Tavole da 1 a 30 - Lodi e il suo territorio

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SCENE DEL RISORGIMENTO ITALIANO
Tavole di Edoardo Matania
1. Gioacchino Murat
2. Partenza di Murat dalla Corsica (28 settembre 1815)
3. Fucilazione di Murat (13 ottobre 1815)
La storia, personale e politica, di Gioacchino Murat
(Labastide-Fortunière, 25 marzo 1767 – Pizzo, 13 ottobre
1815), generale dal carattere impetuoso e dalla carriera
folgorante, rappresenta in modo esemplare la mobilità
sociale che caratterizzò l’epoca napoleonica.
Undicesimo figlio di un albergatore, Gioacchino abbandonò
ben presto la carriera ecclesiastica, cui era stato destinato
dalla famiglia, preferendo alle rigide regole del convento
l’amore per il gioco, il bere e le belle donne. Lasciata la tonaca, si arruolò in cavalleria, nel
6° Reggimento dei cacciatori delle Ardenne e fece parte della guardia costituzionale di
Luigi XVI. Alla caduta della monarchia entrò nell’esercito rivoluzionario e divenne
rapidamente ufficiale. Fu aiutante di campo di Napoleone nella prima campagna d’Italia
(1796) e lo seguì anche in quella d’Egitto (1798), dove venne nominato generale e fu
determinante nella vittoria di Abukir contro i Turchi (1799).
Il 20 gennaio 1800, vincendo le resistenze di Napoleone, sposò Carolina Bonaparte, la
sorella più giovane del Primo Console, per la quale, però, il futuro imperatore dei francesi
aspirava a un matrimonio più blasonato. Dopo la seconda vittoriosa campagna d’Italia, che
riconsegnò la Lombardia ai Francesi, Murat ebbe il prestigioso incarico di comandante in
capo dell’armata francese nella penisola e nel 1803, tornato in patria, fu nominato
governatore di Parigi. Partecipò a tutte le principali campagne napoleoniche combattendo a
Austerlitz (1805), Vienna (1805), Jena (1806), Eylau (1807) e alla conquista della Spagna
(1808). Proprio quest’ultima campagna segnò la svolta decisiva della sua carriera:
Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re di Napoli, fu, infatti, nominato re di Spagna
e il vacante trono napoletano fu concesso da Napoleone
all’ambizioso cognato. Durante il breve regno (1808-1815)
Murat attuò un’efficace politica di rinnovamento, sia dal punto
di vista amministrativo, che militare con l’introduzione dei
codici napoleonici, l’avvio di importanti lavori pubblici, la
creazione di un esercito nazionale e una decisa azione volta
alla repressione del brigantaggio. Le velleità di indipendenza
di Gioacchino, però, causarono i primi dissidi con Napoleone,
che decise comunque di seguire nella disastrosa campagna di
Russia (1812). Dopo la tragica ritirata, si affrettò a tornare a
Napoli, dove strinse accordi segreti con l’Austria e
l’Inghilterra, pur senza rompere i rapporti con il cognato, con
cui combatté ancora a Dresda e a Lipsia (1813). Dopo la
sconfitta di Lipsia, lasciò l’esercito e l’imperatore. Nel
gennaio dell’anno successivo firmò un trattato con Austria e
Gran Bretagna e intervenne con i suoi uomini a fianco delle due potenze marciando contro
l’esercito franco-italiano. Napoleone condannò duramente la sua condotta, bollandolo con
l’appellativo di “traitre extraordinaire” (“traditore straordinario”); in realtà l’alleanza con
Austria e Inghilterra costituiva per Murat l’unica scelta possibile per evitare l’invasione del
suo regno e la restaurazione dei Borboni. Le sue speranze furono ben presto tradite: dopo
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l’abdicazione di Napoleone e il suo esilio all’Isola d’Elba, Austria e Inghilterra rifiutarono
di riconoscere Murat e prepararono il ritorno sul trono di Napoli dei Borbone.
Murat non si diede per vinto e provò a giocare la carta dell’unità italiana: nel marzo 1815,
incoraggiato dal ritorno di Napoleone (che, abbandonato l’esilio, era riuscito in pochi
giorni a riconquistare la Francia), con un nuovo rovesciamento di alleanze, si mosse alla
testa di circa trentamila uomini, verso il Nord Italia per affrontare gli Austriaci, con il
sogno di conquistare la penisola e dichiararne l’indipendenza. Il suo esercito, dopo alcuni
parziali successi, venne però sconfitto a Tolentino (2-3 maggio 1815) e questa battaglia è
considerata, da alcuni storici, la prima del Risorgimento italiano.
Il 20 maggio 1815 il trattato di Casalanza riportò Ferdinando IV di Borbone sul trono di
Napoli e Murat fu costretto a rifugiarsi in Provenza. Ancora una volta non si diede per
vinto e, illudendosi sull’aiuto che gli avrebbe fornito la popolazione, preparò in poco
tempo una spedizione per tentare di riconquistare il regno.
Partì alla volta della Corsica e da lì, la sera del 28 settembre,
si diresse verso Salerno. La piccola flotta fu però dispersa da
una tempesta nei pressi di Napoli e l’imbarcazione di Murat
fu sospinta più a sud, lungo le coste calabresi, nei pressi di
Pizzo Calabro. Sbarcato con un piccolo drappello di
fedelissimi, si diresse verso la piazza del mercato dove fu
immediatamente intercettato dalla gendarmeria borbonica
che lo arrestò e lo fece rinchiudere nelle carceri del locale
castello.
Ferdinando IV nominò una commissione militare per
giudicare il prigioniero: Gioacchino Murat, dichiarato
colpevole di incitamento alla guerra civile e di attacco
armato contro il legittimo sovrano, fu condannato alla
fucilazione sulla base del Codice penale, da lui stesso
promulgato, che prevedeva la massima pena per chi si fosse reso autore di atti
rivoluzionari.
«Mirate al cuore, ma risparmiate la faccia!» disse, calmissimo, al plotone d’esecuzione,
rifiutando di essere bendato.
4. Vittorio Emanuele I si rifiuta di abolire la legge salica
(18 dicembre 1815)
La legge salica prevede il principio dell’esclusione delle
donne e dei loro discendenti dalla successione alla corona.
Tale divieto non sussiste in tutti gli stati monarchici, ma
vigeva nella monarchia italiana. Lo Statuto Albertino
(1848), che diventò la prima legge fondamentale dello stato
unitario, stabiliva la successione ereditaria al trono secondo
la legge salica.
Vittorio Emanuele I di Savoia ebbe diverse figlie femmine,
ma un unico maschio, Carlo Emanuele (1796-1799), morto
di vaiolo a soli tre anni. La successione a Casa Savoia
divenne, quindi, una questione d’interesse per l’Austria che
vedeva la possibilità di imporre il proprio controllo anche sui territori sabaudi, se solo
Vittorio Emanuele I avesse scelto come suo successore il genero, il principe Francesco IV
d’Asburgo Este, che aveva sposato la figlia Maria Beatrice. Nell’Impero asburgico la
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successione dinastica non era determinata sulla base della legge salica e forti furono le
pressioni per ottenerne l’abolizione; Vittorio Emanuele rifiutò e abdicò a favore del fratello
Carlo Felice (1821).
Carlo Felice morì nel 1831 senza lasciare eredi e indicando come proprio successore il
cugino Carlo Alberto di Savoia Carignano: si estinse così il ramo principale dei Savoia e la
corona reale passò a quello dei Savoia Carignano.
5. L’arresto dei carbonari lombardo veneti (ottobre 1820)
L’ondata insurrezionale del 1820-1821, che coinvolse anche
alcuni stati italiani, ebbe origine in Spagna, presso il porto di
Cadice, da una ribellione guidata dagli ufficiali dell’esercito
che rifiutarono di partire alla volta delle Americhe per
stroncare i governi indipendentisti che vi si stavano creando.
Il tentativo inizialmente riuscì: fu concessa una costituzione
(Costituzione di Cadice) e fu convocato il parlamento, ma
dopo i primi successi la rivolta venne soffocata nel sangue.
Sulla spinta degli avvenimenti spagnoli, anche in Italia si
moltiplicarono i primi tentativi insurrezionali: l’insofferenza
verso il dominio straniero aveva portato gli oppositori del
regime a riunirsi in organizzazioni e società segrete; la
principale di queste, la Carboneria, aveva circoli diffusi su tutta la penisola. Nel luglio
1820 a Napoli e in Sicilia andarono organizzandosi gruppi di ribelli e nel marzo 1821
scoppiò la rivoluzione in Piemonte. I moti, che miravano ad ottenere una costituzione e
l’indipendenza dallo straniero, erano però destinati a spegnersi: nel Napoletano
intervennero le truppe austriache chiamate da re Ferdinando e i rivoltosi vennero
sbaragliati e anche in Piemonte i ribelli furono sconfitti dall’intervento della polizia
asburgica. Furono eseguite diverse condanne a morte e in molti furono costretti a fuggire.
Nel Lombardo Veneto i moti vennero stroncati sul nascere e la scoperta di alcune società
segrete portò a processi e condanne contro molti degli oppositori del dominio austriaco.
Nell’ottobre del 1820, a Milano, la polizia austriaca arrestò diversi esponenti di società
segrete accusati di cospirare contro il regime; tra essi Silvio Pellico e Piero Maroncelli, la
cui condanna a morte fu commutata in quindici anni di carcere duro da scontarsi presso la
fortezza dello Spielberg, in Moravia.
6. Morelli e Silvati impiccati sulla Piazza di Portacapuana
(12 settembre 1822)
Michele Morelli (Monteleone (ora Vibo Valentia), 1790 –
Napoli, 12 settembre 1822) e Giuseppe Silvati(Napoli, 1791
– Napoli, 12 settembre 1822) guidarono i moti carbonari che
nel luglio del 1820 costrinsero il re delle Due Sicilie,
Ferdinando I, a concedere la costituzione e a convocare il
parlamento.
Michele Morelli, sottotenente nel Reggimento Cavalleria
Real Borbone di stanza a Nola e capo della locale sezione
della carboneria, coinvolse l’intero reggimento nella
cospirazione e a lui si affiancò Giuseppe Silvati, sottotenente
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al comando del IV Squadrone del suo stesso reggimento. A Napoli, infatti, la cospirazione
aveva coinvolto anche gli ufficiali superiori dell’esercito, come il generale Guglielmo
Pepe, che comandava la II Divisione nelle province di Avellino e di Foggia.
Il successo dell’insurrezione ebbe, però, vita breve: dopo pochi mesi, infatti, le potenze
della Santa Alleanza, chiamate da Ferdinando I, decisero l’intervento armato. Morelli e
Pepe tentarono di resistere, ma furono sconfitti dalle truppe austriache che, il 24 marzo
1821, entrarono a Napoli senza incontrare resistenza e sciolsero il neonato parlamento.
Ferdinando I revocò la costituzione e diede ordine di catturare tutti coloro che erano
sospettati di cospirazione. Morelli e Silvati tentarono la fuga, ma, dopo alterne vicende,
furono entrambi arrestati e incarcerati a Napoli. Il processo iniziò nel maggio 1822;
Morelli e Silvati furono accusati di cospirazione e condannati a morte per impiccagione;
l'
esecuzione ebbe luogo il 12 settembre 1822.
7. Il giuramento dei sanfedisti (1829)
I sanfedisti furono i componenti di un movimento popolare
sorto nel 1799 in difesa della dinastia borbonica e della
tradizione cattolica che erano minacciate dalle idee
rivoluzionarie. Il movimento della Santa Fede, che si
organizzò intorno al cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo col
nome di Esercito della Santa Fede in Nostro Signore Gesù
Cristo, coinvolse migliaia di persone in tutto il Regno di
Napoli e si inserì a pieno titolo nei movimenti europei
controrivoluzionari della fine del XVIII secolo, guidati dal
popolo più umile in difesa dei valori tradizionali contro le
idee rivoluzionarie.
Il sanfedismo ricomparve nello Stato della Chiesa in opposizione alla diffusione delle idee
liberali e al movimento carbonaro: dopo i moti del 1830-183, i sanfedisti organizzarono
una milizia irregolare, che il governo cercò di inquadrare nei “volontari pontifici”.
8. Cacciata dei Gesuiti da Modena (12 febbraio 1831)
9. Supplizio di Ciro Menotti (26 maggio 1831)
Eredi dei precedenti moti del 1820-1821, i moti
insurrezionali del 1830-1831 nacquero in Francia e si
diffusero in molti paesi europei (Belgio, Polonia); le
richieste degli insorti erano le stesse del decennio
precedente: la concessione di una carta costituzionale e
l’indipendenza dallo straniero. Anche in Italia i moti
francesi riaccesero le speranze dei patrioti sulla possibilità
di una nuova ondata insurrezionale; in particolare, nel
Ducato di Modena, la carboneria locale aveva cercato di
ottenere l’appoggio del duca Francesco IV, allettato dalla
possibilità di vedere ingrandito il proprio stato a spese dei confinanti domini austriaci e
papali.
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Ciro Menotti (Carpi, 22 gennaio 1798 – Modena, 26 maggio 1831) fu l’anima del gruppo
di ribelli che, alla fine del 1830, preparò l’insurrezione nel Ducato di Modena,
organizzando comitati insurrezionali anche a Bologna, Firenze, Parma e Mantova. Nato da
una famiglia della borghesia imprenditoriale, Menotti aveva ampliato l’azienda familiare,
fondando a Modena una filanda e una ditta di spedizioni, che avevano il loro principale
mercato a Londra e proprio nella capitale inglese era entrato in contatto con gli esuli
democratici italiani, di cui condivideva ideali e aspirazioni.
Nel gennaio del 1831 Menotti, che aveva avuto contatti con il duca, organizzò nei minimi
dettagli la sollevazione, cercando il sostegno popolare e l’approvazione dei circoli liberali
che stavano sorgendo in tutt’Italia. Il 3 febbraio 1831, dopo aver raccolto le armi, radunò
una quarantina di congiurati nella propria abitazione, poco distante dal Palazzo Ducale, per
organizzare la rivolta. Francesco IV, tuttavia, con un brusco
voltafaccia, decise di ritirare l’appoggio alla causa liberale e
fece arrestare molti dei capi della rivolta, tra cui lo stesso
Menotti.
Il moto insurrezionale che seguì portò all’istituzione di un
provvisorio governo “carbonaro” che riuscì ad attuare
alcune riforme in senso liberale: abolì le leggi relative alla
censura libraria, stabilì la gratuità dell’istruzione, concesse
uguaglianza di diritti agli ebrei e cacciò i gesuiti dalla città.
Nel marzo 1831 l’intervento armato dell’Austria decretò la
fine dei moti insurrezionali e ristabilì l’ordine, cui
seguirono le condanne a morte.
Ciro Menotti fu impiccato nella Cittadella di Modena il 26
maggio 1831: le numerose suppliche, giunte da più parti,
per ottenere la commutazione della pena non servirono a smuovere l’animo del duca,
tornato saldamente al governo.
10. Giuseppe Mazzini in via per l’esilio (1831)
Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10
marzo 1872) nacque in una famiglia della media borghesia
genovese; il padre medico, cattolico osservante, aveva una
formazione culturale integrata con le idee illuministiche
dominanti nel periodo e attraverso una rigida educazione
inculcò nel figlio le idee di libertà e indipendenza tipiche
dell’Età dei Lumi. In questo contesto il giovane Mazzini
maturò ben presto un forte malessere verso la monarchia e
già nell'
ambiente universitario si fece conoscere per il
carattere impulsivo e turbolento. Nel 1827 si laureò in diritto
canonico e civile (anche se non eserciterà mai l'
avvocatura)
e nello stesso anno entrò a far parte del movimento
carbonaro genovese, per conto del quale svolse una serie di delicate missioni segrete in
Liguria e in Toscana. Venne nominato Maestro dell'
ordine nel 1830, ma nel novembre
dello stesso anno, a seguito di una denuncia relativa alla sua attività cospirativa, fu
arrestato e rinchiuso nel carcere di Savona, da dove verrà rilasciato, per mancanza di
prove, nel 1831. In seguito alla denuncia, subì, tuttavia, una misura punitiva che lo obbligò
a scegliere tra l’esilio e il confino: preferì l’esilio e si rifugiò a Ginevra, poi a Lione e
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quindi a Marsiglia, dove fondò l’associazione Giovane Italia, con l’ambizione di formare
uno Stato italiano indipendente, libero e repubblicano.
Mazzini trascorrerà gran parte della propria vita lontano dall’Italia, ma anche dall’esilio
non smetterà mai di organizzare tentativi insurrezionali in patria. Purtroppo, tutti questi
tentativi non andranno a buon fine e i ripetuti insuccessi dei moti mazziniani
contribuiranno non poco ad indebolire l’azione del partito “repubblicano”.
11. Saccheggio del tempio di Cesena (21 gennaio 1832)
La seconda ondata di moti rivoluzionari (1830-1831) coinvolse
anche i territori controllati dallo Stato della Chiesa.
A Cesena, i moti insurrezionali culminarono con la cosiddetta
Battaglia del Monte, combattuta tra “papalini” e
“repubblicani”. Il 19 gennaio del 1832, infatti, le truppe
pontificie e quelle austriache marciarono da Rimini verso
Cesena, dove si erano raccolti circa duemila giovani romagnoli
con l’intento di destituire il governo pontificio. I ribelli si
erano schierati sui colli intorno alla città, compreso quello
della Madonna (Abbazia di Santa Maria del Monte) e, con le
poche forze a disposizione, tentarono, inutilmente, di resistere
all’assalto delle truppe regolari. Vinti gli insorti, le truppe
pontificie penetrate in città si abbandonarono al saccheggio e alla devastazione,
reprimendo nel sangue qualunque tentativo di ribellione.
12. Le nozze di Ferdinando II con Maria Cristina di Savoia (novembre 1832)
Ferdinando II di Borbone nacque a Palermo il 12 gennaio
1810, primogenito di Francesco I delle Due Sicilie e della sua
seconda moglie, Maria Isabella di Borbone Spagna. Nelle
vene di Ferdinando, quindi, scorreva il sangue delle più
importanti dinastie europee: i Borbone di Francia, Spagna e
Napoli e gli Asburgo Lorena.
Maria Cristina di Savoia nacque a Cagliari il 14 dicembre
1812, ultimogenita di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, e
di Maria Teresa d’Austria. Richiesta più volte in sposa per
scopi politico - dinastici (da Luigi Filippo per il Duca
d’Orleans, dal granduca di Toscana per il proprio
primogenito, dalla corte di Lisbona per l’infante don
Sebastiano e dalla corte napoletana per Ferdinando II appena
salito al trono), rifiutò ogni volta di sposarsi.
Alla morte della madre fu sul punto di farsi monaca, ma infine, cedendo alle pressioni della
corte sabauda e del re Carlo Alberto, accettò il matrimonio con Ferdinando II, che venne
celebrato nel santuario di Voltri, presso Genova, il 21 novembre 1832.
Il matrimonio apparve come il risultato di un’abile strategia dinastica con cui la casa
sabauda intendeva evitare il rischio che i Borbone si legassero, attraverso un altro
matrimonio, alla corte francese. I Borbone, d’altro canto, gradivano le nozze con un
membro di Casa Savoia perché speravano, in questo modo, di controbilanciare l’influenza
austriaca nella penisola. Dall’unione di Ferdinando e Maria Cristina nacque un figlio,
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Francesco (16 gennaio 1836), futuro successore del padre sul trono del Regno delle Due
Sicilie. Cristina morì qualche giorno dopo (31 gennaio 1836) per le complicazioni
sopraggiunte in conseguenza del parto.
13. Giuseppe Mazzini e il generale Ramorino (1 febbraio
1833)
Gerolamo Ramorino (Genova, 8 aprile 1792 – Torino, 22
maggio 1849) partecipò all’impresa mazziniana che si
proponeva la conquista della Savoia.
Arruolatosi giovanissimo nell’esercito napoleonico,
partecipò alla campagna d’Austria del 1809 e a quella di
Russia del 1812, divenendo capitano d’artiglieria.
Ritiratosi dall’esercito in seguito alla Restaurazione, prese
parte alla rivoluzione piemontese del 1821 ed ebbe un ruolo
di comando nella rivolta polacca, scoppiata a Varsavia nel
novembre 1830. Riparò quindi in Francia, dove entrò in
contatto con Giuseppe Mazzini.
Nel 1833 Mazzini era convinto, da voci che gli provenivano da varie parti d’Italia, che
un’insurrezione popolare spontanea fosse in procinto di scoppiare nel Regno di Napoli, ma
quando questo non avvenne, decise di ripiegare su un proprio piano di riserva, che
prevedeva l’invasione della Savoia da parte di una brigata internazionale al comando di
Gerolamo Ramorino. La brigata, in realtà, era piuttosto scarna (poco più di duecento
uomini) e la spedizione fallì miseramente, anche perché il governo di Torino scoprì per
tempo le trame eversive mazziniane.
La polizia bloccò tutto a fine gennaio 1834, Mazzini e Ramorino furono condannati a
morte in contumacia e Ramorino si rifugiò in Spagna.
Nel 1848 tornò in Italia, e l’anno successivo, come generale di divisione dell’esercito
piemontese, ricevette l’incarico di bloccare il passaggio del Gravellone da parte delle forze
austriache. Per un grave errore tattico, la divisione guidata da Ramorino, contravvenendo
agli ordini ricevuti da La Marmora e Czarnowsky, generali dell’esercito sabaudo, rimase
isolata sulla destra del Po agevolando in questo modo il passaggio degli austriaci e
contribuendo alla sconfitta di Novara (23 marzo 1849).
Processato per disobbedienza, Ramorino fu condannato a morte e fucilato sulla Piazza
d’Armi di Torino nel maggio 1849. Lui stesso diede ordine ai soldati di aprire il fuoco.
14. Francesco Domenico Guerrazzi in prigione (1834)
Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 12 agosto 1802 Cecina, 25 settembre 1873), scrittore e uomo politico
livornese, fu un aperto sostenitore delle idee mazziniane.
Laureatosi nel 1825 in giurisprudenza a Pisa, si dedicò
all’avvocatura nella città natale. Entrò a far parte della
Giovane Italia e fondò il giornale L’indicatore livornese,
portavoce delle idee repubblicane e democratiche che gli
costarono il confino a Montepulciano e il carcere a
Portoferraio (Isola d’Elba) dal 1830 al 1834. Durante i moti
del 1848-1849 fu magistrato nel governo provvisorio di
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Firenze, ma al ritorno del granduca venne condannato all’ergastolo, condanna poi
modificata nell’esilio in Corsica dove rimase fino al 1856. Nel 1860 fu eletto deputato nel
Parlamento del Regno e si oppose alla politica della Destra storica.
L’opera divulgativa dei suoi scritti, volta a suscitare e sostenere gli ideali nazionali, ne
fanno uno dei personaggi di spicco del Risorgimento italiano. Si ricordano alcuni dei suoi
principali romanzi:
La Battaglia di Benevento (1827), L’assedio di Firenze (1836) e Beatrice Cenci (1854),
che rievocano fatti minori della storia italiana.
15. Le soldatesche di Del Carretto a Siracusa (31 ottobre 1837)
I moti insurrezionali che sconvolsero la Sicilia nel 1837,
pur avendo una causa scatenante che poco ebbe a che fare
con la politica, sono da inserirsi nel clima di insofferenza
generale dei siciliani nei confronti del vigente sistema di
potere, segnato da forti strette repressive e dal vero e
proprio stato di polizia che i Borbone avevano instaurato
nell’isola.
Nel 1837 una terribile epidemia di colera si diffuse in
Sicilia, mietendo migliaia di vittime: le popolazioni di
Palermo, Messina, Catania e Siracusa furono falcidiate.
L’assenza di condizioni igieniche adeguate e la
disorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che
non furono all’altezza dell’emergenza, non consentirono
di approntare le misure necessarie ad arginare l’epidemia.
Il timore del contagio non fece che accrescere il
malcontento della popolazione, già esasperata dalle gravissime condizioni economiche e
sociali e diversi tumulti scoppiarono nelle principali città e nei centri minori.
Questi moti andarono sempre più caratterizzandosi politicamente grazie all’azione dei
circoli liberali dell’isola, che speravano di sfruttare la situazione per incanalare le
sommosse in senso rivoluzionario.
Sfruttando la debolezza culturale delle masse, infatti, vennero, diffuse notizie false su una
presunta responsabilità dei Borbone nella diffusione del contagio: i sovrani furono additati
come i mandanti dell’epidemia e le autorità borboniche sul territorio furono accusate di
esserne gli untori e di avere materialmente diffuso il morbo.
La direzione della sommossa, però, sfuggì di mano a chi pensava di potersene servire per
scalzare il dominio borbonico: il popolo dei rivoltosi non riconobbe più nessun capo e
dopo aver scacciato le truppe borboniche si impadronì della città di Catania.
La vittoria fu breve: la mancanza di una guida salda e di un disegno strategico non
consentirono agli insorti di consolidare le proprie posizioni e di mantenere le conquiste
effettuate; dopo un primo momento di incertezza, infatti, Ferdinando II, incaricò il ministro
della polizia del regno, Francesco Saverio Del Carretto, cui furono attribuiti poteri speciali,
di ristabilire l’ordine.
Sbarcato in Sicilia, Del Carretto riuscì in breve a riconquistare Catania e, senza troppe
difficoltà, riportò sotto controllo la situazione in tutte le città siciliane.
Approfittando dei poteri eccezionali che gli erano stati concessi, dimostrò una particolare
ferocia nella repressione dei moti e nell’esecuzione delle successive condanne.
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16. Fucilazione dei fratelli Bandiera (25 luglio 1844)
Attilio (Venezia, 24 maggio 1810 - Vallone di Rovito, 25 luglio 1844) ed Emilio (Venezia,
20 giugno 1819 - Vallone di Rovito, 25 luglio 1844).
I Bandiera, nacquero in una nobile famiglia veneziana.
Il padre, il barone Francesco Giulio Bandiera, era
ammiraglio della marina austriaca.
Diventati a loro volta ufficiali della marina asburgica, i due
fratelli aderirono alle idee mazziniane e fondarono una loro
società segreta, l’Esperia (nome con cui i Greci indicavano
l’Italia antica), con cui tentarono di organizzare una
sollevazione popolare nell'
Italia del sud: il Regno delle Due
Sicilie, con i suoi atavici malcontenti, appariva, infatti, ai
due fratelli come il terreno più fertile per gettare il seme
della rivolta.
Nel giugno 1844, dopo aver disertato dal loro incarico di
ufficiali, Attilio ed Emilio, seguiti da diciassette compagni,
dal brigante calabrese Giuseppe Meluso e dal córso Pietro
Boccheciampe, partirono da Corfù alla volta della Calabria per promuovere
un’insurrezione che, nei loro piani, avrebbe dovuto risalire la penisola, unificandola.
Informati di una sollevazione antiborbonica scoppiata a Cosenza, progettarono di unirsi
agli insorti, ma una volta sbarcati alla foce del fiume Neto, vicino a Crotone, scoprirono
che la rivolta era già stata sedata.
Decisero, comunque, di non darsi per vinti e proseguire nell’impresa, partendo per la Sila,
ma il Boccheciampe, loro compagno d’avventura fino a questo momento, saputo che non
vi era alcuna rivolta a cui partecipare, con un repentino voltafaccia, abbandonò la
compagnia e denunciò i compagni al posto di polizia di Crotone.
Dopo alcuni giorni di marcia attraverso le foreste, il gruppo fu sorpreso dalle guardie
civiche borboniche nei pressi di San Giovanni in Fiore: il conto delle forze fu impari e
nonostante la resistenza opposta dai fratelli Bandiera e dai loro compagni le guardie
borboniche ebbero la meglio. Alcuni caddero sul campo, altri fuggirono nella boscaglia,
altri ancora, come i due fratelli, furono arrestati e condotti a Cosenza.
Dopo un processo sommario, tutti furono condannati a morte: Attilio ed Emilio, insieme ad
altri sette compagni, vennero fucilati nel Vallone di Rivolto, nei pressi di Cosenza, il 25
luglio 1844.
17. I prigionieri regi nelle vie di Palermo (12 gennaio 1848)
I moti rivoluzionari che, nel gennaio 1848, scoppiarono a
Palermo furono il primo episodio di un’ondata insurrezionale
che sconvolse l’Europa nel corso di quell’anno e che va sotto
il nome di Primavera dei popoli.
Le radici della rivoluzione indipendentista siciliana sono da
ricercare nel diffuso malcontento per la dominazione
borbonica e nelle precarie condizioni di vita di gran parte
della popolazione, stremata dall’eccessiva pressione fiscale.
Il Congresso di Vienna (1815), infatti, aveva unificato gli ex
regni di Napoli e di Sicilia in un unico Regno delle Due
Sicilie, affidando la corona a Ferdinando I di Borbone.
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Tornato sul trono, Ferdinando abolì la costituzione di stampo liberale che, cedendo alle
pressioni dei nobili siciliani, lui stesso aveva concesso al Regno di Sicilia nel 1812 e
sciolse il Parlamento siciliano, suscitando forte malcontento tra i notabili dell'
isola.
La rivoluzione del 1848 fu sostanzialmente organizzata e centrata a Palermo. La data
d’inizio della rivolta (12 gennaio) fu deliberatamente scelta perché coincidesse con il
compleanno di Ferdinando II delle Due Sicilie. L’insurrezione, che in un primo tempo
ebbe successo, portò alla creazione dell’autonomo Stato di Sicilia e alla ricostituzione del
parlamento siciliano, con Ruggero Settimo come capo del governo; inoltre, fu riportata in
vigore la costituzione del 1812.
La Sicilia visse sedici mesi come stato indipendente, ma la reazione violenta dell’esercito
borbonico consentì alla corona di riprendere il pieno controllo dell'
isola il 15 maggio 1849.
La rivoluzione palermitana fu la scintilla che diede vita ad altri moti insurrezionali in tutta
la penisola.
18. Daniele Manin e Niccolò Tommaseo liberati dal carcere (17 marzo 1848)
La scintilla dell’insurrezione palermitana fu la miccia che
accese gli animi dei patrioti italiani: sull’esempio siciliano
anche a Venezia, il 17 marzo 1848, la popolazione insorse
contro il governo austriaco.
n seguito alla rivolta, due patrioti, Daniele Manin e Niccolò
Tommaseo, che si trovavano rinchiusi nelle prigioni
austriache, vennero liberati e si posero alla guida del nuovo
governo repubblicano, proclamato il 22 marzo.
Dopo una strenua resistenza contro l’esercito austriaco, i
patrioti veneti dovettero soccombere alla superiorità
numerica delle truppe asburgiche: il 22 agosto 1849
Venezia fu riconquistata e la Repubblica di San Marco
cessò d’esistere.
Daniele Manin (Venezia, 13 maggio 1804 – Parigi, 22 settembre 1857), si laureò in legge
a Padova nel 1821 e si dedicò all’attività forense a Venezia. Imprigionato nelle carceri
austriache per la sua attività patriottica, fu liberato a furor di popolo il 17 marzo 1848 e alla
successiva proclamazione della Repubblica di San Marco ne fu eletto presidente. Durante
l'
assedio della città nel 1848-1849 diede prova d'
intelligenza, coraggio e fermezza.
Costretto all’esilio dal ritorno degli austriaci, visse il resto della propria vita a Parigi, dando
lezioni di lingua italiana e conservando l’amore per la patria veneta.
Niccolò Tommaseo (Sebenico, 9 ottobre 1802 – Firenze, 1 maggio 1874), laureatosi in
legge a Padova nel 1822, visse alcuni anni fra Padova e Milano lavorando come giornalista
e saggista e frequentando personaggi in vista del mondo intellettuale cattolico (Manzoni,
Rosmini). Trasferitosi a Firenze nell’autunno del 1827 divenne una delle più importanti
voci dell’Antologia di Vieusseux. A causa delle proteste del governo austriaco contro un
suo articolo in favore della rivoluzione greca, dovette auto esiliarsi a Parigi, dove pubblicò
diverse opere letterarie. Di questo periodo (1830) è la pubblicazione del Nuovo Dizionario
de'Sinonimi della lingua italiana, cui deve gran parte della sua fama. Da Parigi si spostò in
Corsica, dove proseguì le ricerche di italianistica, contribuendo alla raccolta della copiosa
tradizione orale còrsa, si stabilì quindi a Venezia dove pubblicò numerose opere, fra cui le
prime due stesure del romanzo Fede e Bellezza considerato il suo capolavoro.
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Nel 1847, tornato nuovamente nel mirino della polizia asburgica, venne arrestato a seguito
di alcune dichiarazioni sulla libertà di stampa, che rivendicavano il diritto di vedere
applicate leggi che non la limitassero; fu liberato il 17 marzo 1848, insieme a Daniele
Manin, durante l'
insurrezione di Venezia contro gli austriaci e assunse importanti cariche
nel nuovo stato repubblicano. Dopo il ritorno degli austriaci fu esiliato a Corfù, nel 1854, si
trasferì a Torino e poi a Firenze (1859), dove restò fino alla morte.
Negli ultimi anni, oltre a un’ininterrotta pubblicazione di saggi, edizioni critiche e poesie,
si dedicò al monumentale Dizionario della lingua italiana, in otto volumi, completato solo
dopo la sua morte, avvenuta nel 1874.
19. Le cinque giornate di Milano – Assalto agli archi di Porta Nuova (20 marzo 1848
[in realtà 19 marzo 1848])
20. La quinta giornata di Milano 1848 – Presa di Porta Tosa (22 marzo 1848)
Tra il 18 e il 22 marzo 1848 la popolazione milanese insorse contro il presidio militare
austriaco che occupava la città, capitale del Regno Lombardo Veneto.
La resistenza dei milanesi, organizzata con efficienza grazie a una fitta rete di barricate
(più di mille) e di contatti tra i vari quartieri della città, riuscì ad avere la meglio sulle
truppe austro-ungariche, guidate dal feldmaresciallo Radetzky, che furono costrette alla
fuga.
L’insurrezione coinvolse l’intera popolazione cittadina, che
combatté innalzando barricate nelle vie e gettando oggetti
dalle finestre e dai tetti delle case, per impedire il passaggio
dell’esercito austriaco.
La notizia della sommossa milanese si diffuse velocemente
nei territori circostanti, anche grazie ai palloni aerostatici
lanciati dagli insorti, che si depositarono nelle campagne
limitrofe, portando messaggi insurrezionali e richieste
d’aiuto e soccorso.
Le Cinque giornate milanesi rappresentano uno degli
episodi più importanti della storia risorgimentale italiana.
Assalto agli archi di Porta Nuova
Sugli archi di Porta Nuova era disposta una batteria di
cannoni austriaci che dall'
alto sparavano sulla città. Il 19
marzo 1848 un gruppo di patrioti, guidati da Augusto
Anfossi, Luciano Manara, Enrico ed Emilio Dandolo,
prese di mira i bastioni e riuscì ad avere la meglio sui
soldati addetti ai cannoni. I pezzi d'
artiglieria furono
requisiti dagli insorti e sull'
arco di Porta Nuova venne
issato il tricolore.
L’assalto a Porta Tosa
L’assalto a Porta Tosa fu durissimo, poiché ribelli e
austriaci avevano schierato tutte le forze disponibili.
A un certo punto sembrò che gli insorti stessero per
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cedere, ma alla fine riuscirono a incendiare la porta e ad ostacolare l’uscita delle truppe
austriache in fuga.
Gli scontri durarono l’intera giornata, ma all’alba i cittadini poterono constatare che il
nemico aveva abbandonato Milano e la città era finalmente libera.
Per ricordare la vittoria di Porta Tosa, la porta stessa fu in seguito ribattezzata “Porta
Vittoria” e fu indetto un concorso per il progetto del monumento celebrativo ai caduti da
erigere in loco. Il concorso fu vinto da Giuseppe Grandi, cui si deve l'
obelisco con il
gruppo bronzeo, tuttora esistente, che ricorda la lotta del popolo milanese per la libertà.
Anche la toponomastica della zona richiama gli eventi risorgimentali: nelle intitolazioni
delle vie circostanti, infatti, si possono ritrovare i nomi dei patrioti che presero parte alla
lotta.
21. Carlo Alberto al passaggio del Ticino (29 marzo
1848)
L’efficacia e la risonanza degli avvenimenti delle Cinque
giornate milanesi fu tale da spingere all’intervento anche
il titubante re di Sardegna. Dopo lunghe esitazioni,
infatti, Carlo Alberto, approfittando della debolezza degli
Austriaci in ritirata, decise di dichiarare guerra
all’Impero asburgico, dando il via alla Prima guerra
d’indipendenza italiana. Il 29 marzo 1848 le truppe
sabaude, guidate da Carlo Alberto, oltrepassarono il
Ticino a Gravellona Lomellina (Pavia); il fiume segnava
il confine tra il Regno di Sardegna e l’Impero d’Austria. I
reggimenti dell’esercito piemontese al passaggio del
fiume ricevettero una nuova bandiera: il tricolore.
22. Partenza da Napoli di 180 volontari colla principessa Belgioioso (29 marzo 1848)
Cristina Trivulzio di Belgioioso (Milano, 28 giugno 1808
– Milano, 5 luglio 1871) fu una delle donne illustri che
parteciparono alle lotte risorgimentali: colta e
affascinante, scrittrice e giornalista, affiancò alle proprie
attività benefiche e di riforma sociale (a Locate, feudo
dei Trivulzio a sud di Milano, creò scuole e strutture
assistenziali per i contadini) l’impegno politico, facendo
del proprio salotto parigino un centro di discussione
culturale e politica aperto ai maggiori intellettuali
dell’epoca. Abituali frequentatori del salotto erano i
numerosi esuli italiani, la cui causa fu sostenuta dalla
principessa non solo idealmente, ma anche
finanziariamente, mettendo più volte a rischio la propria
stabilità economica.
Nel marzo del 1848, avuta notizia dell’insurrezione milanese, Cristina si imbarcò a Napoli
guidando un contingente di circa duecento volontari (il Contingente Belgioioso) da
condurre direttamente a Milano, allo scopo di portare aiuto agli insorti.
Con il ritorno degli Austriaci nel capoluogo lombardo fu nuovamente costretta all’esilio.
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L’aperta manifestazione delle proprie idee politiche, ma anche il carattere deciso e
l’atteggiamento anticonformista, straordinari per una donna dell'
epoca, attirarono su di lei
l’odio e i controlli delle autorità austriache che, pur di ostacolarla, giunsero a sequestrarle
l’intero patrimonio.
23. Il 15 maggio 1848 a Napoli
Il 15 maggio 1848, sulla scia dei tumulti che in quell’anno
stavano sconvolgendo l’Italia e l’Europa, anche a Napoli la
popolazione insorse contro il dominio borbonico.
L’insurrezione scoppiò in seguito alla mancata concessione,
da parte di Ferdinando II di Borbone, di una carta
costituzionale, fortemente voluta dagli intellettuali liberali.
Come reazione al rifiuto del Re, la popolazione insorse
innalzando barricate nei punti nevralgici della città.
I primi colpi di fucile partiti dai rivoltosi uccisero alcuni
ufficiali dei reggimenti svizzeri,attestati a difesa del Palazzo
Reale; al fuoco degli insorti seguì la reazione armata delle
truppe borboniche, che ristabilirono l’ordine: a Napoli fu
dichiarato lo stato d’assedio e venne istituita una
commissione con l'
incarico d’inquisire i reati commessi
contro la sicurezza interna dello Stato.
24. Battaglia di Goito (30 maggio 1848)
Dopo le Cinque giornate milanesi Carlo Alberto decise
di dichiarare guerra all’Austria conducendo l’esercito
piemontese oltre il Ticino, verso le fortezze di Peschiera
e Verona, roccaforti austriache. Goito (Mantova) era un
passaggio obbligato per giungere a Peschiera perché lì si
trovava il ponte per attraversare il Mincio, primo grosso
ostacolo naturale. Il ponte era saldamente difeso dalle
truppe austriache, consapevoli dell’importanza strategica
del luogo.
L’8 aprile del 1848, proprio sul ponte, vi fu un primo
scontro tra le truppe piemontesi e l’esercito austriaco
(Battaglia del ponte di Goito), premessa decisiva di
quella che sarà la battaglia più rilevante e la vittoria più
rappresentativa della campagna del 1848. Le
avanguardie piemontesi, infatti, riuscirono a sfondare la resistenza austriaca, passarono
oltre il ponte e occuparono Goito e Valeggio, consentendo a tutto l’esercito di Carlo
Alberto di transitare al di là del Mincio.
Successivamente, nei primi giorni di maggio, i piemontesi posero sotto assedio Peschiera e
giunsero alle mura di Verona, ma la mancata insurrezione dei Veronesi consentì agli
Austriaci di conservare il controllo sulla città e di preparare la controffensiva. Nella notte
tra il 27 e il 28 maggio, infatti, Radetzky uscì da Verona con quarantamila uomini e
l’obiettivo di dirigersi prima su Peschiera e poi su Mantova.
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La marcia degli austriaci fu però rallentata dallo scontro con i volontari toscani e
napoletani a Curtatone e Montanara (29 maggio 1848) e ciò diede modo all'
esercito
piemontese di spostarsi a Goito, per attendere l’esercito austriaco. Gli austriaci vi giunsero
nel pomeriggio del 30 maggio: il combattimento durò quasi quattro ore e al termine degli
scontri le truppe di Radetzky si ritirarono, rinunciando alla conquista di Peschiera. La
battaglia non fu particolarmente cruenta, ma fu importante dal punto di vista tattico e
rappresentò uno degli episodi bellici più gloriosi per l’esercito piemontese nella campagna
del 1848. Da questo momento in poi, infatti, ebbe inizio la grande controffensiva austriaca,
che costrinse il Piemonte a indietreggiare oltre il Ticino, abbandonando i territori
precedentemente conquistati e segnando il fallimento della Prima guerra d’indipendenza.
25. Combattimento di Staffalo (24 luglio 1848)
Nessuno dei successi ottenuti da Carlo Alberto nel corso
della campagna militare contro l’Austria era stato decisivo
(Pastrengo, Curtatone e Montanara, Goito); l’esercito
piemontese si era limitato a tallonare da presso quello
austriaco in piena ritirata dopo le Cinque giornate di Milano.
L’incapacità di assumere l’iniziativa da parte piemontese
aveva quindi dato modo agli austriaci di ritirarsi nel
Quadrilatero, di riorganizzare le proprie forze e attendere i
rinforzi.
La controffensiva austriaca partì nel giugno 1848:
riconquistata Vicenza (il 10 giugno), gli imperiali ripresero
lo scontro con l’esercito sardo piemontese che fu battuto più
volte, tra il 23 e il 25 luglio in una serie di combattimenti a Custoza, Sommacampagna e
nella Valle di Staffalo. Da qui cominciò la veloce, ma ordinata ritirata dell’esercito
piemontese verso l’Adda e Milano. Nella capitale lombarda i piemontesi giunsero il 4
agosto 1848, ma nulla poterono contro la superiorità numerica dell’esercito austriaco: il 5
agosto Carlo Alberto firmò la capitolazione ufficiale e il giorno successivo i militari
austriaci fecero il loro ingresso nella città.
26. Vittorio Emanuele respinge la domanda di Radetzky di abolire lo statuto (26
marzo 1849)
Dopo la sconfitta nella battaglia di Novara (23 marzo 1849)
che segnò la fine della Prima guerra d’indipendenza, Carlo
Alberto rifiutò di accettare le condizioni della tregua
imposta dagli austriaci e preferì abdicare a favore del figlio.
Toccò quindi a Vittorio Emanuele II, come primo atto da
sovrano, trattare la resa con il feldmaresciallo Radetzky.
Ottenuta un’attenuazione delle condizioni contenute
nell’armistizio, Vittorio Emanuele sconfessò l’operato del
padre dando assicurazione di voler agire con la massima
determinazione contro il partito democratico, al quale Carlo
Alberto aveva consentito una certa libertà e che l’aveva
condotto verso la guerra d’indipendenza contro l’Austria.
Nonostante le pressioni austriache rifiutò però di revocare
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la costituzione, lo Statuto Albertino, concesso dal padre nel 1848 e fu l’unico sovrano in
tutta la penisola a conservare la carta costituzionale concessa in seguito ai moti
insurrezionali.
Terminato il processo di unificazione nazionale, lo Statuto Albertino diventerà la prima
legge fondamentale dello stato unitario e resterà in vigore, con successive modifiche, fino
al 1948, quando sarà approvata la nuova Costituzione della Repubblica italiana.
27. Il 30 aprile 1849 a Roma
28. Assedio a Roma – Difesa del Vascello (3 giugno 1849)
La data del 30 aprile 1849 segna l’inizio della fine della
breve vita della Repubblica Romana.
L’esperienza repubblicana romana era incominciata pochi
mesi prima, nel febbraio 1849, quando, sotto la spinta dei
moti popolari che chiedevano libertà e democrazia, il
pontefice Pio IX era stato costretto ad abbandonare la città,
per rifugiarsi a Gaeta. Un’assemblea costituente eletta con
suffragio universale aveva proclamato la repubblica,
affidandone la guida ad un Triumvirato composto da
Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini e
adottando come bandiera il tricolore. Pio IX, dal proprio
esilio, invocò e ottenne l’intervento delle potenze europee
per restaurare il proprio potere temporale; il 30 aprile 1849
Roma venne stretta d’assedio da più parti: gli austriaci da
nord, i Borbone da sud, i francesi e gli spagnoli via mare. A difesa della repubblica
giunsero giovani da ogni parte d’Italia e d’Europa e Garibaldi vi portò i propri volontari.
Nonostante la schiacciante superiorità dei nemici, la popolazione continuò a resistere e a
combattere con tenacia e l’assedio durò due mesi: un’impresa eroica se si considera che, ad
alcuni dei più grandi eserciti d’Europa, erano contrapposti semplici cittadini, volontari e
studenti.
Il comando del settore più esposto della città, individuato nel
Gianicolo, monte da cui era possibile dominare l'
intera città,
fu affidato a Garibaldi e ai suoi volontari. L’esercito francese
riuscì ad occupare Villa Corsini che, situata su di una piccola
altura fuori Porta S. Pancrazio, dominava le mura e fu
successivamente distrutta (al suo posto oggi sorge l’Arco dei
Quattro Venti, dentro Villa Pamphili); i garibaldini
riuscirono invece a difendere un altro edificio: il Vascello
(così chiamato per la sua forma simile ad un’imbarcazione)
che crollò solo alla fine di giugno, sotto le cannonate
francesi.
I francesi aprirono le prime brecce nelle mura aureliane il 21
giugno; il 29 e 30 giugno sferrarono l’attacco finale,
sfondando le difese. Mentre Garibaldi riuniva i suoi uomini
per l’estrema difesa, in città si organizzarono le barricate. Ma l’Assemblea parlamentare,
per non sottoporre Roma a inutili distruzioni, decretò la fine della resistenza. Garibaldi non
accettò la resa e con un contingente di armati iniziò la ritirata verso Venezia, mentre
Mazzini riprese la via dell’esilio.
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29. Difesa di Venezia – Al Forte Marghera (5 maggio 1849)
Il 22 marzo 1848, mentre a Venezia Daniele Manin, a capo degli insorti, cacciava gli
austriaci e proclamava la Repubblica di San Marco, a Mestre, molti patrioti, disarmati con
facilità i pochi soldati di guardia, prendevano il controllo della città. Istituita una Guardia
civica, i Mestrini marciarono verso il forte Marghera,
sorprendendo le guardie ed impadronendosi della fortezza.
Mentre gli austriaci, incalzati in tutto il Lombardo Veneto, si
ritiravano tra le fortezze del Quadrilatero, Mestre divenne
crocevia di passaggio per i tanti volontari che affluivano da
ogni parte d’Italia.
In maggio, però, le truppe austriache riconquistarono tutto il
Lombardo Veneto e il 18 giugno 1848 rioccuparono anche
Mestre: baluardo di Venezia restò solo il forte Marghera. Gli
insorti riuscirono a resistere alcuni mesi, ma la sproporzione
tra le forze era enorme: tra il 4 e il 26 maggio 1849 forte
Marghera fu tenuto sotto assedio dalle truppe asburgiche che,
alla fine, ebbero la meglio sulle scarse forze veneziane. I
sopravvissuti si ritirarono a Venezia, in un estremo tentativo
di difesa, ma alla capitolazione del forte seguì, il 22 agosto la
resa della città lagunare. L’esperienza della Repubblica veneta finì così nel sangue: molte
le fucilazioni, le deportazioni e le condanne al carcere duro.
30. Tiremm innanz (parole di Antonio Sciesa) (2 agosto 1851)
Amatore Sciesa (Milano, 12 febbraio 1814 – Milano, 2
agosto 1851), conosciuto anche col nome di Antonio, fu
uno dei tanti patrioti lombardi che parteciparono alle
insurrezioni contro il dominio austriaco. Milanese di umili
origini, di professione tappezziere, nel 1850 entrò in
contatto con i circoli repubblicani milanesi, che operavano
in clandestinità. Si era ad appena due anni dai moti delle
Cinque Giornate e la politica ferocemente repressiva
perseguita dal governatore generale, il feldmaresciallo
Radetzky, contribuiva ad aizzare l’opposizione politica e
nazionale, costretta ad esprimersi nelle forme più
clandestine.
Amatore Sciesa fu sorpreso dalla polizia asburgica, nella
notte tra il 30 e il 31 luglio 1851, in possesso di alcuni
manifesti insurrezionali e arrestato con l’accusa di averne affisso alcune copie in via
Spadari (indicazioni posteriori della polizia austriaca rivelarono la falsità dell’accusa).
Venne condannato a morte dopo un processo sommario. Per condurlo al luogo
dell'
esecuzione i gendarmi lo fecero passare sotto le finestre di casa sua, sperando di
indurlo, col pensiero della famiglia, a rivelare i nomi di altri rivoluzionari in cambio della
vita. Secondo la tradizione popolare a un gendarme che lo esortava a confessare avrebbe
risposto in dialetto milanese: «Tiremm innanz!» («Andiamo avanti!»), rifiutandosi di
tradire i compagni e difendendo la causa di chi combatteva per l’indipendenza nazionale.
Nella sentenza di morte, per un errore del cancelliere, venne erroneamente chiamato
Antonio e da qui nacque l’equivoco legato al suo nome.
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