seminario iv - Dipartimento di Giurisprudenza

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ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
(corso E-N, Prof. Carlo Granelli)
SEMINARIO IV – 15 maggio 2014
Aula IV Ore 16.00-18.00
(Dott. Emanuele Tuccari)
Il recesso e la buona fede in executivis. La presupposizione. La clausola penale.
MATERIALI
1. Il recesso e la buona fede in executivis. (Cass., 18.09.2009, n. 20106)…................…............p. 2
2. Presupposizione e recesso (Cass. 25 Maggio 2007, n. 12235) ...............................................p. 13
3. Presupposizione e risoluzione ex art. 1467 cod. civ. (Cass. 5 Maggio 2010, n. 10899)........p. 27
4. La clausola penale (Cass., Sez. Unite, 13 Settembre 2005, n. 18128…………...…...............p. 30
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RECESSO E BUONA FEDE
Cass. 18 Settembre 2009, n. 20106
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VARRONE Michele - Presidente
Dott. FICO Nino - Consigliere
Dott. URBAN Giancarlo - rel. Consigliere
Dott. VIVALDI Roberta - est. Consigliere
Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 10065-2005 proposto da:
A.G., S.A., in qualità di cessionari di tutti i diritti e crediti della NOVA AUTO S.R.L., NUOVA
BOB CAR SRL nella persona del cessionario del credito e della posizione, ossia As.Con. Rev. nella
persona del suo Presidente ST. A., RENO' CAR S.R.L. in liquidazione nella persona del suo
Liquidatore legale rappresentante pro tempore G.M., LUIGINO ROSSI & C SNC in persona del
suo legale rappresentante pro tempore, dott. R.L., M.B. quale cessionario di tutti i diritti e crediti
della RECAR SRL, AUTOMOBILI TRIVELLATO DI GRAZIANO TRIVELLATO & C SNC, in
persona del suo legale rappresentante pro tempore, T.G., TURBO CAR SRL in persona del suo
legale rappresentante pro tempore, sign. RO.ED., ASSOCIAZIONE CONCESSIONARI
REVOCATI nella persona del suo Presidente ST.AN., AUTOFRANCE SNC in persona del suo
legale rappresentante pro-tempore RE.AN., AUTOMIL & C SAS in persona del suo legale
rappresentante pro tempore sig. MI. L., AUTO TIRRENA SNC in persona del suo legale
rappresentante pro tempore S.A., B.E. quale cessionario dei diritti della BACCARANI ERIO & C
SAS, BARTOLI AUTO SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore BA.GI.,
CORDIOLI SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore C. G., COSSETTI &
VATTA SNC IN LIQUIDAZIONE nelle persone dei suoi legali rappresentanti pro tempore,
CO.GI. E V.F., EUGENIO FERRARI SRL nella persona del suo legale rappresentante pro tempore,
F.G., GIULIANI VIRGILIO DITTA (già Giuliani Auto & C. S.r.l.) nella persona del legale
rappresentante pro tempore sig. G.V., GIBIAUTO SRL nella persona del suo legale rappresentante
pro tempore, O. M., FALLIMENTO GREEN CAR SRL nella persona del suo curatore legale
rappresentante pro tempore, Dott. T.S., GROVER SRL nella persona del suo legale rappresentante
pro tempore GR. N., LIQUIDAUTO SRL IN LIQUIDAZIONE (già P. Di Giacomo s.r.l.) nella
persona del suo legale rappresentante pro tempore Sig.ra AD.EM., FRATELLI MELONI SNC nella
persona del suo legale rappresentante pro tempore, Sig. ME.MO., FRANCESCO MENABUE & C
SNC nella persona del suo legale rappresentante pro tempore, Sig. M.L., L.D. quale cessionario dei
diritti di New Cars S.r.l. in liquidazione, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA PRATI
DEGLI STROZZI 30, presso lo studio dell'avvocato MOLFESE FRANCESCO, che li rappresenta e
difende unitamente all'avvocato GALGANO FRANCESCO; come da separate procure speciali;
- ricorrenti contro
RENAULT ITALIA SPA;
- intimati 2
sul ricorso 13817-2005 proposto da:
RENAULT ITALIA SPA, in persona del suo legale rappresentante pro tempore Signor D.P.,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio dell'avvocato BATTAGLIA
EMILIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DI AMATO ASTOLFO per delega a
margine del controricorso con ricorso incidentale;
- ricorrente contro
ASS CONCESSIONARI REVOCATI, AUTOFRANCE SNC, AUTOMIL & C SAS, AUTO
TIRRENA SNC, B.E., BARTOLI AUTO SRL, CORDIOLI SRL, COSSETTI & VATTA SNC IN
LIQ, ING EUGENIO FERRARI SRL, GIULIANI VIRGILIO DITTA, GIBIAUTO SRL, FALL
GREEN CAR SRL, GROVER SRL, LIQUIDAUTO SRL IN LIQ, F.LLI MELONI SNC,
FRANCESCO MENABUE & C SNC, L.D., A.G., S.A., NUOVA BOB CAR SRL, M.B., RENO'
CAR SRL IN LIQ, LUIGINO ROSSI & C SNC, SOMA SPA, FALL SUPERCAR SRL,
AUTOMOBILI TRIVELLATO DI GRAZIANO TRIVELLATO & C SNC, TURBO CAR SRL;
- intimati avverso la sentenza n. 136/2005 della CORTE D'APPELLO di ROMA, Sezione 11 Civile emessa il
28/09/2004, depositata il 13/01/2005;
R.G.N. 6835/2002. udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2009 dal
Consigliere Dott. GIANCARLO URBAN;
udito l'Avvocato Francesco GALGANO;
udito l'Avvocato Emilio BATTAGLIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO CARLO che ha chiesto
il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Tra il 1992 ed il 1996 gli attuali ricorrenti, tutti ex concessionari della Renault Italia spa, furono
revocati dalla stessa società, sulla base della facoltà di recesso ad nutum previsto dall'art. 12 del
contratto di concessione di vendita.
Poichè in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque illecito da parte della
Renault Italia spa, fu fondata la Associazione Concessionari Revocati, con lo scopo di
"programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed attività idonea alla
tutela e difesa, nonchè alla rappresentanza, dei diritti dei Concessionari d'auto revocati dalle case
automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio (OMISSIS)".
L'Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Renault Italia spa davanti al
tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del
diritto, e la conseguente condanna della Renault Italia spa al risarcimento dei danni subiti per effetto
dell'abusivo recesso.
Renault Italia spa si costituiva chiedendo il rigetto della domanda, con la condanna alle spese.
Il tribunale, con sentenza in data 11.6.2001, rigettava la domanda compensando le spese.
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del 13.1.2005, rigettava gli
appelli proposti dall'Associazione e dai concessionari, che condannava al pagamento delle spese.
Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della
Renault Italia rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere.
Hanno proposto ricorso principale per cassazione affidato a cinque motivi illustrati da memoria i
soggetti indicati in epigrafe.
Resiste con controricorso la Renault Italia spa che ha, anche, proposto ricorso incidentale affidato
ad un motivo.
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Motivi della decisione
Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
Ricorso principale.
Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art.
216 c.p.c. in relazione all'art. 158 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).
Sostengono che la sentenza impugnata sia affetta da nullità per vizi relativi alla costituzione del
giudice, vale a dire per "mancanza di collegialità nella decisione testimoniata dal fatto che la
sentenza impugnata risulta estesa il 28 settembre 2004, ossia molto prima che fosse tenuta la camera
di consiglio del 12 ottobre 2004".
Il motivo non è fondato.
L'apposizione in calce alla sentenza della data del 28 settembre 2004, invece di quella del 12 ottobre
2004 (data in cui si è tenuta la camera di consiglio) risulta frutto di un semplice errore materiale,
posto che - come risulta dagli atti - nella data del 28 settembre 2004 la Corte di merito si era già
riunita in camera di consiglio per l'esame dell'appello.
Peraltro, l'errore materiale commesso è stato emendato attraverso il procedimento di correzione ex
artt. 287 e 288 c.p.c., con ordinanza emessa in data 25.5.2005 - a seguito di scioglimento della
riserva adottata all'udienza collegiale del 24.5.2005 - del seguente tenore " corregge la sentenza
della Corte di Appello di Roma n. 136 depositata il 13 gennaio 2005 nel senso che dove è scritto,
alla fine della sentenza e dopo la parola Roma, "28 settembre 2004" deve intendersi scritto "12
ottobre 2004", disponendo che la cancelleria effettui l'annotazione di rito".
La correzione così effettuata rende inammissibile la censura, posto che i ricorrenti non denunciano
la correttezza del procedimento adottato, di correzione dell'errore materiale contenuto nella
sentenza impugnata.
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della
buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della
conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum
(art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.).
Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.;
contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5).
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed
errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3).
Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle
questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono.
Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un
rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che
l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta,
deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua
interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass.
11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei
comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175
cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del
contratto (art. 1375 cod. civ.).
I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo
dell'ordinamento giuridico.
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L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico,
espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai
pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462).
Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve
essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti
dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto
obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere
dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme
di legge.
In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce
strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto
negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e
buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella
sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di
reciprocità.
In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella
situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono
sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.
In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata,
anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della
proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del
diritto.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e
giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2)
la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di
modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se
formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità
censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a
causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio
del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea
l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi
ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto
ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo
prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di
rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio,
posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o
conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi - attraverso atti di per sè strutturalmente idonei,
ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui
l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto.
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La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, più che su di un principio giuridico, su
di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato
meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.
Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilità
del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come
quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedi che fosse trasfusa, nella stesura
definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che
proclamava, in termini generali, che "nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo
scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto" (così ponendosi l'ordinamento
italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece,
ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in
relazione a particolari categorie di diritti.
Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è
stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità (v. applicazioni del principio
in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n.
14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838).
Così, in materia societaria è stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della
società, l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale
del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri
diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere
assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e
buona fede (contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro
rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto
sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.
E la conseguenza è quella della invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto
sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto
preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di
minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass.
11.6.2003 n. 9353).
Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto
prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato
al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387).
Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto è stata esaminata con
riferimento alla qualità di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni
societarie ai fini della sua esclusione dalla società (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno
dell'abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la
più rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258).
In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sarà possibile, per così dire, il suo "disvelamento"
(piercing the corporate veil).
Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari è stato più volte riconosciuto che, in ossequio al principio per
cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non può escludersi
che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benchè pattiziamente consentito
anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del
tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n.
2642).
E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, è stato ritenuto che, in presenza di una clausola
negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione
tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi
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momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della
intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di
essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito
di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede
nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico
della banca, di una responsabilità per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947).
In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al
contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al
divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742;
Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio
doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239;
Cass. 7.3.2007 n. 5273).
Del principio dell'abuso del diritto è stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria,
fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U.
23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).
Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio
dell'abuso del diritto è uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i
rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito
della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.
Deve, con ciò, pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e
rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa
qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone
generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione
dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i
poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il
suo abusivo esercizio.
Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede,
impugnata.
La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici:
1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull'atto di autonomia privata; "2) la previsione
contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il
sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l'esercizio del potere,
perchè un tale potere rientra nella libertà di scelta dell'operatore economico in un libero mercato; 3)
La Renault Italia non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi diversi
da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la insussistenza di un'ipotesi di recesso
illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principii di
correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il
puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono presenti nel
caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto;
e ciò perchè "La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi)
postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del
diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di
recare molestia ad altri"; 7) "Il mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica
(garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i
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diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi
formalmente imputabili.
La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in
grado di autodeterminarsi";
8) Alla libertà di modificare l'assetto di vendita, da parte della Renault Italia spa, conseguiva che il
recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per
realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso"; 9) La impossibilità di ipotizzare "un potere del
giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che
specifichi come attuare tale astratta tutela", produce, come effetto, quello della introduzione di "un
controllo di opportunità e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso; al che consegue una
valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto"; 10) La impossibilità di procedere ad un giudizio
di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di
riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto
avviene proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volontà su una causa eletta
dall'ordinamento come meritevole di tutela" fa sì che "Solo allorchè ricorrono contrasti con norme
imperative, può essere sanzionato l'esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche,
normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata".
Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili.
Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice
valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono,
ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale.
Diversamente, quando, nell'ambito dell'attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di
autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa - gli interessi, anche contrastanti,
delle diverse parti contrattuali.
In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento
del giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune
intenzione dei contraenti.
Ciò vuoi significare che l'atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo
giurisdizionale.
Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle
parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri
interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle
espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; con
l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria.
Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. - debbono essere
interpretati anche secondo buona fede.
Non soltanto.
Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il
contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere
di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di
agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di
specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.
La sua violazione, pertanto, costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di
risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618;
Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n.
264).
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo
- anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di
contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).
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Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica
dell'equilibrio fra i detti interessi.
Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del
contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere
l'eventuale diritto al risarcimento del danno per l'esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla
correttezza ed alla buona fede.
Sotto questo profilo, pertanto, dovrà essere riesaminato il materiale probatorio acquisito.
In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso non qualificato - non poteva esimersi dal
valutare le circostanze allegate dai destinatari dell'atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio,
o quali fondanti un diritto al risarcimento per il suo abusivo esercizio.
Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono
essere seguite.
Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente
riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno.
La conseguenza è l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di libertà
economica e di libero mercato.
Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato
giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il
rischio economico delle scelte effettuate.
Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata,
deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della
buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono
essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque
consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio.
Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto.
La libertà di scelta economica dell'imprenditore, pertanto, in sè e per sè, non è minimamente
scalfita; ciò che è censurato è l'abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell'atto di autonomia
contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere.
L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un
determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al
fine di valutare se l'esercizio della facoltà riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in
chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della
correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto - ai
canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere
condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di
una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di
comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare
ed interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti
contrattuali.
Erra, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi è un'impossibilità di procedere ad un
giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo che lo stesso possa controllare
l'esercizio del potere di recesso; ritenendo che, diversamente si tratterebbe di una valutazione
politica.
Il problema non è politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l'abuso
dell'autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di
9
attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell'incremento delle situazioni
di disparità di forze fra gli operatori economici.
Al giudicante è richiesta, attraverso il controllo e l'interpretazione dell'atto di recesso - al fine di
affermarne od escluderne il suo esercizio abusivo, condotto alla luce dei principii più volte
enunciati - proprio ed esclusivamente una valutazione giuridica.
Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di concludere che la Corte di merito abbia
errato quando ha adottato le seguenti proposizioni argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di
abuso del diritto sia soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento
oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo
costituito dall'animus nocendi; 2) che, stabilito che la Renault Italia era libera di modificare l'assetto
di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo più conveniente per realizzare tale fine; al che
conseguirebbe l'insussistenza dell'abuso; 3) che, una volta che l'ordinamento abbia apprestato un
dato istituto, spetta all'autonomia delle parti utilizzarlo o meno; 4) che non sussista la possibilità di
utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico - in particolare contrattuale - in cui i
valori di riferimento non solo non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna
valutazione delle posizioni contrattuali delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente
"forti" -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri
nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante.
La Corte di merito ha affermato che l'abuso fosse configurabile in termini di volontà di nuocere,
ovvero in termini di "neutralità";
nel senso cioè che, una volta che l'ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per
conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita), erano indifferenti
le modalità del suo concreto esercizio.
Ma il problema non è questo.
Il problema è che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di "conflittualità".
Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto
rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati.
Proporzionalità che esprime una certa procedimentalizzazione nell'esercizio del diritto di recesso
(per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennità ecc.).
In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le
linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come
operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del rinvio - se il recesso ad
nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalità e per perseguire fini
diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti.
Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e
valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso l'esercizio del diritto riconosciuto.
In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparità di forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del
carattere abusivo o meno del recesso deve essere più ampia e rigorosa, e può prescindere dal dolo e
dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle
fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica.
Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono
inaccettabili.
La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza anche
dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si
trasformi in un recesso, arbitrario, cioè ad libitum, di sicuro non consentito dall'ordinamento
giuridico.
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Il giudice del rinvio, quindi, dovrà riesaminare la questione, tenendo conto delle indicazioni fornite
e dei principii enunciati, al fine di riconoscere o meno il carattere abusivo del recesso e l'eventuale,
consequenziale diritto al risarcimento del danni subiti.
Tutto ciò in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una
prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici.
Le conclusioni raggiunte consentono di ritenere irrilevante, e, quindi, superfluo l'esame degli
ulteriori profili di censura proposti.
I temi dell'abuso di dipendenza economica e della applicabilità analogica od estensiva della
normativa in materia di subfornitura (in particolare L. 18 giugno 1998, n. 172, art. 9) non hanno
costituito oggetto di specifica censura contenuta nei motivi di ricorso.
Quanto alle analogie riscontrate dai ricorrenti fra il contratto di concessione di vendita e quella di
agenzia, ai fini del riconoscimento del diritto dei concessionari a percepire una somma a titolo di
indennità, poi, ad un sommario esame - il quale, peraltro, si presenterebbe superfluo ai fini che qui
interessano, per le conclusioni raggiunte sui temi in precedenza trattati - si presentano di dubbia
praticabilità.
Il contratto di concessione di vendita, infatti, per la sua struttura e la sua funzione economicosociale, presenta aspetti che lo avvicinano al contratto di somministrazione, ma non può, però essere
inquadrato in uno schema contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto innominato, che si
caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano
strutturale, in un contratto - quadro o contratto normativo (Cass. 17 dicembre 1990, n. 11960), dal
quale deriva l'obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita, ovvero l'obbligo di concludere
contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell'accordo iniziale (v. anche
Cass. 22.2.1999 n. 1469; Cass. 11.6.2009 n. 13568).
Proprio una tale struttura e funzione economica, che esclude profili rilevanti di collaborazione,
sembra doverlo porre al di fuori dell'area di affinità con il contratto di agenzia (v. anche Cass.
21.7.1994 n. 6819).
Con il quinto motivo (subordinato) i ricorrenti principali denunciano la mancata compensazione
delle spese relative al giudizio di appello da parte della Corte di merito.
Il motivo resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi che precedono. Ricorso
incidentale Con unico motivo la resistente e ricorrente incidentale denuncia la omessa motivazione
sull'appello incidentale proposto dalla Renault Italia spa, relativamente alla liquidazione delle spese
del giudizio di primo grado.
Anche questo motivo, in materia di spese, resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai
motivi del ricorso principale che precedono.
Il giudice del rinvio, dovrà, infatti, procedere ad una nuova ed autonoma regolamentazione delle
spese del processo.
Conclusivamente, va rigettato il primo motivo del ricorso principale;
vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo; vanno dichiarati
assorbiti il quinto motivo ed il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi, come accolti, e la causa va rimessa alla
Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
Il giudice del rinvio si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale. Accoglie, nei limiti di cui
in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il quinto, nonchè il ricorso
incidentale. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa
composizione.
11
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di
Cassazione, il 8 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2009
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PRESUPPOSIZIONE E RECESSO
Cass. 25 Maggio 2007, n. 12235
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NICASTRO Gaetano - Presidente
Dott. TRIFONE Francesco - Consigliere
Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere
Dott. LEVI Giulio - Consigliere
Dott. SCARANO Luigi Alessandro - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
COMUNE DI GENOVA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA
VIALE GIULIO CESARE 14 A/4, difeso dagli avvocati ALPA GUIDO, GRAZIELLA DE NITTO,
ENRICO ROMANELLI, giusta delega in atti;
- ricorrente contro
ILVA SPA, in persona del suo presidente, legale rappresentante Dr. R.E., elettivamente domiciliata
in ROMA VIA ANASTASIO II 80, presso lo studio dell'avvocato BARBATO ADRIANO, che la
difende unitamente all'avvocato ANGELO COLOMBO, giusta delega in atti;
- controricorrente contro
FINTECNA SPA - FINANZIARIA PER I SETTORI INDUSTRIALE E DEI SERVIZI, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA TEODOSIO
MACROBIO 3, presso lo studio dell'avvocato GIUSEPPE NICCOLINI, che la difende unitamente
all'avvocato ANDREA D'ANGELO, giusta delega in atti;
- controricorrente e contro
AMGA AZD MEDITERRANEA GAS ACQUA SPA;
- intimata avverso la sentenza n. 894/02 della Corte d'Appello di GENOVA, prima sezione civile, emessa il
19/06/02, depositata il 20/09/02, R.G. 403+471/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/07 dal Consigliere Dott. Luigi
Alessandro SCARANO;
udito l'Avvocato Guido ALPA; udito l'Avvocato Angelo COLOMBO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LECCISI Giampaolo, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato nel 1992 il Comune di Genova conveniva le Acciaierie
di Cornigliano s.p.a. (poi Ilva s.p.a.) e la Ilva s.p.a. (poi Iritecna s.p.a. e quindi Fintecna s.p.a.)
avanti al Tribunale di Genova per ivi sentir pronunziare la risoluzione per eccessiva onerosità
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sopravvenuta o per presupposizione del contratto stipulato il (OMISSIS) con la società Italsider
s.p.a. (poi Fintecna s.p.a.), cui dal maggio 1985 era subentrata la società Cogea s.p.a. (poi
Acciaierie di Cornigliano s.p.a.), di permuta dell'area di mq. 13.326 in (OMISSIS) (con accesso
dalla via (OMISSIS)) di proprietà Italsider con un quantitativo di mc. 200 milioni di acqua trattata
da costruendo depuratore di acque nere, o proveniente da altre fonti sostitutive, da fornirsi con
consegne uniformemente ripartite in 20 anni a decorrere dal settembre 1977.
Esponeva al riguardo che sin dall'entrata in funzione il depuratore in questione non aveva potuto
rifornire come pattuito lo stabilimento siderurgico Oscar Senigaglia, a causa di imprevisti ed
imprevedibili scarichi abusivi di portata tale da determinare l'impossibilità per il medesimo di
erogare acqua industriale con le stabilite caratteristiche.
Nella resistenza delle convenute società, che in via riconvenzionale chiedevano accertarsi e
dichiararsi l'inadempimento dell'Amministrazione comunale, con conseguente condanna della
medesima al pagamento degli importi corrisposti agli acquedotti privati per la fornitura sostitutiva
nonchè a rifornire lo stabilimento siderurgico della quantità d'acqua pattuita e al risarcimento dei
danni; riunito il procedimento con altri (due) avanti al medesimo tribunale instaurati nel 1993
dall'A.M.G.A. (Azienda Mediterranea Gas e Acqua s.p.a., già Azienda Municipalizzata Gas ed
Acqua) nei confronti della società Ilva s.p.a. e della società Acciaierie di Cornigliano s.p.a., per ivi
sentirle condannare al pagamento delle somme dovute a titolo di corrispettivo per la fornitura di
acqua effettuata in loro favore nei periodi di rispettiva competenza, con sentenza emessa nel 1998
l'adito giudice rigettava le domande del Comune e dell'A.M.G.A., nonchè quelle di A risarcimento
danni proposte in via riconvenzionale dalle convenute, e dichiarava inammissibile la domanda di
manleva, condannando il Comune a rimborsare alla società Acciaierie di Cornigliano s.p.a. e
all'Uva s.p.a. gli importi già corrisposti agli acquedotti privati per le forniture sostitutive, con le
conseguenti disposizioni in ordine alla regolazione delle spese.
I gravami, interposti con separati atti dal Comune e dall'A.M.G.A. e poi riuniti all'esito della
riassunzione del processo successivamente all'interruzione disposta in ragione della fusione per
incorporazione della Iritecna s.p.a. nella Fintecna s.p.a., con costituzione di quest'ultima, venivano
dalla Corte d'Appello di Genova rigettati con sentenza del 20/9/2002.
Avverso la detta sentenza della corte di merito il Comune di Genova propone ora ricorso per
cassazione affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso le società Uva s.p.a. e Fintecna s.p.a., che hanno anch'esse presentato
memoria.
La società A.M.G.A. non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1^ motivo l'Amministrazione ricorrente de- ( nunzia violazione e falsa applicazione degli
artt. 1467, 1552, 1362, 1363, 1366, 1374 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia
prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto non applicabile l'istituto della
presupposizione, nel caso concernente il presupposto implicito del contratto determinante la volontà
negoziale che, salvo i casi eccezionali specificamente previsti, l'impianto di depurazione de quo
fosse in grado di produrre acqua trattata della qualità convenuta rispondente a determinate
caratteristiche chimico-fisiche, argomentando dalla circostanza che l'eventualità della mancata
produzione di acqua depurata era stata specificamente ed espressamente prevista in contratto
laddove si era indicato che in relazione alle eventuali fonti sostitutive "nessuna alea dovesse gravare
su Italsider", non essendovi pertanto alcuno "spazio per l'integrazione del contratto nell'ottica del
bilanciamento delle prestazioni secondo l'economia interna dello stesso".
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Deduce essere non revocabile in dubbio, considerando correttamente quale scopo dello stipulato
contratto de quo il risparmio di acqua potabile a favore di usi civili per preservare le già carenti
risorse idriche (per il Comune) e l'utilizzazione dell'acqua depurata per evitare il rischio di
contingentamento in caso di siccità (per l'Italsider), che la circostanza disattesa dai giudici di merito
costituisce presupposto implicito del contratto, non risultando invero spiegabile "per quale ragione
il Comune - che ben avrebbe potuto espropriare l'area per un costo irrisorio (a quel tempo
determinabile secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971) - avrebbe dovuto assumersi il rischio
di vedersi esposto ad un totale stravolgimento delle prestazioni contrattuali, rappresentato
dall'obbligo di fornitura di acqua potabile in luogo dell'acqua per mero uso industriale, con aumento
dell'onere per la P.A. dagli originari L. 600 milioni (valore di permuta), a L. 26 miliardi (per
capitale e interessi)".
In considerazione della causa (di permuta), della durata (ventennale) e della natura (ad esecuzione
differita) del contratto, il corretto funzionamento dell'impianto costituisce ineludibile presupposto
dell'accordo in questione, invero non escluso dalla previsione dell'eventuale - limitato e temporaneo
- malfunzionamento dell'impianto, giacchè laddove le parti si fossero rappresentate, avuto riguardo
anche alla lunga durata del contratto, la situazione di "impossibilità assoluta di effettuare la
depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" non si sarebbero invero indotte a stipulare un
contratto "il cui sinallagma era fondato sull'equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi
appunto di permuta) e la cui distribuzione dei rischi era necessariamente da ricondurre e da riportare
a quel determinato tipo contrattuale".
Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1467, 1552, 1362, 1363, 1366,
1374 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o
rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che nell'interpretare il contratto la corte di merito abbia erroneamente escluso che il
mancato funzionamento del depuratore sia da considerarsi circostanza straordinaria ed
imprevedibile ai sensi dell'art. 1467 c.c., il fenomeno dell'enorme quantità di scarichi abusivi
essendosi verificato solamente in epoca successiva alla stipulazione del contratto, una prima volta
nel 1985 e poi nel 1989, vanamente avendo tentato di ovviarvi, anche con una denuncia alla locale
Procura della Repubblica.
Lamenta non potersi considerare al riguardo in qualche modo rilevante la circostanza che il
controllo sull'inquinamento delle acque rientra nelle proprie competenze amministrative, venendo
altrimenti a sovrapporsi il suo ruolo di autorità di controllo con quello di parte del contratto di
permuta in oggetto, laddove l'esercizio dei poteri pubblicistici non può invero riverberare in chiave
d'interpretazione di un contratto di diritto comune.
Lamenta la contraddittorietà della motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, dopo
essersi ritenuto rientrare nell'alea normale del contratto il rischio dell'immissione di scarichi abusivi
nelle condotte adducenti al depuratore, risulta alle parti di contratti commutativi attribuito il potere
di assumere, reciprocamente o unilateralmente, un determinato rischio, rendendo eonseguentemente
per tale aspetto aleatorio il negozio.
Deduce altresì che il rischio di fornire comunque l'acqua, anche in caso di guasti e/o fermate
dell'impianto, contrattualmente posto a suo carico, costitusce questione altra e diversa da quella
relativa. ad un "assoluto ed indefinito stravolgimento delle prestazioni originariamente previste a
titolo di permuta in conseguenza di un evento fuori dall'ordinario", giacchè il ricorso alle "fonti
sostitutive" era stato nella specie concepito come rimedio "eccezionale", tendente a riparare
circostanze contingenti e necessariamente limitate nel tempo che avessero inciso sulla regolare
attività dell'impianto.
Si duole non essersi nell'impugnata sentenza tenuto conto che il valore delle prestazioni dedotte in
contratto (e cioè il costo a me. dell'acqua, da un canto, e il valore di mercato dell'area all'epoca
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determinato in L. 600 milioni, da altro canto) era successivamente venuto a risultare fortemente
squilibrato, giacchè la prestazione a suo carico era ascesa ad un valore di più di L. 26 miliardi (per
capitale ed interessi). E l'imprevedibilità deve essere valutata anche con riferimento ad un evento
che ecceda la normale distribuzione dei rischi in relazione alla "dimensione" assunta da evento già
esistente al momento della conclusione del contratto.
Si duole, ancora, che nel considerare contrattualmente previsto un concorso della controparte (nella
misura del 30% del prezzo dell'acqua) solamente in caso di eventi di forza maggiore, la corte di
merito abbia violato le norme in tema di obbligazioni alternative, "risultando evidente che le
prestazioni di fornitura di acqua potabile aveva natura necessariamente sostitutiva e non alternativa
rispetto alla fornitura di acqua depurata per uso industriale".
Con il 3^ motivo denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1366, 1374 e 1375 c.c. in
relazione all'art. 1467 c.c. in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato
dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 .p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che l'interpretazione del contratto da parte della corte di inerito disattende il criterio della
buona fede contrattuale, cui occorre fare ricorso a fini interpretativi (art. 1366 c.c.) per valutare il
comportamento delle parti anche in fase esecutiva (art. 1375 c.c.), "non solo per dare significato al
regolamento, ma anche per bilanciare le prestazioni secondo l'economìa interna del contratto",
laddove nell'impugnata sentenza si perviene ad affermare che "tutto il rischio sarebbe stato da
addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe stata in ogni caso garantita di
ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle prestazioni.
Con il 4^ motivo l'Amministrazione ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt.
1559, 1562, 1563, 1564, 1569, 1570 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia
prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che "Con riguardo alla posizione AMGA (ed alle conseguenze che se ne traggono a
suffragio dell'intepretazione propugnata dal Giudicante)", la corte di merito abbia affermato che
"avrebbe dovuto competere all'acquedotto comunale dimostrare che furono Italsider, poi Ilva e poi
Acciaierie di Cornigliano a richiedere la fornitura di acqua sostitutiva, non essendo sufficiente la
circostanza che l'acqua sia di fatto pervenuta allo stabilimento siderurgico", ingiustificato
ravvisando "in assenza di un impegno di Amga in proposito" il fatto della "prosecuzione delle
forniture per anni senza alcuna interruzione, nonostante i mancati pagamenti" e conseguentemente
ritenendo "suffragata la tesi secondo cui la fornitura di acqua sostitutiva da parte di AMGA sia
avvenuta in adempimento degli accordi contrattuali assunti dal Comune, che sarebbe quindi tenuto
al relativo pagamento".
Lamenta l'illogicità e la contraddittorietà di tale argomentare, giacchè la corte di merito ha "posto a
premessa del proprio ragionamento quella che in realtà avrebbe dovuto esserne la conseguenza".
Sostiene al riguardo che "prima avrebbe dovuto accertarsi l'obbligo del Comune di fornire acqua
sostitutiva in ogni caso di malfunzionamento dell'impianto - qualunque ne fosse la causa - e solo
successivamente stabilirsi che per tale ragione la fornitura dell'Amga andava riguardata come
esecuzione di tale obbligo".
Deduce che la somministrazione può trovare fonte anche in fatti concludenti, e che non è al
riguardo significativa la circostanza che l'Amga non abbia mai richiesto il pagamento della fornitura
somministrata, atteso che ai sensi dell'art. 1562 c.c. solo nella somministrazione a carattere
periodico il prezzo è corrisposto all'atto delle singole prestazioni, laddove nel caso si tratta
viceversa di somministrazione "continuativa", senza cioè soluzione di continuità.
Lamenta che, formulata dall'A.M.G.A. la richiesta di pagamento, in unica soluzione, alle due
società somministrate con la domanda introduttiva dei giudizi oggetto di successiva riunione, la
corte di merito "non si è peritata, sul punto, di argomentare la propria posizione se non sulla base di
16
una precostituita supposizione, la quale ... avrebbe dovuto seguire (e non precedere) il positivo
accertamento che la prestazione di A.M.G.A. fosse effettuata su incarico del Comune".
I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati.
Il ricorrente si duole della erronea considerazione "del presupposto implicito del contratto,
determinante la volontà di entrambi i contraenti" in questione, e quindi del "corretto esercizio del
depuratore e la conseguente fornitura di acqua con le pattuite caratteristiche chimico-fisiche",
riguardato sia sotto il profilo della presupposizione che dell'eccessiva onerosità sopravvenuta del
contratto de quo.
Contratto che nell'impugnata sentenza risulta qualificato in termini di permuta, tale venendo anche
dall'odierno ricorrente considerato nell'articolazione logico-giuridica delle proprie doglianze.
Sotto il primo profilo il ricorrente in particolare si duole che la corte di merito abbia escluso,
violando la legge ed illogicamente motivando, la ricorrenza nel caso della figura della
presupposizione, da rinvenirsi allorquando "una determinata situazione di fatto o di diritto (passata,
presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali - come presupposto
condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal
fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l'evento supposto sia stato
assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla
condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il
cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e
non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554;
tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629). Sicchè la "presupposizione è ... configurabile quando
dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente
all'esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della
volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorchè a
tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento" (Cass.
9.11.1994, n. 9304)".
Orbene, la presupposizione - vale anzitutto osservare - non è invero prevista da alcuna norma di
legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca) contestato da gran parte della
dottrina, che vi ravvisa una condizione non sviluppata del negozio o un motivo non assurto a
clausola condizionale, ma accolto in giurisprudenza anche di legittimità, ove viene costantemente
definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in
considerazione - pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali - dai
contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e
l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è
del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde - integrandolo all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (v. Cass., 23/9/2004, n. 19144;
Cass., 4/3/2002, n. 3052; Cass., 21/11/2001, n. 14629; Cass., 8/8/1995, n. 8689).
Va al riguardo ulteriormente precisato che, come posto in rilievo da una parte della dottrina, la
presupposizione costituisce in realtà un fenomeno articolato, cui vengono ricondotti fatti e
circostanze sia di carattere obiettivo che valorizzati dalla volontà delle parti.
A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un
autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi - essenziali o accidentali - del
contratto.
A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili
alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa
concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare (cfr. Cass., 8/5/2006, n.
10490).
17
I cd. presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno
contrattuale, e pertanto appunto la causa dello stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano,
diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il
classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile
all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto
alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per
la conseguente invalidità del negozio ).
Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed
in particolare la qualità del bene, giacchè in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del
contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.
La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una gualità
giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva
sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita
della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente
impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto: cfr. Cass., 19/3/1981, n.
1635).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti
vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacchè a parte il rilievo
che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la
presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le
circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola
condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla
stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal
contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è
funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi
sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della
presupposizione, giacchè l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto. Come
correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di
categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze
giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e
circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione,
assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da
parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del
contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto
di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali
d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es.
l'ottenimento dello sperato finanziamento).
Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di
inefficacia del contratto, nè a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c.,
art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass., 22/9/1981, n. 5168 ), bensì
all'esercizio del potere di recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del contratto sia già in
origine inesistente o impossibile a verificarsi).
Nel caso di specie il ricorrente, che non ha esercitato il recesso, non deduce la violazione della
causa o dell'oggetto o della condizione del contratto, ma lamenta invero l'erroneità della ravvisata
esclusione di rilevanza nel caso proprio della specifica figura della presupposizione, dolendosi che
la corte di merito non abbia accolto il prospettato riverberarsi sul relativo profilo causale.
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Sul piano della validità del contratto,dunque. Ovvero, secondo ulteriore ed alternativa impostazione,
su quello della inefficacia del contratto laddove i fatti e le circostanze che la integrano determinano
l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Orbene, va al riguardo affermato che in base al significato del contratto - accertato facendo
esercizio dei poteri loro spettanti - i giudici del merito hanno invero escluso, dandone congrua
motivazione, che nel caso le parti abbiano assegnato rilievo, quale specifico presupposto oggettivo,
all'idoneità al normale funzionamento dell'impianto di depurazione in questione.
A fronte della questione già in sede di gravame di merito oggetto di censura da parte dell'allora
appellante Comune, la corte d'appello ha infatti al riguardo posto in rilievo che "la semplice lettura
delle premesse e dell'art. 2 del contratto evidenzia come, a fronte dell'impegno dell'Ilva spa di
trasferire al Comune la proprietà di un consistente appezzamento di terreno di sua proprietà e di
garantirne il funzionamento, l'Ente locale avesse assunto l'obbligo di fornire alla società, ripartiti
uniformementente in un ventennio, duecento milioni di metri cubi di acqua trattata e depurata
nell'impianto realizzando "o eventualmente proveniente in tutto o in parte da altre fonti sostitutive"
con le modalità ed alle condizioni nel contratto in seguito elencate". Altresì sottolineando essere
"evidente come una tale prospettazione dei reciproci obblighi, con l'aggiunta nel quadro
complessivo della fornitura costante di ossigeno al depuratore a prezzo di costo, accollasse al
Comune il rischio di avvenimenti successivi che per malfunzionamento dell'impianto
determinassero il ricorso per la fornitura di acqua a risorse esterne a quelle offerte dal depuratore e,
quindi, in realtà attribuissero al Comune l'onere di apprestare e realizzare un impianto idoneo ad
evitare il verificarsi di una tale onerosa eventualità ... infatti, sebbene alle condizioni che saranno in
seguito meglio illustrate, la fornitura di acqua sostitutiva si presentava in contratto non come
subordinata, ma, semplicemente, come alternativa a quella depurata".
Se ne è quindi tratto che "l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle
obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili
scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di
fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di
chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il
Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e
frequente degli scarichi abusivi ... cioè il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per
la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben
consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno
dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo
l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante,
l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua
prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito paragrafo (punto C
dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime
dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune
l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna uniforme dell'acqua proveniente
da fonti sostitutive".
Il rischio della fornitura sostitutiva, si sottolinea nell'impugnata sentenza, era stato cioè assunto
come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso,
alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal
malfunzionamento dell'impianto di depurazione. Tanto più che, comunque, "nulla prova la natura
inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi,
come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro
dimensioni, mentre in tale contesto (tra l'altro i malfunzionamenti sembrano essere iniziati nel 1985
e proseguiti a partire dal 1989) non vi sono in causa elementi minimi idonei che consentano di
affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con adeguata
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progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a fornire acqua
depurata idoena ad usi industriali.
Tale interpretazione della corte di merito risulta invero correttamente operata e congruamente
motivata, in conformità ai principi più sopra richiamati, da essa con tutta evidenza emergendo come
l'idoneità dell'impianto di depurazione al normale funzionamento nella specie in realtà inerisca alla
qualità giuridica del bene. A tale stregua, pertanto, quale presupposto intrinseco della prestazione
dall'Amministrazione comunale nel caso contrattualmente assunta, il cui difetto se del caso
diversamente rileva, alla stregua di quanto sopra esposto, sul piano dell'inadempimento.
La censura del ricorrente non può trovare d'altro canto accoglimento nemmeno riguardando
l'inidoneità al normale funzionamento del depuratore de quo sotto il profilo dell'eccessiva onerosità
sopravvenuta della prestazione.
Va al riguardo anzitutto esclusa l'ammissibilità della prospettazione dell'eccessiva onerosità
sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione.
Pur se in passato da questa Corte in effetti non sempre respinta (v. Cass., 17/5/1976, n. 1738), va al
riguardo osservato che - come in dottrina non si e invero mancato di porre in rilievo - il riferimento
alla presupposizione viene a far inammissibilmente ridondare l'eccessiva onerosità sul piano
dell'interpretazione del contratto, laddove essa viceversa rileva a prescindere dalla volontà delle
parti, quale rimedio dall'ordinamento concesso in reazione all'alterazione non già dei presupposti
specifici (valorizzati appunto dalla presupposizione) bensì dei presupposti generici del contratto,
subordinandone cioè il mantenimento alla persistenza delle normali condizioni di mercato e di vita
sociale su di esso incidenti.
L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (diversamente dalla più sopra evocata
impossibilità sopravvenuta della prestazione, quale rimedio all'alterazione del cd. sinallagma
funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta) non incide sulla causa del contratto, non
impedendo l'attuazione dell'interesse con esso concretamente perseguito, ma trova diversamente
fondamento nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della
prestazione, salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo eccezionale aggravamento
economico derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici.
Mentre nei contratti a titolo gratuito l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore
originario della prestazione ed il valore successivo, trattandosi come nella specie di contratto
oneroso (pennuta), l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni,
laddove una prestazione non trova più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva (v. Cass.,
13/2/1995, n. 1559).
Atteso un tanto, risponde invero a principio recepito che, per poter ai sensi dell'art. 1467 c.c.
determinare la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata o
periodica ovvero ad esecuzione differita, l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve
essere determinata dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili.
Il carattere della straordinarietà è di natura obiettiva, qualificando un evento in base
all'apprezzamento di elementi (come la frequenza, le dimensioni, l'intensità, ecc.) suscettibili di
misurazione, tali pertanto da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quantomeno
di ordine statistico (v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661; Cass., 9/4/1994, n.
3342).
Il carattere della imprevedibilità deve essere valutato secondo criteri obiettivi, riferiti ad una
normale capacità e diligenza media, avuto riguardo alle circostanze concrete del caso sussistenti al
momento della conclusione del contratto (v. Cass., 13/2/1995, n. 1559), non essendo invero
sufficiente l'astratta possibilità dell'accadimento.
L'accertamento da parte del giudice di merito della sussistenza o meno dei caratteri di
straordinarietà ed imprevedibilità degli eventi che hanno determinato l'eccessiva onerosità di una
delle prestazioni corrispettive previste in contratti ad esecuzione differita spetta peraltro al giudice
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di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. Cass.,
19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661).
Orbene, il Comune ricorrente basa la propria odierna impugnazione sulla distinzione tra meri "casi
eccezionali specificamente previsti" di variazione e "impossibilità assoluta di effettuare la
depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" quale fattore di alterazione dell'"equivalenza
economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta)".
A parte il rilievo che nell'adombrare siffatta prospettazione omette di considerare che il mutamento
di valore concerne nel caso entrambe le prestazioni, laddove in presenza di contratto come nella
specie oneroso l'aggravio consiste - come sopra esposto- nella sopravvenuta sproporzione tra i
valori delle prestazioni corrispettive, e non già nella sopravvenuta sproporzione tra il valore
originario ed il valore successivo della singola prestazione (viceversa rilevante per i contratti a titolo
gratuito), dovendo pertanto considerarsi non solamente il valore della pretazione a suo carico in
ragione del diverso costo dell'acqua oggetto di fornitura ma anche il valore dei beni immobili
ricevuti in permuta con relativa valutazione comparativa in ragione dei rispettivi attualizzati valori
che non risulta nel caso invero compiuta, va osservato che diversamente da quanto dal medesimo
lamentato la corte di merito ha invero esaminato e specificamente disatteso l'argomento secondo cui
si sia nel caso trattato di un evento imprevedibile.
Nel sottolineare che il fenomeno dell'allaccio abusivo di scarichi era al contrario senz'altro
prevedibile, a fortiori per chi - come appunto l'odierno ricorrente - è addirittura investito ex lege
della funzione pubblica di controllare e monitorare nonchè regolare in concreto gli interventi in
materia, anche avvalendosi dei poteri di competenza quale soggetto di diritto pubblico ("da ciò
consegue come l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle
obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili
scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di
fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di
chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il
Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e
frequente degli scarichi abusivi"), non configurandosi invero al riguardo il pericolo di commistione
di funzione e di ruoli paventato dal ricorrente, la corte di merito ha invero posto in rilievo come nel
caso le parti abbiano espressamente preso in considerazione l'eventualità del non corretto
funzionamento dell'impianto di depurazione, specificamente prevedendo in contratto una
prestazione sostitutiva ("il Comune, consapevole che l'Italsider non intendeva correre alcun rischio
relativo a inadeguatezze dell'impianto di depurazione, circa l'entità e la qualità dell'acqua da
ricevere in contropartita della cessione del terreno, se ne è accollato totalmente il carico anche
economico, chiedendo un contributo del 30%, come subito dopo nel contratto specificato, nel solo
caso in cui il ricorso a fonti sostitutive fosse reso necessario da cause di forza maggiore consistenti
in eventi naturali, tra cui pacificamente non rientrano gli scarichi abusivi di cui si tratta; ... dunque,
non essendo indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi addirittura prevista la continuità
dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i casi di forza maggiore dovuti ad
eventi naturali, non sembra sostenibile, di fronte all'obbligo inderogabile di rifornire uniformemente
l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider, la tesi per cui possa ritenersi caso eccettuato od
imprevedibile quello di inidoneità permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di
un evento tra l'altro così prevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di rilievo").
Costituisce d'altro canto principio recepito in giurisprudenza di legittimità quello per il quale nei
contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte
assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni,
entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun contraente
presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della dovuta
diligenza (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989).
21
Orbene, in esplicazione dei poteri ad essi spettanti i giudici di merito hanno nel caso accertato
essere stato tale fenomeno invero contrattualmente previsto e regolato "il Comune, accettando di
fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata,
dimostrava così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi
abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento
del depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto
impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole
aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un
apposito paragrafo") (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche
chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato
posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna
"uniforme" dell'acqua proveniente da fonti sostitutive ... cioè il rischio della fornitura sostitutiva era
stato assunto come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in
ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal
mal-funzionamento dell'impianto di depurazione ... d'altra parte e comunque, nulla prova la natura
inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi,
come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro dimensioni
...".
Nè può d'altro canto nella specie assegnarsi in qualche modo rilievo alla tesi dottrinaria secondo cui
la sopravvenienza di circostanze pur prevedibili rende comunque eccessivamente gravosa, e
pertanto inesigibile, l'adempimento della prestazione, giacchè come si è al riguardo da altra parte
della dottrina correttamente obiettato si viene in tal caso a vertere in tema d'inadempimento, e non
già di alterazione dell'economia contrattuale.
Infondata è del pari la doglianza concernente il dedotto vizio di motivazione.
Va anzitutto osservato che in base a fermo principio di questa Corte l'interpretazione del contratto è
riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per
violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (v. Cass. 21 aprile
2005, n. 8296).
Il sindacato di legittimità può avere pertanto ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle
parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il
giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia
incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 29/7/2004, n. 14495).
Pur non mancando qualche pronunzia di segno diverso (v. Cass., 10/10/2003, n. 15100; Cass.,
23/12/1993, n, 12758), costituisce orientamento consolidato quello secondo cui in tema di
interpretazione del contratto ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e
principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate,
con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi quando la comune volontà
delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da
precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale
dovendo essere peraltro verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, e le singole clausole
considerate in correlazione tra loro, procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363
c.c., giacchè per "senso letterale delle parole" va intesa tutta la formulazione letterale della
dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte
soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice
collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 25/10/2006,
n. 22899; Cass., 22/12/2005, n. 28479; Cass., 24/11/2005, n. 24813; Cass., 2/4/2004, n. 6513).
Se è vero che l'elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo
comportamento delle parti costituisce peraltro un canone non già sussidiario bensì necessario ed
indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une per mezzo delle altre senza
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arrestarsi alla relativa considerazione atomistica, neppure quando il loro senso possa ritenersi
compiuto, debbono essere raccordate al complesso dell'atto, e l'atto deve essere esaminato
valutando il complessivo comportamento delle parti.
In questo progressivo ampliamento dell'oggetto dell'interpretazione assume allora rilievo anche il
comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, purchè sia un comportamento
comune, ovvero un comportamento unilaterale (anche tacitamente) accettato dall'altra parte, atteso
che, così come comune è l'intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione,
del pari comune deve essere il comportamento delle parti quale parametro di valutazione della
volontà da esse manifestata (v. Cass., 9/2/2007, n. 2901; Cass., 25/10/2006, n. 22899).
Orbene, nel caso in esame, di tali principi la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fatto
corretta e puntuale applicazione, con motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici, in
particolare là dove, nel condividere e confermare l'avviso del giudice di prime cure, ha ritenuto che
il contratto sia stato dalle parti stipulato senza che venissero "indicati limiti al minor rendimento ed
essendo anzi addirittura prevista la continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del
depuratore e per i casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali", espressamente escludendo, "di
fronte all'obbligo inderogabile di rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per
l'Italsider", la possibilità di ritenersi "caso eccettuato od imprevedibile quello di inidoneità
permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di un evento tra l'altro così
imprevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di rilievo".
Interpretazione che la corte di merito ha ravvisato "convalidata dal comportamento del Comune
successivo alla stipula del contratto, posto che pur nel verificarsi degli eventi cd. imprevedibili fin
dal 1985 e poi dal 1989, il medesimo solo in prossimità dell'azione giudiziaria contestò i suoi
obblighi così come sopra definiti, chiedendo in precedenza ancora con lettera del (OMISSIS) la
comunicazione da parte appellata degli elementi contabili necessari per il pagamento da parte sua
delle forniture di acqua". Al riguardo sottolineando come tale condotta sia logicamente spiegabile in
considerazione delle necessità in cui l'Amministrazione comunale "si trovava di rinnovare le rete
fognaria previa realizzazione di un depuratore", e quindi nell'interesse ad "acquisire il terreno
Italsider, ottimamente collocato, ai fini del miglior utilizzo economico dell'impianto", oltre che
nella sfiducia ... sulle sue capacità di produrre acqua depurata della qualità richiesta pur in presenza
di eventi prevedibili come quello degli scarichi abusivi industriali. E specificamente escludendo,
ancora, la rilevanza in contrario della durata e dell'esecuzione differita del contratto, in quanto il
Comune, "pur partendo, in accordo con la controparte, dalla valutazione della natura commutativa
del contratto (art. 7 e dichiarazioni di valore ai fini fiscali)", si è "esplicitamente ed implicitamente
accollato il rischio di un suo sbilanciamento in favore dell'Italsider, prendendo atto dell'esigenza
inderogabile della medesima di non dover correre alcun inconveniente rispetto alla fornitura di
acqua concordata, anche sotto il profilo economico, se non e parzialmente per il caso di forza
maggiore dovuta ad eventi naturali".
A tale stregua l'impugnata decisione si sottrae invero alle censure mosse dalla ricorrente, dovendo al
riguardo farsi d'altro canto richiamo al consolidato principio secondo cui in materia di
interpretazione del contratto la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige la
specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati, e del modo attraverso il quale si è realizzata
la violazione, mentre la denunzia del,1^ vizio di motivazione implica la puntualizzazione
dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito.
Nessuna delle due censure può invece risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto
dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione.
Per non soggiacere al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal
giudice al contratto non deve d'altronde essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in
astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni; sicchè quando di una clausola
contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili) non è consentito alla parte che aveva
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proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto
che sia stata privilegiata l'altra (v. Cass., 25/10/2006, n. 22899; Cass., 2/5/2006, n. 10131).
Quanto alla buona fede, la quale distintamente rileva come criterio di integrazione (art. 1375 c.c.) e
quale criterio di interpretazione del contratto (art. 1366 c.c.), assumendo significati diversi (nel
primo caso, di canone di condotta o correttezza), nella specie risulta indubbiamente evocata quale
criterio ermeneutico.
Alla stregua della formulata censura i suindicati principi non risultano dal ricorrente tuttavia
osservati.
Esso si limita infatti a dedurre genericamente che "con il ricorso al principio dell'interpretazione
secondo buona fede si possono arricchire le acquisizioni cui si perviene attraverso l'operazione
ermeneutica sul dato testuale, mediante integrazione, utilizzando cioè tutti gli elementi che, rispetto
a quanto è oggetto di formalizzazione esteriorizzata dai contraenti, consentono di ricostruirne la
volontà effettiva: si tratta, in altri termini, di rapportare il dato testuale, nel concorso di tutti gli
elementi valutativi a disposizione dell'interprete, alla buona fede intesa come buona regola di
condotta, al fine di effettuare un'operazione di controllo che, nell'ambito strettamente interpretativo,
consenta di verificare l'esigibilità dell'adempimento a carico di ciascuna parte, in relazione alle
circostanze sopravvenute e a una valutazione dell'economia dell'affare attenta ad una razionale
distribuzione dei rischi ... . Il principio di buona fede garantisce un equilibrio fra gli interessi dei
contraenti conseguente con le finalità in vista delle quali si sono assunti gli impegni ed in coerenza
appunto con l'assetto contrattuale ... la buonafede si pone nel sistema come limite interno di ogni
statuizione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi,
alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente ...".
Per poi, dopo aver esaminato altri profili al riguardo ravvisati interessanti in chiave di
interpratazione del contratto de quo, genericamente concludere: "Il paradosso della sentenza
impugnata è invece quello che discende dalla constatazione (invero incomprensibile) secondo cui
tutto il rischio sarebbe stato da addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe
stata in ogni caso garantita di ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle
prestazioni".
A tale stregua risulta invero omessa l'indicazione di quali aspetti (non suscitare e non speculare su
falsi affidamenti; non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte) in
cui si specifica il significato di obbligo di lealtà che la buona fede assume quale criterio legale
d'intepretazione del contratto risulterebbero nella specie violati, la cui osservanza avrebbe condotto
la corte di merito all'adozione di altra e diversa decisione.
Orbene, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, tale
censura appare allora finalizzata piuttosto, ma inammissibilmente, a sollecitare una diversa lettura
delle risultanze di causa, in contrasto proprio con il fermo principio di questa Corte secondo cui il
giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi
all'attenzione dei giudici della Corte di Cassazione tutti gli elementi di fatto già considerati dai
giudici del merito a da costoro asseritamente in termini erronei valutati, al fine di pervenire ad un
diverso apprezzamento di quegli stessi elementi già sottoposti al vaglio del giudice di seconde cure
(cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass. n. 12984 del 2006).
Quanto infine alla doglianza secondo cui la corte di merito non ha nel caso ravvisato la sussistenza
di un contratto di somministrazione (in particolare "continuativa" e non già a carattere periodico),
quale fonte della fornitura di acqua nel caso erogata dall'AMGA, precisato anzitutto che la stessa per non impingere nel divieto di cui all'art. 81 cpv. c.p.c. deve intendersi formulata con stretto
riferimento alla considerazione della detta prestazione quale modalità alternativa dell'obbligazione a
carico del Comune in virtù dello stipulato contratto di permuta de quo, tenuto conseguentemente al
relativo pagamento - ovvero quale contratto da quest'ultima del tutto autonomo, va al riguardo
sottolineato che, come sopra esposto, la corte di merito ha dato logica e congrua motivazione della
24
relativa considerazione, la censura del ricorrente invero profilandosi in termini di sostanziale - e in
sede di legittimità non consentita - contrapposizione ermeneutica.
Con il 5^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 62 c.p.c., in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio,
in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia confermato la sentenza di 1 grado anche sotto il profilo della
mancata ammissione della richiesta C.T.U. volta ad accertare il mancato funzionamento
dell'impianto di depurazione, e in particolare i dettagli del fenomeno dell'impossibilità di
produzione della convenuta acqua industriale.
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, qualora con il ricorso per cassazione siano
denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del
giudice di merito di darvi ingresso pur se ritualmente richiesti, e in particolare l'omessa ammissione
di consulenza tecnica, il ricorrente ha l'onere di indicare specificamente tali mezzi, trascrivendo le
circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l'esistenza di un nesso
eziologico tra l'omesso accoglimento dell'istanza e l'errore addebitato al giudice, sia che la
pronuncia, senza quell'errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un
controllo sulla decisività delle prove (v. Cass., 22/2/2007, n. 4178; Cass., 12/6/2006, n. 13556;
Cass., 1/4/2004, n. 6396; Cass., 16/6/2003, n. 9616; Cass., 19/7/2002, n. 10573; Cass., 12/5/2000, n.
6115).
Nel caso, il ricorrente ad un tanto non provvede, non ponendo invero questa Corte in grado di
valutare se e quali ragioni della ritenuta indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della
decisione (cfr. Cass., 22/3/2005, n. 6178; Cass., 2/1/2002, n. 10; Cass., 20/11/2000, n. 14979, V.
anche Cass., 8/172004, n. 88), siano state nel caso prospettate ed immotivatamente disattese.
Pacifico essendo che il ricorso da parte del giudice di merito all'ausilio del consulente tecnico
d'ufficio è meramente facoltativo e rimesso al suo potere discrezionale, con la conseguenza che le
valutazioni in merito non necessitano di motivazione ed esulano dal controllo di legittimità (v.
Cass., 25/7/2006, n. 16980; Cass., 3/3/2005, n. 4652; Cass., 16/7/2003, n. 11143; Cass., 9/5/2002, n.
6641; Cass., 17/1/2001, n. 583); e che d'altro canto la consulenza tecnica non costituisce in linea di
massima mezzo di prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, ma può assurgere al
rango di fonte oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente
con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (v. Cass., 19/1/2006, n. 1020; Cass.,
30/11/2005, n. 26083), va osservato che nell'impugnata sentenza il giudice del merito ha per
converso spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di non disporre nel caso la c.t.u., ponendo in
rilievo che "nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in
effetti verificatisi, nè in se stessi, come risultanti dagli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni
1990-1991, nè nelle loro dimensioni", sicchè in "in tale contesto ... non vi sono in causa elementi
minimi idonei che consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di
fronteggiare con adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione
continuando a fornire acqua depurata idonea ad usi industriali".
All'infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione, che liquida in Euro 5.100,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari di avvocato, in favore di
ciascuno dei controricorrenti, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
25
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007
26
PRESUPPOSIZIONE E RISOLUZIONE EX ART. 1467 COD. CIV.
Cass. 5 Maggio 2010, n. 10899
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo - Presidente
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere
Dott. BERNABAI Renato - Consigliere
Dott. CULTRERA Maria Rosaria - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso 23112/2005 proposto da:
COMUNE DI RIETI (c.f. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 197, presso l'avvocato NAPOLEONI MARIA
CRISTINA, rappresentato e difeso dall'avvocato PISELLI Francesco, giusta procura in calce al
ricorso;
- ricorrente COMUNE DI PESCOROCCHIANO;
- intimato avverso la sentenza n. 3476/2003 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 26/07/2004;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 17/02/2010 dal Consigliere Dott.
MARIA ROSARIA CULTRERA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Il Comune di Rieti, nella qualità di successore degli Istituti Riuniti di Ricovero di Rieti nella cui
amministrazione era compresa la Casa di Riposo M.P., adì il Tribunale di Rieti per chiedere la
condanna del Comune di Pescorocchiano al pagamento della somma di L. 53.666.000 per la retta di
degenza presso la detta casa di riposo del sig. S.E., maturata dal 1 gennaio 1988 fino al 12.6.93 e
rimasta insoluta, alla cui corresponsione il Comune convenuto si era impegnato con la Casa di
riposo i giusta Delib. Giunta 27 settembre 1986, n. 415.
L'ente convenuto si costituì e, per quel che ancora rileva in questa sede, eccepì nel merito di nulla
dovere per essersi devoluto l'onere del pagamento al Comune di Rieti in quanto l'assistito, che
concorreva al pagamento, aveva ivi trasferito la propria residenza anagrafica sin dal 12.11.87, il
tutto in dipendenza del c.d. istituto di soccorso di cui alla L. n. 6972 del 1890.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 728/2000, respinse la domanda ritenendo risolto il contratto ai
sensi dell'art. 1467 c.c., in forza della presupposizione, ravvisata nel presupposto della delibera di
giunta che aveva disposto il ricovero del S. che questi fosse residente nel Comune di
Pescorocchiano, ben noto all'altro contraente, perciò al Comune di Rieti che era subentrato alla casa
di riposo.
27
Gravata dai rispettivi appelli delle parti, la decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di
Roma con sentenza n. 3476 depositata il 26 luglio 2004. Avverso questa decisione il Comune di
Rieti ha proposto il presente ricorso per cassazione in base a tre mezzi ulteriormente illustrati con
memoria difensiva depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
L'intimato non ha spiegato difesa.
Motivi della decisione
Col primo motivo il Comune di Rieti, denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c., ascrive alla Corte
territoriale errore consistito nell'aver escluso il vizio di ultrapetizione in cui era incorso il primo
giudice, e d'aver per l'effetto confermato la rilevabilità d'ufficio della risoluzione sulla base della
presupposizione, che concreta invece eccezione in senso stretto, in quanto tale rimessa alla parte
interessata. Soggiunge che il Comune di Pescorocchiano non aveva sollevato siffatta eccezione, ma
aveva invocato il c.d. domicilio di soccorso per accreditare la propria tesi, secondo cui il Comune di
Rieti era ad esso succeduto nell'obbligo di pagare la retta di degenza alla data in cui il ricoverato
aveva ivi trasferito la propria residenza. La qualificazione di tale deduzione in termini d'eccezione
di risoluzione è perciò errata.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale, ribadita la natura contrattuale dell'obbligazione, ha negato il vizio di
ultrapetizione, denunciato dal Comune di Rieti sull'assunto che controparte non aveva formulato nè
eccezione, da intendersi in senso stretto, nè domanda di risoluzione del contratto. Ha sostenuto che
le parti, pur in mancanza d'espresso riferimento, avevano tenuto presente nella formazione del loro
consenso, in modo da costituire presupposto ad esse comune, il fatto che il S. fosse residente nel
Comune di Pescorocchiano.
Venuta meno tale condizione, l'accordo si era risolto.
Ciò premesso, è evidente che, ricostruita la vicenda fattuale sulla scorta delle circostanze narrate
dalle parti e sostanzialmente coincidenti, i giudici di merito hanno interpretato il dato nel senso che
la sua deduzione avesse introdotto eccezione dell'ente convenuto, che hanno quindi ricondotto, in
jure, al paradigma della presupposizione. In questa cornice l'assunto non si presta a critica poichè,
l'indagine diretta a stabilire se la situazione esaminata sia stata dai contraenti, nella formulazione del
consenso, tenuta presente secondo il delineato schema della "presupposizione" si esaurisce sul
piano propriamente interpretativo del contratto e costituisce, pertanto, una valutazione di fatto
riservata al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se sia immune da vizi logici e
giuridici.
La sintesi conclusiva che nella specie i giudei d'appello ne hanno tratto non è perciò fondata
sull'assunzione officiosa al thema disputandum di un'eccezione rimessa esclusivamente al potere
dispositivo della parte interessata, bensì sull'interpretazione di una circostanza di fatto, ritualmente
introdotta nelle difese di parte convenuta, sulla quale, formatosi regolarmente il contraddittorio,
parte attrice ha potuto interloquire, spiegando a riguardo ogni opportuna replica. In ragione di ciò
non hanno senso i richiami al rilievo non officioso della presupposizione, indiscutibile e certamente
condivisibile - per tutte Cass. nn. 2108/2000, 6631/2006. L'approdo si fonda sulla qualificazione
giuridica, ritenuta corretta in linea di stretto diritto, di un fatto acquisito al processo nella corretta
dialettica tra domanda ed eccezione; è pertanto immune dal vizio denunciato.
Col secondo motivo, che denuncia violazione dell'istituto della presupposizione e correlato vizio di
motivazione sul punto, il ricorrente illustra la costruzione dogmatica dell'istituto controverso e le
finalità tese all'equilibrio patrimoniale che ne legittimano l'operatività nell'ambito del rapporto
contrattuale, e, anche con riferimenti a precedenti di questa Corte, ne richiama il tratto indefettibile,
rappresentato dalla comune consapevolezza dell'evento supposto. Deduce difetto di motivazione a
tal riguardo, osservando che il giudice d'appello non avrebbe chiarito per quale ragione la casa di
28
cura M.P. fosse consapevole che la residenza del S. costituisse presupposto di validità ed efficacia
del negozio per il Comune di Pescorocchiano ed ha attribuito rilievo al fatto che il Comune di Rieti
pagò la retta di degenza in concomitanza col cambio di residenza del S., senza nulla eccepire.
Anche questo motivo è infondato.
La decisione impugnata ha sottolineato il fatto che per circa sei anni il Comune di Rieti ha sostenuto
i costi della degenza, senza nulla obiettare. Seppur con scarna motivazione, la Corte territoriale ha
recuperato e valorizzato, applicandolo correttamente, l'antico istituto del domicilio di soccorso,
operante ratione temporis, che, introdotto dalla L. 17 luglio 1809, n. 6972, ed ormai abrogato dalla
L. 8 novembre 2000, n. 328, art. 30, regolava le spese per l'assistenza ed il ricovero dei meno
abbienti, individuando i Comuni aventi "l'obbligo di provvedere al ricovero stabile presso strutture
residenziali dei soggetti in grave disagio" in quelli entro il cui territorio si trovava il domicilio della
persona bisognosa d'assistenza. L'art. 72 della legge citata prevedeva che il domicilio di soccorso si
acquistava se il povero avesse dimorato in un Comune per più di cinque anni e si perdeva con
l'acquisto di altro domicilio di soccorso.
Tale ultima condizione, accertata in causa in senso incontrovertibile per aver il S. spostato la
propria residenza nel Comune di Rieti dal 1 gennaio 1988, ha svolto nell'individuazione dell'ente
tenuto all'adempimento dell'obbligo di provvedere al regolamento economico il ruolo decisivo che
in sostanza è tipico proprio della presupposizione, dovendo suddetta condicio juris, per sua stessa
natura, ritenersi a conoscenza delle parti contraenti. La residenza del soggetto in stato di bisogno,
parametro legale d'individuazione dell'ente tenuto all'onere del pagamento della retta di degenza,
non poteva essere ignorata dal Comune di Pescorocchiano, all'epoca in cui si assunse l'obbligo di
sostenere le spese del ricovero del suo cittadino presso la casa di cura, anzi ne rappresentò il
presupposto indefettibile, nè tanto meno era sconosciuta dal Comune di Rieti, ed ha perciò assunto
valore dirimente.
In questa chiave, la decisione impugnata non necessitava di ulteriore o meglio argomentato tessuto
motivazionale. Il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 1467 c.c., e lamenta
che la ravvisata presupposizione non giustifica l'automatica risoluzione del contratto, erroneamente
pronunciata dalla Corte territoriale che avrebbe omesso di delibare sulla sussistenza di tale
requisito.
Anche questo motivo devesi dichiarare infondato.
La Corte territoriale non ha trascurato di prendere in esame il profilo funzionale del rapporto, e
proprio in questa prospettiva ha correttamente considerato, in linea di diritto, che il venir meno del
presupposto fondante l'obbligazione assunta dal Comune di Pescorocchiano configurava una causa
di scioglimento del rapporto obbligatorio, attesa l'impossibilità della sua prosecuzione.
La presupposizione, o meglio la condizione non svolta ma tenuta presente dagli originar contraenti,
per la quale il contratto ebbe a fondarsi sulla base dell'indicata "situazione di fatto" assurta a
presupposto della volontà negoziale, ove venga a mancare comporta appunto la caducazione del
contratto stesso.
Il ricorso va, pertanto, integralmente respinto.
Non vi è luogo alla pronuncia sulle spese in assenza d'attività difensiva dell'intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
29
LA CLAUSOLA PENALE
Cass., Sez. Unite, 13 Settembre 2005, n. 18128
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente Aggiunto
Dott. PRESTIPINO Giovanni - Presidente di Sezione
Dott. SENESE Salvatore - Presidente di Sezione
Dott. PAOLINI Giovanni - Consigliere
Dott. ELEFANTE Antonino - Consigliere
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Consigliere
Dott. LO PIANO Michele - rel. Consigliere
Dott. EVANGELISTA Stefanomaria - Consigliere
Dott. SETTIMJ Giovanni - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
SIDOTI Gaetano elettivamente domiciliato in ROMA, VIA, FLAMINIA 109, presso lo studio
dell'avvocato BERTOLONE Biagio che lo rappresenta e difende, giusta delega a margine del
ricorso;
- ricorrente contro
CONDOMINIO DI VIA ISCHIA DI CASTRO 25 FABB 3 - ROMA;
- intimato avverso la sentenza n. 19880/99 del Tribunale di ROMA, depositata il 21/10/99;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23/06/05 dal Consigliere Dott.
Michele LO PIANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PALMIERI Raffaele che ha
concluso per l'accoglimento del primo motivo del ricorso, accoglimento per quanto di ragione dei
successivi.
Svolgimento del processo
Il condominio di Via Ischia di Castro, in Roma, convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace, il
condomino Gaetano Sidoti e ne chiese la condanna al pagamento della somma di lire 3.562.355, a
titolo di sanzione pecuniaria, dovuta, in base agli artt. 18 e 23 del regolamento condominiale, per il
mancato pagamento di lire 1.045.281, dovute per spese di condominio.
Il Sidoti chiese il rigetto della domanda, sostenendo che le clausole del regolamento comportavano
l'obbligo di corrispondere un interesse usurario per il ritardato pagamento dei ratei relativi alle spese
condominiali e, in via riconvenzionale, chiese che dette clausole fossero dichiarate nulle.
Il Giudice di pace accolse la domanda, osservando che le norme del regolamento erano legittime ed
erano state liberamente accettate dal Sidoti.
30
Questi propose appello insistendo perchè fossero dichiarate nulle le norme del regolamento ai sensi
dell'art. 1815, secondo comma, cod. civ., applicabile in tutte "le convenzioni di interessi" e "quindi
anche in quelle contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale". Chiese anche che
le suddette clausole fossero dichiarate nulle, perchè prevedevano che la sanzione fosse applicata per
il mancato pagamento dei ratei entro venti giorni dall'approvazione del bilancio preventivo senza
una formale messa in mora.
Il condominio non si costituì in giudizio.
Il Tribunale di Roma respinse l'appello, osservando:
che alla fattispecie in esame non era applicabile il disposto del secondo comma dell'art. 1815 cod.
civ. perchè le somme dovute dal condomino, per il caso di ritardo nell'adempimento dell'obbligo di
corrispondere i ratei condominiali, non erano interessi pattuiti per la ritardata restituzione di un
prestito di denaro, ma erano oggetto di una penale, contenuta nel regolamento di natura contrattuale
debitamente trascritto, con la quale era pattiziamente determinato il risarcimento dovuto in caso di
inadempimento o ritardo nell'adempimento;
che la penale sarebbe potuta essere diminuita dal giudice ove il condomino ne avesse fatto richiesta,
non potendo il giudice provvedere d'ufficio;
che non era necessaria, al fine della decorrenza dell'obbligo del pagamento della somme dovute a
titolo di penale, la messa in mora del condomino, poichè era lo stesso regolamento di condominio a
prevedere la mora ex re e che tale previsione era conforme al disposto dell'art. 1219, secondo
comma, cod. civ..
Gaetano Sidoti ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta sentenza.
Il condominio intimato non ha svolto attività difensiva.
La causa è stata assegnata alla seconda sezione civile di questa Corte, che, con ordinanza del 30
marzo 2004, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alla Sezioni
Unite, avendo ravvisato l'esistenza di un contrasto, all'interno delle sezioni semplici, in ordine al
potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale ai sensi dell'art. 1384 cod. civ. (questione dedotta
con il primo motivo del ricorso).
Il Primo Presidente ha assegnato la causa alle sezioni unite per la risoluzione del contrasto.
Motivi della decisione
1. All'esame dei motivi occorre premettere che il Tribunale ha qualificato come clausola penale la
sanzione prevista, negli artt. 18 e 23 nel regolamento di natura contrattuale, a carico dei condomini
inadempienti nel pagamento dei contributi dovuti.
Tale qualificazione non è posta in discussione dalle parti ed anzi il ricorrente su detta qualificazione
poggia il motivo di ricorso, con il quale denuncia come erronea la decisione del giudice di merito
nella parte in cui ha negato che il giudice possa ridurre d'ufficio la penale.
Pertanto, il ricorso deve essere esaminato da questa Corte sulla base di tale avvenuta qualificazione.
2. E' preliminare l'esame del secondo motivo, perchè con esso si deduce la nullità della clausola
penale, cosicchè se la censura fosse fondata cadrebbe la necessità di esaminare il primo motivo, con
il quale la sentenza impugnata è censurata, invece, per avere negato il potere del giudice di ridurre
la penale in assenza di una richiesta di parte.
3. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione ed erronea applicazione dell'art 1815, secondo
comma, cod. civ. e difetto di motivazione in relazione all'art 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
Si deduce che - non contestata l'usurarietà del tasso di interesse previsto nella penale - "la cd.
funzione calmieratrice prevista dall'art. 1815 cod. civ., come modificato dalla legge 7 marzo 1996
n. 108, trova applicazione sempre, allorquando ricorra nel contratto un vantaggio usurario, quale
che sia il rapporto obbligatorio sottostante, creandosi in caso contrario una indebita sperequazione
nel trattamento delle clausole penali e delle clausole fissanti tassi di interessi moratori, che altro non
31
sono che una sanzione per il mancato pagamento nei tempi stabiliti della obbligazione pecuniaria".
4. La censura è infondata.
Il ricorrente, sostanzialmente, invoca l'applicazione dei criteri fissati dalla legge 7 marzo 1996 n.
108 per attribuire carattere usurario alla somma dovuta in forza della penale pattuita.
Senonchè - a prescindere da ogni altro rilievo in ordine alla esattezza o meno della tesi prospettata il ricorrente non considera che i criteri fissati dalla legge n. 108 del 1996, per la determinazione del
carattere usurario degli interessi, non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori
all'entrata in vigore della stessa legge, come emerge dalla norma di interpretazione autentica
contenuta nell'art. 1, primo comma, d.l. 29 dicembre 2000 n. 394 (convertito, con modificazioni,
nella l. 28 febbraio 2001 n. 24), norma riconosciuta non in contrasto con la Costituzione con
sentenza n. 29 del 2002 Corte cost (principio ripetutamente affermato da questa Corte: v., tra le più
recenti, Cass. 25 marzo 2003 n. 4380; Cass. 13 dicembre 2002 n. 17813; Cass. 24 settembre 2002 n.
13868).
Ora poichè, come è pacifico, la convenzione alla quale il ricorrente attribuisce natura usuraria, è
anteriore alla entrata in vigore della legge 7 marzo 1996 n. 108, già per questa sola ragione la sua
disciplina non le si può applicare e pertanto appare superfluo l'esame del problema relativo alla
trasponibilità della disciplina dell'art. 1815 cod. civ. ad una clausola, come quella oggetto della
presente controversia, che trae origine da un rapporto in cui non è identificabile una causa di
finanziamento.
5. Con il primo motivo del ricorso si denuncia; Violazione ed erronea applicazione degli artt. 1382
e 1384, cod. civ. - Difetto di motivazione. Il tutto in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ..
Si deduce l'erroneità dell'assunto del Tribunale in ordine alla ritenuta non riducibilità d'ufficio della
penale e si richiama a sostegno della censura la sentenza n. 10511/99 di questa Corte.
6. La censura pone il problema se il potere di ridurre la penale, conferito al giudice dall'art. 1384
cod. civ., possa essere esercitato d'ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della
parte tenuta al pagamento.
6.1. Il dato normativo, come detto, è costituito dall'art. 1384 cod. civ. secondo cui "La penale può
essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero
se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il
creditore aveva all'adempimento".
6.2. Fin dall'entrata in vigore del codice civile del 1942, la giurisprudenza della Corte di Cassazione
è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere
esercitato d'ufficio, pur manifestando nell'ambito di questo orientamento, notevoli oscillazioni in
ordine al modo ed ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto esercitare il loro riconosciuto dovere di
sollecitare la pronuncia del giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazione poi superata
dalla successiva prevalente giurisprudenza, a ritenere che la richiesta di riduzione della penale
dovesse ritenersi implicita nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo.
Tale orientamento è stato, tuttavia, posto in discussione dalla sentenza n. 10511/99 di questa Corte,
la quale ha, invece, ritenuto che la penale possa essere ridotta dal giudice anche d'ufficio.
Questo nuovo orientamento non ha però trovato seguito nella successiva giurisprudenza della Corte,
che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/03 che ad esso si è adeguata) ha ribadito l'orientamento
tradizionale, con le sentenze n. 5324/03, n. 8813/03, n. 5691/02, n. 14172/00.
6.3. Queste sezioni unite, chiamate a risolvere il richiamato contrasto, ritengono di dover
confermare il principio affermato dalla sentenza n. 10511/99, cui si è adeguata la sentenza n.
8188/03.
6.4 Non vi è dubbio che la svolta operata dalla sentenza n. 10511/99 è stata influenzata da due
concorrenti elementi.
Il primo relativo al riscontro nella giurisprudenza, che fino ad allora aveva negato il potere del
giudice di ridurre d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto che, in alcune delle
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pronunzie, l'ossequio al principio tradizionale appariva solo formale, poichè si giungeva talvolta a
ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte di nulla dovere a titolo di penale
ovvero l'eccezione relativa proponibile in appello.
Il secondo fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di
una rilettura degli istituti co- distici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione,
individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un
principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme
ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 cod.
civ.).
6.5. Quanto al primo elemento sopra ricordato, non v'è dubbio che le variegate posizioni assunte
dalla giurisprudenza, in ordine ai tempi ed ai modi in cui la richiesta di riduzione della penale debba
avvenire ed alle ragioni per le quali la stessa possa essere richiesta, denotano quanto meno una
debolezza dei fondamenti giuridici sui quali si basa la tesi della non riducibilità d'ufficio della
penale, nonchè una implicita contraddittorietà, individuabile specie in quelle pronunce le quali
affermano che la norma dell'art. 1384 cod. civ. - che attribuisce al giudice il potere di diminuire
equamente la penale - non ha la funzione di proteggere il contraente economicamente più debole
dallo strapotere del più forte, bensì mira alla tutela e ricostituzione dell'equilibrio contrattuale,
evitando che da un inadempimento parziale o, comunque, di importanza non enorme, possano
derivare conseguenze troppo gravi per l'inadempiente (v. Cass. 6 aprile 1978 n. 1574), ovvero
ritengono che la riduzione della penale, per effetto di parziale adempimento dell'obbligazione, a
norma dell'art. 1384 cod. civ., non integra un diritto del debitore, ma è rimessa all'equa valutazione
del giudice, in relazione all'interesse del creditore al tempestivo ed integrale adempimento (v. Cass.
7 luglio 1981 n. 4425).
6.6. Quanto al secondo elemento non può che condividersi la necessità di una lettura della norma di
cui all'art. 1384 cod. civ. che meglio rispecchi l'esigenza di tutela di un interesse oggettivo
dell'ordinamento alla luce dei principi costituzionali richiamati.
6.7. Naturalmente una lettura di questo tipo, consentita dal fatto che l'art. 1384 cod. civ. non
contiene alcun riferimento ad un'iniziativa della parte rivolta a sollecitare l'esercizio del potere di
riduzione da parte del giudice, non può prescindere dalla necessità di sottoporre a vaglio le
argomentazioni addotte dalla giurisprudenza che ritiene necessaria quella iniziativa e di verificare
nel contempo se sussistano altre ragioni, che consentano quella lettura della norma adeguata ai
principi costituzionali posti bene in luce dalla sentenza n. 10511/99. 6.8. Gli argomenti addotti dalla
giurisprudenza che nega il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale sono principalmente tre.
6.8.1. Il primo argomento si fonda sul principio generale, al quale l'art. 1384 cod. civ. non
derogherebbe, secondo cui il giudice non può pronunciare se non nei limiti delle domanda e delle
eccezioni proposte dalle parti.
Senonchè questo argomento non appare decisivo e sembra fondarsi sull'assunto della esistenza di un
fatto che è, invece, da dimostrare.
Occorre partire dal testo dell'art. 112 cod. proc. civ., secondo cui "Il giudice deve pronunciare su
tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che
possono essere proposte soltanto dalle parti".
Ora, il giudice che riduca l'ammontare della penale, al cui pagamento il creditore ha chiesto che il
debitore sia condannato, non viola in alcun modo la prima proposizione del richiamato art. 112 cod.
proc. civ., atteso che il limite postogli dalla norma è, in linea generale, che egli non può condannare
il debitore ad una somma superiore a quella richiesta, mentre può condannarlo al pagamento di una
somma inferiore.
Ma l'art. 112 cod. proc. civ. dispone anche che il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni
che possono essere proposte soltanto dalle parti.
La norma lascia intendere che vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche
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eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili d'ufficio.
Se così è, allora, il problema della riducibilità della penale non è risolto dall'art. 112 cod. proc. civ.,
ma dalla risposta al quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una eccezione che può essere
proposta soltanto dalla parte.
Nel codice civile sono espressamente individuate varie ipotesi di eccezioni proponibili soltanto
dalla parte; in via esemplificativa:
art. 1242, primo comma, cod. civ. - eccezione di compensazione; art. 1442, comma quarto, cod. civ.
- eccezione di annullabilità del contratto, quando è prescritta l'azione; art. 1449, secondo comma,
cod. civ. - eccezione di rescindibilità del contratto, quando l'azione è prescritta; art. 1460, primo
comma, cod. civ. - eccezione di inadempimento; art. 1495, terzo comma, cod. civ. - eccezione di
garanzia, nella vendita, anche se è prescritta l'azione; art. 1667, terzo comma, cod. civ. - eccezione
di garanzia, nell'appalto - anche se l'azione è prescritta; art. 1944, secondo comma, cod. civ. eccezione di escussione da parte del fideiussore; art. 1947, primo comma, cod. civ. - beneficio della
divisione nella fideiussione; art. 2938 cod. civ. - eccezione di prescrizione; art. 2969 cod. civ. eccezione di decadenza, "salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il
giudice debba rilevare le cause d'improponibi-lità dell'azione".
L'art. 1384 cod. civ., al contrario delle ipotesi sopra indicate, non fa alcuna menzione della necessità
della eccezione della parte o, quantomeno, della necessità che il giudice debba essere sollecitato ad
esercitare il potere di riduzione della penale conferitogli dalla legge.
Il silenzio della norma sul punto non depone certamente a favore della tesi secondo cui la riduzione
della penale debba essere chiesta dalla parte, ma fa propendere, se mai, a favore della tesi contraria,
specie se si guardi ad altre previsioni del codice civile nelle quali l'intervento del giudice è visto in
finizione correttiva della volontà manifestata dalle parti, (v. Cass. sez. un. 17 maggio 1996 n. 4570,
che espressamente parla di "funzione correttiva" del giudice, non solo nell'ipotesi della riduzione
della penale manifestamente eccessiva (art. 1384 cod. civ.), ma anche nei casi di riduzione
dell'indennità dovuta per la risoluzione della vendita con riserva di proprietà (art. 1526 cod. civ.) e
di riduzione della posta di giuoco eccessiva (art. 1934 cod. civ.).
6.8.2. Il secondo argomento addotto è che la riduzione della penale fissata dalle parti è prevista
dalla legge come istituto a tutela degli specifici interessi del debitore, al quale quindi deve essere
rimessa, nell'esercizio della difesa dei propri diritti, ogni iniziativa al riguardo ed ogni
consequenziale valutazione della eccessività della penale ovvero della sua sopravvenuta onerosità,
in relazione alla parte di esecuzione che il contratto ha avuto.
Anche questo argomento si fonda su un dato non dimostrato e cioè che l'istituto della riduzione
della penale sia predisposto nell'interesse della parte debitrice.
Intanto una affermazione di questo tipo appare contraddetta dall'osservazione che la penale "può"
ma non "deve" essere ridotta dal giudice, avuto riguardo all'interesse che il creditore aveva
all'adempimento; dal che si desume che non esiste un diritto del debitore alla riduzione della penale
e che il criterio che il giudice deve utilizzare per valutare se una penale sia eccessiva ha natura
oggettiva, atteso che non è previsto che il giudice debba tenere conto della posizione soggettiva del
debitore e del riflesso che sul suo patrimonio la penale può avere, ma solo dello squilibrio tra le
posizioni delle parti, mentre il riferimento all'interesse del creditore ha la sola funzione di indicare
lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno.
Ne discende che, pur sostanziandosi la riduzione della penale in un provvedimento che rende in
concreto meno onerosa la posizione del debitore e che deve essere adottato tenuto conto
dell'interesse che il creditore aveva all'adempimento, il potere di riduzione appare attribuito al
giudice non per la tutela dell'interesse della parte tenuta al pagamento della penale, ma, piuttosto, a
tutela di un interesse che lo trascende.
Del resto il nostro ordinamento conosce altri casi in cui l'intervento equitativo del giudice pur
risolvendosi in favore di una delle parti in contesa non è tuttavia predisposto specificamente per la
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tutela di un suo interesse.
Si pensi all'ipotesi in cui una delle parti abbia chiesto il risarcimento del danno in forma specifica; il
giudice, in questo caso, anche se l'esecuzione specifica sia possibile, ha tuttavia il potere di disporre
che il risarcimento avvenga per equivalente "se la reintegrazione in forma specifica risulta
eccessivamente onerosa per il debitore" (art. 2058 cod. civ.).
E' un potere che il giudice può esercitare pacificamente d'ufficio avuta presente l'obiettiva difficoltà
che il debitore può incontrare nell'eseguire la prestazione risarcitoria; la difficoltà, appunto perchè
obiettiva, non riguarda però la situazione economica del debitore, ma piuttosto l'esecuzione stessa
della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra danno, costo ed utilità.
L'onerosità per il debitore viene cioè in rilievo come metro di giudizio perchè il giudice possa
effettuare la sua valutazione e non come interesse tutelato dalla norma.
Si pensi ancora al potere attribuito al giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa se lo
stesso non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 cod. civ.), pacificamente
esercitatile indipendentemente dalla richiesta delle parti.
Già, quindi, dall'esame critico della giurisprudenza maggioritaria, emergono elementi per affermare
che il potere di riduzione della penale è concesso dalla legge al giudice per fini che prescindono
dalla tutela dell'interesse della parte, che al pagamento della penale sia tenuta per effetto del suo
inadempimento o ritardato a- dempimento.
6.8.3. Il terzo argomento addotto dalla giurisprudenza prevalente è che il giudice, nell'esercizio dei
poteri equitativi diretti alla determinazione dell'oggetto dell'obbligazione della clausola, non
dispone di altri parametri di giudizio che di quelli dati dai contrapposti interessi delle parti al fine
esclusivo di verificare se l'equilibrio raggiunto dalle parti stesse, nelle preventiva determinazione
delle conseguenze dell'inadempimento, sia equo o sia rimasto tale.
Ma anche questo argomento non appare decisivo ove si consideri che la mancata allegazione (o la
impossibilità di riscontri negli atti acquisiti) della eccessività della penale incide sul piano fattuale
dell'accertamento della sussistenza delle condizioni per la riduzione della penale medesima, ma non
sull'esercizio officioso del potere del giudice.
In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può
dichiarare d'ufficio purchè risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n.
4062/87), senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali
manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e più di recente Cass. n.
1552/04, secondo cui "La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421
cod. civ. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso,
dovendo invece detta nullità risultare "ex actis", ossia dal materiale probatorio legittimamente
acquisito al processo, essendo i poteri officiosi del giudice limitati al rilievo della nullità e non
intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa", nonchè da ultimo Cass.
sez. un. 4 novembre 2004 n. 21095. 6.8.4. Sembra, quindi, che nessuno dei tre argomenti prospettati
dalla giurisprudenza maggioritaria sia decisivo per la soluzione del quesito oggetto del contrasto,
mentre, come in parte anticipato, vi sono argomenti che appaiono sufficientemente probanti a
sostegno della tesi fin qui minoritaria, i quali assumono una valenza decisiva alla luce dei principi
costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/99. 6.9. Poichè nella discussione sull'esistenza
del potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale è stato spesso introdotto il tema dell'autonomia
contrattuale è bene prendere le mosse proprio da tale punto.
L'art. 1322 cod. civ. - la cui rubrica è appunto intitolata all'autonomia contrattuale - attribuisce alle
parti:
a) il potere di determinare il contenuto del contratto;
b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.
Nel primo caso l'autonomia delle parti deve svolgersi "nei limiti imposti dalla legge", nel secondo
caso la libertà è limitata per il fatto che il contratto deve essere diretto "a realizzare interessi
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meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico".
La legge, quindi, nel riconoscere l'autonomia contrattuale delle parti, afferma che essa ha comunque
dei limiti.
L'osservanza del rispetto di tali limiti è demandato al giudice, che non può riconoscere il diritto
fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia
diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico.
L'intervento del giudice in tale casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla
legge.
Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato l'istituto della clausola penale e,
tuttavia, le parti avessero introdotto in un contratto una clausola con tale funzione, il giudice,
chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna del debitore al pagamento della
penale pattuita per effetto dell'inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d'ufficio, un giudizio
sulla validità della clausola; giudizio che avrebbe potuto avere esito negativo, ove fosse stato
ravvisato un contrasto dell'accordo con principi fondamentali dell'ordinamento, ad esempio per il
fatto che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva.
In questo caso vi sarebbe stato un controllo d'ufficio sulla tutelabilità dell'accordo delle parti e, ove,
il controllo si fosse concluso negativamente la tutela non sarebbe stata accordata.
Nel nostro diritto positivo questo controllo non è necessario perchè l'istituto è riconosciuto e
disciplinato dalla legge (artt. 1382 e segg. cod. civ.).
Nel disciplinare l'istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all'autonomia delle
parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del
risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto
risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di
costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una
sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga
alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del
risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private.
Tuttavia, la legge, nel momento in cui ha ampliato l'autonomia delle parti, in un campo
normalmente riservato alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un potere di controllo sul
modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia.
Così operando, la legge ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della
conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase
formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale
- alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale i
non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per
effetto del parziale adempimento.
Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre
l'accordo ad equità.
Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di
una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella
della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla
legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non
conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in
sostituzione di quella pattizia, non è possibile perchè non può essere determinata in anticipo la
prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel
contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti
utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non
ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il
potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia
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eccessiva, ma che lo sia "manifestamente", ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua
originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione.
In tale senso inteso, il potere di controllo appare attribuito al giudice non nell'interesse della parte
ma nell'interesse dell'ordinamento, per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i
quali la tutela delle posizioni soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non
toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della
funzione primaria cui assolve la norma.
Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un
limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non
prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla
norma, con riferimento al principio di equità.
Se così non fosse, apparirebbe quanto meno singolare ritenere, sicuramente con riferimento
all'ipotesi di penale manifestamente eccessiva, in presenza di una clausola valida (si ricordi che è
valida la clausola ancorchè manifestamente eccessiva), che l'esercizio del potere del giudice di
riduzione della penale debba essere condizionato alla richiesta della parte, quasi che, a questa, fosse
riconosciuto uno jus poenitendi, e, quindi la facoltà di sottrarsi all'adempimento di un'obbligazione
liberamente assunta (quella appunto del pagamento di una penale che fin dall'origine si manifestava
come eccessiva).
Se si considera che il potere di riduzione della penale può essere esercitato solo in presenza di una
clausola che sia valida (e quindi esente da vizi che ne determino la nullità o l'annullabilità) più
coerente appare allora qualificare detto potere come officioso nel senso sopra specificato, di
riconduzione dell'accordo, frutto della volontà liberamente manifestata dalle parti, nei limiti in cui
esso appare meritevole di ricevere tutela dall'ordinamento.
Non è privo di significato il fatto che la giurisprudenza, pur affermando la tesi della necessità della
domanda o eccezione della parte al fine di sollecitare il potere di riduzione affidato al giudice, non
ha potuto tuttavia non riconoscere (come del resto la quasi unanime dottrina) la natura inderogabile
della disposizione di cui all'art. 1384 cod. civ., attributiva al giudice del potere di ridurre la penale,
riconoscendo che essa è posta principalmente a salvaguardia dell'interesse generale, per impedire
sconfinamenti oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, (v. in tal senso Cass. 4 febbraio
1960 n. 163 e successivamente, in modo conforme circa la natura inderogabile della norma, Cass.
sez. un. 5 dicembre 1977 n. 5261; Cass. 7 agosto 1992 n. 9366; Cass. 29 marzo 1996 n. 2909; Cass.
5 novembre 2002 n. 15497 - queste ultime tre in motivazione), in tale modo riconoscendo
l'esistenza dei presupposti per un intervento officioso del giudice, non tanto per la tutela di interessi
individuali, ma piuttosto per una funzione correttiva di riequilibrio contrattuale (se si vuole
privilegiare la tesi della natura risarcitoria della penale) ovvero di adeguatezza della sanzione (se si
vuole privilegiare la tesi della funzione sanzionatoria).
Aspetto quest'ultimo particolarmente sottolineato da Cass. 24 aprile 1980 n. 2749, secondo cui il
potere conferito al giudice dall'art. 1384 cod. civ. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è
fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui
opera il riconoscimento di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un
congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore
all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle
prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale.
Pare, quindi, a queste sezioni unite, che la lettura della norma interessata, svolta nel quadro dei
principi generali dell'ordinamento e dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n.
10511/99, consenta di giungere alla conclusione che il potere del giudice di ridurre la penale possa
essere esercitato d'ufficio, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con
riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perchè l'obbligazione principale è stata in parte
eseguita, giacchè in quest'ultimo caso, la mancata previsione da parte dei contraenti di una
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riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione, si traduce comunque in
una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.
7. E' questa lettura della norma che porta ad affermare il principio che "il potere di diminuire
equamente la penale, attribuito dall'art. 1384 cod. civ. al giudice, può essere esercitato anche
d'ufficio". 8. In questi termini deve essere accolto il secondo motivo del ricorso con rinvio della
causa ad altra sezione del Tribunale di Roma che si atterrà al principio sopra enunciato.
9. E' di conseguenza assorbito il terzo motivo, con il quale, denunciandosi: Violazione ed erronea
applicazione degli arti 91 e 92 cod. proc. civ., e difetto di motivazione in relazione all'art. 360 nn. 3
e 5 cod. proc. civ., si deduce che in conseguenza della fondatezza delle tesi esposte dal ricorrente le
spese del giudizio di merito (primo e secondo grado) sarebbero dovute essere poste a carico del
condominio.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il secondo motivo del ricorso, accoglie il primo
motivo e dichiara assorbito il terzo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per la
regolamentazione delle spese di questo giudizio di Cassazione, ad altra sezione del Tribunale di
Roma.
Così deciso in Roma, il 23 giugno 2005.
Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2005 .
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