I secoli e gli uomini che fecero l`Impero

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Rinaldo Petrignani
I secoli
e gli uomini
che fecero
l’Impero
Una storia della grandezza di Roma
Gli specchi Marsilio
Rinaldo Petrignani
I secoli
e gli uomini
che fecero
l’Impero
Una storia della grandezza di Roma
Marsilio
© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2012
ISBN 978-88-317-3431-8
www.marsilioeditori.it
[email protected]
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
In memoria di mio nonno
Prof. Antonio Petrignani
Archeologo al Foro Romano
Il governo della nobilitas senatoriale nel
II sec. a.C. Gli Scipioni. Tito Quinzio Flaminino.
Claudio Marcello. Paolo Emilio. Cecilio Metello.
Marco Porcio Catone. Lucio Mummio.
Scipione Emiliano
Il decadente mondo ellenistico all’inizio del II sec. a.C. e il
suo fascino su Roma. Publio Cornelio Scipione amico e
patrono del poeta Ennio. Il filoellenico Flaminino e la sua
vittoria a Cinocefale nel 197 contro Filippo V di
Macedonia. Guerre in Spagna contro i Celtiberi e in Gallia
Cisalpina contro Insubri, Boi e Liguri. Vittoria di Lucio
Cornelio Scipione a Magnesia nel 189 contro Antioco
il Grande di Siria: espansione di Roma in Asia. Catone il
Censore e la sua tristis et aspera in omnes ordines censura.
Il poeta Gneo Nevio. Successi di Tiberio Sempronio Gracco
in Spagna nel 179-178. Vittoria di Emilio Paolo a Pidna
nel 168 contro re Perseo di Macedonia. Distruzione di
Cartagine nel 146 a opera di Scipione Emiliano. Eroica fine
a Leucopetra dell’indipendenza della Grecia pure nel 146.
Distruzione di Corinto. Rivolta di Viriate, terza guerra
celtiberica, distruzione di Numanzia a opera di Scipione
Emiliano nel 133.
All’alba del II secolo a.C. Roma ha già più di cinquecento anni di storia alle spalle, durante i quali essa, da
monarchia, è diventata repubblica, si è allargata nel Lazio,
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ha cacciato i Galli Senoni che l’avevano saccheggiata, ha
sciolto la Lega Latina, è entrata in Campania, ha sconfitto
Sanniti, Umbri ed Etruschi, ha vinto Pirro re dell’Epiro,
ha conquistato Taranto, ha unificato l’Italia da Rimini allo
Stretto e, finalmente, dopo una guerra di più di sessant’anni in cui ha rischiato di soccombere, ha vinto e debellato a
Zama quella che i Greci di Sicilia chiamavano la “nuova
Persia d’Occidente”: Cartagine.
Roma al bivio tra Occidente e Oriente
Dopo la vittoria su Cartagine, Roma da potenza italica
si è trasformata ormai in potenza mondiale, padrona senza
più rivali di tutto il bacino del Mediterraneo occidentale.
La vittoria, per la quale ha pagato in sessant’anni di lotte
l’altissimo prezzo di più di 300.000 caduti, l’ha arricchita
con la conquista della Sicilia, della Sardegna e della Spagna e di un enorme bottino, l’ha profondamente mutata
nella sua vita sociale interna, le ha instillato l’ambizione
del dominio e della forza, e le ha lasciato, infine, una pesante eredità di nuovi problemi da affrontare e di nuove
ambizioni da soddisfare nel vasto scenario mondiale che a
questo punto le si apre dinnanzi.
Scriverà Polibio, poco più tardi, che da un certo momento in avanti, tra il 226 e il 167, dopo la vittoria sui
Cartaginesi i Romani concepiscono il progetto unitario del
dominio mondiale, quasi saldando per un fine ultimo e
globale le varie spinte espansionistiche che li avevano portati di volta in volta a vincere in Italia, in Sicilia, in Gallia,
in Spagna e in Africa contro Cartagine.
All’indomani della sua vittoria su Cartagine, Roma si
trova come collocata fra due diversi mondi: l’occidentale,
aspro, bellicoso e barbarico, ma rigoglioso e pieno di fermenti; e l’orientale, ricco e splendido per le bellezze delle
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arti e per il lusso raffinato, ma fiacco e corrotto. Ed essa è
spinta dalla propria ambizione espansionistica a muoversi
contemporaneamente, per ragioni diverse, ma egualmente
importanti, in entrambe le direzioni.
In Occidente, Roma deve sottoporsi al duro peso della
riconquista e del consolidamento, dopo la bufera annibalica, delle posizioni perdute in Gallia Cisalpina e in Spagna per fronteggiare i sempre ricorrenti metus gallicus e
metus punicus. Sono infatti ancora fresche le notizie di due
luttuosi eventi: in Gallia Cisalpina la colonia romana di
Piacenza, sul Po, è stata arsa dai Liguri alleati con gli Insubri e con i Boi, i quali minacciano adesso di dilagare a sud
del Po; mentre in Spagna l’esercito del pretore Sempronio
Tuditano è stato da poco sterminato dai Celtiberi. Sono
questi una popolazione molto bellicosa, nata dalla fusione
degli invasori Celti del V secolo con gli originari abitanti
Iberici, e divisa fra numerose tribù stanziatesi tra le valli
dell’Ebro e del Tago nella Spagna centro-settentrionale:
una popolazione che, durante le guerre puniche, si era alleata con Annibale e aveva partecipato con quest’ultimo
all’invasione dell’Italia, e che adesso minaccia direttamente le posizioni e gli interessi di Roma nella provincia della
Hispania Citerior. Sia verso la Gallia Cisalpina sia verso la
Spagna, Roma deve riprendere quindi l’iniziativa.
Verso Oriente, Roma è attratta dai precedenti rapporti
già avuti di recente con Filippo V di Macedonia, con il quale aveva concluso una pace svantaggiosa nel 205 nell’intento di staccarlo dalla sua alleanza con Annibale, e dalla opportunità che essa vede in un coinvolgimento nel gioco
delle politiche ellenistiche. E, infine, essa è soprattutto attratta dall’inarrestabile fascino della Grecia, in cui Roma
del resto è già presente simbolicamente come partecipante
ai Giochi Istmici fin dal 228. Mentre per i Greci Roma è la
minacciosa potenza barbarica che essi vedono profilarsi
all’orizzonte in Occidente, per i Romani la Grecia è un
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mondo ricco di fascino, con cui essi vedono un legame mitologico nelle comuni origini pelasgiche, e che in parte già
conoscono per gli stretti rapporti avuti con la Magna Grecia, specie a cominciare dall’età di Pirro. Innumerevoli sono le testimonianze anche più antiche di questi legami: dagli onori che i Romani tributavano a Pitagora erroneamente credendolo maestro del re Numa, ai doni inviati al tempio di Delfo dopo aver espugnata Veio, all’influenza culturale avuta sulla Roma del III sec. a.C. dal poeta tarantino
Livio Andronico, traduttore in latino dell’Odissea.
Si assiste così, dunque, alla prospettata espansione della Repubblica contemporaneamente nelle due opposte
direzioni geopolitiche – contro Celti e Iberi da un lato e
Greci dall’altro – saldate in un unico grande disegno di
unità mediterranea nel nome di Roma.
L’attrazione del decadente mondo ellenistico
Nel momento in cui Roma, dopo aver sconfitto Cartagine, si affaccia sull’Oriente, il quadro politico del mondo
ellenistico è retto da un equilibrio instabile fra tre presunte grandi potenze, eredi dell’impero di Alessandro: il regno di Macedonia di Filippo V, il regno seleucide di Siria
di Antioco III il Grande, e il regno tolemaico di Tolomeo
IV Filopatore. Ciascuno dei tre regnanti ha la più o meno
segreta ambizione di ricostituire l’unità dell’impero alessandrino eliminando gli altri due. Da ultimo, Antioco III
aveva tentato di cogliere l’occasione della morte di Tolomeo IV, e della successione al trono del bambino Tolomeo
V, per impadronirsi dei possedimenti egiziani d’oltremare.
Ed era stata appunto la possibilità di partecipare insieme
alla spartizione delle spoglie dell’Egitto a creare i presupposti per una possibile alleanza tra Antioco e Filippo: alleanza che viene vista a Roma con molta preoccupazione.
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Dell’equilibrio, sia pure molto instabile, tra queste tre
“grandi potenze” ellenistiche tendono ad avvantaggiarsi le
città libere e le leghe della Grecia nella politica di difesa
della loro indipendenza, specie nei confronti della vicina
Macedonia.
Sin dal tempo di Alessandro la Macedonia ha infatti
gravato sulla Grecia con tutto il suo peso, sempre pronta a
impadronirsene. Da ultimo, con Filippo V, la supremazia
della Macedonia sul mondo ellenico si è ancora accresciuta, ed è venuta a investire più da vicino la potente Lega
degli Etoli, geograficamente quasi confinanti con la Macedonia. Gli Etoli, nella loro presunzione di stare a pari con
Roma, sono diventati perciò i più decisi avversari di Filippo, mentre gli altri Achei e tutti gli altri Greci sono talmente diffidenti nei confronti del Macedone che non possono decidere se appoggiarlo contro gli Etoli, o allearsi a
questi ultimi contro di lui. Una eventuale guerra di Roma
contro la Macedonia e la Siria sarebbe, d’altra parte, specialmente ben vista da Pergamo e dall’Egitto, come pure
da Rodi e dalle altre città greche loro alleate. Nel gioco di
tutti questi intrighi è chiaro che molti contendenti possono avere interesse a gettare il peso delle legioni romane
sulla bilancia a vantaggio della propria parte.
Questa è la Grecia, e questo il quadro che si presenta
agli occhi del Senato romano, più che mai tutore della politica estera della Repubblica, appena finita la guerra vittoriosa con Cartagine.
Publio Cornelio Scipione e la vittoria di Flaminino contro
Filippo V di Macedonia
I primi a chiedere l’aiuto dei Romani contro Filippo
sono gli Etoli. Ma, insieme a loro, presto altri Greci si rivolgono a Roma. Il popolo a Roma è stanco della guerra
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contro Annibale durata sedici anni, e vuole adesso la pace.
Ma i patrizi in Senato sono ambiziosi, avidi e consci della
forza di Roma. Non hanno dimenticato che Filippo è stato
un alleato di Annibale, e che Annibale è ancora vivo e più
che mai desideroso di rivincita. Essi, d’altra parte, diffidano della politica di Filippo per un’intesa con Antioco, che
rischia di destabilizzare l’equilibrio in Oriente e trasformarsi in una minaccia per tutta la Grecia. Le libere città
greche chiedono aiuto contro un oppressore: come potrebbe dunque Roma rifiutarsi di accogliere il loro appello? Questo è il sentimento della maggioranza dei senatori.
Mentre è costretta a mandare le sue maggiori forze in
Spagna e in Gallia Cisalpina per reagire agli attacchi dei
Celti, Roma decide dunque di intervenire contemporaneamente anche in Oriente in aiuto dei Greci. Con un passo
diplomatico molto duro il console Marco Emilio Lepido
(che legherà poi il suo nome a Roma soprattutto alla costruzione del “portus Tiberinus” al Foro Boario) mette
Filippo di fronte alle sue responsabilità, rivolgendogli delle richieste pesanti, un virtuale ultimatum, che Filippo naturalmente respinge. Egli offre così a Roma il casus belli,
cioè la giustificazione o il pretesto che i senatori cercavano
per poter dichiarare contro di lui quello che i Romani
chiamano il bellum iustum: ossia la guerra giusta in difesa
dei propri alleati. Avvertito per prudenza Antioco, i Romani iniziano così già nei primi mesi dell’anno 200 le operazioni militari.
La guerra si trascina per circa un anno senza risultati
decisivi. Trinceratosi dietro i monti pressoché inaccessibili della Macedonia, Filippo tiene testa alle forze romane, e
riesce anzi a farle ritirare da alcune zone del paese dove
erano riuscite a penetrare. Ma Roma è ormai impegnata, e
decisa a portare avanti la guerra. L’anno dopo viene eletto
console il giovane Tito Quinzio Flaminino, appartenente
all’antica famiglia aristocratica dei Quinzi, il quale pren16
de immediatamente il comando dell’esercito operante in
Grecia contro Filippo.
Flaminino è un fervente filoellenista che appartiene a
quel gruppo di famiglie senatoriali romane, tra le quali i
Marcii, i Sulpici e soprattutto i Corneli che, attratti dal
fascino della cultura greca, spingono Roma in questo periodo ad aprirsi e a espandersi verso l’Ellade e verso l’Oriente. La famiglia dei Corneli è stata resa da poco famosa
e potente dal grande Publio Cornelio Scipione, vincitore
di Annibale a Zama, che è rientrato solo di recente a Roma
dall’Africa, ed è stato eletto nel 199 princeps Senatus in riconoscimento appunto dei suoi meriti.
Scipione, amante della cultura e dell’arte, è amico e patrono a Roma del poeta e drammaturgo Quinto Ennio,
primo grande esponente della letteratura latina, nato in
Calabria, che diceva di sentire penetrata in lui l’anima di
Omero e che era già diventato famoso per i suoi Annales
sulla storia di Roma, che arrivavano fino alla seconda guerra punica e si chiudevano con la glorificazione dello stesso
Africano.
Scipione è anche personalmente molto legato da amicizia a Flaminino e condivide con lui il gusto per la letteratura e per l’arte. Le loro sono famiglie autorevoli sostenitrici
in Senato della nuova politica di apertura verso la Grecia.
Tito Quinzio Flaminino subito dopo il suo arrivo in
Grecia riporta significative vittorie contro Filippo, che gli
consentono di dichiarare una breve tregua. Di essa egli approfitta per riorganizzare l’esercito e soprattutto per svolgere un’abile azione diplomatica con la quale riesce a trarre dalla sua parte quasi tutti gli antichi alleati della Macedonia, e in particolare l’Epiro, la Lega Achea, Sparta e la
Beozia, e anche a convincere gli Etoli (in fondo ancora
freddi con Roma, che essi accusano di averli abbandonati
concludendo la pace separata con Filippo nel 205) a par17
tecipare con maggiore impegno e con maggiori forze alla
guerra contro il Macedone.
Quinzio Flaminino è molto aiutato in questa sua politica di alleanze e di penetrazione in Grecia dall’appoggio
che gli recano le classi ricche della maggior parte delle
città greche, perennemente in preda ai più aspri conflitti
sociali interni, nell’intento di procurarsi la benevolenza di
Roma e della sua potente aristocrazia nelle loro lotte contro il partito popolare. L’alleanza con le aristocrazie locali diventerà del resto, a partire da questo momento, una
politica che Roma tenderà sempre a mettere in opera per
l’espansione del proprio dominio nel mondo, come aveva
già fatto in passato per la propria espansione nel Lazio e
in Italia.
Alla testa di una Lega che abbraccia ormai quasi tutta
la Grecia, e presentandosi in veste di liberatore dei Greci,
Flaminino invade dunque la Tessaglia nel 197. La battaglia decisiva si svolge nel giugno di quello stesso anno a
Cinocefale e si risolve in un completo successo dei Romani, grazie all’importante appoggio a questi apportato dalla cavalleria etolica. Filippo ottiene la pace rinunciando a
tutti i suoi possessi fuori della Macedonia, ma riuscendo
a conservare il regno e l’indipendenza: quindi una pace
generosa che lascia però delusi e scontenti gli Etoli, che
reclamavano con insistenza la completa rovina di Filippo.
L’anno dopo, recatosi a presiedere i Giochi Istmici,
Flaminino si presenta ai Greci come il loro amico e liberatore, facendo bandire da un araldo la solenne dichiarazione del Senato con cui viene proclamata la libertà dei Greci: «Il Senato e il popolo romano e Tito Quinzio Flaminino, vincitore di Filippo e dei Macedoni, dichiarano liberi
ed esenti da ogni tributo i Corinzi, i Focesi ecc.» Sebbene
messi in guardia dagli Etoli contro le segrete ambizioni dei
Romani, i Greci si lasciano sedurre da queste generose offerte di amicizia.
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La politica filoellenica, di cui Flaminino si rende così
interprete ed esecutore, ha il vantaggio di assicurare di fatto a Roma la supremazia in Grecia senza costringerla a
mantenere una permanente occupazione dei territori, come avviene invece in Spagna in questo stesso periodo con
grande dispendio di risorse.
Flaminino si trattiene in Grecia ancora alcuni anni per
mettere ordine negli affari locali, dirimere i conflitti che
continuano a insorgere tra le varie città greche, schierandosi naturalmente a favore sempre di quelle di loro che i
Romani hanno più interesse ad appoggiare. Egli rientra
finalmente a Roma nel 194 per celebrare un grandioso
trionfo, dopo aver evacuato dalla Grecia tutte le truppe,
con l’eccezione solo di poche guarnigioni lasciate in qualche piazzaforte.
Guerre di riconquista in Spagna e nella Gallia Cisalpina
Quando Roma nel 200 a.C. decideva di intervenire in
Grecia, essa non ignorava di dover continuare a impegnarsi allo stesso tempo, come ho già detto, anche sul
fronte occidentale, con l’invio di forze ancora maggiori
di quelle impegnate in Grecia, per il recupero delle posizioni, da un lato in Spagna e dall’altro in Gallia Cisalpina
(ossia nel Nord Italia), su cui si era abbattuta la bufera
annibalica.
Nel 194 viene, in effetti, inviato nella provincia della
Spagna Citeriore in qualità di tribuno Marco Porcio Catone, un homo novus originario di Tuscolo, che aveva ricoperto il consolato nell’anno precedente, insieme all’aristocratico suo amico ed estimatore Valerio Flacco, con il
compito di combattere la rivolta che imperversava nella
valle dell’Ebro già fin dal 197.
Catone, sebbene di modeste origini lui stesso, è divenu19
to l’utile sostenitore di quella minoranza di nobili tradizionalisti e conservatori che si appoggia specialmente sulla classe rurale e che si oppone con tutte le sue forze alla
diffusione in Roma delle idee e dei costumi provenienti
dalla Grecia e dall’Oriente. Catone stesso, come console,
si era battuto senza successo l’anno precedente contro l’abrogazione, voluta dalle matrone romane nella nuova atmosfera di rilassamento dei costumi diffusasi a Roma, della Lex Oppia che, nel 215, durante la guerra annibalica,
aveva vietato l’uso di oggetti di lusso nell’abbigliamento
femminile. Ma soprattutto egli diverrà di lì a poco il principale protagonista della campagna di accuse contro il filoellenista Scipione l’Africano, nel quale egli vede uno dei
principali responsabili del decadimento dei costumi politici romani, e un possibile pericolo per la democrazia.
Appena giunto in Spagna, Catone si impegna con inflessibile energia nella lotta contro i ribelli celtiberi, risalendo la valle dell’Ebro nel nord della regione, sino a Tarragona e Numanzia, di cui i Romani apprendono il nome
per la prima volta in questa occasione, riuscendo a espugnare e smantellare nel giro di 300 giorni «quattrocento
fra città e centri minori», come egli stesso proclamerà orgogliosamente vantandosi della sua impresa. Carico di
bottino, Catone rientra alla fine del 194 a Roma, dove gli
viene decretato uno splendido trionfo per i successi riportati. La rivolta dei Celtiberi riprenderà però qualche anno
dopo, nel 182, e con alcune intermittenze durerà ancora
molto a lungo.
Negli stessi anni Roma lancia una spietata campagna
anche nella valle del Po per sopprimere la dura rivolta degli Insubri: una bellicosa popolazione celtica passata dalla
parte di Annibale, e già da tempo ostile ai Romani. In due
sanguinosissime battaglie, una presso Como e l’altra presso Mediolanum, nel corso delle quali ben centomila di lo20
ro sono sterminati, gli Insubri vengono battuti e finalmente costretti nel 195 a sottomettersi a Roma, la quale può
così definitivamente impadronirsi di Mediolanum.
La capitolazione degli Insubri non sgomenta però né i
Boi né i Liguri, che terranno ancora testa a Roma, i primi
fino al 191 e i secondi ancora più a lungo, fino a quando
non saranno sconfitti da Paolo Emilio nel 182 e poi di
nuovo, e questa volta definitivamente, dal console Publio
Cornelio Scipione Nasica nel 155.
Nelle zone pacificate la valle del Po viene ricolonizzata:
vengono ricostruite le città di Piacenza, Cremona e Mantova, mentre vengono fondate Bononia e Purma, e più nel
nord-est, nel 181 a.C., Aquileia. Nel 155 Claudio Marcello
conquisterà l’Istria (senza però ancora superare le Alpi
Giulie) e la Dalmazia. Nello stesso tempo Publio Cornelio
Scipione Nasica trionferà definitivamente, oltre che sui
Liguri, anche sugli Apuani. Anche in queste regioni della
Cisalpina la presa di possesso sarà marcata con l’istituzione di colonie, quali Pisa, Luni e Lucca.
La vittoria di Lucio Cornelio Scipione contro Antioco il
Grande di Siria
Roma già nel 192 deve però tornare a occuparsi nuovamente dei problemi della Grecia, dove né l’abile diplomazia né le spettacolari dichiarazioni di filoellenismo di Flaminino sono riuscite a stabilizzare la situazione. I Greci
hanno infatti cominciato ad avvertire ben presto il peso
della protezione e della garanzia di Roma dietro le maschere della liberazione.
Ma ancora una volta sono soprattutto gli Etoli, eternamente riottosi e desiderosi di conflitti per avvantaggiarsi
delle altrui debolezze, a riaprire la questione greca. Essi
erano rimasti delusi, come si è detto, dai compensi che
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avevano ricevuto da Roma dopo la vittoria su Filippo, e
decidono quindi di rivolgersi adesso ad Antioco III di Siria, il quale aveva a sua volta visto con sfavore l’espandersi
dell’influenza romana in Grecia, per invitarlo a intervenire
negli affari ellenici, dandogli a intendere che gli avrebbero
offerto il comando della Lega e che tutte le città della Grecia si sarebbero dichiarate in suo favore.
In vista di una possibile crisi, Roma invia di nuovo Flaminino in Grecia nel 192 per distogliere i Greci da una
possibile alleanza con Antioco. Ma la sua diplomazia fallisce contro la duplicità dei Greci. E Antioco decide, alla
fine, di sbarcare in Grecia alla testa di un esercito, mentre Roma, da parte sua, può contare su Rodi, su Pergamo,
sulla Lega Achea e sulla neutralità di Filippo, per combatterlo.
Dopo aver aderito all’invito degli Etoli, Antioco commette però un grave errore strategico. Egli avrebbe la
possibilità di conquistare l’intera Grecia prima che i Romani siano in grado di intervenire: ma invece conduce la
campagna male, lentamente, senza dedicarvi la necessaria
attenzione. In un momento così difficile, già avanti con
l’età, egli ha anche perso la testa per una ragazza molto
giovane che lo distoglie con le sue effusioni amorose dalla
responsabilità della guerra, e che fa gridare allo scandalo.
Così Antioco perde un intero inverno in Grecia, tra banchetti e festeggiamenti; finché, nella primavera dell’anno
successivo, il console Marco Acilio Gabrione, frattanto
sopraggiunto in Grecia, non lo affronta in battaglia alle
Termopili (192 a.C.), lo sconfigge e lo costringe a tornare
sui suoi passi in Asia attraverso l’Ellesponto, con il beneplacito di Filippo.
Roma, da parte sua, ha già da tempo altri motivi di ostilità verso Antioco, anche al di là della fallita spedizione da
lui condotta in Grecia. E questi motivi sono: in primo luogo, l’inevitabile rivalità con il regno seleucide accresciuta22
si dopo che Roma, vinta la Macedonia e divenuta di fatto
padrona della Grecia, ha portato i suoi confini politici sull’Ellesponto; e poi, la presenza di Annibale alla corte di
Antioco!
L’irriducibile nemico di Roma, infatti, dopo aver dovuto nel 195 abbandonare la sua città natale, ha trovato rifugio presso il re seleucide, di cui è diventato il consigliere
politico e l’amico. Senza aver mai rinunciato ai suoi piani
di rivincita contro Roma, Annibale aveva consigliato ad
Antioco di stringere di nuovo l’alleanza con Filippo e di
far comprendere a quest’ultimo che nell’interesse della
Grecia egli avrebbe dovuto formare un blocco di tutte le
forze elleniche ed ellenistiche, e quindi, appoggiandosi
agli Istri, portare la guerra dal nord, attraverso l’Illiria, in
territorio italiano contro Roma. Ma il piano di Annibale
non aveva convinto Antioco, il quale, appena scoppiata la
guerra con Roma, si era limitato ad affidargli solo il comando di una flotta che combatteva infruttuosamente nell’Egeo contro Rodi.
Questo bastava tuttavia perché Roma, colta di nuovo
dal vecchio metus punicus, decidesse, dopo aver estromesso Antioco dalla Grecia, di respingere tutte le sue
offerte di pace e di continuare la guerra contro di lui nella stessa Asia. Il Senato affida questa volta il comando
dell’esercito romano al console Lucio Emilio Scipione, al
quale si affianca, in qualità di semplice tribuno, anche il
suo grande fratello, Publio Cornelio Scipione l’Africano,
quasi in risposta alla presenza di Annibale fra le schiere
del nemico.
L’Africano conosce bene Annibale, verso il quale ha
dimostrato grande rispetto dopo la battaglia di Zama
consentendogli, nonostante l’avviso contrario del Senato, non solo di rimanere a Cartagine, ma anche di continuare a occuparvi un’importante posizione politica. Una
volta giunto, nel 189, con le forze romane in Asia, Scipio23
ne non esita dunque, in risposta a delle aperture diplomatiche di Antioco, a intrattenersi in colloqui personali, prima del confronto armato, non solo con Antioco, ma anche
con lo stesso Annibale.
Scipione, oltre a essere un grande condottiero, è anche
un umanista ellenizzante e pieno di interessi intellettuali,
e si può comprendere quindi da parte sua un comportamento così poco rituale. Essendo caduto malato, egli consiglia per di più ad Antioco, il quale gli aveva poco prima
fatto riconsegnare il figlio caduto prigioniero senza chiedere alcun riscatto, di non scendere in battaglia finché egli
stesso non fosse ritornato in campo: come per fargli intendere che, in caso di sconfitta, egli avrebbe potuto salvargli la vita.
Comunque, la mediazione dell’Africano fallisce e il
confronto diretto non può più essere evitato. La battaglia
ha luogo nel 190 nelle vicinanze di Magnesia, sul Sipilo, e
nel corso di essa le forze romane al comando di Lucio Cornelio Scipione trionfano, nonostante alcuni momenti di
difficoltà, sul molto più potente esercito di Antioco. Questi riesce bensì a sfuggire, ma deve accettare le dure condizioni impostegli dai Romani con la pace di Apamea del
188. In base a esse Antioco deve abbandonare tutta l’Asia
Minore e ritirarsi oltre la catena del Tauro in Cilicia, in più
pagare le spese di guerra, e consegnare a Roma la flotta, gli
elefanti e... la persona di Annibale! Il grande cartaginese,
sfuggito alla cattura, troverà poi rifugio presso il re di Bitinia: dove si dovrà dare però la morte col veleno qualche
anno dopo, per non cadere nelle mani dei soldati romani
che erano stati mandati a catturarlo.
Con la vittoria di Lucio Scipione il regno seleucide di
Siria, che perde tutta l’Asia Minore tranne la Cilicia, è per
sempre debellato e condannato a una rapida decadenza.
Di fatto, Roma ha acquistato l’Asia Minore, come già la
Grecia dopo Cinocefale, con una sola battaglia! Ma anco24
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