che si è determinata è alquan‑
to spontaneo invocare un intervento legislativo, sia pure di
impronta minimalista, che stabilisca alcune regole fondamen‑
tali e che consenta di risolvere i nodi intricati della contratta‑
zione aziendale e della sua efficacia. Tuttavia, a trascurare i
limiti di elaborazione giuridica dell’attuale compagine di go‑
verno, non sembra sussistano le condizioni per un’accettabile
regolazione dell’attività sindacale, anzitutto per gli evidenti
interessi politico‑sindacali che sono alla base del pactum ad
2 0 1 1
19
escludendum della principale organizzazione sindacale, ma
ancor più perché un intervento legislativo in materia sindaca‑
le può solo ratificare un processo che si è andato sedimentan‑
do sul terreno sociale e che risulta quindi ampiamente condi‑
viso dai principali interlocutori. Condizioni queste che non
sussistono affatto, ove appena si consideri il modo sbrigativo
con il quale è stato considerato dalla CISL e dalla UIL un
progetto proposto recentemente dalla CGIL di regolazione
della partecipazione e della democrazia sindacale.
Né v’è un modello condiviso a cui potersi rapportare, non
potendosi certamente considerare quello operante nel settore
del lavoro pubblico che, a parte la controversa riconducibilità
nel perimetro dell’art. 39 Cost., si fonda su alcuni presupposti
fondamentali che gli Accordi Fiat hanno radicalmente messo
in discussione. Tale disciplina infatti è maturata sul terreno
di una logica di scambio dei Governi dell’epoca con le princi‑
pali Confederazioni sindacali, che accettavano una politica di
austerità salariale secondo i parametri di Maastricht a fronte
di un sostegno promozionale nel settore pubblico, ove non a
caso hanno acquisito nel tempo una posizione pressoché ege‑
monica.
Rimane la possibilità di una rivisitazione, sia pure attua‑
lizzata, dei principi contenuti nell’art. 39 Cost. che, per un
verso consentirebbero di articolare criteri regolativi della
partecipazione e della democrazia sindacale imperniati sulle
varie declinazioni del principio di maggioranza, in un’ottica
quindi sostanzialista e non formalista, come quella attual‑
mente codificata nell’art. 19, per altro verso andrebbero a
ribadire la funzione tipicamente regolativa del contratto col‑
lettivo nazionale quale portato istituzionale e in qualche
modo tipizzante del nostro ordinamento giuridico.
civile
Gazzetta
20
D i r i t t o
●
Art. 1225 c.c.:
applicazione in campo
aquiliano e nuova
frontiera del danno
non patrimoniale
da inadempimento
● Vittorio Sabato Ambrosio
Dottore in giurisprudenza
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
L’art. 1225, nell’ ambito della disciplina codicistica, rap‑
presenta uno dei criteri di quantificazione dell’obbligazione
risarcitoria. Il disposto di tale articolo prevede che: “se l’ina‑
dempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore il
risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel
tempo in cui è sorta l’obbligazione”.Tale norma si riferisce
alla causalità giuridica in quanto è diretta a individuare il
nesso causale che intercorre tra l’inadempimento e le sue con‑
seguenze dannose. In particolare, in ragione della funzione
riparatoria della responsabilità civile, si individuano le conse‑
guenze risarcitorie meritevoli di tutela che non siano troppo
distanti dal fatto‑inadempimento nell’ ottica della teoria della
causalità adeguata. In questo modo si realizza la funzione li‑
mitatrice del risarcimento del danno evitando che il danneg‑
giato possa conseguire una locupletazione non consentitagli
dal nostro ordinamento.
L’articolo era, in parte, contenuto anche nel codice civile
del 1865 all’ art. 12281. Dal confronto sistematico dei due
articoli si evince: sul piano letterale, che ambedue danno rile‑
vanza esplicita agli stati soggettivi del debitore; sul piano so‑
stanziale, si differenziano in quanto la disciplina del codice
previgente si riferisce al “tempo in cui è sorto contratto” con
una applicazione ridotta alle sole ipotesi di contrattuali, men‑
tre, l’articolo 1225 del vigente codice con la locuzione “tempo
in cui è sorta l’obbligazione” amplia il suo ambito di applica‑
zione riferendosi sia alle promesse unilaterali, sia alla evolu‑
zione del concetto di obbligazione nell’ottica del contatto so‑
ciale qualificato ex artt. 1173 c.c. e 2 Cost.
Poste queste premesse generali, bisogna considerare che
l’esatta individuazione della natura giuridica dell’ art. 1225 è
foriera di rilevanti aspetti problematici, soprattutto in riferi‑
mento ai suoi rapporti con l’art. 1223 c.c. 2. Inoltre, di difficile
decifrazione è la portata dei riferimenti psicologici contenuti
in tale articolo. L’ articolo 1223 c.c. nel selezionare le conse‑
guenze dell’inadempimento che generano obbligazione risarci‑
toria, si riferisce alle conseguenze immediate e dirette. Tale
disposto è stato interpretato estensivamente facendovi rientra‑
re anche quelle conseguenze mediate e indirette meritevoli di
tutela per l’ordinamento giuridico che, secondo l’id quodple‑
rumqueaccidit, sono atte a cagionare un sacrificio economico
nella sfera del danneggiato. Invece, l’art. 1225 fa riferimento
allo stato soggettivo del debitore al tempo in cui è sorta l’ob‑
bligazione, prevedendo la risarcibilità dei danni prevedibili‑
qualora il debitore ponga in essere un comportamento colposo,
salvo l’inadempimento o il ritardo dipendono dal dolo. Dalla
lettura sistematica dei due articoli si rileva che vi è una rilevan‑
te differenza in quanto per l’art. 1223 la selezione dei danni
meritevoli di tutela viene fatta ex post, mentre, invece, nel 1225
ex ante ossia al momento in cui è sorta l’obbligazione.
In un primo momento le due norme venivano considerate
in rapporto di consequenzialità sulla base di una lettura logi‑
co‑sistematica. Secondo tale tesi l’art. 1225 era idoneo a de‑
1L’art. 1228, del codice civile del 1865, stabiliva testualmente che: “il debitore
non è tenuto se non ai danni che sono stati preveduti, o che si sono potuti pre‑
vedere al tempo del contratto, quando l’inadempimento delle obbligazioni non
derivi da suo dolo”.
2L’art. 1223 del codice civile vigente prevede che: “Il risarcimento del danno per
l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal
creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immedia‑
ta e diretta”.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
rogare il disposto dell’ art. 1223 solo nelle ipotesi in cui
l’inadempimento dell’ obbligazione, da parte del debitore,
fosse stato posto in essere con dolo. Da ciò, in un ottica san‑
zionatoria, il debitore doveva risarcire anche i danni impreve‑
dibili. Invece, nel caso in cui il comportamento del debitore
fosse di origine colposa si risarcivano i danni prevedibili ap‑
plicando l’art. 1223 c.c.. Da questa interpretazione ne deriva‑
va un eccessivo svantaggio per il debitore, il quale, nel porre
in essere al tempo della nascita dell’ obbligazione un inadem‑
pimento di origine colposa, veniva sottoposto alla disciplina
dell’ art 1223 c.c., come estensivamente interpretata, non
considerando che le due norme indicano una locuzione tem‑
porale differente per la valutazione del contegno debitorio.
Inoltre, tale tesi, per i comportamenti dolosi effettuava una
lettura sanzionatoria della responsabilità civile non conforme
alla sua funzione riparatoria.
In realtà l’art 1225 è dotato di autonomia applicativa, in
quanto ha la funzione di limitare il risarcimento del danno
quando l’inadempimento o il ritardo dipenda dallo stato sog‑
gettivo di colpa del debitore. Ne deriva che nel caso in cui il
debitore ponga in essere comportamenti colposi, idonei a far
scaturire l’inadempimento o il ritardo dell’ obbligazione, il ri‑
sarcimento è limitato a quei danni che potevano prevedersi nel
momento in cui è sorto il rapporto obbligatorio. Per cui si de‑
sume che oltre alla colpa del debitore, intesa come comporta‑
mento negligente nell’attuazione del rapporto obbligatorio, ci
sia un quid di prevedibilità dei danni di sicura verificazione.
Grazie a questa interpretazione la giurisprudenza ha indi‑
viduato quali possono i danni prevedibili prodotti dal debito‑
re in colpa. In particolare, si fa riferimento a quei danni che
in relazione alla natura dell’attività svolta dal creditore sono
certi nel suo verificarsi3.
Ancora, la giurisprudenza ha decifrato l’esatto significato
della locuzione “nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”.
Secondo la Corte di legittimità, tale espressione non si riferi‑
sce al momento della nascita del consenso al programma
contrattuale, bensì al tempo in cui la prestazione diventa
esigibile. Solo in tale momento il debitore ha il dominio di
determinarsi dolosamente verso l’inadempimento, o di porre
in essere contegni colposi causalmente idonei a cagionare un
danno prevedibile 4.
Bisognaspecificare aquale accezione faccia riferimento il
dolo previsto dall’art. 1225. Va ricordato che nel codice civi‑
3 “Posto che l’art. 1225 cod. civ. si applica anche al danno dipendente dall’ina‑
dempimento o dall’inesatto adempimento dell’obbligazione di riconsegna della
cosa locata, l’imprevedibilità alla quale tale norma fa riferimento non costitu‑
isce un limite all’esistenza del danno, ma alla misura del suo ammontare, de‑
terminando, infatti, la limitazione del danno risarcibile a quello prevedibile non
da parte dello specifico debitore, bensì avendo riguardo alla prevedibilità
astratta inerente ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle
regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, cioè, secondo un
criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute”.Cass. Civ.
Sez. III, 15 maggio 2007, n.11189, www.pluris‑cedam.utetgiuridica.it.
4 “In tema di responsabilità contrattuale, la prevedibilità del danno risarcibile
deve essere valutata con riferimento non al momento in cui è sorto il rapporto
obbligatorio ma a quello in cui il debitore, dovendo dare esecuzione alla pre‑
stazione e, potendo scegliere fra adempimento e inadempimento, è in grado di
apprezzare più compiutamente e quindi di prevedere il pregiudizio che il credi‑
tore può subire per effetto del suo comportamento inadempiente; infatti, il
collegamento della prevedibilità del danno al tempo in cui è sorta l’obbligazio‑
ne non tiene conto del periodo di tempo, a volte anche lungo,intercorrente fra
tale momento e quello in cui la prestazione deve essere adempiuta”.Cass. Civ.,
Sez. III, 30 gennaio 2007, n. 1956, www.pluris‑cedam.utetgiuridica.it
2 0 1 1
21
le non esiste una definizione di dolo, è pacifico in dottrina che
la disciplina da applicare, a tale elemento soggettivo, sia mu‑
tuabile dalla scienza penalistica con riferimento all’ art. 43
c.p. . Ciò posto, si considera che in tale articolo si fa riferi‑
mento al dolo generico come volontà generica di non adem‑
piere all’ obbligazione senza che sia previsto il fine di cagio‑
nare un danno.
Si è molto discusso sull’ applicazione dell’art. 1225, come
criterio di quantificazione del risarcimento del danno alla
disciplina della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043
c.c.. Il problema si pone in quanto nella valutazione dei dan‑
ni derivanti dalla responsabilità extracontrattuale il legisla‑
tore del codice civile, all’art. 2056, richiama come parametri
per la determinazione del risarcimento gli artt. 1223, 1226 e
1227, omettendo il riferimento all’ art. 1225. In altre parole,
per l’art. 2056 il risarcimento del danno extra contrattuale si
misura sulle regole della quantificazione del danno contrat‑
tuale, escluso l’art. 1225.
Da questa premessa generale già dal dato letterale si evin‑
ce che è espressamente esclusa l’applicazione dell’ art. 1225
alla responsabilità extracontrattuale. In realtà le ragioni di
tale esclusione vanno ricercate facendo un approfondimento
sulla differenza ontologica e funzionale esistente tra la respon‑
sabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La responsabilità contrattuale o da inadempimento ex art
1218, che genera il risarcimento del danno, nasce quando il
debitore non esegue esattamente la prestazione prevista nel
programma contrattuale. Tale danno nasce da un pregresso
rapporto contrattuale nel quale le parti, attraverso lo scambio
specifico dei consensi, si sono reciprocamente obbligate a
soddisfare la sfera giuridica altrui facendogli conseguire le
pretese economiche e gli intenti pratici avuti di mira nella
intera operazione contrattuale. Di conseguenza, l’inadempi‑
mento comporta un sacrificio che elide ilconseguimento delle
utiliatesed è idoneo a determinare delle perdite patrimoniali
e dei guadagni mancati.
Diversamente, la responsabilità extracontrattuale prescin‑
de da un rapporto contrattuale fra le parti generandosi dal
principio generale dell’ordinamento giuridiconeminemlaede‑
re, il quale comporta a carico dei consociati un divieto di
ingerenza nella sfera giuridica altrui ex art. 2043 c.c. art. 2
Cost.. A differenza della responsabilità contrattuale, nella
quale si risarciscono gli interessi economici specificamente
dedotti nel contratto, nell’illecito aquiliano compensa la le‑
sione degli interessi giuridici meritevoli di tutela per l’ordina‑
mento giuridico.
Da tale distinzione si evince la ratio dell’inoperatività dell’
art.1225 nel campo della responsabilità aquiliana, oltre ad
essere esclusa dal dato letterale dell’ art. 20565, è altresì esclu‑
sa dalla differenza fra le due discipline in quanto si fa riferi‑
mento a delle situazione in cui fra le parti esiste un rapporto
contrattuale pregresso, nell’ambito del quale il debitore, nel
momento in cui sorge l’obbligazione, è in grado di conoscere
5 “In ordine all’entità del risarcimento dei danni derivati da fatto illecito, il re‑
quisito della prevedibilità del danno, correlato all’elemento psicologico di esso
(art. 1225 c.c.), è inapplicabile alla responsabilità extracontrattuale, in quanto
non richiamato dall’art. 2056 c.c., avendo scelto il legislatore di non commisu‑
rare il risarcimento al grado della colpa”. Cass. Civ., Sez. III, 30 marzo 2005,
n 6725, www.pluris‑cedam.utetgiuridica.it.
civile
Gazzetta
22
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
e valutare quali siano le conseguenze patrimoniali dannose
derivanti dall’inadempimento contrattuale doloso, e quali
siano i danni prevedili causalmente originati da un compor‑
tamento coloposo.
Nella responsabilità extracontrattuale, non preesiste nes‑
sun rapporto giuridico fra le parti, queste ultime si determina‑
no nel momento in cui si verifica il fatto illecito. Inoltre, gli
stati soggettivi del dolo o della colpa6, previsti dall’ art. 2043,
sono riferiti al fatto empirico posto in essere dal danneggiante,
ed è evidente come quest’ultimo non può prevedere quali siano
le esatte conseguenze dannose che si verificano in concreto.
Nonostante tale lettura sia pacifica, bisogna rilevare che
esiste una dottrina minoritaria la quale ritiene applicabile il
disposto dell’ art. 1225 alla responsabilità derivante da fatto
illecito. Questa tesi si fonda sulla interpretazione estensiva del
concetto “tempo i cui è sorta l’obbligazione”, facendovi rien‑
trare nel concetto di obbligazione anche quelle derivanti dal
fatto illecito7.
L’ambito di applicazione dell’ art. 1225 è, inoltre, discus‑
so nella nuova frontiera del danno non patrimoniale in
campo contrattuale, in riferimento a casi in cui per effetto
dell’inadempimento contrattuale vengono violati interessi
attinenti ai diritti fondamentali della persona che il program‑
ma obbligatorio mirava a tutelare. La stura, a tale forma di
risarcimento, è stata data dalla ermeneutica delle sezioni
unite della Corte di Cassazione sul danno non patrimoniale
del 2008. Tale sentenza, ha espressamente abiurato la teoria
del cumulo delle azioni, la quale comportava la proposizione
contemporanea di un azione di risarcimento del danno con‑
trattuale ed una extracontrattuale, in quanto considerato un
espediente gravoso per il danneggiato che a causa dell’ina‑
dempimento del contratto riportava fatti lesivi per la propria
integrità psico‑fisica (es. nel caso di incidente verificatosi nel
contratto di trasporto). Fondamento giustificativo del danno
non patrimoniale da inadempimento si rinviene dalla combi‑
nazione dell’ art. 1174 e della teoria della causa in concreto.
L’art. 1174 dispone che la prestazione contrattuale può cor‑
rispondere anche ad un interesse non patrimoniale del credi‑
tore. La teoria della causa in concreto del contratto fa riferi‑
mento all’evoluzione del concetto di causa, intesa come
funzione economico‑sociale soggettiva nella quale bisogna
tener degli intenti pratici che i paciscenti intendono conse‑
guire con l’operazione economica posta in essere, conside‑
rando le prestazioni idonee a soddisfare anche le attività re‑
alizzatrici della persona umana.
Per dare esecuzione a tali coordinate le sezioni unite effet‑
tuano una lettura costituzionalmente orientata delle norme
che regolano l’inadempimento delle obbligazioni e dei criteri
di quantificazione del danno.
L’art. 1218, si interpreta in modo estensivo, considerando
il concetto di risarcimento del danno cagionato dall’inadem‑
pimento dell’ obbligazione, comprensivo anche del danno non
patrimoniale.
Nell’art. 1223, le perdite subite e il mancato guadagno
vanno considerate inclusive anche dei pregiudizi non patrimo‑
niali.
6 Relazione governativa al codice civile, n. 801.
7 Visintini, in Trattato di diritto civile, a cura di Rescigno, 1987.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
L’opera ermeneutica delle sezioni unite esclude l’applica‑
zione dell’art. 1225, nell’ambito del risarcimento del danno
non patrimoniale da inadempimento, in quanto il suo risarci‑
mento è limitato solo a quello che il comportamento colposo
poteva prevedere.
Tale assunto, che esclude l’applicazione dell’art 1225 c.c.
alla responsabilità del danno non patrimoniale da inadempi‑
mento, potrebbe non condividersi. Infatti, attraverso il prin‑
cipio al principio di solidarietà sociale ex art. 2 della Costi‑
tuzione si invera una nuova concezione della buona fede
contrattuale, la quale, intesa in senso oggettivo, genera a
carico dei paciscenti delle prestazioni accessorie dirette a
protegge la sfera giuridica altrui nei limiti di un apprezzabile
sacrificio8. In particolare, dalla fase precontrattuale fino
all’esecuzione del programma contrattuale, a carico delle
parti si pongono doveri specifici di protezione che hanno
anche la funzione di rendere edotta la controparte su quali
siano gli interessi, patrimoniali e non, per i quali si addiviene
alla stipula del contratto. Ciò posto, è apodittico che se,“al
momento in cui è sorta l’obbligazione”, il debitore sia cono‑
scenza del fatto cheil contratto, in concreto, miri a realizzare
anche interessi non patrimoniali ex art 1174 c.c. diretti a
proteggere diritti inviolabili costituzionalmente garantiti,
quest’ultimo è in grado di prevedere quali siano i danni non
patrimoniali che possano derivare dal proprio comportamen‑
to colposo.
8 C. M. Bianca, Diritto civile, 5 la responsabilità, 1994, Milano.
F O R E N S E
●
Il procedimento
di equa riparazione
ex lege 24 marzo 2001,
n. 89
● Francesco Fuschino
Dottore in Giurisprudenza
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
23
SOMMARIO: Introduzione – 1. Il Giudice competente – 2. La
proposizione del ricorso – 3. Il diritto all’equa riparazione. Il
danno patrimoniale e non patrimoniale. Le parti e il loro com‑
portamento – 4. Giudizio a quo di competenza della Corte dei
Conti e del giudice amministrativo – 5. Giudizio a quo di com‑
petenza del giudice civile e penale – 6. Quantificazione dell’in‑
dennizzo – 7. Prescrizione del diritto – 8. Ritardo nella liquida‑
zione degli indennizzi relativi a processi civili. La Corte di
Strasburgo condanna l’Italia – 9. Considerazioni conclusive.
Introduzione
Il contenzioso relativo all’equa riparazione da corrispon‑
dersi per violazione dei termini ragionevoli del processo, ai
sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, comunemente cono‑
sciuta come “legge Pinto” è ormai divenuto di cospicua entità
e di rilevante interesse.
Com’è noto, la Convenzione Europea per la Salvaguardia
dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, ratificata
dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, statuisce, all’art. 6,
paragrafo 1, il diritto dei cittadini dei paesi firmatari ad un
processo avente durata “ragionevole”.
Lo Stato italiano, a causa dell’elevatissimo numero di giudi‑
zi, sconosciuto ad altri Paesi europei, nonché a causa dell’ende‑
mica carenza di strutture e di organico nell’ambito del settore
della giustizia1, si è tristemente contraddistinto in Europa per il
maggior numero di inadempienze e di violazioni; di conseguen‑
za, copiosi ricorsi volti ad ottenere “satisfaction èquitable”
hanno intasato l’attività della Corte Europea dei Diritti Umani,
con sede in Strasburgo, organismo deputato a giudicare sui ri‑
corsi per le violazioni dei diritti tutelati con la Convenzione
omonima, con grave lesione di immagine dell’Italia a livello
continentale e con effetto deflagrante, consistente nel dover
corrispondere notevoli somme per il risarcimento del danno, in
conseguenza delle plurime condanne emesse nei confronti del
nostro Paese, direttamente esecutive nell’ordinamento interno.
1. Il giudice competente
In risposta alle predette problematiche, il nostro legislatore,
dapprima, con legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2,
emanata in novella del disposto dell’art. 111 della Costituzione,
ha provveduto a dotare di copertura e tutela massima il diritto
alla ragionevole durata del processo e successivamente, con la
legge n. 89 del 2001 ha inteso dotarsi di un rimedio interno,
fornendo ai cittadini italiani un sistema di tutela nazionale2, con‑
sistente (ai sensi dell’art. 3) nella possibilità di presentare ricorso
presso la Corte di Appello3 di un Distretto diverso da quello in
cui si è svolto o è incardinato il processo a quo e del quale si la‑
menta l’eccessiva durata, secondo quanto previsto dall’art. 11 del
codice di procedura penale, recante uno schema sulle competen‑
1 Per un’analisi delle problematiche connesse alla irragionevole durata dei giudizi
si rinvia a M. Gerardo – A. Mutarelli, Sulle cause della “irragionevole”
durata del processo civile e possibili misure di reductio a ragionevolezza in Ju‑
dicium.it, 2010.
2 Con contestuale attivazione ex art. 35 Cedu di un “filtro”, consistente nel previo
esaurimento dei ricorsi individuali interni, azionanti il diritto all’equa riparazio‑
ne direttamente davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani.
3L’art. 6 della legge 89 del 2001 ha previsto la “trasferibilità” dei ricorsi in ma‑
teria di equa riparazione per eccessiva durata dei processi, già pendenti presso
la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, alla Corte d’Appello competente a
norma delle disposizioni nazionali, entro il termine di sei mesi dalla data di
entrata in vigore della “legge Pinto”.
civile
Gazzetta
24
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ze incrociate – Tabella A, (art. 7, l. 2 dicembre 1998, n. 420) ri‑
chiamata dall’art. 1 delle norme di attuazione (la Corte di Appel‑
lo di Napoli, ad esempio, secondo la predetta Tabella risulta
competente a giudicare sull’eccessiva durata dei processi penden‑
ti o conclusisi nel Distretto di Corte di Appello di Salerno, men‑
tre, per i giudizi radicati innanzi ai giudici dell’area distrettuale
napoletana, risulta competente la Corte d’Appello di Roma).
Tuttavia, la Corte di Cassazione, precisando che: “l’espres‑
so riferimento al distretto, sia per indicarne l’appartenenza
del giudice che si è occupato o si occupa del procedimento
della cui equa riparazione si discute e sia per individuare il
giudice competente, comporta necessariamente l’applicazione
della richiamata previsione ai soli giudici ordinari, i cui uffi‑
ci, ad eccezione della Corte di Cassazione, sono appunto ri‑
partiti in distretti”, ha dedotto che ai giudizi amministrativi,
non essendo i relativi organi giurisdizionali legati territorial‑
mente ai distretti di Corte d’Appello, non si applicasse, in
caso di ricorso per equa riparazione, il criterio in precedenza
indicato e contenuto nell’articolo 3 della citata legge4.
In sintesi, la competenza territoriale, per i ricorsi riguar‑
danti la richiesta di un’equa riparazione del danno ai sensi
della legge 24 marzo 2001, n. 89 che hanno ad oggetto ritar‑
di in giudizi davanti a giudici diversi da quello ordinario
(quindi, anche davanti alla Corte dei Conti per i giudizi pen‑
sionistici) deve essere individuata ai sensi delle norme di ca‑
rattere generale contenute nel codice di procedura civile.
Pertanto, si è ritenuto che la norma di carattere generale
applicabile (e richiamata dalla Corte) fosse quella contenuta
nell’art. 25 c.p.c., disciplinante il foro della pubblica ammi‑
nistrazione: “Per le cause nelle quali è parte un’amministra‑
zione dello Stato è competente, a norma delle leggi speciali
sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e nei casi
ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Av‑
vocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che
sarebbe competente secondo le norme ordinarie.
Quando l’amministrazione è convenuta, tale distretto si
determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o
deve eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o
immobile oggetto della domanda”.
In seguito, le Sezioni Unite della Suprema Corte, riveden‑
do il precedente orientamento in materia, al fine di favorire
la trattazione del contenzioso ex lege n. 89 del 2001 sull’inte‑
ro sistema delle Corti di Appello, evitando una elevata con‑
centrazione su quella di Roma, altrimenti inevitabile per il
fatto che, nella capitale hanno sede gli organi di vertice dei
diversi ordini giudiziari, ordinario e speciale, hanno ritenuto
che la competenza per territorio a giudicare dei ricorsi di
“legge Pinto”, così come cristallizzata nell’art. 3, comma 1°,
della legge, dovesse essere ancorata per tutte le specie di giu‑
dizi, sia del Giudice ordinario, sia del Giudice speciale, al
criterio previsto dall’art. 11 c.p.p. 5.
2. La proposizione del ricorso
La domanda di equa riparazione, ai sensi dell’art. 4 della
legge Pinto, può essere proposta durante la pendenza del
processo nel cui ambito si assume verificata la violazione dei
4 Cass. civ., sez I, ord. 4 febbraio 2003, n. 1653.
5 Cass. civ., sez. un., ord. 16 marzo 2010, n. 6306.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
termini ragionevoli, ovvero, entro sei mesi dalla definitività
della pronuncia che conclude il giudizio 6; l’adita Corte di
Appello pronuncia decreto impugnabile per Cassazione entro
4 mesi dal deposito del ricorso (art. 3, comma 6°).
Il ricorso va proposto nei confronti del Ministro della Giu‑
stizia, se il giudizio a quo è di competenza del Giudice Ordinario;
nei confronti del Ministro della Difesa, per procedimenti del
Giudice Militare, mentre negli altri casi va proposto nei confron‑
ti del Ministro dell’Economia e delle Finanze (art. 3, comma 3°,
come modificato dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296).
3. Il diritto all’equa riparazione. Il danno patrimoniale
e non patrimoniale. Le parti e il loro comportamento
Ai sensi dell’articolo 2 della “legge Pinto”, l’elemento
fondante del diritto all’indennizzo è costituito, come detto,
dal richiamo per relationem ad una norma della Cedu (art. 6,
§ 1) la cui violazione determina il diritto al risarcimento del
danno patrimoniale e non patrimoniale. La Corte di Cassa‑
zione ha avuto modo di chiarire che per effetto di tale richia‑
mo, spetta al Giudice della Cedu individuare gli elementi del
fatto costitutivo che, di conseguenza, finisce con l’essere
“conformato” dalla Corte di Strasburgo, la cui interpretazio‑
ne e giurisprudenza si impone, per ciò che attiene all’applica‑
zione della legge n. 89 del 2001, ai giudici interni7.
Pochissime sono, allo stato dell’arte, le pronunce che han‑
no riconosciuto l’esistenza del danno patrimoniale poiché ri‑
sulta estremamente arduo per la parte ricorrente dimostrare
la sussistenza del nesso di causalità tra la irragionevole dura‑
ta del giudizio ed il preteso danno sofferto8.
Per quanto attiene al danno non patrimoniale, preliminar‑
mente, si sottolinea come la legge n. 89 del 2001 configuri
una di quelle ipotesi che a seguito dell’intervento chiarifica‑
tore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione9 devono
essere espressamente previste dal legislatore al fine della ri‑
sarcibilità dello stesso.
Le medesime Sezioni unite hanno inoltre specificato che
il danno morale ed il correlato indennizzo possono essere
esclusi in quei casi in cui specifici elementi di fatto dimostrino
che la (eccessiva) durata del procedimento corrisponda all’in‑
teresse del ricorrente10.
Più in generale, può dirsi che la piena consapevolezza
nella parte processuale della infondatezza delle proprie istan‑
ze o della loro inammissibilità (elemento peraltro, nei fatti, di
6La definitività della pronuncia che conclude il giudizio a quo, va stabilita com‑
putando nel calcolo anche la sospensione dei termini processuali nel periodo
feriale che, ex lege 7 ottobre 1969, n. 742, va dal 1 agosto al 15 settembre: ex
multis, Cass. civ., 29 gennaio 2010, n. 2153.
7 Cass. civ., ord. 27 ottobre 2010, n. 22000.
8 Cass. civ., 13 ottobre 2005, n. 19887, ad esempio, ha statuito che nell’ambito dei
processi penali, “in tema di equa riparazione (…) le spese legali sostenute dall’im‑
putato (definitivamente assolto) in relazione ad inutili udienze ricadenti in perio‑
di eccedenti il termine di durata ragionevole del giudizio penale presupposto,
costituiscono un effetto dannoso riconducibile direttamente alla violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo, tenuto anche conto che il relativo
esborso, trattandosi di procedimento penale, non può trovare rimedio mediante
il recupero a carico della controparte, in base al principio della soccombenza”.
9 Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 29673, 29674, 29675.
10 Cass. civ., sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338; la Suprema Corte cita, a titolo
esemplificativo, il caso di un locatario che, durante il giudizio, continui a dete‑
nere l’immobile locato e quindi a beneficiare delle utilità derivanti dalla deten‑
zione del bene, onde la lunghezza del giudizio comporti per lui effetti favore‑
voli, anziché negativi.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
difficile dimostrazione), rende inesistente un danno non pa‑
trimoniale, poiché tale consapevolezza fa venire meno l’ansia
ed il malessere correlati all’incertezza della lite, essendo con
gli stessi incompatibile11.
Nell’accertare la violazione, il giudice deve considerare la
complessità del caso, il comportamento delle parti e del giu‑
dice del processo a quo, nonché quello di ogni altra autorità
chiamata a partecipare al procedimento (art. 2, comma 2°).
Col termine “parti” sembrerebbero intendersi tutti i sog‑
getti, persone fisiche e/o giuridiche che hanno preso parte al
processo; tuttavia, non pare essere configurabile in capo ad
una persona giuridica tout court il danno non patrimoniale.
Invero, com’è noto, il risarcimento del danno morale
mira a reintegrare il pregiudizio rappresentato dal patema
d’animo, dall’ansia, dalla sofferenza morale subita nella lun‑
ga ed irragionevole attesa della definizione del giudizio; si
tratta, come è evidente, del ristoro di turbamenti propri
dell’animo umano, che sono configurabili, normalmente, in
capo ad una persona fisica e non in capo ad un soggetto
giuridico privato o pubblico (come nel caso del danno non
patrimoniale lamentato dalla Gestione Liquidatoria Delle
Disciolte Unità Sanitarie Locali nn. 5, 6, 7, 8, e 9 della Cam‑
pania, ex multis, decreto di rigetto della Corte di Appello di
Napoli, 7 settembre 2009, n. 1024).
Il danno morale soggettivo, correlato a turbamenti di
carattere psicologico, secondo un indirizzo più recente della
Suprema Corte, potrebbe ritenersi configurabile anche per gli
enti giuridici, in relazione ai patemi d’animo che la lesione del
diritto ad un processo celere potrebbe provocare alle persone
preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri12.
Poiché, però, non si tratta di un danno in re ipsa, occorre
che l’istante dimostri che gli amministratori o i membri della
persona giuridica abbiano subito tali turbamenti o che comun‑
que dagli atti emergano elementi tali da far ritenere sussisten‑
te il pretium doloris richiesto (cfr. Corte di Appello di Napo‑
li, decreti nn. 486/2001, 292/2002, 5248/09).
Il comportamento delle parti, oggetto di valutazione del
giudice nella fase di accertamento della violazione, ad ogni
modo, rileva sotto molteplici aspetti, variabili a seconda del
diritto sostanziale in relazione al quale si controverte nel
giudizio a quo.
A tal proposito va messo in particolare evidenza che, ai
sensi dell’art. 2, commi 2o e 3o, della legge n. 89 del 2001, se
il ritardo nella definizione del giudizio è dovuto a fatto colpo‑
so del ricorrente (che con il suo comportamento negligente ha
contribuito a cagionare il danno), il risarcimento è diminuito
secondo la gravità della colpa e le conseguenze che ne sono
derivate (art. 1227, comma 1o c.c.). Inoltre, il risarcimento non
è dovuto per danni che il ricorrente avrebbe potuto evitare
utilizzando l’ordinaria diligenza.
4. Giudizio a quo di competenza della corte dei conti e del giudice
amministrativo
Anche per quanto concerne, in particolare, i giudizi di
natura pensionistica di competenza della Corte dei Conti ed
11 Cass. civ., 11 dicembre 2002, n. 17650; Cass. civ., 18 settembre 2003
n. 13741.
12 Ex multis, Cass. civ., 2 febbraio 2007, n. 2246.
2 0 1 1
25
i processi amministrativi innanzi al T.A.R., nella quantifica‑
zione del danno non patrimoniale è necessario che il giudice
tenga conto del comportamento inerte tenuto dal ricorrente.
Occorre, tuttavia, operare dei chiarimenti sul senso e la
portata della predetta affermazione.
Nell’ipotesi di ricorsi presentati innanzi alla Corte dei
Conti, numerosi sono i casi in cui il ricorrente, dopo la pro‑
posizione dell’azione in anni remoti innanzi al giudice a quo,
successivamente non ha posto in essere alcuna attività pro‑
pulsiva del giudizio e soltanto in data estremamente vicina al
deposito del ricorso ex lege 89 del 2001, ha presentato istan‑
za di impulso processuale, cui ha fatto seguito l’immediata
fissazione dell’udienza di discussione.
In proposito, si è inizialmente ritenuto che tale comporta‑
mento, integrando una violazione del principio dispositivo,
comportasse una detrazione del periodo di inerzia processua‑
le dal computo della (eccessiva) durata del giudizio, con ricon‑
ducibilità (in molti casi) all’interno dei parametri elaborati
dalla Cedu al fine di considerarne congrua la durata.
In merito, infatti, si prendeva atto dell’autorevole indiriz‑
zo giurisprudenziale fornito dalla Corte di Cassazione, secon‑
do la quale “il giudice investito della domanda di equa ripa‑
razione, nell’accertare la violazione della durata ragionevole
del processo, deve considerare tutte le circostanze della con‑
creta vicenda processuale, ivi compreso, pur a fronte di un
caso di per sé non complesso, il comportamento delle parti,
ed escludere pertanto la liquidazione del previsto indennizzo
allorché la parte, col suo comportamento, abbia concorso a
determinare la durata che si assume eccessiva; in tale prospet‑
tiva è legittimo considerare … il mancato tempestivo inoltro
dell’istanza di prelievo, a nulla rilevando che detta istanza
costituisca una facoltà e non un obbligo, per il ricorrente,
atteso che colui il quale non ha fatto ricorso ai mezzi accele‑
ratori posti a sua disposizione dall’ordinamento non può poi
allegare, a fondamento del diritto all’equa riparazione del
danno da ritardo, la maggiore durata che il mancato avvali‑
mento di essi, valutabile alla stregua di un comportamento
inerte, ha introdotto nella procedura”13.
Successivamente, alla luce della novella introdotta con
l’art. 54, comma 2o, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito
in legge 6 agosto 2008, n. 133, con la quale il legislatore ha
affermato la rilevanza del deposito dell’istanza di prelievo
quale condizione di procedibilità del ricorso ex lege 89 del
2001, si è in prima battuta ritenuto che, nei casi in cui il ricor‑
rente avesse provveduto al deposito dell’istanza in questione in
data successiva all’entrata in vigore del predetto art. 54, solo a
partire da tale data potessero essere computati i tempi, prima
di durata ragionevole e poi di eventuale irragionevole durata.
Infatti, secondo i fautori di tale teoria, sostenuta anche in
numerose comparse di costituzione e risposta redatte dall’Av‑
vocatura dello Stato in difesa del Ministero dell’Economia e
delle Finanze, pur ritenendo il citato art. 54 privo di portata
retroattiva, si riteneva che il legislatore, con la disposizione in
parola, avesse inteso incidere per l’avvenire, con la conseguen‑
13 Cass. civ., 14 novembre 2002, n. 15992, relativa ad un caso riguardante l’isti‑
tuto previsto dall’art. 23, legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ma applicabile, per
l’evidente analogia, anche all’istituto previsto dall’art. 17, R.D. 13 agosto 1933,
n. 1038; Cass. civ., 13 dicembre 2004, n. 23187.
civile
Gazzetta
26
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
za che il periodo precedente al deposito dell’istanza di prelievo
non potesse che essere valutato come periodo fisiologico di
durata del processo amministrativo: ne conseguiva che un’even‑
tuale eccessiva durata del processo potesse verificarsi solo
dopo decorsi tre anni dal deposito della predetta istanza.
Si è sostenuto, inoltre, che una differente interpretazione,
rendesse, del resto, l’art. 54, legge n. 133 del 2008, privo di
un campo di applicazione e frustrasse l’intento di contenimen‑
to della spesa pubblica insito nella legge finanziaria nell’am‑
bito della quale la disposizione è ricompresa.
Tale tesi, tuttavia, non è stata recepita dalla giurispruden‑
za, che ha inteso il deposito dell’istanza di prelievo come
mera condizione di procedibilità14.
Quanto ai giudizi instaurati innanzi alla Corte dei Conti
si registra un deciso intervento della Suprema Corte, secondo
la quale, ove la violazione del termine di ragionevole durata
del processo si sia verificata in un giudizio svoltosi dinnanzi
alla predetta corte, la presentazione dell’istanza di prelievo di
cui all’art. 51, R. D. 17 agosto 1907, n. 642, non costituisce
requisito per la proponibilità della domanda ai sensi dell’art. 54,
comma 2°, legge 6 agosto 2008, n. 133, trattandosi di onere
gravante la parte del solo procedimento amministrativo, qua‑
le non è il processo contabile, che resta assoggettato a regole
proprie, senza che la citata norma processuale possa trovarvi
applicazione, stante la sua natura delimitativa dell’esercizio
del diritto di azione e, dunque, di stretta interpretazione.15
La Suprema Corte, inoltre, ha avuto modo di chiarire che
l’istanza di prelievo e l’istanza di fissazione d’udienza, (regola‑
ta dall’art. 23, legge 6 dicembre 1971, n. 1034), assolvono a
funzioni distinte, avendo la prima la finalità di accelerare il
processo mediante il riscontro del persistente interesse del ri‑
corrente, mentre la seconda quella d’impedire mediante il
perfezionamento della costituzione del ricorrente e la fissazio‑
ne dell’udienza, la perenzione del giudizio. Ne consegue che
dall’entrata in vigore del sopracitato art. 54, per le domande di
equa riparazione relative a procedimenti che si svolgono davan‑
ti alle giurisdizioni amministrative, la preventiva formulazione
dell’stanza di prelievo, costituisce una condizione di proponi‑
bilità non fungibile con l’istanza di fissazione d’udienza.16
Da ultimo, occorre significare che l’evoluzione giurispru‑
denziale ha condotto a diverse e ulteriori risultanze.
Allo stato, infatti, pare consolidarsi un nuovo e importan‑
te principio secondo cui la lesione del diritto alla definizione
del processo in un termine ragionevole, è riscontrabile davan‑
ti al giudice amministrativo con riferimento al periodo inter‑
14 Di recente, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire (Cass. civ. Sez. I, 4
gennaio 2011, n. 115) il principio secondo cui l’innovazione introdotta
dall’art. 54, comma 2°, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con legge 6
agosto 2008, n. 133, secondo cui, come detto, la domanda di equo indennizzo
non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo, in cui si
assume essersi verificata la violazione, non sia stata presentata l’istanza di
prelievo ai sensi dell’art. 51 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, è inapplicabile – in
difetto di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie ed in os‑
sequio al principio “tempus regit actum” – a quei procedimenti di equa ripara‑
zione aventi ad oggetto un giudizio amministrativo introdotto prima dell’en‑
trata in vigore della predetta normativa. La Corte d’Appello di Napoli
(App. Napoli, Dec., 3.11.2008), ad ogni modo, già riteneva che l’art. 54 non
avesse carattere di legge di interpretazione autentica e, pertanto, non dovesse
trovare applicazione in via retroattiva.
15 Cass. civ., sez. VI, 21 dicembre 2010, n. 25833.
16 Cass. civ., sez. I, 17 dicembre 2010, n. 25572.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
corso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che
la decorrenza del termine di ragionevole durata possa subire
ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza
di prelievo o alla ritardata presentazione di essa, atteso che
tale evenienza può incidere esclusivamente sulla determinazio‑
ne dell’indennità spettante, ai sensi dell’art. 2056 c.c., all’aven‑
te diritto, come ribadito anche dai più recenti orientamenti
della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte eur. dir. uo‑
mo, 16 marzo 2010, Volta et autres c. Italie; Corte eur. dir.
uomo, 6 aprile 2010, Falco et autres c. Italie), secondo i qua‑
li è possibile al giudice nazionale modulare la quantificazione
del risarcimento in considerazione della peculiarità del caso e
scendere al di sotto dell’importo normalmente liquidato.17
5. Giudizio a quo di competenza del giudice civile e penale
Nei ricorsi vertenti sulla eccessiva durata di un giudizio
civile e penale, inoltre, assumono rilevanza, ai fini del com‑
puto della eccessiva durata, anche le adesioni dei procuratori
costituiti alle astensioni dalle Udienze proclamate dai rispet‑
tivi Ordini Forensi, nonché la mancata comparizione dei testi
di parte regolarmente citati.
In termini generali, dunque, deve considerarsi consolidato
il principio secondo cui incombe al ricorrente l’onere di atti‑
varsi al fine di promuovere con il suo comportamento la più
rapida conclusione del processo, sollecitando l’uso, da parte
del giudice, dei suoi poteri officiosi e riducendo così la durata
che si stia palesando irragionevole18.
Fermo restando, pertanto, l’obbligo dell’Amministrazione
di provvedere ad organizzare gli uffici giudiziari in modo di
assicurare in tempi sufficientemente celeri la durata dei pro‑
cessi (Corte eur. dir. Uomo, ud. 19 luglio 1983; ud. 25 giugno
1987), deve concludersi che il difetto di opportuni impulsi
sollecitatori costituisce mancanza dell’ordinaria diligenza
processuale, onde la durata irragionevole del processo non può
essere imputata esclusivamente allo Stato (al riguardo, la Cor‑
te di Appello di Bologna, con decreto n. 422/2005, ha preci‑
sato che lo scarso interesse per le sorti del giudizio assume
rilevanza nella determinazione dell’equo indennizzo, inducen‑
do a ridimensionare l’entità del disagio e della frustrazione
che, normalmente, accompagnano l’attesa della decisione).
La mancata proposizione di trattazione anticipata è dunque
suscettibile di essere autonomamente valutabile con particola‑
re riferimento al “comportamento delle parti” – da prendere
espressamente in considerazione e da valutare ai sensi dell’art. 2,
comma 2°, della legge 89 del 2001 e della Convenzione Euro‑
pea dei Diritti dell’uomo – come causa o concausa della non
ragionevolezza del tempo trascorso, ovvero, come indice per
la valutazione dell’entità del pregiudizio (in tal senso v. anche
decreto n. 672/2005 pronunciato dalla Corte di Appello di
Bologna che ha recepito la sentenza della Corte di Cassazione,
13 dicembre 2004, n. 23187 citata in nota).
Alcune specifiche osservazioni vanno, poi, effettuate in
materia di equa riparazione per l’eccessiva durata delle inda‑
gini preliminari.
Da un lato, infatti, la Corte di Cassazione ha fugato ogni
17 Ex multis, Cass. civ., sez. I, 18 giugno 2010, n. 14753; Cass. Civ., 27 gennaio
2011, n. 2004.
18 Cass. civ., sez. I, 6 marzo 2003, n. 3347.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
dubbio in merito alla possibilità di ottenere un indennizzo in
caso di eccesiva durata delle stesse, chiarendo che: “la nozio‑
ne di causa, o di processo, considerata dalla Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen‑
tali, cui ha riguardo l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89,
s’identifica con qualsiasi procedimento si svolga dinanzi agli
organi pubblici di giustizia per l’affermazione o la negazione
di una posizione giuridica di diritto o di soggezione facente
capo a chi il processo promuova o subisca, in tale novero
comprendendosi anche quello relativo alla fase delle indagini
preliminari, che precedono il vero e proprio esercizio dell’azio‑
ne penale, le quali perciò, ove irragionevolmente si siano
protratte nel tempo, assumono rilievo ai fini dell’equa
riparazione”19; dall’altro, la Suprema Corte ha stabilito che:
“in tema di equa riparazione, ai sensi della legge 89 del 2001,
nella valutazione della durata del processo penale si deve te‑
nere conto della fase delle indagini preliminari, solo dal mo‑
mento in cui l’indagato abbia avuto concreta notizia della
pendenza del procedimento nei suoi confronti”20.
In proposito, si registrano plurime ordinanze delle Corti
d’Appello volte ad invitare il ricorrente di turno a produrre la
documentazione comprovante l’esatto momento in cui vi sia
stata formale conoscenza da parte dello stesso del proprio
status di indagato, quali ad esempio l’avvenuta comunicazio‑
ne con correlata relata di notifica ex art. 406, comma 3°
c.p.p. della disposta proroga delle indagini, o la comunicazio‑
ne con correlativa relata di notifica dell’avvenuta chiusura
delle stesse ex art. 415‑bis c.p.p.
Più in generale, in materia di eccessiva durata del proces‑
so penale, giova soggiungere che: “ai sensi della legge 24
marzo 2001, n. 89, il diritto all’equa riparazione prescinde
dall’esito del giudizio irragionevolmente protrattosi nel tem‑
po, e quindi compete anche quando la durata eccessiva abbia
determinato l’estinzione del reato per prescrizione, dovendo‑
si escludere che quest’ultima valga di per sé ad elidere gli ef‑
fetti negativi del protrarsi eccessivo del processo, in via di
compensatio lucri cum damno, salvo, che l’effetto estintivo
del reato derivi dall’utilizzo, da parte dell’imputato sottopo‑
sto a procedimento penale, di tecniche dilatorie o di strategie
sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa. Del resto, la defi‑
nizione del processo penale per estinzione del reato, non ne‑
cessariamente corrisponde all’interesse dell’imputato, tenuto
conto dell’esigenza morale del soggetto sottoposto a procedi‑
mento penale di vedere affermata, in modo pieno ed inequi‑
vocabile, la propria estraneità al reato contestatogli”21.
6. Quantificazione dell’indennizzo
Ai sensi dell’art. 13 Cedu, requisito indispensabile dell’in‑
dennizzo è che esso sia effettivo, pertanto, il criterio‑guida
della Corte, cui in linea di massima si sono uniformati i de‑
creti delle Corti d’Appello, è stato quello di correlare il dan‑
no morale alla consistenza dell’eccessiva durata dei processi,
con formazione di una regola generale tendente a quantifica‑
re l’indennizzo in 1.000,00 – 1.500,00 euro, in proporzione
alla gravità del danno subito.
19 Cass. pen., 15 settembre 2005, n. 18266.
20 Cass. pen., 29 aprile 2010, n. 10310.
21 Cass. pen., 2 agosto 2006, n. 17552.
2 0 1 1
27
La Corte di Cassazione, in particolare, ha statuito che il
giudice nazionale può apportare deroghe in minus rispetto al
parametro tendenziale (che non è mai di 2.000,00 euro all’an‑
no, come richiesto in numerosi casi), giustificate dalle circostan‑
ze concrete della singola vicenda quali l’entità della posta in
gioco e, come detto, il comportamento della parte istante22.
Lo stesso Supremo Giudice ha avuto ulteriormente cura di
specificare che l’importo dell’indennizzo può essere ridotto ad
una misura inferiore (€ 750,00) a quella del parametro minimo
indicato nella giurisprudenza della Corte Europea (€ 1.000,00)
per i primi anni di durata eccedente quella ritenuta ragione‑
vole, in considerazione del limitato patema d’animo che con‑
segue all’iniziale modesto sforamento, mentre, per l’ulteriore
periodo, deve essere applicato il richiamato parametro23.
A fronte di una giurisprudenza tendente a riconoscere il
danno per ogni anno di semplice durata del giudizio24, si è
affermata, col trascorrere degli anni, una serie di pronunce
orientate in senso diametralmente opposto, sulla base delle
quali le Amministrazioni resistenti hanno contestato la fonda‑
tezza della domanda relativamente alla richiesta di indennizzo
riferita anche ai tempi di ragionevole durata. Per il giudice
nazionale, infatti, è vincolante l’art. 2, comma 3°, lett. a, legge
n. 89 del 2001, ai sensi del quale è rilevante soltanto il periodo
eccedente il termine ragionevole, in virtù di una modalità di
calcolo che non incide sulla complessiva attitudine di detta
legge ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione
del diritto alla ragionevole durata del processo25.
Talvolta, allorché la controversia rivesta una particolare
rilevanza per la parte in causa, oltre all’indennizzo calcolato
secondo i parametri appena esposti, deve essere riconosciuto
alla parte un bonus forfetario di 2.000,00 euro.
La Corte Europea, peraltro, ha redatto un elenco esem‑
plificativo del tipo di cause in relazione alle quali il bonus
deve trovare riconoscimento26 e, tra queste, sono state ricom‑
prese quelle relative allo stato e la capacità civile delle perso‑
ne e le pensioni o i procedimenti particolarmente gravi rela‑
tivi alla salute o alla vita degli individui, nonché quelle di
lavoro e previdenziali 27.
22 Cass. civ., 14 ottobre 2009, n. 21840; in proposito, G. Recchia, Il danno da
non ragionevole durata del processo ed equa riparazione, Milano, 2006, pag.
124 ss., evidenzia come possa venire in rilievo, a livello europeo, al fine di
operare una riduzione del quantum, il livello di vita dello specifico Paese nel
quale si è tenuto il processo connotato da eccessiva durata, oltre che la scarsa
importanza dell’aspetto patrimoniale per il singolo individuo ricorrente.
23 Cass. civ., 15 giugno 2010, n. 14461.
24 Cass. civ., 22 dicembre 2006, n. 27503; Cass. civ., 15 novembre 2006, n. 24356;
Cass. civ., 21 aprile 2006, n. 9411.
25 Cass. civ., 25 febbraio 2009, n. 4572; Cass. civ., 9 maggio 2008, n. 11566;
Cass. civ., 22 gennaio 2008, n. 1354; Cass. civ., 19 novembre 2007,
n. 23844.
26 Corte eur. dir. uomo, 10 novembre 2004, Riccardi et Piazzati c. Italie; Corte
eur. dir. uomo, 21 ottobre 2004, Zullo c. Italie.
27In proposito, tuttavia, si registra Cass. civ., 28 ottobre 2009, n. 22869, secondo
cui: “ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto per il danno non pa‑
trimoniale, la durata della ingiustificata protrazione del processo è un elemen‑
to obiettivo che si presta a misurare e a riparare un pregiudizio sempre presen‑
te ed uguale, mentre l’attribuzione di una somma ulteriore (cosiddetto “bonus”)
postula che nel caso concreto quel pregiudizio, a causa di particolari circostan‑
ze specifiche, sia stato maggiore; conseguentemente, nel caso in cui il giudice di
merito abbia negato il riconoscimento di tale pregiudizio, la critica della deci‑
sione sul punto non può fondarsi sulla circostanza che il bonus spettante “ra‑
tione materiae”, era stato richiesto e la decisione negativa non è stata motivata,
ma deve avere riguardo alle concrete allegazioni ed alle prove addotte nel giu‑
dizio di merito”
civile
Gazzetta
28
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
La Corte di Cassazione, tuttavia, con recenti pronunce
ha stabilito che il riconoscimento del bonus non è automati‑
co, ma è il risultato dell’effettiva ponderazione degli interes‑
si in gioco da parte delle Corti d’Appello, in sede di liquida‑
zione dell’equo indennizzo28.
7. Prescrizione del diritto
Per quanto concerne la prescrizione del diritto, occorre
significare che, secondo consolidata giurisprudenza della
Suprema Corte, “il diritto ad un’equa riparazione in caso di
mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai
sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, ha carattere indennitario
e non risarcitorio, non richiedendo l’accertamento di un ille‑
cito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., e non
presupponendo la verifica dell’elemento soggettivo della colpa
a carico di un agente. Esso è invece ancorato all’accertamen‑
to della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fonda‑
mentali, cioè di un evento “ex se” lesivo del diritto della
persona alla definizione del suo procedimento in una durata
ragionevole, configurandosi l’obbligazione, avente ad oggetto
l’equa riparazione, non già come obbligazione “ex delicto”,
ma come obbligazione “ex lege”, riconducibile, in base
all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire
fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridi‑
co (Cass. civ., 13 aprile 2006 n. 8712). Ne consegue, in tale
prospettiva, che il diritto medesimo è soggetto all’ordinaria
prescrizione decennale, e non a quella breve dettata
dall’art. 2947 c.c., per il diritto al risarcimento del danno da
fatto illecito”29.
Il dies a quo si ritiene debba individuarsi nel momento in
cui scade il termine della giusta durata del processo, purché i
fatti costitutivi si siano svolti in data successiva al 1° agosto
1973, data di entrata in vigore del predetto art. 6 della Con‑
venzione a seguito della dichiarazione dello Stato Italiano che
ha riconosciuto il diritto al ricorso individuale innanzi alla
giurisdizione europea.
La legge Pinto ha, infatti, come detto, modalizzato tale
diritto, già preesistente. Ciò in quanto “il fatto costitutivo del
diritto attribuito dalla legge nazionale coincide con la viola‑
zione della norma contenuta nell’art. 6 della Conv. di imme‑
diata rilevanza nel diritto interno”; si è in sostanza statuito
che “il diritto alla equa riparazione in caso di irragionevole
durata del processo non è stato introdotto dalla L. 89/2001,
ma dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, imme‑
diatamente precettiva nel nostro ordinamento”30. Da qui di‑
scende che il diritto all’equa durata del processo, diritto esi‑
stente fin dal momento dell’adesione dell’Italia alla Conven‑
zione nei termini sopra indicati, trovava protezione non solo
nell’ordinamento internazionale (ad esempio con il ricorso
alla Corte Europea ex artt. 34 e 35 Cedu), ma anche nell’or‑
dinamento interno con gli strumenti di tutela giudiziari e/o
stragiudiziari all’uopo utilizzabili, (ad esempio con l’intima‑
zione di pagamento ex art. 1219 c.c., ecc).
La ragionevole durata del processo, giusta i principi giu‑
risprudenziali consolidati in tema, è di 3 anni per il primo
28 Cass. civ., 29 marzo 2010, n. 7559; Cass. civ., 8 giugno 2010, n. 13765.
29 Cass. civ., 24 febbraio 2010, n. 4524.
30 Cass. civ., 23 dicembre 2005, n. 28507.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
grado, 2 anni per il secondo, 1 anno per il terzo.
La Corte di Cassazione non ha mancato, tuttavia, di ope‑
rare alcune specificazioni31, anche in considerazione del tipo
di processo a quo (Cass. civ., Sez. I, 31 dicembre 2009,
n. 28318, con cui ha il Supremo Giudice, in materia di ragio‑
nevole durata della procedura fallimentare, qualora dall’esa‑
me della medesima non emergano elementi dai quali sia
possibile desumere la particolare semplicità della procedura
stessa, il termine di ragionevole durata pare potersi tenden‑
zialmente identificare in anni sette, tenuto conto della ragio‑
nevole durata per tre gradi di giudizio (sei anni) dei procedi‑
menti incidentali nascenti dal fallimento, nonché dell’ulterio‑
re termine di un anno, necessario per il riparto dell’attivo).
Sia la giurisprudenza della Corte Europea che dei giudici
di Palazzaccio ha configurato la durata irragionevole come
fatto continuativo, commisurando l’entità della riparazione
all’entità temporale del ritardo, con ciò implicitamente rico‑
noscendo la natura continuativa della lesione del diritto alla
ragionevole durata del processo. Il precipitato di tale pacifico
orientamento comporta che la decorrenza della prescrizione
matura con il sorgere del diritto e quindi, “via via”, dal gior‑
no in cui è stato superato il limite temporale ritenuto ragione‑
vole. Ne consegue giurisprudenza consolidata secondo cui la
prescrizione decorre giorno per giorno, dall’inizio della lesio‑
ne, poiché la situazione dannosa produce nocumento in
continuazione e quindi giorno per giorno sorge il diritto al
ristoro del pregiudizio quotidianamente subito32.
A tale principio appare informato anche il legislatore che
all’art. 4, l. 89 del 2001 ha concesso al cittadino il diritto di
procedere giudiziariamente per la riparazione della violazione
anteriormente al deposito della sentenza. Tale facoltà confi‑
gura, quindi, in favore della parte un diritto che va azionato
nel rispetto dei termini di prescrizione, non avendo il legisla‑
tore italiano previsto che la durata del processo costituisca
sospensione del termine della prescrizione, nè potendo perve‑
nirsi a tale ultima conclusione in via analogica. È, infatti,
pacificamente riconosciuto che l’istituto della sospensione
della prescrizione, costituendo un’ipotesi eccezionale, può
verificarsi solo nei casi tassativamente previsti dagli artt. 2941
e 2942 c.c. non estensibili a fatti materiali e ragioni giuridiche
non contemplate da dette norme33, insuscettibili di applicazio‑
ni analogiche e di applicazioni estensive34.
Del resto, la problematica concernente la disciplina di
istituti fondati sul decorso del tempo appare essere stata va‑
gliata anche in sede comunitaria osservandosi che: “Il diritto
nazionale deve tuttavia rispettare il principio comunitario di
equivalenza, il quale esige che le modalità procedurali di
trattamento di situazioni che trovano la loro origine nell’eser‑
cizio di una libertà comunitaria non siano meno favorevoli di
quelle aventi ad oggetto il trattamento di situazioni puramen‑
te interne, nonché il principio comunitario di effettività, che
31 Cass. civ., 3 aprile 2008, n. 8521, laddove è stato statuito che il giudice può
discostarsi dal parametro dei tre anni quale durata massima di un procedimen‑
to, innanzi al giudice di prime cure, riconoscendo una durata ragionevole
maggiore o minore, in considerazione della maggiore o minore complessità del
procedimento stesso.
32 Cass. civ., 13 marzo 2007, n. 5831; Cass. civ., 2 aprile 2004, n. 6512; Cass. civ.,
20 dicembre 2000, n. 16009.
33 Cass. civ., 20 luglio 1987, n. 6364; Cass. civ., 6 aprile 2006, n. 8677.
34 Cass. civ., 12 aprile 2006, n. 8533.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
esige che le dette modalità procedurali non rendano in prati‑
ca impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti
risultanti dalla situazione di origine comunitaria. Tali princi‑
pi si applicano all’insieme delle modalità procedurali di trat‑
tamento di situazioni che trovano la loro origine nell’esercizio
di una libertà comunitaria, indipendentemente che le dette
modalità siano di natura amministrativa o giudiziaria, come
le norme nazionali in materia di prescrizione e di ripetizione
dell’indebito o quelle che impongono alle istituzioni compe‑
tenti di prendere in considerazione la buona fede degli inte‑
ressati o di controllare regolarmente la loro posizione
pensionistica”35 .
Sotto convergente profilo, si osserva, da ultimo che, pro‑
prio l’azionabilità del diritto nel corso del giudizio rende co‑
stituzionalmente legittimo il breve termine di decadenza
sancito dall’art. 4, l. 89 del 2001 secondo cui “il diritto può
essere azionato” – oltre che in corso di giudizio – “a pena di
decadenza entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che
conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”.
8. Ritardo nella liquidazione degli indennizzi relativi a processi
civili. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia
Da ultimo, si registrano due recenti sentenze con le quali
la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo36 ha dato il via ad una
serie di pronunce di condanna emesse nei confronti dell’Italia
a causa dei ritardi in cui è incorsa nella liquidazione degli
indennizzi dovuti all’esito di 475 ricorsi concernenti l’eccessi‑
va durata di altrettanti processi civili.
La Corte ha rilevato che: “plus de 1 200 requêtes portant
principalement ou uniquement sur ce même problème sont
pendantes contre l’Italie et que le nombre de ce type de re‑
quêtes est en constante augmentation depuis 2008. Elle
estime que, dans des situations impliquant un nombre signi‑
ficatif des victimes placées dans une situation similaire, une
approche globale s’impose.
Au vu de ce qui précède et statuant en équité, la Cour
considère opportun d’accorder une somme forfaitaire addi‑
tionnelle de 200 EUR à chaque requérant à titre de domma‑
ge moral en raison de la durée excessive de la procédure
“Pinto” qu’elle vient de constater”37 .
In Italia, dunque, si legge nella sentenza della Corte, c’e’
un problema in grande scala legato all’esecuzione delle deci‑
sioni prese in base alla Legge Pinto38.
In virtù di ciò, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
condannato l’Italia a pagare ad ogni ricorrente 200 euro per
danni morali, in ragione dell’eccesiva durata della procedura
35 Corte giust. com. eur., Sez. V, 19 giugno 2003, n. 34.
36 Corte eur. dir. uomo, 21 dicembre 2010, Di Matteo et Autres c. Italie,
(nn. 7603/03, 7610/03, 7614/03, 7616/03); Corte eur. dir. uomo, 21 dicembre
2010, Belperio et Ciarmoli c. Italie, (n. 7932/04).
37 Corte eur. dir. uomo, 21 dicembre 2010, Belperio et Ciarmoli c. Italie, cit., §§
63‑64.
38Secondo quanto riferito da R. Masoni, La durata ragionevole del “giusto
processo” nell’applicazione giurisprudenziale, Milano, 2006, p.195, già nell’au‑
dizione tenutasi il 27 giugno 2006 davanti alla Commissione Giustizia del Se‑
nato, il Ministro della Giustizia riferì i termini dell’incremento “notevolissimo”
degli esborsi sopportati dallo Stato a causa delle condanne subite negli ultimi
anni. Nel 2002, i decreti di condanna pronunciati furono 2681, con un esbor‑
so economico ammontante a 1.266.356,84 euro; nel 2003, 1654 decreti con
un esborso pari a 5.478.871,69 euro; nel 2004, i decreti furono 2014 con
condanne per 6.627.975 euro; l’anno successivo, i decreti raggiunsero i 2494,
con un onere economico di 8.921,525 euro.
2 0 1 1
29
di liquidazione degli indennizzi già attribuiti con sentenze
passate in giudicato.
9. Considerazioni conclusive
La situazione, dunque, è ben oltre la soglia del mero allar‑
me39, tanto che il Governo, nel mese di luglio 2010 ha presen‑
tato un emendamento alla manovra economica sulla quale è
stata posta la fiducia, volto a statuire la creazione della figu‑
ra del c.d. “giudice ausiliario”. A tal fine, si sarebbe provve‑
duto, a stretto giro, alla istituzione di un apposito albo for‑
mato da avvocati del libero foro, giudici onorari, notai, anche
in pensione, avvocati dello Stato, giudici ordinari, contabili e
amministrativi a riposo, docenti e ricercatori universitari in
materie giuridiche, dal quale attingere per il conferimento
dell’incarico di giudice deputato alla trattazione delle cause
pendenti al fine del repentino smaltimento delle stesse.
Alla data della dichiarazione resa il 22 luglio 2010 dal
Ministro della Giustizia dinanzi alla Giunta della Confindu‑
stria, l’arretrato ammontava a 5.600.000 giudizi pendenti.
L’emendamento, tuttavia, è stato subito ritirato per le
vibranti proteste della classe forense anche se è sensazione
diffusa che il provvedimento sia destinato a riemergere, sia
pure in nuove e diverse forme, in un prossimo futuro.
È stato opportunamente rimarcato che “un efficace interven‑
to postula necessariamente la modifica tanto degli aspetti ordi‑
namentali quanto dell’iter del processo civile. L’un aspetto si
coniuga con l’altro. È osservazione pacifica, infatti, che alcuna
riforma del rito civile potrà sortire effetti ove il processo civile
non sia dotato di uomini e di mezzi per poter funzionare.”40
Ad ogni modo, sulla scorta delle predette considerazioni,
il legislatore è intervenuto ripetutamente, novellando il pro‑
cesso civile con il dichiarato intento tanto deflattivo del co‑
spicuo contenzioso, quanto acceleratorio dei tempi dello
stesso, da ultimo con l’introduzione nel nostro ordinamento
dell’istituto della mediaconciliazione, come disciplinato dal
D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 che, essendo stato concepito a
Costituzione invariata ed in assenza di correlati esborsi volti
a finanziare il sistema giustizia, genera, tuttavia, dubbi e
perplessità in merito alla reale portata in termini di deflazio‑
ne, oltre che sulla propria compatibilità costituzionale e co‑
munitaria41.
39Sulla base di quanto riportato nella relazione al disegno di legge 2612 della XVI
Legislatura, relazione “volta a valutare gli effetti finanziari derivanti dalle dispo‑
sizioni concernenti il recupero dell’efficienza del sistema giudiziario nel settore
civile, con interventi tesi alla riduzione del contenzioso e alla prevenzione delle
violazioni alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del
processo”, il trend dei giudizi per il riconoscimento dell’equa riparazione è in co‑
stante ascesa: nel 2005 sono sopravvenuti 12.130 ricorsi, nel 2006 il numero è di
20.633, nel 2007 il numero è di 20.135, nel 2008 il numero dei ricorsi è di 28.383,
mentre nel 2009 è addirittura di 33.615; “se si considera che le somme al paga‑
mento delle quali è stato condannato lo Stato nel 2009 sono pari a 31 milioni di
euro”, continua la relazione “e simulando una crescita prudenziale del 20 per
cento annuo di richieste e quindi di condanne, si può stimare un debito potenzia‑
le aggiuntivo per il triennio 2011‑2013 pari a circa 135 milioni di euro”.
40 M. Gerardo – A. Mutarelli, Indagine sul processo civile in Italia. Irragione‑
vole durata del processo e possibili “ragionevoli” linee di intervento, in Rass.
Avv. Stato, 2010, n. 4, p. 210.
41 M. Gerardo – A. Mutarelli, Dubbi sulla compatibilità costituzionale e co‑
munitaria della c.d. mediazione obbligatoria come disciplinata dal d. lgs. 4
marzo 2010, n. 28, in LexItalia.it, 2011, n. 4.
civile
Gazzetta
30
D i r i t t o
●
Rassegna
di legittimità
●
A cura di Corrado d'Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Comunione e condominio – assemblea dei condomini – delibera‑
zioni – impugnazioni – forma – citazione – fondamento
Le Sezioni Unite della Cassazione, componendo un con‑
trasto interno alla Seconda Sezione, hanno affermato che le
impugnazioni delle delibere dell’assemblea condominiale, in
applicazione della regola generale dettata dall’art. 163 c. p. c.,
vanno proposte con citazione, non disciplinando l’art. 1137
c. c. la forma di tali impugnazioni.
Cass., sez. un., sentenza 14 aprile 2011 n. 8491
Pres. Vittoria, Est. Bucciante
Danni civili – danno non patrimoniale – risarcimento del c.d. dan‑
no “catastrofale” – condizioni
Il risarcimento del c.d. danno “catastrofale” – ossia del
danno patito dalla persona che lucidamente assiste allo spe‑
gnersi della propria vita – può essere riconosciuto agli eredi,
a titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a
far parte del patrimonio della vittima al momento della mor‑
te. Perciò, in assenza di prova della sussistenza di uno stato
di coscienza nel breve intervallo tra il sinistro e la morte, la
lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento
e ai congiunti spetta il solo risarcimento conseguente alla le‑
sione della possibilità di godere del rapporto parentale con la
persona defunta.
Cass., sez. III, sentenza 24 marzo 2011, n. 6754.
Pres. Preden, Est. Amatucci
Giurisdizione civile – giurisdizione ordinaria e amministrati‑
va – determinazione e criteri – diritti soggettivi
Le Sezioni Unite hanno affermato la giurisdizione del
giudice ordinario in tema di azione contro la discriminazione
razziale ai sensi dell’art. 44 del T.U. sull’immigrazione poiché
la posizione del soggetto, potenziale vittima delle discrimina‑
zioni, ha consistenza di diritto soggettivo assoluto rispetto a
qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che
dalla P.A., senza che assuma rilievo che la condotta lesiva sia
stata attuata nell’ambito di un procedimento nel quale il
privato possa essere titolare solo di posizioni di interesse le‑
gittimo.
Cass., sez. un., ordinanza 30 marzo 2011, n. 7186
Pres. Vittoria, Est. Toffoli
Sanzioni amministrative – codice della strada – impossibilita’ di
procedere a contestazione immediata – notifica entro i centocin‑
quanta giorni – criteri
In caso di impossibilità di procedere all’immediata conte‑
stazione della violazione, l’art. 201 codice della strada dispo‑
ne che la P.A. è tenuta a notificare il verbale al trasgressore
nel termine di cui al citato art. 201, ma se l’esatto luogo ove
eseguire la notificazione risulti anche da una sola delle banche
dati richiamate dalla legge – ossia il P.R.A o l’archivio nazio‑
nale dei veicoli – la P.A. è messa comunque in condizioni di
identificare il trasgressore e non può invocare, a titolo di
giustificazione del ritardo, l’ipotesi residuale prevista dall’ul‑
tima parte del citato art. 201.
Cass., sez. II, sentenza 25 marzo 2011 n. 6971
Pres. Settimj, Est. Petitti
Lavoro subordinato – costituzione del rapporto – assunzione – as‑
sunzione obbligatoria – richiesta di avviamento del lavoratore
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
disabile – facoltà di indicazione della qualifica – fondamento – ri‑
fiuto di assunzione – condizioni e limiti
In tema di assunzioni obbligatorie, il datore di lavoro può
legittimamente rifiutare l’assunzione non soltanto di un la‑
voratore con qualifica che risulti, in base all’atto di avvia‑
mento, diversa, ma anche di un lavoratore con qualifica
“simile” a quella richiesta, in mancanza di un suo previo
addestramento o tirocinio da svolgere secondo le modalità
previste dall’art. 12 della stessa legge n. 68 del 1999.
Cass., sez. lav., sentenza 25 marzo 2011 n.7007
Pres. Foglia, Est. Tricomi
Giurisdizione ordinaria e amministrativa – provvedimento ammi‑
nistrativo – lesione dell’affidamento – diritti soggettivi – giurisdi‑
zione ordinaria
La controversia nella quale il beneficiario di una conces‑
sione edilizia, annullata d’ufficio o su ricorso di altro sogget‑
to in quanto illegittima, chieda il risarcimento dei danni su‑
biti per avere confidato nella apparente legittimità della
stessa, che aveva ingenerato in lui l’incolpevole convincimen‑
to di poter legittimamente edificare, rientra nella giurisdizio‑
ne del giudice ordinario, avendo ad oggetto un comporta‑
mento illecito della P.A. per violazione del principio del
“neminem laedere”, cioè di quei doveri di comportamento il
cui contenuto prescinde dalla natura pubblicistica o privati‑
stica del soggetto che ne è responsabile e che anche la P.A.,
come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare; egli pertanto
non è tenuto a domandare al giudice amministrativo un ac‑
certamento della illegittimità del suddetto comportamento
che egli ha invece interesse a contrastare nel giudizio di an‑
nullamento da altri provocato e può solo subire.
Cass., sez. un., ordinanza 23 marzo 2011, n. 6594
Pres. Vittoria, Est. Fioretti
Giurisdizione ordinaria e amministrativa – limiti – affidamento di
un pubblico servizio – provvedimento amministrativo – lesione
dell’affidamento – diritti soggettivi – giurisdizione ordinaria
La controversia avente ad oggetto la domanda autonoma
di risarcimento danni proposta da colui che, avendo ottenu‑
to l’aggiudicazione in una gara per l’affidamento di un
pubblico servizio, successivamente annullata dal Tar perché
illegittima su ricorso di un altro concorrente, deduca la le‑
sione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di
aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella giu‑
risdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in
giudizio l’accertamento della illegittimità dell’aggiudicazio‑
ne (che, semmai, la parte aveva interesse a contrastare nel
giudizio amministrativo promosso dal concorrente) e, quin‑
di, non rimproverandosi alla P.A. l’esercizio illegittimo di
un potere consumato nei suoi confronti, ma la colpa consi‑
stita nell’averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole
convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla
scadenza del termine previsto dal contratto stipulato a se‑
guito della gara.
Cass., sez. un., ordinanza 23 marzo 2011, n. 6596
Pres. Vittoria, Est. Tirelli
Trascrizione – trascrizione illegittima – conseguente giudizio di
risarcimento danni – competenza funzionale del giudice della
domanda principale ex art. 96 c.p.c. – esclusione
2 0 1 1
31
Le Sezioni Unite hanno stabilito che, in caso di proposi‑
zione di domanda giudiziale illegittimamente trascritta al di
fuori delle ipotesi di cui agli artt. 2652 e 2653 c.c., la conse‑
guente domanda di risarcimento danni è proponibile, ai
sensi dell’art. 2043 c.c., anche in separato giudizio, non sus‑
sistendo la competenza funzionale, ai sensi dell’art. 96 c.p.c.,
del giudice chiamato a decidere sulla domanda oggetto di
illegittima trascrizione.
Cass., sez. un., sentenza 23 marzo 2011, n. 6597
Pres. Vittoria, Est. Piccininni)
Contratto preliminare – oggetto – immobile esistente “sulla car‑
ta” – validità
La Corte, intervenendo per la prima volta sulla norma‑
tiva di tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di im‑
mobili da costruire, introdotta dal d.lgs n. 122 del 2005, ha
ritenuto che tale regime giuridico di protezione non si appli‑
chi ai contratti preliminari di immobili esistenti solo sulla
carta ma esclusivamente a quelli per i quali sia stato già ri‑
chiesto il permesso di costruire, secondo la definizione con‑
tenuta nell’art. 1 lettera d) del decreto con la conseguenza
che i preliminari sopra indicati sono da ritenersi validi.
Cass., sez. II, sentenza 10 marzo 2011, n. 5749
Pres. Triola, Est. Giusti
Spese giudiziali civili – eliminazione dei minimi tariffari – opera‑
tivita’ in sede di liquidazione da parte del giudice – esclusione
L’eliminazione dei minimi tariffari disposta dall’art. 2 del
d.l. n. 223 del 2006 opera tra cliente e professionista, ma non
anche in sede di liquidazione da parte del giudice in ossequio
al principio della soccombenza.
Cass., sez. II, ordinanza 30 marzo 2011, n. 7293
Pres. Settimj,Est. Petitti
Sanzioni amministrative – opposizione a ordinanza ingiunzio‑
ne – impugnazione della sentenza del tribunale – appello – atto
introduttivo – citazione
L’impugnazione di una sentenza di tribunale che abbia
deciso sull’opposizione ad ordinanza ingiunzione riguardan‑
te una sanzione amministrativa, deve essere proposta davan‑
ti alla Corte d’Appello con atto di citazione, secondo le rego‑
le generali, e non con ricorso. Al procedimento è applicabile
l’art. 348 cod. proc. civ., in caso di mancata comparizione
delle parti alla prima udienza e a quella successiva della
quale sia stato dato regolare avviso.
Cass., sez. II, ordinanza 10 marzo 2011, n. 5826
Pres. e Est. Piccialli,
Lavoro subordinato – licenziamento discriminatorio – divieto – ri‑
levanza – limiti – fattispecie relativa a licenziamento di dirigente
appartenente ad associazione religiosa
In tema di divieto di trattamenti discriminatori giustifi‑
cati da ragioni di appartenenza ad un particolare credo ide‑
ologico e religioso ex artt. 2 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003,
n. 216, la S.C. ha affermato che rileva unicamente l’effetto
pregiudizievole che discende da atti e comportamenti
che – prescindendo dalla motivazione addotta, come anche
dall’intenzione di chi li adotta – pongano il destinatario in
una situazione di svantaggio rispetto a quanti siano estranei
ai fattori di rischio vietato, e che non costituisce violazione
civile
Gazzetta
32
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
delle norme suddette il licenziamento disciplinare per “culpa
in vigilando”, disposto dal datore di lavoro nei confronti di
dirigente che abbia incautamente autorizzato un’associazio‑
ne religiosa (di cui lo stesso faccia parte) a somministrare ai
dipendenti un test attitudinale invasivo nei riguardi della
loro vita privata, non essendovi alla base del recesso l’orien‑
tamento etico religioso dell’associazione di appartenenza, ma
solo i riflessi negativi della vicenda sul contesto aziendale e
sulla serenità dei dipendenti.
Cass., sez. lav, sentenza 16 febbraio 2011, n. 3821
Pres. Roselli, Est. Arienzo
Procedimento civile – ricorso proposto nelle forme penali – erro‑
neita’ – mutamento di giurisprudenza – istanza di rimessione in
termini – rigetto – inammissibilità
Il ricorso per cassazione proposto nelle forme del rito
penale, avverso un provvedimento reso sull’opposizione alla
liquidazione del compenso al consulente tecnico d’ufficio nel
corso di un procedimento penale, è stato ritenuto, dalla
Corte di cassazione, inammissibile nonostante la parte aves‑
se proposto istanza di rimessione in termini per potersi
adeguare al mutato orientamento delle sezioni Unite inter‑
venuto con la sentenza n. 19161 del 2009, sul rilievo che il
“revirement” era di due mesi anteriore al deposito del ricor‑
so ed era stato reso noto da un mese circa nel servizio novità
del sito web della Corte di Cassazione con la pubblicazione
del testo integrale della sentenza e di un “abstract” a cura
dell’ufficio del massimario.
Cass., sez. II, sentenza 7 febbraio 2011, n. 3030
Pres. Triola, Est. Giusti
Impugnazioni civili – ricorso per cassazione – poteri della cassazio‑
ne – principio del giusto processo – riproposizione con ricorso in‑
cidentale di questione assorbita – funzione rescissoria – portata
Alla luce dei principi di economia processuale e della
ragionevole durata del processo come costituzionalizzato
nell’art. 111, comma secondo, Cost., qualora i giudici di
merito non si siano pronunciati su una questione di mero
diritto, ossia non richiedente nuovi accertamenti di fatto,
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
perché rimasta assorbita e la stessa venga riproposta con ri‑
corso incidentale per cassazione, la Corte, una volta accolto
il ricorso principale e cassata la sentenza impugnata, può
decidere la questione purche’ su di essa si sia svolto il con‑
traddittorio, dovendosi ritenere che l’art. 384, comma secon‑
do, cod. proc. civ, come modificato dall’art. 12 della legge
n. 40 del 2006, attribuisca alla Corte di cassazione una fun‑
zione non più soltanto rescindente ma anche rescissoria e che
la perdita del grado di merito resti compensata con la realiz‑
zazione del principio di speditezza.
Cass., sez. lav., sentenza 3 marzo 2011, n. 5139
Pres. Roselli, Est. Filabozzi
Impiego pubblico – principio della parità di trattamento – porta‑
ta – attribuzione con contratto individuale di beneficio negato da
accordo collettivo – possibilità – esclusione
La Corte ha precisato la portata del principio di parità di
trattamento nel rapporto di lavoro pubblico contrattualizza‑
to, escludendo che i contratti individuali di lavoro possano
attribuire al singolo lavoratore un beneficio negato dal con‑
tratto collettivo per l’intera categoria di lavoratori.
Cass., sez. lav., sentenza 3 marzo 2011, n. 5139
Pres. Roselli, Est. Filabozzi
Impresa familiare – lavoro nell’impresa – utili non ripartiti – dirit‑
ti dei partecipanti
La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata
nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230 bis c.c., va deter‑
minata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua
cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’ac‑
crescimento, a tale data, della produttività dell’impresa, in
proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è,
quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atte‑
so che gli stessi utili – in assenza di un patto di distribuzione
periodica – non sono naturalmente destinati ad essere riparti‑
ti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti
di beni.
Cass., sez. lav, sentenza 8 marzo 2011, n. 5448
Pres. Roselli, Est. Filabozzi.
F O R E N S E
●
Rassegna di merito
● A cura di Mario De Bellis
e Donato Palmieri
Avvocati
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
33
Nesso di causalità – causalità generale
La causalità generale, intesa come idoneità o probabilità
statistica ex ante, coincide con il concetto di aumento del
rischio.
Trib. Napoli, sez. IV civ., sentenza 19 aprile 2011, n. 4801
Giud. Puca
Danno esistenziale – principio di offensività
Il pregiudizio del diritto costituzionalmente garantito
deve essere inciso oltre una certa soglia minima cagionando
un pregiudizio serio, con la conseguenza che la lesione deve
eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudi‑
zio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che
impone un grado minimo di tolleranza: il filtro della gravità
della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento
tra il principio di solidarietà verso la vittima e quello della
tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno
non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il
livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.
Trib. Napoli, sez. IV civ., sentenza 19 aprile 2011, n. 4801
Giud. Puca
Cautelare – incompetenza territoriale – protesto – elevazio‑
ne – privacy
L’art. 152 del dlgs. 196/2003 prevede un’ipotesi di com‑
petenza esclusiva ed inderogabile; ne consegue che tutte le
controversia aventi ad oggetto la protezione, il trattamento,
la cancellazione e la comunicazione dei dati personali sono
attribuite alla cognizione del giudice ordinario e la relativa
domanda va proposta con ricorso depositato presso la can‑
celleria del tribunale del luogo ove risiede il titolare del trat‑
tamento che va individuato ai sensi degli art. 18 e 19 c.p.c.
Trib. Napoli, sez. II civ., ordinanza 12 aprile 2011
Giud. Bisogni
Responsabilità professionale – contatto sociale
La responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. ri‑
corre solo quando la pretesa risarcitoria venga formulata nei
confronti di un soggetto (“chiunque”) autore di un “danno
ingiusto” non legato all’attore da alcun rapporto giuridico
precedente, mentre se a fondamento della pretesa venga enun‑
ciato l’inadempimento di obbligazioni derivante dalla legge è
ipotizzabile unicamente la responsabilita’ contrattuale.
Trib. Napoli, sez. X civ., sentenza 15 febbraio 2011, n. 1770
Giud. d’Ambrosio
Responsabilità professionale – responsabilità contrattuale
La responsabilità della struttura sanitaria ha natura con‑
trattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospeda‑
le, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, compor‑
ta la conclusione di un contratto. Ne deriva che anche l’ob‑
bligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei
confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto,
ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale.
Trib. Napoli, sez. X civ., sentenza 15 febbraio 2011, n. 1770
Giud. d’Ambrosio
Responsabilità professionale – onere della prova – sanità
L’accertamento della responsabilità della struttura sani‑
taria prescinde dall’accertamento di una condotta negligente
civile
Gazzetta
34
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dei singoli operatori, e trova invece la propria fonte nell’ina‑
dempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’en‑
te, in virtù di un autonomo contratto di spedalità, poiché il
rapporto tra paziente e struttura va ben oltre la fornitura di
prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a di‑
sposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’ap‑
prestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie
anche per eventuali complicazioni.
Trib. Napoli, sez. X civ., sentenza 15 febbraio 2011, n. 1770
Giud. d’Ambrosio
Responsabilità professionale – consenso informato
Il medico ha l’obbligo informare il paziente della natura,
sede ed entità della patologia (diagnosi), della sua evoluzione
(prognosi), nonché delle varie terapie conosciute dalla scien‑
za in un dato momento storico, indicando l’eventuale urgen‑
za della cura, nonché esponendo i rischi, i vantaggi e le
complicanze di ciascuna, oltre ad ogni altro aspetto relativo
al caso specifico: solo così, il paziente potrà dare il suo con‑
senso ad un determinato trattamento con una manifestazio‑
ne della volontà genuina, reale, libera e consapevole.
Trib. Napoli, sez. X civ., sentenza 15 febbraio 2011, n. 1770
Giud. d’Ambrosio
Fermo amministrativo – giurisdizione civile – esclusione
La giurisdizione sul ricorso avverso il provvedimento di
fermo amministrativo, previsto dall’art. 86 d.p.r. n. 602/1973,
spetta al giudice tributario esclusivamente se il provvedimen‑
to faccia riferimento a crediti tributari mentre in caso con‑
trario spetta al giudice ordinario; ne consegue che spetta
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
quindi al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda,
anch’essa ammissibile, avente ad oggetto l’impugnativa del
preavviso di fermo amministrativo per crediti non tributari.
Trib. Napoli, sez. X civ., sentenza 21 marzo 2011, n.3217
Giud. d’Ambrosio
Buona fede – errore non scusabile – esclusione
La buona fede dell’acquirente è irrilevante se l’ignoranza
di ledere l’altrui diritto dipende da colpa grave, questa essen‑
do configurabile ogni qualvolta il possessore abbia omesso
di usare anche quel minimo di diligenza, proprio delle perso‑
ne scarsamente avvedute, al fine di accertare la lesione del
diritto di terzi sulla cosa medesima.
Trib. Napoli, sez. IV civ., sentenza 28 dicembre 2010,
n. 13008
Giud. Puca
Prova – onere della prova – presunzioni
In tema di prova per presunzioni è sufficiente che i fatti
sui quali la presunzione si fonda siano tali da far apparire
l’esistenza del fatto ignoto come conseguenza dei fatti accer‑
tati in giudizio alla stregua di canoni di ragionevole proba‑
bilità con riferimento cioè ad una connessione possibile e
verosimile di accadimenti ritenuti probanti dal giudice se‑
condo regole di esperienza, che lo convincano circa detta
probabilità e circa la compatibilità del fatto supposto con
quello accertato.
Trib. Napoli, sez. IV civ., sentenza 28 dicembre 2010,
n. 13008
Giud. Puca
Diritto e procedura penale
L'usura e contesto sociale: vecchi e nuovi problemi interpretativi
37
Maria Antonietta Troncone
Il dopo Drassich. Fatto e fattispecie nella giurisprudenza della Corte costituzionale
e della Corte di cassazione
42
Clelia Iasevoli
Sui “pericolosi percorsi” dei rapporti tra ordinamenti. Il caso Drassich
47
Emanuele de Franco
Il reato di clandestinità
Nota a Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ordinanza del 24.02.2011
Rossella Catena
52
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
61
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
67
70
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
37
●
SOMMARIO: Premessa – 1. Il concetto di usura nel tem‑
po – 2. Evoluzione del fenomeno e fattori determinanti – 3.
Problemi processuali.
L'usura
e contesto sociale:
vecchi e nuovi problemi
interpretativi
Premessa
L’usura è sempre stato un argomento che ha suscitato
notevole interesse nei vari livelli di sistemi statali, per il con‑
tenuto etimologico.
L’importanza del tema impone la necessità di dare sempre
maggiore impulso all’azione di sensibilizzazione, che coinvol‑
ga non solo le istituzioni giudiziarie e le forze di polizia, ma
anche i comuni cittadini, oltreché in modo sempre più pre‑
gnante le varie associazioni impegnate nel sociale.
Prima di affrontare alcuni temi di natura processuale al fine
di valutare l’adeguatezza o meno dell’attuale normativa a con‑
trastare tale fenomeno, non può non operarsi una riflessione
sulla portata del fenomeno, in modo da prenderne compiuta‑
mente consapevolezza ed avvertirne in pieno la portata antigiu‑
ridica e l’effetto devastante sul tessuto economico e sociale.
L’usura è un fenomeno antico, che ha provocato sempre
riprovazione sociale, in quanto si è sempre considerato che
chiedere l’interesse sul danaro prestato fosse un’azione biasi‑
mevole.
● Maria Antonietta Troncone
Procuratore Aggiunto presso la Procura
della Repubblica del Tribunale di Nola
1. Il concetto di usura nel tempo
Poche parole hanno assunto, nel corso dei secoli, signifi‑
cati così diversi, per non dire antitetici, come il termine “usu‑
ra”. L’etimo latino del vocabolo deriva in ultima istanza dal
verbo “utor”, “usare”.
Infatti, in origine, con il termine usura si designava il
frutto del denaro dato in prestito, senza che la parola impli‑
casse significati indegni o moralmente riprovevoli. In seguito,
col diffondersi del fenomeno della crescente esosità dei pre‑
statori di denaro, l’uso della parola fu circoscritto all’indica‑
zione di quei prestiti che comportavano un’eccessiva gravosi‑
tà dell’impegno finanziario del debitore.
Oggi si riconoscono quattro categorie di usurai:
‑ l’usuraio parassita, una sorta di dilettante dell’usura, che
si contenta di un interesse non troppo esoso;
‑ l’usuraio semiprofessionista, che, per così dire, esercita
l’usura come “secondo lavoro”, per impiegare proficua‑
mente quella parte del suo reddito che nasconde al fisco;
‑ il gruppo usurario di quartiere, un’organizzazione che
opera quasi scientificamente, specializzandosi per settori
d’attività;
‑ l’usuraio investitore, collegato con la criminalità organiz‑
zata e che dispone di ingenti capitali e di società insospet‑
tabili.
Nel mercato “nero” del credito, si possono distinguere tre
forme fondamentali del prestito ad usura:
‑ il cosiddetto prestito “a strozzo”; che si suddivide a sua
volta in prestito a interesse, la forma più diffusa, e il pre‑
stito “a fermo”, appetibile per i commercianti o chiunque
abbia bisogno immediato di liquidità per l’acquisto di
grosse partite di merce sottocosto;
‑ il mercato illegale dei titoli;
‑ il prestito “esoso.”
2. Evoluzione del fenomeno e fattori determinanti
Se il fenomeno è antico, esso tuttavia è in continua evo‑
penale
Gazzetta
38
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
luzione, poliedrico, fortemente intrecciato con le mutazioni
economiche e sociali, le politiche monetarie e gli stili di vita,
la congiuntura economica e la precarietà.
Sono vari i fattori che danno alimento a questo fenomeno.
L’usura di oggi ha aumentato la sua pericolosità, perché è
uscita dai bassifondi della marginalità e, complice la crisi eco‑
nomica, aggredisce nuovi strati sociali, imprese e famiglie.
Con il crescere della domanda, si è diversificata anche
l’offerta, sicché si passa dagli usurai di quartiere, ai quali an‑
cora si ricorre per i prestiti minimi alle società di servizi e di
mediazione finanziaria, a reti professionalizzate ed organizza‑
te, sino ad arrivare agli usurai mafiosi, interessati soprattutto
ad entrare in compartecipazione con l’azienda del debitore.
In ogni storia di usura, c’è un bisogno impellente di dana‑
ro. Il fenomeno del mercato nero del danaro si può distingue‑
re in due fondamentali settori:
‑ il prestito alle famiglie e alle micro‑imprese in stato di
difficoltà (prestito di vicinato, cambio assegni);
‑ l’usura strutturata, ovvero l’erogazione di danaro finaliz‑
zata a depredare gli imprenditori nei loro patrimoni pro‑
duttivi.
Di fronte all’accentuarsi della crisi economica, al diminu‑
ire del potere di acquisto dei salari e stipendi ed anche
all’esplodere di modelli di vita sempre più consumistici, l’usu‑
ra si è insinuata tra tutti gli strati sociali della popolazione,
colpendo anche la classe media, una volta ritenuta immune
da questa piaga.
In un contesto socio‑economico di difficoltà, come è quel‑
lo attuale, i fenomeni di “sofferenza” delle famiglie italiane1
tendono ad aumentare: il 28,6% delle famiglie non ha un
reddito mensile tale da consentire loro di arrivare alla fine del
mese; il 42,9% può sostenere economicamente le proprie
esigenze di consumo solo utilizzando i propri risparmi; il
23,3% e il 18,1% delle famiglie, rispettivamente, dichiarano
difficoltà nel pagamento delle rate del mutuo e del canone di
affitto. Inoltre, non vi è dubbio che l’emersione di valori so‑
ciali come una perenne efficienza fisica ed economica tanto
declamata dai mass media favorisca il ricorso all’usura; il
fenomeno del sovra‑indebitamento può essere imputabile ad
un certa tendenza ad un consumo eccessivo, complice una
società che richiede ai suoi consociati stili di vita sempre più
improntati all’ostentazione di ricchezza. E ancora, il ruolo
delle aspettative per il futuro non è incoraggiante. Da ultimo
1 Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Tuttavia al fine di inquadrare
correttamente il tema, bisogna considerare che, nel confronto internazionale, il
livello di indebitamento finanziario delle famiglie italiane è molto più basso di
quello osservato nei principali paesi europei. L’incidenza dei debiti finanziari sul
reddito disponibile, in base ai dati relativi al 2005, è pari al 43% in Italia (49%
a giugno 2007), mentre in Francia si attesta al 66%, in Germania al 100% ed
in Spagna al 112%. Complessivamente nell’area Euro l’indebitamento finanzia‑
rio delle famiglie è pari all’81% del reddito disponibile. Inoltre, se si considera
l’incidenza delle attività finanziarie – al netto del complesso dei debiti contrat‑
ti – sul reddito disponibile delle famiglie emerge come in Italia tale rapporto sia
pari, sempre nel 2005, al 272%, contro il 191% della Francia, il 172% della
Germania ed il 143% della Spagna (188% del complesso nell’aera Euro). Dai
dati sopradescritti emergono quindi delle modalità comportamentali delle fami‑
glie italiane molto diverse rispetto a quelle osservate nel resto d’Europa: in Italia
si osserva infatti una maggiore propensione al risparmio ed una minore inclina‑
zione all’indebitamento e quindi fenomeni di sovraindebitamento non possono
presentarsi come fenomeni generalizzati e generalizzabili. Occorre, pertanto,
sviluppare analisi puntuali per identificare con precisione le determinanti di
tale fenomeno in modo da poterne trarne indicazioni di policy.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
il rapporto BANKITALIA, pubblicato a dicembre 2010, sul‑
la situazione economica del paese fa emergere essenzialmente
che, a parte la distribuzione del reddito, il 10% delle famiglie
italiane detiene il 50% della ricchezza.
Detta concentrazione della ricchezza in termini assoluti
deve far riflettere le autorità di politica economica, in quanto
si allarga sempre di più la forbice che misura il divario di
ricchezza per i diversi ceti sociali, a discapito di un ceto medio
in via d’estinzione.
L’inserimento nel circuito usurario può scaturire da una
sopravvalutazione, da parte dell’individuo, delle proprie capa‑
cità reddituali, da un’incapacità di gestione dei propri averi,
sia da eventi improvvisi. Negli ultimi cinque anni l’indebita‑
mento delle famiglie italiane è lievitato dell’81,5% raggiungen‑
do un livello medio pari a 14.800 euro mentre si fa sempre più
concreto il rischio usura come attesta l’aumento delle denunce,
che sono passate, tra il 2000 e il 2006, da 852 a 1.135 in rela‑
zione ad un fenomeno il cui giro d’affari oscilla tra i 15 ed i 20
miliardi di euro l’anno. È la CGIA di Mestre a rappresentare
il quadro delle difficoltà in cui versano le famiglie italiane.
Nelle aree dove maggiormente presenti i fenomeni dell’ap‑
plicazione di alti tassi di interesse, di criticità nel sistema
impresa, di diffuse sofferenze bancarie e di elevato numero di
protesti, la situazione è decisamente a rischio.
Ebbene, rispetto ad un indicatore nazionale medio stabi‑
lito dagli esperti dell’associazione artigiani mestrini pari a
100, il tasso di usura rilevato in Campania, a cui spetta la
maglia nera, è di 174 (pari al 74% in più della media Italia),
in Calabria di 144 (44% in più rispetto la media Italia), in
Puglia di 143 (43% in più della media Italia), in Basilicata di
137 (37% in più della media nazionale) e in Sicilia di 133 (33%
in più della media Italia). Mentre sul podio degli “intoccabili”
dai “cravattai” o quasi, sta il Trentino A. A., con un indice di
rischio usura pari a 50 (50% in meno della media nazionale).
Seguono il Friuli V.G. con 66 (34% in meno della media Italia),
il Veneto con 71 (29% in meno della media Italia) e l’Emilia
Romagna con 73 (27% in meno del dato medio Italia)2.
Se, invece, si analizza il dato nudo e crudo delle denunce
per usura registrate nel 2008 (purtroppo ultimo dato dispo‑
nibile a livello territoriale), la maglia nera va alla Campania
con 87. Seguono la Lombardia con 44 e la Puglia con 38. Per
quanto riguarda le estorsioni, invece, il numero più elevato si
è registrato sempre in Campania, con 1.201 denunce. Seguo‑
no la Sicilia, con 697, e la Puglia, con 618.
Se il reato rimane antico, affondando le proprie origini
nella notte dei tempi, oggi, di fronte alla perdita di redditivi‑
tà delle piccole imprese, l’usura sta rendendo particolarmente
rischiosa l’attività della piccola impresa commerciale al det‑
taglio, l’artigianato da vicinato.
Tali fenomeni di “sofferenza” coinvolgono, allo stesso
modo, il sistema produttivo italiano e, in particolare, il siste‑
ma delle piccole e medie imprese, che rappresentano oltre il
99% delle imprese attive in Italia e che, oltre alle difficoltà
congiunturali e strutturali, si trovano a dover affrontare un
problema di accesso al credito, con una conseguente minore
possibilità di accesso al credito che, qualora venga loro con‑
2 Rapporto Usura – Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
cesso, è aggravato dall’applicazione di condizioni contrattua‑
li particolarmente gravose. La piccola impresa, a differenza
delle grandi aziende, non riesce a prevedere e a gestire i mo‑
menti di crisi, agendo solo sull’indebitamento a breve.
Indubbiamente, il fenomeno dell’usura costituisce anche
il risultato di un’inefficienza creditizia che si afferma quando
i canali legali non sono più sufficienti a reggere il peso delle
esigenze di mercato. Certamente, il modo illegale agisce in
supplenza di quello legale.
La farraginosità delle disposizioni di legge in materia di
fallimento e, in generale, degli strumenti per l’esecuzione
forzata del debitore a cui si aggiunge la lunghezza del proces‑
so civile fa sì che le aziende di credito non si sentano garanti‑
te circa il rientro tempestivo ed adeguato dall’esposizione. 3
Ne consegue che il credito bancario si limita così al pre‑
stito con garanzia ed esclude dal circuito regolare il soggetto
che incorre in insolvenze, anche fortuite e temporanee ed
impedisce così il ricorso al credito a quei soggetti che non
hanno o non possono fornire alcuna garanzia a copertura. Un
fenomeno nuovo è la costituzione di società finanziarie da
parte delle stesse banche, che dirottano lì coloro che chiedono
un piccolo prestito, in modo da praticare interessi più alti di
quelli a cui le banche sono vincolate.
L’usura diventa sempre di più un reato associativo ed è
diventato crocevia di altri reati economici, dalle truffe al rici‑
claggio di danaro sporco da parte di organizzazioni mafiose.
L’usura strutturata riguarda le organizzazioni criminali e
mafiose e tende alla depredazione dei beni degli usurati.
Costoro non sono disponibili a rinnovare le scadenze degli
assegni, chiedono in garanzia quote di partecipazione alle
aziende, procure a vendere, compromessi di acquisti di case,
assunzione di personale. Questa seconda forma di usura in‑
cide negativamente sulla libertà d’impresa e sulle relazioni di
concorrenza.
La funzione obiettivo degli usurai non è più quella di
trarre vantaggio dal “prestito”, bensì di creare i presupposti
per acquisire il patrimonio della vittima.
L’usura è per il mafioso anche la prestazione di un servizio
(il credito) per continuare ad affermare un ruolo di “sovrani‑
tà” nei luoghi in cui agisce.
Ai prestiti di danaro, si accompagnano attività in natura
che costituiscono compensi “estorsivi”, come: fornitura di
falsi contratti di lavoro o di affitto per immigrati da regola‑
rizzare, false buste paga per il prestito a consumo di lavora‑
tori precari.
Spesso le vittime dell’usura sono ricattabili per certifica‑
zioni, vincoli nel possesso di beni, evasione di obblighi di
legge. Sono i titolari o i dipendenti di imprese in nero e/o che
impiegano lavoratori immigrati; sono lavoratori immigrati per
i quali il permesso di soggiorno dipende anche dalla continu‑
ità del lavoro; sono lavoratori precari, nonché appartenenti
alla classe media le cui aspettative di vita non corrispondono
3 Rapporto World Bank “Doing Business” e studi del Cepej, (The European
Commission for the Efficiency of Justice), la Commissione europea per l’effi‑
cienza della giustizia hanno evidenziato come una non rigorosa applicazione
delle leggi determini effetti negativi sui mercati finanziari. I creditori, non po‑
tendo confidare su di una tutela del proprio credito, sono tentati di pretendere
tassi di interesse più elevati o di concederne di meno, condizionando per tale
via l’accesso al mercato dei capitali degli investitori.
2 0 1 1
39
più alle proprie capacità di reddito.
L’organizzazione strutturata consente di rispondere a di‑
verse esigenze: accresce il numero di rapporti usurari; riduce
i rischi personali, mascherando le relazioni usurarie in nor‑
mali rapporti commerciali.
L’usura è, oltre che un’attività tipica della criminalità or‑
ganizzata, anche un reato di privati magari insospettabili.
Le tipologie prevalenti sono:
‑ una più spiccatamente malavitosa, dove la caratteristica
distintiva è rappresentata dal fatto che i “prestatori” sono
collegati in associazione;
‑ una formata da investitori professionisti, che si avvalgono
di amicizie e connivenze in ambienti finanziari, bancari e
giudiziari.
L’estorsione vera e propria, le minacce e anche la violenza
per il mancato pagamento delle rate è non raramente il risultato
di una “vendita” del credito a “specialisti”, cioè a malviventi.
Se questi è l’analisi del fenomeno nel suo complesso, in
Campania la situazione è particolarmente critica.
L’usura, in tutta la regione, affonda le sue radici nelle
consuetudini locali ed ancora oggi mantiene una presenza
forte ed estesa, radicata nel costume e nelle tradizioni. C’è il
vecchio usuraio che tiene “banco” nel basso. La famiglia che
fa dello “strozzo” la sua attività lavorativa, il professionista
ben inserito nella politica pronto a “dare una mano agli ami‑
ci”, l’associazione di “mutuo soccorso” insediata negli uffici
pubblici e negli ospedali. Segno evidente che in un’economia
con una significativa componente di sommerso, con attività
economiche e commerciali precarie, con un tasso di abusivi‑
smo alto, l’usura funge da vera e propria supplenza al merca‑
to legale del credito, si sostituisce ad esso e sopperisce alle
difficoltà di provvista.
In alcuni casi, il ricorso al prestito usurario è così diffuso
ed accettato come normalità, da rappresentare un vero e pro‑
prio sportello bancario sommerso con le sue leggi ed suoi
codici, mai scritti ma rispettati da tutti.
La situazione, già critica, si è negli ultimi tempi aggravata,
proprio a causa della crisi che ha colpito il commercio al mi‑
nuto, che ha portato alla chiusura di moltissime attività
commerciali (n. 357.000), di cui una cospicua parte a causa
del forte indebitamento e della sottoposizione ad usura.
È elevato il numero dei commercianti in attività che risul‑
tano coinvolti in rapporti usurari (26.000 nell’anno 2006) di
cui 8.000 con esponenti di associazione per delinquere di
stampo mafioso finalizzato all’usura. Il giro d’affari annuo
dell’usura in Italia4 è stimato in 30 miliari di euro ed interes‑
serebbe 150.000 esercizi commerciali; di tale giro d’affari il
36% (pari 10,8 miliardi di euro) è controllato dal crimine
organizzato.
3. Problemi processuali
Va anzitutto detto che la previsione penale non può in
essere in ogni caso adeguata, da sola, a fornire un risposta
alle mille facce del fenomeno, proprio perché esso si annida
nella realtà sociale, sfruttando la cronica incapacità di credi‑
to delle aziende creditizie. Questo perché l’usura non è solo
4
Sos Impresa Rapporto 2010.
penale
Gazzetta
40
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
un fenomeno criminale, ma il risultato di inefficienze econo‑
miche, di iniquità sociali, di ritardi nelle revisioni di leggi, e
quindi va combattuto con questi strumenti e non solo con
quelli della repressione penale.
Gli aspetti più importanti sono: l’emersione del fenomeno,
l’attività di prevenzione, l’aiuto alle vittime.
Ciò premesso, va detto che l’usura è diventata un reato, nel
nostro sistema giuridico, solo con il codice Rocco del 19305, che
lo inquadrò nei delitti contro il patrimonio, ignorandone total‑
mente le implicazioni di violenza e di costrizione che ne deter‑
minano la lesività anche della sfera personale del soggetto.
La legge 108 del 1996 ne cambiò la cornice giuridica, con
il legame fra il concetto di soggezione economica della vittima
e la misura stabilita per legge dei limiti dell’interesse passivo.
Tale legge poneva la vittima ed i suoi diritti al centro della
protezione penale.
I pilastri della parte repressiva della legge sono: un con‑
tratto di credito è usuraio quando vengono corrisposti inte‑
ressi usurari; gli interessi usurari sono quelli che eccedono
della metà il tasso medio effettivo globale.
Alla previsione sanzionatoria, si accompagnarono le mi‑
sure anti‑usura c.d. “attive” circa la possibilità di avere pre‑
stiti privilegiati per “uscire dal giro”.
Probabilmente, i ritardi con cui si attiva il sistema di soli‑
darietà non aiuta le vittime, in quanto l’erogazione del fondo
avviene talora quando la persona è sfinita o l’impresa è pros‑
sima al fallimento. Inoltre, dato l’allargarsi del fenomeno, si
potrebbe rendere necessario anche allargare i benefici o pre‑
vedere forme di sostegno alternative.
Ed infatti, la legge 108 del 1996 non prevede solo una
parte sanzionatoria, ma anche un parte preventiva.
Uno strumento normativo a favore delle vittime dell’usura
è dato dalla legge 44/99, che all’art. 20 comma 4 prevede la
sospensione delle procedure esecutive nei confronti dei debi‑
tori esecutati dei quali, nell’ambito di procedimenti penali, e
stata accertata la sottoposizione ad usura.
Il prefetto, acquisito il parere del Presidente del Tribunale,
sospende per 300 giorni ogni azione relativa all’esecuzione
forzata, anche la vendita già fissata.
Il problema principale è la forte immersione del fenomeno.
L’usura continua a crescere in una dimensione sommersa,
benché coloro che la praticano sono in qualche modo personaggi
pubblici, conosciuti sul territorio e nella comunità degli affari.
Ciò è dovuto al fatto che il rapporto fra debitore e credi‑
tore riveste carattere di sudditanza.
Si arriva pertanto a denunciare quando ormai il rapporto
usurario va avanti da molto tempo, quando il soggetto usu‑
rato è ormai fortemente indebitato, spesso con più usurai
servendo un prestito a ripianare l’altro, quando ha spesso
intaccato anche i conti correnti dei propri familiari, e soprat‑
tutto quando è stato destinatario di minacce e ha, pertanto,
ragione di temere per la propria vita.
Solo in tali situazioni estreme si arriva la denuncia, mentre
in una gran parte di casi non è quasi avvertito il disvalore
5Il Codice Penale Italiano accolse le teorie di A. Smith e Ricado in materia di
prestito ad interesse nel 1889 che cancellò il reato di usura. Una netta svolta
nell’orientamento dottrinale della legislazione italiana si ebbe nel corso degli
anni Venti, sicché nel Codice Penale del 1930 (codice Rocco) esso venne nuo‑
vamente contemplato, e lo è tuttora.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
sociale giuridico del prestito usurario, fenomeno fortemente
radicato, per la sua ramificazione e per le sue antiche origini,
nella coscienza collettiva.
Pertanto, la diffusione del fenomeno dell’usura è solo in
parte quantificabile sulla base del riscontro giudiziario delle
denunce, come dimostra la differenza sostanziale tra il nume‑
ro di quest’ultime e quello del numero di richieste di assisten‑
za ed aiuto rivolte agli osservatori privilegiati, quali le fonda‑
zioni antiusura o le stesse associazioni di categoria.
La differenza è dovuta proprio alla ridotta propensione di
famiglie e imprese a denunciare alle autorità giudiziarie i casi
di usura, per cui ciò fa ritenere più appropriato parlare di li‑
vello di permeabilità di un territorio e di vulnerabilità dei
diversi contesti sociali ed economici rispetto al fenomeno
dell’usura, in quanto non si può rimanere ancorati al solo
dato ufficiale relativo al numero di denunce.
L’usura è un reato per il quale il contrasto appare inade‑
guato, a causa dei tempi giudiziari lunghissimi, che mettono
le vittime in continuo stato di difficoltà e di ricatto, cui si
aggiungono le difficoltà d’individuazione dello stesso.
La condanna dell’usuraio non è un obiettivo che si rag‑
giunge facilmente.
I processi per usura si fondano prevalentemente sulle di‑
chiarazioni della persona offesa che, a distanza di anni, può
non ricordare con esattezza ed in tutti i suoi passaggi lo svol‑
gersi del rapporto usurario, che è durato per anni.
Inoltre, bisogna dimostrare l’entità del prestito e la data
della sua erogazione, nonché l’ammontare della somma da
restituire o restituita, l’epoca della restituzione e l’avvenuta
corresponsione degli interessi usurari.
Spesso, l’erogazione del danaro è avvenuta in contanti, per
cui vi è prova solo circa la restituzione del prestito.
Inoltre, la fissazione del tasso soglia, che doveva servire
nelle intenzioni del legislatore a rendere più certo il reato, ha,
di fatto, rallentato il corso della giustizia. Quasi sempre, in‑
fatti, di fronte a conteggi complicati, occorre avvalersi
dell’opera di periti, con inevitabile maggiore durata della fase
delle indagini preliminari.
La difficoltà spesso di provare che il rapporto di credito
abbia assunto colorazioni usurarie e la stessa reticenza delle
parti offese, che talora giungono con difficoltà ad ammettere
di avere avuto in prestito il danaro ma affermano incredibil‑
mente di averlo ricevuto senza corresponsione d’interessi,
rende necessario il potenziamento della norma che sanziona
l’esercizio abusivo di attività finanziarie (art. 132 testo unico
bancario), che prevede la pena da sei mesi a quattro anni.
Inoltre, appare importante utilizzare anche in questo caso
lo strumento, che progressivamente sta estendendo la sua
sfera di applicazione, della responsabilità giuridica dell’ente
di appartenenza del soggetto autore del reato (che, nel caso
trattato, riguarderebbe banche e/o società finanziarie) ed è
altresì rilevante estendere l’applicazione delle misure di pre‑
venzione patrimoniali.
Se questa è, di massima, l’analisi economica del fenome‑
no e questi sono gli strumenti giuridici, è importante anche
verificare come la comunità economica e civile possa fare ri‑
corso ad organizzazioni volte a combattere l’emergere ed il
diffondersi del credito usurario.
Anzitutto, le istituzioni antiusura hanno e devono sempre
più avere un ruolo rilevante sia nell’azione di prevenzione che in
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
quella di contrasto allo svilupparsi di un mercato dell’usura.
Riguardo alla politica di prevenzione, bisogna ridurre il
clienti potenziali che possono essere spinti ad accrescere la
domanda d’usura.
È necessario, sul fronte preventivo, perseguire la politica
del debito responsabile, facendo sì che si accresca la consape‑
volezza equilibrata delle potenzialità, ma anche dei rischi
delle scelte d’indebitamento, nonché la conoscenza delle pos‑
sibilità che il mercato legale offre, superando uno stato di
arretratezza e di disinformazione che costituisce situazione
ideale per chi esercita il credito usurario.
Bisogna pertanto evitare che soggetti che meriterebbero il
credito, in base a criteri di efficienza od in base a criteri di
solidarietà se lo vedano rifiutare e finiscano per diventare
clienti degli usurai.
Quale, invece, deve essere l’ambito di azioni di istituzioni
antiusura per gli individui e le imprese già vittime dell’usura?
Anzitutto, appare imprescindibile che il cliente dell’usu‑
raio segnali concretamente l’esistenza del rapporto illecito,
mediante la denuncia alle pubbliche autorità. La denuncia
deve divenire la condizione‑preventiva o contemporanea‑ per
attivare l’interazione fra il soggetto presunto usurato e le
forme di ausilio e di collaborazione attivabili.
La denuncia ha un valore fondamentale anche per evitare che
le risorse anti‑usura si possano accompagnare a situazioni di az‑
zardo morale dell’usurato, di collusione fra usurato ed usuraio.
È necessario, pertanto, che la vittima venga accompagna‑
ta in un percorso di legalità, in cui venga incrementato un
rapporto di fiducia con le istituzioni, in particolare con le
forze di polizia e con la magistratura, non potendosi mai
creare un rapporto esclusivo con le associazioni che operano
sul territorio che non preveda anche la proposizione della
denuncia e l’apertura di un procedimento penale.
Le organizzazioni antiusura devono, pertanto, svolgere
una preziosa opera di supporto a quella repressiva, mai po‑
tendosi sostituire agli organi statuali a ciò deputati, proprio
perché la vittima va reimmessa, anche attraverso un’operazio‑
ne di carattere culturale, in un circuito legale, che la porti ad
abbandonare definitivamente il circuito illegale del ricorso al
credito usurario.
2 0 1 1
41
La presenza di tale momento di accertamento e di verifica
ha anzitutto la valenza di ripristinare un discorso di legalità ed
è inoltre imprescindibile per sventare comportamenti strumen‑
tali ed opportunistici, che consentano un indebito accesso al
fondo di solidarietà (finanziamento a tasso zero per un impor‑
to pari ai danni causati all’attività economica dal rapporto
usurario, solo per credito d’investimento e non al consumo).
Dopo tutto, la tendenza anche legislativa a ritenere impre‑
scindibile l’obbligo di denuncia è desumibile dal nuovo testo
dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture (così come modificato dalla legge 94 del
2009 c.d. pacchetto sicurezza).
Detta norma prevede che siano esclusi dalla partecipazio‑
ne a procedure di affidamento di appalti pubblici ed anche
dall’affidamento di subappalti coloro che, pur essendo stati
vittime di delitti di concussione e di estorsione aggravati dal‑
le modalità mafiose, non risultino avere denunciato i fatti
all’autorità giudiziaria.
L’obbligo di denunzia delle estorsioni subite da parte di
operatori economici costituisce, infatti, uno strumento di
contrasto alla pressione mafiosa.
Tale norma riprende, d’altronde, il contenuto di vari pro‑
tocolli di legalità, in cui le associazioni di categoria hanno
assunto appunto l’obbligo della denuncia, come momento
imprescindibile di un percorso di legalità, per spezzare qual‑
siasi collusione con gli autori dei fatti.
Certamente, le esortazioni etiche o moralistiche non ba‑
stano più e, con tutta probabilità, le denuncie vanno incenti‑
vate con “forme premiali e compensative” per coloro che si
espongono, in modo tale da determinare una rottura signifi‑
cativa fra impresa e mafia. Ciò vale ad evitare che i soggetti
usurai si trovino ad essere due volte vittima, degli usurai e
dello Stato, spesso assente ed incapace di comprendere le
esigenze di chi ha il coraggio di denunciare.
In conclusione, solo un percorso di legalità, che coniughi
l’emersione del fenomeno con la predisposizione di un’adegua‑
ta rete di sostegno intorno all’usurato e che tenti, dall’altra,
di sventare tentativi di strumentalizzazione, è la strada da
percorrere per recidere i rapporti illeciti e per riaffermare la
centralità dello Stato nel contrasto al fenomeno dell’usura.
penale
Gazzetta
42
D i r i t t o
●
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
SOMMARIO: 1. La sentenza della Corte costituzionale
n. 103 del 2010 – 2. Segue: il potere del giudice dell’udienza
preliminare di modificare la qualificazione giuridica del fat‑
to – 3. Il criterio giurisprudenziale della lesività sostanziale.
Il dopo Drassich.
Fatto e fattispecie
nella giurisprudenza
della Corte costituzionale
e della Corte
di cassazione
● Clelia Iasevoli
e
Ricercatore confermato in Diritto processuale penale
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
1. La sentenza della Corte costituzionale n. 103 del 2010
«L’idea di una legge che compone in un ordine tutte le
forze irrompenti, che le fa essere ordine, idea astrattamente sì
chiara, vacilla»1, soprattutto a fronte del consolidamento del
diritto giurisprudenziale in ambiti delicati come quelli ineren‑
ti alla fenomenologia dell’imputazione.
Perciò ci ritroviamo a discutere dei riverberi sistematici del
caso Drassich, continuando il percorso speculativo intrapreso
nel numero precedente di questa Rivista.
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Strasburgo
è ormai noto: se l’ordinamento riconosce al giudice il potere
di modificare la qualificazione giuridica del fatto, deve assi‑
curare all’imputato il concreto esercizio del contraddittorio
su ogni profilo dell’imputazione2.
Seguendo questo percorso esegetico è stata sollevata la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 424, 429 e
521 comma 1 c.p.p. nella parte in cui consentono al giudice
dell’udienza preliminare di disporre il rinvio a giudizio
dell’imputato per un fatto qualificato giuridicamente in ma‑
niera diversa senza il previo contraddittorio sul punto3.
Le censure si sviluppano con argomentazioni non aderen‑
ti alla specificità del contesto dell’udienza preliminare.
La prima ha ad oggetto il contrasto di tali disposizioni con
l’art. 24 Cost., secondo cui l’assenza di una preventiva cono‑
scenza dell’accusa da parte dell’imputato, anche sotto il pro‑
filo del nomen juris, non consente di “calibrare” le attività
difensive in sede di udienza preliminare, di produrre elemen‑
ti ai sensi dell’art. 391‑bis c.p.p., di sollecitare lo svolgimento
di nuove indagini o l’assunzione di nuove prove ai sensi degli
artt. 421‑bis e 422 c.p.p., di verificare la possibilità di acce‑
dere ai riti alternativi.
La seconda fonda sull’art. 111 comma 3 Cost., in quanto
nel caso in cui il pubblico ministero non ritenga di modifica‑
re la veste giuridica del fatto contestato ed il giudice disponga
il rinvio a giudizio attribuendo allo stesso una diversa quali‑
ficazione, non è garantito il contraddittorio, dal momento che
l’attività difensiva dell’imputato è stata espletata con riferi‑
mento alla originaria imputazione.
La terza evidenzia l’incompatibilità delle citate disposi‑
zioni con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, come interpretato
dalla Corte di Strasburgo, secondo cui il diritto ad un proces‑
so equo comporta non solo che l’imputato debba essere infor‑
mato nel più breve tempo possibile dei fatti materiali posti a
suo carico, ma anche, in modo dettagliato, della qualificazio‑
ne giuridica attribuita agli stessi; formula che quella Corte
reputa – senza esplicitarlo – omologa ai “motivi dell’accusa”
1 S. Satta, Il diritto, questo sconosciuto, in Soliloqui e colloqui di un giurista,
Padova, 1968, p. 62.
2 Corte europea dir. uomo, Sez. II, 11 dicembre 2007, n. 25575, in Cass. pen.,
2008, p. 1646.
3 Corte cost., sent. 17 marzo del 2010, n. 103, in Gazz. uff., 24 marzo 2010.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
ai quali fa riferimento la norma convenzionale: se no, dove
nasce la questione?
Per queste ragioni si è chiesto alla Corte costituzionale di
intervenire sugli articoli censurati, parificando la disciplina
della modifica della qualificazione giuridica del fatto a quella
della modifica del fatto medesimo, così chiedendo di annul‑
lare attraverso una sentenza additiva il distinguo tra fatto e
fattispecie.
Ebbene, la Corte, pur riconoscendo il potere di ufficio del
giudice di intervenire sul nomen juris, ha avvertito la necessi‑
tà di indicare i confini entro i quali l’esercizio di questo pote‑
re non viola la correlazione tra accusa e sentenza, identifican‑
doli nell’immutabilità degli elementi costitutivi tipici dell’av‑
venimento naturalistico e cioè nell’elemento psicologico,
nella condotta, nell’evento, nel nesso di causalità. E, partendo
da questa premessa, essa si rimette al legislatore per la con‑
formazione della disciplina processuale di situazioni tra loro
non omogenee, quali – appunto – l’accertamento che un fatto
debba essere diversamente qualificato e la contestazione che
il fatto sia differente da quello descritto nel decreto che dispo‑
ne il giudizio.
Da qui la domanda. Come può l’eterogeneità delle situazio‑
ni essere rispettata da un’attività di omologazione normativa?
Di fronte a così radicale incertezza sistematica, che nega a
monte la forza ermeneutica della lett. b) dell’art. 417 c.p.p. ed
a valle l’eguale tensione dell’art. 521 c.p.p. e che nella sostan‑
za riduce la distanza funzionale tra pubblico ministro e giudi‑
ce, sostanzialmente frantumando il ruolo sistemico che nei
millenni – ed indipendentemente dal tipo di sistema – si e’
sempre affidato al principio iuta novit curia; in questa situa‑
zione non può apparire azzardato opinare che siffatta prospet‑
tiva conduce ad una negazione della specificità degli oggetti e
della distribuzione dei poteri e delle regole comportamentali,
doverosamente recuperate dall’indice differenziale tra i due
commi dell’art. 521 c.p.p., che perde la forza di limite del
potere decisorio a fronte di un errore contestativo del fatto,
non del nomen juris, norma che acquista ulteriore significato
se, poi, la si coniuga con la lettera b) dell’art 606 c.p.p.
2. Segue: il potere del giudice dell’udienza preliminare di modifi‑
care la qualificazione giuridica del fatto.
Quanto alla legittimità delle disposizioni dell’udienza
preliminare sotto il profilo della diversa qualificazione giuri‑
dica del fatto va osservato che se la fattispecie astratta, sotto
la quale deve essere ricondotta la fattispecie concreta, è altra
da quella ipotizzata, l’intervento del giudice si traduce
nell’esatta applicazione della legge, cioè nell’attività di jus
dicere; il giudice nel fare ciò non pone alcun limite all’eserci‑
zio dell’azione penale e all’autonomia dei poteri del pubblico
ministero, ma attua il principio di legalità processuale.
Non a caso la funzione dell’udienza preliminare si sostan‑
zia nella verifica degli elementi utili a sostenere l’accusa in
giudizio (art. 125 disp.att.), soprattutto sotto il profilo della
corretta formulazione dell’imputazione, non essendo, l’ogget‑
to della funzione, quello dell’accertamento della responsabi‑
lità dell’imputato 4.
4
Sulla funzione dell’udienza preliminare si segnala V. Maffeo, L’udienza preli‑
minare tra diritto giurisprudenziale e prospettive di riforma, Padova, 2008.
2 0 1 1
43
L’imputazione nella richiesta di rinvio a giudizio è accom‑
pagnata dalla “indicazione degli articoli di legge che [il pubbli‑
co ministero] reputa violati” (art. 417 c.p.p.), indicazione debo‑
le che non tocca il fatto, proprio per la ritenuta vigenza di quel
principio forte in tema di fattispecie, che ovviamente distingue
il caso in cui la modifica della fattispecie dipenda dalla corre‑
zione di un elemento del fatto: in tal caso è questa seconda si‑
tuazione che predomina ed orienta i poteri del giudice.
Si può dire, dunque, che la imputazione rappresenta il
primo stadio di solidificazione della storicità del fatto e della
sua veste formale e, pertanto, si muove in una dimensione
unilaterale – che è quella dell’azione –; per questa ragione il
sistema tollera un margine di “errore” già calcolato all’inter‑
no della normazione dell’udienza preliminare. A ciò si aggiun‑
ga che il provvedimento conclusivo, nella forma del decreto
di rinvio a giudizio, non è lo strumento offerto al giudice per
il controllo sulla domanda, ma è il risultato dell’espletamento
di quel controllo; l’imputazione – come requisito del decre‑
to – è stata già filtrata dal confronto dialettico davanti al
giudice terzo ed imparziale ed assume rilevanza in una pro‑
spettiva tridimensionale e, quindi, non più unilaterale.
Soltanto al termine della verifica, essa si colora di una
duplice configurazione: se già rappresentava l’esercizio
dell’azione, diviene, poi, thema probandum, proiettandosi
verso il giudizio, sede fisiologica dell’attuazione del contrad‑
dittorio sia come metodo di formazione della prova, sia come
diritto soggettivo delle parti.
Se è così, l’intervento giurisdizionale modificativo del
nomen juris nell’udienza preliminare è manifestazione pecu‑
liare del principio generale jura novit curia, che opera ogni‑
qualvolta si provoca l’organo della giurisdizione sottoposto
all’osservanza della legge.
La disciplina dell’udienza preliminare rispetta le ragioni
di essenza del distinguo fatto fattispecie che se ammette l’in‑
tervento del giudice sulla fattispecie, lascia poi al pubblico
ministero l’attivazione dei meccanismi correttivi della storici‑
tà fattuale (art. 423 comma c.p.p.); la cui omissione inficia
l’enunciazione dell’imputazione nel provvedimento conclusi‑
vo, determinando la causa della nullità relativa prevista
dall’art. 429 comma 2 c.p.p.
Da qui si origina il punto di frizione tra inerzia del pub‑
blico ministero ed esercizio della funzione giurisdizionale,
oltre i limiti della stretta soggezione del giudice alla legge
(art. 101 comma 2 Cost.); nel mezzo si annida la legittimazio‑
ne del giudice al ricorso dell’ordinanza di trasmissione degli
atti, che lo libera dall’imbarazzo di formulare un rinvio a
giudizio contrario alle esigenze di legalità del processo5.
Per questa via l’inerzia del pubblico ministero viene attrat‑
ta nella sfera di controllo del giudice ovvero nell’ambito del
suo ruolo di garante della correttezza dell’imputazione e del‑
la sua corrispondenza alle risultanze dell’udienza preliminare.
Ne consegue che l’ordinanza di trasmissione degli atti al pub‑
blico ministero, nella forma di una sollecitazione o di un in‑
vito ad aggiornare l’imputazione, costituisce lo strumento di
controllo – atipico perché non previsto dall’ordinamento – che
5Sia consentito il rinvio al nostro, L’apparente indeterminatezza della funzione
di controllo del giudice dell’udienza preliminare, in Quaderni di Scienze pena‑
listiche, n. 2, 2006, p. 121 s.
penale
Gazzetta
44
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
misura, di volta in volta, l’incidenza dell’omissione del modu‑
lo contestativo – meccanismo di rilevanza di quelle risultan‑
ze – sulla valida emissione dei provvedimenti conclusivi
(art. 424 c.p.p.): il giudice deve restituire gli atti affinché il
pubblico ministero corregga la storicità del fatto 6. L’essenzia‑
lità del provvedimento è servente all’attivazione dei mezzi
della contestazione da parte del soggetto legittimato.
La fonte legittimante il potere non si rinviene nell’applica‑
zione analogica dell’art. 521 c.p.p., così come affermano
giurisprudenza costituzionale7 e di legittimità8, ma nelle con‑
notazioni naturali della funzione, nell’oggetto dell’udienza
preliminare e nel risultato dell’esplicazione dei compiti di
sindacato giurisdizionale, che evidenziano il carattere tridi‑
mensionale dell’atto imputativo.
Per cui, se si negasse la sussistenza di questo potere in
capo al giudice dell’udienza preliminare, il suo operato sareb‑
be limitato agli angusti confini della sentenza di non luogo a
procedere o di un invalido decreto di rinvio a giudizio, così
svuotando di contenuti la garanzia del filtro processuale ri‑
spetto alle imputazioni azzardate9.
In definitiva, ogni modifica del fatto storico compete in
via esclusiva al pubblico ministero; laddove la sua veste for‑
male rientra nel potere del giudice ed è connaturale alla sua
funzione10. A voler ritenere diversamente, la conseguenza sa‑
rebbe che l’errore nella qualificazione giuridica condizione‑
rebbe il giudice nell’esercizio della funzione, condizionamen‑
to non tollerabile dal sistema, che vuole il giudice soggetto
soltanto alla legge e scevro dalle interferenze dei comporta‑
menti di parte, sia pure del pubblico ministero.
3. Il criterio giurisprudenziale della lesività sostanziale
Tuttavia, secondo la Corte di Strasburgo se l’ordinamen‑
to riconosce al giudice il potere di modificare la qualificazio‑
ne giuridica del fatto, deve assicurare all’imputato il concreto
esercizio del diritto di difesa11. Il riverbero sistematico di tale
principio non è stato soltanto il superamento del distinguo tra
fatto e fattispecie quanto all’operatività dei moduli contesta‑
tivi, ma anche la manifestazione a contrario di quel dictum:
la reviviscenza del criterio della lesività sostanziale, a dimo‑
strazione – ritengo – dei pericolosi innesti di diritto giurispru‑
denziale all’interno della specificità del nostro tessuto codici‑
stico12.
Mi spiego. Sulla spinta esegetica del principio elaborato
dalla Corte edu, la Cassazione ha trovato terreno fertile per
il consolidamento di un concetto di fatto funzionale, com‑
6 Cfr. Cass. pen., Sez. un., 1 febbraio 2008 n. 5307, in Guida dir., 2008, n. 11,
p. 60.
7 Corte cost., sent. 17 marzo 1994, n. 88, in Cass. pen., 1994, p.1800; Corte
cost., sent. 30 giugno 1994, n. 265, in Giur. it., 1995, p. 596,
8 Così già Cass. pen., Sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, in Arch.nuova proc.
pen.,1996, p. 719.
9 D’altra parte, l’art. 521 c.p.p. fa espressamente riferimento, quale termine di
relazione alla sentenza in senso tecnico. Sicché, già questo primo profilo, a
quanti sostengono la praticabilità dell’interpretazione analogica, si muove una
prima obiezione: essa sarebbe riferibile solo alla sentenza di non luogo a pro‑
cedere e non anche al il decreto di rinvio a giudizio.
10 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 3422, in Cass. pen., 2004,
p.1341.
11 Corte europea dir. uomo, Sez. II, 11 dicembre 2007, n. 25575, in Cass. pen.,
2008, p. 1646.
12 Quanto al rapporto tra crisi della legalità e diritto giurisprudenziale si rinvia al
recente studio di G. Riccio, La Procedura penale. Tra storia e politica, Napo‑
li, 2010.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
prensivo anche della qualificazione giuridica, che rimette
nella discrezionalità libera del giudice l’operatività della nul‑
lità della sentenza per difetto di contestazione. Le Sezioni
Unite chiariscono che per aversi mutamento del fatto, occorre
una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali,
della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi
astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza
sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pre‑
giudizio dei diritti della difesa. Ne consegue – secondo la
Corte – che l’indagine volta ad accertare la violazione del
principio di correlazione non va esaurita nel pedissequo e
mero confronto puramente letterale fra contestazione e sen‑
tenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attra‑
verso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione
concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione13.
Insomma, se l’imputato è posto nella condizione di interloqui‑
re su ogni aspetto della vicenda attraverso la difesa tecnica,
non c’è nullità della sentenza, prevale cioè la sostanza sulla
divergenza formale tra l’accusa come indicata nel decreto di
rinvio a giudizio e l’imputazione oggetto della sentenza.
L’orientamento, invero, non ha origini recenti; in altra
occasione i giudici di legittimità hanno precisato che «la nul‑
lità emerge solo quando vi sia stata la radicale immutazione
del fatto, sicché l’imputato non abbia potuto esplicare la pro‑
pria difesa, a cagione della modifica degli elementi fattuali
che sostanziano l’addebito formulato. Ma per fatto contesta‑
to si intende non soltanto quello enunciato nel capo d’impu‑
tazione, ma tutto il complesso degli elementi portati a cono‑
scenza dell’imputato e sui quali egli è stato posto in grado di
difendersi. Il vulnus si verifica solo quando l’immutazione si
traduce nella sostanziale menomazione del diritto di difesa.
Non va, insomma pregiata, ed enfatizzata la diversità delle
condotte criminose per inferirne in maniera astratta ed aprio‑
ristica la violazione del principio suddetto»14.
13 Cass. pen., Sez. un., 15 luglio 2010, n. 36551, in CED 2010. In senso conforme
Cass. pen., Sez. un., 19 giugno 1996, n. 16, in Arch. nuova proc. pen., 1996,
p. 719.
14 Cass. pen., Sez. V, 20 dicembre 2006, n. 6475. Secondo la Corte non sussiste
la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza qualora l’impu‑
tato, assolto in primo grado per non aver commesso il fatto costitutivo del
delitto di cui all’art. 468 c.p. (contraffazione di altri pubblici sigilli), sia succes‑
sivamente condannato – in sede di appello – per il delitto di cui all’art. 469
c.p. (contraffazione delle impronte di una pubblica autenticazione o certifica‑
zione), considerato che l’indagine volta ad acclarare la violazione del principio
di cui all’art. 521 c.p.p. non fa perno esclusivamente sulla diversità del fatto
materiale e, pertanto, non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto lettera‑
le tra i due atti processuali atteso che per fatto contestato non si intende solo
quello enunciato nel capo di imputazione, ma tutto il complesso degli elemen‑
ti portati a conoscenza dell’imputato e sui quali quest’ultimo sia stato posto in
grado di difendersi. Ne consegue che il vulnus del principio di cui all’art. 521
c.p.p. si verifica solo quando l’imputazione del fatto si traduce nella sostanzia‑
le menomazione del diritto di difesa e che, pertanto, detta violazione è del
tutto insussistente quando l’imputato attraverso l’iter processuale sia venuto a
trovarsi nella concreta condizione di difendersi in ordine all’oggetto dell’impu‑
tazione.
In senso difforme Cass. pen., Sez. V, 10 maggio 2001, n. 25004, in Dir. e giust.,
2001, n. 31, p. 76. In quest’occasione i giudici di legittimità ritengono che si
verifica nullità della sentenza ai sensi dell’art. 522 comma 2 c.p.p. per mancan‑
za di correlazione tra contestazione e pronuncia, nel caso in cui l’imputato,
rinviato a giudizio per rispondere del reato di contraffazione di pubblici sigilli
o strumenti destinati a pubblica autenticazione o certificazione, sia poi condan‑
nato per il reato di contraffazione delle impronte di una pubblica autenticazio‑
ne o certificazione. La condanna dell’agente, infatti, è essenzialmente diversa in
quanto nella prima ipotesi criminosa (art. 468 c.p.), l’autore falsifica lo stru‑
mento destinato a riprodurre l’impronta, rendendo possibile una riproduzione,
anche in serie di essa. Nella seconda (art. 469 c.p.) egli falsifica la impronta
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Dunque, alla nozione strutturale di fatto la giurispruden‑
za ha sovrapposto un pragmatico concetto funzionale che
comprende tutto il complesso degli elementi portati a cono‑
scenza dell’imputato e sui quali quest’ultimo sia stato in
grado di difendersi.
L’ulteriore esemplificazione del ragionamento della Corte
di Cassazione è offerta dai procedimenti per reati colposi, là
dove la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo
della colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originaria‑
mente contestato, non varrebbe a realizzare diversità del fatto
ai fini dell’obbligo di contestazione suppletiva e dell’eventua‑
le ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto
di correlazione tra imputazione e sentenza.
Vero è che nella fase dibattimentale la composita discipli‑
na delle nuove contestazioni è preordinata a garantire, nello
svolgimento del contraddittorio, il pieno esercizio del diritto
di difesa, perciò, l’inosservanza di ogni sua norma ferisce il
diritto, lesione che si connota per la specificità del contenuto,
non essendo stata riconosciuta la possibilità all’interessato di
difendersi in relazione alla fattispecie ritenuta in sentenza e
non contestata.
Ma la chiara presa di posizione legislativa in ordine alla
prescrizione della sanzione nell’art. 522 c.p.p. “nullità della
sentenza per difetto di contestazione” rappresenta la valuta‑
zione ex ante del carattere essenziale delle “modalità” richie‑
ste per il raggiungimento di un determinato scopo, avendo
l’ordinamento privilegiato già al momento del concepimento
del modello legale dell’atto una via particolare tra quelle
possibili ritenuta fondamentale rispetto alle altre. Insomma,
le forme predeterminate sono sempre essenziali perché rap‑
presentano il contenuto della tipicità dell’atto.
Ora, si tratta di verificare se il canone epistemologico
sotteso al rigore della littera legis di cui all’art. 522 c.p.p. sia
effettivamente quello della previsione di una nullità speciale
relativa, nell’intento non di sminuire l’importanza del vizio,
ma della volontà di responsabilizzare le parti a cui l’ordina‑
mento attribuisce l’onere di attivarsi ai fini dell’operatività
della sanzione.
La delimitazione rigorosa dei confini estensivi degli effet‑
ti della nullità all’inosservanza delle disposizioni del capo IV
all’interno del primo comma dall’art. 522 c.p.p. codifica i
tratti dell’invalidità come violazione delle modalità procedu‑
rali prestabilite; laddove, nel secondo comma l’inosservanza
assume la specificità di un vizio contenutistico estrapolabile
dal corpo della sentenza. La reazione ordinamentale si muove
in una duplice direzione: ripristinare la legalità violata dalla
irritualità della nuova contestazione che sfocia nel vizio di
correlazione; ed in questa proiezione contenere la diffusione
della nullità in termini strettamente necessari nell’ottica del
principio di conservazione.
Se è così, l’eccepibilità della nullità della sentenza per di‑
fetto di correlazione è nella disponibilità dell’interessato ov‑
vero nell’autonomia del suo potere dispositivo, il cui esercizio
è, comunque, manifestazione peculiare di strategia difensiva.
In un processo partecipato, il legislatore attribuisce alla par‑
te l’onere di ripristinare la regolarità del procedere: parteci‑
stessa, senza creare una falsa matrice, ma operando direttamente sul documen‑
to, mediante incisioni, disegni, colorazioni od altro, in modo che la contraffa‑
zione richieda, di volta in volta, un’opera particolare.
2 0 1 1
45
pazione significa anche e soprattutto responsabilità. E trattan‑
dosi di una causa di invalidità verificatasi nel giudizio dev’es‑
sere eccepita con l’impugnazione della correlativa sentenza ex
art. 181 comma 4 c.p.p. La nullità si converte in motivo di
impugnazione per espressa statuizione legislativa. Non a caso,
il giudice di appello consente il recupero di un grado di giudi‑
zio dichiarando la nullità in tutto o in parte della sentenza
appellata e disponendo la trasmissione degli atti al giudice di
primo grado, quando vi sia stata condanna per un fatto diver‑
so o applicazione di una circostanza aggravante per la quale
la legge stabilisca una pena di specie diversa da quella ordina‑
ria del reato o di una circostanza aggravante ad effetto spe‑
ciale (art. 604 comma 1 c.p.p.), sempre che non vengano rite‑
nute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti, dal mo‑
mento che in questa ipotesi opera il secondo comma dell’art. 604
c.p.p. Qualora, invece, vi sia stata condanna per un reato
concorrente o per un fatto nuovo, il giudice di appello dichia‑
ra nullo il relativo capo della sentenza ed elimina la pena
corrispondente, dandone notizia al pubblico ministero per le
sue determinazioni (art. 604 comma 3 c.p.p.).
In sintesi, l’ordinamento affida agli interessati il ripristino
della legittimità del percorso normativo violato, posto a pre‑
sidio del diritto di difendersi provando, avendo già affidato al
giudice l’attuazione dei meccanismi correttivi, il cui ambito
di attività è posteriore rispetto all’operato del pubblico, fun‑
gendo da controllo di questo operato, e preventivo rispetto
all’emanazione della sentenza, svelando la natura di norma di
cautela dell’accertamento.
In questo contesto l’espressa comminatoria della sanzione
è scelta di politica legislativa volta ad espungere dall’ordina‑
mento il criterio della lesività sostanziale, elemento ermeneu‑
tico che libera il giudice dagli angusti confini della tipizzazio‑
ne delle ipotesi sanzionatorie, per offrirgli sponde di arbitrio
non sindacabili. Non a caso il diretto destinatario della tas‑
satività è il giudice, peraltro, privato del potere di ricorrere
all’applicazione analogica o all’interpretazione estensiva15.
Per queste ragioni di garanzia ritengo che in tema di nul‑
lità non sia possibile parlare di lesività sostanziale dell’atto
invalido, perché il criterio si risolve nell’esercizio di una di‑
screzionalità libera del giudice posta alla base del giudizio in
concreto sull’invalidità dell’atto e, quindi, sulla sussistenza
dei presupposti dell’eventuale regressione del processo16; un
giudizio ex post che in questi termini si sostituisce alle scelte
politico‑legislative operate ex ante in materia.
Sul piano strutturale le ragioni dell’inapplicabilità di tale
canone giurisprudenziale sono duplici: a) l’inesistenza del
pregiudizio effettivo come requisito negativo porterebbe al
paradosso dell’integrazione di tale paradigma giuridico, no‑
nostante l’assenza di elementi previsti a pena di nullità, attri‑
15 Al riguardo si osserva che «la tassatività non può infatti esprimersi soltanto nel
fatto che l’ordinamento, menzionandoli, accoglie inequivocabilmente certi tipi
di imperfezione e le correlate sanzioni (cosicché non è necessaria un’operazione
interpretativa di ricostruzione del vizio e dei suoi effetti), ma significa indivi‑
duazione inestensibile dei casi ai quali l’imperfezione afferisce, in modo da
circoscrivere il fenomeno dell’invalidità alle fattispecie effettivamente bisogno‑
se di tutela». Così N. Galantini, voce Vizi degli atti processuali penali, in Dig.
pen., 1999, p. 345.
16In tal senso, già la Relazione al progetto del 1978, sub art. 161, La legge dele‑
ga del 1974 e il progetto preliminare del 1978, in Il nuovo codice di procedura
penale dalle leggi delega ai decreti delegati, a cura di G.Conso, V. Grevi, G.
Neppi Modona, vol. I, Padova, 1989, p. 474.
penale
Gazzetta
46
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
buendo, così, a quel connotato, il ruolo di requisito sostituti‑
vo della volontà del legislatore; b) il giudizio di disvalore
dell’atto si articolerebbe nella verifica della conformità al
modello e dell’effettiva lesione dell’interesse tutelato17.
Insomma, il criterio della lesività sostanziale essendo
oggetto di una valutazione ex post, è incompatibile con la
valutazione di invalidità ex ante, cioè operata ab origine dal
legislatore con la previsione della sanzione processuale18.
17 Per una diversa impostazione, cfr. C. Conti, Accertamento del fatto e inutiliz‑
zabilità nel processo penale, Padova, 2007, p. 474 ss.
18 Per un ulteriore approfondimento della tematica, sia consentito il rinvio alla
nostra relazione La nullità nel processo partecipato, ovvero legalità e garanzie
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Soltanto in un sistema in cui governi il principio di legali‑
tà processuale è possibile ritenere che i diritti inviolabili della
persona siano al sicuro.
nell’etica della responsabilità, tenuta presso il Consiglio Superiore della Magi‑
stratura, durante l’incontro di studi sul tema Nullità, inutilizzabilità, abnormi‑
tà, Roma, 18‑20 aprile 2011.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
Sui “pericolosi percorsi “
dei rapporti tra ordinamenti.
Il caso Drassich
● Emanuele de Franco
Dottorando di ricerca in Sistema Penale e Processo
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
2 0 1 1
47
Negli ultimi tempi sarebbe cosa veramente molto ardua in‑
dividuare un solo appassionato della Procedura Penale che non
stia riflettendo, da par suo o in compagnia, sul famoso caso
Drassich, balzato immediatamente alle cronache “accademiche”
come una delle questioni più affascinanti del decennio.
Il fascino e’ però pari alla delicatezza, perché – non sembri
una esagerazione: si vedrà – seduta dietro al banco degli im‑
putati c’è la “cosa” più importante di tutte, c’e’ la democrazia,
se oggetto del processo, oggi, è la tematica delicatissima del
rapporto tra principio di legalità e diritto giurisprudenzia‑
le – addirittura – sovranazionale nel processo penale.
Non senza modestia ci sembra che siano stati raramente
espressi rilievi particolarmente critici circa la fortissima va‑
lenza sistematica del potere istituzionale del giudice di confe‑
rire al fatto una diversa qualificazione giuridica. L’art. 521
comma 2 è, infatti, manifestazione della contrapposizione tra
fatto e fattispecie, che fonda la rigida separazione dei poteri
tra giudice e pubblico ministero. La regola è chiara: se c’è
necessità di modificare la fattispecie, a fatto di reato inaltera‑
to, interviene il giudice dando allo stesso una configurazione
giuridica diversa. Qualora, invece, vi sia mutamento della
struttura materiale del reato (rectius: della materialità storica
del fatto) così come esso è stato contestato, si trapassa dal
campo della fattispecie a quello – appunto – del fatto, ove
muta il protagonista, dovendo intervenire i poteri del pubbli‑
co ministero a modificare la imputazione essendo quelli del
giudice estranei alla vicenda.
È questo il senso profondo del principio iura novit curia.
Aristotelicamente ne consegue che il fatto non è mai fattispe‑
cie salvo scorrette applicazioni dei meccanismi processuali dai
riflessi patologici; per esempio quando l’esercizio del potere
di riqualificazione costituisce occasione per coprire mutamen‑
ti surrettizi del fatto.
Di questo pericolo la dottrina1 è sempre stata consapevole.
Eppure, non è mancato chi 2 ha espresso perplessità circa
l’opportunità che l’imputato subisca un diverso giudizio di
valore, successivamente alla modifica della fattispecie da
parte del giudice. In relazione alla nuova disciplina ha preso
posizione in tal senso autorevolissima dottrina3 la quale ha
rilevato che la modifica “in peggio” della fattispecie giuridica
(così intendendo il rapporto con ipotesi di reato più grave) non
è affatto irrilevante dal punto di vista della difesa, afferman‑
do che non sarebbe stato inopportuno assoggettarla a garan‑
zie analoghe a quelle previste per la modifica del fatto.
In merito si osserva che “si sarebbe dovuto guardare con
favore ad una disciplina che impedisse un peggioramento
della qualificazione giuridica dei fatti addebitati non prece‑
duto dal relativo avvertimento”4.
A riprova della secolarità appassionante della questione,
la Commissione redigente il codice di procedura penale
1 V. Manzini, Trattato; Bettiol, La correlazione; M. Nobili, La nuova proce‑
dura penale; Siracusano, Il giudizio.
2 G. De Luca, Considerazioni intorno all’art. 477 c.p.p., in. Scuola Pos., 1964;
così anche G. Leone, Trattato di diritto processuale penale, III, Napoli, 1961,
che afferma che bisognerebbe tener conto del fatto che anche la diversa quali‑
ficazione giuridica del fatto riguarda i diritti della difesa.
3 G. Illuminati, Giudizio, in AA. VV., Profili del nuovo codice di procedura
penale, a cura di Conso e Grevi, 3°ed., Cedam, Padova, 1993, p. 511.
4 I. Calamandrei, Diversità del fatto e modifica dell’imputazione nel codice di
procedura penale del 1988, in Riv. it. di dir. e proc. pen., 1996.
penale
Gazzetta
48
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dell’885 non l’aveva del tutto ignorata, indicando due possibi‑
li soluzioni:
a) una disciplina imperniata sul funzionamento del mecca‑
nismo di modifica dell’imputazione per diversità del fatto
contestato, che avrebbe preso in considerazione, come
ovvio, l’iniziativa del pubblico ministero, la concessione
di un termine a difesa e, infine, l’eventuale trasmissione
degli atti. Questa alternativa avrebbe, però, reso troppo
ampi i poteri del pubblico ministero e forse per questo fu
scartata dalla Commissione;
b) la previsione di un dovere del giudice di rendere nota pre‑
ventivamente la decisione di modificare la qualificazione
giuridica, consentendo la discussione del punto (è stata
questa la soluzione adottata dalla Corte di Strasburgo con
la sentenza Drassich). In tal caso, però, il giudice appari‑
rebbe coinvolto in un’attività regressiva, al punto che
parte della dottrina ritenne preferibile attribuire tale com‑
pito con la relativa responsabilità al pubblico ministero,
con una soluzione che avrebbe presentato minori anoma‑
lie rispetto a quella precedente6.
Entrambe le soluzioni furono accantonate perché, secondo
la Commissione, esse avrebbero comportato un dispendio di
attività eccessivo, e il rischio di indurre il giudice a confor‑
marsi in ogni caso al nomen iuris, che sarebbe risultato così
imposto dal pubblico ministero.
Insomma, fu differenza tra fatto e fattispecie.
Fu differenza tra fatto e fattispecie anche perché il legisla‑
tore dell’88, rincorso dalla flessibilità semantica del linguag‑
gio codicistico fascista e dalle resistenze inquisitorie della
prima giurisprudenza post‑repubblicana, abbatte il sistema
repressivo attraverso la consegna ai protagonisti del processo
penale di un codice caratterizzato da forte rigidità del linguag‑
gio, dove, per esempio, i termini di accusa, contestazione e
imputazione non si confondono mai.
Nel codice Rocco la confusione linguistica rintracciava il
prodotto che accreditava la supremazia delle regole di compor‑
tamento come unico mezzo di controllo sociale. “Contestual‑
mente c’era un giudice, servo della legge che applicava, total‑
mente asservito al potere politico: la supremazia dell’ordinamen‑
to e dell’ordine alimentava in lui un giudizio acritico dei rappor‑
ti tra legge e società e gli nascondeva l’ampiezza dei poteri che,
invece, la sovranità dello jus dicere gli attribuiva”.7
Il codice Vassalli recupera l’imputazione come atto gene‑
tico del processo e conferisce al giudice di cognizione la
possibilità di interpretare le norme; questa volta con un qud
pluris rispetto al sistema previgente: la Costituzione. Il giudi‑
ce recupera il potere di un giudizio critico dei rapporti tra
legge e società albergando nella sua posizione istituzionale il
dovere di interpretare le disposizioni applicabili nel processo
nel senso assolutamente conforme ai valori costituzionali.
Come a dire che nel nuovo processo il giudice non decide
perché applica la legge penale ma giudica per garantire la
posizione dell’imputato.
Se è così, la formulazione dell’art. 521 comma 2 c.p.p. è
figlia della scelta costituzionale di separare l’organo che accu‑
5V. la Relazione al progetto preliminare del c.p.p. 1988, p. 119.
6 I. Calamandrei, op. loc. cit.
7 G. Riccio, Ideologie e modelli del processo penale, Edizioni scientifiche italia‑
ne, Napoli, 1995.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
sa dall’organo che giudica in funzione di garanzia. Per ottene‑
re questo risultato, il giudice non deve mai intervenire nel
fatto né, come ovvio, partecipare alla ricostruzione dello stes‑
so in attività istruttoria (altrimenti sarebbe degenerata la sua
imparzialità); nello stesso tempo chi accusa non può interve‑
nire nella fattispecie perché non può e non deve influenzare il
giudice nel suo sommo dovere di pronunciarsi sul fatto.
Insomma, nell’impianto sistematico del codice dell’88 il
giudice è il dominus della fattispecie, il pubblico ministero
padrone del fatto. Ne e’ dimostrazione la lettera b) dell’
art. 417 c.p.p., cioè nella parte in cui il legislatore attribuisce
al pubblico ministero la mera responsabilità della “indicazio‑
ne delle norme che intende violate “quanto alla qualificazione
giuridica del fatto.
Su questi presupposti appare evidente che nel contesto
completamente compulsivo del conflitto fra ordinamenti
giuridici, il caso Drassich dimostra come l’interpretazione
possa stravolgere il suo oggetto, spingendosi fino al capolinea
della tenuta del principio di legalità: far finta che una norma
non esista! È la storia dell’art. 521 comma 2 del codice di
procedura penale.
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo8 ri‑
veste particolare importanza per due fondamentali ordini: da
un lato, essa rende immanente nell’ordinamento giuridico
italiano il principio del contraddittorio su ogni profilo dell’ac‑
cusa anche durante il procedimento di Cassazione; dall’altro,
spinge a riconoscere uno strumento di restituito in integrum
(qui è emblematico il caso Dorigo9), ogni qual volta l’imputa‑
to non abbia avuto la possibilità di difendersi anche sulla
fattispecie.
Dunque, la fattispecie rientrerebbe nel “fatto processuale”,
con tutte le conseguenze che quest’operazione ermeneutica
comporterebbe: per esempio, la rilevanza della fattispecie ai
fini dell’attivazione dei meccanismi di modifica dell’imputa‑
zione. “Non solo dunque, diritto a conoscere l’ipotesi quali‑
ficatoria formulata dall’organo dell’accusa, ma anche diritto
a conoscere entro quali limiti l’organo giudicante potrà disco‑
starsi da tale qualificazione”10.
8La Sez. II della Corte Europea dei diritti dell’uomo con sent. 11 dicembre 2007
ha constatato la violazione del combinato disposto dell’art. 6 CEDU, paragrafi
1 e 3, lett. a) e b), relativo al diritto ad un equo processo, sotto il profilo del
diritto dell’imputato ad essere informato della natura e dei motivi dell’accusa
formulata a proprio carico, ivi compresa la qualificazione giuridica del fatto
reato, e del diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a prepa‑
rare la difesa. Il ricorrente Drassich aveva, infatti, adito la Corte di Strasburgo
per sollevare questione intorno alla presunta iniquità del procedimento penale
che lo aveva riguardato in sede nazionale, a causa della riqualificazione peggio‑
rativa dei fatti oggetto di imputazione che avevano impedito la declaratoria di
estinzione del reato per prescrizione; estinzione che sarebbe stata dichiarata se
l’accusa nel suo inquadramento giuridico non fosse stata modificata da corru‑
zione semplice in corruzione in atti giudiziari. Secondo il ragionamento della
Corte europea dei diritti dell’uomo, l’art. 6 della CEDU riconosce all’imputato
il diritto di essere informato non solo della causa dell’accusa, cioè dei fatti ma‑
teriali posti a suo carico, ma anche della loro qualificazione giuridica (preceden‑
te Pelissier e Sassi c. Francia sentenza del 25 marzo 1999): se il giudice ha la
facoltà di riqualificare i fatti, deve comunque assicurarsi che gli accusati abbia‑
no avuto l’opportunità di esercitare il proprio diritto alla difesa in modo con‑
creto ed effettivo. Ciò implica che gli stessi imputati siano informati, in tempo
utile, non solo della causa dell’accusa, cioè dei fatti materiali posti a loro carico,
ma anche, in modo dettagliato, della qualificazione giuridica data ad essi.
9 Corte europea dei diritti dell’uomo sentenza 9 settembre 1998, Dorigo c. Italia;
Cass., Sez. I, sentenza n. 2800 del 2006.
10L’espressione è della sentenza 25 marzo 1999, Grande Camera, Pélissier e
Sassi c. Francia, che a sua volta specifica il principio riportato nella decisione
19 dicembre 1989, Kamasinsky c. Austria.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Ora va considerato, nell’ottica della Corte europea, che la
modifica senza previo avviso della qualificazione giuridica del
fatto contestato all’imputato non lede il diritto previsto
dall’art. 6, 3. lett. a) e b) della Convenzione qualora ricorrano
due condizioni, una di natura processuale ed una di natura
sostanziale.
La condizione processuale. In primo luogo, l’imputato,
sulla base delle circostanze del caso concreto, deve essere in
grado di prevedere in modo sufficiente la possibilità di una
modifica del nomen iuris. Sembra trattarsi di un giudizio
prognostico da compiersi con valutazione ex ante, ossia prima
della modifica del nomen iuris.11
Nel caso concreto la Corte europea ha ritenuto prevedibi‑
le la modifica del nomen iuris nel caso di contestazione di una
circostanza aggravante (v. caso De Salvator Torres), escluden‑
dola invece nel caso di contestazione di una figura autonoma
di reato (v. casi Sadak e altri, nonché Pélissier et Sassi).
La Corte europea, in nome dell’effettività della difesa nel
processo penale, richiede l’esplicito riferimento alla diversa
qualificazione giuridica ovvero alla possibilità che questa sia
adottata; e tutto ciò in tempo utile perché la difesa possa es‑
sere esercitata in modo effettivo.
La dottrina, però, rileva che il giudizio di prognosi attua‑
to dalla Corte avviene in concreto e non in astratto. Se è così,
la mera esistenza di una norma (nel caso italiano l’art. 521
c.p.p.) che attribuisca al giudice il potere‑dovere di modifica‑
re la qualificazione giuridica del reato contestato all’imputato12
non sembra sufficiente a rendere prevedibile la possibilità di
modifica della fattispecie. Rimane, quindi, senza spiegazione
la fenomenologia della prevedibilità della modifica della fat‑
tispecie, ovverosia il modo in cui la modifica della fattispecie
si intenda prevedibile o meno ai fini dell’individuazione
dell’eventuale violazione dell’art. 6, 3. lett. a) e b) CEDU.
In realtà la Corte di Strasburgo non spiega nemmeno come
sia possibile garantire l’instaurazione del contraddittorio
sulla modifica della fattispecie in un momento logico‑tempo‑
rale successivo all’ingresso del giudice in camera di consiglio
per la stesura della sentenza, ne’ quali poteri debbano o pos‑
sano essere riconosciuti al giudice che, trovandosi in camera
di consiglio, ritiene di dover modificare la fattispecie: l’ even‑
tuale soluzione di una interruzione “della camera” sfiorereb‑
be i limiti del paradosso, data la contestualità unitaria di
quell’opera decisoria.
Per rispondere a questa incompatibilità tra legalità interna
e diritto giurisprudenziale sovranazionale restano poche op‑
zioni. Molto penetrante appare, in proposito, l’osservazione
di parte della dottrina che propone “l’interpretazione esten‑
siva del dettato dell’art. 523.3 c.p.p., ritenendo che la neces‑
sità di riqualificare il fatto rispetto all’imputazione formulata
dal pubblico ministero costituisca una fattispecie di assoluta
impossibilità della decisione per la compressione del diritto di
difesa che ne deriverebbe13”.
La giurisprudenza ha peraltro precisato che il principio di
immediata deliberazione di cui all’art. 521 comma 1 non signi‑
11 F. Gandini, In tema di modificazione della qualificazione giuridica del fatto
contestato, in For. It. 2008, fasc. 5.
12 F. Gandini, op. cit.
13 L. De Matteis, Diversa qualificazione giuridica solo se viene rispettato il dirit‑
to di difesa, in Cass. pen., 2006, fasc. 11.
2 0 1 1
49
fica che il giudice, una volta entrato in camera di consiglio,
debba necessariamente uscirne con la sentenza già deliberata,
non escludendo che il giudice possa adottare una deliberazione
diversa dalla sentenza che definisce il giudizio, pronunciando
un’ordinanza con la quale disponga un’ulteriore attività dibatti‑
mentale, quale l’assunzione di nuove prove14. L’autore, in defini‑
tiva, propone un’ordinanza, con la quale, evidenziata la questio‑
ne di diritto rilevata, il giudice inviti le parti a rassegnare nuove
conclusioni o addirittura ad indicare i nuovi mezzi di prova rile‑
vanti in relazione alla diversa fattispecie di reato ipotizzata.
La condizione sostanziale si riferisce al piano delle risul‑
tanze sanzionatorie sulla posizione dell’imputato: quest’ulti‑
ma non è peggiorabile dal meccanismo riqualificativo del
fatto. A tal proposito viene in rilievo non solo il limite del
divieto di reformatio in peius, ma anche l’eventuale mancata
reformatio in melius; miglioramento che, nel caso Drassich,
sarebbe stato conseguente al riconoscimento della prescrizio‑
ne del reato originariamente contestato.
Ebbene, per la Cassazione, non è da revocare in dubbio
che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giu‑
risprudenza costituzionale e di legittimità, la forza vincolan‑
te delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti
dell’uomo, sancita dall’art. 46 della Convenzione. Non solo.
Secondo l’art. 13 della CEDU, qualora si accerti la violazione
di un diritto riconosciuto al livello comunitario, proprio il
definitivo accertamento di una violazione fa sorgere il diritto
della persona di essere posta in condizione di avvalersi di uno
strumento giuridico interno volto ad ottenere la restitutio in
integrum.
Sono, dunque, due le linee interpretative utilizzate dai
giudici supremi italiani: a) il conferimento di un valore diret‑
tamente vincolante alle sentenze della Corte europea ex
art. 46 CEDU; b) il riconoscimento del diritto di ogni perso‑
na di avvalersi di uno strumento giuridico interno, volto ad
ottenere la restituito in integrum, ogni qual volta in sede eu‑
ropea si accerti la violazione di un diritto riconosciuto dalla
stessa Convenzione.
È compito primario del legislatore nazionale prevedere
strumenti giuridici interni per la concreta esecuzione delle
sentenze della Corte di Strasburgo che abbiano rilevato, nei
processi penali, violazioni di principi sanciti dall’art. 6 della
CEDU. È dovere primario della giurisprudenza verificare se
la disciplina processuale abbia già una regola che renda per‑
corribile l’attuazione di un decisum del giudice europeo. La
Corte costituzionale con sentenza n. 129 del 2008 ha posto
in rilievo, infatti, che deve essere proprio il giudice a ricerca‑
re, in considerazione della specificità della violazione, la
modalità di restituito in integrum. È sarà proprio questo lo
sforzo adoperato dalla Cassazione nella sentenza del 12 no‑
vembre: cercare la regola che renda compatibile il dictat della
Corte di Strasburgo con l’art. 521 c.p.p.
Se è così, il decisum del giudice nazionale di legittimità
deve essere “rescisso” nella parte in cui non ha attuato la rego‑
la di sistema imposta dalla Convenzione. Qui si intercetta il
punto nodale della sentenza Drassich che propone il tema del‑
la compatibilità tra le due regole in palese contraddizione.
14 Così Cass., Sez. I, 14 gennaio 1993, Pereira, in C.E.D.; Cass., n. 194074; Sez. IV,
23 febbraio 2005, n. 231729.
penale
Gazzetta
50
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Enigmatica è l’affermazione introduttiva della sentenza in
esame: la regola ex art. 521 diviene ancor più cogente nel
giudizio di legittimità, perché dà contenuto e significato alla
funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, chiamata
appunto ad assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme inter‑
pretazione della legge”.
L’indirizzo giurisprudenziale in questione risolve, però,
un’incompatibilità concreta ricorrendo a due generali argo‑
menti interpretativi: da un lato l’indefettibilità della regola ex
art. 521, dall’altro l’emendabilità del modulo operativo della
regola. Ciò significa – continua la Corte – che il principio del
contraddittorio ex art. 111 Cost. non investe soltanto la for‑
mazione della prova ma ogni questione che attiene alla valu‑
tazione giuridica del fatto commesso. La norma dell’art. 521
viene, quindi, interpretata adeguandola non solo ai principi
costituzionali in materia, ma anche al decisum del giudice
europeo. Il giudice ordinario interpreta la norma conforme‑
mente alla disposizione comunitaria, così interpretata dalla
Corte europea, entro i limiti strutturali permessi dalla fatti‑
specie proposizionale di riferimento. Qualora ciò non sia
possibile, si deve dubitare della compatibilità della norma in‑
terna con la disposizione comunitaria, proponendo la questio‑
ne di legittimità costituzionale rispetto al parametro
dell’art. 117.1 Cost. (sentenza della Corte costituzionale n. 349
del 2007). Questa impostazione è stata recentemente confer‑
mata dalla Consulta con sentenza n. 113 del 201115 secondo
cui “anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del
13 dicembre 2007 […] ove si profili un eventuale contrasto fra
una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comu‑
ne deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpreta‑
zione della prima in senso conforme alla Convenzione, avva‑
lendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e,
ove tale verifica dia esito negativo, egli deve denunciare la ri‑
levata incompatibilità, proponendo questione di legittimità
costituzionale. A sua volta, la Corte costituzionale, investita
dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione
della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a ve‑
rificare se la norma della Convenzione – la quale si colloca pur
sempre a un livello sub‑costituzionale – si ponga eventualmen‑
te in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi
nella quale dovrà essere esclusa l’idoneità della norma conven‑
zionale a integrare il parametro considerato”.
Non è il caso del processo Drassich e dell’art. 521 del
codice.
Secondo la Cassazione quello riqualificativo del fatto è un
potere indefettibile; eppure il suo modulo operativo è emen‑
dabile nella misura in cui richiede una condizione imprescin‑
dibile per il suo esercizio: l’informazione preventiva all’impu‑
tato e al suo difensore (troppo poco maturi i tempi per parla‑
re di notificazione).
Trattasi allora dell’analogo meccanismo di modifica pre‑
visto per l’imputazione e di titolarità dell’accusa.
Il discorso è a questo punto maturo soltanto per sviluppa‑
15La sentenza in questione “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del
codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di
revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire
la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, para‑
grafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle li‑
bertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte
europea dei diritti dell’uomo.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
re pochi, sintetici e introduttivi rilievi critici.
Resta ancora oscuro a chi scrive il motivo per cui la Cas‑
sazione non è ricorsa all’ausilio della Corte Costituzionale
visto che i giudici di legittimità aderiscono, nell’impianto
motivazionale della Drassich, all’orientamento della Consulta
secondo cui la norma CEDU è norma interposta e non assume
mai rango costituzionale. La necessità di un “corretto bilan‑
ciamento tra l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che
ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costitu‑
zione stessa” è dunque tradita. E la Consulta ha recentemen‑
te confermato il punto con sentenza n. 113 del 2011.
In seconda istanza, lo stravolgimento dell’art. 521 sembra
eccessivamente dimenticare che la Corte europea dei diritti
dell’uomo, secondo la legge istitutiva che la riguarda, deve
pronunciarsi rispettando il sistema del paese che riceve la
sentenza.
L’introduzione nell’ordinamento italiano di un meccani‑
smo di instaurazione del contraddittorio sulla modifica della
fattispecie sembra cozzare proprio con uno degli elementi
portanti del sistema processuale italiano, il quale distingue
tra fatto e fattispecie per definirsi irrimediabilmente come un
sistema processuale a difesa rigida ineliminabile.
Il combinato disposto dell’art. 24 comma 2 Cost. e art. 111
comma 4 Cost. rintraccia la dinamica del rapporto fatto‑fat‑
tispecie come categoria generale della dicotomia “argomen‑
tazione sulla fattispecie‑ contraddittorio sul fatto”16. L’art. 111
comma 4 Cost., infatti, dispone testualmente che “il processo
penale è regolato dal principio del contraddittorio nella for‑
mazione della prova”. Ciò significa che la Legge fondamenta‑
le richiede espressamente l’instaurazione del meccanismo del
contraddittorio sulla prova, cioè sul fatto, e non certo anche
sulla fattispecie e rende esplicito che la preoccupazione di
difendersi sulla fattispecie nasce in un sistema processuale in
cui ha rilievo l’autodifesa e non in una dimensione di neces‑
saria tecnicità della stessa.
Il parametro in questione non è certo nuovo alla nostra
dottrina e il nucleo di fondo che ispira l’impostazione della
Corte europea ricorre anche in alcune critiche di autori, che
hanno contestato il meccanismo “autosufficiente” di riquali‑
ficazione dell’art. 52117.
Il tema, che in questa sede per la verità può essere soltanto
accennato, verte sul più ampio e complesso rapporto tra legalità
sostanziale e legalità processuale. Sulla prima “la legge domina
la scena prospettandosi come fonte esclusiva della fattispecie
incriminatrice e dei suoi criteri di imputazione, come regola e
disciplina della responsabilità penale, delle sue conseguenze e
delle sue vicende estintive; sul secondo versante, quello proces‑
suale, la legge si erge a quel fondamento e limite ai poteri insiti
nello svolgimento delle indagini e nell’esercizio dell’azione pena‑
le e come vincolo esclusivo della funzione giurisdizionale”18.
16 Riccio, La procedura penale. Tra storia e politica, Napoli, 2010.
17 Cfr., tra gli altri, con riferimento all’art. 477 c.p.p. 1930: G. De Luca, Considera‑
zioni intorno all’art. 477 c.p.p., in. Scuola Pos., 1964; così anche G. Leone,
Trattato di diritto processuale penale, III, Napoli, 1961; con riferimento all’art. 521
vigente: G. Illuminati, Giudizio, in AA. VV., Profili del nuovo codice di proce‑
dura penale, a cura di Conso e Grevi, 3°ed., Cedam, Padova, 1993, p. 511.
18 T. Padovani, Il crepuscolo della legalità nel processo penale, riflessioni antisto‑
riche sulle dimensioni processuali della legalità penale, in Ind. Pen., 1999,
p. 529.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Non si vuole far altro che ricordare che il principio di le‑
galità processuale configura il processo non come luogo e
occasione per l’esercizio del potere, ma come “struttura nor‑
mativa entro cui il potere s’incanala e si plasma, in primo
luogo alla stregua della legalità sostanziale19”. La stessa idea
di “fatto tipico” nasce sul terreno processuale per eliminare
l’inquisitio generalis e delimitare il potere dell’accusa dell’au‑
torità giudiziaria 20.
Sotto questo profilo si considera il ricorso analogico
all’art. 625 bis c.p.p. lesivo del principio di legalità processua‑
le che, per così dire, erediterebbe dal suo versante sostanziale,
quanto meno, l’inopportunità di richiami troppo creativi in
presenza di fattispecie processuali già ampiamente sostenute
sotto il profilo giuridico e sistematico.
Ma è proprio questa l’operazione della Cassazione: ricor‑
rere analogicamente all’art. 625 bis c.p.p., per giustificare, nel
sistema interno, l’estensione del percorso interpretativo della
sentenza Drassich, in riferimento ad una fattispecie processua‑
le – quella della modifica della fattispecie – già ampiamente
disciplinata da una norma di legge ordinaria, cioè dall’art. 521
del codice di procedura penale; ma la disposizione, a questo
punto, risulta totalmente stravolta, così come risulta ridimen‑
sionato in ottica interna il principio di legalità processuale.
La questione si ritiene, tuttavia, superata nel merito dato
l’intervento della Corte costituzionale, adoperato con senten‑
za n. 113 del 2011, che ha bocciato la soluzione della Cassa‑
zione. “A prescindere da ogni altro rilievo – secondo i giudici
della Consulta – lo strumento previsto dall’art. 625 bis
c.p.p. non può comunque rappresentare una risposta esausti‑
va al problema, risultando strutturalmente inidoneo ad assi‑
curare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non
si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione”. Se
è così, lo strumento predisposto ora per adeguare il giudicato
interno alla sentenza definitiva della Corte europea dei dirit‑
ti dell’uomo che attesti la violazione dell’art. 6 CEDU è la
revisione ex art. 630 c.p.p.; cosa che rende ancora più interes‑
sante l’attesa di un eventuale futuro intervento della Corte
19 M. Nobili, Principio di legalità, processo, diritto sostanziale, in Scenari e tra‑
sformazioni del processo penale, Padova, 1998, p. 181 ss..
20 T. Padovani, Il crepuscolo della legalità nel processo penale, riflessioni antisto‑
riche sulle dimensioni processuali della legalità penale, in Ind. Pen., 1999.
2 0 1 1
51
Costituzionale sul rapporto tra l’art. 521 c.p.p. e il parametro
dell’art. 117 Cost.
In realtà, la determinatezza della fattispecie, come ultimo
elemento del principio di legalità sostanziale, sul versante
processuale svolge una funzione di delimitazione dei poteri,
sia d’indagine, sia d’accusa. Quando la norma difetta di de‑
terminatezza, infatti, l’organo dell’accusa dovrebbe supplire
a tale difetto e svolgere un compito che formalmente gli è
estraneo. L’art. 521, proprio in tal senso, rappresenta una
disposizione limitativa dei poteri dell’accusa che risultano
estranei alla fenomenologia della “modifica della fattispecie”,
la quale spetta unicamente al magistrato giudicante. In caso
contrario ciò che entra in crisi non è solo l’impianto sistema‑
tico del processo penale vigente ma è la stessa procedura pe‑
nale come sistema di norme di sbarramento al potere; e della
norma di sbarramento al potere un processo democratico non
può fare a meno21.
Ciò che oggi ci rimane è la bocciatura costituzionale del
percorso ermeneutico della sentenza Drassich; la libertà del
legislatore di regolare in futuro con una diversa disciplina il
meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della
Corte di Strasburgo; la necessità di eccepire la questione di
legittimità costituzionale nel caso in cui il giudice a quo nutri
dubbi circa la compatibilità della norma convenzionale inter‑
posta con quella costituzionale.
21L’espressione è di G. Riccio, dalle Lezioni universitarie, 2009.
penale
Gazzetta
52
D i r i t t o
●
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE
ordinanza 24 febbraio 2011
G.M. Paola Cervo
Il reato di clandestinità
Nota a Tribunale
di Santa Maria Capua Vetere,
ordinanza del 24.02.2011
● Rossella Catena
e
Consigliere presso la Corte di Appello di Napoli,
Seconda Sezione Penale
Le norme incriminatrici contenute nell’art. 14, commi 5, ter e quater,
d.lgs. 286/98 (Testo Unico sull’immigrazione) ed il loro mancato re‑
cepimento nell’ordinamento italiano della Direttiva 2008/115/CE.
Il mancato recepimento nell’ordinamento italiano della
Direttiva 2008/115/CE pone evidenti problemi di compati‑
bilità tra l’ordinamento interno ed i principi ispiratori della
predetta Direttiva, con particolare riferimento al principio
secondo cui la restrizione della libertà personale finalizzata
al rimpatrio del cittadino straniero irregolare deve essere
considerata come extrema ratio, con la conseguenza che
nessuna misura detentiva può essere considerata giustificata
se collegata a una procedura espulsiva in relazione alla quale
non esiste alcuna prospettiva ragionevole di rimpatrio, né
appare possibile l’intimazione allo straniero irregolare di la‑
sciare il territorio nazionale allorquando non sia possibile
dare corso all’allontanamento coattivo, immediato o previo
trattenimento.
Le norme incriminatrici contenute nell’art. 14, commi 5,
ter e quater, d.lgs. 286/98 (Testo Unico sull’immigrazione)
appaiono configgenti con l’art. 2, § 2, lett. b), della Direttiva
2008/115/CE, nella misura in cui, sia alla luce delle conside‑
razioni richiamate in premessa dalla Direttiva che alla luce
dell’art. 5 della Convenzione EDU, la concreta operatività
delle procedure amministrative di rimpatrio e delle norme
penali sottopone lo straniero irregolare, per il quale non è
oggettivamente possibile o non è più possibile il trattenimen‑
to, ad una spirale di intimazioni al rimpatrio volontario e di
restrizioni della libertà che dipendono, in sede penale, da
titoli di condanna per delitti la cui condotta materiale si
concreta nella semplice disobbedienza alle intimazioni pre‑
viste dalla procedura amministrativa; ciò salva diversa inter‑
pretazione dell’art. 2, § 2, lett. b) della predetta Direttiva,
nel senso, cioè, di ritenere che lo Stato membro possa,
nell’esercizio della propria potestà legislativa, discrezional‑
mente decidere di configurare come reato la mancata coope‑
razione dello straniero al suo rimpatrio volontario, in tal
caso non essendovi spazio per l’applicazione della Direttiva
comunitaria.
(Omissis)
Imputazione del delitto di cui all’art. 14 co. 5 ter d.lgs.
286/98 perché, espulso con decreto del Prefetto di Pescara in
data 23.2.10, senza giustificato motivo si tratteneva nel terri‑
torio dello Stato in violazione dell’ordine del Questore di ….
emesso e notificato il 23.8.2010, di lasciare il territorio na‑
zionale entro cinque giorni, dato con provvedimento scritto,
recante le conseguenze penali della sua trasgressione;
premesso che:
‑ l’odierno imputato è stato tratto in arresto il 10.2.2011;
‑ questo giudice ne ha convalidato l’arresto in pari data,
senza concedere il nulla osta all’espulsione poiché all’esito
dell’udienza di convalida l’interessato ha chiesto proceder‑
si nelle forme del giudizio abbreviato, ed il suo difensore
ha chiesto un termine per la discussione;
‑ all’udienza odierna le parti hanno concluso come da ver‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
bale, il PM chiedendo la condanna dell’imputato alla pena
finale di mesi 6 di reclusione, la difesa chiedendo l’assolu‑
zione dell’imputato perché il fatto non sussiste ovvero non
costituisce reato, ravvisandosi un giustificato motivo rile‑
vante ex art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98;
Osserva
Il caso in esame
Emerge dagli atti che K Y *** – cittadino ghanese irrego‑
larmente soggiornante nel territorio italiano – è stato tratte‑
nuto nel c.i.e. di …Palese per la massima durata consentita
dalla vigente legge italiana, e precisamente dal 23 febbraio al
23 agosto 2010. Egli era infatti destinatario del decreto di
espulsione emesso dal Prefetto di …il 23 febbraio 2010, che
gli fu notificato contestualmente al trasferimento nel c.i.e., ed
allo spirare del termine per il trattenimento K Y ***ha rice‑
vuto la notifica dell’ordine di allontanamento del Questore
di… A tale ordine egli non ha ottemperato, e dunque è stato
arrestato, come detto, in data 10.2.2011.
Nelle more di tale procedimento di rimpatrio, e cioè il 24
dicembre 2010, è scaduto il termine entro il quale l’Italia
avrebbe dovuto recepire la direttiva 2008/115/CE del Parla‑
mento Europeo e del Consiglio, approvata il 16 dicembre
2008. ad oggi, tale Direttiva non è stata formalmente recepi‑
ta nel nostro ordinamento.
Questo giudice deve dunque oggi decidere se per un me‑
desimo fatto storico – ovvero l’inottemperanza al decreto di
espulsione emesso dal Prefetto ed al successivo ordine di al‑
lontanamento emesso dal Questore – sia possibile assogget‑
tare un cittadino straniero alla detenzione amministrativa
consentita dalla procedura di rimpatrio, prima, ed alla san‑
zione penale della detenzione, poi.
Non risulta che K Y ***sia soggetto pericoloso per la si‑
curezza nazionale, non risulta che egli abbia presentato do‑
mande di soggiorno fraudolentemente false, ed infine l’impu‑
tato è risultato completamente incensurato, così che l’unico
addebito che si muove nei suoi confronti è, appunto, l’omessa
ottemperanza all’ordine di allontanamento del Questore di
Bari. Infine, non risultano e non sono state dedotte situazioni
di fatto tali da integrare un “giustificato motivo” che potreb‑
be portare ad assolvere l’imputato perché il fatto non costitu‑
isce reato.
La disciplina italiana
Fino al 24 dicembre 2010 l’ Italia ha così disciplinato il
trattamento dello straniero extracomunitario irregolarmente
soggiornante sul territorio:
‑ ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 286/98 l’espulsione dello stranie‑
ro clandestino è disposta dal prefetto con decreto motiva‑
to, sia quando lo straniero è entrato nel Paese sottraendo‑
si ai controlli alla frontiera, sia quando il permesso di
soggiorno è scaduto da più di 60 giorni e non ne è stato
chiesto il rinnovo;
‑ il decreto di espulsione (che nella terminologia adoperata
nella direttiva diventa “decisione di rimpatrio”) è imme‑
diatamente esecutivo, ma nel caso di straniero il cui per‑
messo di soggiorno è scaduto il prefetto intima di lasciare
il territorio dello Stato entro il termine di 15 giorni; qua‑
lora infine il Prefetto rilevi il concreto pericolo che costui
si sottragga all’esecuzione volontaria del decreto di espul‑
2 0 1 1
53
sione, il Questore ne disporrà l’immediato accompagna‑
mento alla frontiera;
‑ l’impugnazione del decreto dinanzi al giudice di pace non
ne sospende l’immediata esecutività;
‑ ai sensi dell’art. 14 del medesimo decreto legislativo, che
regolamenta l’esecuzione dell’espulsione, quando non è
possibile eseguire immediatamente il decreto di espulsione
mediante accompagnamento alla frontiera, e lo straniero
non possa essere trattenuto nei centri di identificazione ed
espulsione, il Questore gli ordina di lasciare il territorio
dello Stato entro 5 giorni.
Fin qui, la procedura strettamente amministrativa.
La violazione dell’ordine di allontanamento del Questore
è sanzionata penalmente, ed è a questo punto che nella pro‑
cedura amministrativa di espulsione si innesta l’incrimina‑
zione:
‑ ai sensi dell’art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98, lo straniero che
senza giustificato motivo si trattiene illegalmente nel ter‑
ritorio in violazione dell’ordine impartito dal Questore è
punito con la reclusione da 1 a 4 anni (sanzione che con‑
sente l’applicazione della custodia cautelare in carcere ai
sensi dell’art. 280 c.p.p.) ovvero con la minor sanzione
della reclusione da 6 mesi ad 1 anno se l’espulsione è stata
disposta per essere scaduto il permesso di soggiorno. In
ogni caso viene emesso un nuovo provvedimento di espul‑
sione;
‑ ai sensi del comma 5 quater, lo straniero che si trattiene
nel territorio in violazione di tale nuovo provvedimento di
espulsione è punito con la più severa sanzione da 1 a 5
anni. La sentenza n. 359 del 1‑17.12.2010 della Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale com‑
ma nella parte in cui non dispone che tale inottemperanza
sia punita solo ove abbia avuto luogo “senza giustificato
motivo”.
Tale sintetica esposizione va poi completata aggiungendo
che per ognuno di tali reati è obbligatorio l’arresto dello stra‑
niero e si procede nelle forme del giudizio direttissimo; inoltre,
la pena prevista per tali reati consente l’applicazione della
custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 280 c.p.p..
Balza quindi agli occhi che il legislatore italiano privilegia
l’esecuzione coattiva ed immediata dell’espulsione.
Nella prassi però si è verificata una torsione del sistema,
poiché nella stragrande maggioranza dei casi – ed anche nel
caso concreto sottoposto a questo giudice – l’espulsione viene
eseguita notificando allo straniero l’ordine di allontanamento
del Questore, facendo paradossalmente gravare sullo stranie‑
ro medesimo l’efficacia del sistema.
Tale distorta prassi applicativa non vale certo a rendere il
sistema italiano conforme agli standard fissati dalla citata
Direttiva 2008/115/CE, vuoi perché la verifica di tale compa‑
tibilità va condotta con riferimento al sistema concepito dal
legislatore e non alle sue (sempre eventuali) degenerazioni ap‑
plicative, vuoi perché nelle intenzioni del legislatore italiano
l’ordine di allontanamento è un succedaneo dell’esecuzione
coattiva dell’espulsione (che resta la soluzione privilegiata dal‑
la legge).
La direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Con‑
siglio, approvata il 16 dicembre 2008.
penale
Gazzetta
54
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
L ’Italia era tenuta a recepire tale direttiva entro il 24 di‑
cembre 2010.
Ciò non è accaduto, ed è dunque indispensabile verificare
se, ed in che termini, la disciplina comunitaria – intitolata
“Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al
rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irrego‑
lare” – abbia avuto effetti sulle norme introdotte dal legisla‑
tore nazionale italiano per regolamentare la materia delle
procedure amministrative di rimpatrio. Tale procedura, in‑
fatti, costituisce il presupposto dell’incriminazione che con la
presente ordinanza si intende sottoporre al vaglio della Corte
Europea di Giustizia.
Ai sensi dell’art. 2 della citata direttiva, gli Stati membri
“possono decidere” di non applicarne le previsioni ai cittadini
beneficiari del diritto di libera circolazione ai sensi degli ac‑
cordi di Schengen, ai cittadini sottoposti a respingimento alla
frontiera, ed infine ai cittadini sottoposti a rimpatrio come
sanzione penale, o come conseguenza di una sanzione penale,
ovvero ai cittadini sottoposti a procedure di estradizione.
Si introduce così una prima, cruciale questione interpre‑
tativa: se sia cioè possibile evitare l’applicazione delle previ‑
sioni e delle condizioni cui la direttiva subordina la legittimi‑
tà delle procedure di rimpatrio, attraverso la tecnica dell’in‑
criminazione tout court dell’ingresso irregolare nell’ UE. Con
tale escamotage, infatti, il rimpatrio sarebbe previsto come
sanzione penale, ovvero come conseguenza della (eventual‑
mente diversa) sanzione penale applicata dal giudice, cosicché
l’effetto utile della direttiva potrebbe essere concretamente
aggirato.
Il menzionato art. 2 non sembra prendere esplicita posi‑
zione sulla possibilità che la sanzione penale venga applicata
dallo Stato membro per lo stesso fatto storico – l’omessa ot‑
temperanza alla decisione di rimpatrio – che legittima gli
Stati membri ad eseguire forzatamente la decisione di rimpa‑
trio medesima.
Si consideri inoltre che nel vigente ordinamento italiano il
trattenimento in vista del rimpatrio è la sola misura coerciti‑
va applicabile nei confronti dello straniero che deve essere
rimpatriato, laddove la Direttiva prevede invece che:
‑ la decisione di rimpatrio concede per la partenza volonta‑
ria un termine congruo che va da 7 a 30 giorni salve mo‑
tivate deroghe che proroghino ovvero azzerino del tutto
detto termine (art. 7) tenendo conto delle circostanze del
caso concreto;
‑ in pendenza del termine concesso allo straniero per la
partenza volontaria, gli Stati membri possono prevedere
obblighi non detentivi diretti ad evitare il pericolo di fuga
(cauzione, obbligo di dimora, consegna dei documenti).
Più in generale, ogni coercizione della libertà personale
dello straniero irregolarmente soggiornante è strettamente
funzionale all’esecuzione del rimpatrio (principio di efficacia).
Nell’ipotesi in cui si giunga al trattenimento dello stranie‑
ro (art. 15 della Direttiva), in virtù del principio di proporzio‑
nalità esso è applicabile solo a condizione che non possano
essere efficacemente applicate altre misure meno coercitive; è
affermato il principio per cui il trattenimento ha durata quan‑
to più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo neces‑
sario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio.
In ogni caso, il trattenimento è riesaminato ad intervalli
ragionevoli, e quando risulta che non esiste più alcuna pro‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
spettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine
giuridico o per altri motivi, o che possono essere utilmente
applicate misure meno coercitive, il trattenimento non è più
giustificato e la persona interessata è immediatamente rila‑
sciata.
Ebbene, nulla di tutto questo sarebbe possibile durante
l’espiazione della pena che questo giudice è astrattamente
chiamato ad irrogare nei confronti dell’imputato, che rispon‑
de del delitto di cui all’art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98.
In virtù di tale norma “lo straniero che senza giustificato
motivo permane illegalmente nel territorio dello Stato in vio‑
lazione dell’ordine impartito dal Questore [….] è punito con
la reclusione da 1 a 4 anni” se l’espulsione è stata disposta per
aver fatto ingresso nello Stato eludendo i controlli alla fron‑
tiera, ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno
o per non aver dichiarato la propria presenza nel territorio
dello Stato entro i termini prescritti in assenza di cause di
forza maggiore, ovvero ancora per essere stato il permesso di
soggiorno revocato o annullato.
In teoria, dunque, non solo detta pena potrebbe superare
la durata del periodo di detenzione già patito, ma potrebbe
perfino superare il limite massimo consentito dalla Direttiva
(ed anzi, si noti che il minimo edittale è fissato dalla legge
italiana in 1 anno di reclusione ed il massimo giunge a 4 anni,
a fronte dei sei mesi di trattenimento in un CIE e dei sei me‑
si – prorogabili fino a 18 – di trattenimento previsti dalla
direttiva). Dunque, è evidente che durante l’espiazione della
pena lo straniero non avrebbe diritto alla revisione periodica
della decisione di trattenimento, né lo Stato avrebbe l’obbligo
di attivarsi diligentemente per eseguire il rimpatrio nel più
breve tempo possibile.
Considerazioni conclusive
In linea generale occorre premettere che nessun atto co‑
munitario mira alla criminalizzazione dell’ingresso o del
soggiorno clandestini in quanto tali, né – al contrario – esi‑
stono atti che tale incriminazione vietino (si veda il parere
giuridico presentato al Parlamento Europeo il 15 settembre
2008); né tale questione viene affrontata dalla direttiva
2008/115/CE. Allo stato attuale, dunque, gli Stati membri
restano competenti a decidere se incriminare o meno l’immi‑
grazione illegale, a condizione che sia comunque assicurato il
rispetto dei diritti fondamentali dell’immigrato irregolare. Il
legislatore italiano si è avvalso di tale discrezionalità introdu‑
cendo l’art. 10 bis d.lgs. 286/98, che appunto incrimina e
punisce con la pena pecuniaria dell’ammenda l’ingresso ed il
soggiorno illegali nel territorio dello Stato. Si badi, si discute
di una condotta attiva, ovvero l’aver fatto ingresso o il sog‑
giornare illegalmente nel territorio.
Diversa questione va posta per i commi 5 ter e 5 quater
dell’art. 14 d.lgs. 286/98: tali norme infatti puniscono con‑
dotte meramente omissive – l’inottemperanza al decreto di
espulsione ed all’ordine di allontanamento, che peraltro sono
atti del procedimento amministrativo di rimpatrio – con pene
che, come già detto, consentono l’applicazione della misura
cautelare della custodia in carcere. Per altro verso, le medesi‑
me omissioni legittimano anche il trattenimento (amministra‑
tivo) del clandestino nei centri di permanenza temporanea.
I due titoli di privazione della libertà personale sono solo
formalmente diversi, atteso che la privazione della libertà che
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
consegue all’applicazione della custodia cautelare in carcere
(consentita, come detto, dai limiti di pena previsti dalle incri‑
minazioni in questione) consegue ad un fatto storico che è
esattamente quello per il quale è consentito il trattenimento
da parte dell’autorità amministrativa durante la procedura di
espulsione, senza che assuma disvalore autonomo. Si colpi‑
scono cioè gli stessi soggetti in relazione allo stesso presuppo‑
sto di fatto, con connesso rischio di elusione dei termini
massimi e della garanzie previsti dalla direttiva per il solo
trattenimento amministrativo.
Ciò che più lascia perplessi sono le conseguenze di tale in‑
tervento incidentale del diritto penale sulla libertà personale
dello straniero irregolarmente soggiornante, poiché nello sche‑
ma astrattamente disegnato dal legislatore italiano è del tutto
fisiologico che la reclusione (sanzione penale) ed il trattenimen‑
to amministrativo si succedano, generando una spirale in cui
lo straniero può vedere limitata la sua libertà senza limiti tem‑
porali. Il legislatore italiano prevede dunque che lo straniero
irregolarmente soggiornante, già destinatario di un decreto di
espulsione da parte del Prefetto, debba essere trattenuto in un
CIE per un termine massimo di 180 giorni. Spirato tale termi‑
ne, qualora non sia stato possibile eseguire l’espulsione median‑
te accompagnamento alla frontiera, gli verrà notificato l’ordine
di allontanamento entro 5 giorni dal territorio dello Stato,
provvedimento di competenza del Questore.
La legge italiana prevede che alla scadenza di tale breve
termine lo straniero che si trovi ancora sul suolo italiano
debba essere arrestato.
Seguirà poi la richiesta di convalida dell’arresto, cui ben
può seguire la richiesta di applicazione di misura cautelare
dati i limiti edittali della reclusione prevista per simili incri‑
minazioni; seguirà poi un processo che si conclude con una
pena detentiva che non necessariamente sarà sospesa ai sensi
degli artt. 163 e ss. c.p..
Scontata la pena detentiva, ai sensi dell’art. 14 co. 5 ter
d.lgs. 286/98 allo straniero verrà notificato un nuovo provve‑
dimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera e,
qualora non sia possibile procedere all’accompagnamento
alla frontiera, questi verrà nuovamente trattenuto in un CIE
per altri 180 giorni, scaduti i quali gli sarà notificato un nuo‑
vo ordine di allontanamento da parte del Questore, la cui
inottemperanza (senza giustificato motivo, secondo C. Cost.
359/10) farà scattare l’incriminazione ai sensi dell’art. 14 co.
5 quater d.lgs. 286/98, con nuovo arresto, nuova misura cau‑
telare, nuovo processo, nuova espiazione della pena, e così
via, in un alternarsi di reclusione e trattenimento che sostan‑
zialmente non conosce termini massimi.
Si prospetta perciò una vera e propria elusione della disci‑
plina uniforme in materia di rimpatri introdotta dalla Diret‑
tiva, elusione che appare ancor più evidente se si considera che
la Direttiva consente deroghe esclusivamente in senso più
favorevole per lo straniero (art. 4 § 1).
È dunque lecito chiedersi se, a seguito della scadenza del
termine per l’attuazione della direttiva 2008/115/CE del Par‑
lamento e del Consiglio dell’Unione Europea del 16 dicembre
2008, le norme incriminatrici di cui ai commi 5 ter e 5 quater
dell’art. 14 del d.lgs. 286/98 possano ritenersi conformi alla
lettera ed alla ratio della direttiva stessa, atteso che la disci‑
plina italiana sottopone lo straniero da rimpatriare ad un’al‑
ternanza potenzialmente illimitata di periodi di detenzione
2 0 1 1
55
amministrativa e detenzione penale, sulla base di una mera
inosservanza (e dunque in assenza di qualsiasi condotta frau‑
dolenta, o sotto altri aspetti criminosa) di un ordine ammini‑
strativo di lasciare il territorio, ordine rientrante come tale
nella procedura amministrativa volta al rimpatrio dello stra‑
niero.
A conferma di tali argomentazioni milita anche una let‑
tura ragionata dell’art. 2 § 2 lett. b) della direttiva 2008/115,
che prevede che gli Stati membri possano decidere di non
applicare le disposizioni della direttiva agli stranieri sottopo‑
sti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di
una sanzione penale in conformità della legge nazionale.
Non sembra condivisibile l’idea che basti rendere reato la
mera condizione di soggiornante irregolare, ovvero basti
classificare come sanzione penale l’espulsione pronunciata dal
giudice in sede di condanna, per evitare l’applicazione della
direttiva: appare preferibile che il menzionato art. 2 § 2 lett.
b) venga interpretato restrittivamente, nel senso di escludere
l’applicazione della direttiva agli stranieri sottoposti a rimpa‑
trio come sanzione penale per fatti diversi dal mero ingresso
o dal mero soggiorno illecito nel territorio nazionale, a nulla
rilevando che (anche) questi fatti siano previsti come reato
dalla legislazione nazionale.
Questo Tribunale non è giudice di ultima istanza e dunque
ha la mera facoltà di sottoporre una questione pregiudiziale
di interpretazione alla CEG; ritiene di avvalersene, trattando‑
si di una questione nuova che presenta un interesse generale
per l’applicazione uniforme del diritto comunitario e che so‑
prattutto, per le ragioni fin qui esposte, presenta una diretta
incidenza sulla libertà personale.
Per tali motivi il Tribunale
Sospende
il presente procedimento penale ai sensi dell’art. 267 del
Trattato istitutivo dell’Unione Europea e
rinvia
gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la
decisione della seguente questione pregiudiziale di interpreta‑
zione:
se, alla luce dei principi di leale collaborazione, di effetto
utile delle direttive, di proporzionalità e di efficacia delle
misure coercitive funzionali all’esecuzione del rimpatrio dello straniero irregolarmente soggiornante, gli artt. 2, 15 e 16
della Direttiva 2008/115 CE ostino all’incriminazione ed
alla punizione – con pena che giunge fino a 4 anni nell’ipotesi di inottemperanza al primo ordine di allontanamento e
fino a 5 anni nell’ipotesi di violazione dei successivi ordini del
Questore – dello straniero irregolarmente soggiornante che
si sia reso semplicemente inottemperante al decreto di espulsione ed all’ordine di allontanamento emanati dall’autorità
amministrativa.
• • • Nota
L’articolata ordinanza adottata dal giudice monocratico
del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data 24 febbra‑
io 2011 – all’esito della celebrazione del procedimento penale
penale
Gazzetta
56
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
nei confronti di un cittadino di nazionalità ghanese tratto a
giudizio a seguito di arresto in flagranza per il reato di cui
all’art. 14, co. 5 ter d.lgs. 286/98 – ripropone una problema‑
tica sempre più attuale, anche a causa dei successivi ed affan‑
nosi interventi legislativi, sicuramente non caratterizzati da
connotati di organicità e coerenza; sotto altro profilo gli av‑
venimenti internazionali in cui il nostro paese è coinvolto
contribuiscono ad intensificare il dibattito, e non solo quello
giuridico.
Il giudice monocratico del Tribunale sammaritano ha
adottato, ai sensi dell’art. 267 del Trattato istitutivo dell’Unio‑
ne Europea, la decisione di sospendere il procedimento pena‑
le e di rinviare gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea in relazione alla seguente questione pregiudiziale di
interpretazione che, sotto diversi profili, non appare ulterior‑
mente rinviabile: “se, alla luce dei principi di leale collabora‑
zione, di effetto utile delle direttive, di proporzionalità e di
efficacia delle misure coercitive funzionali all’esecuzione del
rimpatrio dello straniero irregolarmente soggiornante, gli
artt. 2, 15 e 16 della Direttiva 2008/115 CE ostino all’incri‑
minazione ed alla punizione – con pena che giunge fino a 4
anni nell’ipotesi di inottemperanza al primo ordine di allon‑
tanamento e fino a 5 anni nell’ipotesi di violazione dei suc‑
cessivi ordini del Questore – dello straniero irregolarmente
soggiornante che si sia reso semplicemente inottemperante al
decreto di espulsione ed all’ordine di allontanamento ema‑
nati dall’autorità amministrativa”.
L’arresto in data 10 febbraio 2011 del cittadino ghane‑
se – irregolarmente soggiornante nel territorio italiano e de‑
stinatario di un decreto di espulsione emesso dal Prefetto di
Bari, dapprima trattenuto presso il centro di identificazione
e di espulsione di …e quindi, allo spirare del termine massimo
di mesi sei previsto per il trattenimento presso un centro di
identificazione e di espulsione, raggiunto da un ordine di
allontanamento emesso dal Questore di Bari, cui il predetto
cittadino non aveva ottemperato – è vicenda che si colloca nel
solco delle conseguenze scaturenti dalla scadenza del termine,
alla data del 24 dicembre 2010, per recepire formalmente nel
nostro ordinamento la direttiva 2008/115/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio, approvata il 16 dicembre 2008;
come noto, il predetto termine è scaduto senza che ciò sia
avvenuto.
Il profilo problematico evidenziato dal giudice di Santa
Maria Capua Vetere riguarda la possibilità di assoggettare un
cittadino straniero dapprima alla detenzione amministrativa,
prevista dalla procedura di rimpatrio, e quindi alla sanzione
penale della detenzione, per un medesimo atteggiamento di
inottemperanza al decreto di espulsione emesso dal Prefetto
ed al successivo ordine di allontanamento emesso dal Questo‑
re, pur non essendo il cittadino in questione un soggetto pe‑
ricoloso per la sicurezza nazionale, né avendo presentato
domande di soggiorno fraudolentemente false ed essendo ri‑
sultato completamente incensurato, per cui l’unico addebito
a lui ascrivibile consisteva nell’omessa ottemperanza all’ordi‑
ne di allontanamento del Questore.
Rileva il giudicante che nella prassi si sia verificata una
vera e propria torsione del sistema normativo, poiché nella
stragrande maggioranza dei casi l’espulsione viene eseguita
notificando allo straniero l’ordine di allontanamento del
Questore, e, quindi, “facendo paradossalmente gravare sullo
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
straniero medesimo l’efficacia del sistema”. Ne consegue che
“tale distorta prassi applicativa non vale certo a rendere il
sistema italiano conforme agli standard fissati dalla citata
Direttiva 2008/115/CE, vuoi perché la verifica di tale compa‑
tibilità va condotta con riferimento al sistema concepito dal
legislatore e non alle sue (sempre eventuali) degenerazioni
applicative, vuoi perché nelle intenzioni del legislatore italia‑
no l’ordine di allontanamento è un succedaneo dell’esecuzio‑
ne coattiva dell’espulsione (che resta la soluzione privilegiata
dalla legge)”.
Evidenti appaiono, quindi, i contrasti tra l’ordinamento
italiano e la direttiva, atteso che mentre il primo prevede il
trattenimento in vista del rimpatrio come sola misura coerci‑
tiva applicabile nei confronti dello straniero che deve essere
rimpatriato, la seconda prevede invece un articolato mecca‑
nismo, che privilegia essenzialmente la partenza volontaria
dello straniero (al quale, secondo l’art. 7, viene concesso un
termine congruo da sette a trenta giorni, salve deroghe moti‑
vate ai sensi degli artt. 2 e 4); in ogni caso, in pendenza del
termine al predetto concesso per la partenza volontaria, gli
Stati membri possono prevedere obblighi non detentivi diret‑
ti ad evitare il pericolo di fuga, quali la cauzione, l’obbligo di
dimora, la consegna dei documenti, in un’ottica in cui ogni
coercizione della libertà personale dello straniero irregolar‑
mente soggiornante è però strettamente funzionale all’esecu‑
zione del rimpatrio.
Nell’ipotesi in cui si giunga al trattenimento dello stranie‑
ro – previsto dall’art. 15 della direttiva, in particolare se
sussista un rischio di fuga o se il cittadino del paese terzo
eviti od ostacoli la preparazione del rimpatrio o dell’allonta‑
namento – per il principio di proporzionalità contemplato
dalla direttiva medesima, esso è applicabile solo a condizione
che non possano essere efficacemente applicate altre misure
meno coercitive; è quindi affermato il principio per cui il
trattenimento ha durata quanto più breve possibile ed è man‑
tenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente
delle modalità di rimpatrio. Infine il trattenimento è riesami‑
nato ad intervalli ragionevoli, e quando risulta che non esista
più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per
motivi di ordine giuridico o per altri motivi, o che possono
essere utilmente applicate misure meno coercitive, il tratteni‑
mento non è più giustificato e la persona interessata è imme‑
diatamente rilasciata.
Come ciò si ponga in aperto contrasto con l’espiazione
della pena che consegue alla condanna per il delitto di cui
all’art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98 è di tutta evidenza.
Inoltre, considera il giudice, non solo detta pena potrebbe
superare la durata del periodo di detenzione già patito, ma
potrebbe perfino superare il limite massimo consentito dalla
direttiva: infatti la pena prevista dalla legge italiana è com‑
presa tra un minimo edittale di un anno di reclusione sino ad
un massimo di quattro anni, a fronte dei sei mesi di tratteni‑
mento in un centro di identificazione e di espulsione e dei sei
mesi – prorogabili fino a diciotto – di trattenimento previsti
dalla direttiva. Con tutta evidenza, quindi, durante l’espia‑
zione della pena lo straniero non avrebbe diritto alla revisio‑
ne periodica della decisione di trattenimento, né lo Stato
avrebbe l’obbligo di attivarsi diligentemente per eseguire il
rimpatrio nel più breve tempo possibile.
Altro profilo problematico concerne l’art. 2 della citata
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
direttiva, poiché in esso – osserva il giudice sammarita‑
no – non viene presa esplicita posizione sulla possibilità che
la sanzione penale venga applicata dallo Stato membro per lo
stesso fatto storico – l’omessa ottemperanza alla decisione di
rimpatrio – che legittima gli Stati membri ad eseguire forza‑
tamente la decisione di rimpatrio medesima.
Ai sensi dell’art. 2 della citata direttiva, infatti, gli Stati
membri possono decidere di non applicarne le previsioni ai
cittadini beneficiari del diritto di libera circolazione ai sensi
degli accordi di Schengen, ai cittadini sottoposti a respingi‑
mento alla frontiera, ed infine ai cittadini sottoposti a rimpa‑
trio come sanzione penale, o come conseguenza di una san‑
zione penale, ovvero ai cittadini sottoposti a procedure di
estradizione.
Si introduce così una prima, cruciale questione interpre‑
tativa: se sia cioè possibile evitare l’applicazione delle previ‑
sioni e delle condizioni cui la direttiva subordina la legittimi‑
tà delle procedure di rimpatrio, attraverso la tecnica dell’in‑
criminazione tout court dell’ingresso irregolare nell’UE. Con
tale escamotage, infatti, il rimpatrio sarebbe previsto come
sanzione penale, ovvero come conseguenza della eventual‑
mente diversa sanzione penale applicata dal giudice, cosicché
l’effetto utile della direttiva potrebbe essere concretamente
aggirato.
Il legislatore italiano si è avvalso della discrezionalità
prevista dall’art. 2 della direttiva introducendo, con la legge
94/2009, l’art. 10 bis d.lgs. 286/98, che appunto incrimina e
punisce con la pena pecuniaria dell’ammenda l’ingresso ed il
soggiorno illegali nel territorio dello Stato, ed entrambe le
condotte delineate sono condotte attive.
Diversamente i reati di cui ai commi 5 ter e 5 quater
dell’art. 14 d.lgs. 286/98 puniscono condotte meramente
omissive, l’inottemperanza al decreto di espulsione ed all’or‑
dine di allontanamento, ossia ad atti del procedimento am‑
ministrativo di rimpatrio; le medesime omissioni legittimano
poi anche il trattenimento amministrativo del clandestino nei
centri di identificazione e di espulsione, con la conseguenza
che pur essendo i due titoli di privazione della libertà perso‑
nale solo formalmente diversi, la privazione della libertà che
consegue all’applicazione della custodia cautelare in carcere
consegue ad un fatto storico che è esattamente quello per il
quale è consentito il trattenimento da parte dell’autorità
amministrativa durante la procedura di espulsione; in tal
modo il medesimo soggetto viene raggiunto da provvedimen‑
ti formalmente diversi che limitano la sua libertà personale
ed in relazione allo stesso presupposto di fatto, con connesso
rischio di elusione dei termini massimi e della garanzie pre‑
visti dalla direttiva per il solo trattenimento amministrativo.
Infatti l’innesto della sanzione penale sulla libertà personale
dello straniero irregolarmente soggiornante e la sua succes‑
sione rispetto al trattenimento amministrativo può in concre‑
to determinare una spirale in cui lo straniero può venire
sottoposto ad una limitazione della libertà senza limiti tem‑
porali.
Il legislatore italiano, infatti, prevede che lo straniero ir‑
regolarmente soggiornante, già destinatario di un decreto di
espulsione da parte del Prefetto, debba essere trattenuto in un
centro di identificazione ed espulsione per un termine massi‑
mo di 180 giorni. Spirato tale termine, qualora non sia stato
possibile eseguire l’espulsione mediante accompagnamento
2 0 1 1
57
alla frontiera, gli verrà notificato l’ordine di allontanamento
entro 5 giorni dal territorio dello Stato, provvedimento di
competenza del Questore; scaduto detto termine lo straniero
che si trovi ancora sul suolo italiano deve obbligatoriamente
essere arrestato, con conseguente richiesta di convalida
dell’arresto ed eventuale richiesta di applicazione di misura
cautelare, considerati i limiti edittali della reclusione prevista
per simili incriminazioni; pertanto, all’esito della eventuale
condanna, verrà applicata una pena detentiva che non neces‑
sariamente sarà sospesa ai sensi degli artt. 163 e ss. c.p. Una
volta scontata la pena detentiva, ai sensi dell’art. 14 co. 5 ter
d.lgs. 286/98, allo straniero verrà notificato un nuovo prov‑
vedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera
e, qualora non sia possibile procedere all’accompagnamento
alla frontiera, questi verrà nuovamente trattenuto in un centro
di identificazione e di espulsione per altri 180 giorni, scaduti
i quali gli sarà notificato un nuovo ordine di allontanamento
da parte del Questore, la cui inottemperanza (senza giustifi‑
cato motivo, secondo quanto affermato dalla Corte Costitu‑
zionale con la sentenza n. 359/10) farà scattare l’incrimina‑
zione ai sensi dell’art. 14 co. 5 quater d.lgs. 286/98, con
nuovo arresto, nuova misura cautelare, nuovo processo, nuo‑
va espiazione della pena, e così via, in un alternarsi di reclu‑
sione e trattenimento sostanzialmente illimitata.
Quanto ciò contrasti con la direttiva in materia di rimpa‑
tri, che consente deroghe esclusivamente in senso più favore‑
vole per lo straniero (art. 4 § 1) è del tutto evidente; ancor più
anomalo e stridente si manifesta detto contrasto se si consi‑
dera che, come visto, il tutto si basa sulla mera inosservanza
di un ordine amministrativo inserito nella disciplina interna
volta al rimpatrio dello straniero.
La rilevanza e l’urgenza delle questioni interpretative è
sottolineata anche da una recente pronuncia della I sezione
della Corte di Cassazione, in data 8 marzo 2011, n. 11050, a
seguito di ricorso proposto da un cittadino extracomunitario
del Gabon, condannato con sentenza pronunziata del 7 mag‑
gio 2010 dalla Corte d’Appello di Torino per il reato di cui
all’art. 14, comma 5 quater, d.lgs. n. 286 del 1998, come
modificato dalla legge 94/2009. Nel caso sottoposto all’esame
della Corte il cittadino extracomunitario, in passato invitato
ad allontanarsi dal territorio nazionale con ordine di allonta‑
namento volontario del 3 settembre 2008, era stato condan‑
nato a sette mesi di reclusione con sentenza di applicazione
della pena in data 28 ottobre 2008 per il reato di cui all’art. 14,
comma 5‑ter, d.lgs. n. 286 del 1998, accertato il 18 ottobre
2008 perché non aveva ottemperato a detto ordine; il 29 ot‑
tobre 2008 era stato raggiunto da un secondo ordine di allon‑
tanamento volontario; in data 23 agosto 2009 era stato
emesso nei suoi confronti nuovo ordine di allontanamento,
cui ancora una volta non aveva ottemperato e per la cui vio‑
lazione era stato arrestato e condannato nuovamente dal
Tribunale di Torino in data 16 novembre 2009 con la senten‑
za poi confermata in appello ed oggetto di ricorso.
Anche per la Corte di Cassazione, infatti, il punto crucia‑
le risiede nella possibilità di considerare o meno compatibili
con la predetta direttiva le ipotesi di reato cui agli artt. 14,
commi 5‑ter e 5‑quater, T.U. sull’immigrazione in base alla
possibilità prevista per i singoli Stati dall’art. 2 § 2, lett. b)
della direttiva, che consente ai singoli Stati, nell’esercizio dei
loro poteri sovrani, la possibilità di disporre l’incriminazione
penale
Gazzetta
58
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dei cittadini extracomunitari che violano le disposizioni in‑
terne in materia di ingresso e soggiorno.
Il nostro ordinamento, rileva la Corte, ha operato la scel‑
ta di privilegiare l’espulsione coattiva, secondo una procedu‑
ra che prevede delle sanzioni penali per l’inottemperanza
all’ordine di allontanamento volontario, mentre la Corte di
giustizia ha in passato più volte richiamato il principio che,
seppure il diritto comunitario non vieti agli stati membri la
possibilità di reprimere la violazione delle disposizioni nazio‑
nali relative al controllo degli stranieri con opportune sanzio‑
ni anche diverse dall’ espulsione, ed atte a garantire l’osser‑
vanza delle disposizioni stesse, ciò deve avvenire in aderenza
ad un criterio di proporzionalità, richiamato dalle sentenze
della Corte di Giustizia dell’8 aprile 1976, Royer; del 25 luglio
2002, M.R.A.X.; del 3 luglio 1980, Pieck.
Anche per la Corte di Cassazione, quindi, appare eviden‑
te il contrasto tra il richiamato principio di proporzionalità e
le concrete modalità operative scaturenti dall’applicazione
della normativa interna.
La S.C., nel corpo della citata sentenza, analizza poi la
vigente normativa nazionale sotto un altro profilo di estremo
interesse, quello relativo al regime delle espulsioni che non si
distinguono tanto per i soggetti da cui sono disposte, quanto
per il loro collegamento o l’assenza di collegamento a un giu‑
dizio di pericolosità sociale dell’espulso: infatti le espulsioni a
titolo di sanzione sostitutiva ed alternativa dello straniero ir‑
regolare, disposte dal giudice ai sensi dall’art. 16 del T.U.
sull’immigrazione, non presuppongono un giudizio di perico‑
losità concreta, ma soltanto la situazione di “irregolarità”
dello straniero, ed hanno la stessa natura amministrativa del‑
le espulsioni disposte dal prefetto ai sensi dell’art. 13 comma 2,
lettera b), venendo eseguite nel medesimo modo dal questore.
Va ricordato che le espulsioni amministrative, disposte con
provvedimento del ministro o del prefetto e sottoposte a con‑
trollo giurisdizionale, sono disciplinate dall’art. 13 (il ministro
può disporla se ricorrono motivi di ordine pubblico o di sicu‑
rezza dello Stato, e quindi a prescindere dalla regolarità
dell’ingresso o della permanenza nel territorio dello Stato; il
prefetto può disporla nel caso in cui lo straniero, anche rego‑
larmente soggiornante, appartenga a una delle categorie di
persone pericolose per le quali è prevista l’applicabilità di
misure di prevenzione, ovvero nei casi in cui lo straniero che
è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di
frontiera o si è trattenuto nel medesimo territorio senza aver
richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto ov‑
vero con permesso di soggiorno revocato, annullato o scadu‑
to da più di sessanta giorni senza averne chiesto il rinnovo),
ed il relativo procedimento di esecuzione è disciplinato dal
successivo art. 14.
Le espulsioni disposte dal giudice sono previste dall’art. 15,
che prevede l’espulsione come misura di sicurezza conseguen‑
te ad una condanna per delitti per i quali è previsto l’arresto
obbligatorio o facoltativo in flagranza, ed è subordinata,
come tutte le misure di sicurezza previste dal codice penale,
all’accertamento della pericolosità sociale del condannato; e
dall’art. 16, che al comma 1 contempla le espulsioni come
“sanzione sostitutiva” (art. 16, comma 1) e come “sanzione
alternativa” (art. 16, comma 5), che prescindono invece dalla
pericolosità e presuppongono anzi che la condanna non si
riferisca a delitti ritenuti di estremo allarme (quelli elencati
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
nell’art. 407, comma 2, lettera a, del codice di procedura
penale) né ai delitti previsti dal T.U. sull’immigrazione.
La Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi in meri‑
to ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati nel tempo in
relazione alle espulsioni a titolo di sanzione sostitutiva e di
sanzione alternativa di cui all’art. 16, li ha respinti, afferman‑
do che in entrambi i casi si tratta in realtà di misura che “pur
se disposta dal giudice, si configura come una misura di ca‑
rattere amministrativo” cui consegue, se ottemperata, l’estin‑
zione della pena e se violata il risorgere della pretesa punitiva;
ciò comportando la “sostanziale sovrapposizione” fra espul‑
sioni disposte dal prefetto e dal giudice nei confronti del cit‑
tadino extracomunitario che è entrato o soggiorna irregolar‑
mente nel territorio dello Stato, eseguibili dal questore secon‑
do le procedure previste dagli artt. 13 e 14 del T.U. sull’im‑
migrazione (Corte Costituzionale, ordinanze numeri 369 del
1999 e 226 del 2004).
L’introduzione nel T.U. sull’immigrazione, a seguito della
legge 94 del 2009, della contravvenzione di ingresso o sog‑
giorno illegale, prevista dall’art. 10 bis – punita con un’am‑
menda da sostituire, in presenza delle condizioni per l’espul‑
sione amministrativa, con l’espulsione a titolo di “sanzione
sostitutiva”, disposta dal giudice in luogo del prefetto – è
stata considerata, quindi, come funzionale a rendere operan‑
te la deroga contemplata dell’art. 2 § 2, lettera b), della diret‑
tiva. Tendenzialmente, si è sostenuto, l’intervento giurisdizio‑
nale che punisce con l’espulsione il reato di ingresso e soggior‑
no irregolare, dovrebbe relegare l’espulsione formalmente
amministrativa alle sole ipotesi di respingimento, anch’esse
tuttavia escluse dalla sfera d’applicazione della direttiva ai
sensi della lettera b) del medesimo articolo 2, § 2.
In tal caso la qualificazione come reati delle condotte del
migrante che viola le norme interne disciplinanti il suo sog‑
giorno o il suo onere di ottemperare ad un ordine di rimpatrio,
in realtà avrebbero il solo scopo di surrogare l’inadeguatezza
della macchina amministrativa; non a caso, infatti, l’accertata
espulsione costituisce causa d’improcedibilità dei giudizi rela‑
tivi a tali contravvenzioni o delitti (artt. 10 bis, comma 5; 13,
comma 3 quater, T.U. sulla disciplina dell’immigrazione).
“Sta di fatto” argomenta la Corte di Cassazione “che la
provenienza da autorità amministrativa o giurisdizionale
dell’espulsione è per il nostro ordinamento, nelle ipotesi ricor‑
date, un dato esclusivamente formale (parte della dottrina lo
considera di “etichette”), la cui rilevanza ai fini del diritto
dell’Unione, in genere propenso a conferire rilievo agli aspetti
sostanziali, non può non essere sottoposta all’organo istituzio‑
nalmente deputato a chiarire il senso delle norme comuni”; per
altro verso sussiste “una antinomia difficile da risolvere tra le
proposizioni normative che prescrivono agli Stati membri di
privilegiare il rimpatrio volontario dello straniero irregolare e
consentono in mancanza di sua cooperazione di trattenerlo
sino a 18 mesi solo nel caso in cui ‘sia stato compiuto ogni
ragionevole sforzo (art. 15, par. 6), mai trattandolo come un
delinquente comune (art. 16) e la prospettazione che le stes‑
se norme non impediscono allo Stato membro di punire con
la reclusione sino a cinque anni, a titolo di delitto, la man‑
canza di cooperazione dello straniero <irregolare>, senza
neppure avere l’onere di dimostrare d’avere fatto ogni ragio‑
nevole sforzo per allontanarlo”.
Pertanto anche la S.C. è pervenuta alla determinazione di
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
chiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi
dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Eu‑
ropea, di pronunciarsi sulle predette questioni interpretative,
sospendendo il giudizio in attesa della definizione delle que‑
stioni pregiudiziali.
A conseguenze del tutto diverse è giunta invece un’altret‑
tanto recente sentenza del giudice monocratico del Tribunale
di Torino, pronunciata in data 5 gennaio 2011; in essa il giu‑
dicante, è pervenuto, previa disapplicazione della normativa
interna, alla pronuncia dell’assoluzione dell’imputato, in re‑
lazione alla fattispecie di cui all’art. 14, comma 5 quater, d.
lgs. 286/98, perché il fatto non è previsto dalla legge come
reato, affermando che il contrasto tra la disciplina interna e
la direttiva UE si estende anche al settore penale, ed in parti‑
colare ai delitti di inosservanza dell’ordine di allontanamento
del questore, considerati dal legislatore italiano quale basila‑
re strumento di contrasto all’immigrazione clandestina. Ciò,
secondo il giudicante viola le garanzie imposte dalla direttiva
a tutela della libertà personale dello straniero, poiché si ricor‑
re ad una misura coercitiva qualitativamente diversa e tempo‑
ralmente più estesa di quella prevista dalla direttiva, ossia il
trattenimento. Inoltre, osserva il giudicante, obiettivo della
direttiva non è soltanto istituire norme comuni per un’effica‑
ce politica in materia di allontanamento e di rimpatrio, ma
anche garantire il rispetto dei diritti fondamentali dello stra‑
niero, fra i quali va sicuramente annoverato il diritto alla li‑
bertà personale, come affermato dalla Corte di giustizia eu‑
ropea nella sentenza Kadzoef (sentenza 30 novembre 2009
ric. n. C‑357/09), ove è detto che l’art. 15 della direttiva “non
consente, quando il periodo massimo di trattenimento previsto
da tale direttiva sia scaduto, di non liberare immediatamente
l’interessato in quanto egli non è in possesso di validi docu‑
menti, tiene un comportamento aggressivo e non dispone di
mezzi di sussistenza propri né di un alloggio o di mezzi forniti
dallo Stato membro a tale fine”. Non solo, ma l’aver espressa‑
mente previsto che la direttiva “lascia impregiudicata la facol‑
tà degli stati membri di introdurre o mantenere disposizioni
più favorevoli alla persone cui si applica, purché compatibili
con le norme in essa richiamate”, a maggior ragione esclude
l’introduzione o il mantenimento di norme meno favorevoli
nella materia toccata dalla direttiva stessa, fra cui sicuramen‑
te quelle relative ai risvolti penali della inosservanza dell’or‑
dine di allontanamento del questore. A tali conclusioni il
giudice torinese perviene sulla base della lettura delle consi‑
derazioni preliminari della direttiva, laddove si afferma che
l’obiettivo della stessa è “stabilire norme comuni in materia di
rimpatrio, allontanamento, uso di misure coercitive, tratteni‑
mento e divieti d’ingresso” e si sottolinea inoltre che “l’uso di
misure coercitive dovrebbe essere espressamente subordinato
al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per
quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti”;
per cui, conclude il giudicante, non si comprende l’utilità, ai
fini del ritorno in patria del rimpatriando, possa avere la
misura coercitiva detentiva, quando nessuno più si occupa in
sede amministrativa del suo allontanamento.
Né appare possibile, secondo il giudice torinese, argomen‑
tare che la fattispecie di cui all’art. 14 comma 5 quater d.lgs.
286/1998 non verrebbe intaccata dalla direttiva rimpatri in
base a quanto previsto dall’art. 2 § 2 lett. b) della direttiva
stessa, poiché proprio il ricorso ai principi ermeneutici del
2 0 1 1
59
diritto comunitario avvalora la tesi della incompatibilità del‑
la incriminazione in oggetto con la direttiva UE, considerato
che la norma nazionale sanziona una condotta che presuppo‑
ne la sola irregolarità dello straniero, cui deve conseguire il
rimpatrio ai sensi dell’art. 2 § 1 della direttiva. Ne consegue
quindi, secondo il giudice monocratico di Torino,che le esclu‑
sioni dalla operatività della disciplina UE riguardano, perciò,
soltanto i provvedimenti di espulsione disposti dall’autorità
giudiziaria a conclusione di procedimenti penali, ai sensi
dell’art. 16 d.lgs. 286/1998.
Appare evidente come l’esame della vicenda implichi la
necessità di ripercorrere alcuni punti fondamentali concernen‑
ti le fonti comunitarie e la loro diretta applicabilità. L’ordina‑
mento comunitario è caratterizzato da un rapporto di integra‑
zione tra le norme da esso prodotte e gli ordinamenti naziona‑
li in cui le stesse devono trovare applicazione, che necessita
della cooperazione dei singoli Stati membri, in un’ottica tutt’af‑
fatto eccentrica rispetto alla separazione ed alla differenziazio‑
ne tipiche del diritto internazionale. Le Direttive costituiscono
atti tipici espressamente previsti dall’art. 288 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea che al § 3 prevede che “la
direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto ri‑
guarda il risultato da raggiungere, salva restando la competen‑
za degli organi nazionali in merito alla forma ed ai mezzi”. Ciò
nondimeno da tempo nell’ambito della categoria delle direttive
sono state individuate le direttive self‑ executing, ossia aventi
diretta efficacia sull’ordinamento interno in base al principio
del primato della norma comunitaria delineato dalla sentenza
della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 9 marzo
1978 (causa 106/77, Simmenthal), in cui è stato chiaramente
ribadita la primauté del diritto comunitario, limitando la di‑
screzionalità dei legislatori dei singoli Stati da un lato ed impli‑
cando, dall’altro, la disapplicazione delle norme nazionali da
parte di ogni operatore del diritto in caso di contrasto della
legislazione interna e, quindi, non solo da parte dei giudici, ma
anche d parte dei pubblici funzionari, così come confermato
dalle sentenza della Corte del 22 giugno 1989 (n. 103/88, Fra‑
telli Costanzo) e del 9 settembre 2003 (198/2001, Consorzio
Industrie Fiammiferi). A livello nazionale è solo con la sentenza
n. 170 del 1984 che la Corte Costituzionale ha cominciato ad
adeguarsi ai rilievi della Corte di Giustizia, elaborando succes‑
sivamente l’area del diritto comunitario direttamente applica‑
bile, ed individuando, quali fattispecie normative prevalenti su
quelle interne e direttamente applicabili, dapprima con la sen‑
tenza n. 113/1985, le sentenze interpretative della Corte di
Giustizia delle Comunità Europea, quindi, con la sentenza
n. 389/1989, le sentenze di condanna della Corte, quindi, con
la sentenza n. 168/1991, le direttive dettagliate, ossia quelle
direttive cui viene in ogni caso riconosciuta la diretta applica‑
bilità nel diritto interno nonostante il mancato recepimento “in
tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiono,
dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemen‑
te precise”, con la conseguenza che i singoli possono farle vale‑
re innanzi ai giudici nazionali anche in caso di mancato o in‑
sufficiente ovvero inadeguato recepimento.
La sentenza del Tribunale di Torino in composizione mo‑
nocratica in precedenza citata si colloca in un filone giudizia‑
rio che, alla luce dei predetti principi, ritiene la direttiva co‑
munitaria sui rimpatri dei cittadini irregolari direttamente
self – executing, e non si tratta affatto di una pronuncia iso‑
penale
Gazzetta
60
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
lata: basti pensare, ad esempio, che nel febbraio 2011 il Pro‑
curatore della Repubblica presso il Tribunale di Lecce ha
emanato una direttiva indirizzata ai magistrati del proprio
ufficio ed alla polizia giudiziaria, disponendo che nel circon‑
dario di Lecce non venga esercitata l’azione penale per le
condotte già sanzionate dall’art. 14, commi 5 ter e 5 quater,
del decreto legislativo n. 286 del 1998, e che per tali condotte
non si proceda ad arresti.
Volendo invece considerare non self – executing la predet‑
ta Direttiva, occorre ricordare che proprio il tradizionale ritar‑
do nel recepimento, da parte delle legislazioni nazionali, delle
normative europee, nel corso degli anni ha determinato una
elaborazione della giurisprudenza europea con cui è stato man
mano ampliata l’area di vincolatività del gli atti non self – exe‑
cuting negli ordinamenti statali, non solo attraverso la con‑
danna con effetti economici diretti per gli Stati inadempienti,
ai sensi degli artt. 258 – 260 del TFUE, ma anche affermando
i così detti “vincoli di pre – conformazione” prima della sca‑
denza del termine per il recepimento, ovvero affermando
l’idoneità delle direttive ad esplicare effetti diretti limitatamen‑
te alle sole parti concretamente applicabili, qualora sia scadu‑
to il termine di recepimento (sentenza 6 ottobre 1970, causa
9/70, Franz Grad; sentenza 17 dicembre 1970, causa 33/70,
SACE; cfr., altresì, Corte Costituzionale n. 168/1991).
Detto ultimo orientamento della giurisprudenza europea si
concreta nell’affermazione secondo cui le norme sufficientemen‑
te precise ed incondizionate contenute nella direttiva possono
esplicare effetti diretti nei rapporti tra i cittadini e lo Stato (c.d.
effetti verticali), consentendo ai singoli di invocarle dinanzi alle
competenti autorità nazionali per ottenere la corrispondente
tutela giurisdizionale, operando in tal modo l’efficacia diretta
come soglia di garanzia minima nei confronti dei cittadini e
come sanzione nei confronti dello Stato che ha omesso il tempe‑
stivo recepimento della direttiva, restando esclusa, invece, la
possibilità di far valere i predetti effetti nei rapporti tra privati
(c.d. rapporti orizzontali), il che, naturalmente involge serie
problematiche per la evidente discriminazione che ne consegue.
Altro criterio giurisprudenziale elaborato sin dalla senten‑
za del 10 aprile 1984, C‑ 14/83, Von Colson, afferma l’obbli‑
go del giudice nazionale di interpretare la norma interna in
maniera conforme con le disposizioni comunitarie prive di
effetto diretto ed altresì con le direttive non attuate.
Infine la massima espressione della giurisprudenza creativa
è stata l’elaborazione del concetto della responsabilità patri‑
moniale degli Stati nei confronti dei singoli per i danni cagio‑
nati dalla mancata o cattiva attuazione delle norme comuni‑
tarie, ossia per un vero e proprio illecito comunitario, principio
non regolamentato sul piano normativo, a differenza di quello
della responsabilità delle istituzioni comunitarie e di quello
della responsabilità degli Stati membri nei confronti della
Comunità, disciplinati, rispettivamente dall’art. 340 del TFUE
e dall’art. 258 del TFUE, ma ormai largamente diffuso.
Gazzetta
p e n a l e
F O R E N S E
Sul piano interno dell’elaborazione giurisprudenziale,
come noto, è ormai pacifico che una legge nazionale contra‑
stante con una normativa comunitaria priva di efficacia di‑
retta e non recepita sia soggetta al controllo di conformità al
diritto comunitario mediante giudizio di costituzionalità ai
sensi degli artt. 11 e 117, co. 1, Costituzione (cfr., da ultimo,
Corte Costituzionale sent. n. 28 del 2010).
Sembrerebbe quindi possibile sotto vari profili la disappli‑
cazione della normativa interna, tanto volendo considerare
self – executing la direttiva comunitaria 2008/115/CE, tanto
volendo considerarla solo parzialmente self – executing, tanto
volendo, infine, ritenere comunque il giudice tenuto ad una
interpretazione conforme con le direttive non attuate. Non a
caso la sentenza della Corte di Cassazione del marzo 2011, di
cui si è detto, dà atto che dello stesso avviso era anche il Pro‑
curatore Generale che, nelle sue conclusioni, aveva ritenuto la
direttiva autoapplicativa e, quindi, aveva chiesto l’annulla‑
mento della sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto
non sussiste, ravvisando il contrasto tra la norma incrimina‑
trice e la citata Direttiva.
Sotto altro profilo, infine, ed allo scopo di valutare la
compatibilità tra il nostro attuale assetto normativo e la di‑
rettiva della UE, appare significativo quanto affermato dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 2007, laddove,
pur ritenendo di non potere sindacare la scelta delle pene e la
commisurazione della differente gravità dei reati, ha tuttavia
rilevato che il quadro normativo “risultante dalle modificazio‑
ni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi
legislativi successivi a pronunce di questa Corte, presenta
squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere proble‑
matica la verifica di compatibilità con i principi costituzio‑
nali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la
finalità rieducativa della stessa”.
***
“Nelle more della pubblicazione del numero di questa
rivista la Corte di Giustizia, con sentenza del 28 aprile 2011,
ha dichiarato il reato di cui all’art. 14, co. 5 ter d.lgs.286/98
in contrasto con la direttiva 2008/115 CE. Naturalmente a
questo punto sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che rivisitasse completamente la materia, con criteri di
organicità e di adeguatezza, oltre che alla stregua dei principi della normativa europea che, tra l’altro, sono condivisi
dalla stragrande maggioranza della dottrina e della giurisprudenza. Potrebbe essere questa la buona occasione per verificare la reale aderenza del nostro ordinamento a quello europeo, in un momento in cui sembra verificarsi con sempre
maggior acutezza la scissione tra l’elaborazione giurisprudenziale, da un lato, e i principi cui si ispira il legislatore, dall’altro. Potrebbe… naturalmente i segnali concreti rendono obbligatorio l’uso del condizionale”.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
61
2 0 1 1
●
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali
sentenza 1 marzo 2011 (ud. 16 dicembre 2010), n. 7931
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
Potere del P.m. in materia di nuova richiesta cautelare
Qualora il pubblico ministero, nelle more della decisione
su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utiliz‑
zare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto,
elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, può
scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio o por‑
li a base di una nuova richiesta di misura cautelare persona‑
le, ma la scelta così operata gli preclude di coltivare l’altra
iniziativa cautelare.
●
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
***
La questione rimessa al Collegio, riguarda specificamente
“la sussistenza e i limiti del potere del pubblico ministero,
nelle more del giudizio di rinvio conseguente all’annullamen‑
to della decisione del tribunale del riesame di revoca della
misura cautelare, di richiedere utilmente, sulla base di nuovi
elementi, suscettibili di prospettazione anche in detto giudi‑
zio, l’emissione di una nuova misura cautelare nei confronti
dello stesso soggetto e per i medesimi fatti”. Essa si ricollega
al più generale problema di quello che viene comunemente
denominato “giudicando cautelare”, e cioè dell’interferenza
fra pendenza in atto di un procedimento cautelare e nuova
iniziativa cautelare relativa allo stesso fatto.
Ciò premesso, si osserva che la tesi della configurabilità
di una preclusione all’adozione di un provvedimento applica‑
tivo di una misura cautelare nei confronti di un soggetto,
nella pendenza del riesame dallo stesso proposto su analogo
precedente provvedi‑ mento avente ad oggetto il medesimo
fatto, viene sostenuta nel ricorso, e prospettata nell’ordinanza,
tendenzialmente adesiva, della Sezione rimettente, sulla base
dei principi affermati nelle sentenze Donelli e Donati delle
Sezioni unite.
La prima ha stabilito che il pubblico ministero, nella pen‑
denza di un appello cautelare da lui promosso contro il riget‑
to della richiesta di una misura restrittiva della libertà, è le‑
gittimato a proporre nuovi elementi di prova nello stesso
giudizio impugnatorio e può valutare se scegliere tale strada
o utilizzare quegli stessi elementi per una nuova richiesta al
giudice cautelare, ma, tuttavia, nel caso di proposizione di
nuova domanda, sussisterebbe per il giudice destinatario una
preclusione a provvedere fino a quando non intervenga la
decisione sull’appello.
La seconda ha affermato sussistere preclusione all’eserci‑
zio dell’azione penale, anche prima della sentenza irrevocabi‑
le in un precedente giudizio per lo stesso fatto nei confronti
della medesima persona, avuto riguardo all’ufficio di procura
che aveva già promosso la prima azione.
Un corretto approccio alla soluzione della questione og‑
getto di rimessione impone anzitutto il doveroso approfondi‑
mento degli snodi argomentativi che scandiscono la motiva‑
zione delle due menzionate pronunzie delle Sezioni Unite.
Partendo dalla prima di esse (Sez. un., 31 marzo 2004,
n. 18339, dep. 20 aprile 2004, imp. Donelli, Rv 227357‑
227358 – 227359), rilevarsi che nell’occasione il Supremo
Collegio era stato chiamato a risolvere il contrasto sull’acqui‑
sibilità ed utilizzabilità nell’appello cautelare degli elementi
penale
Gazzetta
62
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
probatori sopravvenuti all’adozione del provvedimento impu‑
gnato e presentati dalle parti, confrontandosi nel caso concre‑
to con una fattispecie relativa al deposito da parte del pubbli‑
co ministero, in sede di appello dallo stesso proposto avverso
il rigetto di una richiesta cautelare, degli esiti delle indagini
svolte successivamente alla reiezione della domanda, produ‑
zione ammessa dal Tribunale che poi l’aveva utilizzata ai fini
del ribaltamento della decisione del giudice di prime cure.
Questione risolta positivamente dalle Sezioni unite, sulla
base della rilevata simmetria (imposta dai codificatori come
emerge dalla Relazione al codice di rito del 1988) tra appello
cautelare e appello nel processo di merito, in forze della qua‑
le, dovendosi riconoscere al giudice dell’appello cognitivo
introdotto dal pubblico ministero, pur nella restrizione del
perimetro della cognizione del giudice investito della revisio‑
ne critica del provvedimento ai punti della decisione effetti‑
vamente devoluti attraverso l’impugnazione, la legittimazione
a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare
anche i punti della motivazione del provvedimento impugna‑
to che non abbiano formato oggetto di specifica critica, anche
la cognizione del giudice dell’appello cautelare non può inten‑
dersi limitata ai singoli punti oggetto di specifica censura, ma
deve ritenersi estesa all’integrale verifica delle condizioni e dei
presupposti edittali che legittimano l’adozione della misura
cautelare. In tal senso i motivi dell’impugnazione “segnano le
ragioni del disaccordo rispetto al provvedimento recettivo e
delimitano i confini dell’originaria domanda cautelare” in
riferimento ai fatti ed alle circostanze oggetto di contestazio‑
ne, ma al di là di questo limite la cognizione e la decisione del
giudice dell’appello si estende “all’intero thema decidendum”
e cioè all’esistenza di tutti i presupposti per l’adozione dell’in‑
vocato intervento cautelare.
A un simile allargamento dell’ambito decisionale non può
non corrispondere per le Sezioni unite una “pari ampiezza del
materiale cognitivo”. Ed in proposito, posto che il tradiziona‑
le modello di rito camerale (quale è quello previsto per l’ap‑
pello de libertate) prevede che il dibattito si svolga sugli ele‑
menti precostituiti dalle parti – escludendosi la mutuabilità
del modulo di rinnovazione dell’istruzione disciplinato
dall’art. 603 c.p.p. per l’appello cognitivo (ritenuto non espor‑
tabile per motivi che attengono alla struttura delle due diver‑
se impugnazioni) ‑, la sentenza Donelli afferma che all’inda‑
gato deve essere consentita la produzione di nuovo materiale
probatorio “sia preesistente che sopravvenuto” idoneo a con‑
trastare i motivi di gravame dell’accusa o comunque a dimo‑
strare l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della
misura cautelare.
Da tale affermazione consegue per il Supremo Collegio,
in ragione dell’esigenza di garantire in maniera effettiva il
contraddittorio camerale in posizione di parità tra le parti, il
riconoscimento anche al pubblico ministero della facoltà di
introdurre eventuali nuovi elementi di prova nei limiti del
devolutum. Ed in proposito la sentenza Donelli afferma che
tali devono essere qualificati non solo quelli effettivamente
sopravvenuti alla decisione reiettiva impugnata, ma altresì
quelli ad essa preesistenti e non allegati all’originaria doman‑
da cautelare ovvero quelli che, seppure allegati, non siano
stati presi in considerazione dal primo giudice, i quali ultimi
devono per l’appunto essere ritenuti “nuovi” rispetto a quelli
su cui è fondata l’ordinanza impugnata e menzionati dal
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
comma 2 dell’art. 310 c.p.p. Ed in tal senso le Sezioni unite si
fanno carico anche dell’eccezione avanzata nell’occasione dal
ricorrente, secondo cui ammettere il potere dell’accusa di ri‑
versare i nova nell’appello invece di attivare un nuovo inciden‑
te cautelare priverebbe l’indagato della doppia garanzia
dell’interrogatorio ex art. 294 c.p.p. e del giudizio di riesame.
In proposito la sentenza Donelli osserva come tali presunti
deficit di garanzia siano abbondantemente compensati dalla
necessità che si instauri un preventivo contraddittorio sulle
produzioni accusatorie, oggetto di discovery già prima della
decisione del giudice (contrariamente a quanto avviene nel
caso di adozione del provvedimento cautelare “a sorpresa”),
nonché dal divieto di immutazione peggiorativa dell’origina‑
ria richiesta e dal mantenimento da parte del cautelando
dello status libertatis fino alla definitività della decisione as‑
sunta dal giudice d’appello in senso eventualmente favorevole
alle ragioni del pubblico ministero impugnante.
È a questo punto, e solo a questo punto, che la sentenza
Donelli introduce il principio invocato dal ricorrente e richia‑
mato dalla Sezione rimettente. Dovendosi infatti confrontare
con l’ulteriore obiezione per cui la produzione da parte dell’ac‑
cusa di materiale probatorio inedito potrebbe interferire con
la possibilità che lo stesso pubblico ministero possa contem‑
poraneamente decidere di ricominciare l’azione cautelare ri‑
chiedendo al G.I.P. l’emissione di una nuova misura cautelare
fondata sugli stessi elementi riversati nel giudizio d’appello, col
duplice rischio di un potenziale contrasto di decisioni e della
potenziale concorrenza di due titoli cautelari dall’identico
contenuto, le Sezioni unite hanno affermato il seguente prin‑
cipio: “qualora il pubblico ministero, nelle more della decisio‑
ne sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della ri‑
chiesta di misura cautelare personale, rinnovi la domanda nei
confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando
elementi probatori nuovi, preesistenti o sopravvenuti, è preclu‑
so al giudice, in pendenza del procedimento di appello, deci‑
dere in merito alla medesima domanda cautelare”.
Ad avviso del Collegio, per cogliere con esattezza i limiti
di operatività del c.d. giudicando cautelare, in relazione anche
alle implicazioni realmente derivanti dalle sentenze Donelli e
Donati, è indispensabile partire dalla considerazione che la
relativa problematica è inscindibile dal tema – di cui è in qual‑
che modo una diramazione – del c.d. giudicato cautelare.
È dunque su quest’ultimo che va focalizzata ora l’atten‑
zione.
Come noto, le condizioni e i limiti di operatività nell’inci‑
dente cautelare dei principi fissati dagli artt. 648 e 649
c.p.p. sono stati via via affermati e precisati da una serie di
pronunzie delle Sezioni unite (Sez. un, 01 luglio 1992, n. 11,
dep. 10 settembre 1992, imp. Grazioso, Rv. 191183; Sez. un.,
18 giugno 1993, n. 14, dep. 21 luglio 1993, imp. Dell’Orno,
Rv. 194312; Sez. un., 12 ottobre 1993, n. 20, dep. 08 novem‑
bre 1993, imp. Durante, Rv. 195354; Sez. un., 12 novembre
1993, n. 26, dep. 27 gennaio 1994, imp. Galluccio, Rv
195806; Sez. un., 08 luglio, n. 11, dep. 28 luglio 1994,
imp. Buffa, Rv. 198211‑213; Sez. un., 15 gennaio 1999, n. 2,
dep. 31 marzo 1999, imp. Liddi, Rv. 212807; Sez. un., 31
maggio 2000, n. 14, dep. 23 giugno 2000, imp. Piscopo, Rv.
216261; Sez. un., 31 marzo 2004, n. 18339, dep. 20 aprile
2004, imp. Donelli, Rv. 227359; Sez. un., 24 maggio 2004,
n. 29952, dep. 09 luglio 2004, C. fall, in proc. Romagnoli,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Rv. 228117; Sez. un., 19 dicembre 2006, n. 14535, dep. 10
aprile 2007, imp. Librato, Rv. 235908), alla luce della cui
complessiva elaborazione il c.d. “giudicato cautelare” va in‑
teso come una preclusione endoprocessuale operante esclusi‑
vamente allo stato degli atti e con riguardo soltanto alle
questioni esplicitamente o implicitamente dedotte.
La preclusione del giudicato cautelare, dunque, opera
esclusivamente rebus sic stantibus, e cioè solo in caso di so‑
stanziale immutazione della situazione presupposta, e solo in
riferimento alle questioni dedotte e non anche a quelle dedu‑
cibili (ma non dedotte).
Coerentemente a tale impostazione, questa Corte ha anche
chiarito che la preclusione del giudicato cautelare attiene pro‑
priamente alle singole questioni, potendo in particolare il
procedimento cautelare essere sempre attivato dall’interessato
(in questo senso oltre alle già citate sentenze Piscopo e Roma‑
gnoli delle Sezioni unite, può richiamarsi ex multis soprattut‑
to Sez. V, 19 ottobre 2005, n. 40281, dep. 08 novembre 2005,
imp. Notdurfter, Rv. 232798), attraverso l’istituto della revo‑
ca ex art. 299 c.p.p.., inteso come strumento teso a consentire
non solo la valutazione ex ante delle condizioni di applicabi‑
lità delle misure, ma altresì quella ex post della persistenza
delle medesime condizioni, nell’ottica (già evidenziata) di ga‑
rantire la costante corrispondenza dello status libertatis
dell’imputato all’effettiva attualità dei presupposti edittali,
probatori o cautelari che legittimano l’adozione delle misure.
Conseguentemente il giudice adito con la richiesta di revo‑
ca, o con la successiva impugnazione di una decisione di dinie‑
go della revoca, può limitarsi, per la giurisprudenza dominan‑
te, a richiamare le decisioni conclusive di precedenti procedu‑
re de libertate, qualora rilevi la riproposizione di questioni già
valutate in precedenza, ma è sempre tenuto ad accertare d’uf‑
ficio la sussistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospetta‑
te dall’interessato, indicative dell’insussistenza dei presupposti
della misura (v. soprattutto le sentenze Piscopo e Romagnoli
citt. e Sez. V, 10 giugno 2004, n. 28437, dep. 24 giugno 2004,
imp. Aitale, Rv. 228897, la quale ha sottolineato come in tal
senso quella del giudicato cautelare non può intendersi come
una preclusione in senso proprio con riguardo al procedimen‑
to di revoca, ancorché il giudice investito della relativa istanza
non possa contraddire le decisioni già assunte in una preceden‑
te impugnazione de libertate in assenza di sopravvenienze o di
prospettazioni non già dedotte in precedenza).
Tirando ora le fila dal lungo discorso che precede, può
osservarsi che se, da un lato, appaiono senza dubbio stringen‑
ti e pienamente condivisibili le argomentazioni della sentenza
Donati circa l’immanenza nell’ordinamento processualpenali‑
stico di un generale principio di preclusione, di cui la regola
dell’art. 649 c.p.p. è solo una particolare pregnante espressione,
e che opera quindi anche in altri ambiti procedurali, dall’altro
è intuitivo che ai caratteri e meccanismi di tali ambiti esso si
adegui nell’esplicazione dei propri effetti. Per quanto concerne
in particolare il procedimento cautelare, lo stesso ha insita
nella propria ratio – come si è già avuto modo di ricordare – la
natura contingente dei provvedimenti e la necessità del loro
tendenziale adeguamento al mutare delle situazioni. Ciò è
evidente, e di forte significato garantistico, per le tutele poste
a presidio dell’indagato, attivabili e reiterabili con grande faci‑
lità e adottabili in vari casi anche d’ufficio. Ma vale, seppure
in termini non sovrapponibili, anche dalla parte dell’accusa.
2 0 1 1
63
Ne consegue che l’”idem” il cui “bis” è precluso non può
concretarsi ed esaurirsi, in ambito cautelare, come avviene
invece nel processo cognitivo, nella mera identità del fatto (per
la cui precisa nozione v. in particolare la sentenza Donati cit.),
ma ricomprende necessariamente anche l’identità degli ele‑
menti posti (e valutati) a sostegno o a confutazione di esso e
della sua rilevanza cautelare. Tale conclusione, pacificamente
accolta, come si è visto, per la determinazione dei limiti del
giudicato cautelare, non può non valere simmetricamente, per
comunanza di ratio, anche in tema di giudicando cautelare.
Sarebbe, invero, oltremodo illogico, e contrario alle esigenze
di tempestività tipiche del settore in discorso, negare, a causa
di una pendenza in atto, l’immediato utilizzo dei nova utili a
sostenere una determinata posizione, rinviandolo ex lege alla
cessazione di quella pendenza. È del resto prassi corrente,
della cui legittimità non si dubita, la proposizione, da parte
dell’indagato, di istanze di revoca o sostituzione della misura,
purché basate su elementi nuovi, mentre è in corso, non im‑
porta in quale fase, un procedimento cautelare relativo alla
stessa contestazione; con quanto poi ne può conseguire, in
termini di interesse, sulla sorte di quest’ultimo.
La soluzione non può essere diversa quando i nova siano
fatti valere dal pubblico ministero. Le esigenze di una pronta
tutela della collettività, costituenti il pendant di quelle che
presidiano il favor libertatis, sono parimenti incompatibili con
improprie e inutili dilazioni, quali quelle che deriverebbero da
intralci di tipo procedurale, a volte anche di lunga durata, e
magari non nella disponibilità dell’accusa.
Le situazioni che si possono presentare nella realtà sono
evidentemente le più varie e possono condizionare le scelte
concrete del p.m. e riflettersi sulle conseguenze delle medesime
sulla sorte dei procedimenti. Il punto fermo è comunque che
l’autonomo utilizzo dei nova non può essere paralizzato da una
pendenza in atto sullo stesso fatto, mentre a sua volta ne de‑
termina la non riversibilità dei medesimi in essa, operando,
nell’identità degli elementi addotti, il meccanismo preclusivo.
La conclusione appena illustrata si armonizza agevolmen‑
te con la sentenza Donati, che, muovendosi sul filo del pro‑
cesso cognitivo e dovendo risolvere un problema ad esso
specificamente pertinente, è sì risalita a un principio generale
che lo trascende ma ne ha lasciato impregiudicata la defini‑
zione di limiti e modalità operative in altri ambiti procedura‑
li e, in particolare, in riferimento al settore cautelare.
La conclusione stessa è anche conforme, malgrado qualche
ingannevole apparenza, all’effettivo tenore della sentenza
Donelli.
Quest’ultima, come si è sopra ricordato, chiamata a esami‑
nare una fattispecie in cui erano stati, in sede di appello caute‑
lare del p.m., prodotti dal medesimo e concretamente utilizza‑
ti elementi probatori sopravvenuti all’adozione del provvedi‑
mento impugnato, reiettivo della richiesta di misura, ritenne
legittima la situazione descritta, e si fece carico degli inconve‑
nienti cui tale soluzione poteva dar luogo, superando in parti‑
colare l’obiezione – collegata alla possibilità che lo stesso
pubblico ministero potesse contemporaneamente decidere di
ricominciare l’azione cautelare richiedendo al G.I.P. l’emissione
di una nuova misura cautelare fondata sugli stessi elementi ri‑
versati nel giudizio d’appello – del duplice rischio di un poten‑
ziale contrasto di decisioni e della potenziale concorrenza di
due titoli cautelari dall’identico contenuto, con il rilievo che le
penale
Gazzetta
64
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
diverse opzioni assegnate alla pubblica accusa si ponevano in
rapporto non di concorrenza ma di “alternatività”. Il riferimen‑
to a tale concetto, letto in correlazione alla fattispecie concreta
esaminata e alla puntualizzazione che “nuovi”, ai fini in discus‑
sione, erano tutti gli elementi comunque non dedotti, indipen‑
dentemente dal momento della loro emersione, fosse anche
posteriore alla stessa proposizione dell’impugnazione, rende
chiaro che per la decisione in esame – al di là della sintetica
formulazione del relativo principio di diritto dalla stessa enu‑
cleato – il p.m. resta libero di scegliere il “veicolo” in cui utiliz‑
zare i nova ai fini del perseguimento del suo obiettivo, ma che,
una volta operata la scelta, non può più, per lo stesso utilizzo,
fare ricorso al veicolo alternativo (con quanto di conseguenza,
in termini di preclusione, sul suo avvio o prosieguo), scongiu‑
randosi così anche il rischio del conseguimento di un duplice
titolo per lo stesso fatto e sulla base degli stessi elementi.
In tale chiarita ottica interpretativa la relazione di preclu‑
sione posta dalla sentenza Donelli rivela il suo genuino carat‑
tere biunivoco, riassumibile nel brocardo electa una via non
datur recursus ad alteram, e può ritenersi coerentemente
estensibile a qualsiasi ipotesi di impugnazione incidentale de
libertate, ivi comprese quelle introdotte dall’indagato, tra cui
in particolare il riesame (nell’ambito del quale è ormai paci‑
fico che anche il pubblico ministero può introdurre gli elemen‑
ti di prova a carico sopravvenuti all’applicazione della misura
cautelare: v. ex multis Sez. I, sent. 29 novembre 1995, n. 6165,
dep. 27 dicembre 1995, imp. Biasioli, Rv. 203164; Sez. I, sent.
06 luglio 1999, n. 4689, dep. 13 settembre 1999, imp. Pirod‑
di, Rv. 214095; Sez. IV, sent. 24 febbraio 2010, n. 15082,
dep. 19 aprile 2010, P.m. in proc. Testini, Rv. 247023).
La conclusione così assunta può trovare espressione nel
seguente principio di diritto: “Qualora il pubblico ministero,
nelle more della decisione su una impugnazione incidentale
de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso in‑
dagato e per lo stesso fatto, elementi probatori “nuovi”, pre‑
esistenti o sopravvenuti, può scegliere se riversarli nel proce‑
dimento impugnatorio o porti a base di una nuova richiesta
di misura cautelare personale, ma la scelta così operata gli
preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare”.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali,
sentenza 05 aprile 2011, (ud. 16 dicembre 2010), n. 13626
Astensione e ricusazione
In assenza di una espressa dichiarazione di conservazione
di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la di‑
chiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti
in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono
considerarsi inefficaci.
***
La questione rimessa alle Sez. un. può essere sintetizzata
nei termini seguenti: “se, in assenza di una espressa dichiara‑
zione di conservazione di efficacia nel provvedimento che
accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli
atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato
possano essere utilizzati”.
In punto di fatto, era accaduto che il Presidente del Tribu‑
nale di Locri, ai sensi dell’art. 42 c.p.p., comma 1, aveva ac‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
colto la dichiarazione di astensione di alcuni componenti del
collegio, a cui era stato assegnato il processo contro D. + 4,
ma ha omesso di dichiarare, ai sensi dello stesso art. 42,
comma 2, quali atti compiuti precedentemente dal giudice
astenutosi conservassero efficacia.
Il nuovo collegio, su accordo delle parti, dichiarava utiliz‑
zabili gli atti probatori assunti in precedenza da altro collegio
e ne dava lettura ai sensi dell’art. 511 c.p.p.. Mutato ancora il
collegio, si dava di nuovo lettura degli atti, assunti in preceden‑
za, dichiarati utilizzabili sempre previo accordo delle parti.
Le Sez. un. illustravano preliminarmente la ratio degli
istituti della incompatibilità, della astensione e della ricusa‑
zione che tutelano specificamente il principio fondamentale
della imparzialità del giudice.
Principio che implica, come chiarito da autorevole dottri‑
na, non soltanto l’assenza di vincolo di subordinazione rispet‑
to agli interessi delle parti in causa, ma, in una prospettiva
più ampia, la non soggezione a condizionamenti di ogni ge‑
nere che possano prevalere sulla necessità di accertamenti e
valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo scopo di
decidere secondo diritto e giustizia.
È indubbio che tale principio trovi un preciso fondamento
costituzionale a seguito della revisione con la legge costitu‑
zionale n. 2 del 1999 dell’art. 111 Cost., che ha fatto riferi‑
mento al concetto di terzietà del giudice, che costituisce un
corollario di quello di imparzialità, implicando che il giudice
si trovi in una posizione di estraneità alle funzioni sia dell’ac‑
cusa che della difesa.
Le Sez. un. per risolvere la controversia muovono da una
interpretazione letterale e sistematica dell’art. 42 c.p.p., com‑
ma 2 affermando che la disposizione non da adito a dubbi
nello stabilire che “il provvedimento che accoglie la dichiara‑
zione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale
parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenuto‑
si o ricusato conservano efficacia” determina in primo luogo
con precisione il giudice che deve adottare il provvedimento.
Si tratta, invero, del giudice dell’astensione o della ricusa‑
zione, come affermato dalla richiamata sentenza Zuccotti, e
come si desume dalla lettera della disposizione.
Del resto è proprio il giudice che decide sulla astensione
che conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi
e che può quindi valutare con precisione gli effetti di tale ri‑
levata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti
in precedenza.
Inoltre, proprio perché si tratta di un profilo molto deli‑
cato perché attiene alla imparzialità e terzietà del giudice, il
provvedimento che decide la sorte degli atti posti in essere dal
giudice astenuto deve essere adottato con la maggiore celerità
possibile al fine di evitare dubbi sulla parzialità del giudizio.
In effetti hanno affermato la esclusiva competenza del
giudice della ricusazione e della astensione ad adottare il
provvedimento sulla conservazione di efficacia degli atti in
precedenza assunti dal giudice astenuto anche le numerose
sentenze che, pur riconoscendo la necessaria tempestività del
provvedimento stesso, hanno giustificato, per la complessità
delle valutazioni da compiere, la non contestualità del prov‑
vedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, all’accoglimento della
dichiarazione di astensione, da adottarsi, comunque, in se‑
quenza ravvicinata a quest’ultima (tra le tante, Sez. 6, 18
marzo – 27 maggio 2003, n. 23261, Matteucci, Rv. 225756,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
che aveva ritenuto legittimo il provvedimento di efficacia
degli atti depositato il giorno successivo a quello dell’accogli‑
mento della dichiarazione di astensione).
Ma se su tale questione non sembra esservi contrasto, e
d’altra parte nemmeno il ricorrente pone problemi sul punto,
vi è, come già rilevato, contrasto in ordine alla necessità o
meno della declaratoria di efficacia degli atti precedentemen‑
te assunti dal giudice astenuto.
Ancora una volta la interpretazione letterale della dispo‑
sizione non lascia adito a dubbi perché l’art. 42 c.p.p., com‑
ma 2 precisa che “il provvedimento (…) dichiara se e in
quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice
astenutosi o ricusato conservano efficacia”.
È vero che la disposizione in discussione, che sostanzial‑
mente riproduce quella dell’art. 70 codice previgente, viene
tradizionalmente considerata espressione del principio di
conservazione degli atti (vedi Relazione al Progetto prelimi‑
nare del cod. proc. pen., 29), ma, come è stato attentamente
osservato da autorevole dottrina, ove si fosse voluto attaglia‑
re la disposizione al principio di conservazione degli atti la si
sarebbe dovuta formulare secondo uno schema antitetico del
tipo “se e in quale parte gli atti compiuti perdano efficacia”.
Del resto la prevalente dottrina, anche se qualche Autore
ha avuto dei ripensamenti, si è pronunciata per la necessità di
una espressa declaratoria di conservazione di efficacia degli
atti, in difetto della quale gli atti compiuti dal giudice astenu‑
tosi e/o ricusato sono da ritenere improduttivi di effetti.
Vi è quindi una sorta di presunzione di inefficacia degli
atti posti in essere dallo iudex suspectus prima dell’accogli‑
mento della dichiarazione di astensione o della ricusazione,
che può essere rimossa con la declaratoria di efficacia di tut‑
ti o di alcuni atti dal giudice della ricusazione, che abbia ve‑
rificato se malgrado la riconosciuta carenza di imparzialità
del giudice, vi siano atti che non abbiano subito alterazione,
così da poter essere conservati.
Ad avviso delle sez. un. il provvedimento ex art. 42 c.p.p.,
comma 2, deve qualificarsi come un provvedimento di natura
non decisoria, ma dichiarativa perché fondato su una ricogni‑
zione degli atti a contenuto probatorio compiuta, inaudita
altera parte, dal giudice della ricusazione, che ha in materia
una competenza per così dire interinale (Sez. VI, n. 1391 del
2006, Cremonesi, cit.), che non può frustrare la competenza
esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro
utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere.
Posto che non bisogna confondere il piano della efficacia
degli atti precedentemente compiuti, al quale fa riferimento
l’art. 42 c.p.p., comma 2, con quello della utilizzabilità degli
stessi mediante il meccanismo di acquisizione e di recupero
delineato dall’art. 511 c.p.p. riguardante le letture consentite,
il Supremo Consesso ritiene necessario chiarire il significato
della espressione “efficacia degli atti” contenuta nell’art. 42
c.p.p., comma 2.
Il legislatore mentre definisce con precisione i concetti di
inutilizzabilità e nullità degli atti a contenuto probatorio, non
chiarisce cosa debba intendersi per inefficacia degli atti.
Orbene l’atto a contenuto probatorio ritenuto efficace è
quello in grado di produrre effetti giuridici, e, quindi, in ma‑
teria processuale penale è l’atto che può essere legittimamen‑
te mantenuto nel fascicolo per il dibattimento, fatto che co‑
stituisce il presupposto logico per una successiva, ed eventua‑
2 0 1 1
65
le, utilizzazione dello stesso per la decisione.
Nel senso indicato si è espressa esplicitamente la Suprema
Corte (Sez. II, 28 gennaio – 5 giugno 2002, n. 21831, Rv.
221987), che ha affermato che la indicazione degli atti che
conservano efficacia ex art. 42 c.p.p. ha il significato di pre‑
cisare quali atti possano essere mantenuti nel fascicolo del
dibattimento, ferma la competenza esclusiva del collegio giu‑
dicante a stabilire la loro utilizzabilità o meno ai fini della
decisione sulla scorta di quanto previsto dagli artt. 525 e 511
c.p.p.
E anche la Corte costituzionale (ord. n. 25 del 2010) ha
stabilito che il provvedimento ex art. 42, comma 2, “vale (…)
a delimitare l’area del possibile “recupero” dell’attività istrut‑
toria già espletata”, recupero che può avvenire soltanto se gli
atti a contenuto probatorio siano stati inseriti nel fascicolo del
dibattimento.
“Quindi sono efficaci gli atti che legittimamente possono
essere inseriti nel fascicolo del dibattimento; tali atti possono
in una fase successiva essere dichiarati utilizzabili ai fini del‑
la decisione”.
Tuttavia la discussione sull’inserimento o meno degli atti
dichiarati efficaci ai sensi dell’art. 42 c.p.p., comma 2, non
soffre la preclusione di cui all’art. 491 c.p.p., comma 1, che
riguarda la selezione degli atti e dei documenti che possono
essere conosciuti preventivamente dal giudice del dibattimen‑
to, ma non le valutazioni del giudice circa l’ammissibilità
della prova desumibile sia da atti inseriti nel fascicolo del di‑
battimento sia da atti che erroneamente non vi siano stati
inseriti (Sez. V, 18 aprile – 22 maggio 2000, n. 5944, Benve‑
nuto e Sez. VI, 6 febbraio – 27 maggio 2003, n. 23246).
Ciò perché il giudice del dibattimento ha una competenza
generale in ordine alla valutazione di ammissibilità delle pro‑
ve ed alla assunzione delle stesse e sarà, pertanto, tale giudice
a verificare in ultima analisi anche la efficacia o meno degli
atti a contenuto probatorio compiuti dallo iudex suspectus
prima della autorizzazione alla astensione ed a determinare
la definitiva inclusione o esclusione di tali atti dal fascicolo
per il dibattimento, attività che deve necessariamente prece‑
dere la valutazione di utilizzabilità o meno delle prove.
In conclusione le Sezioni unite penali della Corte di cas‑
sazione, nel rigettare tutti i ricorsi e nel condannare i ricor‑
renti al pagamento delle spese del procedimento, hanno sta‑
bilito il seguente principio di diritto: “in assenza di una
espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti
nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione
o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice
astenutosi o ricusato debbono considerarsi inefficaci”.
Le Sezioni unite hanno, altresì, stabilito che “la dichiara‑
zione di inefficacia degli atti può essere sindacata, nel con‑
traddicono tra le parti, dal giudice della cognizione, con
conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi”.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali,
sentenza 06 aprile 2011, (ud. 24 febbraio 2011), n. 13716
Misure Cautelari personali e poteri del Vice Procuratore
Onorario
La delega conferita al vice procuratore onorario dal pro‑
curatore della Repubblica, comprende la facoltà di richiede‑
re l’applicazione di una misura cautelare personale, doven‑
penale
Gazzetta
66
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dosi altresì considerare prive di effetto giuridico limitazioni
a tale iniziativa eventualmente contenute nell’atto di delega.
***
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite è la
seguente: “se al vice procuratore onorario, al quale a sensi
dell’art.72, comma 1, lett. b), ord. giud. è rilasciata la delega
a svolgere le funzioni di pubblico ministero nella udienza di
convalida dell’arresto e nel contestuale giudizio direttissimo,
debba riconoscersi anche il potere di richiedere l’applicazione
di una misura cautelare personale, oppure, se occorra a tale
fine una espressa delega”.
La problematica si estende anche alla udienza di convali‑
da dell’arresto e del fermo (art. 391 c.p.p.) non seguita da
giudizio direttissimo.
Sul punto, si rinviene effettivamente un contrasto nella
giurisprudenza di legittimità.
Un primo orientamento (Sez. IV, sent. 23 maggio 2007,
dep. 16 luglio 2007, n. 28104 Jemmali) ha ritenuto che il vice
procuratore onorano il quale, ai sensi dell’art. 72 ord. giud.,
è delegato a partecipare alla udienza di convalida e al conte‑
stuale giudizio direttissimo ha il potere di richiedere in udien‑
za l’applicazione di una misura cautelare personale; ha preci‑
sato che la rilevata facoltà è necessaria conseguenza dell’esse‑
re l’adozione della misura una fase concettualmente e strut‑
turalmente collocata all’interno della procedura attraverso la
quale si articola la convalida dell’arresto ed il successivo giu‑
dizio direttissimo. Ad analoga conclusione è pervenuta la
sentenza della Sez. IV, n. 6838 del 16/11/2010, dep. 22/02/2011,
Fadlaoui; nell’occasione, la Corte ha osservato come sia con‑
forme al sistema considerare la delega, inerente all’esercizio
dell’accusa pubblica nel giudizio, idonea ad attribuire al dele‑
gato il potere di esplicare tutte le funzioni che nella udienza
tipicamente si svolgono senza privarlo pregiudizialmente
della possibilità di avanzare richieste cautelari.
A fronte di tale orientamento, è riscontrabile uno di segno
opposto.
Un secondo orientamento (Sez. VI, sent. 03 dicembre
2008, n. 4290, dep. 30 gennaio 2009, De Tursi) ha osservato
che la delega (riferita ad un giudizio dibattimentale) non con‑
ferisce all’onorario la facoltà di iniziativa cautelare, che non è
compresa nella ordinaria gestione della udienza. Analogamen‑
te Sez. V, n. sent. 06 novembre 2009, n. 4438, dep. 02 febbra‑
io 2010, Kharifo, ha escluso che una delega generica per la
udienza di convalida possa includere il potere del vice procu‑
ratore onorario di richiedere una misura coercitiva, essendo,
a tale fine, richiesta una delega specifica la cui esistenza non
può essere presunta; nella motivazione, è stato puntualizzato
che, per un principio generale del sistema positivo, il delegato
e mandatario non può esercitare poteri che esorbitano dall’am‑
bito del mandato conferitogli.
Si registra inoltre un terzo orientamento che si muove su
altro versante, quello relativo allo specifico contenuto della
delega conferita al magistrato onorario. Così, secondo Sez. V,
05 dicembre 2006, n. 9206, dep. 5 marzo 2007, Bodino, la
delega segna i limiti entro i quali il delegato può determinar‑
si in modo autonomo e costituisce il fondamento per il legit‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
timo esercizio delle funzioni requirenti, sicché il pubblico
ministero onorario non può prendere iniziative eccedenti il
concreto ambito della delega; ciò in quanto la sua autonomia,
pur prevista dall’art. 53 c.p.p., deve intendersi correlativamen‑
te circoscritta. Da tale rilievo, la Corte ha tratto la conclusio‑
ne che la delega del procuratore della Repubblica, per la ri‑
chiesta di applicazione della custodia carceraria, non consen‑
te al magistrato onorario di formulare la diversa richiesta di
applicazione degli arresti domiciliari.
Preliminarmente le Sez. un. hanno trattato diffusamente
le coordinate normative inerenti la posizione giuridica del
vice procuratore onorario per precisare che la legittimazione
derivata del magistrato onorario trae il suo fondamento giu‑
ridico non dalla volontà delle parti, ma dalle norme dell’ordi‑
namento giudiziario e del codice di procedura penale alle
quali l’interprete deve fare riferimento.
In forza di tale precisazione le Sez. un. hanno ribadito che
il rappresentante del pubblico ministero deve essere indipen‑
dente non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno dell’uf‑
ficio, e deve potersi determinare liberamente sulla base degli
sviluppi e delle risultanze acquisite nel corso della udienza.
Da quanto rilevato, si deve concludere che la funzione del
pubblico ministero, sia esso magistrato di carriera od onora‑
rio, implica un medesimo status di tale organo in udienza.
Conseguono i seguenti principi in merito al contenuto
della delega:
Il contenuto della delega è circoscritto per materia dall’or‑
dinamento giudiziario e non dalle disposizioni del procurato‑
re della Repubblica (il quale, ad esempio, non potrebbe con‑
ferire al vice procuratore onorano il potere di proporre appel‑
lo, in quanto non normativamente previsto); la delega costi‑
tuisce il fondamento per il legittimo esercizio delle funzioni
requirenti, ma non segna il confine entro il quale l’onorario
può determinarsi in modo autonomo in udienza; le condizio‑
ni o restrizioni eventualmente inserite nella delega devono
considerarsi come non apposte, per cui il giudice non deve
tenerne alcun conto, spettandogli solo di controllare se la
delega sia conferita con il rispetto dell’art. 72 ord. giud. E
art. 162 disp. att. c.p.p. Alla luce delle suesposte considera‑
zioni il contrasto rimesso alle Sez. un. può essere risolto con
l’enunciazione del seguente principio: “la delega conferita al
vice procuratore onorario dal procuratore della Repubblica,
a norma dell’art. 72, comma 1, lett. b), ord. giud. e art. 162
disp. att. c.p.p., per lo svolgimento delle funzioni di pubblico
ministero nella udienza di convalida dell’arresto o del fermo
(art. 391 c.p.p.) o in quella di convalida dell’arresto nel con‑
testuale giudizio direttissimo (artt. 449 e 558 c.p.p.), compren‑
de la facoltà di richiedere l’applicazione di una misura caute‑
lare personale, dovendosi altresì considerare prive di effetto
giuridico limitazioni a tale iniziativa eventualmente contenu‑
te nell’atto di delega”. 8. Seppure non direttamente implicata
dal presente ricorso, è il caso di precisare che ad analoghe
conclusioni, valendo la stessa rato, deve pervenirsi con riferi‑
mento alla posizione dei magistrati ordinari in tirocinio (già
“uditori giudiziari”), i quali, in base all’art. 72, comma 1, lett.
b), ord. giud., possono essere delegati a svolgere le funzioni di
pubblico ministero nella udienza di convalida dell’arresto o
del fermo (art. 391 c.p.p.).
F O R E N S E
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto penale
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
67
Impugnazioni – Provvedimenti impugnabili – Provvedimenti ab‑
normi – Esclusione della natura ministeriale del reato – Potere di
qualificazione dell’autorità giudiziaria – Verifica della propria com‑
petenza – Sussistenza – Eccezione di incompetenza funzionale
dell’autorità giudiziaria – Ordinanza di rigetto – Abnormità – Esclu‑
sione.
L’autorità giudiziaria che procede per un reato comune,
avendone escluso la natura ministeriale previa verifica dei pre‑
supposti della propria competenza, non è tenuta ad informare
della sua decisione la Camera di appartenenza dell’indagato,
ricorrendo l’obbligo di comunicazione previsto dall’art. 8,
comma quarto, l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, solo nell’ipotesi
in cui il Collegio per i reati ministeriali sia stato investito della
competenza a conoscere del reato. (In applicazione di tale prin‑
cipio, la S.C. ha escluso l’abnormità dell’ordinanza di rigetto
dell’eccezione di incompetenza funzionale dell’autorità giudi‑
ziaria procedente, osservando che il competente organo parla‑
mentare, qualora si ritenga leso nelle sue prerogative, può co‑
munque attivarsi autonomamente, richiedendo la trasmissione
degli atti all’autorità giudiziaria per poi ricorrere, sussistendone
i presupposti, allo strumento del conflitto di attribuzione).
Cass., Sez. VI, sentenza 3 marzo 2011, n. 10130
(dep. 11 marzo 2011) Rv. 249234;
Pres. De Roberto, Est. Fidelbo, Imp. Mastella. P.m. Geraci
(Conf.);
(Dichiara inammissibile, G.I.P. Trib. Napoli, 20 ottobre 2010)
Misure cautelari – Personali – Impugnazioni – In genere – Misura
revocata o divenuta inefficace – Persistenza dell’interesse all’im‑
pugnazione – Manifestazione – Necessità.
In tema di ricorso avverso il provvedimento applicativo di
una misura cautelare custodiale nelle more revocata o divenu‑
ta inefficace, perché possa ritenersi comunque sussistente l’in‑
teresse del ricorrente a coltivare l’impugnazione in riferimento
a una futura utilizzazione dell’eventuale pronunzia favorevole
ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta deten‑
zione, è necessario che la circostanza formi oggetto di specifica
e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti
il pregiudizio che deriverebbe dal mancato conseguimento
della stessa, formulata personalmente dall’interessato.
Cass., Sez. un., sentenza 16 febbraio 2011, n. 7931
(dep. 01 marzo 2011) Rv. 249001;
Pres. Lupo, Est. Cortese, Imp. Testini. P.m. Ciani (Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Roma, 12 aprile 2010)
Misure cautelari – Personali – Impugnazione – Riesame – Procedi‑
mento – Pendenza – Richiesta ed adozione di nuovo provvedimen‑
to cautelare per gli stessi fatti fondata su nuovi elementi di pro‑
va – Preclusione – Sussistenza – Condizioni.
In tema di misure cautelari, qualora il pubblico ministero,
nelle more della decisione su una impugnazione incidentale “de
libertate”, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato
e per lo stesso fatto, elementi probatori “nuovi” può scegliere se
riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fonda‑
mento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata,
la scelta gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare.
Cass., Sez. un., sentenza 16 febbraio 2011, n. 7931
(dep. 01 marzo 2011) Rv. 249001;
Pres. Lupo, Est. Cortese, Imp. Testini. P.m. Ciani (Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Roma, 12 aprile 2010)
penale
Gazzetta
68
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Procedimenti speciali – Giudizio abbreviato – In genere – Giudizio
d’appello – Documenti sopravvenuti – Acquisizione – Possibilità.
Nel giudizio abbreviato, sia condizionato che non condi‑
zionato, è consentito al giudice d’appello, d’ufficio e anche su
sollecitazione delle parti, acquisire documenti sopravvenuti
necessari ai fini della decisione.
Cass., Sez. III, sentenza 13 gennaio 2011, n. 7974
(dep. 01 marzo 2011) Rv. 249114;
Pres. Ferrua, Est. Petti, Imp. Ndreu e altri. P.m. De Santis
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Firenze, 13 febbraio 2009)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici
Ufficiali – In genere – Indebita percezione di erogazioni a danno
dello Stato – Condotte rilevanti – Induzione in errore – Esclusio‑
ne – Natura assistenziale dell’erogazione – Ammissibilità – Esen‑
zione dal pagamento del ticket sanitario – Rilevanza.
Integra il reato di indebita percezione di erogazioni a dan‑
no dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni redditua‑
li per l’esenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sa‑
nitarie e ospedaliere che non induca in errore ma determini al
provvedimento di esenzione sulla base della corretta rappre‑
sentazione dell’esistenza dell’attestazione stessa. (La Corte ha
precisato che si ha erogazione, pur in assenza di un’elargizione,
quando il richiedente ottiene un vantaggio economico che
viene posto a carico della comunità).
Cass., Sez. un., sentenza 16 febbraio 2011, n. 7537
(dep. 25 febbraio 2011) Rv. 249104;
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Pizzuto. P.m. Ciani (Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Messina, 19 ottobre 2009)
Reati contro la Pubblica Amministrazione – Delitti – Dei Pubblici
Ufficiali – In genere – Indebita percezione di erogazioni a danno
dello Stato – Reato di falso di cui all’art. 483 c.p. – Assorbimen‑
to – Somma percepita o non pagata inferiore alla soglia di leg‑
ge – Mero illecito amministrativo – Assorbimento – Sussistenza.
Il reato di falso di cui all’art. 483 c.p. resta assorbito in
quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato
in tutti i casi in cui l’uso o la presentazione di dichiarazioni o
documenti falsi costituiscano elementi essenziali di quest’ulti‑
mo, pur quando la somma indebitamente percepita o non
pagata dal privato, non superando la soglia minima di eroga‑
zione – Euro 3.999,96 ‑, dia luogo a una mera violazione
amministrativa.
Cass., Sez. un., sentenza 16 febbraio 2011, n. 7537
(dep. 25 febbraio 2011) Rv. 249104;
Pres. Lupo, Est. Fiale, Imp. Pizzuto. P.m. Ciani (Conf.);
(Annulla senza rinvio, App. Messina, 19 ottobre 2009)
Reato – Estinzione (cause di) – Prescrizione – Termini – Modifica ex
l. n. 251 del 2005 – Retroattività della nuova disciplina – Limiti – Que‑
stione di legittimità costituzionale – Manifesta infondatezza.
È manifestamente infondata, in riferimento all’art. 117
Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10,
comma terzo, l. n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude
l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi,
ai processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte
di cassazione.
Cass., Sez. VI, sentenza 1 dicembre 2010, n. 12400
(dep. 28 marzo 2011) Rv. 249165;
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Pres. Agrò, Est. Milo, Imp. Massè. P.m. Selvaggi (Conf.);
(Rigetta, App. Milano, 13 giugno 2008)
Stupefacenti – In genere – Circostanze aggravanti – Ingente quan‑
tità – Configurabilità – Criteri di individuazione.
In tema di reati concernenti il traffico illecito di sostanze
stupefacenti, non è consentito predeterminare i limiti quanti‑
tativi minimi che consentono di ritenere configurabile la circo‑
stanza aggravante prevista dall’art. 80, comma secondo, d.P.R.
n. 309 del 1990 (ingente quantità). (La Corte ha precisato che
la fattispecie non viola comunque il principio di determinatez‑
za, dovendo aversi riguardo, perché possa essere configurata
l’aggravante, 1) all’oggettiva eccezionalità del quantitativo
sotto il profilo ponderale; 2) al grave pericolo per la salute
pubblica che lo smercio di un tale quantitativo comporta; 3)
alla possibilità di soddisfare le richieste di numerosissimi con‑
sumatori per l’elevatissimo numero di dosi ricavabili).
Cass., Sez. IV, sentenza 1 febbraio 2011, n. 9927
(dep. 11 marzo 2011) Rv. 249076;
Pres. Marzano, Est. Brusco, Imp. Ardizzone. P.m. Geraci
(Conf.);
(Rigetta, App. Messina, 11 dicembre 2009)
Stupefacenti – In genere – Nozione di stupefacente – Sistema ta‑
bellare – Fattispecie.
La nozione di stupefacente ha natura legale, sicché sono
assoggettate alla disciplina del d.P.R. n. 309 del 1990 solo le
sostanze specificamente indicate nelle tabelle previste dall’art. 14
di detto d.P.R. (In motivazione la Corte, annullando con rinvio,
per diversità del fatto, la sentenza della Corte d’appello che
aveva ritenuto la responsabilità per il reato di tentativo di de‑
tenzione di eroina a fronte della contestata detenzione di “6
monoacetilmorfina”, ha affermato non essere tale ultima so‑
stanza inclusa nelle tabelle suddette).
Cass., Sez. III, sentenza 13 gennaio 2011, n. 7974
(dep. 01 marzo 2011) Rv. 249113;
Pres. Ferrua, Est. Petti, Imp. Ndreu e altri. P.m. De Santis
(Conf.);
(Annulla con rinvio, App. Firenze, 13 febbraio 2009)
Stupefacenti – In genere – Sostanza denominata “6 monoacetil‑
morfina” – Natura stupefacente – Sussistenza – Ragioni.
La sostanza “6 monacetilmorfina” è un monoestere della
morfina ed è iscritta nella tabella I allegata al d.P.R. n. 309 del
1990, sicché rientra inequivocabilmente tra quelle che formano
oggetto della fattispecie criminosa prevista dall’art. 73 del
d.P.R. cit.
Cass., Sez. III, sentenza 13 gennaio 2011, n. 7965
(dep. 01 marzo 2011) Rv. 249112;
Pres. Ferrua, Est. Lombardi, Imp. Figliolia. P.m. De Santis
(Conf.);
(Rigetta, App. Lecce, 13 gennaio 2010)
Stupefacenti – In genere – Uso di gruppo – Mandato all’acquisto
ad uno degli assuntori – Modifiche introdotte dalla l. n. 49 del
2006 – Reato – Sussistenza – Esclusione.
Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente
al mandato all’acquisto collettivo ad uno degli assuntori e
nella certezza originaria dell’identità degli altri non è punibile
ai sensi dell’art. 73, comma primo bis, lett. a), d.P.R. 9 ottobre
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
1990, n. 309, anche dopo le modifiche apportate a tale dispo‑
sizione dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Cass., Sez. VI, sentenza 26 gennaio 2011, n. 8366
(dep. 02 marzo 2011) Rv. 249000;
Pres. Agrò, Est. Lanza, Imp. P.G. in proc. D’Agostino. P.m.
Spinaci (Diff.);
(Rigetta, App. l’Aquila, 6 maggio 2009)
Udienza preliminare – Decreto che dispone il giudizio – Nulli‑
tà – Decreto che dispone il giudizio – Omissione dell’avvertimento
di cui all’art. 429, comma primo, lett. f),
c.p.p. – Nullità – Ragione – Fattispecie.
L’omissione, nel decreto di citazione a giudizio, dell’av‑
2 0 1 1
69
vertimento che, non comparendo, l’imputato sarà giudicato
in contumacia (art. 429, comma primo, lett. f), c.p.p.), costi‑
tuisce causa di nullità del decreto, trattandosi di un requisito
strutturale dell’atto, diretto ad assicurare l’effettività del
contraddittorio. (Fattispecie relativa ad un decreto di citazio‑
ne in appello, ove era stato dato erroneo avviso della tratta‑
zione del procedimento in camera di consiglio e non in pub‑
blica udienza).
Cass., Sez. VI, sentenza 25 gennaio 2011, n. 4415
(dep. 04 febbraio 2011) Rv. 248977;
Pres. De Roberto, Est. Agrò, Imp. T. P.m. Selvaggi (Parz.
Diff.);
(Annulla con rinvio, App. Torino, 07 maggio 2010)
penale
Gazzetta
70
D i r i t t o
●
Rassegna di merito
●
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Giuseppina Marotta
Avvocato
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Abuso di ufficio: condotta punibile – Insussistenza
(art. 323 c.p.)
Non integra il reato di abuso di ufficio la condotta di
omessa elevazione della contravvenzione per divieto di sosta,
da parte degli agenti della Polizia Municipale, obbligati in
relazione al disposto degli artt. 11 co. 1 lett. a) e 12 c.d.s., di
procedere all’accertamento delle violazioni in materia di cir‑
colazione stradale, e di contestarne la violazione, ove la
condotta sia improntata a rimuovere comportamenti che solo
astrattamente potevano configurare quel “divieto si sosta”
infranto, ricomprendendosi, invece, gli stessi in un ambito del
tutto contingente della “mera fermata dell’autoveicolo” pron‑
tamente da rimuovere, come nella specie accaduto.
Trib. Nola, G.U.P. Campoli
sentenza 31 marzo 2011, n. 192
Associazione per delinquere di stampo mafioso: ruolo di promo‑
tore – Caratteristiche e qualità
(art. 416 bis c.p.)
Quanto al ruolo del promotore, occorre considerare, che
il legislatore ha posto l’accento, più che sul momento costi‑
tutivo, sull’esistere e sull’operare con metodo mafioso dell’as‑
sociazione, la quale, per potersi qualificare come tale, deve
aver già consolidato una propria forza intimidatrice, in as‑
senza della quale potrà parlarsi, al più, di una ordinaria as‑
sociazione per delinquere, configurata dall’art. 416 c.p. È
chiaro, quindi, che la figura del promotore può venire in ri‑
lievo allorquando all’interno di un gruppo criminoso, origi‑
nariamente non qualificato, un soggetto abbia dato un
contributo particolarmente importante alla formazione ed al
consolidamento dell’apparato strutturale strumentale pro‑
priamente mafioso, ovvero, qualora si tratti di un gruppo già
costituito, abbia concorso ad accrescerne le potenzialità,
rafforzando e diffondendo il programma associativo.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: partecipe – Con‑
dotta punibile
(art. 416 bis)
Integra gli estremi della partecipazione all’associazione di
tipo mafioso la condotta di chi presti un contributo consape‑
vole alla vita del sodalizio criminale, conoscendone le carat‑
teristiche, con l’intento di avvalersi della forza di intimida‑
zione promanante dal vincolo associativo e delle condizioni
di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizza‑
re una o più delle finalità previste dal terzo comma dell’art. 416
bis c.p. Costituendo una tipica ipotesi di reato “a forma libe‑
ra”, la condotta di partecipazione può consistere in qualsia‑
si contributo – purché non meramente occasionale – apprez‑
zabile e causalmente rilevante all’esistenza o al rafforzamen‑
to dell’associazione, accompagnato dalla consapevolezza e
volontà di associarsi per perseguire gli scopi del sodalizio
criminoso avvalendosi del “metodo mafioso”, a nulla rile‑
vando che tali scopi siano, poi, raggiunti o meno.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Associazione per delinquere di stampo mafioso: partecipazio‑
ne – Cessazione – Criteri di accertamento
(art. 416 bis c.p.)
Quanto, al profilo della cessazione della partecipazione,
è opinione comunemente accolta in giurisprudenza quella
secondo la quale la privazione della libertà personale non
faccia necessariamente venir meno il vincolo associativo, la
cui persistenza può essere dedotta da qualsiasi comportamen‑
to sintomatico del permanere dell’affectio societatis. Non vi
è dubbio, infatti, che, per quanto la privazione della libertà
personale limiti necessariamente la qualità e l’entità dell’ap‑
porto al sodalizio, l’associato possa continuare a mantenere
contatti con l’organizzazione anche stando in carcere.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: arresto dei ca‑
pi – Cessazione del vincolo associativo – Esclusione
(art. 416 bis c.p.)
La circostanza che vengano tratti in arresto i capi o i
componenti di maggior prestigio dell’associazione, non de‑
termina necessariamente il dissolversi della capacità opera‑
tiva dell’organizzazione né, conseguentemente, il venir meno
del vincolo associativo, ben potendo l’attività del gruppo
proseguire attraverso l’opera degli affiliati rimasti in libertà
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante del‑
la detenzione di armi – Presupposti
(art. 416 bis co. 4 c.p.)
Ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416
bis, 4° comma, c.p. è necessaria e sufficiente, la mera dispo‑
nibilità di armi o materie esplodenti funzionali al consegui‑
mento delle finalità dell’associazione. Non vi è dubbio,
inoltre, che l’aggravante in parola sia applicabile anche nei
confronti degli associati che non abbiano personalmente
custodito od utilizzato le armi, purché le stesse siano nella
sfera di effettiva utilizzabilità dei membri dell’associazione,
indipendentemente dal luogo in cui siano occultate. Quel che
conta, in definitiva, è che le armi siano destinate ad essere
utilizzate per il conseguimento delle finalità dell’associazione
e non, ad esempio, per necessità occasionali dei singoli che
esulino dal conseguimento dello scopo comune.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante del‑
la detenzione di armi – Imputazione soggettiva a carico di ciascun
appartenente – Configurabilità
(art. 416 bis co. 4 c.p. – art. 59 c.p.)
L’aggravante in questione, stante la natura oggettiva
della stessa, può essere ritenuta a carico di ciascun singolo
appartenente al sodalizio solo in base al criterio di imputa‑
zione soggettiva stabilito nell’art. 59 c.p. È, pertanto, neces‑
sario accertare che gli associati a carico dei quali la circostan‑
za è valutata abbiano avuto conoscenza della disponibilità
2 0 1 1
71
delle armi o, quanto meno, che l’abbiano ignorata per errore
determinato da colpa. Attesa, infatti, l’ampia formulazione
dell’art. 59 c.p. (relativo alle circostanze non conosciute dal
colpevole), non sussiste alcuna incompatibilità logica tra
l’imputazione a titolo di dolo della fattispecie criminosa base
e l’attribuzione a titolo di colpa di un elemento accidentale
della stessa, come la circostanza in questione.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante dell’uso
di armi – individuazione delle armi – Necessità – esclusione
(art. 416 bis c.p. co. 4)
Ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante in
parola non è richiesta l’esatta individuazione delle armi stes‑
se, essendo sufficiente l’accertamento in fatto della disponi‑
bilità di un armamento, quale desumibile, ad esempio, dai
fatti di sangue commessi dal gruppo criminale o anche dal
contenuto delle intercettazioni. Affinché un’associazione di
stampo camorristico possa qualificarsi come armata non è
sufficiente, peraltro, che la disponibilità di armi sia dimostra‑
ta in relazione ad un singolo episodio, occorrendo che la
stessa sia costante e duratura.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante del
riciclaggio – Presupposti – Configurabilità
(art. 416 bis co. 6 c.p.)
La circostanza di cui si tratta, usualmente definita come
“aggravante del riciclaggio”, ricorre ogniqualvolta “le attivi‑
tà economiche di cui gli associati intendono assumere o
mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con
il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti” (art. 416 bis, 6°
comma, c.p.). Si tratta di una circostanza che attiene all’at‑
tuazione del programma criminoso e costituisce, per così
dire, il completamento delle attività e delle finalità illecite
proprie dell’associazione. Detto in altri termini, il “riciclag‑
gio” dei profitti dell’associazione rappresenta un evidente
elemento di chiusura rispetto alla commissione dei delitti,
all’acquisizione diretta o indiretta della gestione o del con‑
trollo di attività economiche ovvero di appalti e servizi pub‑
blici o di vantaggi ingiusti, all’alterazione delle competizioni
elettorali mediante l’ostacolo all’esercizio del libero diritto di
voto realizzato – ad esempio – attraverso il finanziamento di
candidati o la manipolazione di organi di informazione.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante del
riciclaggio – Ratio legislativa.
(art. 416 bis co. 6 c.p.)
Il legislatore ha previsto il “riciclaggio” come aggravante
del reato‑base, allo scopo evidente di colpire con una sanzio‑
ne più elevata un’attività che, dal punto di vista criminologi‑
co, è forse la più gravida di conseguenze tra quelle poste in
essere dall’associazione, in quanto segna lo sviluppo impren‑
penale
Gazzetta
72
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ditoriale del fenomeno mafioso e costituisce, quindi, il viati‑
co per un inserimento ancor più capillare della criminalità
organizzata nella vita sociale ed economica della comunità.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante del
riciclaggio – Attribuzione a carattere oggettivo – Prevedibilità
(art. 416 bis co. 6 c.p.)
L’aggravante in questione ha, infatti, carattere oggettivo,
poiché il perseguimento con i mezzi previsti della finalità
descritta si presenta come un attributo della specifica asso‑
ciazione, qualificandone la pericolosità al pari del suo carat‑
tere armato, ed è, quindi, valutabile a carico di ogni compo‑
nente del sodalizio in base alla norma di cui al secondo
comma dell’art. 59 c.p.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: aggravante del
riciclaggio – Attribuzione a carattere soggettivo – Modalità
(art. 416 bis co. 6 c.p.)
Nella valutazione dei criteri di imputazione soggettiva
dell’aggravante de qua, tuttavia, si deve tener conto del fatto
che ai singoli associati sono normalmente attribuiti ruoli
diversi e che lo svolgimento delle attività economiche lecite
nelle quali vengono riciclati i proventi dei delitti è general‑
mente riservato ad una minoranza degli associati. La consa‑
pevolezza o la colposa ignoranza dell’elemento circostanzia‑
le da parte di ciascuno dei sodali dovranno essere valutate,
pertanto, con particolare rigore, tenendo conto, altresì, della
tipologia, del carattere di normalità, dell’ampiezza e della
conoscibilità dell’attività economica esercitata.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Associazione per delinquere di stampo mafioso: trattamento san‑
zionatorio – Sopravvenienza di legge più severa – Applicabilità
Ogniqualvolta la condotta, anche se iniziata nella vigenza
della normativa più favorevole, sia poi proseguita anche
dopo l’entrata in vigore della nuova legge più sfavorevole
deve applicarsi allo stesso il trattamento sanzionatorio so‑
pravvenuto, ancorché più severo, essendo il delitto di cui
alI’art. 416 bis c.p., permanente.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Concorso di persone: contributo agevolatore – Punibilità
(art. 110 c.p.)
Il contributo punibile a titolo di concorso non è solo quel‑
lo necessario – quello cioè che costituisce conditio sine qua
non del reato, nel senso che senza di esso questo non si sareb‑
be realizzato – ma è pacificamente anche quello semplicemen‑
te agevolatore, quello cioè che ha soltanto facilitato la com‑
missione di un reato che sarebbe stato probabilmente com‑
messo lo stesso, ma con maggiori difficoltà o incertezze.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 22 febbraio 2011, n. 128
Concorso di persone: contributo morale – Caratteristiche
(art. 110 c.p.)
È automaticamente ascrivibile al correo la condotta tipi‑
ca tenuta dall’agente, di cui egli si è fatto partecipe se non
altro a titolo di contributo psichico, reso mediante la com‑
partecipazione all’accordo criminoso e con l’assicurazione
della sua compresenza sul luogo e nel momento del fatto,
all’occorrenza ausiliatrice, essendo principio pacifico che il
contributo concorsuale possa consistere, quale contributo
morale, anche nella semplice presenza alla consumazione del
reato da parte del correo quando tale presenza sia chiaramen‑
te dimostrativa di adesione alla azione e sia quindi consape‑
volmente volta a rafforzare il proposito criminoso dell’agen‑
te, dando a quest’ultimo un maggior senso di sicurezza nel
perpetrare la sua condotta.
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 22 febbraio 2011, n. 128
Concorso di reati: rapporti tra reato associativo e reati‑fine – Ap‑
plicabilità della continuazione – Presupposti
(art. 81 c.p.)
Ai fini della configurabilità della continuazione tra l’as‑
sociazione a delinquere ed i singoli delitti‑scopo, è necessario
e sufficiente che i reati‑fine siano stati ideati e individuati,
nell’ambito dell’originario programma criminoso del sodali‑
zio, nelle loro linee essenziali, nell’ambito di una iniziale
ideazione e deliberazione generica del complesso delle con‑
dotte criminose da tenere, del percorso criminoso da seguire
e delle singole condotte attraverso le quali lo stesso è desti‑
nato a snodarsi. Non occorre, affinché i singoli reati‑fine
possano ritenersi avvinti dal nesso della continuazione con
il delitto associativo, che gli stessi siano stati specificamente
previsti e voluti fin dall’inizio, essendo sufficiente che rien‑
trassero nella generica prefigurazione del programma crimi‑
noso dell’associazione; né può, peraltro, escludersi che uno o
più reati‑fine siano stati in concreto concepiti ed individuati
fin dall’inizio, sempre – beninteso – nelle loro linee essenzia‑
li, come mezzi di attuazione del programma criminoso.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Esercizio arbitrario delle proprie ragioni: elemento soggetti‑
vo – Condizioni
(art. 393 c.p.)
Non costituisce dolo del delitto di estorsione, e il fatto va
qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni,
nell’ipotesi in cui l’autore della violenza o della minaccia
abbia agito nella convinzione ragionevole della legittimità
della propria pretesa, pur se è illecito il modo scelto dall’agen‑
te per realizzarla.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 10 febbraio 2011, n. 298
Pres. Napoletano, Est. Scermino
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Estorsione: elemento soggettivo – Contenuto
(art. 629 c.p.)
Il reato estorsione di cui all’art. 629 c.p. è punito a titolo di
dolo generico, poiché il conseguimento dell’ingiusto profitto
con altrui danno costituisce l’evento del fatto di reato, evento
che deve essere voluto dall’agente. Ed ai fini dell’integrazione
dell’elemento soggettivo del delitto di estorsione è richiesto
nell’agente la coscienza e volontà di procurarsi un ingiusto
profitto con altrui danno, accompagnato dalla coscienza e
volontà di adoperare la minaccia e/o la violenza a tale scopo.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 10 febbraio 2011, n. 298
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Estorsione: elemento soggettivo – Differenze con il delitto di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni
(art. 629 c.p. ‑393 c.p.)
Il criterio discretivo tra il reato di estorsione e quello di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni non è costituito
dalla materialità del fatto, che può essere identico in entram‑
be le ipotesi, ma dall’elemento psicologico, giacché mentre
nel primo reato l’agente mira a conseguire un profitto ingiu‑
sto con la consapevolezza che quanto pretende non gli è
dovuto, nel secondo, invece, l’agente è animato dal fine di
esercitare un preteso diritto con la coscienza che l’oggetto
della pretesa gli compete giuridicamente, anche se non oc‑
corre che il diritto, per il riconoscimento del quale è data
possibilità di ricorrere al giudice, sia realmente fondato.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 10 febbraio 2011, n. 298
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Inosservanza di provvedimenti dati dall’A.G.: ordine imparti‑
to – Caratteristiche
(art. 650 c.p.)
La contravvenzione di cui all’art. 650 c.p., prevede che la
inosservanza riguardi un ordine specifico, impartito ad un
soggetto determinato per ragioni di sicurezza o di ordine
pubblico o di igiene o di giustizia, in relazione a situazione
non prefigurate da alcuna specifica previsione normativa, che
comporti una autonoma sanzione. Pertanto, poiché l’art. 650
c.p. contiene una norma esclusivamente sanzionatoria
dell’inosservanza dei provvedimenti individuali, esso non è
applicabile all’inosservanza di leggi, regolamenti ordinanze
concernenti la generalità dei cittadini.
Trib. Nola, G.M. Scermino
sentenza 23 marzo 2011, n. 634
Inosservanza di provvedimenti dati dall’A.G.: conoscenza del
provvedimento – Necessità.
(art. 650 c.p.)
Ai fini della sussistenza del reato di inosservanza dei
provvedimenti dell’autorità, è pur sempre necessario che il
provvedimento sia stato previamente reso noto al soggetto
inottemperante e la relativa prova grava sull’accusa.
Trib. Nola, G.M. Scermino
sentenza 23 marzo 2011, n. 634.
Insolvenza fraudolenta: stato di dissimilazione – Presupposti.
(art. 641 c.p.)
2 0 1 1
73
La condotta di mancato pagamento del pedaggio auto‑
stradale, posta in essere mediante l’immissione sulla corsia
riservata ai possessori di tessera viacard, non integra il ma‑
teriale delitto di insolvenza fraudolenta, in quanto, da un
lato ne manca il presupposto, lo stato di insolvenza, che
sebbene la Corte di Cassazione ripeta, ormai con indirizzo
consolidato, la piena equiparazione al semplice inadempi‑
mento, consiste, invece, nell’impossibilità di adempiere.
Dall’altro mancherebbe comunque l’estremo della dissimila‑
zione dello stato de quo, che non può consistere in una sem‑
plice omissione, dovendosi, invece, risolvere nel celare l’im‑
possibilità di adempiere lasciando la parte lesa nell’ignoran‑
za, sine simulazione, vale a dire senza quella particolare
forma di frode che mira all’inganno, all’induzione in errore.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza 22 febbraio 2011, n. 951
Pres. Est. Giannelli
Lesioni personali: elemento soggettivo – Dolo generico – Carat‑
teristiche.
(art. 582 c.p.)
Ai fini dell’integrazione del dolo nel delitto di lesioni
personali non è necessario che la volontà dell’agente sia di‑
retta alla produzione di determinate conseguenze lesive, es‑
sendo sufficiente la consapevole volontà dell’agente medesi‑
mo di infliggere alla vittima una violenza fisica: basta,
quindi, il dolo generico, da reputarsi peraltro sussistente
anche nella forma eventuale qualora l’agente non solo si sia
rappresentato il concreto rischio che la violenza fisica alla
persona altrui possa determinare l’evento lesivo ma lo abbia
anche accettato, nel senso che si sia determinato ad agire
anche a costo di cagionarlo.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 10 febbraio 2011, n. 298
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Maltrattamenti in famiglia: elementi soggettivi ed oggettivi – Ca‑
rattere di abitualità – Presupposti e condizioni.
(art. 572 c.p.)
Ai fini della sussistenza degli elementi costitutivi oggetti‑
vi e soggettivi del delitto di maltrattamenti in famiglia, la
materialità del fatto deve consistere in una condotta abitua‑
le che si estrinsechi in una serie di più atti che determinano
sofferenze fisiche morali, realizzati in momenti successivi,
collegati tra loro da un nesso di abitualità ed avvinti, nei
loro svolgimento, da un’unica intenzione criminosa di ledere
l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli
abitualmente tali sofferenze. Ne consegue che per ritenere
raggiunta la prova dell’elemento materiale ditale reato, non
sono sufficienti singoli e sporadici episodi lesivi dell’incolu‑
mità personale, della libertà o della dignità di una persona
della famiglia. I fatti episodici lesivi di diritti fondamentali
della persona, derivanti da situazioni contingenti e partico‑
lari, che possono verificarsi nei rapporti personali di una
convivenza familiare, non integrano dunque il delitto di
maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di re‑
ati contro la persona.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 10 febbraio 2011, n. 298
Pres. Napoletano, Est. Scermino
penale
Gazzetta
74
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Mancata esecuzione di un provvedimento del Giudice: condotta
omissiva – Punibilità – Esclusione
(art. 388 c.p.)
La condotta di elusione punita dalla norma in esame non
può essere integrata da un mero comportamento omissivo - e
quindi dal semplice rifiuto di dare attuazione al provvedi‑
mento o comunque dalla mera inerzia dell’obbligato - ma è
necessario un comportamento attivo del soggetto agente
volto ad impedire o, quanto meno, a rendere difficile il risul‑
tato concreto cui tende il provvedimento giudiziale. Nella
specie è stato ritenuto insussistente il reato nella condotta di
aver fatto circolare cani senza guinzaglio a fronte di un prov‑
vedimento che ne ordinava il contrario.
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 28 gennaio 2011, n. 57
Rapina: aggravante di più persone riunite – Condizioni
(art. 628 co. 3 c.p.)
Per l’aggravante delle più persone riunite,.occorre la si‑
multanea ed effettiva presenza dei correi nel luogo e nel
momento in cui viene posta in essere la violenza o la minac‑
cia, derivando la ragione dell’aggravamento non già dalla
maggiore pericolosità insita nella partecipazione di più sog‑
getti nel medesimo reato, ma dal maggiore effetto intimida‑
torio che la presenza di più persone esercita sull’’animo o
sulla volontà della vittima.
Trib. Napoli, G.U.P. Miranda
sentenza 31 gennaio 2011, n. 229
Rapina: aggravante dell’uso di arma – Rinvenimento – Necessi‑
tà – Esclusione
(art. 628 co. 3 n. 1 c.p.)
Il mancato rinvenimento della pistola, se preclude la
configurabilità dei reati di detenzione e porto illegale di arma
comune da sparo non esclude la configurabilità dell’aggra‑
vante atteso che, in virtù della previsione dell’ u.c. dell’art. 5
della l. n. 110/1975, l’uso o il porto fuori della propria abi‑
tazione di una pistola giocattolo assume rilevanza penale ai
fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 628,
co. 3, n. 1 c.p.
Trib. Napoli, G.U.P. Miranda
sentenza 31 gennaio 2011, n. 229
Rapina: aggravante del travisamento – Modalità
(art. 628 co. 3 c.p.)
Ai fini della sussistenza della circostanza aggravante del
travisamento è sufficiente una lieve alterazione dell’aspetto
esteriore che può essere conseguita con qualsiasi mezzo,
rendendo difficoltoso il riconoscimento della persona stessa.
Nella specie è stata riconosciuta l’aggravante per aver gli
imputati coperto il viso con il collo delle felpe indossate.
Trib. Napoli, G.U.P. Miranda
sentenza 31 gennaio 2011, n. 229
Rapina: minaccia – Condizioni e natura
(art. 628 c.p.)
Deve considerasi minaccia la l’intimazione a “non fare lo
scemo” pronunciata contemporaneamente all’apposizione di
un braccio sulla spalla della vittima, in maniera tale da far
percepire il contatto fisico.
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 22 febbraio 2011, n. 128
Rapporto di causalità: sussistenza – Presupposti
(art. 40 c.p.)
Per determinare la responsabilità di un soggetto non basta
individuare la violazione da parte sua di una qualche regola
cautelare di condotta, ma è altresì necessario che sia rinvenibi‑
le un rapporto di causalità tra tale violazione e l’evento in
concreto verificatosi.
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 2 novembre 2010, n. 446
Rapporto di casualità: elemento soggettivo – Formula assolutoria
(art. 40‑41 c.p.)
Nei casi in cui il nesso di causalità fisica tra la condotta
dell’imputato e l’evento, rilevante ai sensi degli artt. 40 e 41
c.p., non è seriamente in discussione (ovvero se l’imputato
non si fosse trovato, alla guida del suo veicolo, sulla traietto‑
ria assunta dal veicolo della vittima, l’evento non si sarebbe
verificato, oppure si sarebbe verificato in maniera diversa), la
formula di proscioglimento da utilizzare è “perché il fatto non
costituisce reato”; ciò in quanto ciò che manca è il requisito
richiesto dall’art. 43 c.p. per poter formulare un addebito a
titolo di colpa, motivo per il quale la formula assolutoria
deve essere quella sopra evidenziata.
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 2 novembre 2010, n. 446
Reato colposo: evento – Evitabilità e prevedibilità – Condizioni e
requisiti
(art. 43 c.p.)
La formulazione dell’art. 43 c.p. richiede espressamente,
per l’addebito a titolo di colpa, che la violazione della regola
cautelare sia stata causa dell’evento (“il delitto…è colposo, o
contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non
è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o impru‑
denza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamen‑
ti, ordini o discipline”); solo in tal caso è possibile formulare
quel giudizio di evitabilità dell’evento mediante il rispetto della
regola cautelare che, unitamente al requisito della prevedibilità
dell’evento stesso, viene pacificamente ritenuto, da dottrina e
giurisprudenza, fondante del rimprovero a titolo di colpa.
Trib. Nola, G.U.P. Rizzi Ulmo
sentenza 2 novembre 2010, n. 446
Ricettazione: abrasione del numero identificativo di un veico‑
lo – Configurabilità
(art. 648 c.p.)
Il possessore di un veicolo, alterato nella parte riservata
alla sua identificazione, deve essere ritenuto autore quanto
meno del reato di ricettazione se non dimostri la legittimità
del possesso, in quanto l’abrasione di un marchio di fabbrica
ha pieno valore ai fini della dimostrazione della provenienza
illecita dell’oggetto e della conoscenza di essa da parte dei
possessore, costituendo sicuro indice presuntivo della sottra‑
zione al legittimo proprietario secondo la regola generale di
esperienza e 1’ “id quod plerumque accidit” laddove è noto
che ai fini della configurabilità del reato di ricettazione non
si richiede l’accertamento giudiziale del delitto presupposto,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia di esso, essendo
sufficiente che sia raggiunta la prova logica della provenien‑
za illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 2 marzo 2011, n. 230
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Ricettazione: elemento soggettivo – Criteri di accertamento
(art. 648 c.p.)
Ai fini del reato di ricettazione, la consapevolezza
dell’agente può ricavarsi da qualsiasi elemento, e, in partico‑
lare, dalla sua peculiare natura, in quanto tale da ingenerare
in una persona di media levatura la certezza che la cosa non
poteva essere legittimamente posseduta da chi la deteneva
ovvero, anche, dall’omessa – o non attendibile – indicazione
della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente
rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spie‑
gabile con un acquisto in mala fede.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 2 marzo 2011, n. 230
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Stralking: condotta punibile – Presupposti
(art. 612 bis c.p.)
Integrano il reato di stalking tutti quei comportamenti
che assumano un carattere intrusivo nella vita privata altrui,
mediante le condotte assimilabili alla minaccia ed alla mole‑
stia, con esclusione della violenza. Il legislatore ha individua‑
to la condotta nella minaccia e nella molestia reiterate, il che
rende evidente come dal fatto tipico siano stati esclusi, per
definizione legislativa, i fatti connotati da violenza. Detti
fatti, beninteso, trovano già in altre norme un’adeguata san‑
zione, per cui è evidente che il legislatore non ha affatto
operato quella che altrimenti sarebbe stata una mera dupli‑
cazione normativa, ma ha voluto colpire tutti quei compor‑
tamenti che assumano un carattere intrusivo nella vita pri‑
vata altrui, con un richiamo esplicito alla tipologia delle
condotte assimilabili alla minaccia ed alla molestia.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Stralking: elementi costitutivi e struttura del reato
(art. 612 bis c.p.)
Il reato è sicuramente un delitto di evento, che non si
esaurisce nella reiterazione delle condotte persecutorie, ma
si perfeziona con la realizzazione di uno degli eventi descrit‑
ti dalla disposizione, ossia: un perdurante e grave stato d’an‑
sia o di paura, ovvero un fondato timore per l’incolumità
propria o di un prossimo congiunto o di altra persona a cui
si è legati da un vincolo affettivo, ovvero ancora la costrizio‑
ne all’alterazione delle abitudini di vita.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Stralking: natura di delitto di evento
(art. 612 bis c.p.)
Il richiamo alle minacce ed alle molestie non rende facile
ed agevole l’individuazione delle condotte penalmente rilevan‑
2 0 1 1
75
ti, atteso che le stesse minacce possono essere attuate con
molteplici modalità, ed ancor più evanescente appare la mole‑
stia se solo si pensi alle molteplici manifestazioni intrusive
nella vita altrui, il cui carattere molesto dipende spesso dalle
peculiari condizioni soggettive della persona offesa ovvero
dalla sua diversa sensibilità o capacità di percepire come intru‑
sivi comportamenti apparentemente neutri. Ne deriva quindi
che, oltre al requisito della reiterazione, anch’esso di per sé
indeterminato in quanto non ancorabile ad un arco temporale
predeterminato né ad una indice numerico che determini la
quota minima di comportamenti intrusivi penalmente rilevan‑
ti, il legislatore, per evitare un’eccessiva dilatazione della fatti‑
specie penalmente rilevante rispetto ad una realtà fenomeno‑
logica praticamente indefinibile, e quindi una sostanziale
compromissione dei principi di tassatività e di determinatezza,
ha strutturato la fattispecie come delitto di evento per la cui
consumazione, cioè, è richiesta la produzione, alternativamen‑
te, di uno degli eventi indicati nell’art. 612 bis, c.p.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Stalking: ripetitività e serialità della condotta – Requisito essen‑
ziale.
(art. 612 bis c.p.)
Sebbene la Cassazione abbia precisato, in relazione alla
fattispecie di cui all’art. 612 bis, c.p., che anche solo due
condotte di minaccia o molestia siano sufficienti per la con‑
sumazione del reato (Cass., Sez. V, 21 gennaio 2010, Olivie‑
ro), appare evidente che l’uso normativo dell’aggettivo “rei‑
terate” implichi sicuramente condotte non sporadiche e fre‑
quenti nel tempo; in altre parole la serialità appare evidente‑
mente un requisito essenziale dell’incriminazione, non
comprendendosi, altrimenti, la differenza tra il reato conti‑
nuato di molestie di cui all’art. 660 c.p., o il reato continua‑
to di minacce di cui all’art. 612 c.p. e quello di atti persecu‑
tori di cui all’art. 612 bis, c.p.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Truffa: presupposti e condotta punibile.
(art. 640 c.p.)
La condotta di mancato pagamento del pedaggio auto‑
stradale, posta in essere mediante l’immissione sulla corsia
riservata ai possessori di tessera viacard, non integra il delit‑
to di truffa, poiché non possono ravvisarsi gli artifici di cui
all’art. 640 c.p.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza 22 febbraio 2011, n. 951
Pres. Est. Giannelli
Procedura penale
Dibattimento: deposizione della parte offesa – Modalità di con‑
duzione delle istruttoria da parte del giudice.
(art. 499 c.p.p.)
È indispensabile considerare che in tutti i processi, ed a
maggior ragione in quelli coinvolgenti delicate e complesse
penale
Gazzetta
76
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
realtà basate su relazioni interpersonali, si dovrebbero evita‑
re la formulazione di domande già contenenti le risposte, in
quanto la facilità con cui si ottiene una risposta non implica
necessariamente una automatica valutazione di attendibilità
del teste, soprattutto allorquando la complessiva lettura del‑
la deposizione presenta poi evidenti lacune, contraddizioni,
affermazioni palesemente contrastanti, imprecisioni e vaghez‑
ze in relazione alla collocazione spazio – temporale delle
singole vicende. Ciò sarebbe auspicabile soprattutto allor‑
quando a deporre è un minore, altresì persona offesa, ove ai
fini della valutazione di attendibilità del teste tutti i possibili
scenari (molteplici influenze e pressioni in astratto esercitate
dalla presenza in aula dell’imputato, influenza o dalle pres‑
sioni più o meno consapevolmente esercitate dall’ambiente
familiare, ovvero ancora dalla condizione psicologica causa‑
ta dal trovarsi in un’aula di giustizia e, quindi, dall’inconsa‑
pevole desiderio di compiacere l’Autorità Giudiziaria alla
quale si devono fornire delle risposte) devono essere tenuti
ben presenti tanto da indurre il Giudicante ad essere quanto
più asettico possibile nel formulare domande, tentando piut‑
tosto di provocare una narrazione diretta e spontanea da
parte del teste, anziché procedere con domande specifiche che
consentano al minore una parziale elusione di una narrazione
completa attraverso il ricorso a semplici affermazioni.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Intercettazioni: chiamata in correità – Equiparazione – Esclusione.
(art. 192 co. 3 c.p.p.)
Il contenuto di una intercettazione, anche qualora si ri‑
solva in una precisa accusa in danno di una terza persona,
indicata come concorrente in un reato, alla cui consumazio‑
ne taluno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non
è in alcun modo equiparabile alla chiamata in correità e,
pertanto, se va anch’esso attentamente interpretato sul piano
logico e rigorosamente valutato su quello probatorio, non è
soggetto, però, nella predetta valutazione, ai canoni di cui
all’art. 192, comma terzo, c.p.p.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Intercettazioni: incomprensione di parole o frasi – Vaglio – Criteri.
(art. 192 c.p.p.)
Debbono essere sottoposte ad un vaglio più attento e ri‑
goroso quelle intercettazioni (soprattutto ambientali) nelle
quali non e’ stato possibile comprendere alcune frasi o anche
singole parole. Può accadere, infatti che la mancata compren‑
sione di talune frasi stravolga o, comunque, modifichi sostan‑
zialmente il significato dell’intercettazione, non permettendo
di seguire i vari passaggi della conversazione, con il rischio
concreto di stabilire collegamenti tra soggetti e fatti non ri‑
spondenti al reale tenore della conversazione.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Intercettazioni: genuinità delle conversazioni – Interpretazione.
(art. 192 c.p.p.)
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Altro requisito che incide in modo significativo sull’inter‑
pretazione delle intercettazioni e’ costituito dalla genuinità
delle stesse: è, infatti, del tutto diversa la situazione di chi
venga intercettato senza sospettare di esser ascoltato da ter‑
zi da quella di chi, sapendo o semplicemente sospettando di
essere ascoltato, modifichi, anche solo parzialmente, il con‑
tenuto delle proprie dichiarazioni o adotti particolari accor‑
gimenti atti ad incidere, anche sensibilmente, sulla comple‑
tezza o sulla chiarezza del contenuto della conversazione.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Intercettazioni: uso di linguaggio criptico – Modalità e criteri di
interpretazione.
(art. 192 c.p.p.)
La mancanza del requisito della chiarezza richiede un
ulteriore sforzo interpretativo nel caso in cui gli interlocuto‑
ri utilizzino un linguaggio convenzionale o criptico od in
quello parzialmente sovrapponibile – in cui il contenuto
della conversazione sia interpretabile anche in modo alter‑
nativo a quello proposto nella tesi accusatoria e non vi siano
elementi concreti per adottare un’interpretazione sicuramen‑
te accusatoria. Sotto il primo profilo (linguaggio convenzio‑
nale) l’utilizzo di termini che non trovano una spiegazione
coerente e logica con l’oggetto della conversazione e che,
invece, possono esser spiegati unicamente in modo aderente
all’ipotesi accusatoria, autorizza il Giudice ad una interpre‑
tazione diversa da quella apparente, attribuendo alle parole
pronunciate dagli interiocutori il loro effettivo e reale signi‑
ficato, cioè quello a cui i soggetti intercettati intendevano
implicitamente riferirsi.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Intercettazioni: significato delle espressioni utilizzate – Criteri di
desumibilità.
(art. 192 c.p.p.)
Ogniqualvolta ricorrano, in una conversazione, termini
che non possono trovare alcuna plausibile spiegazione se ri‑
feriti al tema apparente del discorso e posseggano, invece, un
significato univoco nel contesto ipotizzato dall’accusa, è del
tutto ragionevole attribuire agli stessi un tale significato, con
conseguente affermazione di responsabilità a carico dell’im‑
putato o degli imputati. Capita, tuttavia, che determinati
termini ripetutamente utilizzati in modo sicuramente conven‑
zionale assumano significati diversi a seconda del contesto in
cui vengono pronunciati o delle persone che li pronunciano.
In tal caso, il significato di tali termini dovrà essere necessa‑
riamente ricavato, di volta in volta, da altri elementi idonei
a chiarire l’effettiva intenzione degli interlocutori. Nel secon‑
do dei casi sopra prospettati (possibilità di interpretazione
alternativa) la scelta del significato da attribuire ad una frase
o ad una conversazione non può fondarsi unicamente sulle
mere deduzioni investigative della p.g. (spesso effettuate anche
sulla base di informazioni confidenziali, non utilizzabili in
giudizio in quanto tali) ma deve trovare adeguata motivazio‑
ne sulla base degli atti che concorrono a formare il patrimonio
conoscitivo legittimamente utilizzabile dal Giudicante.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Intercettazioni: riferibilità della conversazione a determinati
soggetti – Criteri di accertamento.
(art. 192 c.p.p.)
Preliminare ad ogni valutazione in ordine al contenuto
delle intercettazioni è l’accertamento della sicura riferibilità
di una conversazione telefonica o ambientale a determinati
soggetti. Per quanto riguarda le intercettazioni telefoniche,
l’accertamento deve necessariamente basarsi su elementi di
fatto, quali l’intestazione formale dell’utenza; il riferimento
espresso al nome o a “qualità” personali del soggetto; i rap‑
porti accertati tra l’intestatario dell’utenza e l’utilizzatore
effettivo di essa, i riscontri operati dalla Polizia Giudiziaria.
Una volta effettuato positivamente l’accertamento della rife‑
ribilità dell’utenza intercettata ad un determinato soggetto è
possibile attribuire al medesimo soggetto, anche le conversa‑
zioni per le quali non vi sia uno specifico riferimento all’iden‑
tificazione dell’interlocutore, salvo che non vi siano elementi
concreti per ritenere che l’utenza sia stata utilizzata da perso‑
na diversa.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Intercettazioni: individuazione degli interlocutori –Modalità.
(art. 192 c.p.p.)
Nel caso – frequente – nel quale i soggetti intercettati si
riferiscano a fatti o terze persone indicandoli solo generica‑
mente (ad esempio con il solo nome di battesimo, senza altre
indicazioni, o con il soprannome) o, comunque, senza forni‑
re elementi certi per una loro individuazione, spetta all’inter‑
prete evidenziare gli elementi, riferibili ad atti del procedi‑
mento, che permettono di individuare nella tal persona o nel
tal fatto, il riferimento contenuto nella conversazione inter‑
cettata.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Prova: chiamata in correità – Credibilità – Requisiti.
(art. 192 c.p.p.)
La chiamata di correo, che deve avere i requisiti della
credibilità e dell’attendibilità intrinseca, ha valore di prova e
non di mero indizio, sempre che venga confermata nella sua
attendibilità da ‘altri elementi di prova’ (che devono essere
tanto più consistenti quanto meno radicale sia l’accertamen‑
to sulla credibilità e sull’attendibilità intrinseca, e viceversa);
e gli altri elementi di prova possono essere di qualsiasi tipo e
natura, purché logicamente idonei alla conferma dell’atten‑
dibilità, conferma che deve, poi, riguardare la complessiva
dichiarazione del coimputato relativamente all’episodio cri‑
minoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non
ciascuno dei punti riferiti dal dichiarante.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
2 0 1 1
77
Prova: dichiarazione di imputati di reati connessi e/o collega‑
ti – Attendibilità intrinseca ed estrinseca – Criteri.
(art. 192 c.p.p.)
Le dichiarazioni dei coimputati o degli imputati di reato
connesso o collegato devono sottostare a un doppio vaglio di
attendibilità, sia intrinseca che estrinseca. L’attendibilità
intrinseca afferisce propriamente alla credibilità in sé e per
sé del dichiarante e della dichiarazione stessa e, pertanto, la
sua verifica postula un duplice controllo: l’uno, di carattere
soggettivo, cade sulla fonte delle dichiarazioni e riguarda la
credibilità della persona che le rende anche nei rapporti coi
destinatari delle dichiarazioni medesime; l’altro, di natura
oggettiva, concerne i contenuti e le caratteristiche della di‑
chiarazione stessa. L’attendibilità estrinseca attiene, invece,
a quegli “altri elementi di prova” che devono corroborare
dall’esterno la dichiarazione di cui trattasi.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Prova: chiamata di correo – Attendibilità intrinseca – Criteri di
valutazione.
(art. 192 c.p.p.)
Per quanto concerne la valutazione dell’attendibilità in‑
trinseca afferente al profilo soggettivo di essa e, dunque, alla
credibilità del dichiarante, vengono in rilievo la personalità e
il passato esistenziale e delinquenziale del dichiarante, che
giocano in senso favorevole al giudizio di credibilità nella
misura in cui denotano la possibilità di costui di essere effet‑
tivamente al corrente della verità per avere concorso a com‑
mettere il reato o averne avuto comunque conoscenza. E
sotto tale profilo, versandosi in materia di reati associativi,
assume ovviamente particolare rilievo l’accertato inserimento
nel sodalizio criminale de quo – specie se con un ruolo non
marginale – o almeno nel contesto malavitoso in cui quel so‑
dalizio gravita ed è radicato. Non vale, invece, a escludere la
credibilità del dichiarante l’apprezzamento negativo della sua
personalità relativo al fatto che si tratta, ordinariamente, di
un soggetto responsabile di gravi delitti: infatti, tale profilo
della personalità è una “connotazione comune a quasi tutti gli
imputati dello stesso reato o di reati connessi, connotazione
tenuta presente dai legislatore nel subordinare la rilevanza di
tali fonti di prova ad una puntuale verifica circa i ‘attendibili‑
tà intrinseca della chiamata e la presenza di riscontri esterni.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Prova: chiamata di correo – reati associativi – Riscontri estrinse‑
ci – Caratteristiche.
(art. 192 c.p.p.)
La dichiarazione accusatoria de relato, resa da un colla‑
boratore di giustizia può integrare la prova della colpevolez‑
za solo se è sorretta da adeguati riscontri estrinseci che ri‑
guardino specificatamente il fatto che forma oggetto dell’ac‑
cusa e la persona dell’incolpato. Ciò, in quanto, il minore
tasso di affidabilità di una dichiarazione resa su accadimen‑
ti non direttamente percepiti dal dichiarante rende necessaria
l’individualizzazione del riscontro. Al riguardo, in materia
di reati associativi, deve sottolinearsi che non possono con‑
penale
Gazzetta
78
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
siderarsi dichiarazioni de relato, quelle con le quali si riferisca
in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e le attività di
un sodalizio criminoso, dei quali il dichiarante sia venuto a
conoscenza nella sua qualità di aderente, ancor più se collo‑
cato in posizione di vertice nell’ambito del medesimo sodali‑
zio. Soprattutto nel caso di associazioni caratterizzate da un
ordinamento a base gerarchica, si crea un patrimonio cono‑
scitivo derivante da un flusso di informazioni, dello stesso
tipo di quello che si produce, di regola, in ogni organismo
associativo, relativamente ai fatti di interesse comune.
Trib. Nola, coll. D)
sentenza 23 dicembre 2010, n. 1912
Pres. Est. Bruno
Rito abbreviato – Utilizzabilità di dichiarazioni rese dall’imputato
in assenza di difensore – Presupposti
(art. 191 c.p.p.)
Le dichiarazioni rese dall’indagato, in assenza del difen‑
sore sono utilizzabili in sede di giudizio abbreviato nei con‑
fronti del coimputati, in quanto qualificabili come dichiara‑
zion spontanee sottratte alle regole generali per l’interroga‑
torio previste dall’art. 64 c.p.p.
Trib. Napoli, G.U.P. Miranda
sentenza 31 gennaio 2011, n. 229
Sentenza: obbligo di motivazione – Assolvimento – Criteri
(art. 546 c.p.p.)
Sussiste il divieto di fondare il proprio convincimento su
criteri e chiavi interpretativi mutuati da altre discipline, ossia
quelle psicologiche e sociologiche deputate all’analisi delle
problematiche comportamentali adolescenziali in relazioni
sia a dinamiche familiari complesse ed anche conflittuali che
a fenomeni di presunta devianza, ma deve fondarlo sul rigo‑
roso vaglio dell’effettivo grado di inferenza delle massime di
esperienza elaborate dalle discipline socio‑criminologiche e
deve, soprattutto, stabilire la piena rispondenza delle citate
massime di esperienza alle specifiche e peculiari risultanze
probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l’impre‑
scindibile e determinante strumento per la ricostruzione dei
fatti dedotti nel singolo processo. Detto principio va ribadito
fortemente proprio in relazione a fattispecie che, come quel‑
la di cui all’art. 612 bis, c.p., sono caratterizzate da una
evidente indefinitezza della fattispecie descrittiva e si presta‑
no, quindi, ad essere riempite di contenuti derivanti da con‑
testi speculativi del tutto diversi, con il rischio concreto di
calare nella sede processuale schemi interpretativi del tutto
eccentrici i quali, sotto la veste della massima di esperienza,
diano spazio, in realtà, all’arbitrio dell’interprete ed all’elu‑
sione del dovere di motivare.
Corte di Appello Napoli, Sez. II,
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Sentenza: valutazione probatoria – Componente emotiva – Esclu‑
sione
(art. 546 c.p.p.)
La valutazione processuale dei fatti deve essere accompa‑
gnata dal massimo rigore critico ed argomentativo, in quan‑
to una cosa è la comprensione umana delle situazioni in cui
un soggetto si trova, altra cosa è la valutazione dell’attendi‑
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
bilità del soggetto stesso che, proprio perché coinvolto in
prima persona, può dare delle vicende una descrizione di
impronta estremamente soggettivistica, inconsapevolmente
drammatizzando o esagerando i fatti, attribuendo agli stessi
la colorazione derivante dalla personale modalità con cui ha
vissuto quelle vicende e l’impatto psicologico che le stesse
hanno avuto su di lei. Compito del Giudice è appunto quello
di estrapolare la componente emotiva di una deposizione dai
fatti che possano, secondo una’analisi critica, assurgere al
ruolo di prova; se infatti appare evidente che il risultato di
qualsiasi verifica probatoria non sia riconducibile ad una
individuazione di una verità epistemologicamente oggettiva
ed inconfutabile, altrettanto evidente è che il materiale fat‑
tuale utilizzato dal giudice per la decisione non può consiste‑
re nella passiva ricezione di determinate emergenze a prescin‑
dere da qualsiasi dialettica probatoria, rischiando, in tal caso,
di incorrere nella censura di cui all’art. 546, comma 1, lett.
e), c.p.p.; ne deriva, quindi, che l’acquisizione e la valutazio‑
ne probatoria, procedimenti complessi dal punto di vista
conoscitivo, non possono risolversi in un mero cerimoniale
tautologico che escluda la possibilità di considerare le risul‑
tanze processuali in senso difforme da una ricostruzione
della vicenda processuale aprioristicamente condivisa dal
giudice.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza, 15 luglio 2010, n. 5130
Pres. Ingala, Est. Catena
Valutazione della prova: silenzio dell’imputato – Significato.
(192 c.p.p.)
L’imputato può non rispondere su fatti leggibili contra se
e negare la propria responsabilità anche contro l’evidenza,
tuttavia al giudice non è precluso valutare la condotta pro‑
cessuale del giudicando, coniugandola con ogni altra circo‑
stanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella forma‑
zione del libero convincimento, può ben considerare, in
concorso di altre circostanze, la portata significativa del si‑
lenzio mantenuto dall’imputato, su circostanze potenzial‑
mente idonee a scagionarlo.
Trib. Nola, coll. B)
sentenza 2 marzo 2011, n. 230
Pres. Napoletano, Est. Scermino
LEGGI PENALI SPECIALI
Acque reflue: nozione di scarico – Autorizzazioni – Presupposti.
(d.l. 152/2006 – d.lgs. 4/2008)
La nuova definizione di scarico con la pubblicazione
sulla Gazzetta ufficiale del d.lgs. 16/1/2008 n. 4, è qualsiasi
immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema
stabile di collettamento che collega senza soluzione di conti‑
nuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo recettore
in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fogna‑
ria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche
sottoposte a preventivo trattamento di depurazione.
Trib. Nola, G.M. Capasso
sentenza 23 marzo 2011, n. 622
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Stupefacenti: aggravante dell’ingente entità – Criterio di riferi‑
mento.
(art. 80 co. 2 d.P.R. 309/90)
L’aggravante della ingente quantità va ancorata ad un
dato ponderale riscontrabile in concreto, e quindi ricollegabi‑
le a determinati quantitativi di sostanza caduta in sequestro.
Infatti la qualifica di “ingente” è sempre ricollegabile ad un
quantitativo qualitativamente individuabile e quantificabile
dal punto di vista ponderale escludendosi, contemporanea‑
mente, la necessità di far ulteriore riferimento al mercato ed
alla sua eventuale saturazione.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza 30 giugno 2010, n. 4832
Pres. Maddalena, Est. Catena
Stupefacenti: aggravante dell’ingente entità – Modalità di accer‑
tamento.
(art. 80 co. 2 d.P.R. 309/90)
In tema di stupefacenti, ai fini del riconoscimento dell’ag‑
gravante della detenzione di quantità ingente, il giudice deve
tener conto sia della qualità della sostanza, con riferimento
alla sua purezza e alla conseguente idoneità ad essere ‘taglia‑
ta’ per il confezionamento delle dosi, sia della quantità della
sostanza medesima sotto il profilo dell’idoneità a soddisfare
2 0 1 1
79
un vasto numero di consumatori per un periodo congrua‑
mente lungo, con un significativo impatto sul mercato.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza 30 giugno 2010, n. 4832
Pres. Maddalena, Est. Catena
Spaccio di sostanze stupefacenti: mera presenza sul luogo del
delitto – Concorso di persone – Condizioni.
(art. 73 d.P.R. 309/90 – art. 110 c.p.)
La mera presenza sul luogo di esecuzione del reato è
sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione cri‑
minosa purché non sia meramente casuale e riveli una
chiara adesione alla condotta delittuosa, realizzando, cioè,
un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del
reato ovvero rafforzandone l’operato, sempre che il concor‑
rente morale si sia rappresentato l’evento del reato ed abbia
partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa
uguale a quella dell’autore materiale del reato, non poten‑
dosi peraltro desumere dalla sola presenza fisica, che si
mantenga in termini di passività o connivenza, alcuna uni‑
voca rilevanza.
Corte di Appello Napoli, Sez. II
sentenza 30 giugno 2010, n. 4832
Pres. Maddalena, Est. Catena
penale
Gazzetta
Diritto amministrativo
Le occupazioni di immobili da parte della P.A. tra normativa e giurisprudenza
82
Aldo Niccoli
Difesa civica e mediazione dopo la Finanziaria 2010.
Motivazione della nomina del difensore civico 82
Pierangelo Bonanno e Giuseppe Pedersoli
L'interpello costituisce un segmento della precedente gara d'appalto
Nota a Tar Campania – Napoli, Sez. VIII, sentenza 10 novembre 2010, n. 23753
92
Angela Libardi
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici, di lavori, servizi e forniture
100
amministrativo
A cura di Almerina Bove
82
d i r i t t o
●
Le occupazioni di immobili
da parte della P.A.
tra normativa
e giurisprudenza
● Aldo Niccoli
Conservatore dell’Archivio notarile di Napoli
Arbitro del lavoro pubblico
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
SOMMARIO: 1. Gli istituti dell’occupazione e della requisi‑
zione – 2. Le occupazioni illegittime – 3. L’occupazione coat‑
tiva sanante – 4. La sentenza 293/2010 della Corte Costitu‑
zionale – 5. Effetti della sentenza e prospettive de iure con‑
dendo
1. Gli istituti dell’occupazione e della requisizione
Per poter svolgere la cd. funzione pubblica, con riferimen‑
to al rapporto tra amministrazione e cittadini sovente gli enti
pubblici o strutture incaricate di svolgere attività di interesse
pubbliche si avvalgono di procedure espropriative di beni
privati (per costruire o ampliare autostrade, ferrovie, viadotti,
etc.).
In tale quadro operativo, ma anche al di fuori di esso,
esistono varie tipologie di occupazioni degli immobili, alcune
con chiaro fondamento normativo, altre di creazione pretoria;
ben altra cosa sono, infine, situazioni meramente fattuali, che
risultano prive di ogni fondamento giuridico.
Ad esempio, in linea generale sono ammesse e disciplinate
dalla legge l’occupazione d’urgenza come pure la requisizione,
mentre altre situazioni sono dalla stessa legge ritenute illegit‑
time, quale l’occupazione appropriativa o sine titulo.
In particolare, la requisizione in uso di immobili e l’occu‑
pazione d’urgenza ai fini espropriativi sono due istituti ritenu‑
ti pienamente legittimi e regolati secondo modalità che li ren‑
dono molto simili, in quanto simili ne sono i presupposti. Essi
consistono entrambi in una privazione temporanea del godi‑
mento del bene, fondata su di una particolare situazione di
urgenza. L’obbligo di rispettare il principio di legalità, che li
lega alla temporaneità e alla reversibilità dell’utilizzo del bene,
sono presupposti inderogabili in entrambe le fattispecie.
La distinzione tra requisizioni e occupazioni è stata tradi‑
zionalmente individuata nella diversa finalità dei due istituti:
l’occupazione, preordinata direttamente alla realizzazione di
un’opera pubblica o comunque ausiliaria e strumentale al suo
compimento, la requisizione che usa del bene nello stato in cui
si trova e per la sua intrinseca utilità, di norma senza necessi‑
tà di altri interventi.
Alla luce del T.U. espropriazioni1, che ha destituito di ogni
fondamento la figura dell’occupazione esclusivamente preor‑
dinata all’esproprio, come in precedenza elaborata da dottrina
e giurisprudenza, si è infine concretizzata una piena assimila‑
zione funzionale dei due istituti.
Nell’ambito del fenomeno”occupazione” occorre comun‑
que distinguere, in quanto sovente si hanno occupazioni ma‑
teriali dei beni oggetto di una procedura di espropriazione,
che possono avere natura preliminare (prevista dall’art. 22 bis
d.P.R. 327/2001, ove, da ragioni di particolare urgenza sia
instaurato con decreto motivato un procedimento volto ad
acquisire i beni necessari senza particolari indagini e formali‑
tà, anticipando gli effetti dell’espropriazione) ovvero strumen‑
tale (prevista dall’art. 49 d.P.R. 327/2001, ove sia necessario
per la corretta esecuzione dei lavori previsti dal piano espro‑
priativo, ed anche nei confronti di aree non soggette al proce‑
dimento espropriativo).
1Il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espro‑
priazione per pubblica utilità è stato emanato con d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,
poi successivamente integrato e modificato da altre disposizioni.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
2. Le occupazioni illegittime
Orbene, anche se, eliminando le occupazioni preordinate
all’esproprio, il T.U. del 2001 non ammette ipotesi di occupa‑
zione acquisitiva o usurpativa, di fatto la condizione del radi‑
cale stravolgimento della cosa potrebbe ricrearsi anche in una
ipotesi di legittima requisizione2.
L’acquisizione appropriativa o usurpativa a seguito di
occupazione e trasformazione irreversibile del bene, dà luogo
ad accessione invertita (art. 938 c.c.) e ad appropriazione il‑
legittima del suolo da parte della P.A., che ha operato nono‑
stante l’assenza ab initio del provvedimento autorizzativo o
nonostante il decorso dei relativi termini di efficacia. In tale
situazione, la P.A. acquista a titolo originario il bene ed il
proprietario spogliato del suo diritto dominicale ha titolo non
più per una retrocessione, ma sicuramente per il risarcimento
del danno patito ai sensi dell’art. 2043 c.c., da esercitare nel
termine prescrizionale di cinque anni3.
In materia, rilevante è la pronuncia della Consulta
n. 188/1995, che ha ritenuto l’acquisto come legittimo in
quanto non effetto diretto dell’illecito ex 2043 c.c., ma della
situazione fattuale creatasi e consistente nella inutilizzabilità
del bene da parte del privato4.
Più di recente, in giurisprudenza si è voluto fornire una
ricostruzione adeguata all’istituto, per cui si ritiene che l’oc‑
cupazione acquisitiva è quella che presuppone il riferimento
alla nozione di ultimazione sostanziale dell’opera pubblica
programmata in grado di imprimere al bene occupato altera‑
zioni fisiche e funzionali non emendabili, per cui deve conclu‑
dersi che il bene subisce un’irreversibile trasformazione ad
opera pubblica quando l’opera assume di fatto le caratteristi‑
che proprie della categoria di beni cui appartiene5.
L’occupazione usurpativa, invece6, ha riguardo ad aree
occupate in assenza di originaria dichiarazione di pubblica
utilità7, per cui l’acquisizione del bene alla mano pubblica non
2Va detto, in effetti, che la requisizione può essere disposta ai sensi dell’art. 7 l.
2248/1865 all. E, mediante strumenti di urgenza, il che le assimila del tutto
alle ordinanze necessitate. Mancando, in tale norma, ogni indicazione sul
procedimento, presupposti, e competenza ad emanare tali ordinanze, e non
soccorrendo in proposito il disposto dell’art.49 del T.U., resta il dubbio che
tali requisizioni, da taluni definite sostanziali in contrapposizione rispetto a
quelle formali, siano uno strumento eccessivo a disposizione dei sindaci, nelle
materie loro delegate dalla vigente disciplina.
Inoltre, in concreto potrebbe accadere che, in pendenza di una requisizione di
aree per insediamenti abitativi provvisori, si verifichi una radicale trasforma‑
zione del bene, tale da rendere contraria ad equità una sua mera restituzione al
proprietario; infine, di fatto il bene stesso potrebbe trovarsi utilizzato, al di
fuori delle originarie previsioni, per il compimento di un’opera pubblica.
3In caso di occupazione appropriativa finalizzata all’espropriazione per pubbli‑
ca utilità, i criteri di liquidazione dell’indennità, a seguito della modifica legi‑
slativa di cui alla Legge 244/2007 (art. 2, comma 89), prevedono che il risarci‑
mento sia commisurato al valore venale del bene, e ciò vale anche per i proce‑
dimenti in corso per i quali non è stato emesso valido decreto di esproprio alla
data del 30 giugno 1996 (Cass. civ., Sez. I, sentt. 8 maggio 2009, n. 10596 e 9
aprile 2010, n. 8523).
4In argomento, ci sono state pronunce anche della Corte europea dei diritti
dell’uomo, in quanto la Corte ha stabilito con decisione 30 maggio 2000 la
totale illegittimità dell’occupazione appropriativa, a seguito della quale il sog‑
getto che l’ha subita ha diritto sia alla restituzione del bene che al risarcimento
del danno.
5 Cons. Stato, Ad. Plen., 7 febbraio 1996, n. 1.
6L’occupazione usurpativa, in quanto si verifica ove la dichiarazione di pubblica
utilità del bene occupato manchi, o sia annullata, o sia divenuta inefficace per
decorso dei termini procedurali, si differenzia dalla appropriativa per essere
un’attività totalmente illegale della P.A. per cui il privato ha diritto non solo ai
rimedi risarcitori ma anche alla tutela possessoria del bene.
7 Cass. civ., Sez. I, 28 marzo 2001, n. 4451.
2 0 1 1
83
consegue automaticamente alla sua irreversibile trasformazio‑
ne, bensì dipende dalla scelta del proprietario usurpato che,
rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta per
una tutela integralmente risarcitoria in luogo della possibile
restitutoria. Infatti non può dirsi sussistente un vincolo di
scopo garantito dalla dichiarazione di pubblica utilità ed
anzi rileva un diritto reale la cui tutela esige la rimozione del
fatto lesivo. Ancora, si è sostenuto che integri la fattispecie
dell’occupazione usurpativa la manipolazione del fondo di
proprietà del privato in assenza di dichiarazione di pubblica
utilità, da cui deriva il diritto del privato al risarcimento del
danno; la predetta manipolazione va inoltre intesa (con rife‑
rimento agli artt. 2043 e 2058 c.c.) nel senso della trasforma‑
zione irreversibile del fondo, non essendo sufficiente la pre‑
senza sul terreno di solo manufatto prefabbricato8.
3. L’occupazione coattiva sanante
In tale quadro, posto il prevalere dell’obbligo di restituire
il bene rispetto alla possibilità di configurarne un’acquisizio‑
ne appropriativa (derivante da requisizione o da occupazione
in genere), l’art. 43 T.U.9, rubricato “Utilizzazione senza tito‑
8 Cass. civ., Sez. I, sentt. 11 giugno 2009, n. 13578 e 19 marzo 2010, n. 6688.
9L’articolo, che come si vedrà oltre nel testo, risulta oggi incostituzionale e non
più applicabile, così disponeva:
1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile
per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può di‑
sporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al
proprietario vadano risarciti i danni. (L)
2. L’atto di acquisizione:
a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto
il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica
utilità di un’opera o il decreto di esproprio;
b) dà atto delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione
dell’area, indicando, ove risulti, la data dalla quale essa si è verificata;
c) determina la misura del risarcimento del danno e ne dispone il pagamento,
entro il termine di trenta giorni, senza pregiudizio per l’eventuale azione già
proposta;
d) è notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili;
e) comporta il passaggio del diritto di proprietà;
f) è trascritto senza indugio presso l’ufficio dei registri immobiliari;
g) è trasmesso all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2. (L)
3. Qualora sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 ov‑
vero sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per
scopi di interesse pubblico, l’amministrazione che ne ha interesse o chi utiliz‑
za il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza
del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del dan‑
no, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo. (L).
4. Qualora il giudice amministrativo abbia escluso la restituzione del bene senza
limiti di tempo ed abbia disposto la condanna al risarcimento del danno,
l’autorità che ha disposto l’occupazione dell’area emana l’atto di acquisizione,
dando atto dell’avvenuto risarcimento del danno. Il decreto è trascritto nei
registri immobiliari, a cura e spese della medesima autorità. (L)
5. Le disposizioni di cui ai precedenti commi si applicano, in quanto compa‑
tibili, anche quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata e convenzionata nonché quando sia impo‑
sta una servitù di diritto privato o di diritto pubblico ed il bene continui ad
essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale. (L)
6. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nei casi previsti nei preceden‑
ti commi il risarcimento del danno è determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pub‑
blica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base
delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno
sia stato occupato senza titolo. (L)
6‑bis. (comma aggiunto dal d.lgs. n. 302 del 2002) Ai sensi dell’articolo 3
della legge 1 agosto 2002, n. 166, l’autorità espropriante può procedere, ai
sensi dei commi precedenti, disponendo, con oneri di esproprio a carico dei
soggetti beneficiari, l’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patri‑
monio di soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni
o licenze o che svolgono, anche in base alla legge, servizi di interesse pub‑
amministrativo
Gazzetta
84
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
lo di un bene per scopi di interesse pubblico”, ha previsto
tuttavia che ove la P.A. utilizzi un bene immobile per scopi di
interesse pubblico, modificandolo in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pub‑
blica utilità, la P.A. medesima possa emanare un atto di ac‑
quisizione.
In pratica, la pubblica amministrazione può acquisire il
bene al proprio patrimonio, nonostante che il suo possesso
risulti illegittimo, purché la stessa valuti gli interessi in con‑
flitto, emani uno specifico e motivato provvedimento ammi‑
nistrativo con efficacia ex nunc, purché sia verificata la tra‑
sformazione del fondo che dovrà essere utilizzato per fini di
interesse pubblico, e sempre che detta P.A. provveda a liqui‑
dare il risarcimento del danno spettante al privato.
Ciò ha consentito a vari enti locali di procedere con un
atto unilaterale a sanare una situazione di illegittimità, con‑
seguente a mancanza o annullamento della dichiarazione di
pubblica utilità o di decreto di esproprio, creandosi inoltre un
titolo trascrivibile presso i Servizi di pubblicità immobiliare
dell’Agenzia del Territorio (le ex Conservatorie dei registri
immobiliari) ai fini del passaggio della titolarità del bene
occupato e trasformato, a prescindere dal risarcimento del
danno al privato spogliato del proprio diritto.
Trattasi di atto in effetti necessario, in quanto non si può
considerare trascrivibile la mera sentenza che condanna la
P.A. al risarcimento del danno nei confronti del provato,
trattandosi semmai di titolo esecutivo nei confronti dell’ente
ma non anche titolo trascrivibile per il passaggio della titola‑
rità immobiliare a favore del predetto ente.
Presupposti per l’emanazione del provvedimento sono le
circostanze che la realizzazione dell’opera di pubblico interes‑
se sia inserita nello strumento di pianificazione generale o
particolare e sul fondo sia impresso ilo vincolo preordinato
all’esproprio, che l’area occupata sia stata modificata, anche
se non irreversibilmente, per inizio dei lavori, che sia stata
effettuata una approfondita e corretta ponderazione degli
interessi in gioco e che sia stato quantificatoli risarcimento
del danno, perla cui liquidazione sono previsti tempi contin‑
gentati.
Va anche detto che la sentenza 29 aprile 2005, n.2
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ha riconosciu‑
to, tra l’altro, che l’istituto dell’acquisizione sanante rispetta
tanto i parametri imposti dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo (che già si era espressa con sentenza 30 maggio
2000) quanto i principi costituzionali, e ciò sia perché l’acqui‑
sto del bene avviene in virtù di un provvedimento previsto
dalla legge e, soprattutto, avente efficacia ex nunc (sicché
sono rispettate le esigenze di chiarezza dell’ordinamento e di
preminenza del diritto), sia perché il provvedimento è sinda‑
cabile (tanto che l’esercizio della discrezionalità è circondato
da particolari cautele di cui va verificato il rispetto in sede
giurisdizionale ed è inoltre assicurato il risarcimento del dan‑
blico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua, energia. (L)”.
Dall’esame della lettera della norma, emerge chiaramente che essa accomu‑
na sia le vecchie ipotesi di appropriazione acquisitiva (quando parla di
beni modificati “in assenza del valido ed efficace provvedimento di espro‑
prio”), sia quelle di vera e propria occupazione usurpativa (quando fa rife‑
rimento ai beni modificati “in assenza del valido ed efficace provvedimen‑
to…dichiarativo della pubblica utilità”).
Gazzetta
F O R E N S E
no), ed infine perché, in assenza di provvedimento, la restitu‑
zione dell’area non può essere impedita, se non per scelta
autonoma del privato che espressamente vi rinunci.
4. La sentenza n. 293 del 2010 della Corte Costituzionale
Con sentenza n. 293 del 4 ottobre 2010 della Corte Costi‑
tuzionale, l’intero art. 43 del t.u. espropri è stato tuttavia di‑
chiarato costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega.
Come da costante giurisprudenza della Consulta, difatti,
qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la revisio‑
ne, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste finali‑
tà giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo quadro
normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo,
di disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi.
L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto
al sistema legislativo previgente è, tuttavia, ammissibile soltanto
nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a
circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato.
Nel caso di specie, invece, la legge‑delega aveva conferito,
sul punto, al legislatore delegato il potere di provvedere soltan‑
to ad un coordinamento «formale» relativo a disposizioni
«vigenti». L’istituto previsto e disciplinato dalla norma impu‑
gnata (dal Tar Campania), viceversa, è connotato da numerosi
aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa og‑
getto delle disposizioni espressamente contemplate dalla leg‑
ge‑delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurispru‑
denziale.
In punto di diritto è stato espressamente sostenuto dalla
Consulta nella citata decisione10 che “la norma censurata ha ad
oggetto la disciplina dell’utilizzazione senza titolo di un bene
per scopi di interesse pubblico e consente all’autorità che abbia
utilizzato a detti fini un bene immobile in assenza di un valido
ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della
pubblica utilità, di disporne l’acquisizione al suo patrimonio
indisponibile, con l’obbligo di risarcire i danni al proprietario.
La disposizione regola, inoltre, tempo e contenuto dell’atto di
acquisizione, l’impugnazione del medesimo, la facoltà della
pubblica amministrazione di chiedere che il giudice ammini‑
strativo «disponga la condanna al risarcimento del danno, con
esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo»,
fissando i criteri per la quantificazione del risarcimento del
danno. Secondo il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza,
l’applicazione della disciplina di cui al citato art. 43 determine‑
rebbe l’improcedibilità dei ricorsi in ottemperanza, in conside‑
razione dell’atto formale di acquisizione sanante; nello stesso
tempo, i ricorsi avverso la delibera di acquisizione dovrebbero
essere rigettati, perché il provvedimento oggetto di impugna‑
zione dovrebbe ritenersi conforme al modello astratto disegna‑
to dall’intera disposizione, nonostante, in questo caso, fosse già
intervenuta una pronuncia di restituzione (in particolare nei
10Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, ha sollevato tre que‑
stioni con tre distinte ordinanze di contenuto in larga misura coincidente. (r.o.
n. 114, n. 115 e n. 116 del 2009); tutte e tre riguardano l’articolo 43 del decre‑
to del Presidente della Repubbica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle di‑
sposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità), con il quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di un bene
per scopi di interesse pubblico». Avendo i giudizi ad oggetto la stessa norma,
censurata con riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran
parte con le stesse argomentazioni e, dunque, ponendo essi un’identica questio‑
ne, sono stati riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
giudizi iscritti al r.o. n. 114 e n. 115 del 2009, a seguito dell’an‑
nullamento gli atti inerenti alla procedura ex art. 43).”
La norma si porrebbe (sempre secondo il Tribunale rimet‑
tente) in contrasto anzitutto “con gli articoli 3, 24, 42, 97 e 113
della Costituzione, in quanto essa consentirebbe, secondo l’in‑
terpretazione assunta come diritto vivente, la sanatoria di
espropriazioni illegittime, a causa della mancanza della dichia‑
razione di pubblica utilità, dell’annullamento degli atti ovvero
per altra causa. In tal modo, sarebbe prefigurato l’esercizio di
un potere autoritativo di acquisizione dell’area che impedirebbe
la restituzione del bene, rimuovendo l’illecito aquiliano anche
a dispetto di un giudicato amministrativo, consentendo «alla
pubblica amministrazione, anche deliberatamente, … di elude‑
re gli obblighi procedimentali della instaurazione del contrad‑
dittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di
conformità urbanistica» con «grave lesione del principio gene‑
rale dell’intangibilità del giudicato amministrativo», sostanzial‑
mente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione
per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico».
Ad avviso del Tar, la norma impugnata si porrebbe, inoltre,
in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non
sarebbe conforme ai principi della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte di Strasburgo,
che ha ritenuto in contrasto con l’art. 1, prot. 1, la prassi della
cosiddetta «espropriazione indiretta»; violando peraltro anche
l’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato
di Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti fon‑
damentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamenta‑
li, […] in quanto principi generali del diritto comunitario».
I rimettenti, infine, ritengono che il citato art. 43 impugna‑
to recherebbe vulnus all’art. 76, Cost., in quanto sarebbe stato
emanato in violazione dei criteri della legge‑delega 8 marzo
1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti
procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione
1998).”
L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle
questioni, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, in quanto
la Consulta, la Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato
avrebbero escluso l’applicabilità del citato art. 43 alle occupa‑
zioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003, data
di entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001.
Tuttavia, la citata eccezione non è stata ritenuta fondata. La
questione dell’applicabilità della norma in esame non è stata ri‑
solta in modo univoco dalla giurisprudenza. La Corte di cassa‑
zione esclude, infatti, l’ammissibilità dell’adozione di un provve‑
dimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle
occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigo‑
re del D.P.R. n. 327 del 2001 (sentenze 22 settembre 2008,
n. 23943, 28 luglio 2008 n. 20543, 19 dicembre 2007, n. 26732).
Diversamente, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato è ormai
prevalente il principio secondo cui «la procedura di acquisizione
in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato
articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo
alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma»
(Cons. Stato, Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1762; Sez. IV, 8 giugno
2009, n. 3509, inoltre: Ad. Plen. 29 aprile 2005, n. 2; Sez. IV, 16
novembre 2007, n. 5830, esaminata senza rilievi sulla giurisdi‑
zione da Cass., Sez. un., 16 aprile 2009, n. 9001).
2 0 1 1
85
In presenza di tale contrasto, le ordinanze di rimessione
hanno motivato in maniera non implausibile in ordine all’appli‑
cabilità della norma, richiamando la giurisprudenza assoluta‑
mente prevalente ed il «diritto vivente» del Consiglio di Stato.
Nel merito, vanno esaminate in via preliminare le censure
riferite all’art. 76, della Costituzione. Spetta, infatti, alla Con‑
sulta «valutare il complesso delle eccezioni e delle questioni
costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e «sta‑
bilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affron‑
tarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre» (da ultimo,
sentenze n. 181 del 2010 e n. 262 del 2009), quando si è in
presenza di «questioni tra loro autonome per l’insussistenza di
un nesso di pregiudizialità» (sentenza n. 262 del 2009). Nella
specie, è palese la pregiudizialità logico‑giuridica delle censure
riferite all’art. 76 Cost., giacché esse investono il corretto eser‑
cizio della funzione legislativa e, quindi, la loro eventuale fon‑
datezza eliderebbe in radice ogni questione in ordine al conte‑
nuto precettivo della norma in esame.
In argomento, i rimettenti denunciano la violazione
dell’art. 76 Cost., deducendo che l’art. 43 non troverebbe «rife‑
rimento o principi e criteri direttivi in norme preesistenti», in
quanto la legge‑delega n. 50 del 1999 prevedeva il mero coor‑
dinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, e consen‑
tiva, nei limiti di tale coordinamento, le sole modifiche necessa‑
rie per garantire la coerenza logica e sistematica della normati‑
va, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio.
La Consulta ha ritenuto che la questione fosse fondata.
Difatti, “la norma impugnata “disciplina l’istituto cosiddet‑
to della «acquisizione sanante». In particolare essa dispone, fra
l’altro, al comma 1, che, «valutati gli interessi in conflitto, l’au‑
torità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse
pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedi‑
mento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può
disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibi‑
le e che al proprietario vadano risarciti i danni». Viene, poi,
precisato, al comma 2, che l’atto di acquisizione «…a) può es‑
sere emanato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia
sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichia‑
rato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio».
Si tratta, dunque, della possibilità di acquisire alla mano
pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato
per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel
caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia
venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo
annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di
siffatta dichiarazione («assenza del valido ed efficace provvedi‑
mento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità»).
La norma censurata è contenuta nel testo unico, in materia
di espropriazioni, redatto in attuazione della legge n. 50 del
1999, a sua volta collegata alla legge 15 marzo 1997 n. 59
(Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti
alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Ammi‑
nistrazione e per la semplificazione amministrativa), che aveva
previsto un generale strumento permanente di semplificazione
e di delegificazione.
In particolare, la delega riguardava il «riordino» delle nor‑
me elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 (nel testo
risultante a seguito dell’art. 1, legge 24 novembre 2000,
n. 340 – Disposizioni per la delegificazione di norme e per la
semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di
amministrativo
Gazzetta
86
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
semplificazione 1999), che contemplava, quale oggetto, il «pro‑
cedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre
procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22
ottobre 1971, n. 865».”
Il chiaro tenore delle norme richiamate rende palese che la
delega oggetto delle medesime concerneva esplicitamente il
tessuto normativo costituito dalle leggi n. 2359/1865 e
n. 865/1971.
Per dirla con la Consulta, il sistema dell’espropriazione per
pubblica utilità risultante da dette leggi era articolato, in sinte‑
si, in un procedimento che presupponeva il provvedimento di‑
chiarativo della pubblica utilità dell’opera e la fissazione di
termini, con la connessa disciplina dei casi di indifferibilità ed
urgenza. In seguito, la legge n. 865 del 1971 aveva previsto la
concentrazione del procedimento in un’unica fase, ricollegando
la dichiarazione di pubblica utilità, unitamente alla dichiara‑
zione di indifferibilità ed urgenza delle opere pubbliche, all’ap‑
provazione dei progetti delle opere da parte degli organi com‑
petenti.
Successivamente, ed in presenza di una nutrita serie di pa‑
tologie dei procedimenti amministrativi di espropriazione,
consistenti nell’accertamento dell’occupazione sine titulo da
parte della pubblica amministrazione, la giurisprudenza di le‑
gittimità aveva elaborato gli istituti dell’occupazione «appro‑
priativa» ed «usurpativa». In sintesi, la prima era caratterizza‑
ta da una anomalia del procedimento espropriativo, a causa
della sua mancata conclusione con un formale atto ablativo,
mentre la seconda era collegata alla trasformazione del fondo
di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica
utilità. Nel primo caso (il cui leading case si rinviene nella sen‑
tenza delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983, n. 1464), l’acquisto
della proprietà conseguiva ad un’inversione della fattispecie
civilistica dell’accessione di cui agli artt. 935 ss. cod. civ., in
considerazione della trasformazione irreversibile del fondo.
Secondo questa ricostruzione, la destinazione irreversibile del
suolo privato illegittimamente occupato comportava l’acquisto
a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della proprietà
del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del
privato. La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10 giugno
1988, n. 3940, precisò poi la figura della «occupazione acqui‑
sitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida di‑
chiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere
l’interesse pubblico su quello privato.
L’«occupazione usurpativa», invece, non accompagnata da
dichiarazione di pubblica utilità, ab initio o per effetto dell’in‑
tervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei
relativi termini, in quanto tale non determinava dunque l’effet‑
to acquisitivo a favore della pubblica amministrazione.
È questo, in sostanza, il contesto normativo in cui è stato
inserito il citato art. 43, comprensivo anche dei ricordati istitu‑
ti di origine giurisprudenziale, i quali hanno nel tempo discipli‑
nato la materia.
Nella redazione del testo unico il legislatore delegato era
tenuto ad osservare i seguenti principi e criteri direttivi, conte‑
nuti nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 50: la puntuale
individuazione del testo vigente delle norme (lettera b dell’art. 7
cit.); l’indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente,
da successive disposizioni (lettera c); il coordinamento «forma‑
le» del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di
detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la
Gazzetta
F O R E N S E
coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di
adeguare e semplificare il linguaggio normativo (lettera d).
La legge‑delega imponeva, poi, l’indicazione delle disposi‑
zioni, non inserite nel testo unico, che restavano comunque in
vigore (lettera e) e l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti
disposizioni, non richiamate, che regolavano la materia ogget‑
to di delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in
apposito allegato al testo unico (lettera f).”
Occorre verificare, pertanto, se il legislatore delegato abbia
osservato i suindicati principi e criteri direttivi.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Consulta, il
sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa si esplica
attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici
paralleli. Il primo riguarda le norme che determinano l’oggetto,
i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto
del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si indi‑
viduano le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge
di delegazione. Il secondo riguarda le norme poste dal legisla‑
tore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i
principi ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis, sentenze
n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 54 del 2007, n. 280 del 2004,
n. 199 del 2003).
Pertanto, da un lato, deve farsi riferimento alla ratio della
delega; dall’altro, occorre tenere conto della possibilità, insita
nello strumento della delega, di introdurre norme che siano un
coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato;
dall’altro ancora, sebbene rientri nella discrezionalità del legi‑
slatore delegato emanare norme che rappresentino un coerente
sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte
espresse dal legislatore (sentenza n. 199 del 2003; ordinanza
n. 213 del 2005), è nondimeno necessario che detta discrezio‑
nalità sia esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e
criteri direttivi.
Inoltre, secondo la costante giurisprudenza della Consulta,
qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la revi‑
sione, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste
finalità giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo
quadro normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel
tempo, di disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti
diversi. L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative
rispetto al sistema legislativo previgente è, tuttavia, ammissibi‑
le soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri diret‑
tivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore dele‑
gato (sentenza n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003).
Alla luce di questi principi, risulta chiara la fondatezza
delle censure svolte dai giudici rimettenti.
La legge‑delega aveva conferito, sul punto, al legislatore
delegato il potere di provvedere soltanto ad un coordinamento
«formale» relativo a disposizioni «vigenti». L’istituto previsto e
disciplinato dalla norma impugnata, viceversa, è connotato da
numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropria‑
tiva oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla
legge‑delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giuri‑
sprudenziale.
In primo luogo, non è dato ravvisare nelle leggi indicate nel
citato allegato I, alla legge n. 59 del 1997, alcuna norma che
potesse giustificare un intervento della pubblica amministra‑
zione, in via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste.
Inoltre, neppure può farsi riferimento al contesto degli
orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, in quanto più
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
profili della cosiddetta «acquisizione sanante», così come disci‑
plinata dalla norma censurata, eccedono con tutta evidenza
dagli istituti della occupazione appropriativa e della occupazio‑
ne usurpativa, così come delineati da quegli orientamenti.
Il citato art. 43, infatti, ha anzitutto assimilato le due figu‑
re, introducendo la possibilità per l’amministrazione e per chi
utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni
caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in
luogo della restituzione. Peraltro, esso estende tale disciplina
anche alle servitù, rispetto alle quali la giurisprudenza aveva
escluso l’applicabilità della cosiddetta occupazione appropria‑
tiva, trattandosi di fattispecie non applicabile all’acquisto di un
diritto reale in re aliena, in quanto difetta la non emendabile
trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’ope‑
ra pubblica.
Infine, la norma censurata differisce il prodursi dell’effetto
traslativo al momento dell’atto di acquisizione.
Si tratta di elementi di sicuro rilievo e qualificanti, i quali
dimostrano che la norma in esame non solo è marcatamente
innovativa rispetto al contesto normativo positivo di cui era
consentito un mero riordino, ma neppure è coerente con quegli
orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano
riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie
emerse nel corso dei procedimenti espropriativi. Siffatto carat‑
tere della norma impugnata trova conferma significativa nella
circostanza che, secondo la giurisprudenza di legittimità, in
materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un
provvedimento amministrativo non poteva avere un’efficacia
sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell’en‑
te pubblico o dai suoi poteri autoritativi.
Nel regime risultante dalla norma impugnata, invece, si
prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla
stessa amministrazione che ha commesso l’illecito, a dispetto
di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del
diritto di proprietà violato.
Il legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del
tutto ed al di fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalità
esplicitamente individuato dalla legge‑delega. La Consulta ha
in proposito affermato, infatti, che, per quanta ampiezza possa
riconoscersi al potere di riempimento del legislatore delegato,
«il libero apprezzamento» del medesimo «non può mai assur‑
gere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi
di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legisla‑
zione su delega» (sentenze n. 340 del 2007 e n. 68 del 1991).
In contrario, non giova dedurre, come sostenuto dall’Avvo‑
catura dello Stato, che il legislatore delegato abbia inteso tene‑
re conto delle censure mosse dalla giurisprudenza di Strasburgo
alla pratica delle espropriazioni «indirette».
Indipendentemente sia da ogni considerazione relativa al
fatto che ciò non era contemplato nei principi e criteri direttivi
di cui al più volte citato art. 7 della legge n. 50 del 1999, sia dal
legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta realizzata con
la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU (Cor‑
te Europea dei diritti dell’uomo) (dubbio, questo che la Consul‑
ta non ha ritenuto di poter sciogliere nel corso della decisione
de qua), quella prefigurata costituisce soltanto una delle molte‑
plici soluzioni possibili. Il legislatore avrebbe potuto consegui‑
re tale obiettivo e disciplinare in modi diversi la materia, ed
anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso
esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del
2 0 1 1
87
bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei. E
neppure è mancato qualche rilievo in questo senso della Corte
di Strasburgo, la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha
precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del
principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un
sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di
utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante
da «azioni illegali», e ciò sia allorché essa costituisca conseguen‑
za di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi
da una legge – con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u.
qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione non può
comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adot‑
tata secondo «buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri
c. Italia – terza sezione – sentenza 12 gennaio 2006 – ricorso
n. 14793/02).
Anche considerando la giurisprudenza di Strasburgo, per‑
tanto, non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di
un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse nega‑
tive conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di
per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità.
5. Effetti della sentenza e prospettive de iure condendo
Alla stregua dei rilievi svolti, è stata dichiarata l’illegittimi‑
tà costituzionale dell’intero art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001,
poiché la disciplina inerente all’acquisizione del diritto di servi‑
tù, di cui al comma 6 bis, è apparsa alla Consulta strettamente
ed inscindibilmente connessa con gli altri commi, sia per espres‑
so rinvio alle norme fatte oggetto di censura, sia perché ne
presuppone l’applicazione e ne disciplina ulteriori sviluppi ap‑
plicativi (cfr. sent. cost. n. 18/2009)11.
Di fatto, si è così originato un rilevante problema operativo
per gli enti locali, che non avendo più la possibilità di operare
una sanatoria unilaterale trascrivibile, devono procedere a ro‑
gare un atto transattivo ad effetti reali, per poter trascrivere lo
stesso al fine della continuità delle trascrizioni.
Va tuttavia osservato che, trattandosi di una dichiarazione
che concerne un errore di tecnica legislativa, è facilmente ipo‑
tizzabile un intervento urgente del Governo, per reintrodurre
nella sostanza o nella forma l’articolo de quo.
11La pronuncia di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 76 Cost., ha
determinato l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli artt. 3,
24, 42, 97, 113 e 117, primo comma, Cost.
amministrativo
Gazzetta
88
d i r i t t o
●
Difesa civica
e mediazione dopo
la Finanziaria 2010.
Motivazione
della nomina
del difensore civico
● Pierangelo Bonanno
difensore civico del Comune di Misilmeri (PA)
Giuseppe Pedersoli
già difensore civico del Comune di Napoli
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
SOMMARIO: Premessa – 1. Brevi cenni sul ruolo del difen‑
sore civico: la mediazione – 2. La recente evoluzione norma‑
tiva – 3. L’abolizione del difensore civico comunale e le Regio‑
ni a Statuto speciale: l’intervento del Tar Sicilia – 4. La neces‑
sità di una motivazione nella nomina del difensore civi‑
co – 5. Conclusioni.
Premessa
In relazione ai difensori civici, l’opinione del ministro per
la semplificazione normativa dell’attuale Governo, Roberto
Calderoli, è sempre stata molto chiara. Il testo normativo
originario (la cosiddetta “bozzaccia”) fortemente voluto dal
ministro, includeva i difensori civici tra gli “enti dannosi”. In
seguito, il linguaggio del ministro è stato soltanto parzialmen‑
te reso meno severo: “enti inutili”. Quindi, i difensori civici,
da “enti dannosi” sono diventati “enti inutili”. Le intenzioni
del ministro Calderoli sono state trasfuse nella legge Finan‑
ziaria per il 2010, che ha definitivamente abolito – almeno in
ambito comunale – la figura prevista a tutela e garanzia dei
cittadini1. Se vivace è il dibattito sul perché il difensore civico
non abbia ricevuto adeguata difesa (si chiede scusa per il bi‑
sticcio di parole) mediatica, sulle modalità di nomina dello
stesso, su ruolo, poteri, requisiti e prebenda, una certezza
assoluta c’è, dopo la conversione in legge del “decreto salva
enti”2: i Comuni non avranno più il “garante dei cittadini”.
Con il linguaggio complesso del Legislatore, la legge di con‑
versione dello stesso decreto stabilisce che “le funzioni del
difensore civico comunale possono essere attribuite, mediante
apposita convenzione, al difensore civico della provincia nel
cui territorio rientra il relativo comune. In tal caso il difenso‑
re civico comunale assume la denominazione di difensore ci‑
vico territoriale (…)”3. Il decreto convertito in legge, nello
stesso articolo ma al comma successivo (il 2) pur conferman‑
do la soppressione della figura del difensore civico comunale,
chiarisce che chi è stato nominato alla data di entrata in vigo‑
re del provvedimento legislativo (27 marzo 2010, giorno della
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) resta in carica fino alla
scadenza naturale dell’incarico. In ambito comunale, quindi,
il destino dei difensori civici appare inesorabilmente segnato.
Di qui a breve, infatti, con la scadenza del mandato di chi è
attualmente in carica, la mediazione tra cittadini e pubblica
amministrazione comunale sarà affidata al difensore civico
provinciale‑territoriale, ma soltanto al verificarsi di due con‑
dizioni: a) il difensore civico provinciale deve essere previsto
e nominato; b) i singoli Comuni dovranno (ovvero potranno,
ma soltanto ne ravviseranno l’opportunità) stipulare apposita
convenzione con la Provincia di riferimento. Uno scenario
piuttosto inquietante, dal quale la difesa civica esce ridimen‑
sionata e – soprattutto – sottovalutata. Basti pensare che
l’Italia è l’unico Paese dell’Unione Europea a non avere il di‑
fensore civico nazionale, figura richiesta come requisito agli
Stati che chiedono di entrare a far parte dell’Unione. Le cause
di una simile situazione sono moltissime ed esulano da un’ana‑
lisi giuridica. Si tratta, infatti, di ripercorrere le modalità di
nomina degli ombudsman, che molto spesso rientrano in lo‑
giche di “spartizione delle poltrone” e non di una cura degli
1
2
3
L. n. 191 del 2009, art. 2 comma 186, lett. A.
D.l. n. 2 del 2010, art. 1.
L. n. 42 del 2010, art. 1, comma 1 quater, lett. b, punto 2.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
interessi dei cittadini. In molti casi, quando l’organo consilia‑
re (di Regione, Provincia, Comune) non riesce a raggiungere
il quorum necessario alla nomina – quorum che in genere è
piuttosto elevato per garantire che l’eletto sia super partes – il
presidente dello stesso organo esercita i cosiddetti “poteri
sostitutivi” e, con atto monocratico, designa il difensore civi‑
co. Le modalità di questo genere di nomina non sono mai
accettate dagli altri candidati al ruolo, generando un conten‑
zioso dinanzi ai tribunali amministrativi che si conclude con
sentenze di orientamento contrastante. In altre occasioni (si
veda il “caso Napoli” più avanti descritto) stante l’inerzia
dell’organo consiliare, uno o più candidati al ruolo chiedono
ai giudici amministrativi la nomina di un commissario ad
acta che provveda a nominare il difensore. In altre parole, una
figura prevista per ridurre litigi e contrasti, almeno quelli tra
cittadini e pubblica amministrazione, finisce essa stessa per
generare cause e processi, diventando una sorta di ossimoro
giuridico‑istituzionale. Ad ogni buon conto, con l’entrata in
vigore delle norme volute dal ministro Calderoli ed approvate
dal Parlamento, in Italia, una volta scaduti i mandati dei di‑
fensori civici comunali in carica al 27 marzo 2010, esisteran‑
no soltanto i difensori civici provinciali (definiti “territoriali”)
e i difensori civici regionali, qualora previsti e nominati dalle
singole province e regioni. Con un distinguo per le regioni a
Statuto speciale, come in seguito chiarito.
1. Brevi cenni sul ruolo del difensore civico: la mediazione
Il ruolo del difensore civico è stato pensato dal legislatore
come soggetto terzo rispetto alla macchina amministrativa.
Il potere esercitato dall’ombudsman è legato alla relazione con
i soggetti responsabili dell’amministrazione pubblica, per cui
l’esercizio di tale potere di interazione istituzionale potrà es‑
sere responsabile solo se l’ordinamento costruirà regole chia‑
re e certe tali da consentire al difensore civico un efficace
azione di contrasto nei confronti delle cattive prassi ammini‑
strative4. Nel difensore civico si può intravedere il ruolo di
mediatore istituzionale tra amministratori ed amministrati,
divenendo un utile strumento preventivo di contrasto alla
cattiva amministrazione, nei casi in cui il cittadino dovrebbe
ricorrere all’intervento giudiziario per trovare tutela dei propri
diritti. La mancanza di “poteri specifici” è il problema di
tutti gli ombudsman del mondo. Vero è che i regolamenti, in
linea teorica, prevedono che il difensore possa “chiedere un
provvedimento disciplinare” nei confronti del dirigente che
“non collabora”. Ma “chiedere” non significa “automatica‑
mente ottenere”, soprattutto se si pensa: a) al ruolo dei sinda‑
cati che contrasterebbero la richiesta del difensore civico; b)
ad una figura istituita per mediare e ridurre conflitti soltanto
che soltanto come extrema ratio pone in essere azioni che
generano un contenzioso. Pertanto, si auspica un intervento
legislativo che rivaluti la figura istituzionale del difensore ci‑
vico, riponendo piena fiducia nella sua capacità di attivarsi
quale organismo in grado di fronteggiare la crisi dell’ammi‑
nistrazione pubblica, al fine di oltrepassare le costanti incom‑
prensioni e difficoltà di comunicazione tra amministrazione
e cittadini. Ma il tutto dovrebbe avvenire grazie ad una par‑
4 Piazza, Lineamenti di teoria generale della difesa civica, Firenze, 2006,
p.121.
2 0 1 1
89
tecipazione più attiva e non soltanto formale o “virtuale”. In
tal modo si potrebbe garantire il mantenimento di un rappor‑
to virtuoso tra P.A. e cittadini. Nel tentativo di frenare il
contenzioso giudiziario, arginando, oltretutto, i conseguenti
costi che gravano sulla finanze pubbliche, nel recente passato,
il legislatore ha riconosciuto al difensore civico il ruolo di
garante dei cittadini statuendo la sua competenza non solo
nel tutelare il diritto di accesso ai documenti amministrativi5
ma anche all’informazione ambientale6.
2. La recente evoluzione normativa
La legge finanziaria del 2010 ha sancito la progressiva
riduzione dei contributi ordinari nei confronti degli enti loca‑
li7 ed ha, contestualmente, previsto una serie di obblighi a cui
gli stessi enti avrebbero dovuto conformarsi. In particolare,
in essa è stata prevista la soppressione della figura del difen‑
sore civico di cui all’articolo 11 del T.U.E.L.8. La decisione del
Legislatore appariva, da subito, lesiva delle prerogative pro‑
prie degli enti locali, e nella sua genericità, annullava ex nunc
la “difesa civica di prossimità”, affermatasi negli ultimi qua‑
rant’anni in Italia. Il Governo, successivamente alla finanzia‑
ria 2010, ha altresì stabilito che la soppressione del difensore
civico dovesse avvenire dal 2011 e solo dopo i rinnovi eletto‑
rali dei rispettivi Consigli comunali9. Ed inoltre, ha specifica‑
to nella legge di conversione dello stesso, che per difensore
civico da abrogare dovesse intendersi esclusivamente quello
comunale10, contemplando al tempo stesso una maggiore at‑
tività del difensore civico provinciale territoriale11. La formu‑
lazione è assimilabile nel contenuto al testo dell’art. 11 del
T.U.E.L.12 , seppur il percorso logico a base della stessa dispo‑
sizione appaia anacronistico. Ed invero, il nostro Legislatore
a distanza di dieci anni dalla entrata in vigore del T.U.E.L.,
non tiene conto della sostanziale evoluzione della società
italiana, caratterizzata dalla complessità dei nuovi diritti,
propri di una visione della cittadinanza partecipe e responsa‑
bile. Ed inoltre, le nuove disposizioni in materia di difesa ci‑
vica, evidenziano un’intrinseca contraddittorietà, in quanto
da una parte stabiliscono che il difensore civico è il garante
dei cittadini nei confronti della cattiva amministrazione pub‑
blica, dall’altra non assicurano, vista l’importanza ad esso
riconosciuta, l’obbligatorietà dell’istituzione del difensore
civico territoriale. Rispetto al decreto legge, la legge di con‑
versione ha statuito, inoltre, l’obbligatorietà di eliminare la
figura del difensore civico “dalla data di scadenza dei singoli
incarichi dei difensori civici in essere alla data di entrata in
vigore della legge di conversione”13.
La Giunta regionale della Toscana ha ritenuto opportuno
5L. n. 241 del 1990, art. 25.
6 D.lgs. n. 195 del 2005, art.7.
7L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 183.
8L. n. 191 del 2009, art. 2 comma 186, lett. a.
9 D.l. n. 2 del 2010, art.1, comma 2.
10L. n. 42 del 2010, art. 1, comma 1 quater, lett. b, punto 1.
11L. n. 42 del 2010, art.1, comma 1 quater, lett. b, punto 2.
12 D.lgs. n. 267 del 2000, art. 11: “Lo statuto comunale e quello provinciale
possono prevedere l’istituzione del difensore civico, con compiti di garanzia
dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comu‑
nale o provinciale, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfun‑
zioni, le carenze ed i ritardi dell’amministrazione nei confronti dei cittadini”.
13L. n. 42 del 2010, art. 1, comma 1 sexies, lett. b, punto 2.
amministrativo
Gazzetta
90
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
impugnare, dinanzi alla Corte Costituzionale, alcune dispo‑
sizioni contenute nella Finanziaria14. In particolare, ha eviden‑
ziato che la soppressione dell’Ombudsman locale è lesiva
delle attribuzioni regionali, in quanto, si legge nel ricorso: “la
Costituzione affida alla competenza esclusiva statale solo la
materia relativa alla legislazione elettorale, organi di governo
e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metro‑
politane15, mentre le disposizioni in oggetto non riguardavano
né gli organi di governo, né le funzioni fondamentali degli
enti locali e pertanto sarebbero riconducibili alle competenze
regionali16; esse non sono principi di coordinamento della fi‑
nanza pubblica e ledono l’autonomia organizzativa degli enti
locali garantita costituzionalmente17”. Al riguardo, la Corte
Costituzionale ha precisato che, a seguito del sostanziale
mutamento della disposizione sottopostagli, con l’entrata in
vigore della l. n. 42 del 2010, la questione è inammissibile,
stante una specifica impugnazione della nuova norma da
parte della Regione Toscana. Il Legislatore, si precisa nella
sentenza, non ha soppresso le funzioni precedentemente attri‑
buite al difensore civico comunale, ma ne ha mutato la tito‑
larità a favore del difensore civico territoriale18. Formalmente
la soppressione della difesa civica comunale non sembrerebbe
incidere negativamente sull’operato dei garanti regionali e
provinciali. Nella sostanza, l’intervento abrogativo del Legi‑
slatore annulla i tentativi nati, in seno alla difesa civica italia‑
na, di realizzare una rete di rappresentanza nazionale. È di
palmare evidenza che gli ombudsman regionali, privi di rife‑
rimenti istituzionali territoriali, avranno grandi difficoltà nel
sostenere progetti culturali volti a tutelare e diffondere prin‑
cipi come la legalità e la trasparenza nella pubblica ammini‑
strazione, nonché a garantire una presenza operativa capilla‑
re su tutto il territorio di loro competenza. Immaginare la
presenza operativa e capillare sul territorio del difensore civi‑
co provinciale‑territoriale, appare scarsamente concretizzabi‑
le, e ciò per diversi ordini di ragioni. In primo luogo occorre‑
rà stipulare delle apposite convenzioni con i Comuni che,
però, non sono obbligati a “convenzionarsi”. I Comuni, sem‑
pre alle prese con vincoli e limiti di bilancio, avranno enormi
difficoltà a rendere possibile la realizzazione delle convenzio‑
ni. In secondo luogo, occorre evidenziare che ad oggi, in
Italia, soltanto trentacinque province su centodieci hanno
nominato il difensore civico. Appaiono, quindi, ancora più
pregnanti ed efficaci le considerazioni, elaborate negli scorsi
anni, che individuavano la ratio fondante del difensore civico
prima che in termini di antidoto alla maladministration, in
termini di “calmieramento umano” della macchina dello
Stato e dell’ente regionale e locale nelle loro sempre più com‑
plesse e multiformi articolazioni funzionali. Il difensore civi‑
co opera quotidianamente perché la macchina abbia presente
chi sono i soggetti per cui essa esiste e si legittima e quindi
perché gli operatori della macchina si ricordino che sono tali
perché devono servire e non comandare19.
14
15
16
17
18
19
Ricorso per legitt. Cost., 24 febbraio 2010, n. 31, in Juris data.
Art. 117, comma 2, lett. p, Cost.
Art. 117, comma 4, Cost.
Artt. 114 e 117, comma 6, Cost.
Corte cost., 17 novembre 2010, n. 326.
Papisca, Riflessioni sulla difesa civica nel sistema delle garanzie dei diritti uma‑
ni, Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, anno VII, numero 1, 1993, p. 51.
Gazzetta
F O R E N S E
3. L’abolizione del difensore civico comunale e le Regioni
a Statuto speciale: l’intervento del Tar Sicilia
Nella finanziaria 2010 le specificità delle Regioni a Statu‑
to Speciale sono state riconosciute, stabilendo che talune di‑
sposizioni in essa contenute, come la soppressione del difen‑
sore civico comunale dovessero essere oggetto di specifiche
norme di attuazione20. A distanza di quasi un anno dall’entra‑
ta in vigore delle disposizioni normative nazionali nessuna tra
le Regioni a Statuto speciale ha intrapreso un percorso legi‑
slativo autonomo volto a regolamentare il tema della difesa
civica locale. Piuttosto, si registrano iniziative istituzionali
locali, spesso confuse e contraddittorie. In particolare, il Tar
della Sicilia è intervenuto, recentemente, sul tema della difesa
civica, precisando che la Regione Siciliana non ha recepito la
norma abrogativa della finanziaria nazionale e, conseguente‑
mente, ha accolto il ricorso nei confronti di un atto privo di
motivazioni giuridicamente legittime, permettendo, quindi,
al difensore civico di continuare a svolgere le proprie funzio‑
ni 21 (cfr. Tar Sicilia, Catania, Sez. III, ordinanza n. 864 del 6
luglio 2010). Il Tar per la Sicilia ha annullato, quindi, il prov‑
vedimento, datato 3 maggio 2010, con il quale il Sindaco del
Comune di Portopalo di Capo Passero, in provincia di Sira‑
cusa, aveva dichiarato la decadenza del difensore civico loca‑
le, esonerandolo dall’incarico. Il difensore civico, previsto
dallo Statuto comunale di Portopalo, è, in base alle disposi‑
zioni locali, una figura obbligatoria, che persegue un interes‑
se pubblico a garanzia e tutela dell’imparzialità e del buon
andamento della pubblica amministrazione. Il Sindaco non
avrebbe potuto, come si evince dall’ordinanza, produrre,
comunque, alcun provvedimento finalizzato a dichiarare la
decadenza del difensore civico, perché tale compito sarebbe
spettato, secondo lo Statuto locale, al Consiglio comunale.
L’ordinanza del Tar Sicilia costituisce un precedente giurispru‑
denziale rilevante, che chiarisce i contorni di una problema‑
tica interpretativa inerente al possibile “rinvio dinamico” in
Sicilia, ed in generale nelle Regioni a Statuto speciale, alla
finanziaria 2010.
4. La necessità di una motivazione nella nomina
del difensore civico
Nell’ambito dell’autonomia statutaria, non è facile indivi‑
duare regole comuni per l’elezione del difensore civico. Innan‑
zitutto la nomina non è obbligatoria, ed anche quando è
prevista non sempre l’ente locale provvede in merito. Tuttavia,
si può affermare quanto segue. In base alle previsioni statu‑
tarie più diffuse in Italia, gli organi competenti ad eleggere il
difensore civico, sono il consiglio comunale, provinciale e
regionale (fermo restando quanto sopra chiarito per il “difen‑
sore comunale”). Solitamente è previsto che il voto consiliare,
a maggioranza qualificata, sia segreto, a garanzia del fatto
che il candidato eletto, sostenuto da un’ampia maggioranza
bipartisan, possa svolgere la sua funzione con autonomia ed
indipendenza. Tuttavia, molti Statuti prevedono che, qualora
la maggioranza qualificata non venga raggiunta nelle prime
sedute, si proceda ad una distinta seduta nella quale può ri‑
sultare eletto il candidato che raggiunga la maggioranza as‑
20 L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 183.
21 Tar Sicilia, Sez. III, ord., 6 luglio 2010, n. 864, in Juris data.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
91
soluta dei componenti il Consiglio; tale possibilità consente
di evitare il raggiungimento di crisi istituzionali, difficilmen‑
te superabili 22.
La procedura elettiva di nomina, ovviamente, dovrà esse‑
re caratterizzata dalla trasparenza ma, comunque, i candida‑
ti non eletti sono titolari di un interesse legittimo, che potran‑
no far valere impugnando la delibera consiliare di elezione
davanti al Giudice Amministrativo.
La Giurisprudenza, recentemente, si è soffermata, ancora
una volta, su di un tema oggetto di numerose riflessioni, cioè
se il provvedimento di nomina da parte del Consiglio debba
contenere le motivazioni relative alla scelta effettuata. In via
preliminare, c’è da considerare che quasi sempre gli statuti
prevedono la nomina con voto segreto e non palese. È prati‑
camente impossibile, col voto segreto, fornire una motivazio‑
ne omogenea e, soprattutto, in linea con le reali ragioni che
hanno portato i consiglieri ad esprimere la propria preferenza.
Se invece le motivazioni della nomina fanno riferimento ad
una fase preliminare alla votazione, sono le commissioni
consiliari competenti che devono fornire adeguata istruttoria
con descrizione ed eventuale comparazione dei curricula dei
candidati. In ogni caso, chi riteneva che il raggiungimento di
un quorum elevato, anche quello dei due terzi dei consiglieri
assegnati, rendesse superata la questione della motivazione
perché assorbita dall’ampia maggioranza (e quindi dal “gra‑
dimento”) è stato smentito da una recente sentenza. Tale
pronunzia riguarda la nomina del difensore civico del Comu‑
ne di Napoli, avvenuta il 24 settembre 2007, a seguito di una
votazione che individuava l’eletto con 42 voti su 55 consiglie‑
ri presenti e 60 assegnati. Ribaltando la decisione del Tar
Campania, i Giudici di Palazzo Spada hanno così deciso: “Per
l’effetto in riforma della sentenza appellata gli atti impugnati
in primo grado di nomina del difensore Civico devono essere
annullati, salvi gli ulteriori provvedimenti della Amministra‑
zione che dovrà rinnovare la istruttoria e quindi motivare la
scelta finale” 23. In altre parole, il Consiglio di Stato ha stabi‑
lito che, pur nel caso in cui la maggioranza qualificata (nel
caso di specie due terzi dei consigileri assegnati) trova l’intesa
su un candidato, la nomina deve comunque essere motivata.
Ma come detto, è anche recente un orientamento opposto: Tar
Marche, ordinanza n. 613 del 7 ottobre 2010. Il caso riguar‑
da la nomina effettuata dal presidente della Regione Marche.
Altro candidato al ruolo, peraltro difensore civico regionale
uscente, si era opposto alla “nomina presidenziale” invocan‑
do, tra l’altro, la mancanza di una motivazione. Queste le
parole dei giudici del Tar Marche:
“Rilevato e considerato, ad un sommario esame:
‑ che il ricorso potrebbe risultare fondato perlomeno sotto
il profilo del dedotto difetto di motivazione;
‑ che in caso di “elezione” o “nomina” collegiale, per la
quale è previsto il meccanismo di voto che, in questo caso,
risulta essere rinforzato per effetto della necessaria mag‑
gioranza di due terzi dei componenti dell’assemblea, la
motivazione pare vada individuata nell’esito della votazio‑
ne, che rende preferibile il candidato che ottiene la mag‑
gioranza dei consensi rispetti agli altri;
‑ che, del resto, non sembra avere senso pretendere una di‑
versa motivazione comparativa in senso tecnico, poiché,
altrimenti, la votazione riguarderebbe il solo candidato al
primo posto dell’ipotetica graduatoria di idoneità;
‑ che tali principi non sembrano invece applicabili nel caso
di nomina da parte di organo monocratico, poiché non
essendoci il risultato di un consenso di maggioranza
espressivo di una motivazione (ancorché numerica), devo‑
no prevalere le esigenze di trasparenza dell’azione ammi‑
nistrativa affinché la scelta di un soggetto non avvenga
sulla base di un mero arbitrio;
‑ che, nel silenzio della legge sui criteri comparativi, la mo‑
tivazione monocratica pare possa fare riferimento ai re‑
quisiti previsti per la nomina (possesso di laurea attinente
agli uffici da svolgere e dei requisiti idonei) al fine di giu‑
stificare la preferenza di un candidato rispetto agli altri
(…)”.
Il Tar Marche, sostanzialmente, afferma che se si è in
presenza di una nomina da parte di organo monocratico,
devono prevalere le esigenze di trasparenza dell’azione ammi‑
nistrativa, affinché la scelta di un soggetto non avvenga sulla
base di un mero arbitrio24. Questo significa che i giudici del
Tar Marche, andando in direzione esattamente opposta a
quella del Consiglio di Stato, hanno ritenuto indispensabile la
nomina soltanto nel caso in cui essa non provenga da una
qualificata maggioranza consiliare. I differenti pronuncia‑
menti dei giudici amministrativi evidenziano uno dei parados‑
si della difesa civica nazionale, che tra i suoi primi obiettivi
ha quello di limitare il ricorso alle autorità giudiziarie, di ri‑
durre il numero di cause e ricorsi attraverso lo strumento
della mediazione.
5. Conclusioni
Fino ad oggi, in tutta onestà, si deve ammettere che i di‑
fensori civici “non hanno funzionato”. È questo il motivo che
ha indotto l’attuale Governo al ridimensionamento della di‑
fesa civica attraverso – soprattutto – la soppressione dell’om‑
budsman comunale. Individuare le ragioni di tale “mancato
funzionamento” è attività complessa. Di certo non c’è una
sufficiente cultura in materia di difesa civica e molto spesso
le nomine dei difensori non avvengono in linea con gli inte‑
ressi dei cittadini che dovrebbero essere difesi. Qualcuno
parla di “poltrone di sottogoverno”, elargite spesso come
“premio alla carriera” o per ristorare politici non (ri)eletti.
Ma se il difensore civico lavora con serietà ed impegno, i
cittadini non possono che trarne vantaggio e giovamento. È
urgente un riordino della materia che contempli, tra gli obiet‑
ti da raggiungere, la tutela dei diritti dei cittadini, senza che
questi ultimi debbano necessariamente adire le vie legali con
aggravio di spese e costi. Si parla molto, sulle riviste giuridi‑
che, di strumenti moderni quali la “conciliazione”, tesa ad
evitare l’affollamento delle aule giudiziarie. In un simile sce‑
nario, è antitetico e paradossale ridurre e ridimensionare la
difesa civica, che con i suoi poteri di mediazione potrebbe
fornire un grosso contributo alla realizzazione degli intenti
del Legislatore.
22 Lia – Lucchini – Gargatagli, Il Difensore civico, Milano 2007, p. 55.
23 Cons. Stato, 19 ottobre 2009, n. 6394, in Juris data.
24 Tar Marche, ord. 07 ottobre 2010, n. 613, in Juris data.
amministrativo
Gazzetta
92
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
●
Tar Campania – NAPOLI, Sez. VIII
sentenza 10 novembre 2010, n. 23753
Pres. Savo Amodio, Est. Buonauro
L’interpello costituisce
un segmento
della precedente
gara d’appalto
P u b b l i c a a m m i n i s t r a z i o n e (P. A .) – C o n t r a t t i d e l l a
P.A. – Appalto – Gara – Aggiudicazione – Fallimento o grave ina‑
dempimento dell’appaltatore primo aggiudicatario – Interpello
dei concorrenti successivi al primo aggiudicatario in graduato‑
ria – Affidamento al soggetto che accetti la richiesta – Avviene
alle medesime condizioni economiche proposte dall’originario
aggiudicatario
L’interpello ex art. 140 d.lgs. 163/06 non costituisce una
nuova gara ma si presenta quale ulteriore segmento dell’ori‑
ginaria procedura d’affidamento, della quale assorbe tutti gli
atti e gli adempimenti presupposti; in tal senso depone non
solo il dato strutturale ma anche il profilo funzionale per cui
tale meccanismo, in luogo dell’indizione di una nuova proce‑
dura, risponde (anche) all’esigenza di efficienza e buon anda‑
mento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) attraverso la
previsione di un meccanismo operativo semplificato che con‑
sente, nelle ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’ap‑
paltatore o fallimento di quest’ultimo, di affidare il comple‑
tamento dei lavori, mediante scorrimento dell’originaria e
cristallizzata graduatoria di gara, evitando il più complesso e
dispendioso percorso dell’indizione di una nuova gara con
prezzi aggiornati,e la modifica comunitariamente imposta
alla norma, a tutela del valore della concorrenza, ha inteso
proprio blindare le offerte inizialmente presentate, impeden‑
do qualsiasi forma di surrettizia rinegoziazione.
Nota a Tar Campania – Napoli, sez. VIII,
sentenza 10 novembre 2010, n. 23753
● Angela Libardi
Dottore in giurisprudenza
(Omissis)
Fatto e Diritto
(Omissis) con bando di gara pubblicato sulla GUCE in
data 19.04.04, la Seconda università degli studi di Napoli
indiceva una procedura aperta per l’affidamento dei lavori di
realizzazione del Policlinico di Caserta annesso alla Facoltà di
Medicina e Chirurgia della Sun, lavori che dovevano essere
eseguiti entro il termine di dicembre 2008.
All’esito delle operazioni di gara, i lavori furono aggiudi‑
cati all’ATI I.F.C.C., che aveva presentato la migliore offerta
con il ribasso del 18,819 %. Il raggruppamento di imprese
ricorrente si posizionava al secondo posto nella graduatoria.
Il contratto con l’ATI aggiudicataria è stata successivamen‑
te risolto nel marzo del 2009, con delibera n. 30 del 31.03.09
per gravi inadempienze. L’amministrazione resistente la stessa
delibera dichiarava di voler avvalersi della procedura di inter‑
pello, prevista dall’art. 140 d.lgs. n. 163 del 2006, ai fini
dell’affidamento dei lavori di completamento dell’opera. A tal
fine, la Sun (omissis) chiedeva all’ATI P.&C. S.p.A. la dispo‑
nibilità ad accettare l’affidamento dell’appalto in questione per
il proseguimento dei lavori del Policlinico di Caserta alle stes‑
se condizioni offerte in gara dalla ditta aggiudicataria, ovvero
con il ribasso d’asta 18,819%.
L’odierna ricorrente dichiarava di voler accettare l’affida‑
mento dei lavori di completamento del Policlinico Universita‑
rio di Caserta con applicazione dei prezzi delle lavorazioni
previsti nel prezzario dei Lavori Pubblici della Regione Cam‑
pania 2009, ai sensi dell’art. 133, co. 8, d.lgs. 163/06. L’am‑
ministrazione universitaria, aderendo alle indicazioni fornite
dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici in sede di ri‑
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
chiesto parere (alla cui stregua si ritiene non applicabile alla
procedura di interpello il meccanismo previsto dall’art. 133,
co. 8, ma solo lo strumento di eventuale “compensazione” ai
sensi del comma 4 dello stesso articolo), invitava la ATI ricor‑
rente a stipulare il contratto relativo ai lavori di completamen‑
to alle medesime condizioni economiche offerte dall’origina‑
rio aggiudicatario in sede di gara, con la possibilità di appli‑
care il comma 4 dell’art. 133, qualora ne ricorressero le con‑
dizioni.
Di fronte ad un ulteriore rifiuto della ricorrente, il Consi‑
glio di Amministrazione della Sun, con delibera n. 1 del
2.02.2010, dichiarava conclusa, con esito negativo, la proce‑
dura di interpello avviata ai sensi dell’art. 140, d.lgs. n. 163
del 2006. Avverso tale veniva proposto l’odierno giudizio,
articolato in ricorso iniziale notificato in data 3.3.2010 e
successivo ricorso per motivi aggiunti notificato in data
14.5.2010.
Si è costituita l’amministrazione resistente, deducendo
l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.
(Omissis)
Il ricorso va respinto per le ragioni che seguono, atteso che
non si presenta meritevole di favorevole considerazione l’im‑
pianto complessivo del gravame che, nella prospettazione di
cui al ricorso iniziale e quello recanti motivi aggiunti, si muo‑
ve lungo due distinte linee di censure.
Per un verso ed in via principale, è infondata la censura
con cui si contesta la legittimità dell’atto conclusivo della
procedura d’interpello per mancato aggiornamento dei prez‑
zi di progetto in asserita violazione del disposto degli artt. 29,
comma 3, e 133, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006.
Occorre premettere in termini generali che la procedura di
interpello ex art. 140 Codice Contratti, relativo alle procedure
di affidamento in caso di fallimento dell’esecutore, è stata ra‑
dicalmente modificata dal cd. terzo correttivo (d.lgs.
n. 152/2008) per rispondere alla contestazione comunitaria
(procedura di infrazione n. 2007/2309) di aver introdotto una
procedura di negoziazione dell’appalto al di fuori dei casi pre‑
visti dal diritto comunitario. Ed invero l’istituto dell’interpello,
così come prima disciplinato, consentiva una sostanziale rine‑
goziazione dell’appalto, andando così a violare i principi di
concorrenza, correttezza e lealtà, perché tale negoziazione ve‑
niva posta in essere senza alcuna procedura di gara e in assen‑
za di presupposti per accedere ad una procedura negoziata.
La disposizione, nel testo attualmente vigente ed applica‑
to dall’amministrazione resistente, prevede invece che, qualo‑
ra in caso di fallimento o grave inadempimento dell’appalta‑
tore, la stazione appaltante decida di interpellare i concorren‑
ti successivi in graduatoria a quello aggiudicatario fino al 5°
classificato, l’affidamento al soggetto che accetti tale richiesta
andrà effettuato alle medesime condizioni economiche pro‑
poste dal soggetto originariamente aggiudicatario e non alle
condizioni preposte da ciascun concorrente interpellato.
Il d.lgs. n. 152/08 ha abrogato i commi 3 e 4, dell’art. 140
del d.lgs 163/2006 – che prevedevano, in caso di fallimento o
indisponibilità di tutti i soggetti interpellati, ovvero per il
caso di stadio avanzato dei lavori, l’affidamento con procedu‑
ra negoziata senza bando ‑, e il comma 2 attualmente così
recita: “l’affidamento avviene alle medesime condizioni già
proposte dall’aggiudicatario in sede di offerta”.
Alla luce della nuova disciplina dell’interpello, le doglian‑
2 0 1 1
93
ze della ATI ricorrente non possono essere accolte.
Da un lato, la richiesta di attivazione del meccanismo
revisionale di aggiornamento dei prezzi ex art. 1343, com‑
ma 8, d.lgs. n. 163/06, verrebbe a configurarsi come una non
consentita modifica delle condizioni inizialmente proposte dal
precedente aggiudicatario in sede di offerta, atteso che per
tale via si darebbe luogo ad una surrettizia rinegoziazione
dell’appalto e quindi si snaturerebbero le finalità della proce‑
dura dell’interpello così come da ultimo ridisegnata dal legi‑
slatore, in attuazione delle direttive europee.
Per altro verso, in relazione alla pur suggestiva prospetta‑
zione legata alla generale operatività del principio di congruità
dei prezzi di gara con riguardo alle condizioni di mercato ex
art. 29, comma terzo, del Codice Contratti (a mente del quale
anche in caso di procedure senza bando la stima deve essere
“valida” al momento in cui la stazione appaltante avvia la
procedura di affidamento del contratto), non può condivider‑
si l’assunto logico‑giuridico di partenza da cui muove parte
ricorrente: l’interpello ex art. 140 cit. (diversamente dalle altre
fattispecie menzionate in ricorso – procedura negoziata con
bando ex art. 56 lett. a) e procedura negoziata senza bando ex
art. 57 lett. a) – in cui la pregressa gara è un mero anteceden‑
te fattuale che legittima il ricorso ad una nuova procedura di
affidamento) non costituisce una nuova gara ma si presenta
quale ulteriore segmento dell’originaria procedura d’affida‑
mento, della quale assorbe tutti gli atti e gli adempimenti
presupposti; in tal senso depone non solo il dato strutturale
per cui non vi è alcuna rinegoziazione delle condizioni di gara
e formulazioni di nuove offerte, ma semplice utilizzo delle
pregresse offerte (e la modifica comunitariamente imposta
alla norma, a tutela del valore della concorrenza, ha inteso
proprio blindare le offerte inizialmente presentate, impedendo
qualsiasi forma di surrettizia rinegoziazione); ma anche il
profilo funzionale per cui tale meccanismo, in luogo dell’in‑
dizione di una nuova procedura, risponde (anche) all’esigenza
di efficienza e buon andamento dell’azione amministrativa
(art. 97 Cost.) attraverso la previsione di un meccanismo
operativo semplificato che consente, nelle ipotesi di risoluzio‑
ne per inadempimento dell’appaltatore o fallimento di quest’ul‑
timo, di affidare il completamento dei lavori, mediante scor‑
rimento dell’originaria e cristallizzata graduatoria di gara,
evitando il più complesso e dispendioso percorso dell’indizio‑
ne di una nuova gara con prezzi aggiornati, ma al contempo
garantendone i valori fondamentali atteso che l’interpello
coinvolge imprese già selezionate nella medesima gara già
espletata e postula l’avvenuto rispetto in quella sede di tutte
le norme che regolamentano l’affidamento dei contratti pub‑
blici dalla fase della progettazione alla stipula del contratto.
Siffatte considerazioni circa la natura giuridica della pro‑
cedura d’interpello rilevano altresì ai fini della disamina
della doglianza, formulata in via subordinata e solo in sede
di motivi aggiunti, volta a censurare gli impugnati atti per
mancata applicazione del ribasso dell’Ati e per il rifiuto di
applicare, dal 2004, il meccanismo della compensazione.
A tal fine parte ricorrente, sostanzialmente facendo propri
i rilievi contenuti nel parere reso dall’Avvocatura Generale
dello Stato n. prot. CS 4256/09 a loro volta conformi alle
valutazioni già espresse dall’Avvocatura Distrettuale di Na‑
poli con nota 145343 del 30.11.2009, sostiene l’inapplicabili‑
tà ratione temporis dell’art. 140 Codice Contratti alla proce‑
amministrativo
Gazzetta
94
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
dura de qua, dovendosi viceversa fare applicazione della
corrispondente norma della L. n. 104/1994 (art. 10, comma 1,
che prevede la facoltà di interpellare il secondo classificato
alle medesime condizioni già proposte in sede di offerta.
In termini generali ed astratti il Collegio rileva come pro‑
prio la descritta configurazione dell’interpello, quale ulteriore
segmento dell’originaria procedura d’affidamento (il cui ban‑
do è stato pubblicato sulla GUCE in data 23.4.2004) e non
già nuova gara, escluda l’applicabilità della disciplina codici‑
stica di cui al d.lgs. n. 163/2006 (ed a fortiori quella dettata
dal successivo decreto correttivo n. 152/2006), in forza dello
speciale e specifico regime transitorio ivi dettato all’art. 253,
atteso che le relative disposizioni si applicano alle procedure
ed ai contratti i cui bandi od avvisi con cui si indice una gara
siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in
vigore (rispettivamente 1.6.2006 e 17.10.2008). Inoltre – ed
in applicazione del principio di immodificabilità del bando per
effetto dell’intervento dello jus superveniens non retroattivo,
a tutela dei valori di imparzialità e trasparenza della procedu‑
ra selettiva – tale conclusione trova conferma nella specifica
prescrizione al riguardo dettata nella lex specialis della pro‑
cedura in questione: viene infatti in rilievo la previsione con‑
tenuta al punto IV.1. del bando con cui la stazione appaltante
si riserva la facoltà di appiccare la disposizione di cui all’art. 10,
comma 1‑ter, della legge 109/94 e s.m., a mente del quale “1
‑ter. I soggetti di cui all’art. 2, comma 2, possono prevedere
nel bando la facoltà, in caso di fallimento o di risoluzione del
contratto per grave inadempimento dell’originario appaltato‑
re, di interpellare il secondo classificato al fine di stipulare un
nuovo contratto per il completamento dei lavori alle medesime
condizioni economiche già proposte in sede di offerta. I sog‑
getti di cui all’art. 2, comma 2, in caso di fallimento del se‑
condo classificato, possono interpellare il terzo classificato e,
in tal caso, il nuovo contratto è stipulato alle condizioni eco‑
nomiche offerte dal secondo classificato”.
Nondimeno, il Collegio osserva come siffatto motivo di
doglianza, in quanto volto a censurare profili di illegittimità
della procedura d’interpello, si presenta tardivamente propo‑
sto anche a voler considerare l’ultimo atto conclusivo della
stessa: ed, in vero, a fronte della impugnata nota del 2.2.2010
(comunicata con nota prot. 4948 dell’8.2.2010 e ricevuta in
data 15.2.2010), la censura viene proposta per la prima volta
solo in sede di motivi aggiunti notificati in data 14.5.2010 e
quindi ben oltre il termine perentorio di sessanta giorni de‑
correnti dalla compiuta conoscenza del provvedimento lesivo,
non potendo evidentemente all’uopo rilevare la conoscenza
del citato parere dell’Avvocatura Generale dello Stato in quan‑
to recante solo valutazioni di ordine giuridico su dati fattua‑
li già da tempo noti e cristallizzati.
In tal senso tale profilo di doglianza esula dall’orizzonte
conoscitivo dell’adita autorità giudiziaria, potendo al più es‑
sere valutato dall’amministrazione in sede di eventuale eser‑
cizio del proprio incoercibile potere di autotutela decisoria.
(Omissis)
• • • Nota a sentenza
Premessa
La sentenza n. 23753 del 10 novembre 2010 del Tar Cam‑
Gazzetta
F O R E N S E
pania riveste un interesse per riflettere sui poteri concessi
alla stazione appaltante quando la stessa decida di fare ricor‑
so alla procedura di interpello disciplinata dall’art. 140 d.
lgs.12 aprile 2006, 1631 e sulle speculari posizioni soggettive
delle imprese interessate.
La disposizione, limitatamente ai casi di fallimento o gra‑
ve inadempimento dell’appaltatore primo aggiudicatario,
consente alla stazione appaltante di interpellare i concorrenti
in graduatoria – dal secondo al quinto classificato – al fine di
stipulare un nuovo contratto per il completamento dei lavori.
La norma risulta ampiamente modificata dal d.lgs.11
settembre 2008, n.1522 , intervento legislativo di diritto inter‑
no susseguente alla procedura di infrazione comunitaria ad
opera della Commissione Europea, per incompleta o omessa
trasposizione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE nel
corpus del d.lgs.12 aprile 2006,n.163.
Sotto tale profilo, la decisione appare utile anche per ri‑
flettere sull’influenza dell’ordinamento comunitario sul dirit‑
to interno degli appalti.
1. Il contenuto della decisione
La fattispecie concreta dalla quale ha avuto origine il
giudizio conclusosi con la decisione in esame attiene ad una
procedura aperta indetta dalla Seconda Università degli Studi
di Napoli, mediante bando di gara pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale CE in data 19.04.04, per l’affidamento dei lavori di
realizzazione del Policlinico di Caserta annesso alla Facoltà
di Medicina e Chirurgia.
La gara veniva inizialmente affidata all’ATI I.F., avendo
essa presentato la migliore offerta con il ribasso del 18,819%,
ma il contratto con la ATI aggiudicataria veniva successiva‑
mente risolto nel marzo 2009 per gravi inadempienze, in
quanto da ben due anni era scaduto il termine contrattuale
entro il quale avrebbero dovuto essere eseguiti i lavori. L’Uni‑
versità, a questo punto, decideva di avvalersi della procedura
di interpello, come previsto nel bando, e chiedeva, ai sensi
dell’art. 140 d.lgs.12 aprile 2006, n.163 alla ATI P. & C.
S.p.A., seconda classificata nella graduatoria della gara indet‑
1 Art. 140 d.lgs.12 aprile 2006, n. 163. Procedure di affidamento in caso di fal‑
limento dell’esecutore o risoluzione del contratto per grave inadempimento
dell’esecutore.
1. Le stazioni appaltanti prevedono nel bando di gara che, in caso di fallimen‑
to dell’appaltatore o di risoluzione del contratto per grave inadempimento del
medesimo, potranno interpellare progressivamente i soggetti che hanno parte‑
cipato all’originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al
fine di stipulare un nuovo contratto per l’affidamento del completamento dei
lavori. Si procede all’interpello a partire dal soggetto che ha formulato la prima
migliore offerta, fino al quinto migliore offerente, escluso l’originario aggiudi‑
catario (comma così modificato all’art. 1, comma 1, lettera dd), d.lgs. 11 set‑
tembre 2008, n.152);
2. L’affidamento avviene alle medesime condizioni già proposte dall’originario
aggiudicatario in sede in offerta (comma così sostituito dall’art. 1, comma 1,
lettera dd), d.lgs.11 settembre 2008, n.152);
3. (comma soppresso dall’art. 1, comma 1, lettera dd), d.lgs. 11 settembre 2008,
n.152);
4. (comma soppresso dall’art. 1, comma 1, lettera dd), d.lgs.11 settembre 2008,
n.152).
2Il d.lgs. 11 settembre 2008, n. 152 – terzo decreto correttivo del d.lgs. 12
aprile 2006, n. 163 denominato codice dei contratti pubblici relativo a lavori,
servizi e forniture – è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri
il 1 agosto 2008, dopo i pareri favorevoli con osservazioni e condizioni espres‑
si dal Consiglio di Stato, dalla Conferenza Unificata, dalla Camera e dal Sena‑
to. Il decreto rappresenta tra l’altro l’ultimo correttivo possibile del d.lgs. 12
aprile 2006, n. 163, essendo spirato il termine biennale (decorrente dal 1 luglio
2006, data di entrata in vigore del codice) per le correzioni.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
ta nel 2004, la disponibilità ad accettare l’affidamento dell’ap‑
palto per il completamento dei lavori alle stesse condizioni
offerte dalla ditta prima aggiudicataria, ovvero con il ribasso
d’asta 18,819%.
L’impresa interpellata dichiarava di poter accettare la
proposta a condizione di applicare il ribasso del 18,819%
sull’importo dei lavori aggiornato all’attualità, sulla base dei
valori previsti nel prezzario dei Lavori Pubblici della Regione
Campania 2009, ai sensi degli artt. 29, co. 3 e 133, co. 8, d.
lgs.12 aprile 2006, n.1633.
L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, alla
quale la Sun aveva richiesto un parere sulla corretta applica‑
zione della procedura di interpello alla fattispecie de qua,
evidenziava l’impossibilità per la stazione appaltante, in base
alla nuova formulazione dell’art.140, di procedere a qualsiasi
modifica o revisione delle originarie condizioni dell’appalto.
L’Amministrazione universitaria, aderendo a tali osservazioni,
invitava la ATI ricorrente a stipulare il contratto alle medesi‑
me condizioni offerte dall’originario aggiudicatario, riservan‑
dosi la possibilità di applicare, ove ne ricorressero le condi‑
zioni, il meccanismo di “compensazione” previsto dal co. 4
del succitato art. 1334.
Di fronte ad un nuovo rifiuto della ATI interpellata la
Sun, con delibera del febbraio 2010, dichiarava infruttuosa‑
mente conclusa la procedura di interpello.
Con ricorso iniziale notificato in data 3.3.2010 e succes‑
sivo ricorso per motivi aggiunti notificato in data 14.05.2010,
la ATI impugnava la suddetta delibera innanzi al Giudice
amministrativo sostenendo che la procedura di interpello
prevista dall’art. 140 d.lgs.12 aprile 2006, n. 163 fosse equi‑
parabile ad altre fattispecie analoghe previste nel d.lgs.12
aprile 2006, n. 163. Il riferimento è agli artt. 56 lett. a) e 57
lett. a) che consentono alle stazioni appaltanti di aggiudicare
i contratti pubblici mediante procedura negoziata nell’ipotesi
in cui, a seguito dell’esperimento della procedura aperta o
ristretta, le offerte presentate siano inammissibili o irregolari5,
3
Articoli che sancisono l’obbligo per le amministrazioni appaltanti di adattare
i prezziari alle variazioni di mercato, aggiornando gli stessi quando si tratti di
un “nuovo affidamento”.
Art. 29, co. 3, d.lgs. 11 aprile 2006 n. 163 Metodi di calcolo del valore stima‑
to dei contratti pubblici. La stima deve essere valida al momento dell’invio del
bando di gara, quale previsto all’articolo 66, comma 1, o, nei casi in cui siffat‑
to bando non è richiesto, al momento in cui la stazione appaltante avvia la
procedura di affidamento del contratto.
Art. 133, co.8, d.lgs. 11 aprile 2006 n. 163 Termini di adempimento, penali,
adeguamenti dei prezzi. Le stazioni appaltanti provvedono ad aggiornare an‑
nualmente i propri prezzari, con particolare riferimento alle voci di elenco
correlate a quei prodotti destinati alle costruzioni, che siano stati soggetti a si‑
gnificative variazioni di prezzo legate a particolari condizioni di mercato. I
prezzari cessano di avere validità il 31 dicembre di ogni anno e possono essere
transitoriamente utilizzati fino al 30 giugno dell’anno successivo per i progetti
a base di gara la cui approvazione sia intervenuta entro tale data. In caso di
inadempienza da parte dei predetti soggetti, i prezzari possono essere aggior‑
nati dalle competenti articolazioni territoriali del Ministero delle infrastrutture
di concerto con le regioni interessate.
4 Art. 133. co.4 Termini di adempimento, penali, adeguamenti dei prezzi. In
deroga a quanto previsto dal comma 2, qualora il prezzo di singoli materiali da
costruzione, per effetto di circostanze eccezionali, subisca variazioni in aumen‑
to o in diminuzione, superiori al 10 per cento rispetto al prezzo rilevato dal
Ministero delle infrastrutture nell’anno di presentazione dell’offerta con il de‑
creto di cui al comma 6, si fa luogo a compensazioni, in aumento o in diminu‑
zione, per la percentuale eccedente il 10 per cento e nel limite delle risorse di
cui al comma 7.
5 Art 56. Procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara
1. Le stazioni appaltanti possono aggiudicare i contratti pubblici mediante
procedura negoziata, previa pubblicazione di un bando di gara, nelle seguenti
2 0 1 1
95
o non siano state presentate offerte o nessuna offerta appro‑
priata6, con l’unico limite di non stravolgere in maniera so‑
stanziale le condizioni iniziali del contratto.
Secondo tali disposizioni, l’apertura della seconda nego‑
ziazione dà vita ad un “nuovo affidamento”, indipendente dal
primo, ed il meccanismo di aggiornamento dei prezzi ai sensi
degli artt. 29, co. 3, e 133, co. 8, d.lgs.12 aprile 2006, n. 163
è pacificamente applicabile7.
Secondo la tesi proposta dalla ricorrente anche l’art. 140
darebbe vita ad un nuovo affidamento autonomo rispetto
alla fase antecedente della gara e ad esso risulterebbero appli‑
cabili il meccanismo revisionale di aggiornamento dei prezzi
previsto dagli artt. 29, co3 e 133, co.88.
La Sun, nella memoria di costituzione, ribadendo la legitti‑
mità del proprio operato alla luce del riformulato art. 140 d.
lgs.12 aprile 2006, n. 163, riteneva erronea questa prospetta‑
zione e deduceva l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.
In sede di successivo ricorso per motivi aggiunti la ATI
evidenziava come la amministrazione universitaria avesse
erroneamente fatto ricorso alla procedura prevista dall’art. 140
d.lgs. 12 aprile 2006, n.163 nonostante nel bando per l’affi‑
damento dei lavori (2004) la stazione appaltante esplicitamen‑
te si riservava, al punto IV.1, di fare ricorso alla procedura di
interpello prevista dall’art. 10, co1‑ter, l.11 febbraio 1994,
n.1099.
ipotesi:
a) quando, in esito all’esperimento di una procedura aperta o ristretta o di un
dialogo competitivo, tutte le offerte presentate sono irregolari ovvero inammis‑
sibili, in ordine a quanto disposto dal presente codice in relazione ai requisiti
degli offerenti e delle offerte. Nella procedura negoziata non possono essere
modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto. Le stazioni
appaltanti possono omettere la pubblicazione del bando di gara se invitano
alla procedura negoziata tutti i concorrenti in possesso dei requisiti di cui agli
articoli da 34 a 45 che, nella procedura precedente, hanno presentato offerte
rispondenti ai requisiti formali della procedura medesima. Le disposizioni di
cui alla presente lettera si applicano ai lavori di importo inferiore a un milione
di euro
6 Art. 57. Procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara
1. Le stazioni appaltanti possono aggiudicare contratti pubblici mediante
procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara nelle
ipotesi seguenti, dandone conto con adeguata motivazione nella delibera o
determina a contrarre. 2. Nei contratti pubblici relativi a lavori, forniture,
servizi, la procedura è consentita:
a) qualora, in esito all’esperimento di una procedura aperta o ristretta, non sia
stata presentata nessuna offerta o nessuna offerta appropriata o nessuna can‑
didatura. Nella procedura negoziata non possono essere modificate in modo
sostanziale le condizioni iniziali del contratto. Alla Commissione, su sua richie‑
sta, va trasmessa una relazione sulle ragioni della mancata aggiudicazione a
seguito di procedura aperta o ristretta e sulla opportunità della procedura ne‑
goziata. Le disposizioni contenute nella presente lettera di applicano ai lavori
di importo inferiore a un milione di euro.
7Secondo giurisprudenza prevalente, il valore di un appalto deve essere adegua‑
tamente stimato al momento dell’avvio delle procedure di affidamento, in di‑
fetto di una adeguata stima dei suddetti valori da porre a base di gare si deter‑
minerebbe una carenza di effettività delle stesse e di efficacia dell’azione della
Pubblica Amministrazione, oltre che sensibili alterazioni della concorrenza tra
le imprese, essendo penalizzate da valori inadeguati soprattutto le imprese più
competitive perché sopportano i maggiori oneri per l’adeguamento dei costi del
lavoro, per l’investimento, la formazione (in tal senso si veda Tar Catania 20
maggio 2008, n. 938; Tar Reggio Calabria 9 marzo 2009, n.131).
8 Proprio in applicazione di tale previsione, la giurisprudenza ha più volte rite‑
nuto illegittimo il bando che ponga a base di gara un prezzario non aggiornato
ai sensi dell’art. 133, co. 8, d.lgs. n. 163/2006, con prezzi incongrui e non at‑
tualizzati, oggettivamente inferiori a quelli di mercato come rilevabili dal tarif‑
fario regionale (in tal senso si veda Tar Veneto, Sez. I, 17 marzo 2008 n. 670;
Tar Catania, Sez. I, 20 maggio 2008 n. 938 e 5 dicembre 2008, n. 2281 cit.;
Tar Umbria, Sez. I, 7 giugno 2008 n. 247).
9La legge 11 febbraio 1994, n. 109 (oggi abrogata dal d.lgs. 12 aprile 2006,
n. 163), all’art. 10, co.1‑ter, prevedeva che “i soggetti di cui all’articolo 2,
comma 2 (le stazioni appaltanti), possono prevedere nel bando la facoltà, in
amministrativo
Gazzetta
96
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Con la sentenza n. 23753, depositata il 10 novembre 2010,
il Tar Campania, Sez. VIII, ha ritenuto di non dover accoglie‑
re le doglianze della ricorrente, respingendo così la tesi secon‑
do la quale l’interpello darebbe luogo ad una nuova procedu‑
ra di affidamento.
Il Giudice amministrativo all’uopo chiarisce che l’interpello
non rappresenta una nuova gara ma “si presenta quale ulterio‑
re segmento della originaria procedura di affidamento, della
quale assorbe tutti gli atti e gli adempimenti presupposti”.
A sostegno di tale interpretazione, ad avviso del Collegio,
soccorre “il dato strutturale” dell’articolo 140 d.lgs.12 aprile
2006, n. 163, che ammette solo “un semplice utilizzo delle
pregresse offerte”10, essendo questo lo scopo della modifica
imposta alla norma dalla Commissione europea, trasfuso nel
d.lgs.11settembre 2008, n.152 che nell’intenzione di congela‑
re le offerte inizialmente presentate, vuole tutelare la concor‑
renza tra gli operatori economici ed, allo stato, impedire
“qualsiasi forma di surrettizia rinegoziazione”.
Sotto il crisma delle regole costituzionali, il giudice osserva
che il meccanismo previsto dall’art.140 in luogo dell’indizione
di una nuova procedura risponde anche alle esigenze di efficien‑
za e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.)
attraverso la previsione di un meccanismo operativo semplifi‑
cato. Esso consente, infatti, nelle ipotesi di risoluzione per
inadempimento dell’appaltatore o fallimento di quest’ultimo,
di affidare il completamento dei lavori, mediante scorrimento
dell’originaria graduatoria di gara, evitando il più complesso e
dispendioso percorso dell’indizione di una nuova gara con
prezzi aggiornati. Essendo perciò l’interpello un “ulteriore
segmento della originaria procedura d’affidamento” e non “una
nuova gara”, in relazione alla fattispecie de qua l’Amministra‑
zione avrebbe dovuto far riferimento alla procedura di interpel‑
lo disciplinata dall’art. 10 della l. 11 febbraio 1994, n.109 così
come previsto dal bando pubblicato dall’Università nel 2004 al
punto IV.1 e non all’art. 140 d.lgs.12 aprile 2006, n. 163.
L’eccezione dell’ATI, presentata con motivi aggiunti11,
caso di fallimento o di risoluzione del contratto per grave inadempimento
dell’originario appaltatore, di interpellare il secondo classificato al fine di sti‑
pulare un nuovo contratto per il completamento dei lavori alle medesime
condizioni economiche già proposte in sede di offerta. I soggetti di cui all’arti‑
colo 2, comma 2, in caso di fallimento del secondo classificato, possono inter‑
pellare il terzo classificato e, in tal caso, il nuovo contratto è stipulato alle
condizioni economiche offerte dal secondo classificato.”
10 Anche il Consiglio di Stato, in una decisione non riguardante strictu sensu la
materia dell’interpello, ha avuto però modo di affermare che ove si applica
l’art. 140, d.lgs. n. 163 del 2006, l’affidamento per il completamento delle
opere deve avvenire alle medesime condizioni già proposte dall’originario ag‑
giudicatario in sede di offerta (Cons. Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 20, in
www.giustizia‑amministrativa.it).
11L’istituto dei motivi aggiunti, positivamente introdotto nell’ambito del proces‑
so amministrativo dall’art. 1 della l. 21 luglio 2000 n. 205 che ha modificato
l’art. 21, co. 1 della l. n. 1034 del 1971 (cd. legge Tar), ha la finalità di intro‑
durre nel giudizio già pendente (oltre il termine di decadenza) nuove censure
relativamente a vizi dello stesso provvedimento (o diversi da quello originaria‑
mente censurato in base al nuovo articolo come modificato dalla l. n. 205 del
2000) non conosciute o non facilmente conoscibili dai quali si palesa l’esisten‑
za di vizi del provvedimento impugnato nel ricorso introduttivo. Per effetto del
recepimento della direttiva 2007/66/CE nel d.lgs. 20 marzo 2010, n.53, all’in‑
terno del giudizio accelerato previsto in origine dall’art. 23‑bis, è stato enucle‑
ato un rito specifico riguardante le procedure di affidamento di appalti pubbli‑
ci, ma poi queste norme sono state sostituite dalle disposizioni del d.lgs. 2 luglio
2010, n.104, che ha introdotto il nuovo codice sul processo amministrativo. In
particolare, l’art. 119, co. 2, c.p.a. prevede che nei giudizi aventi ad oggetto le
controversie relative ai provvedimenti concernenti le procedure di affidamento
di pubblici lavori, servizi e forniture “tutti i termini processuali ordinari sono
Gazzetta
F O R E N S E
sarebbe dunque condivisibile ad avviso del Giudice ammini‑
strativo, solo che il ricorso è stato depositato decorsi i 60
giorni dalla conoscenza del provvedimento lesivo e dunque
“esula dal profilo conoscitivo dell’adita autorità giudiziaria,
potendo al più essere valutato dall’amministrazione in sede di
eventuale esercizio del proprio potere incoercibile di autotu‑
tela decisoria”.
2. La procedura di interpello
Nell’affidamento degli appalti pubblici, la Pubblica Am‑
ministrazione, non solo deve rispettare le norme e i principi
nazionali12 , ma deve anche tutelare la libera concorrenza, la
parità di trattamento, la trasparenza e proporzionalità13 in
ossequio ai principi sanciti dai Trattati istituitivi della Unione
Europea ed ai principi di derivazione giurisprudenziale elabo‑
rati dalla Corte di giustizia14.
Nell’ottica di tali principi, l’interpello rappresenta un
agevole meccanismo che consente alla stazione appaltan‑
te – nella ipotesi di risoluzione per inadempimento dell’appal‑
tatore o fallimento di quest’ultimo – di affidare con modalità
semplificate il completamento dei lavori alle imprese classifi‑
cate nella precedente gara.
La procedura di interpello, infatti, evita l’aggravio proce‑
durale connesso all’indizione di una nuova gara ed allo stesso
tempo è posto a tutela della concorrenza e della par‑condicio
dei concorrenti.
A seguito di una recente rivisitazione normativa che ha
interessato il diritto degli appalti, esso è risultato notevolmen‑
te modificato rispetto alla normativa previgente contenuta
dimezzati salvo, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricor‑
so introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti…”. L’art. 120 c.p.a.,
a sua volta, introduce delle disposizioni derogatorie rispetto a quelle speciali
dell’art. 119 c.p.a., stabilendo, quanto ai termini che “per l’impugnazione degli
atti di cui al presente articolo il ricorso e i motivi aggiunti, anche avverso atti
diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta
giorni, decorrente dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del
d.lgs. n. 163 del 2006, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara,
autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all’articolo 66, comma 8,
dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto 2”
(art. 120, co. 5, c.p.a.). Il rito contenuto nel c.p.a. differisce sostanzialmente da
quello dettato all’interno del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e s.m.i (invero la
disciplina contenuta nel d.lgs.12 aprile 2006, n. 163, nel suo ‑sia pur breve‑
periodo di vigenza aveva dato luogo a notevoli problemi applicativi: in primo
luogo, il termine per la proposizione dei motivi aggiunti avverso gli atti già
impugnati e quello per procedere all’impugnazione dell’ordinanza cautelare
apparivano molto esigui, tanto da far dubitare della loro costituzionalità in
rapporto alla effettività della tutela). In particolare, l’art. 245, co. 2‑quin‑
quies prevedeva che i termini processuali fossero fissati in: “a) trenta giorni per
la notificazione del ricorso e per la proposizione di motivi aggiunti avverso
atti diversi da quelli già impugnati, decorrenti dalla ricezione della comunica‑
zione degli atti ai sensi dell’articolo 79 o, per i bandi e gli avvisi con cui si indi‑
ce una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all’articolo 66,
comma 8; b) dieci giorni per il deposito del ricorso principale, del ricorso inci‑
dentale, dell’atto contenente i motivi aggiunti, dell’appello avverso l’ordinanza
cautelare; c) trenta giorni per la proposizione del ricorso incidentale, decorren‑
ti dalla notificazione del ricorso principale; d) quindici giorni per la proposizio‑
ne dei motivi aggiunti avverso gli atti già impugnati; e) quindici giorni per
l’appello avverso l’ordinanza cautelare decorrenti dalla sua comunicazione o,
se anteriore, notificazione”.
12In base all’art. 1 l. 7 agosto 1990, n. 241 l’attività amministrativa persegue i
fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla
presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti
nonché dai principi dell’ordinamento comunitario.
13 Principi elencati all’art. 2 d.lgs. 12 aprile 2006, n.163.
14 La Corte è chiamata ai sensi dell’art. 19 TUE ad “assicurare il rispetto del di‑
ritto nell’interpretazione e nell’applicazione del trattato”.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
nella legge15.
La materia degli appalti pubblici, invero, fino a qualche
anno fa risultava enormemente disarticolata perché il diritto
interno era costituito da variegate e spesso tra loro sovrappo‑
ste fonti normative, alcune di origine nazionale (a partire
dalla legge di contabilità dello Stato r.d. n. 2420/1923)16, ed
altre di origine comunitaria, che disciplinavano le procedure
di aggiudicazione degli appalti di servizi, lavori, forniture17.
La conseguenza era che l’operato della pubblica ammini‑
strazione spesso si allontanava dai principi sopra enunciati e
dal perseguimento delle politiche promosse dal legislatore
comunitario.
La legge 11 febbraio 1994, n.10918, cd. legge quadro dei
Lavori Pubblici, rappresentò un primo tentativo di diritto
interno di riformare la materia degli appalti di lavori, ma
successivamente è stato il legislatore comunitario – preoccu‑
pato di una notevole distorsione della libera concorrenza19 e
della tutela alla parità di trattamento degli operatori econo‑
mici nel mercato interno – ad intervenire più volte sino alla
Direttiva Unica Appalti nel tentativo di uniformare a livello
europeo la materia.
A tal fine, il Parlamento e il Consiglio europeo, con le
direttive 2004/18/CEE e 2004/17/CEE 20, hanno cercato, da
una lato di inserire le norme dettate in materia di appalti in
un unico corpus, e, dall’altro con maggiore timidezza, di in‑
trodurre, nella disciplina degli appalti di lavori, forniture e
servizi, rilevanti innovazioni, tese a modernizzare e rendere
più flessibile l’attività contrattuale delle amministrazioni ag‑
giudicatrici 21.
Così, con il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163,
recependo le suddette direttive nel nostro ordinamento, il le‑
15 La legge 18 novembre 1998, n. 415 aveva riconosciuto, inserendo il co. 1‑ter
all’art. 10 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (cd. legge quadro sui lavori
pubblici) la possibilità per la stazione appaltante di stabilire nel bando la facol‑
tà di interpellare l’impresa seconda classificata al fine di stipulare un nuovo
contratto per il completamento dei lavori alle medesime condizioni economiche
già proposte in sede di offerta, ed inoltre in casi di fallimento anche della secon‑
da classificata, il bando poteva prevedere la possibilità di affidare i lavori,
previo interpello, al terzo classificato alle condizioni economiche offerte dal
secondo classificato. Successivamente, i comma 12 bis e ter dell’art. 5 d.l. 14
marzo 2005,n.35, conv. in l. 14 maggio2005, n. 80, avevano previsto l’inseri‑
mento della clausola della “gara a scorrimento” non come eventualità del
bando ma come previsione naturale, dettandone una disciplinata più dettaglia‑
ta e derogatoria dell’art. 10 co.1‑ter, l. 11 febbraio 1994, n. 109. La norma si
era espressamente palesata quale derogatoria della legge quadro ma a causa
della non semplice individuazione del distinto ambito applicativo, venne poi
interpretata come una estensione dell’istituto di cui all’art. 10, co.1‑ter, della l.
11 febbraio 1994, n.109.
16 Legge che, seppur datata nel tempo,ha disciplinato a lungo la materia dei
contratti pubblici della pubblica amministrazione.
17 Il riferimento è alle direttive 92/50/CE per i servizi, 93/36/CE per le forniture,
93/37/CE per i lavori.
18 Abrogata dall’art. 256 d.lgs.12 aprile 2006, n. 163.
19 Osserva P. Cerbo “come si desume dal combinato degli artt. 3 del Trattato
sull’Unione europea e 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(rispettivamente, ex artt. 2 del Trattato UE e 4 del Trattato CE), la concorren‑
za è chiaramente concepita come un mezzo – probabilmente il principale – per
raggiungere obiettivi pur sempre di ordine sociale”, in La scelta del contraente
negli appalti pubblici fra concorrenza e tutela della dignità umana, Foro amm.
Tar 2010, 05, 1875.
20 Precisamente con la direttiva 2004/18/CE il legislatore ha inteso provvedere
alla unificazione in un unico testo normativo delle direttive in vigore nei setto‑
ri classici (lavori, servizi, forniture) mentre con la direttiva 2004/17/CE ha di‑
sciplinato i settori cd. esclusi (acqua, energia, servizi di trasporto e postali)
21 In tal senso, Giurdanella, Il codice dei contratti pubblici, commento al d.lgs.
12 aprile 2006, n. 163, Napoli, 2006, p. 9.
2 0 1 1
97
gislatore si è posto l’obiettivo di voler compilare un “unico
testo normativo recante le disposizioni legislative in materia
di procedura di appalto disciplinate dalle due direttive22 coor‑
dinando anche le altre disposizioni in vigore, nel rispetto dei
principi del Trattato istitutivo dell’Unione Europea” (lett. A,
comma 1 dell’art. 25 l. 18 aprile 2005, n. 18), e – nell’ottica
di incrementare la flessibilità, l’efficienza, e la celerità dell’at‑
tività amministrativa – ha introdotto nuovi meccanismi di
affidamento dei contratti e ha compiuto una rivisitazione di
quelli già esistenti (il riferimento è al dialogo competitivo, al
sistema dinamico di acquisizione ed alla nuova procedura di
interpello, diversa da quella prima prevista dall’art. 10, legge
11 febbraio 1994, n.109).
L’art. 140 codifica le novità introdotte dal decreto in ma‑
teria di procedure di affidamento in caso di fallimento dell’ese‑
cutore primo aggiudicatario o risoluzione del contratto per
gravi inadempimento dello stesso. Specificamente, la norma,
nella primigenia versione23, consentiva alla stazione appaltan‑
te di interpellare i soggetti che avevano partecipato all’origi‑
naria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria,
al fine di stipulare un nuovo contratto per l’affidamento del
completamento dei lavori. Si procedeva all’interpello a parti‑
re dal soggetto che avesse formulato la prima migliore offerta,
escluso l’originario aggiudicatario, e l’affidamento avveniva
alle medesime condizioni economiche già proposte in sede di
offerta dal soggetto progressivamente interpellato, sino al
quinto migliore offerente in sede di gara. In caso di fallimen‑
to o di indisponibilità di tutti i soggetti interpellati, le stazio‑
ni appaltanti potevano procedere all’affidamento del comple‑
tamento dei lavori mediante procedura negoziata senza pub‑
blicazione di bando, ai sensi dell’articolo 57, nei casi in cui
l’importo dei lavori da completare fosse stato pari o superio‑
re alla soglia di cui all’articolo 2824, ovvero nel rispetto dei
principi del Trattato a tutela della concorrenza, se l’importo
suddetto fosse stato inferiore alla soglia di cui all’articolo 28.
Allorché i lavori fossero già stati realizzati per una percentua‑
le non inferiore al 70 per cento e l’importo netto residuo dei
lavori non fosse superiore ai tre milioni di euro, le stazioni
22 È stato osservato che “La disciplina comunitaria non esaurisce il quadro nor‑
mativo di riferimento, trovando applicazione alle sole fasi dell’appalto che ri‑
guardano la scelta del contraente, e solo gli appalti il cui valore supera deter‑
minate soglie stabilite dalle stesse direttive a seconda dell’oggetto dell’appalto
(servizi, forniture, lavoro). La finalità di garantire la concorrenza e non discri‑
minazione tra gli operatori economici nazionali e degli altri Stati membri
spiega perché la normativa comunitaria riguardi solo, con qualche eccezione,
la scelta dell’operatore e si applichi agli appalti al di sopra di un certo valore,
sul presupposto che appalti di modesta entità non possano attirare l’attenzione
degli operatori stranieri e comunque falsare la concorrenza del settore”, M.
Protto, voce Appalti Pubblici, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S.
Cassese, Milano, 2006, Vol. I, 355.
23 Prima della modifica del d.lgs. 11 settembre 2008, n.152.
24 Art. 28, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 lett a “per i contratti pubblici di rilevan‑
za comunitari, il valore stimato al netto dell’ imposta sul valore aggiunto (i.v.a.)
è pari o superiore alle soglie seguenti a)137.000 euro, per gli appalti pubblici
di forniture e di servizi da quelli di cui alla lettera b. 2) aggiudicati dalle ammi‑
nistrazioni aggiudicatrici che sono autorità governative centrali indicate nell’al‑
legato IV; b) 211.000 euro; b.1.) per gli appalti pubblici di forniture e di servi‑
zi aggiudicati da stazioni appaltanti diverse da quelle indicate nell’allegato IV;
b.2.) per gli appalti pubblici di servizi,aggiudicati da una qualsivoglia stazione
appaltante, aventi per oggetto servizi della categoria 8 nell’allegato II A, servizi
di telecomunicazioni della categoria 5 dell’allegato II A, le cui voci nel CPV
corrispondono ai numeri di riferimento CPC 7524, 7525, 7526, servizi elenca‑
ti nell’allegato B; c) 5.278.000 euro per gli appalti di lavori pubblici e per le
concessioni di lavori pubblici”.
amministrativo
Gazzetta
98
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
appaltanti avrebbero potuto procedere all’affidamento del
completamento dei lavori direttamente mediante la procedu‑
ra negoziata senza pubblicazione di bando ai sensi dell’arti‑
colo 57.
Dubbi di compatibilità erano emersi in dottrina 25 in rela‑
zione all’ultima parte dell’art. 140 – che sanciva la possibilità
di ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione del
bando secondo le condizioni sopracitate – in quanto ipotesi
aggiuntive rispetto a quelle previste dall’art. 31 della direttiva
n. 2004/18/CE e disciplinanti fattispecie tassative di deroga
alla selezione del contraente tramite gara.
Tali perplessità erano però considerate da altri autori non
rilevanti26 in quanto solo ipotesi di particolare urgenza di rea‑
lizzazione dell’opera avrebbero giustificato il ricorso alle pro‑
cedure designate dai commi 3 e 4 dell’art. 140 ed anche perché
la relazione governativa aveva affermato la compatibilità al
diritto comunitario della previsione del codice e nulla aveva
osservato il Consiglio di Stato27 in sede di espresso parere.
Il decreto del 2006 ha però subìto una rilevante modifica
con il d.lgs. 11 settembre 2008 n. 152 (cd. terzo correttivo)28,
a seguito della messa in mora dello Stato italiano da parte
della Comunità Europea con procedura di infrazione
2007/2309. La Commissione Europea, in quella sede, ha
evidenziato l’incompatibilità di alcune norme del Codice degli
appalti con le direttive 17 e 18 del 2004, oltre che l’omessa
trasposizione di alcune disposizioni della direttiva 17.
Il d.lgs. 11 settembre 2008 n. 15229 nasce dunque dall’esi‑
genza di mettere mano ad una riforma di alcuni articoli del
Codice degli appalti, in base alle puntuali osservazioni della
Commissione europea.
La procedura di interpello è stata, così, radicalmente mo‑
dificata per rispondere alla contestazione comunitaria di aver
introdotto una procedura di negoziazione dell’appalto al di
fuori dei casi previsti dal diritto comunitario. In particolare,
la Commissione osservava che il co. 2 dell’art. 140, nel sanci‑
re che l’appalto venisse attribuito alle medesime condizioni già
proposte in sede di offerta ad uno dei soggetti progressivamen‑
te interpellati, avrebbe potuto condurre ad una rinegoziazione
dell’offerta, perché in tal modo l’appalto non sarebbe più
consistito nella esecuzione delle prestazioni offerte in sede di
gara dal sostituto, bensì, di quelle offerte dall’aggiudicatario
originario. In tal caso ci sarebbe l’attribuzione di un nuovo
25 Osservavano G. Caputi, D. Villa, “sembra doveroso rilevare come il comma 3
dell’art. 140 dia luogo ad una stravaganza, disciplinando “l’ affidamento del
completamento dei lavori” in modo tale che gli appalti “sopra soglia” vengano
assoggettati ad una procedura meno garantistica e competitiva (e dunque più
informale e discrezionale)rispetto agli appalti “sotto soglia”. La procedura ne‑
goziata senza pubblicazione di bando ex art. 57 del Codice appare infatti assi‑
curare minor tutela al mercato rispetto ai principi del Trattato, come in parte
formalizzati nelle direttive e nello stesso Codice”, in Il nuovo Codice dei con‑
tratti pubblici di lavori, servizi, forniture, a cura di F. Saitta, 2008, p. 931 e ss.
26In tal senso, si v. F. Giorgiamani, La gara a scorrimento, in Trattato sui con‑
tratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. de Nictolis, R. Garofoli,
Milano, 2008, vol. V, i settori speciali, l’esecuzione, p. 3696 e ss.
27 Cons. Stato, Sez. consultiva atti normativi – parere 6 febbraio 2006 n. 355 – Pres.
Coraggio, oggetto: Presidenza del Consiglio dei Ministri – Schema del D.lgs.
recante il “Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”, ai sensi
dell’articolo 25 l. 18 aprile 2005, n. 62.
28In realtà, erano già stati emanati il d.lgs. 26 gennaio 2007 n.5, (cd. primo
correttivo), d.lgs. 31 luglio 2007 n. 113 (cd. secondo correttivo).
29Esso, tra l’altro, rappresenta l’ultimo decreto correttivo possibile, essendo
scaduto il termine biennale decorrente dal 1 luglio 2006 (data di entrata in vi‑
gore del codice) per le correzioni.
Gazzetta
F O R E N S E
appalto mediante una procedura negoziata senza previa mes‑
sa in concorrenza, che sarebbe potuta essere ammissibile solo
nei casi in cui la direttiva 2004/18/CEE avesse autorizzato il
ricorso a tale procedura (art.31) e che, invece, non può essere
oggetto di una previsione di carattere generale.
In relazione al comma 3 (che prevedeva la possibilità per
la stazione appaltante di ricorrere a procedura negoziata
senza bando ai sensi dell’art. 57 del Codice in caso di falli‑
mento o di indisponibilità di tutti i partecipanti alla gara e nel
caso in cui l’importo dei lavori avesse superato le soglie di
applicazione della direttiva 2004/18/CEE) la Commissione
rilevava che tale disposizione normativa autorizzasse un ri‑
corso generalizzato alla procedura negoziata senza pubblica‑
zione di un bando di gara, nel rispetto delle regole di proce‑
dura previste dall’art. 57. Non era infatti chiaro se il riferi‑
mento a tale ultimo articolo – che prevede, altresì, il ricorso
alla procedura negoziata – fosse autorizzato conformemente
alla direttiva 2004/18/CE e potesse essere interpretato nel
senso che avrebbe potuto limitare l’applicazione della dispo‑
sizione in questione ai soli casi contemplati dall’art. 57.
La Commissione, quindi, rilevava che l’art. 140 appariva
autorizzare il ricorso alla procedura negoziata senza previa
pubblicazione di un bando di gara, in casi diversi da quelli
previsti dalla direttiva 2004/18/CE, e per questa via potesse
risultare in contrasto con essa.
La disposizione, nella versione modificata dal d.lgs.11
settembre 2008, n.152, ora prevede che in caso di fallimento
dell’aggiudicatario o di risoluzione dell’appalto per suo grave
inadempimento, la stazione appaltante ha la possibilità di
interpellare progressivamente i soggetti che hanno partecipa‑
to all’originaria procedura (diversi dall’aggiudicatario) par‑
tendo dal migliore offerente.
L’affidamento deve avvenire alle medesime condizioni già
proposte in sede di offerta dall’originario aggiudicatario e non
più alle medesime condizioni già proposte in sede di offerta
originaria dal soggetto interpellato. Il comma 3 ed il comma 4
sono stati abrogati.
Alla luce del tenore letterale, secondo l’ interpretazione
della sentenza in commento, la disposizione del riformato
articolo 140 non lascia dubbi circa la impossibilità di preve‑
dere in sede contrattuale l’operatività di meccanismi tendenti
all’aggiornamento o all’attualizzazione del corrispettivo di
appalto in quanto in tal modo si rischia di realizzare uno
scivolamento verso forme di rinegoziazione dell’appalto non
previste dalla norma.
La riforma della norma elimina ogni considerevole dubbio
circa i poteri discrezionali che residuano in capo alla stazione
appaltante in sede di interpello ed allo stesso tempo da essa
si può intuire come le imprese selezionate siano prive di un
autentico “diritto” all’interpello, ma vantano un interesse
legittimo30 al corretto esercizio del potere di scelta da parte
della stazione appaltante.
In capo alla stazione appaltante, infatti, residua la scelta
discrezionale, in sede di redazione del bando31, di fare o meno
30In tal senso, G. Caputi D. Villa, op.cit, p. 933 e ss.
31 A tale riguardo, recentemente il Ministro per la Pubblica Amministrazione e
l’Innovazione, ha presentato il DDL n. 2243 recante “Disposizioni in materia
di semplificazione dei rapporti della Pubblica Amministrazione con cittadini e
imprese e delega al Governo per l’emanazione della Carta dei doveri delle
Gazzetta
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
ricorso a tale procedura ed al soggetto interpellato spetta,
semplicemente, valutare se l’offerta è “ancora remunerativa e
se aderire all’invito”32.
Non è dunque possibile, come anche statuito dal giudice
amministrativo, applicare l’aggiornamento dei prezzi, ex
artt. 29 co. 3 e 133 co. 8, che attengono ad una fase diversa
da quella dell’affidamento e ad essa antecedente33, ovvero
quella della predisposizione degli atti di gara.
Solo nei casi in cui l’Amministrazione dovesse procedere
ad una nuova gara risulterebbe necessario per essa provvede‑
re all’aggiornamento dei prezzi di progetto.
La recente giurisprudenza34 evidenzia come l’obbligo di
porre a base della gara prezzi aggiornati ai prezzari correnti
risponde all’esigenza di non alterare la concorrenza tra le
imprese, nonché di consentire la massima partecipazione
possibile alle procedure di gara, e di tutelare l’affidamento
delle imprese alla serietà della proposta al pubblico del pro‑
getto e del contratto che la base d’asta implica.
L’interpello, invece, è solo un “segmento della originaria
gara”, e nei casi in cui si voglia far ricorso ad esso, non residua
alcun potere in capo alla stazione appaltante di riallineare35
l’appalto alle condizioni attuali ed al tempo trascorso.
2 0 1 1
99
ricorrente, e dunque la doglianza, per quanto condivisibile,
non è rientrata tra gli elementi su cui il Giudice ha poi fonda‑
to la sua decisione.
Sotto tale profilo, viene in rilievo il principio giurispru‑
denziale secondo cui, nelle procedure per l’aggiudicazione dei
contratti della Pubblica Amministrazione, è il bando di gara
che costituisce la legge del procedimento e ad esso devono
attenersi non soltanto i partecipanti alla gara, ma anche l’am‑
ministrazione procedente36.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale in un
pubblico appalto, l’amministrazione appaltante deve applica‑
re le norme del bando che, insieme alla lettera di invito, costi‑
tuiscono la lex specialis del procedimento concorsuale, la
quale non è derogabile neppure se alcune delle sue regole ri‑
sultassero non più conformi allo ius superveniens37, atteso che
la lex specialis nel richiamare una determinata norma, effet‑
tua un rinvio materiale anziché dinamico, dunque conseguen‑
temente insensibile ai mutamenti normativi successivi.
amministrazioni pubbliche e per la codificazione in materia di pubblica ammi‑
nistrazione”, prevede una norma intesa a modificare il citato art. 140 del Co‑
dice. La modifica proposta – contenuta nell’art. 11 del DDL – è finalizzata a
rendere obbligatorio il ricorso all’interpello, eliminando qualunque margine di
discrezionalità in capo alla stazione appaltante che, a fronte del fallimento
dell’appaltatore, o della risoluzione del contratto per grave inadempimento,
non potrebbe fare altro che interpellare i concorrenti che seguono in graduato‑
ria, e ciò a prescindere da una previsione in tal senso contenuta nel bando. La
modifica, ove adottata, troverebbe applicazione solamente agli affidamenti
relativi a bandi pubblicati successivamente alla sua entrata in vigore (come
stabilito da espressa norma transitoria contenuta nell’art. 11, comma 2, del
medesimo DDL). Il provvedimento, è stato approvato dalla Camera dei Depu‑
tati il 9 giugno2010, ed è ora passato all’esame del Senato.
32In tal senso si v. C.Giurdanella, Il codice dei contratti pubblici, Napoli, 2009,
p. 598.
33 Anche il Consiglio di Stato, in relazione agli oneri di frammentazione alla
quale è astrattamente applicabile la procedura di interpello ha osservato che il
140 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 consentiva “nella sua originaria versione, che
l’affidamento avvenisse alle medesime condizioni offerte in sede di gara dal
soggetto interpellato. Nella nuova formulazione, ancora più restrittiva della
precedente, l’affidamento per il completamento dei lavori deve avvenire alle
medesime condizioni già proposte dall’originario aggiudicatario in sede di of‑
ferta. Applicando la disposizione normativa riportata, è evidente che non c’è
spazio alcuno per oneri di frammentazione, al cui riconoscimento osta il prin‑
cipio della immodificabilità delle originarie condizioni contrattuali” (Cons.
stato, 11 gennaio 2010, n.20)
34In tal senso Tar Reggio Calabria, sez I, 9 marzo 2009, n. 131, in Foro amm.
Tar 2009, 3, p. 894.
35In tal senso, C. Giurdanella, op. cit.
amministrativo
3. Regime transitorio
A conclusione della specifica soluzione fornita dal Giudi‑
ce amministrativo, si pone la questione del regime giuridico
cui devono essere sottoposte le procedure di gara aperte prima
dell’entrata in vigore del d.lgs.12 aprile 2006, n. 163. Infatti
a mente dell’art. 253 del citato decreto, le norme del codice
devono essere applicate ai bandi di gara emanati a partire dal
luglio 2006. Alla fattispecie de qua, dunque, era astrattamen‑
te applicabile l’art. 10, l.11 febbraio 1994, n.109 in virtù del
regime transitorio dettato dall’articolo citato (ma anche per‑
ché così era previsto dal bando emesso dalla amministrazione
appaltante).
Tuttavia, come sopra evidenziato, tale eccezione era pre‑
sente solo nei motivi aggiunti tardivamente proposti da parte
36Secondo il Consiglio di Stato “In tema di procedure ad evidenza pubblica vale
il principio di tutela dell’affidamento dei concorrenti, per cui le gare devono
essere svolte in base alla normativa vigente alla data di emanazione del bando,
ossia al momento di indizione della relativa procedura (nella specie le fasi della
licitazione privata e della procedura negoziata non sono autonome tra loro, ma
strettamente interconnesse e da ciò consegue l’inapplicabilità dello ius superve‑
niens)” sez V, 05 ottobre 2005, n. 5316, in www.giustizia‑amministrativa.it.
37 Cons. Stato, Sez VI, 02 marzo 2009, n. 1180, in Foro amm. Cds 2009, 3,
p. 776.
100
d i r i t t o
●
Rassegna di giurisprudenza
sul Codice dei contratti
pubblici, di lavori, servizi
e forniture
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato
presso l’Avvocatura Regionale della Campania
a m m i n i s t r at i v o
Gazzetta
F O R E N S E
Aggiudicazione definitiva – 1. Impugnazione del concorrente
escluso – Legittimazione al ricorso – Insussistenza – 2. Ricorso
principale e ricorso incidentale – Ordine di trattazione
1. Nelle controversie riguardanti l’affidamento dei con‑
tratti pubblici la legittimazione al ricorso spetta esclusivamen‑
te ai soggetti partecipanti alla gara, poiché solo tale qualità si
connette all’attribuzione di una posizione sostanziale diffe‑
renziata e meritevole di tutela.
La mera partecipazione (di fatto) alla gara non è, peraltro,
sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: ove
l’amministrazione abbia escluso dalla gara il concorrente,
questi non ha la legittimazione ad impugnare l’aggiudicazio‑
ne al controinteressato, a meno che non ottenga una pronun‑
cia di accertamento della illegittimità dell’esclusione, in
quanto la determinazione di esclusione, non impugnata o non
annullata, cristallizza definitivamente la posizione sostanzia‑
le del concorrente, ponendolo nelle stesse condizioni di colui
che sia rimasto estraneo alla gara.
2. Il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittima‑
zione del ricorrente principale, mediante la censura della sua
ammissione alla procedura di gara, deve essere sempre esami‑
nato prioritariamente, anche nel caso in cui il ricorrente
principale alleghi l’interesse strumentale alla rinnovazione
dell’intera procedura.
Detta priorità logica sussiste indipendentemente dal nu‑
mero dei partecipanti alla procedura selettiva, dal tipo di
censura prospettata dal ricorrente incidentale e dalle richieste
formulate dall’amministrazione resistente.
L’esame prioritario del ricorso principale è ammesso, per
ragioni di economia processuale, esclusivamente qualora sia
evidente la sua infondatezza, inammissibilità, irricevibilità o
improcedibilità.
Cons. Stato, Ad. Pl., 07 aprile 2011, n. 4
Aggiudicazione definitiva – Impugnazione del concorrente esclu‑
so – Legittimazione al ricorso – Presupposti
Può effettivamente parlarsi di un interesse “strumentale”,
autonomo e differenziato rispetto a quello della generalità
dei consociati, allorché l’annullamento richiesto dal ricorren‑
te, ove effettivamente disposto in sede giurisdizionale, sia
destinato con certezza e indefettibilmente – per legge o per
effetto delle pregresse determinazioni della stessa Ammini‑
strazione – a produrre l’effetto di una rinnovazione del me‑
desimo procedimento amministrativo già posto in essere,
ovvero di una ripresa di esso a partire dal momento in cui si
è verificato il vizio riscontrato dal giudice, e comunque tale
iter procedimentale sia destinato a riguardare sempre e sol‑
tanto gli stessi soggetti che sono stati interessati al preceden‑
te procedimento.
Al contrario, allorché la caducazione dell’intero procedi‑
mento restituisca integra alla p.a. la propria discrezionalità
di determinazione in ordine all’an e al quomodo della propria
futura azione, non v’è motivo di discostarsi dal consolidato
indirizzo in relazione alla sufficienza dell’interesse strumen‑
tale del partecipante ad una gara pubblica di appalto ad otte‑
nerne la riedizione, nel senso che tale interesse non sussiste in
capo al soggetto legittimamente escluso, dato che esso, per
effetto dell’esclusione, è privo non solo del titolo legittimante
a partecipare alla gara, ma anche a contestarne gli esiti e la
legittimità delle distinte scansioni procedimentale.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Cons. Stato, Sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 127
Pres. Motta, Est. Greco
Certificazioni – Verifica della effettiva vigenza – Costituisce one‑
re della stazione appaltante
Incombe sulla stazione appaltante l’onere di verificare,
eventualmente anche tramite l’accesso ai siti ufficiali degli
organismi certificatori, l’effettiva vigenza degli attestati e dei
documenti presentati in sede di gara, effettuando la necessa‑
ria attività istruttoria integrativa, richiedendo, se del caso,
ex art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, gli opportuni chiarimenti
e la certificazione idonea a dimostrare, inequivocabilmente,
la sussistenza del prescritto requisito soggettivo, già al mo‑
mento della presentazione della domanda e, comunque, alla
scadenza del termine previsto per la formulazione delle of‑
ferte. L’art. 16 del d.lgs. 17 marzo 1995 n. 157, ora sostituito
dall’art. 46 del codice dei contratti, nel disporre che le am‑
ministrazioni invitano, se necessario, le ditte partecipanti a
gare per l’aggiudicazione di contratti a fornire chiarimenti ed
ad integrare la carente documentazione presentata, non ha
inteso assegnare alle stesse una mera facoltà o un potere
eventuale, ma ha piuttosto inteso codificare un ordinario
modo di procedere volto a fare valere, entro certi limiti e nel
rispetto della par condicio dei concorrenti, la sostanza sulla
forma, orientando l’azione amministrativa sulla concreta
verifica dei requisiti di partecipazione e della capacità tecni‑
ca ed economica, senza che, in assenza di regole tassative e
di preclusioni imposte, l’esercizio di tale facoltà possa confi‑
gurare una violazione della par condicio dei concorrenti ri‑
spetto ai quali al contrario, assume rilievo l’effettività del
possesso del requisito.
Cons. Stato, Sez. III, 11 marzo 2011, n.1581
Pres. Lodi, Est. Capuzzi
Controversie in materia di affidamento della gestione dei rifiu‑
ti – 1. Giurisdizione esclusiva del g.a. ex art. 133, comma 1, lett. e)
del codice del processo amministrativo – 2. Risposte fornite in
sede di f.a.q. dalla stazione appaltante – Possono soltanto offrire
precisazioni e delucidazioni della lex specialis, senza modificarne
il contenuto
1. Merita condivisione l’orientamento espresso dal Con‑
siglio di Stato (ord. 586 del 2011), secondo cui l’art. 133,
comma 1, lett. p) del Codice del processo amministrativo,
riguarda non già l’affidamento della gestione, ma la gestione
in sé considerata, in accezione ricollegabile sostanzialmente
a quella dell’art. 183, comma 1, lett. d, del D. Lgs. 3 aprile
2006, n. 152 s.m.i., in forza del quale nel concetto di gestio‑
ne dei rifiuti vanno ricondotti la raccolta, il trasporto, il re‑
cupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di
queste operazioni, nonché il controllo delle discariche dopo
la chiusura. In questa prospettiva l’affidamento della gestio‑
ne dei rifiuti a seguito di procedura di evidenza pubblica non
attiene alla gestione in senso stretto ma costituisce attività
meramente preparatoria e strumentale rispetto ad essa, atti‑
vità come tale autonomamente disciplinata in modo unitario
dalla lettera e) dell’art. 133, comma 1., del cod. proc. amm.,
che ha ribadito la giurisdizione esclusiva del Giudice ammi‑
nistrativo per tutte le controversie relative a procedure di
affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da
soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del
2 0 1 1
101
socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero
al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti
dalla normativa statale o regionale.
2. È senz’altro illegittima la modifica dei requisiti pre‑
scritti dal bando di gara per effetto della risposta data dalla
stazione appaltante alle domande poste dagli aspiranti con‑
correnti. A fronte di una originaria clausola del bando di
gara che in modo inequivoco prescriva il possesso di un de‑
terminato requisito (nella fattispecie: requisito dell’iscrizione
nell’Albo gestori rifiuti anche per la categoria “conto pro‑
prio”, vale a dire per i rifiuti prodotti dall’attività autonoma
del gestore del servizio), la stazione appaltante non può ope‑
rare una sostanziale modifica della lex specialis di gara nel
senso di consentire la partecipazione anche a soggetti privi di
tale requisito, non congruente con le prestazioni dedotte
nell’appalto: benché motivata e ragionevole, siffatta modifica
della lex specialis di gara, in quanto non divulgata con mo‑
dalità analoghe a quelle utilizzate per la pubblicazione del
bando ed idonee a consentirne la conoscenza a tutte le im‑
prese interessate alla partecipazione, ma comunicata esclusi‑
vamente nelle forme tipiche delle risposte del committente
alle domande di chiarimento poste dai concorrenti, determi‑
na evidente violazione della par condicio tra i partecipanti,
alcuni dei quali sono stati indotti a formulare la propria of‑
ferta sulla base di una prescrizione opposta e poi disattesa
dall’amministrazione appaltante ed altri dei quali hanno ri‑
nunziato a formulare la propria offerta in presenza di uno
sbarramento dovuto alla introduzione di un requisito assai
stringente.
Tar Campania, Napoli, Sez. I, 24 marzo 2011, n.1659
Pres. Guida, Est. Buonauro
Plichi contenenti la documentazione di gara – Obbligo di custodia
e di indicazione nel verbale delle misure di cautela adottate – One‑
re della prova – Non necessità di una concreta irregolarità derivata
dalla omissione ai fini della invalidazione delle operazioni di gara
Le misure di cautela relative alla conservazione dei plichi
sono volte a salvaguardare la possibilità, e non l’effettività,
della manomissione e pertanto la relativa predisposizione co‑
stituisce preciso obbligo della commissione giudicatrice la qual,
delle relative operazioni deve fare menzione nel verbale.
Ne deriva che la mancanza delle suddette cautele non
riveste un ruolo puramente indiziario ed idoneo ad inficiare
la procedura di gara in assenza di una specifica e concreta
irregolarità derivata dalla omissione di cui si discetta. È,
viceversa, sufficiente che vi sia la prova in atti che la docu‑
mentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di mano‑
missione per ritenere invalide le operazioni di gara, non po‑
tendosi porre a carico dell’interessato l’onere di provare che
vi sia stato in concreto l’evento che le misure cautelari inten‑
dono prevenire.
Cons. Stato, Sez. V, 16 marzo 2011, n. 1617
Pres. Trovato, Est. Cirillo
Nota redazionale
La sentenza in oggetto si colloca nel profondo solco trac‑
ciato dalla giurisprudenza con riguardo ad una questione
intorno alla quale si registrano due orientamenti contrapposti
ed una divisione tale da auspicare l’intervento chiarificatore
dell’ Adunanza Plenaria. Nell’ambito delle procedure degli
penale
Gazzetta
102
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
appalti vige il principio di continuità e concentrazione delle
operazioni di gara allo scopo di garantire imparzialità, pub‑
blicità, trasparenza e speditezza all’azione amministrativa: le
operazioni di esame delle offerte tecniche ed economiche de‑
vono svolgersi di regola in un’unica seduta, senza soluzione
di continuità, per evitare possibili influenze esterne e salva‑
guardare l’indipendenza di giudizio del collegio incaricato
della valutazione. Cio’ posto, in taluni casi è giocoforza dero‑
gare a tale regola. La particolare complessità delle valutazio‑
ni da porre in essere ovvero l’elevato numero delle offerte da
giudicare possono rendere obiettivamente impossibile l’esple‑
tamento delle operazioni in una sola seduta; in queste circo‑
stanze il principio di segretezza delle offerte impone che
vengano adottate adeguate garanzie di conservazione dei
plichi. Secondo un primo orientamento la illegittimità del
comportamento tenuto dall’Amministrazione non puo’ essere
esclusa sulla base dell’apprezzamento che non sarebbe concre‑
tamente avvenuta alcuna manipolazione/alterazione dei plichi
contenenti le buste,dato che la tutela giuridica dell’interesse
pubblico al corretto svolgimento delle gare pubbliche, secon‑
do i principi di cui all’art. 97 della Costituzione, deve essere
assicurata in astratto e preventivamente e non può essere
considerata soddisfatta sulla base della mera situazione di
fatto del mancato verificarsi di eventi dannosi. Altro orienta‑
mento invece ritiene che per configurarsi comportamento il‑
legittimo imputabile all’Amministrazione sia indispensabile
che si sia verificato realmente una manomissione dei plichi e/o
eventi dannosi. Con la decisione del 16 marzo 2011 n. 1617 i
giudici di Palazzo Spada, richiamando a tal fine le sentenze
del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 maggio 2010, n. 3203;
Sez. V, 12 dicembre 2009, n. 7804; Sez. V, 23 marzo 2008,
n. 1219, riformando la sentenza di primo grado e stabilendo
di “non condivide(re) l’indirizzo giurisprudenziale, seguito dal
Gazzetta
F O R E N S E
giudice di primo grado, che assegna alla mancanza delle in‑
dicate cautele un ruolo puramente indiziario, non idoneo ad
inficiare la procedura di gara, in assenza di una specifica e
concreta irregolarità derivata dalla detta omissione. Infatti,
le misure di cautela relative alla conservazione dei plichi sono
volte a salvaguardare la possibilità, e non l’effettività, della
manomissione” hanno fornito un’importante indicazione agli
interpreti che va verso l’indirizzo ermeneutico più rigoroso.
Requisiti di partecipazione alla gara – Sussistenza in sede di pre‑
sentazione dell’offerta e conservazione in fase di esecuzione – Re‑
golarizzazione documentale postuma: limiti
La sussistenza dei requisiti di partecipazione deve essere
appurata dalla stazione appaltante non solo al momento
della presentazione dell’offerta ma anche nelle successive
fasi dell’espletamento delle operazioni di gara, dell’affida‑
mento e dell’esecuzione del servizio, essendo immanente al
sistema degli appalti pubblici il principio che il contratto può
essere stipulato e proseguito solo con il soggetto che conser‑
va i requisiti idoneativi previsti dalla legge e dalla disciplina
di gara.
Il rimedio della regolarizzazione documentale postuma è
attivabile solo nelle ipotesi di dichiarazioni, documenti e
certificati non chiari o di dubbio contenuto ma che siano
stati presentati e non anche laddove si sia in presenza di do‑
cumentazione del tutto mancante o fisicamente incompleta
risolvendosi in tal caso in una palese violazione della par
condicio rispetto alle imprese concorrenti che abbiano rispet‑
tato la disciplina della lex specialis (orientamento consolida‑
to: cfr. Cons. Stato, Sez V, 2 agosto 2010 n. 5084; Cons.
Stato, Sez VI, 18 dicembre 2009, n.8386).
Tar Campania, Napoli, Sez. I, 24 febbraio 2011, n. 1094
Pres. Guida, Est. Dell’Olio
Diritto tributario
La tassazione del trust e le imposte indirette
105
Maria Pia Nastri
Una ulteriore conferma della Cassazione: le norme dello Statuto
del contribuente non hanno forza costituzionale
110
tributario
Nota a Cass., sez. trib., sentenza 11 aprile 2011, n. 8145
A cura di Raffaele Cantone
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
La tassazione del trust
e le imposte dirette
● Clelia Buccico
Professore aggregato di Diritto tributario
Maria Pia
Nastri Università degli Studi di Napoli
● presso
la Seconda
Ricercatrice di diritto tributario
dell’Università degli studi Suor Orsola Benincasa, Napoli
2 0 1 1
105
SOMMARIO: Premessa – 1. La soggettività del trust – 2. La
re‑introduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni e la
tassazione del trust – 3. I trust di scopo ed i trust di garanzia o
con funzioni solutorie – 4. Mancanza di effettivo arricchimen‑
to: condizione sospensiva o assenza di un beneficiario determi‑
nato – 5. Il trust auto‑dichiarato – 6. Il trasferimento dei beni
ai beneficiari quale momento impositivo – 7. Conclusioni.
Premessa
La re‑introdotta imposta sulle successioni e donazioni ha
evidenziato difficoltà interpretative della nuova disciplina
impositiva, legate all’ampliamento del relativo presupposto
d’imposta ed alla sua estensione anche agli atti costitutivi di
vincoli di destinazione nonché alla riconducibilità dell’istituto
del trust in questa nuova fattispecie impositiva.
Il legislatore, infatti, si è solo limitato ad estendere il pre‑
supposto d’imposta anche ai “trasferimenti di beni e diritti a
titolo gratuito” ed alla “costituzione di vincoli di destinazio‑
ne”, senza però chiarire le modalità applicative del tributo
successorio nei confronti del trust.
Preliminarmente sarà quindi necessario fare alcuni cenni
in relazione alla lettura interpretativa del nuovo regime impo‑
sitivo, alle circolari dell’’Agenzia delle entrate, evidenziandone
i diversi profili di criticità, per poi procedere all’esame della
giurisprudenza di merito più recente.
Infatti, le difficoltà applicative sono state in larga parte
accentuate dai chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate
con le due circolari, la n. 48/E del 6 agosto 2007 e la n. 3/E
del 22 gennaio 2008.
Con tali circolari l’Amministrazione finanziaria ha tenta‑
to di elaborare un inquadramento sistematico delle nuove
fattispecie impositive, anticipando il momento impositivo, con
un risultato contraddittorio in merito alle concrete modalità
di applicazione della imposta sulle successioni e donazioni.
Detta soluzione interpretativa ha incontrato ampie critiche
da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito; si
registrano, infatti, diverse pronunce delle Commissioni tribu‑
tarie provinciali che pur essendo ancora in attesa di conferma
nei successivi gradi di giudizio, considerato il breve lasso tem‑
porale trascorso dall’entrata in vigore della nuova disciplina
impositiva, meritano di essere riportate.
I giudici di merito dimostrano, come meglio si avrà modo
di chiarire nei paragrafi successivi, di qualificare correttamen‑
te i contratti in relazione alla manifestazione di capacità con‑
tributiva diversamente dalla più recente interpretazione dell’am‑
ministrazione finanziaria che tende, invece, ad assoggettare ad
una diversa e più gravosa tassazione detti contratti.
La soggettività del trust
Nella prospettiva del diritto italiano al trust è negata la
natura di ente, trattandosi di un atto negoziale puro e semplice
da cui scaturisce la creazione di un patrimonio separato intesta‑
to ad un soggetto giuridico già esistente e non certo. Infatti,
occorrerebbe qualificare il trust quale soggetto titolare di situa‑
zioni giuridiche e, quindi, di diritti su beni, mobili ed immobili,
configurazione che, allo stato della legislazione e della prevalen‑
tributario
Gazzetta
106
d i r i t t o
te interpretazione di diritto civile, non risulta possibile1.
Diversamente al trust il legislatore tributario ha attribuito
una soggettività passiva ai fini Ires art. 73 del Tuir l. 27/12/296
e art. 1 co. 74; detta scelta appare legata a un’esigenza tecni‑
ca non applicabile all’imposizione indiretta2.
L’Agenzia delle Entrate ha, infatti, sostenuto la soggettivi‑
tà passiva del trust anche ai fini della imposta sulle successio‑
ni e donazioni anche in mancanza di una espressa previsione
normativa in tal senso. L’assenza di un’espressa scelta legisla‑
tiva per le imposte indirette dovrebbe condurre a fare riferi‑
mento proprio alle ricostruzioni civilistiche in tema di sogget‑
tività, che come innanzi chiarito non sono, però, di ausilio.
È necessario precisare, che non esiste alcun principio che
imponga l’uniformità delle soluzioni interpretative nei diver‑
si tributi, anche se è sempre più avvertita un’esigenza di coe‑
renza sistematica in ambito tributario.
Il legislatore ha, infatti, equiparato il trust agli altri enti,
commerciali e non, senza però qualificarlo espressamente
come ente; ed escludendolo dalla definizione generale, di cui
all’art. 73, secondo comma, Tuir, il cui presupposto dell’im‑
posta si verifica autonomamente.
L’entificazione del trust e la causa negoziale unitaria rav‑
visabile rappresentano gli elementi in base ai quali l’ammini‑
strazione finanziaria, attraverso l’interpretazione fornita con
le proprie circolari ministeriali, ha evidenziato il sorgere del
momento impositivo con la costituzione del trust, al momen‑
to del trasferimento dei beni segregati il che naturalmente
determina delle distorsioni sotto il profilo applicativo dell’im‑
posta sulle successioni e donazioni.
La scelta interpretativa dell’Agenzia di considerare rilevante
il trust ai fini del tributo sulle successioni e donazioni al mo‑
mento della segregazione dei beni pone, come innanzi esamina‑
to, diversi problemi interpretativi. In particolare, nelle ipotesi in
cui i trust non abbiano beneficiari, oppure i beneficiari non
siano determinati, o in caso di un trust auto‑dichiarato.
In tali casi dovrebbe applicarsi un’imposizione fissa di
registro al momento dell’istituzione del trust con eventuale
tassazione proporzionale successioni e donazioni in un mo‑
mento successivo, come meglio verrà chiarito di seguito.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
L’art. 2, comma 47 del d. l. 31 dicembre 2006 n. 262 ha
reintrodotto l’imposta sulle successioni e donazioni amplian‑
do il campo applicativo del tributo attraverso la previsione gli
atti a titolo gratuito e la costituzione di vincoli di destinazio‑
ne e tra questi secondo parte della dottrina rientrerebbe anche il
trust4.
Tuttavia, molti dubbi appaiono in relazione all’interpreta‑
zione dell’art. 2, comma 47, d.l. 262/2006, infatti, la mera
costituzione di vincoli di destinazione non è una fattispecie di
per sé rilevante nell’ambito dell’imposta sulle successioni e
donazioni che colpisce, invece, i trasferimenti di ricchezza.
Secondo l’orientamento dell’Agenzia delle entrate l’atto di
costituzione del trust, che realizza il trasferimento della pro‑
prietà dei beni segregati, rientra nelle fattispecie impositive
del tributo sulle successioni e donazioni5. Dall’orientamento
ministeriale emerge, infatti, come l’unitarietà causale del
trust, determini la costituzione del vincolo di destinazione
quale fattispecie impositiva autonoma soggetta all’applicazio‑
ne dell’imposta sulle successioni e donazioni6 . L’interpretazio‑
ne della prassi è basata sulla ricostruzione unitaria del trust
attraverso la sequenza negoziale che determina l’arricchimen‑
to dei futuri beneficiari, attraverso fattispecie non onerose.
Il trust, secondo detta interpretazione, è un rapporto giu‑
ridico complesso con un’unica causa fiduciaria che realizza il
presupposto nel momento della costituzione del vincolo con
trasferimento della titolarità giuridica dei beni. Pertanto, sot‑
to il profilo applicativo l’interpretazione dell’Agenzia determi‑
na l’immediata imposizione, all’atto della costituzione del
vincolo a prescindere dai successivi atti di attribuzione, even‑
tualmente posti in essere anche successivamente nel tempo.
Secondo detto orientamento l’imposizione proporzionale
immediata del trust avrebbe come effetto quello di determi‑
nare la tassazione ai fini dell’imposta sulle successioni e do‑
nazioni su una ricchezza, il patrimonio segregato, che potreb‑
be anche non coincidere con il futuro vantaggio patrimoniale.
L’ipotesi in cui il bene è conferito in trust ed il beneficiario
riceve proprio quello stesso bene è, infatti, la più comune, ma
non sempre la più diffusa sotto il profilo operativo.
Per la determinazione dell’imposta dovuta e, quindi, per
individuare l’aliquota applicabile e le franchigie e le eventuali
fattispecie di esenzione, occorrerà considerare il rapporto tra
il disponente ed il beneficiario. Infatti, è necessario chiarire
che la costituzione del vincolo assume una portata solo stru‑
mentale, non in grado di fare emergere, di per sé, alcun tra‑
sferimento di ricchezza.
La re‑introduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni e la
tassazione del trust
La fiscalità del trust negli ultimi anni è stata oggetto di
numerose modifiche legislative e di interpretazioni della pras‑
si sia per le imposte indirette, sia per le dirette, determinando
una notevole confusione applicativa 3 .
Come innanzi accennato, nel settore dell’imposizione
indiretta, diversamente da quanto è accaduto nell’ambito
dell’imposizione diretta non sono state previste disposizioni
specifiche per il trust.
3. I trust di scopo ed i trust di garanzia o con funzioni solutorie
Secondo l’interpretazione ministeriale, l’imposta sulle
successioni e donazioni si applicherebbe, dunque, a qualunque
tipologia di trust, a prescindere dalla natura ‑liberale, gratu‑
1 Cfr. L.Gatt, Dal trust al trust, Editoriale Scientifica, Napoli, 2010.
2Sul punto, G. Fransoni, La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv.dir.
trib., 2007, I, p. 227 ss.; M. Cantillo, Il regime fiscale del trust dopo la Finan‑
ziaria 2007, in Rass.trib., 2007, p.1047 ss.
3 Per ulteriori approfondimenti in ambito di imposizione diretta cfr. Circ.
Min. Ag. entr. n. 61/E del 2010 in banca dati Fisconline; E. Mignarri, Anno‑
tazioni sulla disciplina fiscale dei trust nelle imposte dirette, in Fisco, n. 14,
2011, p.2185; D. Stevanato, Stretta dell’agenzia delle entrate sulla fiscalità dei
trust: a rischio un sereno sviluppo dell’istituto? in Corr. Trib., 2011, p. 537; G.
Scazzeri, Trust e elusione fiscale, in Trusts e attività fiduciarie, n.4, 2010.
4 Cfr. d.l. 3/10/2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge
24/11/2006, n. 286. Per ulteriori approfondimenti, G. Gaffurri, Note riguar‑
danti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, in Rass.trib., 2007, 441
ss.; S. Dus, La reintroduzione dell’imposta sulle successioni e donazioni: vecchi
e nuovi problemi, in Fisco, 2007, p.1075 ss.; D. Stevanato, La reintroduzione
dell’imposta sulle successioni e donazioni: prime riflessioni critiche, in Corr.
trib., 2007, p. 247 ss.
5 Cfr. Circ. Min. Ag. Entr. n. 48/E/2007 e n. 3/E/2008 in banca dati Fisconline.
6 Cfr. A. Contrino, Il trust liberale e l’imposta sulle donazioni, in Dialoghi dir.trib., 2004,
p.461; C. Monaco, Trust: fattispecie ed effetti fiscalmente rilevanti, in Riv.dir.fin.sc.fin.,
2002, I, p. 647 ss.; A. Salvati, Profili fiscali del trust, Milano, 2004, p. 269 ss.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
ita ovvero onerosa‑ dello stesso, quindi non solo in presenza
di trust con causa “liberale”, ma anche in presenza di trust
con causa “solutoria”, di trust con causa di garanzia, di trust
costituiti per dare attuazione a patti parasociali.
Il trust di scopo ha per oggetto il perseguimento di un fine
e non, pertanto potrebbe non realizzarsi alcun successivo tra‑
sferimento non oneroso di ricchezza e quindi non vi sarebbe
alcun arricchimento di determinati soggetti a prescindere dalla
loro individuazione al momento della costituzione del trust.
Vi sono casi ad esempio di trust in cui sia stato segregato un
immobile che abbia come scopo quello di favorire la ricerca
scientifica o per finalità culturali, ed ancora ad un trust costi‑
tuito per scopi caritatevoli o assistenziali. In tutti questi casi
manca un effetto traslativo futuro del bene costituito in trust,
in grado di determinare un incremento patrimoniale a vantaggio
di un determinato soggetto diverso dal soggetto disponente7.
Il patrimonio in queste ipotesi, e nel caso in cui il bene è
destinato in modo permanente, per attività didattiche, di ri‑
cerca, artistiche, ecc., che non prevedono la distribuzione di
ricchezza a terzi è, invece, destinato alla realizzazione di un
fine altruistico.
La costituzione di un trust di scopo, con segregazione dei
beni, non determina quindi nella generalità dei casi un futuro
arricchimento patrimoniale, pertanto, sostenere la tassazione
all’atto della segregazione dei beni, in caso di trust, così come
esemplificati rappresenterebbe, una violazione del principio
di capacità contributiva, perché il momento giuridico della
costituzione del vincolo non coincide con nessuna manifesta‑
zione di ricchezza8 .
Sono, altresì, estranei dal campo applicativo del tributo i
trust di garanzia o con funzioni solutorie. Secondo le com‑
missioni di merito è esclusa l’applicazione dell’imposta sulle
successioni e donazioni nei seguenti casi per assenza sia
dell’intento liberale sia dell’arricchimento
Una recente sentenza della Commissione Tributaria Pro‑
vinciale di Bologna, ha esaminato un caso di trust realizzato
al fine di costituire una reciproca garanzia tra due soggetti
disponenti, sostenendo la sola imposizione fissa di registro
per l’atto di trust.; in detta fattispecie mancava infatti, sia
l’intento liberale sia l’arricchimento, entrambe condizioni
fondamentali per integrare il presupposto dell’imposta sulle
successioni e donazioni 9.
Anche la Commissione tributaria provinciale di Lodi10 ha
esaminato un caso analogo avente ad oggetto un trust istitu‑
7In questi casi, salvo che non sia diversamente previsto, quel che residua del trust
fund dopo la realizzazione dello scopo è destinato a ritornare nel patrimonio
dello stesso disponente.
8 Cfr. G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr.
trib., 2008, p.650; Nell’ipotesi della costituzione di un trust avente causa solu‑
toria si è infatti evidenziato il trasferimento dei beni al trustee non possa con‑
siderarsi indice di capacità contributiva, in quanto l’arricchimento di tale sog‑
getto è per definizione escluso. In questa ipotesi, dalla costituzione del trust non
scaturisce alcun arricchimento neppure per i creditori perché, al termine del
trust medesimo, essi percepiranno quanto loro dovuto in virtù dell’originario
titolo costitutivo dell’obbligazione a carico del disponente D.Muritano, A.
Pischetola, Considerazioni su trust e imposte indirette, in Notariato, 2008,
p. 327; G. Semino, Prime considerazioni sulla fiscalità degli atti segregativi di
beni in trust alla luce della nuova imposta sulle successioni e donazioni, in Riv.
dir.trib., 2007, I, p.681.
9 Cfr. Comm. trib. prov. Bologna, sent. 30 ottobre 2009, n. 120, in banca dati
Fisconline.
10 Cfr. Comm. trib. prov. Lodi, sent. 12 gennaio 2009, n.12, in banca dati Fiscon‑
line.
2 0 1 1
107
ito da una società, che aveva segregato il proprio patrimonio,
affinché il trustee procedesse alla liquidazione nell’interesse
dei creditori e dei soci.
In tal caso l’Agenzia delle Entrate richiedeva la tassazione
proporzionale dell’atto di segregazione dei beni in trust, ai
fini della imposta sulle successioni e donazioni, con aliquota
dell’8%. I giudici di Lodi hanno invece affermato la non ap‑
plicabilità dell’imposta sulle successioni e donazioni, conside‑
rato che nel caso in esame il trust aveva invece, finalità liqui‑
datorie del patrimonio conferito.
In tal senso anche Commissione tributaria di Pesaro11
secondo cui non vi è prelievo ai sensi dell’art. 2 del d.l.
262/2006 laddove trust sia costituito ai soli fini di segrega‑
zione e di liquidazione del patrimonio di una società di capi‑
tali in favore dei creditori della medesima.
4. Mancanza di effettivo arricchimento: condizione sospensiva o
assenza di un beneficiario determinato
L’interpretazione dell’Agenzia delle entrate, che anticipa
il momento impositivo al mero atto di segregazione dei beni,
pone, quindi, problemi applicativi in tutti quei casi in cui il
vantaggio per i beneficiari non determini un effettivo arric‑
chimento.
Si pensi al caso in cui quando il diritto dei beneficiari è
sottoposto a condizione ad esempio quando un bene viene
attribuito al beneficiario se e quando quest’ultimo conseguirà
un determinato risultato, oppure nei casi di trust discreziona‑
le in cui non sia certa la futura attribuzione a beneficiari.
La legittimità dell’imposizione al momento della costitu‑
zione del vincolo, in dette circostanze non sembra sostenibile,
poiché non è possibile considerare il trust espressivo un effet‑
tivo trasferimento di ricchezza.
Infatti, la giurisprudenza di merito ha ritenuto opportuno
applicare in via analogica l’art. 58, secondo comma, d.lgs.
346/1990 posticipando l’imposizione al momento della deter‑
minazione del beneficiario.
La Commissione Tributaria Provinciale di Caserta12 affer‑
ma che, quando i beneficiari del trust siano titolari di una
mera aspettativa giuridica, la tassazione dovrà avvenire con‑
siderando il diritto del soggetto come sottoposto a condizione
sospensiva, si applicherà, quindi, l’ imposta fissa di registro,
ai sensi dell’art. 58, comma 2, d.lgs n. 346/1990 ed integra‑
zione del presupposto impositivo solo quando il trust realiz‑
zerà il programma del disponente13 . In tal senso anche la
Commissione Tributaria Provinciale di Bologna14 che sottoli‑
nea la mancanza dell’effettivo arricchimento tassabile.
Può inoltre verificarsi il caso in cui si realizzi un trust con
beneficiari non ancora determinati al momento dell’istituzio‑
ne dello stesso. Secondo l’orientamento dell’amministrazione
quando l’individuazione sia rimessa ad un atto successivo del
disponente, l’imposizione dovrà essere la più elevata (aliquota
massima dell’8%), perché nessuna franchigia e nessuna esen‑
zione potrà applicarsi.
11 Cfr. Comm. trib. prov. Pesaro,sent. 9 agosto 2010, n. 287, in banca dati Fiscon‑
line.
12 Cfr. Comm. trib. prov. Caserta, sent., 11 giugno 2009, n. 478 in banca dati
Fisconline.
13Cfr. G. Luly, Trust e imposta di registro, in Dir. prat. trib. 2009, pag. 281.
14Cfr. Comm. trib. prov. Bologna, sent. 30 ottobre 2009, n. 120, in banca dati
Fisconline.
tributario
Gazzetta
108
d i r i t t o
Detta scelta sarà conforme al dettato dell’art. 53 Cost. e
troverà la sua ratio solo se sarà possibile determinare un col‑
legamento, rilevante giuridicamente, tra la costituzione del
vincolo ed il futuro trasferimento di ricchezza che, nel caso
del trust, si concretizza, secondo l’Agenzia delle entrate, nella
struttura stessa del negozio e nell’unitarietà in termini causa‑
li delle diverse fattispecie negoziali poste in essere.
La ricostruzione effettuata conduce alla conclusione che
la tassazione non possa prescindere dalla considerazione dei
concreti caratteri negoziali del trust ed in particolare, dall’in‑
dividuazione del beneficiario, che può avvenire in un momen‑
to successivo rispetto alla segregazione dei beni.
Pertanto, lo strumento normativo più indicato per consen‑
tire il rinvio dell’imposizione al momento dell’individuazione
del beneficiario dovrebbe essere quello disciplinato dall’art. 58,
secondo comma, d.lgs. 346/90, equiparando la mancata indi‑
viduazione del beneficiario alla previsione della condizione
sospensiva.
In tal senso si è espressa la Commissione Tributaria Pro‑
vinciale di Firenze e la Commissione tributaria provinciale di
Savona, dell’11 marzo 2009, n. 4015 che hanno esaminato il
caso dell’istituzione di un trust con contestuale segregazione
di beni immobili e con scadenza definita. Il trust prevedeva
che alla scadenza i beni venissero attribuiti ad un beneficiario
finale indeterminato al momento della istituzione del trust.
Nel caso in esame a seconda del verificarsi di condizioni pre‑
viste nell’atto istitutivo il beneficiario finale del trust poteva
essere il coniuge oppure il figlio oppure altri parenti fino al IV
grado. Secondo i giudici di primo grado oggetto del prelievo,
nella imposta sulle successioni e donazioni, è l’incremento
netto di ricchezza conseguito dal beneficiario dell’elargizione,
quindi l’effettivo arricchimento che non si realizza con una
situazione di mera aspettativa giuridica, come nel caso in
esame. Al momento della stipula dell’atto dovrà applicarsi la
sola imposta fissa di registro, mentre l’imposta proporzionale
di successione e donazione potrà applicarsi solo nel momento
in cui si verificherà la condizione sospensiva ed il beneficiario
dovrà procedere all’obbligo di denuncia di eventi successivi
alla registrazione ex art. 19, D.p.r. 131/1986.
In tal senso, anche la Commissione. Tributaria di Perugia
sent. 27 gennaio 2011, n. 35 secondo cui la semplice costituzio‑
ne del trust ed il trasferimento dei beni al trustee non compor‑
tano alcun arricchimento imponibile in misura proporzionale
avendo i beneficiari una posizione di aspettativa giuridica e
quindi una posizione giuridica incontrovertibile che non con‑
sente al momento dell’istituzione del trust di ottenere beni e
quindi non vi può essere alcun arricchimento tassabile16 .
15 Cfr. Comm. trib. prov. Firenze, sent. 12 febbraio 2009, n. 30, e Comm. trib.
prov. Savona, dell’11 marzo 2009, n. 40, in banca dati Fisconline; A. Ganelli,
L’agenzia delle entrate applica l’imposta di registro sull’apporto di beni in trust,
in Trust s e attività fiduciaria, 2010, n. 5, p. 558.
16 Cfr. S. Zagà, L’applicabilità ai vincoli di destinazione ed i trust della (Re)‑ isti‑
tuita imposta sulle succesioni e donazioni, in Dir. prat. trib. n. 5, 2010,
p. 1067.
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
5. Il trust auto‑dichiarato
Affinché il presupposto impositivo si realizzi, l’elemento
che deve necessariamente verificarsi al momento della costi‑
tuzione del vincolo, è quindi, il trasferimento dei beni.
Ne scaturisce che proprio dalla distinzione tra vincoli di
destinazione non traslativi e vincoli di destinazione traslativi
che dovrebbe fondarsi la ricostruzione teorica e discenderne
l’estraneità dal campo applicativo dell’imposta in esame del
trust auto‑dichiarato. In tal caso non si realizza, infatti, alcun
effetto traslativo, in quanto il bene rimane nella titolarità
giuridica del disponente e non si trasferisce ad un terzo.
Tuttavia, secondo l’Agenzia delle entrate, anche se in tale
ipotesi il disponente assume le funzioni di trustee e la segre‑
gazione dei beni in trust deve essere assoggettata all’imposta
sulle successioni e donazioni anche in mancanza di alcun ef‑
fetto traslativo.
Alla luce della più recente giurisprudenza citata, si ribadi‑
sce che rispetto al vincolo di destinazione, la mera aspettativa
del futuro arricchimento da parte di eventuali beneficiari
appare irrilevante considerato che il mancato trasferimento
del bene impedisce la stessa realizzazione del presupposto.
Appare evidente che anticipare il momento impositivo
anche in ipotesi di trust auto‑dichiarato assolve mere esigen‑
ze di gettito che non possono però prevalere sul rispetto del
principio della capacità contributiva.
6. Il trasferimento dei beni ai beneficiari quale momento impo‑
sitivo
Come innanzi chiarito, la scelta interpretativa dell’Agenzia
di considerare rilevante il trust ai fini del tributo sulle succes‑
sioni e donazioni al momento della segregazione dei beni,
pone molte incertezze applicative. Secondo un’interpretazione
che tenga conto del principio di capacità contributiva dovreb‑
be, infatti, applicarsi un’imposta fissa di registro al momento
dell’istituzione del trust con eventuale tassazione proporzio‑
nale in un momento successivo.
Infatti, anche nel sistema previgente la reitrodotta imposta
sulle successioni e donazioni, secondo l’orientamento domi‑
nante riteneva che la cessione dei beni al trustee aveva una
portata solo strumentale, quale mezzo per la realizzazione del
programma negoziale il cui effetto successivo era rappresen‑
tato dall’attribuzione definitiva ai beneficiari. Pertanto, solo
l’attribuzione ai beneficiari costituirebbe il momento giuridi‑
co di realizzazione del presupposto.
Infatti, già prima dell’abrogazione dell’imposta sulle suc‑
cessioni e donazioni, in dottrina si era affermato che, nel caso
del trust, l’imposizione deve realizzarsi solo nel momento in
cui si realizzano le attribuzioni dal trust fund ai beneficiari;
solo in quel momento sarebbe divenuto definitivo il trasferi‑
mento gratuito di ricchezza con rilevazione della capacità
contributiva negoziale.
A tale soluzione, tuttavia, sembra potersi giungere attra‑
verso l’applicazione dell’art. 58, comma 2 del D.lgs. 346/90 da
cui si evince che le donazioni sottoposte a condizione divengo‑
no imponibili quando quest’ultima si verifica e quindi nel
momento in cui si realizza l’effetto traslativo della ricchezza.
Tuttavia, la mera costituzione di un vincolo di destinazio‑
ne, come chiarito, non esprime nessuna capacità contributiva
tale da giustificare l’imposizione.
L’imposizione proporzionale immediata del trust avrebbe,
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
infatti, come effetto quello di determinare la tassazione ai
fini dell’ imposta sulle successione e donazione su una ricchez‑
za, espressa dal patrimonio segregato, che può non coincide‑
re con un vantaggio patrimoniale successivo.
Alla luce delle suesposte considerazioni, in termini di
coerenza del tributo e nel rispetto del principio di capacità
contributiva la tassazione immediata in funzione di un futuro
vantaggio patrimoniale derivante dal valore del bene segrega‑
to non appare corretta.
L’ipotesi d’imposizione fissa di registro per tutti i casi di
trust, con rinvio dell’imposizione ai fini del tributo successo‑
rio al momento dell’effettivo trasferimento di ricchezza, ap‑
pare quindi la più coerente così come sostiene la costante
giurisprudenza di merito.
In tal senso anche la Commissione Tributaria Provinciale
di Treviso17 secondo cui la tassazione proporzionale del trust
può essere sostenuta solo nel momento in cui effettivamente
si realizza il trasferimento definitivo del patrimonio, a con‑
clusione e scioglimento del trust. La separazione patrimonia‑
le priva provvisoriamente la disponibilità gestionale al dispo‑
nente, ma non verificandosi l’effetto traslativo non altera la
capacità degli interessati, scaturendone la non applicazione
delle imposte proporzionali ipotecarie e catastali, ma la sola
imposizione in misura fissa.
In tal senso le recenti sentenze della Commissione tribu‑
taria di Pesaro, sent. 9 agosto 2010 n. 287 e della Commis‑
sione tributaria di Salerno, sent. 8 ottobre 2010, n. 46518 ,
17Cfr. Comm. trib. prov. Treviso, sentenze 30 aprile 2009, n. 47 e 48, in banca
dati Fisconline.
18Cfr. Comm. trib. prov. Pesaro, sent. 9 agosto 2010 n. 287 e Comm. trib. prov.
2 0 1 1
109
secondo cui la segregazione dei beni in trust non sarebbe in
grado di comportare un effetto traslativo pieno e perfetto,
condizionato all’obiettivo finale.
7. Conclusioni
Appare evidente, dalle considerazioni sin qui svolte che
l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni agli
atti costitutivi di vincoli di destinazione e, in particolare, al
trust è molto confuso sotto il profilo applicativo.
Naturalmente come evidenziato, in mancanza di norme
chiare l’intento del legislatore è di non far sfuggire ad impo‑
sizione tutte quelle liberalità che assumono forme negoziali
diverse dalla classica donazione.
Le varie interpretazioni dell’Agenzia delle entrate hanno
evidenziato ulteriori elementi di incertezza e di criticità nonché
le “reazioni” della giurisprudenza di merito che tuttavia,
sembrano aprire la strada per una corretta interpretazione
rispettosa del principio di capacità contributiva.
D’altronde l’Agenzia delle entrate con una recente circo‑
lare ha ulteriormente definito e chiarito il quadro applicativo
in ambito di imposizione diretta, pertanto, considerato, il
quadro di incertezza e di confusione in ambito di imposizione
indiretta, qualsiasi scelta interpretativa appare attualmente
opinabile, non resta che auspicare un intervento chiarificato‑
re da parte dell’amministrazione finanziaria o ancor meglio
del legislatore tributario ai fini della corretta applicazione
dell’imposta sulle successioni e donazioni.
Salerno, sent. 8 ottobre 2010, n. 465 in banca dati Fisconline.
tributario
Gazzetta
110
d i r i t t o
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
●
CORTE DI CASSAZIONE, sezione tributaria
sentenza 11 aprile 2011, n. 8145
Presidente: M. Adamo – Est. P. Campanile
Una ulteriore conferma
dalla Cassazione:
le norme dello Statuto
del contribuente
non hanno forza
costituzionale
Tributi (in generale) – Statuto del contribuente – Fondamento e
portata – Rango superiore alla legge ordinaria – Esclusione – Con‑
seguenze – Disapplicazione della norma tributaria in asserito
contrasto con il suddetto Statuto – Esclusione – Fattispecie.
(artt. 3,23,53 e 97 Cost.; art. 3, l. 27 luglio 2000 n. 212; art. 8
l. 23 dicembre 2000, n. 388; art. 1 d.l. 12 novembre 2002,
n. 253; art. 62, l. 27 dicembre 2002, n. 289)
Le norme della legge 27 luglio 2000 n. 212 (c.d. Statuto
del contribuente), emanate in attuazione degli artt. 3, 23, 53
e 97 Cost. e qualificate espressamente come principi gene‑
rali dell’ordinamento tributario, sono, in alcuni casi, idonee
a prescrivere specifici obblighi a carico dell’Amministrazione
finanziaria e costituiscono, in quanto espressione di princi‑
pi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida per il giu‑
dice nell’interpretazione delle norme tributarie (anche ante‑
riori), ma non hanno rango superiore alla legge ordinaria;
conseguentemente, non possono fungere da norme parame‑
tro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione
della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse. (In
applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato con
rinvio la sentenza della Commissione tributaria regionale
che aveva disapplicato il d.l. 22 novembre 2002 n. 253 con
cui erano stati sospesi con effetto immediato i crediti di
imposta per gli investimenti in aree svantaggiate, previsti
dall’art. 8 della l. 23 dicembre 2000, n. 388, ritenendolo
contrastante con l’art. 3, comma 2, della legge n. 212 del
2000).
Nota a Cass., sez. trib.
sentenza 11 aprile 2011, n. 8145
●
A cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
(Omissis)
Fatto
1. L’agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione,
fondato su un unico motivo, avverso la sentenza della Com‑
missione Tributaria regionale della Sardegna (omissis), con la
quale, in riforma della decisione di primo grado, è stato accol‑
to il ricorso della S.R.L. O., avverso il provvedimento con il
quale l’Ufficio recuperava somme relative a credito d’imposta
per gli investimenti in aree svantaggiate, ai sensi dell’art. 8
della l. n. 388/2000, sulla base della norma contenuta nel d.l.
n. 253 del 2002, che prevedeva la sospensione dei crediti d’im‑
posta nel periodo di riferimento.
1.1. Alla base di tale decisione è stato posto il richiamo
all’art. 3 della l. n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente),
affermandosi che poiché tale norma, ritenuta di “rango supe‑
riore”, stabilisce che “le disposizioni tributarie non possono
prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scaden‑
za sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data
della loro entrata in vigore o dall’adozione dei provvedimenti
in esse espressamente previsti”, la sospensione del credito
d’imposta sarebbe stata prevista, con il d.l. n. 253/02, in con‑
trasto con tale disposizione. La norma successiva, in contrasto
con tali principi, era da disapplicare, con conseguente illegit‑
timità del recupero del credito.
1.2. La società intimata non svolge attività difensiva.
Diritto
2. L’Agenzia delle Entrate deduce violazione e falsa appli‑
cazione degli artt. 3 della l. n. 212 del 2000; 1 del d.l.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
n. 253/02, nonché dell’art. 62 della l. n. 289 del 2002, in re‑
laziione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.
Si sostiene che la Commissione Tributaria regionale, per
altro emettendo un giudizio eventualmente riservato alla
Corte Costituzionale, avrebbe erroneamente ritenuto che in
virtù di una legge ordinaria, nel caso di specie, per altro,
priva di efficacia retroattiva.
2.1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto
Deve innanzitutto richiamarsi il principio, già affermato
da questa Corte in una fattispecie del tutto analoga a quella
scrutinata e condiviso dal Collegio, secondo cui le norme
della l. 27 luglio 2000 n. 212 (c.d. Statuto del contribuente),
emantao in attuazione degli artt. 3, 23, 53, e 97 Cost. E qua‑
lificate espressamente come principi generali dell’ordinamen‑
to tributario, sono, in alcuni casi, idonee a prescrivere speci‑
fici obblighi a carico dell’Amministrazione finanziaria e co‑
stituiscono, in quanto espressione di principi già immanenti
nell’ordinamento, criteri guida per il giudice nell’interpreta‑
zione delle norme tributarie (anche anteriori), ma non hanno
rango superiore alla legge ordinaria; conseguentemente non
possono fungere da norme parametro di costituzionalità, né
consentire la disapplicazione della norma tributaria in asseri‑
to contrasto con le stesse (Cass., 6 aprile 2009, n. 8254).
2.2. Giova ricordare, anche con riferimento a principi di
legittimità costituzionale, che la Corte Costituzionale, nel
ribadire che la norma contenuta nell’art. 3 della l. n. 212 del
2000 non costituisce parametro idoneo a fondare un giudizio
di legittimità costituzionale(cfr. ord. n. 216 del 2004), ha ri‑
levato (ord. n. 180 del 2007) che è assolutamente priva di
efficacia retroattiva la norma (art. 62, comma 1, lett. A, del‑
la l. 27 dicembre 2002, n. 289) relativa all’obbligo di inviare,
a pena di decadenza dai contributi ottenuti sotto forma di
crediti d’imposta, i dati occorrenti per la ricognizione degli
investimenti realizzati. Tale affermazione a maggior ragione
è estendibile alla fattispecie in esame, nella quale, per altro,
nessun adempimento è disposto a carico del contribuente,
prevedendo una mera sospensione della fruibilità dei crediti
d’imposta.
2.3. Mette ancora conto di precisare, quanto al generico
richiamo contenuto nella decisione impugnata alla sentenza
n. 7080 del 2004 di questa Suprema Corte, che un’attenta
lettura della relativa motivazione lascia intendere come sia
valorizzato, a fini ermeneutici ed applicativi, il valore dei
principi affermati nell’art. 3 della più volte richiamata l. n. 212
del 2000, senza che venga tuttavia affermato, come ritenuto
dalla Commissione tributaria regionale, che una norma con‑
tenuta in una legge ordinaria successiva all’entrata in vigore
dello Statuto del contribuente possa essere disapplicata sol
perché ritenuta difforme da un principio in esso sancito.
2.4. L’accoglimento del motivo in esame comporta la
cassazione della decisione impugnata. Ricorrono, per altro, i
presupposti per la decisione nel merito, nel senso del rigetto
del ricorso introduttivo, non essendo all’evidenza necessaria
alcuna ulteriore acquisizione, attesa la natura squisitamente
giuridica delle questioni esaminate.La s.r.l. O., in conseguen‑
za della soccombenza, va condannata al pagamento delle
spese processuali relative all’intero giudizio, liquidate come
in dispositivo.
(Omissis)
2 0 1 1
111
• • • Nota a sentenza
1. La Sezione tributaria della Corte di Cassazione, con la
decisione poco sopra riportata, ribadisce un principio da
considerarsi che può ormai ritenersi definitivamente consoli‑
dato nella giurisprudenza di legittimità.
Dopo aver premesso che le disposizioni dello Statuto del
Contribuente (l. 27 luglio 2000, n. 212), sono principi gene‑
rali dell’ordinamento tributario ed emanate in attuazione di
norme della Costituzione, (in particolare degli artt. 3, 23, 53
e 97)1 aggiunge, però, che esse hanno il valore di legge ordi‑
naria e non possono, quindi, fungere nè da norme parametro
di costituzionalità né tantomeno consentire la disapplicazione
di altre disposizione legislative tributarie che dovessero appa‑
rire in contrasto con esse.
La conclusione merita qualche riflessione, perché oltre ad
apparire importante in sé lo è anche con riferimento alla
fattispecie sottostante, riferita alla tematica del blocco del
credito di imposta riconosciuto con la finanziaria del 2001,
per gli investimenti nelle aree svantaggiate.
Si tratta, infatti, di un argomento su cui, in un recente
passato, molte disquisizioni erano sorte in dottrina e nella
giurisprudenza di merito.
Ed è proprio dalla ricostruzione del complesso e tortuoso
iter normativo dell’agevolazione fiscale in parola che bisogna
partire per comprendere nei suoi esatti termini l’arresto della
Cassazione.
2. L’art. 8 della legge 23 dicembre 2000 n. 388 (in pratica,
la legge finanziaria del 2001) aveva previsto l’introduzione del
credito di imposta, volto ad incentivare l’occupazione e gli
investimenti effettuati, in beni strumentali materiali ed im‑
materiali, nelle aree svantaggiate del territorio nazionale.
In particolare, si stabiliva l’automatica fruizione del bene‑
ficio in parola, con contestuale onere per i contribuenti inte‑
ressati di calcolare l’ammontare del credito spettante in rela‑
zione agli investimenti.
Nella disposizione, però, non veniva fissato alcun tetto
massimo di spesa e di copertura da parte dello Stato.
Anche per tale ragione veniva poi emanato il d.l. 8 luglio
2002, n. 138 che con il suo articolo 10 restringeva le tipologie
di imprese aventi accesso al credito e modificava la localizza‑
zione degli investimenti 2.
Nella prospettiva di dare, con una normativa ad hoc, una
più razionale regolamentazione dell’agevolazione veniva ema‑
nato il d.l. 12 novembre 2002, n. 253 che disponeva, a carico
dei contribuenti e con effetto immediato, la sospensione della
facoltà di utilizzazione automatica del beneficio fino al 30
marzo 2003; il decreto in questione non veniva convertito in
legge, ma gli effetti prodotti erano confermati dall’art. 62 della
l. 27 dicembre 2002, n. 289 (in pratica la finanziaria 2003).
1La natura di principi generali dell’ordinamento tributario ed il collegamento
con le disposizioni costituzionali citate è espressamente indicata nell’art. 1,
comma 1 della legge.
2 Con la legge 8 agosto 2002, n. 178 il legislatore estendeva i benefici anche al
Nord Italia, sebbene la Commissione Europea avesse autorizzato il credito di
imposta solo per il Mezzogiorno; per questa considerazione si v. Ianniello,
Violato lo Statuto del contribuente per sospensione al credito d’imposta, in
GT‑Riv. giur. trib. 2006, 71, a cui si rinvia per un esame più approfondito
della normativa.
tributario
Gazzetta
112
d i r i t t o
Con il comma 7 di tale articolo, in particolare, veniva
stabilita l’abrogazione degli art. 1 e 2 del d.l. n. 253 cit., pre‑
cisando che “restano validi gli atti ed i provvedimenti adot‑
tati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuri‑
dici sorti sulla base delle predette disposizioni”.
Con il medesimo art. 62 si creavano tre diversi regimi di
fruizione del credito di imposta; la normativa, però, non rag‑
giungeva un grado di stabilità definitiva perché veniva ulte‑
riormente rimodificata con la legge 24 dicembre 2003 n. 350
(la finanziaria del 2004), con la previsione di regole di frui‑
zione del beneficio per tutti coloro che pur avendo conseguito,
previa istanza, il credito di imposta successivamente all’8 lu‑
glio 2002 non avevano ottenuto l’accoglimento dell’istanza a
seguito dell’esaurimento delle risorse disponibili3.
3. Il d.l. n. 253 del 2002, entrato in vigore il 13 novembre
2003 con la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, ha cagio‑
nato un effetto molto negativo per i contribuenti; molti di
essi avevano avuto notizia ufficialmente della nuova disposi‑
zione, solo nel tardo pomeriggio dello stesso giorno dell’en‑
trata in vigore, dopo che, in perfetta buona fede avevano
provveduto ad effettuare le compensazioni mediante credito
di imposta4.
Per tutti costoro, l’Agenzia delle Entrate ha provveduto a
contestare l’indebito utilizzo del credito medesimo ed a recu‑
perare le maggiori imposte detratte con le conseguenti san‑
zioni pecuniarie ed interessi.
I contribuenti, dal canto loro, hanno contestato l’operato
dell’Agenzia sul presupposto della loro buona fede e sul prin‑
cipio del legittimo affidamento; in particolare essi hanno ec‑
cepito la violazione dell’art. 3 dello Statuto del contribuente,
sia perché la norma del d.l. n. 253 del 2002 sarebbe interve‑
nuta con effetto retroattivo, così da non consentire l’utilizzo
di un credito di fatto già consolidatosi, sia perché la disposi‑
zione medesima, in contrasto con quanto previsto dal com‑
ma 2 del medesimo art. 3 dello Statuto, non poteva prevedere
a carico dei contribuenti adempimenti la cui scadenza fosse
fissata prima di sessanta giorni dalla sua entrata in vigore.
L’Agenzia delle entrate da parte sua ha, invece, ritenuto
che il decreto legge non aveva affatto inibito l’esercizio di un
diritto già consolidatosi nè inciso retroattivamente su di esso,
in quanto si sarebbe limitato soltanto a sospendere, per il
futuro e per un breve periodo, la fruibilità del beneficio me‑
desimo, in modo che il credito di imposta avrebbe ripreso
vigore non appena cessato il periodo di sospensione5.
4. Il contenzioso nato dai ricorsi dei destinatari degli av‑
visi di recupero ha visto la giurisprudenza di merito, nella sua
stragrande maggioranza, accogliere l’impostazione dei con‑
tribuenti.
Solo alcune Commissioni tributaria, in posizione posizioni
decisamente minoritaria, facendo propria la tesi dell’Ammini‑
3Per questi ulteriori aspetti di modifica della disciplina si rinvia ad Amoroso,
Credito di imposta ex art. 8, l. n. 388/2000. L’illegittimità del blocco degli in‑
vestimenti alla luce dello Statuto dei diritti del contribuente, in Il Fisco, 2007,
7291
4 Per questa considerazione si v. Amoroso, Credito di imposta ex art. 8, l.
n. 388/2000, cit., 2909; in termini analoghi Romano‑Romano, Investimenti
nelle aree svantaggiate; in contrasto con lo Statuto del contribuente il (tempo‑
raneo) blocco dell’utilizzo del credito di imposta, in Boll. Trib. 2006, 436
5 Per questa sintesi della posizione dell’Amministrazione, si v. Amoroso, Credi‑
to di imposta ex art. 8, l. n. 388/2000, cit., 2910;
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
strazione, avevano ritenuto che la sospensione dell’utilizzo del
credito di imposta per un periodo determinato, anche se aveva
comportato per il contribuente problemi finanziari e di piani‑
ficazione degli investimenti, non equivaleva all’abolizione del
diritto; la norma della decretazione di urgenza, quindi non
contrastava affatto con i principi dello Statuto del contribuen‑
te, rientrando nella potestà del Parlamento di sospendere un
diritto precedentemente riconosciuto al cittadino6.
La maggioranza, però, della giurisprudenza di merito ha
ritenuto che la disposizione del d.l. n. 253, statuendo con ef‑
fetto immediato la sospensione del credito di imposta, ha
imposto al contribuente, con efficacia immediata e senza il
rispetto dei termini previsti dal comma 2 dell’art. 3 dello
Statuto, un adempimento tributario, consistente nell’obbligo
di pagamento integrale del debito di imposta e nella non de‑
trazione della quota di credito riconosciuta.
Il contrasto della norma della decretazione d’urgenza con
i principi dello Statuto, principi da ritenersi di rango superio‑
re rispetto alle norme ordinarie, giustificano secondo questa
posizione la disapplicazione della norma legislativa e quindi
l’annullamento degli avvisi di accertamento emanati dall’Am‑
ministrazione7.
A sostegno della propria tesi i giudici di merito richiama‑
no in particolare la sentenza n. 7080 del 2004 della Cassazio‑
ne che avrebbe ribadito e sottolineato il valore vincolante dei
principi affermati nello Statuto del contribuente tanto per
l’interprete che per il futuro legislatore.
5. Malgrado la posizione della maggioritaria giurispru‑
denza di merito avesse incontrato l’entusiasmo di una parte
consistente della dottrina8, forse perché le decisioni appariva‑
no espressione di equità e si ponevano come una reazione ri‑
spetto ad un intervento del legislatore comunque molto discu‑
tibile, era del tutto evidente che le conclusioni dei giudici di
merito sarebbero state demolite in sede di giudizio di legitti‑
mità.
In primo luogo, già la strada scelta della disapplicazione
della norma della decretazione d’urgenza appariva a dir poco
poco discutibile; se una norma di diritto interno viene ritenu‑
ta in contrasto con una disposizione di rango superiore non
sarà il giudice di merito a poterla non applicare, ma dovrà
necessariamente sottoporla al vaglio della Corte Costituzio‑
nale, organo a cui spetta il monopolio sulla legittimità delle
leggi9.
L’istituto della disapplicazione resta, infatti, eccezional‑
mente applicabile, da parte dei giudici di merito, nei soli casi
in cui la norma contrasta con la normativa dell’Unione Euro‑
pea o con decisioni della giustizia europea10.
6 Comm. Trib. prov. Avellino, Sez. V, 8 luglio 2004, n. 73, in GT riv. giur. trib.
2005, 183.
7In questo senso, ex plurimis, Comm. trib. reg. Salerno, Sez. XII, n. 157, in GT
riv. giur. trib. 2006, 70; Comm. trib. prov. Lecce, Sez. VII, 9 giugno 2004, n. 911,
in Boll. Trib. 2006, 434; per l’indicazione di ulteriori decisioni di identico segno
si v. Amoroso, Credito di imposta ex art. 8, l. n. 388/2000, cit., 2910 n. 13.
8 Adesivamente alle decisioni dei giudici di merito, Amoroso, Credito di imposta
ex art. 8, l. n. 388/2000, cit., 2910; Romano‑Romano, Investimenti nelle aree
svantaggiate, cit., 436; Ianniello, Violato lo Statuto, cit., 72
9Sul punto si v. G. Zagrebelsky, voce Processo costituzionale, in Enc. dir. vol.
XXXVI, 1987, p. 573 e ss.
10Sull’argomento si rinvia a Tesauro, Diritto Comunitario, Padova, 2009, p. 282
e ss che indica anche le numerose decisioni della giurisprudenza della Cassazio‑
ne che hanno fatto accolto la tesi sulla disapplicabilità delle norme in contrasto
con le disposizioni comunitarie
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Inoltre, la tesi delle Commissioni tributarie fonda tutta
sull’idea del valore costituzionale delle norme dello Statuto,
tesi assolutamente inaccettabile perché nel nostro sistema
delle fonti sono norme costituzionali quelle adottate con la
procedura speciale, cd rinforzata che richiede un iter parla‑
mentare particolare regolato integralmente dalla Costituzione
e non può bastare per ritenerle tali il fatto che il legislatore
(ordinario), nell’incipit della legge, le abbia qualificate come
principi generali dell’ordinamento o ne abbia rimarcato la
diretta derivazione da norme costituzionali.
Del resto fin dalle prime applicazioni, la Cassazione, pur
esaltando l’importanza dei principi contenuti nello Statuto del
contribuente, ha sempre confermato il suo carattere di legge
ordinaria, al massimo riconoscendo, ai principi in esso con‑
tenuti, un valore peculiare nel momento dell’interpretazione
delle norme tributarie; fra due possibili interpretazioni di una
norma tributaria il giudice deve scegliere quella compatibile
con le disposizione della l. 212 del 2000.
Questo è quanto afferma, ad esempio, della sentenza n
7080 del 2004 della Sezione tributaria della Cassazione, ri‑
chiamata, quindi, abbastanza a sproposito dai giudici delle
Commissioni tributarie di merito per disapplicare una norma
di legge ordinaria11.
E questo è il senso di un’altra molto nota sentenza della
Cassazione, la n. 21513 del 2006, che, pur ancora una volta
esaltando l’importanza garantista dello Statuto e trattando,
in particolar modo, del principio dell’affidamento, previsto
dall’art. 10 della l. 212, precisa che essa normativa è “…
espressiva di principi generali, anche di rango costituzionale,
immanenti nel diritto e nell’ordinamento tributario anche
prima della legge, sicché essa vincola l’interprete, in forza del
canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice a Co‑
stituzione, risultando così applicabile sia ai rapporti tributa‑
ri sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, sia ai
rapporti fra contribuente ed ente impositore diverso dall’am‑
ministrazione finanziaria dello Stato, sia ad elementi dell’im‑
posizione diversi da sanzioni e interessi..”12.
11 Ci si riferisce a Cass., Sez. trib., 14 aprile 2004 n. 7080, CED Cass. n. 572060,
secondo cui “In caso di possibilità di fornire due interpretazioni alternative
della disposizione (nella specie: l’art. 25 DL n. 513 del 1992, applicabile <ra‑
tione temporis>, non convertito, ma il cui contenuto è stato reiterato con altri
DD.LL. fino a quello n. 331 del 1993, convertito nella L. n. 427 del 1993, i
cui effetti sono stati salvaguardati con apposita disposizione, che ha abrogato
il sistema degli abbuoni, già stabilito, in misura percentuale differenziata in
relazione al numero di anni di invecchiamento, dall’art. 7 del DL n. 142 del
1950, convertito nella L. n. 331 del 1950, ed espressamente mantenuto in vi‑
gore dall’art. 1 DL n. 854 del 1971, convertito nella L. n. 1039 del 1971),
deve essere preferita quella che non comporti la retroattività della misura fisca‑
le più sfavorevole, in considerazione del principio generale dell’ordinamento
tributario posto dall’art. 3 dello Statuto del contribuente, di cui alla L. 212 del
2000 (nella specie: con riguardo alle quantità di acquavite prodotte anterior‑
mente ad essa, anche se estratta e posta in commercio dopo di essa, secondo
una applicazione del tributo su una fattispecie a formazione successiva). Infat‑
ti, il cd. Statuto del contribuente ha inteso attribuire alle proprie disposizioni (e
tra queste a quella sulla irretroattività delle leggi fiscali) il valore di principi
generali dell’ordinamento tributario, con una autoqualificazione che dà attua‑
zione alle norme costituzionali richiamate dallo Statuto, e che costituiscono
orientamento ermeneutico ed applicativo vincolante nell’interpretazione del
diritto, cosicché qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo deve essere risol‑
to dall’interprete nel senso più conforme a questi principi, a cui la legislazione
tributaria, anche antecedente allo Statuto, deve essere adeguata.
12Cass., sez. trib., 6 ottobre 2006, n. 21513, CED 594566, secondo cui “Il prin‑
cipio della tutela del legittimo affidamento del cittadino, reso esplicito in materia
tributaria dall’art. 10, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei
diritti del contribuente), trovando origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23,
53 e 97 Cost., espressamente richiamati dall’art. 1 del medesimo statuto, è im‑
2 0 1 1
113
È la stessa Corte Costituzionale, fin dal 2004 ha confer‑
mato il valore di legge ordinaria dello Statuto del contribuen‑
te, dichiarando, ad esempio, inammissibile una questione di
legittimità costituzionale posta per un presunto contrasto con
le norme in esso contenute, in particolare testualmente affer‑
mando che “le disposizioni della legge n. 212 del 2000, … in
ragione della loro qualificazione in termini di principi gene‑
rali dell’ordinamento, non rappresentano norme interposte,
ma criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione
tributaria, anche antecedente; pertanto i parametri evocati
dal rimettente non risultano idonei a fondare il giudizio di
legittimità costituzionale”13 .
La stessa Consulta, poi, evocata proprio a proposito dei
possibili profili di incostituzionalità del già poco sopra men‑
zionato art. 62 della l. 289 del 2002, in relazione al principio
previsto dall’art. 3 dello Statuto, ha dichiarato, anche in
questo caso, per ben due volte, nel 200614 e nel 200715, la
manifesta infondatezza, riaffermando in motivazione in mo‑
do categorico che le norme dello Statuto non possono funge‑
manente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti
dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legisla‑
tiva e amministrativa. La previsione dell’art. 10 dello statuto – a differenza di
altre che presentano un contenuto innovativo rispetto alla legislazione preesi‑
stente – è dunque espressiva di principi generali, anche di rango costituzionale,
immanenti nel diritto e nell’ordinamento tributario anche prima della legge,
sicché essa vincola l’interprete, in forza del canone ermeneutico dell’interpreta‑
zione adeguatrice a Costituzione, risultando così applicabile sia ai rapporti tri‑
butari sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, sia ai rapporti fra con‑
tribuente ed ente impositore diverso dall’amministrazione finanziaria dello
Stato, sia ad elementi dell’imposizione diversi da sanzioni e interessi, giacché i
casi di tutela espressamente enunciati dal comma 2 del detto art. 10 riguardano
situazioni meramente esemplificative, legate a ipotesi maggiormente frequenti,
ma non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie
indeterminata di casi concreti (nella fattispecie, la S.C. ha rigettato il ricorso di
un Comune avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale che
aveva ritenuto fonte di legittimo affidamento del contribuente un “accordo”
intervento tra il medesimo ed il Comune in tema di TARSU)”.
13In questo senso, C. Cost., 26 maggio 2006, n. 216; il principio riportato nel
testo, viene espresso dalla Corte chiamata a decidere della questione di legitti‑
mità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, sollevata in
riferimento agli artt. 1, 6 e 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 “in relazione
agli artt. 3, 23, 24, 53 e 97 della Costituzione”, in quanto, in caso di dichiara‑
zione congiunta dei redditi, esonera l’ufficio dall’onere di notificare l’avviso di
accertamento ad entrambi i coniugi e non prevede – in sede di notificazione
alla moglie della cartella esattoriale – l’obbligo, quanto meno, di allegare all’at‑
to ingiuntivo l’avviso di accertamento che sia stato precedentemente notificato
solo al marito.
14C. Cost., 22 febbraio 2006, n. 124 che ha dichiarato manifestamente infonda‑
ta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 62, comma 1, lettera a)
della legge 27 dicembre 2002, n. 289, censurato, in riferimento all’art. 3, com‑
ma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212 e all’art. 24 della Costituzione, nella
parte in cui determina, in una data non successiva al 28 febbraio 2003, il ter‑
mine – da fissarsi dall’Agenzia delle entrate nei 30 giorni dall’entrata in vigore
della legge – entro il quale le imprese, che hanno conseguito automaticamente,
prima dell’8 luglio 2002, contributi nella forma di crediti di imposta per gli
investimenti di cui all’art. 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, devono in‑
viare i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati, a pena di
“decadenza” dai contributi stessi. La questione risulta, infatti, proposta sulla
base del duplice erroneo presupposto interpretativo che il termine minimo di
sessanta giorni, stabilito in via generale dall’art. 3, comma 2, della legge n. 212
del 2000 per l’effettuazione degli adempimenti del contribuente, abbia uno
specifico fondamento costituzionale e che il predetto termine attenga all’eser‑
cizio del diritto di difesa, laddove, invece, l’art. 3 della legge n. 212 del 2000
non costituisce parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimita costituzio‑
nale e, inoltre, la norma censurata fissa un termine di natura non processuale – e
quindi non finalizzato all’esercizio del diritto di difesa – che, per sua natura, è
estraneo all’ambito di tutela dell’art. 24 Cost.
15C. Cost. 23 maggio – 7 giugno 2007 n. 180 che pure ha dichiarato manifesta‑
mente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 62, comma 1,
lettera a) l. n. 289 del 2002, censurato, in riferimento all’art. 3, comma 2,
della legge 27 luglio 2000, n. 212 e all’art. 24 della Costituzione, sulla scorta
sostanzialmente degli stessi argomenti già evidenziata dalla precedente decisio‑
ne del 2006.
tributario
Gazzetta
114
d i r i t t o
re da parametri per valutare la legittimità di una norma tri‑
butaria.
6. La decisione della Cassazione appariva sul punto quin‑
di scontata; la disapplicazione della norma della decretazione
d’urgenza da parte dei giudici di merito tributari, era assolu‑
tamente illegittima e le decisioni non potevano che essere
cassate in sede di controllo di legittimità.
Già con una prima sentenza del 2009 la Corte si era pro‑
nunciata con riferimento in questo caso all’art. 62 della l.
289/02 ed aveva ritenuto illegittima la sua non applicazione
da parte della Commissione Regionale16.
Lo ha confermato con la decisione in epigrafe, con una
motivazione essenziale ma precisa che rende chiaro una volta
per tutte quali possano essere i poteri del giudice di merito nel
caso in cui ritengano esistente un contrasto tra la norma di
diritto tributaria ed una contenuta nello statuto del contri‑
buente; al massimo i principi della l. 212 possano far pendere
la bilancia per un’interpretazione compatibile con essi, ma
null’altro.
Ed allora non si può non concordare con quanto eviden‑
ziato da un illustre studioso; l’ambizioso e legittimo progetto
del legislatore, annunciato nell’art. 1 dello Statuto (e cioè
quello di dare attuazione ai principi costituzionali e di attri‑
buire alle norme statutarie la valenza di principi generali
dell’ordinamento tributario) mal si concilia obiettivamente
con la forma scelta dal legislatore; se si fosse davvero voluto
innalzare a un rango superiore quei principi, si sarebbe dovu‑
to utilizzare la via della riforma costituzionale17; ma eviden‑
temente il legislatore non intendeva legarsi le mani, preferen‑
do la declamazione di regole nobili ma la possibilità concreta,
pratica di potervici comunque derogare.
16Cass., sez. trib., 6 aprile 2009, n. 8254, CED Cass. n. 607951.
17 Così, Ferlazzo‑ Natoli, Diritto tributario, Milano, 2010, p. 40; si v., però,
per una diversa prospettiva di valutazione delle norme dello Statuto, Maron‑
giu, La retroattività della legge tributaria, in Corr. trib.2002, 473, il quale,
scrivendo prima che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulle norme dello
Statuto, si augurava che la “Corte in questo gioco dialettico volto a creare
un’effettiva rete di protezione e di garanzia del conclamato principio generale
(ndr si riferisce proprio a quello espresso dall’art. 3 della l. 212 del 2000) nel
concreto..[ne faccia] attenta e rigorosa applicazione”
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
Diritto internazionale
A cura di Francesco Romanelli ]
115
internazionale
Rassegna di diritto comunitario [
F O R E N S E
●
Rassegna
di diritto comunitario
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e specialista
di diritto ed economia delle Comunità europee
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
117
Spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia – Direttiva 2008/115/
CE – Rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irrego‑
lare – Artt. 15 e 16 – Normativa nazionale che prevede la reclusio‑
ne per i cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare in caso di
inottemperanza all’ordine di lasciare il territorio di uno Stato
membro – Compatibilità
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione) 28 apri‑
le 20111
Nel procedimento C‑61/11 PPU,
avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudizia‑
le ai sensi dell’art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d’appello
di Trento, con ordinanza 2 febbraio 2011, pervenuta in can‑
celleria il 10 febbraio 2011, nel procedimento penale a carico
di H. E. D., alias S. K.,
LA CORTE dichiara
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16
dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure
comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini
di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi
artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta
ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discus‑
sione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione
della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui
soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in vio‑
lazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine
il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza
giustificato motivo.
La Corte d’appello di Trento aveva proposto alla Corte
due questioni pregiudiziali riguardanti la direttiva del Parla‑
mento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/
CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Sta‑
ti membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggior‑
no è irregolare, così formulate:
«Se alla luce dei principi di leale collaborazione all’effetto
utile di conseguimento degli scopi della direttiva e di propor‑
zionalità, adeguatezza e ragionevolezza della pena, gli artt. 15
e 16 della direttiva 2008/115/CE ostino: alla possibilità che
venga sanzionata penalmente la violazione di un passaggio
intermedio della procedura amministrativa di rimpatrio, pri‑
ma che essa sia completata con il ricorso al massimo rigore
coercitivo ancora possibile amministrativamente; alla possi‑
bilità che venga punita con la reclusione sino a quattro anni
la mera mancata cooperazione dell’interessato alla procedura
di espulsione, ed in particolare l’ipotesi di inosservanza al
primo ordine di allontanamento emanato dall’autorità am‑
ministrativa».
Il giudice del rinvio ha ritenuto necessario che la Corte
desse risposta alle questioni sottopostele al fine di poter sta‑
tuire sull’appello interposto da un cittadino di un paese terzo
che soggiorna irregolarmente in Italia, contro la sentenza
emessa dal Tribunale di Trento che lo aveva condannato alla
pena di un anno di reclusione per il reato consistente nel non
aver ottemperato all’ordine emesso dal questore di lasciare il
territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. Il questore aveva motivato tale ordine di allontanamento
1Non ancora pubblicata in GUUE
internazionale
Gazzetta
118
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
con l’impossibilità di accompagnare alla frontiera il cittadino
di un paese terzo, per indisponibilità del vettore o di altri
mezzi di trasporto e per mancanza di documenti di identifi‑
cazione, e con l’impossibilità di ospitarlo in un centro di
permanenza temporanea per mancanza di posti.
La Corte ha ritenuto che gli Stati membri non possono
introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure co‑
ercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo
conformemente all’art. 8, n. 4, della direttiva 2008/115/CE,
una pena detentiva, come quella prevista all’art. 14, com‑
ma 5‑ter, del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un
cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un
ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il
termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in
maniera irregolare nel territorio nazionale. Essi devono, in‑
vece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla deci‑
sione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti.
Una tale pena, infatti, segnatamente in ragione delle sue
condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromet‑
tere la realizzazione dell’obiettivo perseguito da detta diret‑
tiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allonta‑
namento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui sog‑
giorno sia irregolare. In particolare, come ha rilevato l’avvo‑
cato generale al paragrafo 42 della sua presa di posizione,
una normativa nazionale quale quella oggetto del procedi‑
mento principale può ostacolare l’applicazione delle misure
di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva 2008/115 e ritardare
l’esecuzione della decisione di rimpatrio.
Libera prestazione dei servizi – Direttiva 2006/123/CE – Art. 24 – Proi‑
bizione di tutti i divieti totali in materia di comunicazioni commer‑
ciali per le professioni regolamentate – Professione di dottore
commercialista/esperto contabile – Divieto di promozione commer‑
ciale diretta e ad personam dei propri servizi (“démarchage”)
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 5 aprile 20112
(domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil
d’État – Francia)
S. f. n. d’e. c. / Ministre du Budget, des Comptes publics
et de la Fonction publique
Causa C‑119/09 3
La Corte (Grande Sezione) dichiara:
L’art. 24, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio 12 dicembre 2006, 2006/123/CE, relativa ai servi‑
zi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che
esso osta a una normativa nazionale la quale vieti totalmente
agli esercenti una professione regolamentata, come quella di
dottore commercialista/esperto contabile, di effettuare atti di
promozione commerciale diretta e ad personam dei propri
servizi (“démarchage”).
Nel procedimento definito dalla sentenza in esame la
Corte era chiamata per la prima volta a pronunciarsi sull’in‑
terpretazione della direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio 12 dicembre 2006, 2006/123/CE, relativa ai ser‑
2Non ancora pubblicata in GUUE.
3 GUUE C del 20 giugno 2009.
Gazzetta
F O R E N S E
vizi nel mercato interno 4 .
La domanda pregiudiziale proposta dal Conseil d’État
(Francia) verteva sulla libertà di comunicazione commercia‑
le dei membri di professioni regolamentate, nel caso specifico
gli esperti contabili, che è disciplinata dall’art. 24 della diret‑
tiva 2006/123. Il quesito era il seguente:
«Se la direttiva 2006/123 (…) abbia inteso abolire, per le
professioni regolamentate ivi contemplate, ogni divieto ge‑
nerale, qualunque sia la forma di pratica commerciale di cui
trattasi, oppure se abbia lasciato agli Stati membri la possi‑
bilità di mantenere dei divieti generali per talune pratiche
commerciali, quali l’accaparramento di clientela».
Il giudice del rinvio considera la risposta della Corte alla
sua domanda necessaria per poter statuire sul ricorso propo‑
sto dalla ricorrente, organismo rappresentativo dei commer‑
cialisti e degli esperti contabili francesi e diretto all’annulla‑
mento del decreto 27 settembre 2007, n. 1387, recante un
codice di deontologia delle professioni di dottore commercia‑
lista ed esperto contabile, nella parte in cui vieta l’accapar‑
ramento di clientela.
La Corte ha rilevato, in via preliminare, l’art. 24 della
direttiva 2006/123, intitolato «Comunicazioni commerciali
emananti dalle professioni regolamentate», sancisce due
obblighi a carico degli Stati membri. Da un lato, l’art. 24,
n. 1, esige che gli Stati membri sopprimano tutti i divieti as‑
soluti in materia di comunicazioni commerciali delle profes‑
sioni regolamentate. Dall’altro, il n. 2 del medesimo articolo
obbliga gli Stati membri a provvedere affinché le comunica‑
zioni commerciali che promanano dalle professioni regola‑
mentate ottemperino alle regole professionali, conformi al
diritto dell’Unione, riguardanti, in particolare, l’indipenden‑
za, la dignità e l’integrità della professione nonché il segreto
professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna pro‑
fessione. Le suddette regole professionali devono essere non
discriminatorie, giustificate da un motivo imperativo di in‑
teresse generale e proporzionate.
L’intenzione del legislatore dell’Unione era non soltanto
di porre fine ai divieti assoluti, per gli esercenti una profes‑
sione regolamentata, di ricorrere alla comunicazione com‑
merciale, in qualunque forma, ma anche di eliminare i divie‑
ti di ricorso a una o più forme di comunicazione commercia‑
le ai sensi dell’art. 4, punto 12, della direttiva 2006/123,
quali, in particolare, la pubblicità, il marketing diretto e le
sponsorizzazioni.
La nozione di «comunicazione commerciale» è definita
all’art. 4, punto 12, della direttiva 2006/123 come compren‑
siva di qualsiasi forma di comunicazione destinata a promuo‑
vere, direttamente o indirettamente, i beni, i servizi o l’im‑
magine di un’impresa, di un’organizzazione o di una persona
che svolge un’attività commerciale, industriale, artigianale o
che esercita una professione regolamentata. Tuttavia, esula‑
no da tale nozione, in primo luogo, le informazioni che
consentono l’accesso diretto all’attività dell’impresa, dell’or‑
ganizzazione o della persona, quali un nome di dominio o un
indirizzo di posta elettronica, nonché, in secondo luogo, le
comunicazioni relative ai beni, ai servizi o all’immagine
dell’impresa, dell’organizzazione o della persona elaborate in
4GUUE L 376 2006, p. 36.
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
modo indipendente, in particolare qualora esse siano fornite
senza corrispettivo economico. La nozione di comunicazione
commerciale comprende non soltanto la pubblicità classica,
ma anche altre forme di pubblicità e di comunicazione di
informazioni destinate all’acquisizione di nuovi clienti. Per
quanto riguarda la nozione di «démarchage», va rilevato che
né la direttiva 2006/123 né alcun altro atto normativo
dell’Unione contengono una definizione di tale nozione.
Inoltre, la sua portata può variare negli ordinamenti giuridi‑
ci dei diversi Stati membri. La Corte conclude che deve
considerarsi atto di «démarchage» quello con il quale un
professionista prende contatto con un terzo, che non l’abbia
richiesto, al fine di proporgli i propri servizi.
La documentazione prodotta, tra cui la «Griglia indica‑
tiva degli strumenti di comunicazione» predisposta dal Con‑
seil supérieur de l’ordre des experts‑comptables [Consiglio
superiore dell’Ordine dei dottori commercialisti/esperti con‑
tabili], prova che gli esercenti la professione di dottore com‑
mercialista/esperto contabile devono astenersi da qualsiasi
contatto personale non richiesto che possa essere considera‑
to come un reclutamento di clientela o una proposta concre‑
ta di servizi commerciali.
La Corte ha ritenuto che tale divieto violi la direttiva co‑
munitaria impedendo in maniera assoluta e non giustificata
una forma di marketing ad una categoria di professionisti.
«Inadempimento di uno Stato – Artt. 43 CE e 49 CE – Avvoca‑
ti – Obbligo di rispettare tariffe massime in materia di onora‑
ri – Ostacolo all’accesso al mercato – Insussistenza»
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) 29 marzo
20115
Nella causa C‑565/086,
avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi
dell’art. 226 CE, proposto il 19 dicembre 2008,
Commissione europea, ricorrente/ Repubblica italiana, con‑
venuta
LA CORTE (Grande Sezione), dichiara e statuisce:
1) Il ricorso è respinto.
Il ricorso di inadempimento in esame verte sulla normati‑
va italiana che prevedrebbe, secondo la Commissione europea,
tariffe massime obbligatorie per le attività degli avvocati.
Secondo la Commissione, l’obbligo degli avvocati di ri‑
spettare tariffe massime costituisce una restrizione alla libe‑
ra di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE, nonché una restri‑
zione alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE.
Poiché detto obbligo non sarebbe idoneo a garantire gli obiet‑
tivi di interesse generale e, in ogni caso, apparirebbe più re‑
strittivo di quanto è necessario per conseguire detti obiettivi,
si tratterebbe di una restrizione ingiustificabile.
La Repubblica italiana ha basato la sua difesa facendo
valere in via principale che non vi è, nel proprio ordinamen‑
to giuridico, un principio che vieti di superare le tariffe mas‑
sime applicabili alle attività degli avvocati. Soltanto in via
sussidiaria essa ha tentato di dimostrare che la prescrizione
5
6
Non ancora pubblicata.
In GUUE C 55 del 7 marzo 2009.
2 0 1 1
119
di limiti tariffari massimi mira a garantire l’accesso alla giu‑
stizia, la tutela dei destinatari dei servizi, nonché la buona
amministrazione della giustizia.
La Corte ha ritenuto non fondato il timore espresso dalla
Commissione, la quale riteneva che le disposizioni tariffarie
per gli avvocati costituiscano una restrizione alla libertà di
stabilimento o alla libera prestazione di servizi, in quanto
possono infliggere agli avvocati, stabiliti in Stati membri di‑
versi dalla Repubblica italiana e che forniscono servizi in
quest’ultimo Stato, costi aggiuntivi generati dall’applicazione
del sistema italiano degli onorari nonché una riduzione dei
margini di guadagno e dunque una perdita di competitività.
La Corte ha invece ritenuto che una normativa di uno
Stato membro non costituisce una restrizione ai sensi del
Trattato CE per il solo fatto che altri Stati membri applichino
regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai
prestatori di servizi simili stabiliti sul loro territorio. Ha
inoltre affermato che l’esistenza di una restrizione ai sensi del
Trattato non può dunque essere desunta dalla mera circo‑
stanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla
Repubblica italiana devono, per il calcolo dei loro onorari
per prestazioni fornite in Italia, abituarsi alle norme applica‑
bili in tale Stato membro.
Per contro, una restrizione del genere esiste, segnatamen‑
te, se detti avvocati sono privati della possibilità di penetrare
nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di
concorrenza normali ed efficaci 7 .
La Corte ha ritenuto che la Commissione non abbia di‑
mostrato che le disposizioni controverse abbiano un tale
scopo o effetto. Infatti, essa non è riuscita a dimostrare che
la normativa in discussione è concepita in modo da pregiu‑
dicare l’accesso, in condizioni di concorrenza normali ed
efficaci, al mercato italiano dei servizi di cui trattasi. Va ri‑
levato, al riguardo, che la normativa italiana sugli onorari è
caratterizzata da una flessibilità che sembra permettere un
corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita
dagli avvocati. Così, è possibile aumentare gli onorari fino al
doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause
di particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al
quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono una stra‑
ordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione
manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le
prestazioni dell’avvocato e le tariffe massime previste. In
diverse situazioni, inoltre, è consentito agli avvocati conclu‑
dere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare
l’importo degli onorari.
7 In tal senso, CGCE sentenza 5 dicembre 2006, cause riunite C‑94/04 e
C‑202/04, Cipolla e a., Racc. p. I‑11421, punto 59, nonché 11 marzo 2010,
causa C‑384/08, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 45.
internazionale
Gazzetta
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
diritto processuale civile
Mediazione civile / Giulio d'Andrea
123
diritto penale
Guida in stato di ebrezza / Alfredo Capuano
124
diritto amministrativo
125
questioni
Occupazione provvedimentale / Ida Sorrentino
F O R E N S E
●
DIRITTO processuale CIVILE
Mediazione civile (d.lgs. 4
marzo 2010, n. 28)
1. Contraddizioni tra gliobblighi
di riservatezza ed ipotetiche
interferenze con il Giudice
ordinario.
2. Quali modalità deve
osservare l’Avvocato ai fini
di una corretta informativa
da darsi ai clienti nell’ipotesi
di una procedura d’urgenza
da proporsi in via immediata
innanzi al Giudice ed il
conseguente giudizio di merito
che investa diritti indisponibili?
● Giulio d’Andrea
Docente a contratto presso
l’Università Suor Orsola Benincasa
di Napoli – Mediatore – Avvocato in
Napoli
1. L’art. 14 del d.lgs. 28/2010 evi‑
denzia in maniera chiara gli obblighi cui
è tenuto il mediatore; si impongono in
maniera preminente gli obblighi che
tendono ad imporre un comportamento
assolutamente imparziale e neutrale, che
possa garantire assoluta equidistanza
tra le parti che confidano nella funzione
di imparzialità della mediazione. Ciò
nonostante, alla lettera c) dello stesso
art. 14 cit, si legge che è data facoltà al
mediatore di formulare proposta conci‑
liativa. Detta proposta può conseguire,
natulariter, anche se non richiesta dalle
parti, allorquando non si raggiunge
l’auspicato accordo, non ostante il fatti‑
vo intervento del mediatore.
La facoltà di formulare proposta di
mediazione non solo trova specifico ri‑
ferimento normativo ma viene esplicita‑
mente richiamata anche dall’art. 13 del
citato D.lgs. che espressamente ricollega
alla valutazione della proposta criteri
per statuire sulle spese a cui il giudice
investito della questione deve senz’altro
attenersi. Non vi è dubbio, quindi, che
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
non solo tale facoltà possa essere eser‑
citata, ma quando si trova riscontro
negli atti processuali della proposta di
mediazione, questa riveste incisiva im‑
portanza, anche sotto il profilo della
soccombenza delle spese. È pacifico,
infatti, che chiunque delle parti interes‑
sate può, in via immediata, fare richie‑
sta di tale documento all’organismo di
conciliazione ed allegarlo nella proce‑
dura che investe l’Autorità giudiziaria.
La proposta di mediazione, così
acquisita, è certo frutto di valutazioni
implicite sia delle dichiarazioni rese
dalle parti sia di circostanze acquisite
durante il procedimento di mediazione,
attività necessariamente prodromica ed
ineludibile all’inoltro dell’azione giudi‑
ziaria. Dal ché discende che il conferire
tale facoltà al mediatore (ovvero redige‑
re proposta senza nemmeno il preventi‑
vo consenso delle parti) possa, in parte,
ledere quel principio di riservatezza
così come previsto dall’art. 9 del citato
d.lgs. che impone una assoluta riserva‑
tezza rispetto alle dichiarazioni e circo‑
stanze emerse durante la mediazione,
consentendosi solo l’utilizzo delle stesse
previo formale consenso delle parti in‑
teressate. La contraddizione ancora più
stridente tra la facoltà del mediatore di
avanzare proposte ed i suoi doveri di
riservatezza la si coglie interpretando la
portata normativa del successivo art. 10
del citato d.lgs. che, nel ribadire il divie‑
to assoluto di utilizzare informazioni e
circostanze acquisite durante la fase di
mediazione, tutela la figura del media‑
tore impedendo che lo stesso possa es‑
sere sentito dal giudice, applicandosi
per analogia le disposizioni degli
artt. 200 e 103 c.p.p.
Ci si chiede come armonizzare tali
norme di diretta tutela della riservatez‑
za con la previsione di cui all’art. 13 del
d.lgs. 28/2010 (spese processuali)
“quando il provvedimento che defini‑
sce il giudizio corrisponde interamente
al contenuto della proposta di media‑
zione…”etc.
È del tutto evidente che il giudice
dovendo comunque prender atto della
proposta di mediazione anche al solo
fine di statuirne le spese, deve venire
pienamente a conoscenza delle motiva‑
zioni logiche e delle circostanze che
hanno comunque indirizzato il mediato‑
re ad avanzare una proposta risolutiva
acquisita documentalmente in giudizio.
In detta ipotesi evidente appare la
123
violazione degli obblighi di riservatezza
che, pur formalmente tutelati dagli
artt. 9 e 10 del d.lgs. 28/2010, vengono
sostanzialmente ad essere elusi dall’ac‑
quisizione in giudizio della proposta di
mediazione.
2. Appare indubbio che tutte le con‑
troversie vertenti in materie di diritti
indisponibili siano sottratte ad ogni
valutazione di mediazione, esimendo
anche il difensore da ogni obbligo di
informativa. Infatti, l’obbligo informa‑
tivo di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs
28/2010, sussiste e si impone solo per le
questioni insorte tra le parti per le qua‑
li sia possibile, in concreto, addivenire
ad una soluzione bonaria su diritti di‑
sponibili e previo impulso giudiziale.
Ciò non di meno, anche in problemati‑
che di diritti indisponibili, nel cumulo
degli interessi da tutelare, possono rav‑
visarsi ipotesi di diritti disponibili e
connesse posizioni giuridiche, che rien‑
trando nella sfera dei diritti disponibili,
debbano essere senza meno demandate
ad un organismo di conciliazione per la
richiesta della dovuta mediazione.
Sotto il profilo della responsabilità
e dell’obbligo di informativa da parte
dell’avvocato, non vi è dubbio che la
posizione più corretta da parte del pro‑
fessionista è quella di rendere edotto il
proprio assistito che parte delle richieste
da avanzare, trattandosi, per esempio,
di diritti indisponibili, quale l’affido dei
figli, sono sottratte ad ogni forma di
mediazione. In tal caso, e per tale ma‑
teria del contendere può essere adita in
via immediata la competente Autorità
giudiziaria. Unitamente a tali diritti
indisponibili si prospettano ipotesi in
cui necessita dirimere, contestualmente,
questioni di diritti disponibili che, in
virtù della normativa prevista dal D.lgs.
10 marzo 2010, n°28, devono necessa‑
riamente essere sottoposte alla procedu‑
ra di mediazione, a pena di procedibili‑
tà, Se per un verso il difensore avverte
l’obbligo di enunciare tale circostanza
al proprio assistito, sotto il profilo pra‑
tico, vi è orientamento che induce ad
interpretare in maniera restrittiva la
portata dell’art. 4 comma 3 del D.lgs.
28/2010, ritenendo tale obbligo sussi‑
stere solo se la lite insorta rientri tra
quelle controversie in cui è possibile ed
in maniera concreta ipotizzarne la solu‑
zione avvalendosi del mediatore.
Una ulteriore conferma che sembra
questioni
Gazzetta
124
q u e s t i o n i
sottrarre il dovere di informativa, da ●
parte del difensore, è da rinvenirsi pro‑
prio dalla dir. Ce del 21 maggio 2008, DIRITTO penale
n°52, che in maniera chiara, attribuen‑
Guida in stato di ebbrezza
done anche una vis attrattiva, sancisce
che per i diritti e gli obblighi su cui le Sono da ritenersi rilevanti
parti non hanno facoltà di decidere da i centesimi di litro ai fini
sole, non può essere demandata alcuna
dell’accertamento del
ipotesi di ricorso alla mediazione, doven‑
dosi investire il giudice ordinario; anche superamento delle diverse
se nella definizione della lite dovessero soglie alcolemiche per
insorgere questioni relative alla defini‑
zione di diritti disponibili, assumendo l’integrazione delle fattispecie
questi ultimi veste accessoria, in relazio‑ criminose previste dall’art. 186
ne alla domanda principale, nessun ob‑ cod. strad.?
bligo di comunicativa si imporrebbe al
difensore. Ne consegue che il c.d. obbli‑
go informativo di cui all’art. 4, com‑
ma 3, del d.lgs. 28/2010, deve ritenersi ● Alfredo Capuano
sussistere solo se la lite insorta investa, Dottore in Giurisprudenza
in via immediata e prevalente, controver‑
sie che in concreto possano trovare solu‑
L’art. 186 cod. strad., così come
zione con l’opera del mediatore.
modificato dagli ultimi frenetici ma
Di contro, nelle controversie in mate‑
oramai non più recenti interventi legi‑
ria di diritto di famiglia, involgendo in via
slativi, vietando la guida in stato di
immediata e diretta aspettative di diritti
ebbrezza ammette, salvo alcune espres‑
indisponibili, nessun obbligo può sussi‑
se deroghe in peius, una soglia massima
stere per il difensore di rendere l’informa‑
di tasso alcolemico nel sangue non su‑
tiva di cui all’art. 4 del citato d.lgs.
periore a 0,5 grammi per litro (g/l). La
Trattandosi di innovazioni che non
norma prevede, tranne per categorie
hanno precedenti nel nostro Ordina‑
specifiche, tre soglie di punibilità: supe‑
mento, le cui applicazioni pratiche,
riore a 0,5 e non superiore a 0,8 g/l,
ancora in fieri, non possono suggerire
superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 g/l
accorgimenti e migliori soluzioni, allo
ed, infine, superiore a 1,5 g/l.
scopo di prevenire da una parte impu‑
Per quanto concerne l’esatta inter‑
tazioni di responsabilità al difensore e
pretazione della norma circa la rilevan‑
dall’altra legittimi dubbi che possano
za dei centesimi di litro ai fini della ve‑
insorgere sull’operato dello stesso, ap‑
rifica del superamento delle diverse so‑
pare opportuno che l’informativa av‑
glie alcolemiche, la Suprema Corte si è
venga nella maniera più esauriente pos‑
già espressa con due sentenze.
sibile, ipotizzando ed illustrando anche
Con la prima (Cass. Pen., Sez. IV,
probabili evoluzioni della controversia,
n. 12904 del 04.03.2010, in Arch. giur.
eludendosi, per quanto possibile, ogni
circol. e sinistri, 2010, 5, 383) afferma
ipotesi di annullabilità che possa met‑
che sarebbe contraddittorio sostenere
tere in forse il contratto di patrocinio
che il legislatore, indicando una sola
con il proprio difensore, alimentando,
cifra decimale (0,5 g/l – 0,8 g/l – 1,5
così, ulteriore contenzioso.
g/l), abbia inteso negare alcuna valenza
ai centesimi (0,01 – 0,02, …, 0,09) in
quanto l’indicazione di tre differenti
fattispecie progressive, con progressivo
incremento della gravità delle sanzioni
applicate, è stata voluta dal legislatore
al fine di arginare il fenomeno della
guida in stato di alterazione correlata
all’assunzione smodata di alcolici, con
tutte le gravi conseguenze che ne deri‑
vano in termini di sinistri stradali. La
sensibilità degli strumenti utilizzati per
l’accertamento urgente del tasso alcole‑
mico (gli etilometri) – evidenziano gli
Gazzetta
F O R E N S E
stessi giudici nomofilattici – era già ben
nota al legislatore stesso prima dell’ado‑
zione della modifica normativa. Il legi‑
slatore sapeva, quindi, che i valori
dell’alcolemia erano rilevati da stru‑
menti che consentivano un’approssima‑
zione fino al centesimo di grammo/litro.
In assenza di elementi espliciti da cui
desumere una volontà contraria, deve
perciò affermarsi che l’omessa indica‑
zione dei centesimi di litro nulla abbia
a che vedere con la volontà di approssi‑
mare ai soli decimi di grammo/litro gli
accertamenti più corretti, puntuali e
precisi forniti dalla strumentazione di‑
sponibile. Inoltre, continua sempre la
Suprema Corte, lo zero dopo la virgola
è irrilevante.
La Suprema Corte (Cass. Pen.,
Sez. IV, n. 38130 del 14.10.2010, in
Giuda al diritto, 2011, 1, 101), chiama‑
ta pochi mesi dopo ad esprimersi nuo‑
vamente sul punto, ribadisce lo stesso
principio già manifestato, confermando
la rilevanza dei centesimi di litro ai fini
dell’integrazione delle diverse ipotesi
previste rispettivamente nelle lett. a), b)
e c) dell’art. 186 cod. strad.
Molti autori (G. Riccardi, Reati
alla guida. Percorsi giurisprudenziali,
2010, pag. 59; L. Tramontano, Guida
in stato di ebbrezza. Accertamento del
reato, sanzioni e cause estintive, 2010,
pag. 147; M. Rinaldi, Guida in stato
di ebbrezza: la rilevazione dell’alcole‑
mia tiene conto anche dei centesimi.
Etilometro… tolleranza zero… Nota a
sentenza, in www.dirittoeprocesso.
com; S. Marani, La rilevanza dei cen‑
tesimi nell’accertamento del tasso alco‑
lemico. Nota a sentenza, in www.alta‑
lex.com) condividono la tesi giurispru‑
denziale ora esposta o, quantomeno, la
riportano pedissequamente.
Pronunzie di segno opposto si rin‑
vengono, al contrario, solo in alcune
sentenze di merito (Trib. Alessandria,
1 9 . 0 7. 2 0 1 0 , i n G i u r . m e r i ‑
to, 2010, 10, 2555; Trib. Monza,
20.01.2010, in Arch. giur. circol. e sini‑
stri, 2010, 10, 813; Corte App. Trieste,
Sez. I, 02.05.2008, n. 507, in Arch. giur.
circol. e sinistri, 2010, 10, 813) nelle
quali si sostiene semplicemente che i
centesimi di litro sono irrilevanti ai fini
dell’accertamento del tasso alcolemico
in ragione del fatto che la norma non li
indica; tale omissione non sarebbe una
mera dimenticanza ma una omissione
volontaria tesa anche ad ovviare ai mi‑
m a r z o • a p r i l e
F O R E N S E
nimi margini di errore dei dati rilevati
da una apparecchiatura (ndr. mobile).
Ad avviso di chi scrive, anche se
controcorrente, appare più condivisibi‑
le il risultato al quale approda la giuri‑
sprudenza di merito. Rispetto ai motivi
già dedotti, vi è però una ulteriore ra‑
gione non ancora evidenziata che meri‑
terebbe un ulteriore approfondimento.
La Suprema Corte afferma che “… la
sensibilità degli strumenti utilizzati per
l’accertamento urgente del tasso alco‑
lemico (gli etilometri) era già ben nota
al legislatore stesso prima dell’adozione
della modifica normativa…”; il legisla‑
tore sapeva, quindi, che i valori dell’al‑
colemia sono rilevati da strumenti che
riportano il tasso alcolemico con una
approssimazione fino al centesimo di
grammo/litro. Proprio partendo da
questa premessa la Suprema Corte ritie‑
ne che i centesimi di litro siano rilevan‑
ti ai fini dell’accertamento del tasso al‑
colemico. A parere di chi scrive, al
contrario, proprio questa circostanza
non può non portare alla soluzione
opposta; se il legislatore “sapeva” della
sensibilità degli etilometri che indicano
fino ai centesimi di litro, la circostanza
che abbia omesso di indicarli nel testo
della norma non può non significare che
lo abbia fatto consciamente sancendo‑
ne, pertanto, la loro irrilevanza ai fini
dell’accertamento del superamento del‑
le diverse soglie alcolemiche.
I centesimi di litro sarebbero stati
rilevanti solo se il testo della norma
fosse stato “… qualora sia stato accer‑
tato un valore corrispondente ad un
tasso alcolemico superiore a 0,50 e non
superiore a 0,80 grammi per litro (g/l)”;
formulata in questi termini anche 0,51
g/l avrebbe incontrovertibilmente costi‑
tuito l’ipotesi di cui all’art. 186, com‑
ma 2, lett. a). Ma se “consapevolmente”,
come affermato dalla stessa Suprema
Corte, il legislatore ha redatto la norma
omettendo di indicare i centesimi di li‑
tro (“… qualora sia stato accertato un
valore corrispondente ad un tasso alco‑
lemico superiore a 0,5 e non superiore a
0,8 grammi per litro (g/l)”) anche il
tasso alcolemico pari a 0,59 g/l non può
configurare l’ipotesi di cui all’art. 186,
comma 2, lett. a), cod. strad. in ragione
del fatto che il legislatore “consciamen‑
te” ha voluto omettere di indicare i
centesimi di litro ritenendoli irrilevanti
ai fini dell’apprezzamento del supera‑
mento delle diverse soglie alcolemiche.
2 0 1 1
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Occupazione
provvedimentale
Caducato l’istituto
dell’acquisizione sanante
ex art 43 d.p.r. 327 dell’8
giugno 2001 (t.u. espr.),
alla luce dei più recenti
orientamenti giurisprudenziali
quali domande può
formulare il privato a fronte
dell’occupazione sine titulo ?
● Ida Sorrentino
Dottoressa in giurisprudenza
Nel n.6 della Gazzetta Forense – No‑
vembre – Dicembre 2010 – si è affron‑
tata la questione relativa all’impatto
della sentenza della Corte Costituziona‑
le n. 293 dell’8 Ottobre 2010, dichiara‑
tiva dell’illegittimità costituzionale
dell’art. 43 del D.P.R. 327/01, sui giudi‑
zi pendenti, richiamando le primissime
soluzioni approntate dalla giurispruden‑
za amministrativa per colmare la lacuna
normativa sopravvenuta (Tar Lecce, 24
Novembre 2010, n. 2683).
L’ampiezza del tema trattato e le in‑
certezze ancora presenti sulle soluzioni
da adottare avevano lasciato spazio per
un’ulteriore trattazione, da svolgersi in
questa sede, volta a completare il quadro
orientativo nel contesto sopravvenuto.
È ormai chiaro che l’acquisto della
proprietà da parte dell’Amministrazio‑
ne pubblica non può più essere forma‑
lizzato con il provvedimento di acqusi‑
zione sanante ex art. 43 T.U. espr., teso
a sanare medio tempore i vizi di una
procedura espropriativa illegittima, es‑
sendo tale procedura in contrasto con i
canoni europei del giusto procedimento
di acquisto della proprietà e, in partico‑
lare, con quelli di chiarezza, trasparenza
e accessibilità. È altrettanto chiaro che
sia da escludere anche la sopravvenienza
della vecchia occupazione appropriati‑
va, in quanto l’acquisto della proprietà
come conseguenza diretta dell’illecito è
125
anch’esso in contrasto con i principi
europei a tutela della proprietà.
È del tutto consequenziale assumere
che il privato resti proprietario del suo‑
lo illegittimamente occupato.
Proprio tale conseguenza pone, tut‑
tavia, dei quesiti circa la sorte dell’ope‑
ra costruita illegittimamente dalla P.A.
sul suolo altrui.
Dall’analisi della più recente giuri‑
sprudenza amministrativa risulta che le
domande formulate dai privati, così
come le eccezioni proposte dalla P.A
sono state varie.
Occorre preliminarmente sottoline‑
are che, nel rispetto del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronuncia‑
to ex art. 112 c.p.c., a mente del quale il
potere giurisdizionale va esercitato nel
quadro delineato dalla domanda atto‑
rea, essendo precluso al giudice di pro‑
nunciarsi oltre i limiti della concreta ed
effettiva questione che le stesse parti
hanno sottoposto al suo esame, e dunque
oltre i limiti del petitum e della causa
petendi, ulteriormente specificati dai
motivi di ricorso, presupposto per una
pronuncia sulla sorte della proprietà
sull’area illegittimamente occupata è
l’impugnazione di tutti gli atti del proce‑
dimento espropriativo, compreso il prov‑
vedimento di acquisizione sanante.
Infatti, gli effetti della sanatoria
disposta con un provvedimento di ac‑
quisizione sanante adottato medio tem‑
pore dall’Amministrazione possono
interessare gli esiti di un giudizio aven‑
te ad oggetto l’impugnativa dello stesso;
diversamente non possono intaccare
l’ambito di un giudizio riguardante solo
gli atti della procedura espropriativa
adottati precedentemente all’adozione
del provvedimento di sanatoria.
In tal senso si è espresso il Consiglio
di Stato, Sez. IV, con sentenza n. 9612
del 31 dicembre 2010 che, nel confer‑
mare la sentenza impugnata dalla Pro‑
vincia, con la quale era stato annullato
il provvedimento di approvazione del
progetto di un’opera pubblica, valevole
come dichiarazione implicita di pubbli‑
ca utilità, indifferibilità ed urgenza a
mente dell’art.1 della legge n.1 del 3
gennaio 1978, per mancanza della co‑
municazione di avvio del procedimento
ex art. 21 Legge 241/90, afferma che la
sopravvenienza del provvedimento di
occupazione sanante non ha rilievo al‑
cuno sulla fattispecie in quanto “ove si
voglia richiamare la sentenza della
questioni
Gazzetta
126
Corte costituzionale, recentemente in‑
tervenuta, la n. 293/2010, con cui è
stata dichiarata la illegittimità di tale
norma, dalla stessa conseguirebbe la
caducazione del provvedimento a sana‑
toria assunto dalla Provincia, senza
riflesso alcuno sugli atti qui in conte‑
stazione. Gli effetti della detta sanato‑
ria, a voler fare a meno della pronuncia
della Consulta, potrebbero interessare
gli esiti del giudizio avente ad oggetto
l’impugnativa del provvedimento di
acquisizione sanante, anche agli even‑
tuali fini risarcitori, ma, in ogni caso,
la successiva determinazione assunta
dalla Provincia non pare possa intacca‑
re l’ambito del giudizio qui instaurato
che riguarda atti della procedura espro‑
priativa in precedenza adottati.”
Ciò posto, a fronte dell’illegittima
occupazione del suolo, il privato può
aver chiesto: la restituzione dell’area
occupata illegittimamente, il risarci‑
mento del danno da occupazione illegit‑
tima, o entrambi.
La domanda restitutoria può essere
esperita con l’azione di rivendicazione,
con le azioni possessorie ed anche con i
mezzi di tutela previsti dagli artt. 936
c.c.
Le azioni possessorie e l’azione di
rivendica trovano ampio spazio nel caso
in cui il suolo sia stato occupato, ma non
sia stata costruita l’opera. In questi casi,
proprio in virtù del fatto che l’opera non
è stata costruita, nulla osta alla restitu‑
zione dell’area occupata sine titulo.
Nei casi di occupazione illegittima
del suolo da parte della P.A. con costru‑
zione dell’opera, a fronte della richiesta
restitutoria dell’area occupata sine titu‑
lo con successivo provvedimento di ac‑
quisizione sanante, la giurisprudenza
amministrativa maggioritaria (Tar
Campania, Napoli, 13 Gennaio 2011,
n. 262; Tar Campania, Salerno,
14/01/2011, n. 43; Consiglio di Stato,
28 Gennaio 2011, n. 676) propende per
l’applicabilità dell’art. 936 c.c., concer‑
nente l’acquisto immediato delle opere
fatte da un terzo, con materiali propri,
in capo al proprietario del suolo.
Come è noto, l’articolo summenzio‑
nato riconosce due facoltà al dominus
soli: ritenere le opere pagandole nella
minor somma tra lo speso ed il miglio‑
rato, ovvero obbligare, entro sei mesi
dalla notizia dell’avvenuta incorpora‑
zione, colui che le ha fatte a rimuoverle
e a risarcire il danno, salvo che le opere
q u e s t i o n i
non siano state realizzate “a sua scienza
e senza opposizione” o in buona fede.
Unici limiti, dunque allo ius tollendi del
proprietario del fondo sono lo spirare
del termine di decadenza e la prova del
consenso o della buona fede. Una volta
che la rimozione non sia stata chiesta
nel termine di sei mesi di cui all’art. 936,
comma ultimo, cit., il proprietario ac‑
quista a titolo originario ed ipso iure la
proprietà delle opere realizzate e in tal
caso il terzo potrà solo essere indenniz‑
zato dal dominus per una somma pari
al valore dei materiali ed il prezzo della
mano d’opera oppure all’aumento di
valore recato al fondo. La domanda di
indennizzo è soggetta a prescrizione, di
natura ordinaria e decennale e decor‑
rente dalla manifestazione di volontà
espressa o tacita del proprietario del
suolo di ritenzione dell’opera.
Sul punto, invero, non è ancora
chiaro se il termine semestrale per l’eser‑
cizio dello ius tollendi “dalla notizia
dell’avvenuta incorporazione” decorri
nuovamente per effetto della sopravve‑
nuta dichiarazione di incostituzionalità
dell’art. 43 o decorra dalla irreversibile
trasformazione del suolo. Questo ele‑
mento è sicuramente determinante per
stabilire il momento dal quale conside‑
rare prescritto il diritto all’esercizio
dello ius tollendi.
Al riguardo il Tar Campania, Na‑
poli, con sentenza n. 262 del 13 Gen‑
naio 2011, sembra aver ritenuto che il
termine decorra nuovamente a seguito
della declaratoria di incostituzionalità.
Difatti, in applicazione dei principi
su esposti, nel dichiarare il diritto dei
ricorrenti ad essere reintegrati nella
piena titolarità e nel possesso del loro
fondo di proprietà, previa rimozione
delle opere eseguite, ha stabilito, in
applicazione dell’art. 35 del Decreto
Legislativo n. 80/1998, l’obbligo delle
parti di addivenire ad un accordo, entro
il termine di sessanta giorni dalla comu‑
nicazione o dalla notifica della decisio‑
ne, teso alla corresponsione alla parte
ricorrente di una somma risarcitoria del
danno da utilizzazione senza titolo,
calcolato a decorrere dalla data di sca‑
denza del termine di efficacia della di‑
chiarazione di pubblica utilità sino a
quella della effettiva restituzione, oltre
gli interessi moratori. In caso di manca‑
ta conclusione dell’accordo, parte ricor‑
rente può procedere per l’ottemperanza
della sentenza.
Gazzetta
F O R E N S E
Occorre sottolineare che all’applica‑
zione dell’art. 936 c.c. e all’esecuzione
di una sentenza siffatta, si oppone un
limite particolarmente rilevante per la
tutela dell’interesse della Pubblica Am‑
ministrazione a conservare il bene, limi‑
te che è quello fissato dall’art. 2933, 2
co. c.c., laddove si prevede che la distru‑
zione della cosa non può essere ordina‑
ta se essa è di pregiudizio all’economia
nazionale. Certamente l’abbattimento
di un ospedale o la rimozione di un
tratto stradale possono, ad esempio,
rientrare tra le opere che potrebbero
comportare un pregiudizio per l’econo‑
mia nazionale.
In questi casi, pertanto, sarebbe
opportuno consentire un accordo tra
P.A. e privato teso a trasferire la pro‑
prietà alla P.A., dietro pagamento al
proprietario di una somma comprensiva
del valore venale del fondo e del danno
da mancata fruizione, determinati da
un tecnico nominato all’uopo.
Altri limiti alla restituzione dell’area
illegittimamente occupata sono il con‑
senso del proprietario o la buona fede
del terzo costruttore ex art. 936, co. 4
e 5 c.c. Si tratta, tuttavia, di casi di
difficile configurazione nelle fattispecie
in esame.
Quanto al risarcimento del danno,
il danneggiato può scegliere tra la ri‑
chiesta del risarcimento del danno per
equivalente e il risarcimento del danno
in forma specifica.
Difatti, secondo le coordinate civi‑
listiche, desumibili dalla lettura siste‑
matica degli articoli 2043, 2058 e 2933
del codice civile, la riparazione del dan‑
no patrimoniale extracontrattuale subi‑
to dal proprietario di un bene può av‑
venire, alternativamente, tramite la
corresponsione dell’equivalente mone‑
tario, oppure mediante la reintegrazio‑
ne in forma specifica, attuata mediante
la restituzione, accompagnata dalla fi‑
sica e materiale riparazione o sostituzio‑
ne della cosa danneggiata, distrutta o
resa inservibile per l’uso. La regola
della alternatività non impedisce, ov‑
viamente, la complementarietà delle
due tutele in particolari casi, conside‑
rando che il risarcimento per equivalen‑
te va comunque riconosciuto per quelle
componenti del pregiudizio economico
non riparabili in forma specifica, quali
l’indisponibilità del bene nel periodo
precedente la perdita della proprietà.
Come ha osservato il Consiglio di Giu‑
F O R E N S E
stizia amministrativa Sicilia, Sez. giuri‑
sd., con sentenza n. 483 del 25 maggio
2009 il rapporto tra le due forme di
risarcimento è regolato dall’art. 2058
c.c. ai sensi del quale si esclude il risar‑
cimento in forma specifica solo qualora
ciò sia considerato “eccessivamente
oneroso” per il debitore o risulti contra‑
stante con l’economia nazionale: restri‑
zioni che operano “unidirezionalmen‑
te”, nel senso che circoscrivono lo spa‑
zio applicativo della tutela in forma
specifica, ma non delimitano mai l’ope‑
ratività del diritto al risarcimento per
equivalente. Al di fuori di questi limiti
espliciti, già sufficientemente esposti in
relazione all’art. 936 c.c. e valevoli an‑
che ex art. 2058 c.c., la previsione
dell’alternatività delle due forme di tu‑
tela comporta, evidentemente, l’attribu‑
zione al danneggiato del diritto di op‑
tare per la modalità risarcitoria ritenuta
più idonea a proteggere i propri interes‑
si. Né il giudice, né tanto meno l’autore
dell’illecito possono contrastare tale
scelta, al di fuori dei confini indicati
dall’articolo 2058 del codice civile.
Il percorso argomentativo fin qui
delineato richiama, altresì, agli orienta‑
menti consolidati della Corte di Cassa‑
zione (Cassazione civile, Sez. III, 21
maggio 2004, n. 9709) che è giunta da
tempo a riconoscere il principio secon‑
do cui la scelta del tipo di risarcimento,
se in forma specifica o per equivalente,
spetta al danneggiato, rientrando nella
sua sfera di disponibilità l’utilizzo dei
singoli mezzi di tutela previsti dall’ordi‑
namento.
Occorre all’uopo rimarcare che la
richiesta risarcitoria per equivalente
esperita dal privato “spogliato” del
bene non preclude la conservazione
della proprietà dell’area.
Invero, il Consiglio di Giustizia
amministrativa Sicilia, con la sentenza
succitata aveva affermato l’improbabile
assunto che la sola richiesta del risarci‑
mento del danno implichi la rinuncia al
diritto di proprietà.
Nella vigenza dell’art. 43 t.u. espr. si
era sostenuto che al privato danneggia‑
to, non era precluso il poter chiedere, in
alternativa alla restituzione del bene,
direttamente il risarcimento per equiva‑
lente in presenza di una evidente volon‑
tà dell’amministrazione di acquisire
l’area, concretizzatasi in atti concluden‑
ti quali l’avvio alla procedura espropria‑
tiva, l’occupazione del suolo, la realiz‑
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
zazione dell’opera pubblica, nonché in
presenza di altrettante inequivoca vo‑
lontà dei privati di non volere la restitu‑
zione dell’area ma l’equivalente in dena‑
ro. Si legge nella sentenza del Consiglio
di Giustizia Amministrativa Sicilia che
“Nelle fattispecie di occupazione illegit‑
tima da parte della p.a., il diritto di
proprietà si estingue solo con la propo‑
sizione della domanda di risarcimento
monetario, implicante rinuncia alla ri‑
chiesta di restituzione e allo stesso di‑
ritto di proprietà, è in tale momento che
si realizza la “perdita” del valore del
diritto di proprietà, derivante da una
scelta conseguente, comunque, all’ille‑
cito perpetrato dall’amministrazione e
la somma di denaro che spetta all’inte‑
ressato a titolo di risarcimento del
danno deve sostituire il valore del bene
e occorre fare riferimento a tale mo‑
mento per stabilire il valore di mercato
del bene.” (conforme Tar Salerno, Cam‑
pania, 14/01/11, n. 43: “in nessun caso,
neppure a fronte della sopravvenuta
irreversibile trasformazione del suolo
per effetto della realizzazione dell’opera
pubblica, è possibile giungere, nono‑
stante l’espressa domanda in tal senso
di parte ricorrente, ad una condanna
puramente risarcitoria a carico dell’am‑
ministrazione, poiché una tale pronun‑
cia postula inammissibilmente l’avve‑
nuto trasferimento della proprietà del
bene per fatto illecito dalla sfera giuri‑
dica del ricorrente, originario proprie‑
tario, a quella della P.A. che se ne è il‑
lecitamente impossessata. Esito, que‑
sto, comunque sia ricostruito in diritto:
rinuncia abdicativa implicita nella do‑
manda solo risarcitoria, ovvero acces‑
sione invertita, vietato dal primo pro‑
tocollo addizionale della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e dalla
giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo”; T.A.R. Sicilia Cata‑
nia, Sez. II, 23 febbraio 2010, n. 373).
Tale tesi non può essere assoluta‑
mente condivisa posto che i modi di
acquisto della proprietà sono tipici e tra
questi non rientra la rinuncia tacita per
effetto della richiesta di risarcimento
del danno.
Sul punto si è espresso anche il
T.A.R. Palermo, Sicilia, Sez. II, con
sentenza n. 175 del 01 febbraio 2011,
che, nel riconoscere la possibilità del
danneggiato di adire il giudice compe‑
tente optando direttamente per una
tutela risarcitoria per equivalente, si è,
127
tuttavia, distaccato dalla tesi dell’abdi‑
cazione al diritto di proprietà, sostenen‑
do che in presenza di un risconto posi‑
tivo dell’istituto della rinuncia abdica‑
tiva, occorra comunque tener conto sia
dello specifico regime giuridico degli
atti inter vivos con cui si può disporre
del diritto di proprietà (art. 1350 n. 5
c.c. e art. 2643 n. 5 c.c.), sia dell’inte‑
gralità del risarcimento richiesto dal
ricorrente, la cui quantificazione, nei
termini anzidetti, troverebbe l’ostacolo
nel (pur) formale mantenimento del
diritto dominicale quale risultate negli
registri della conservatoria.
L’assunto della rinuncia al diritto di
proprietà per effetto dell’accoglimento
della domanda di risarcimento per equi‑
valente trova, pertanto, il suo ostacolo
palese nelle norme di cui agli artt. 1350
co. 5 e 2463 co. 5 c.c da cui si desume che
anche per i negozi di rinuncia alla pro‑
prietà il legislatore ha imposto la forma
scritta e l’onere della trascrizione.
Pertanto, solo subordinatamente
alla stipula e sottoscrizione di un nego‑
zio traslativo della proprietà, regolar‑
mente iscritto nei registri, l’accoglimen‑
to della domanda di risarcimento for‑
mulata come risarcimento per perdita
della proprietà può implicare il trasfe‑
rimento della proprietà.
In questo senso si è espresso anche il
Tar Salerno succit. secondo cui “al risar‑
cimento del danno nella misura del valo‑
re venale del bene, oggetto della doman‑
da, deve necessariamente corrispondere
la definitiva cessione del fondo in favore
dell’autorità espropriante. Ne consegue
che la domanda medesima può essere
accolta solo subordinandola alla previa
conclusione di un accordo ex art. 11
della legge n. 241/1990, per la cessione
gratuita del bene in favore dell’ammini‑
strazione. A tal fine, deve imporsi al
privato ricorrente di notificare all’ammi‑
nistrazione, entro trenta giorni dalla
comunicazione della presente sentenza,
una proposta negoziale per la conclusio‑
ne di un accordo di cessione gratuita del
bene illegittimamente occupato”.
Così anche il Consiglio di Stato con
sentenza del 28 Gennaio 2011 n. 676
ha stabilito l’obbligo della P.A. di risto‑
rare i proprietari espropriati del pregiu‑
dizio cagionato dall’occupazione sine
titulo, restando fermo il dovere dell’Am‑
ministrazione di addivenire a un accor‑
do transattivo con gli interessati che
determini il definitivo trasferimento
questioni
Gazzetta
128
della proprietà dell’immobile, accom‑
pagnandosi anche al doveroso risarci‑
mento del danno da occupazione ille‑
gittima.
Alla luce di quanto esposto, si può
concludere così schematizzando: nel
caso in cui il suolo sia stato occupato,
ma non sia stata costruita l’opera, il
proprietario del suolo può chiedere la
restituzione dell’area occupata sine
titulo con le azioni possessorie e l’azio‑
ne di rivendica, oltre a chiedere il ri‑
sarcimento del danno da occupazione
illegittima, avendo subìto una restri‑
zione ingiustificata del proprio diritto
domenicale. Diversamente, nel caso di
occupazione sine titulo del suolo, su
cui è stata costruita medio tempore
un’opera pubblica, il privato: A) può
chiedere la restituzione dell’area, con
rimozione dell’opera, se non sono de‑
corsi il termine di cui al 936 c.c., né
quello di cui all’art. 1158 sull’usuca‑
pione, oltre al risarcimento da occupa‑
q u e s t i o n i
zione illegittima; B) Se decaduto dal
solo potere di domandare la rimozione
dell’opera, restando, tuttavia, proprie‑
tario del suolo per mancato decorso
del termine per l’usucapione a favore
della P.A., acquista a titolo originario
ed ipso iure la proprietà delle opere
realizzate. In tal caso la P.A. potrà
solo essere indennizzata dal dominus
per una somma pari al valore dei ma‑
teriali ed il prezzo della mano d’opera
oppure all’aumento di valore recato al
fondo. Di fronte all’evidente pregiudi‑
zio per l’economia nazionale derivante
dalla restituzione del suolo e dell’ope‑
ra, la P.A. potrebbe proporre un accor‑
do teso a conseguire ugualmente la
proprietà, dietro pagamento al pro‑
prietario di una somma comprensiva
del valore venale del fondo e del danno
da mancata fruizione, determinati da
un tecnico nominato all’uopo; C) Se,
invece, vuole ottenere il solo risarci‑
mento del danno per equivalente, e
Gazzetta
F O R E N S E
intende rinunciare alla proprietà del
suolo, occorrerà all’uopo un atto di
esplicito trasferimento della proprietà
alla P.A., solo in presenza del quale
potrà riconoscersi il diritto al risarci‑
mento. In mancanza, a fronte di espli‑
cita domanda tesa ad ottenere il solo
risarcimento e a rinunciare alla pro‑
prietà, il giudice assegnerà un termine
entro il quale il privato e P.A. si accor‑
dino per il trasferimento della proprie‑
tà. In questo modo, si produce una
saldatura tra la posizione di fatto (cioè
l’occupazione del bene da parte della
P.A.) e quella di diritto (l’amministra‑
zione diventa proprietaria formale del
bene), restituendo certezza sul regime
giuridico della titolarità e circolabilità
del bene in questione. In caso di man‑
cato accordo, in conformità a quanto
disposto dall’art. 35 d. lgs. 80/98 e 34
del d.lgs. 104/10 (c.p.a.), il risarcimen‑
to del danno potrà essere determinato
in sede di giudizio di ottemperanza.
Recensioni
[ A cura di Enzo Napolano ]
Democrazie sotto pressione: Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato
131
recensioni
di Pier Luigi Petrillo, Milano 2011
F O R E N S E
●
Democrazie sotto pressione:
Parlamenti e lobby nel
diritto pubblico comparato
di Pier Luigi Petrillo, Milano 2011
● A cura di Enzo Napolano
Avvocato
Il tema delle lobbies e dei gruppi di
pressione nel rapporto con il “decisore
pubblico” ed, in particolare, del Parla‑
mento è argomento trattato e studia‑
to - non solo all’estero, ma anche in
Italia - prevalentemente, sotto gli aspet‑
ti sociologici, politologici, storici ed
economici.
Non risultano invece, almeno in
Italia, studi ed approfondimenti organi‑
ci, di impostazione, prettamente e squi‑
sitamente, giuridica dedicati al medesi‑
mo tema.
È, quindi, questo – insieme alla sua
completezza – il tratto peculiare del
Testo, che si impone come riferimen‑
to – per chi voglia approfondire tale
importante tema, dal punto di vista del
diritto comparato, ma non solo (la par‑
te Terza è dedicata proprio al modello
italiano) – sia per la sua originalità, che
per l’approfondimento con cui il tema è
trattato, ed offre, altresì, una panora‑
mica esaustiva, anche, sui meccanismi
di funzionamento degli organi legislati‑
vi nei diversi Ordinamenti esaminati.
L’opera è divisa in quattro Parti. La
prima è dedicata ad una analisi intro‑
duttiva di descrizione di massima del
tema, dell’origine storica del fenomeno
e della sua precisa individuazione e di‑
stinzione rispetto ad altro forme di
rappresentanza di interessi (partiti,
sindacati, ecc.).
A conclusione di tale parte, l’A. in‑
troduce una distinzione tra tre modelli
normativi di regolamentazione giuridi‑
ca del rapporto tra gruppi di pressione
e decisore politico: la regolamentazio‑
ne‑trasparenza, la regolamentazio‑
ne‑partecipazione e la regolamentazio‑
ne‑strisciante, cui sono dedicati nell’or‑
dine le successive tre Parti.
Lo schema che l’A. segue per la de‑
scrizione dei diversi modelli normativi
è analogo per tutti, distinguendo, per
ciascuno, tra norme verso l’interno, e
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 1
cioè quelle regole che disciplinano il
rapporto dei parlamentari verso i Corpi
cui appartengono; e norme verso l’ester‑
no, che disciplinano invece i comporta‑
menti dei gruppi di pressione nel rap‑
porto con i parlamentari.
La caratteristica essenziale del pri‑
mo modello – che nasce e si sviluppa nel
mondo anglosassone ed in particolare
in Gran Bretagna e si stende in tempi
più recenti in Canada – secondo l’A. è
la “volontà dell’ordinamento di rende‑
re pubblici gli interessi di cui sono
portatori i decisori pubblici ed i gruppi
di pressione”.
L’Autore, quindi, si sofferma ed
approfondisce i meccanismi e le regole
di funzionamento delle camere legisla‑
tive dei due Paesi.
Il secondo modello appartiene, spe‑
cificamente, alla tradizione statuniten‑
se, che costituisce, per l’A. il “modello
per antonomasia”, e che trova, come
l’A. ricorda, il suo fondamento diretta‑
mente nel Primo Emendamento, che
riconosce il diritto di tutti i cittadi‑
ni – e, quindi, anche dei gruppi organiz‑
zati – di rivolgere petition al gover‑
nment.
Negli Stati Uniti, argomenta l’A., la
regolamentazione del fenomeno, lungi
dall’essere finalizzata a limitarne – od
attenuarne – la portata “serve come
arbitro della concorrenza corporativa,
non come cane da guardia contro i
condizionamenti della lobby sui parla‑
mentari”.
Caratteristica essenziale di tale mo‑
dello, secondo l’A., è la “necessità di
includere i portatori di interessi parti‑
colari nel processo decisionale, sempre
salvaguardandone la trasparenza”.
L’A. si sofferma sulle fonti di tale
attività in quel Paese, sia quelle più risa‑
lenti che quelle più moderne e sui mec‑
canismi decisionali in essere, passando
in rassegna, anche per tale Modello, sia
le norme verso l’interno, che delineano
il ruolo delle commissioni parlamentari,
le public hearings e tutte quelle fonti che
nel tempo si sono rese necessarie onde e
di diversi codici di condotta dei parla‑
mentari, volti in ultima analisi a rende‑
re trasparenti i singoli interessi in gioco;
sia le norme verso l’esterno, che sono
volte essenzialmente a disciplinare i
meccanismi di finanziamento ai partiti
ed ai singoli parlamentari.
Di particolare interesse è l’analisi
delle norme disciplinanti il fenomeno in
131
sede parlamentare europea.
Anche nell’ambito dell’Unione e del
Parlamento Europeo sono previste di‑
sposizioni – sotto specie di codici di
condotta – che impongono ai parlamen‑
tari un obbligo di trasparenza di inte‑
ressi.
Peculiare, poi, la figura, descritta
dall’Autore, dei cd. “frequentatori abi‑
tuali” (long term visitors), prevista da
una disposizione normativa europea,
che descrive e disciplina il ruolo di quei
soggetti che “desiderano fornire infor‑
mazioni ai deputati nel quadro del loro
mandato parlamentare nell’interesse
proprio o di terzi”.
Questi soggetti, secondo il preciso
disposto della normativa europea, han‑
no diritto ad ottenere un apposito pass
che li abilita a frequentare le “stanze del
potere”, sempre che, però, si iscrivano
ad un apposito registro pubblico, onde
dichiarare talune informazioni che ren‑
dano trasparente, almeno in termini
teorici, il loro operato (a quale organiz‑
zazione o società appartengono, gli in‑
teressi che si sostengono, ecc.). Registro
peraltro consultabile sul sito web del
Parlamento Europeo.
In entrambi questo modelli – l’A.
evidenzia – il coinvolgimento dei gruppi
di pressione presuppone e necessita
sempre di una rigida regolamentazione
volta ad attuare la trasparenza dei por‑
tatori di interessi, attraverso forme
pubbliche di dichiarazione e registri
pubblici di portatori di interessi.
L’A., infine, si sofferma sull’Ordina‑
mento Italiano, registrando il dato
dell’assenza di una regolamentazione
organica volta a disciplinare il fenome‑
no e che gli scarni istituti e le poche
norme esistenti possono essere ricon‑
dotte in alcuni casi al primo ed in altri
al secondo dei modelli analizzati.
Situazione che l’A. definisce “rego‑
lamentazione‑strisciante ad andamen‑
to schizofrenico”, e che da luogo alla
mancanza di una regolamentazione
organica seppur “molto forte (e a volte
evidente) sia l’influenza svolta dai
gruppi di pressione sul processo deci‑
sionale pubblico”.
Le ragioni di tale mancata regola‑
mentazione, secondo l’A., sono diverse
e tra queste spiccano il ruolo forte e
particolare che i partiti hanno avuto,
almeno sino alla loro crisi agli inizi
degli anni 90, la forma di governo ed il
sistema elettorale, la concezione di una
recensioni
Gazzetta
132
presunta “purezza” delle decisioni par‑
lamentari.
Di qui la difficoltà di individuare a
livello costituzionale una norma che – a
differenza dei partiti politici – garanti‑
sca il ruolo dei gruppi di pressione.
L’A. procede, poi, ad una analisi
esegetica dei diversi principi costituzio‑
nali su cui fondare, anche in Italia, una
“teoria generale costituzionale della
partecipazione”, passando in rassegna
anche le pronunzie della Corte che si
sono occupate del tema.
L’A. esamina tutte le disposizioni
normative, alcune di rango amministra‑
tivo parlamentare, altre sancite in cir‑
q u e s t i o n i
colari, altre in norme primarie che
prevedono la possibilità di interventi di
gruppi di interessi nel percorso parla‑
mentare delle leggi.
Particolare nota merita, sotto tale
aspetto, secondo l’A. l’introduzione le‑
gislativa dell’obbligo dell’analisi di im‑
patto della regolamentazione (cd. AIR)
per effetto della legge 50/99 prima e
della L. 246/05.
Secondo l’A. tale previsione farebbe
emergere il superamento dell’”idea del‑
la Legge quale frutto di una volontà
generale ed astratta dalla realtà”.
Dopo aver passato in rassegna le
proposte di legge che, negli anni, sono
Gazzetta
F O R E N S E
state presentate per regolamentare il fe‑
nomeno, l’A. evidenzia come, di fatto,
anche in Italia nei procedimenti legisla‑
tivi trovano spazio gli interessi lobbistici,
ma, tuttavia, la legislazione non si preoc‑
cupa di regolamentarne l’aspetto preli‑
minare e cioè quello della trasparenza.
Particolarmente interessante è l’ana‑
lisi condotta sulla legislazione regiona‑
le sul tema con i casi della Sicilia e
quello della Toscana.
Un’opera di grande interesse, non
solo per il giurista, ma anche per tutti
coloro i quali intendono avere un infor‑
mato panorama giuridico su tale impor‑
tante e sensibile argomento.
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
corte di cassazione
sez. II, sent. 7.2.2011, n. 3030 s.m.
sez. lav. civ., sent. 16.2.2011, n. 3821 s.m.
sez. lav. civ., sent. 3.3.2011, n. 5139 s.m.
sez. lav. civ., sent. 8.3.2011, n. 5448 s.m.
sez. II civ., sent. 10.3.2011, n. 5749 s.m.
sez. II civ., ord.10.3.2011, n. 5826 s.m.
sez. un. civ., ord. 23.3.2011, n. 6594 s.m.
sez. un. civ., ord. 23.3.2011, n. 6596 s.m.
sez. un. civ., sent. 23.3.2011, n. 6597 s.m.
sez. III. civ., sent. 24.3.2011, n. 6754. s.m.
sez. II. civ., sent. 25.3.2011 n. 6971 s.m.
sez. lav. civ., sent. 25.3.2011 n.7007 s.m.
sez. un. civ., ord. 30.3.2011, n. 7186 s.m.
sez. II civ. ord. 30.3.2011, n. 7293 s.m.
sez. un. civ. sent. 14.4.2011 n. 8491 s.m.
corte d’appello
Napoli, sez. II, sent. 30.06.2010, n. 4832 s.m.
Napoli, sez. II, sent. 15.07.2010, n. 5130 s.m.
Napoli, sez. II, sent. 22.02.2011, n. 951 s.m.
tribunale
Nola, coll. B), sent. 10.02.2011, n. 298 s.m.
Nola, coll. D), sent. 23.12.2010, n. 1912 s.m.
Nola, coll. B), sent. 2.03.2011, n. 230 s.m.
Nola, G.M., sent. 23.03.2011, n. 634 s.m.
Nola, G.M., sent. 23.03.2011, n. 622 s.m.
Santa Maria Capua Vetere, ordinanza 24 febbraio 2011 (con nota di CATENA)
g.u.p.
Nola, sent. 2.11.2010, n. 446 s.m.
Nola, sent. 28.01.2011, n. 57 s.m.
Napoli, sent. 31.01.2011, n. 229 s.m.
Nola, sent. 22.02.2011, n. 128 s.m.
Nola, sent. 31.03.2011, n. 192 s.m.
tribunale
Napoli, sez. IV civ., sent. 28.12.2010, n. 13008 s.m
Napoli, sez. X civ., sent. 15.2.2011, n. 1770 s.m
Napoli, sez. X civ., sent. 21.3.2011, n.3217 s.m
Napoli, sez. II civ., ord. 12.4.2011 s.m
Napoli, sez. IV civ., sent. 19.4.2011, n. 4801 s.m
Diritto e procedura penale
corte di cassazione
sez. VI, sent. 1.12.2010, n. 12400 s.m.
sez. III, sent. 13.01.2011, n. 7974 s.m.
sez. III, sent. 13.01.2011, n. 7965 s.m.
sez. VI, sent. 26.01.2011, n. 8366 s.m.
sez. IV, sent. 1.02.2011, n. 9927 s.m.
sez. un., sent. 16.02.2011, n. 7931 s.m.
sez. un., sent. 16.02.2011, n. 7537s.m.
sez. VI, sent. 3.03.2011, n. 10130 s.m.
sez. un., sent. 01.03.2011, n. 7931 s.m. (con nota di Pignatelli)
sez. un., sent. 05.04.2011, n. 13626 s.m. (con nota di Pignatelli)
sez. un., sent. 06.04.2011, n. 13716 s.m. (con nota di Pignatelli)
Diritto amministrativo
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato, sez. IV, sent. 12 gennaio 2011, n. 127 s.m.
Cons. Stato, sez. III, sent. 11 marzo 2011, n.1581 s.m.
Cons. Stato, sez. V, sent. 16 marzo 2011, n. 1617 s.m. (con nota redazionale
di BOVE)
Cons. Stato, ad. pl., 07 aprile 2011, n. 4 s.m.
TAR
Campania – Napoli, sez. VIII, sent. 10 novembre 2010, n. 23753 (con nota
di LIBARDI)
Campania – Napoli, sez. I, sent. 24 febbraio 2011, n. 1094 s.m.
Campania – Napoli, sez. I, sent. 24 marzo 2011, n.1659 s.m.
Diritto tributario
corte di cassazione
Sez. trib., sent. 11 aprile 2011, n. 8145 (con nota di CANTONE)