I PROBLEMI NON SCIENTIFICI? NON HANNO ALCUN SIGNIFICATO. Introduzione al neo positivismo Negli anni '20 e '30 in Austria prima e poi nei Paesi anglosassoni, si sviluppa la scuola neopositivistica (chiamata anche neo-empirista o positivismo logico). Il punto di irradiazione è il Circolo di Vienna (Wiener Kreis, in tedesco). Gli esponenti di primo piano: il fisico e filosofo Moritz Schlick appena chiamato a coprire la cattedra di filosofia delle scienze induttive dell'università di Vienna, il matematico Hans Hahn, il sociologo ed economista Otto Neurath e Rudolf Carnap. Il manifesto del Circolo di Vienna è del '29. Il punto cardine: la distinzione tra proposizioni "sensate" e proposizioni prive di significato. Il criterio di distinzione? Il “principio di verificazione”: ha significato solo una proposizione empiricamente verificabile (verificabile facendo, cioè, ricorso all'esperienza). Cosa ne dici? Mi pare un principio sacrosanto, in sintonia con l'empirismo e con lo stesso Kant: che senso hanno proposizioni (quali le questioni metafisiche) che non hanno alcuna possibilità di soluzione in quanto il loro contenuto non rientra nell'orizzonte dell'esperienza? Il riferimento all'empirismo è grosso modo corretto. In particolare è Hume che sostiene che debbano essere messi al rogo tutti i libri che hanno come oggetto problemi metafisici. L'empirismo, comunque, non fa del principio di verificazione un criterio di "significanza”. E Kant? Kant nega valore conoscitivo alla metafisica anche se poi recupera tale metafisica in sede morale (come un'esigenza della legge morale che vi è in ogni uomo). Sulla base del principio di verificazione tutti i grandi problemi che hanno travagliato la storia del pensiero umano - sull'esistenza di Dio, sull'immortalità dell'anima, sulle leggi morali, sulla religione... - sono privi di significato. Si tratta di pseudo questioni (Scheinfragen, in tedesco) che si fondano su pseudo-concetti. Cosa ne dici? Mi sembra una bella pretesa quella di liquidare le grandi questioni che si è posto l'uomo come prive di significato. Perché mai l'interrogativo che mi pongo sull'esistenza di Dio - interrogativo che mi tormenta, interrogativo la cui risposta ha tanta importanza per dare un senso alla mia vita - dovrebbe essere considerato un interrogativo senza significato? E' questa la critica espressa in modo particolare da Karl Popper: le proposizioni metafisiche non sono sicuramente scientifiche, ma non per questo devono essere considerate prive di significato. E', indubbio, in altre parole, che chi si pone questioni metafisiche, tali questioni hanno - eccome - un significato per lui. Il neopositivismo, indubbiamente, sferra l'attacco più duro alla metafisica: questa non viene criticata perché è priva di fondamento, perché è falsa, ma viene bandita perché le sue proposizioni non hanno alcun senso. La proposizione "Dio esiste" è una proposizione del tipo "Alessandro Magno è un quadrato", cioè priva di significato. E questo vale anche per una qualsiasi norma morale: "non uccidere", non potendo essere empiricamente verificabile, non ha significato. In altre parole una proposizione ha significato solo se si può accertare che è vera (in questo caso è "verificata") o che è falsa (in questo caso è "falsificata"). E come si può accertare? Solo sulla base di "fatti" dell'esperienza. All'interno di questa logica, quindi, i metafisici non dicono nulla: esprimono solo dei sentimenti (Schlick li chiama degli "attori", Carnap dei "musicisti senza talento musicale"). La metafisica può essere vista anche come una malattia del linguaggio, una malattia che deriva dalla pretesa di oltrepassare le colonne d'Ercole dell'esperienza. Ora, sulla base del principio di verificazione, quali sono le proposizioni sensate? Ovviamente le proposizioni scientifiche. Naturalmente non solo queste: anche la proposizione "adesso piove" è una proposizione empiricamente verificabile. Ovviamente le proposizioni scientifiche sono quelle che - per la ricchezza dei loro contenuti - contano di più. E cosa dici delle proposizioni matematiche? Credo che debbano essere considerate come prive di significato: dove sarebbe, in questo caso, la verifica sperimentale? Si tratta di proposizioni prive di significato nel senso che non parlano di niente, o meglio non indicano alcun contenuto empirico (fattuale) e quindi non possono essere verificate o falsificate. Si tratta di proposizioni che, a differenza di quelle metafisiche, sono sempre "vere". E sono sempre vere perché sono solo "trasformazioni logiche" (ci si riferisce qui non solo alle proposizioni matematiche, ma anche a quelle logiche), formule logiche, cioè formali (vuote di realtà). Il neopositivismo riprende quindi la concezione humiana: le proposizioni logico-matematiche sono tautologiche in quanto non dicono nulla di reale. Da quanto detto ti sei reso conto dell'attenzione che i neopositivisti prestano al "linguaggio" (attenzione non presente nel positivismo ottocentesco). Per i neopositivisti la filosofia non ha altro compito che quello di analizzare il linguaggio e purificarlo da tutto ciò che lo inquina. La filosofia, quindi, non è una dottrina, ma un'attività: attività chiarificatrice del linguaggio. Si tratta, questa (che cioè la filosofia è un'attività chiarificatrice del linguaggio), di un'idea già avanzata da Ludwig Wittgenstein nel suo celebre "Tractatus logico-philosophicus" (del 1921), una delle opere più significative del XX secolo. E' questo un testo ampiamente letto e discusso dal Circolo di Vienna e che ha lasciato un'impronta nel Circolo stesso. Wittgenstein non è mai stato un "circolista", non è mai stato un neopositivista, ma ha indubbiamente influenzato questo movimento. La stessa idea-base del neopositivismo, cioè il principio di verificazione, è in qualche misura presente nel "Tractatus". La proposizione 42 recita: "Il senso della proposizione è il suo accordo o disaccordo con la possibilità dell'esistenza e non esistenza dei fatti atomici". Cosa sono i "fatti atomici"? Sono fatti dell'esperienza? Ma quali? Quelli di base. Un esempio? Il libro è sulla scrivania. "Libro" e "scrivania" non sono fatti atomici, ma sono "oggetti". Il fatto atomico è, quindi, costituito da oggetti in relazione tra loro. Più fatti tra loro collegati formano un "fatto molecolare" (ad esempio il libro è sulla scrivania che è nello studio). Ora il linguaggio ha significato se rappresenta fatti: gli enunciati "atomici" rappresentano fatti atomici e gli enunciati "molecolari" rappresentano fatti molecolari. E gli enunciati non sono che combinazione di "nomi" che raffigurano "oggetti". Il "senso", quindi di un enunciato dipende dalla possibilità di un accordo o meno con fatti atomici. Da qui la tesi di Wittgenstein secondo cui le grandi questioni metafisiche non sono false, ma semplicemente insensate. Ti stai rendendo conto, quindi, del grande influsso esercitato da Wittgenstein sul Circolo di Vienna (che mutua da lui anche la concezione tautologica delle proposizioni logiche). Tuttavia Wittgenstein non riduce tutto il sapere ai fatti atomici e molecolari oggetto della scienza. Per lui oltre la scienza "c'è veramente l'inesprimibile". Cosa ne dici? Mi pare che qui Wittgenstein scivoli nel misticismo, nell'irrazionalismo (qualcosa di incoerente per l'ispiratore del neopositivismo, per chi considera i problemi metafisici come insensati): cosa potrebbe esserci oltre i fatti atomici e molecolari e, quindi, oltre le proposizioni atomiche e molecolari? Un punto di vista legittimo. Questo è il punto di vista, ad esempio, dello stesso neopositivismo che ha preso le distanze dal "misticismo" presente nel Tractatus. Il termine "mistico" è usato dallo stesso Wittgenstein: "Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia" (prop. 6.44). La scienza cioè si limita a studiare il "come" è il mondo, ma non è in grado di spiegare perché il mondo è. E il perché appartiene all'inesprimibile, all'indicibile. Wittgenstein arriva a dire che, quand'anche la scienza dovesse rispondere a tutti gli interrogativi scientifici, non riuscirebbe a sfiorare nemmeno i problemi della nostra esistenza. E in una lettera scrive che quello che non ha scritto nel Tractatus - e non l'ha scritto perché indicibile, inesprimibile, è ciò che più conta nella vita. Riprendiamo l'analisi del neopositivismo. In seguito alle critiche rivolte al principio di verificazione vi è chi, all'interno del movimento, è protagonista di una svolta. Si tratta di Neurath e poi di Carnap. In che consiste la svolta? Viene abbandonato il riferimento all'esperienza (ai "fatti atomici", se vogliamo usare la terminologia di Wittgenstein): questo perché in ultima analisi l'esperienza è sempre la "mia" esperienza, non qualcosa di pubblico, valido per tutti. Se si vuole costruire un sapere scientifico, questo deve essere intersoggettivo, controllabile da tutti. Da qui la necessità di partire esclusivamente dal linguaggio: è solo questo (fatto di parole, suoni, segni, gesti... ) che ci consente di comunicare, di dialogare. Cosa ne dici? Mi sconcerta: come può essere scientifico un sapere che non ha a che fare con "fatti", ma solo con parole? La scienza non è un romanzo! Uno sconcerto più che legittimo. Lo stesso Schlick, uno dei padri del neopositivismo, si rifiuta di accettare una tesi del genere: per lui la scienza è sì un gioco di segni, ma si tratta sempre di un gioco che ha che fare con la natura. Per Neurath le proposizioni scientifiche non vanno valutate sulla base della loro "corrispondenza" con fatti dell'esperienza, ma sulla base della "coerenza" interna. Una proposizione è falsa, dunque, se non si accorda col sistema delle proposizioni universalmente accettato dalla comunità scientifica. Cosa ne dici? Non mi convince affatto: come nelle geometrie si pongono alla base delle proposizioni (definizioni, postulati) perché "evidenti" - proposizioni che per il loro essere alla base - sono di fatto privilegiate rispetto alle altre, così nelle scienze bisogna pure partire, per costruire un corpus di proposizioni scientifiche, da proposizioni che dovrebbero avere una maggior forza persuasiva delle altre e queste non possono che essere proposizioni che fanno leva sull'esperienza (o su esperimenti). Osservazioni pertinenti. Va chiarito che il fatto che le geometrie non euclidee hanno sostituito il quinto postulato di Euclide, dimostra che anche nella geometria nulla è considerato privilegiato, intoccabile. A proposito delle scienze gli stessi "fisicalisti" non negano l'opportunità di mettere, alla base del sistema, delle proposizioni che corrispondono all'esperienza. Si tratta, tuttavia, di proposizioni (chiamate "protocollari") che vengono messe alla base non perché corrispondono all'esperienza, ma perché sono universalmente accettate dalla comunità scientifica. Proprio perché il riconoscere delle proposizioni ("protocollari") come proposizioni di base da parte della comunità scientifica è un "fatto", nulla esclude che tale fatto muti e che quindi l'universale riconoscimento venga meno. Se ci si trova di fronte ad una contraddizione tra una proposizione protocollare ed un'altra proposizione, il superamento di detta contraddizione può essere effettuato sopprimendo una delle due, senza privilegi di sorta (sopprimendo, dunque, anche la proposizione protocollare). Le proposizioni protocollari non hanno alcun valore assoluto: del resto come potrebbero avere tale valore se si tratta di osservazioni registrate da uno scienziato? chi mi assicura che tale scienziato non abbia sbagliato a protocollare le sue osservazioni o abbia dato lo stesso significato che viene dato ora?). E non hanno neppure alcun privilegio. Neurath e Carnap propongono l'adozione del linguaggio della fisica non solo per le scienze classiche, ma anche per le cosiddette scienze dello spirito - vedi la psicologia e la psicologia -. Cosa ne dici? Mi pare una tesi più che legittima: si sa che la possibilità di trovare un accordo dipende dalla possibilità di misurare delle "quantità". Si tratta di un criterio - questo - nato con la stessa scienza: con Galileo, con Cartesio. Quando si ha a che fare con aspetti quantitativi (quindi misurabili), i margini di disaccordo tra gli uomini sono di fatto trascurabili. A proposito di linguaggio, Wittgenstein aveva avanzato nel suo "Tractatus" un'idea ancor più radicale: quella di creare ex novo un linguaggio perfetto, cioè puro, in altre parole un linguaggio costituito da simboli. Cosa ne dici? Mi pare un'idea geniale: solo con dei simboli e con regole di relazione tra simboli noi possiamo evitare gli equivoci dei linguaggi naturali. E' noto a tutti che le stesse parole (penso a termini che hanno un grosso impatto esistenziale-emotivo come "Dio") vengono usate spesso con significati o con sfumature di significati diverse da persona a persona, mentre nel caso di "simboli", questi avrebbero esclusivamente il significato univoco che noi decidiamo di dare loro. E' proprio questa l'esigenza avvertita da Wittgenstein: eliminare gli equivoci dei linguaggi naturali. L'esigenza di Wittgenstein ha dei precedenti: vedi, ad esempio, Leibniz che ha lanciato l'idea di usare dei simboli per esprimere delle relazioni logiche in modo da arrivare ad un "calcolo logico" e pensa anche allo stesso Aristotele che ricorreva a delle lettere per esprimere i sillogismi. E' un fatto che il neopositivismo - proprio per questa esigenza di un uso corretto del linguaggio - dà un grande impulso a quella che si chiama "logica simbolica". Se desideri tuffarti in questa logica, ti consiglio Ermanno Bencivenga, Il primo libro di logica, Introduzione ai metodi della logica contemporanea, Bollati Boringhieri, 1984. Abbiamo parlato della svolta di Neurath e di Carnap. Anche Wittgenstein, l'ispiratore del neopositivismo, ha la sua svolta (dopo il ritorno, nel 1929, all'università di Cambridge). Se per il primo Wittgenstein (quello del "Tractatus") il "senso" di una proposizione è il metodo stesso della sua verifica, per il secondo Wittgenstein (vedi le "Osservazioni filosofiche") si apprende il significato di una parola "mentre si vede come essa viene usata". E' una svolta di 180 gradi. Se il primo Wittgenstein spinge i neopositivisti a costruire un linguaggio perfetto, il secondo (col suo "principio d'uso") li spinge ad abbandonare questo progetto ambizioso. Cosa ne dici? Mi pare un'idea sensata: lo stesso bambino comprende i vari significati di una parola dal contesto linguistico, dai modi cioè con cui viene usata. E' il senso del discorso di Wittgenstein: le parole (la stessa parola) hanno significati diversi a secondo dell'uso che se ne fa. Si pensi ad esempio alla stessa parola usata in forma esclamativa o no. Per Wittgenstein le parole non servono solo a "denominare" degli oggetti: questa funzione di denominazione è solo una delle molteplici funzioni. Questa nuova attenzione al linguaggio (al significato del linguaggio che è dato dall’"uso”) non è, però, innocua. Anche per il secondo Wittgenstein i problemi filosofici non sono problemi. Perché? Perché se è vero che il significato di una parola è il suo uso, è anche vero che "l'uso ha delle regole". Cosa ne dici? Non vedo proprio perché i problemi filosofici non siano problemi: il significato dei termini filosofici - come del resto il significato dei termini scientifici - si coglie dall'uso che se ne fa. Non vedo, cioè, perché il principio dell'uso non possa valere per linguaggi diversi da quello naturale. Un'osservazione pertinente. Per il secondo Wittgenstein i filosofi non fanno altro che attribuire significati diversi (ad esempio si riferiscono ad "essenze") ai termini usati dal linguaggio naturale. I filosofi, cioè, non rispettano le regole dell'uso. Per il secondo Wittgenstein la metafisica è una "malattia" del linguaggio e il compito del filosofo è quello del terapeuta. Questi ha la funzione di eliminare i "crampi mentali" che hanno origine dalla confusioni dei giochi di lingua, di sbarazzarsi dallo "stregamento linguistico dell'intelletto". Wittgenstein dà sicuramente un grande impulso alla cosiddetta "filosofia del linguaggio" (o filosofia analitica: la filosofia è analisi del linguaggio e, tramite il linguaggio, del pensiero, della stessa realtà) che ha come centri Cambridge e Oxford. Gli oggetti: i linguaggi più disparati: da quello etico a quello estetico, da quello metafisico a quello religioso. Il movimento analitico non ha alcuna remora ad analizzare proposizioni metafisiche: per esso non sono né tautologiche né falsificabili, ma si tratta, comunque, di proposizioni che hanno un senso. Ciò che conta è non attribuire loro un valore "informativo": la filosofia non dà nuove informazioni, ma è solo "un modo di vedere" (new way of seeing") e svolge funzioni precise tra cui quella di rassicurare psicologicamente. Questo vale anche per le proposizioni religiose. Cosa ne dici? Mi pare di trovarmi di fronte ad una forte svalutazione della filosofia: capisco il ruolo rassicurante della religione, ma non vedo come si possa confondere il "modo di vedere" della religione con quello della filosofia (che è razionalmente argomentato). Un'osservazione legittima. Il movimento analitico inglese intende dire che la filosofia - al pari della religione - non dà nuove informazioni (non ci presenta nuove esperienze), ma è solo un modo di vedere le stesse cose. Siamo lontani dalla prospettiva antimetafisica del Circolo di Vienna: la metafisica, è vero, non dà informazioni, ma è, comunque, un "nuovo modo di vedere" (un Blik), un nuovo modo di guardare la totalità del reale, una donazione di senso al Tutto, l'invenzione di nuovi schemi intellettuali che fanno violenza al linguaggio ordinario. Si tratta di un nuovo modo di guardare che o si accetta o si rifiuta: solo se lo si accetta, hanno senso termini come "verità", "prova"... Cosa ne dici? Ho l'impressione di trovarmi qui ad una immagine positiva del filosofo: il filosofo come riformatore, addirittura rivoluzionario. Infatti. Waismann, ad esempio, dice: "Ciò che è tipico della filosofia è lo sfondamento della morta incrostazione della tradizione e delle convenzioni, la rottura delle catene che ci legano ai preconcetti che abbiamo ereditato dal passato, in modo che si possa ottenere una nuova e più potente visione delle cose” (Analisi linguistica e filosofia, Roma, 1970, pag. 40).