DEMESIO LUSARDI
In Novecento: Nel film è il padre del protagonista Olmo Dalcò, interpretato da Gerard Depardieu
Bertolucci: «Per me è un sant'uomo:ha avuto una gran pazienza»
Sacrifici: «Ho sempre lavorato molto: a tredici anni mungevo le vacche e falciavo l'erba»
«Volevo fare l'attore, ma mi hanno ucciso subito».
Demesio Lusardi è un contadino della grande pianura, nato il 10 agosto 1927 ad Agazzano sulle
pendici dei colli piacentini: una vita di lavoro fino ad arrivare alla terra grassa di Busseto; il suo
volto schietto, forte, acceso e genuino sa di campagna e Novecento. E siccome non c'è cosa che
deve unirsi che il destino risparmi, campagna e Novecento sono stati legati ad memoria per mano
del regista Bernardo Bertolucci: Demesio, con ancora il falcione da fieno in mano, è stato scelto con
un colpo di fulmine e buttato dalla storia degnissima di tutti i giorni al racconto cinematografico
della Storia di un popolo, il nostro, senza passare da scuole, curriculum e corsi.
E' stato, in quel memorabile 1974, il vecchio padre del protagonista Olmo Dalcò, giovane
scalpitante contadino interpretato da Gerard Depardieu. Siamo andati a trovarlo alle Cascine
Piacentine, grazie a un'idea del collega Vittorio Testa; li, come un olmo, vive con il sorriso
disegnato in volto da una terra che ride, con le note forti intrappolate nel fango. Cielo cupo. Silenzio
grave. Vasti spazi, come una bonaccia dopo la burrasca umana e sociale del secolo scorso: una sorta
di crinale storico al culmine di evi attraversati con micidiali e vitali equilibri.
Al caldo delle stanze della corte, narra: «Eravamo cinque maschi e tre femmine. Ne11935 ci siamo
spostati a Gragnano, nel '48 a Caorso, nel '52 a Diolo, casa Bonifacia, ne11962 siamo arrivati alle
Piacentine e non siamo più andati via». A San Martino solo qualche illusione d'estate, di li in poi,
non più trasferimenti. Il Novecento cominciava a tramontare. Racconta: «Il nome Demesio, i miei,
l'hanno letto sul lunario. Ho sempre lavorato molto, a tredici anni mungevo le vacche, eravamo
mezzadri, mi occupavo dei lavori della stalla. Mi svegliavo un'ora o due dopo mezzanotte e
mungevo. D'estate tagliavo l'erba e la portavo in stalla. Quand'ero soldato a Roma mi chiamavano
Eltudesch', il dialetto piacentino non lo capiva nessuno». La scuola? «Non era roba per me. Ho
fatto due anni di prima, due di seconda, un anno di terza, stavo facendo il secondo anno di quarta e
sono andato a lavorare». Venne anche la guerra: «La notte volavano gli apparecchi, c'era da stare
attenti. Un giorno col bel sole noi ragazzi ci siamo messi sotto un'ombra, giocando con la lente si
cercava di scrivere il nome sulla carta. Abbiamo sentito le bombe fischiare, un baccano da far
paura, ci siamo riparati nel fosso vicino. Tutti dentro. Da lì abbiamo guardato le bombe venir giù.
C'era una polveriera, l'hanno fatta saltare». Alla chiacchierata partecipano varie persone, anche un
team di registi piacentini (Simona Brambilla, Andrea Canepari, Gianni Cravedi, Tommaso Ferrali,
Stefania Guardincerri) che stanno realizzando un documentario su quest'uomo. Dicono: «Bertolucci
andò in archivio a Parma, cercando una corte dove nulla fosse cambiato. Alle Piacentine, disse, 'di
qua non scappo più'». Appena lo vide, volle anche Demesio. Furono tredici mesi di lavori e storie,
fra i11974 e i11975. L'azienda agricola allora era diretta da Carlo Bocchi di Parma. Veniva gente a
curiosare, talvolta. I lavori agricoli sono sempre andati avanti. Rammenta Lusardi che ancora
ne11962 «ci lavoravano una quarantina di persone. C'erano il casaro e il fattore». Le Piacentine
furono fatte erigere dal Principe Vidoni di Soresina, il lavori iniziarono ne11820 e finirono nel
1835. Il progetto curato dall'architetto Luigi Voghera. Censo Dalcò comparì in alcune memorabili
scene, come quella dell'usignolo, e anche nei titoli iniziali. Venne ucciso, ma faticò a cadere: non
essendo morto davvero, l'istinto contadino di tenersi in piedi e non rovinare nel fango vero
prevalse, «e un po' di pioggia artificiale, sparata con la botte del liquame, mi finì in un orecchio».
Bertolucci? «Per me era un sant'uomo, ha avuto una gran pazienza. Diceva: 'Questa va bene, ma
ne facciamo un'altra'». Anna Giuffredi, parente, racconta: «Preparammo centocinquanta chili di
polenta, doveva sempre fumare. Dopo il film non la volevano più neanche le mucche. La scena
l'hanno provata venti volte e serviva sempre altra polenta fumante. Il bello è che con la Sandrelli,
De Niro, Depardieu, si era creato un rapporto familiare. Un giorno abbiamo ospitato suo figlio a
pranzo. Loro, di solito, andavano da Cantarelli o alla Buca». Ricordi meravigliosi: «La scena più
bella è nel pioppeto, a Gazmolo. Si ballava con le ocarine di Budrio. "Butta via quell'acqua il che
facciamo ubriacare anche l'usignolo". Lo dissi così per dire e divenne la battuta del film». Tanta
passione, e anche, perché no, qualche soldino: «Ci davano 25 mila lire al giorno. Alle comparse,
15». Mica male per morire per finta, negli anni Settanta. «Non riuscivo a stare fermo da morto.
Chiesi di farmi coprire la testa alla prima donna che arrivava lì, così non si sarebbero visti i miei
movimenti». Pensione, praticamente mai. Avanti dalla falce al Biciesse. Il tempo di Novecento
«sono i giorni più belli che ho passato», e non si capisce se intenda il secolo o il film, ma questo è il
bello della vita e della sua narrazione più vera.