Ebraismo: le sette leggi di Noè intervista al rabbino David Meyer, a cura di Jérôme Anciberro in “www.temoignagechretien.fr” del 27 dicembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org) Fin dalla prefazione di Minumum humain, lei evoca la sua irritazione di fronte a certe realtà del dialogo interreligioso contemporaneo. Eppure, il dialogo è una delle sue specialità... L'irritazione di cui lei parla si manifesta a due livelli. Innanzitutto, anche se ormai ci sono molte occasioni di incontro e di dialogo in ambiti religiosi, c'è anche molta timidezza in questi dialoghi. Essenzialmente, gli sforzi consistono spesso nel mettere in primo piano ciò che avvicina le religioni le une alle altre. È utile e generalmente non fa problema, perché le diverse religioni effettivamente condividono molte cose. Ma a forza di porre in primo piano i termini comuni, si dimentica un'altra realtà: che ci sono degli argomenti che non sono affatto comuni, degli approcci spesso fondamentalmente diversi e soprattutto delle contrapposizioni frontali. E, a mio avviso, da un punto di vista statistico, le contrapposizioni frontali sono certo molto più numerose dei punti di convergenza e di accordo. Prescindere da questa realtà significa ignorare l'80% dell'insegnamento delle religioni perché si ritiene importante, prima di tutto, rendere possibile un discorso gradevole e corretto, evitando volontariamente i punti di attrito e di conflitto. E poi, c'è una realtà concreta: i membri delle diverse comunità religiose sanno molto bene che esistono dei problemi di comprensione e di coabitazione nelle nostre società legati almeno in parte alla religione. Lo percepiscono, lo vivono, lo vedono. Ora, sono convinto che non bisogna prendere queste osservazioni alla leggera, senza prestar loro tutta l'attenzione che meritano. Non ci si può accontentate di una visione “alta” delle religioni, nella quale gli ideali si raggiungono sempre senza conflitti né problemi. Sarebbe troppo facile. Ho una certa esperienza sul campo e vedo quello che gli uni dicono degli altri, anche solo alla sinagoga: “l'islam dice questo”, “i cristiani pensano quello”, ecc. Queste idee generali precostituite sono spesso false, eppure talvolta contengono ugualmente una parte di verità che non dobbiamo ignorare. Solo quando si è disposti ad affrontare questo genere di discorso, ad ascoltare quelle percezioni della realtà, si può anche tentate di aprire il discorso e di presentare un'altra prospettiva, più pacificante e più armoniosa. Lo scopo del dialogo è toccare le persone là dove si trovano, non semplicemente discutere tra “specialisti”. L'ebraismo, lei dice, porta in sé una tensione essenziale tra una visione universalista che si trova in certi testi ed un particolarismo, o addirittura un separatismo, particolarmente marcato. Si conosce il famoso passo della preghiera del mattino: “Tu sia benedetto, o Eterno, nostro Dio, re dell'universo, che non mi hai fatto straniero”... Questa tensione tra universalismo e particolarismo non testimonia già una difficoltà dell'ebraismo a considerare la relazione con l'altro in maniera serena? Non si può prescindere da questa realtà: la grande maggioranza degli insegnamenti ebraici riguarda prima di tutto gli ebrei, si preoccupa dell'organizzazione della comunità e della vita ebraica. Ci sono per questo delle spiegazioni storiche, che sono evidentemente importanti e che dobbiamo riconoscere. Ma bisogna anche avere il coraggio di ammettere che questa tentazione “separatista” oggi è un problema. Finché gli ebrei vivevano tra di loro, ad esempio nei ghetti, il problema dell'aspetto universale dell'ebraismo non si poneva veramente. Gli ebrei non si ponevano in confronto con il mondo esterno. Ma oggi, eccetto per poche comunità rinchiuse in se stesse, la situazione è radicalmente cambiata. Per quanto mi riguarda, vivo in un paese in cui gli ebrei sono in minoranza. Scrivo degli articoli, vengo intervistato alla radio, alla televisione, per parlare dell'ebraismo e non mi limito ai media ebraici. Se faccio questo, è che penso che nella tradizione ebraica ci sono degli insegnamenti e degli elementi sapienziali che possono interessare anche i non ebrei. Ma allo stesso tempo sono consapevole che questo sapere universale è controbilanciato da una parte importante della tradizione che precisamente rifiuta l'apertura che io sostengo. Queste due tendenze si trovano tanto nella Bibbia che nelle tradizioni rabbiniche. Ciò che ho cercato di mostrare nel mio libro, è che la tensione tra l'universale e il particolare non era fatta per essere risolta, ma costituiva un paradosso necessario per non perdersi in un'uniformità universale. Il pericolo del pensiero universale, è l'uniformizzazione in cui l'umano diventa una sorta di massa magmatica di individui senza nome e senza volto. Il problema consiste tutto nel sapere se si è capaci, in quanto ebrei, di leggere il particolarismo ebraico come condizione dell'apertura all'universale. Il suo ultimo libro riguarda le “sette leggi di Noè”, cioè le sette leggi che, secondo la tradizione talmudica, sono state date a Noè allo scopo di permettere la coabitazione tra coloro che non condividono la stessa fede. Questa tradizione delle sette leggi è poco conosciuta al di fuori del mondo ebraico. Si tratta effettivamente di un testo poco conosciuto, un racconto talmudico – e non biblico – basato sulla fine della storia di Noè nella Bibbia. Nel testo biblico, c'è già una sorta di intuizione secondo la quale Dio ridà una seconda chance all'umanità dopo il diluvio, ma imponendole delle leggi che permetteranno questa volta di organizzare il funzionamento sociale. Il Talmud sviluppa questa intuizione e soprattutto la precisa. Concentrarsi su queste leggi di Noè che poche persone conoscono può sembrare ridicolo mentre si potrebbero utilizzare, allo scopo di favorire la convivenza, dei passi molto più conosciuti, come il Decalogo o certi testi profetici con un'ispirazione universale notevole. Il problema è che i dieci comandamenti del Vecchio Testamento sono scritti per il popolo ebraico e non proprio, o non immediatamente, per gli altri, cioè per i non ebrei. In ogni caso, l'ebraismo non ha mai preteso che questi comandamenti dovessero applicarsi al di fuori del quadro puramente ebraico. Il Decalogo ha un bell'avere un'aura universale, ma non è necessariamente pensato dalla tradizione rabbinica come condivisibile con gli altri. Invece, per Noè e le settanta tribù che rappresentano l'umanità, c'è proprio un corpus di leggi inventato dalla tradizione talmudica: le sette leggi dette “di Noè”. Hanno esplicitamente una vocazione all'universale, a causa della persona stessa di Noè, a cui sono state attribuite – Noè, nel senso stretto della parola, non è ebreo! -, ma anche perché la tradizione rabbinica ne ha fatto qualcosa di preciso: un quadro minimo per una vita nella diversità, cioè una vita in cui i popoli sono mescolati. Maimonide lo dice chiaramente: o gli altri accettano queste leggi e voi, ebrei, potete vivere con loro, o non è così e allora bisogna separarsi. Si tratta proprio di una vera definizione di un minimo umano che viene qui proposto dalla tradizione ebraica. Queste leggi sono state modificate nel corso del tempo. Si passa così da tre leggi nel racconto biblico a sette leggi nel Talmud. E prima del passo talmudico, troviamo delle tracce di queste leggi nel libro dei Giubilei dove la formulazione non è esattamente la stessa. Queste variazioni mostrano che sono delle leggi elaborate dagli uomini, anche se la tradizione ebraica è attaccata all'idea che Dio le avrebbe date a Mosè, in un modo o nell'altro. Ma conoscere l'enunciato di queste leggi non è sufficiente. Bisogna giungere infatti a “farle parlare”, cioè a renderle udibili e comprensibili. Il testo infatti è un po' grezzo, o in ogni caso disarmante per una mente contemporanea. È indispensabile un'interpretazione. Queste leggi di Noè hanno qualche cosa a che vedere con la “legge naturale” dei filosofi, che si ritiene debba essere la stessa per tutti, al di là delle appartenenze religiose o culturali? Esistono dei testi talmudici che evocano la possibilità dell'apprendimento attraverso la ragione o attraverso l'osservazione della natura, il che è qualcosa di molto simile alla legge naturale. Ma in generale, penso che l'ebraismo sia una religione rivelata e la rivelazione si traduce in un corpus di leggi. Se queste leggi sono state rivelate, per definizione non sono “naturali”, altrimenti la rivelazione non sarebbe stata necessaria. Per le leggi di Noè, la cosa è ancora più chiara. Basta fare riferimento ai versetti della Bibbia utilizzati dai rabbini per giustificare queste leggi: sono per lo meno ellittiche e permettono ogni sorta di interpretazioni. È impossibile a partire da quei versetti dire che le sette leggi del Talmud s'impongono da sole. Inoltre, quando le sette leggi sono finalmente enunciate, si trova sempre un saggio che obietta che ce n'è un'ottava, un altro che dice che ce n'è una nona, e un terzo che non è d'accordo con loro. Quindi non c'è accordo, nemmeno su ciò che è stato rivelato! Il cristianesimo propone tuttavia volentieri la nozione di legge naturale, in particolare nell'ambito etico. Il dialogo ebraico-cristiano non risente di questa differenza di approccio? Certamente sì! Gli approcci della nozione di legge, nello specifico quella naturale, sono molto diversi. E non è solo il cristianesimo a far problema all'ebraismo su questo. Un modo importante di affrontare questa difficoltà sta nel riconoscere che l'ebraismo propone una visione etica dell'umanità molto modesta e certamente minore rispetto al cristianesimo. Per la tradizione ebraica potremmo dire che i valori come la concordia e la pace non si immaginano come raggiungibili grazie alla visione e all'enunciazione di una società bella, luminosa e portatrice di speranza, cosa che io chiamerei una visione “dall'alto”. È al contrario, in una visione “dal basso”, cioè attraverso la ricerca di un minimo che assicurerebbe una società decente (e non un massimo), che tali valori saranno un giorno forse realizzabili. La legge naturale che si impone alle coscienze è una visione idealizzata che non interessa molto i pensatori dell'ebraismo che sono individui se non pessimisti in ogni caso molto prudenti sulle capacità dell'umanità di emendarsi. Se il minimo di una società decente può essere superato, lo è eventualmente in un contesto messianico, ma non nel contesto attuale di diversità. Questa idea di “società decente” fa eco a delle nozioni sviluppate attualmente da diversi pensatori, in particolare quelli che si ispirano a George Orwell e alla sua common decency. Se il concetto di decenza ritorna in forza oggi, è per il fatto che c'è stata una disillusione... La tradizione rabbinica ha riflettuto sul famoso comandamento “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. È una frase magnifica. Ma è un ideale. Non so come le cose stiano per lei, ma io, se faccio uno sforzo per essere assolutamente onesto (correndo il rischio di deludere e di scioccare), non penso di poter affermare di amare il mio prossimo come me stesso! Quindi ho bisogno di leggi per mettermi sulla buona strada. L'ebraismo si pone risolutamente in questa prospettiva. Si sente molto bene che qui c'è una profondissima differenza con altre tradizioni, in particolare con il cristianesimo. Del resto, non si tratta neppure di un confronto, ma di due piani paralleli. L'ebraismo immagina solo delle leggi per giungere alla decenza, mentre il cristianesimo fa appello ad una visione di un certo ideale umano. A questo riguardo, possiamo dire che c'è quasi un totale dialogo tra sordi tra le nostre due tradizioni. La sua interpretazione delle leggi di Noè ha di che sorprendere. In particolare c'è una grande differenza tra l'enunciato di tali leggi nel testo talmudico e quello, tradotto ed interpretato, che lei ne dà alla fine delle sue analisi. Non distorce un po' le cose? Sì, distorco, giro le cose e cavillo sui particolari del testo. È il principio stesso della tradizione ebraica di interpretazione! Ho degli antenati illustri in materia. Esiste un principio di interpretazione talmudico che si chiama il Gsérar Shava. Per semplificare, si tratta di reperire una stessa parola o una stessa espressione in due contesti diversi nella Bibbia e di ispirarsi a questo parallelo per interpretare il primo brano grazie al secondo. È una sorta di ragionamento per analogia. Per il brano talmudico sulle leggi di Noè, ci si accorge che le parole scelte dai rabbini del Talmud per lanciare la ricerca interpretativa sono parole che si possono ritrovare in molteplici posti nella Bibbia. Siamo chiari: gli interpreti avevano già in mente quello che volevano far dire al testo e, in seguito, sono andati a cercare un versetto biblico che poteva sostenere la loro idea. Non è affatto il versetto citato che ha imposto l'interpretazione. Altrimenti il ragionamento per analogia non avrebbe alcun senso con parole come “Dio” o “Eterno” che compaiono centinaia di volte nel testo! Di conseguenza, non è assurdo dire che i rabbini del Talmud hanno già distorto il versetto. In questo caso, mi sento libero a mia volta di proporre la mia interpretazione. Quindi anch'io ho distorto le cose pur cercando di mantenere un modo di procedere accademico rigoroso da un punto di vista ebraico, in particolare ripassando da una lettura abbastanza precisa dei testi e delle parole in ebraico. L'obiettivo di questo esercizio interpretativo è di lavorare questi testi non per mostrare che sono giusti o veri, ma semplicemente per spiegare in che cosa possono ancora aver qualche cosa da dirci oggi. Prendiamo degli esempi concreti. La prima legge stabilisce che siano istituiti dei tribunali (dinin in ebraico). Significa che chiede semplicemente che sia resa giustizia? Ci si potrebbe effettivamente accontentare di dire che qui si parla di giustizia. Ma la parola usata si traduce piuttosto con “tribunali”. Ora, i tribunali, non sono esattamente la giustizia, sono un'istituzione umana, pratica. Quello che viene suggerito dalla lettura del testo talmudico, è quindi innanzitutto la realizzazione di istituzioni che permettano di instaurare un minimo di ordine. Si mira ad una società decente, piuttosto che ad una società ideale. Ci si concentra sull'aspetto pratico. La stessa cosa per la seconda legge che proibisce la bestemmia. Se si studia la parola ebraica per definire questa proibizione della bestemmia, ci si trova di fronte ad una radice (nakav) che significa “bucare”. Bestemmiare , significa quindi anche “bucare”, “mettere a nudo” il nome, di Dio in questo caso specifico. Una nozione portatrice di violenza e di certezza. È un po' diverso dal senso primo che si attribuisce alla nozione di bestemmia. Di questo passo, si arriva a trarre degli insegnamenti in un linguaggio comprensibile e contemporaneo. Ad esempio, la seconda legge potrebbe avere un senso più ampio: si tratterebbe di non utilizzare negligentemente il linguaggio e di ricordare che le parole sono cariche, non solo portatrici di senso, ma anche capaci di violenza. La sacralità del linguaggio è forse avere coscienza di questa verità? Cosa si può dire della terza legge sull'idolatria? Oggi non si sa più veramente che cosa vuol dire la parola “idolo”. In che senso mi sarebbe impossibile vivere con un vicino che praticasse l'idolatria oggi, intendendola nella sua accezione più piatta del termine, ad esempio il fatto di prosternarsi davanti ad una pietra, ad un albero o al sole? Mi sembra che questo non abbia molto senso per i miei contemporanei. È una semplice intuizione. Bisognava quindi andare oltre e cercare, a partire da questa legge, qualche cosa di più profondo. Tanto più che ci sono dei testi rabbinici che ritengono che la lotta contro l'idolatria sia l'imperativo più essenziale della vita ebraica. Questa nozione è centrale. Bisogna quindi ridarle la vitalità che ha avuto nel pensiero rabbinico nel passato. È scavando nelle ricerche su questo tema che si scopre che l'idolatria aveva senza dubbio qualche cosa a che vedere con un pensiero con un unico riferimento. In altri termini, praticare l'idolatria non significa prosternarsi davanti ad un idolo fisico, ma piuttosto mettersi in una situazione nella quale si crea una gerarchia di valori in cui un unico elemento è al vertice. In tale situazione, tutto viene giudicato in riferimento a quell'elemento che occupa il vertice della gerarchia. Sfuggire all'idolatria consisterebbe quindi nel crearsi un sistema nel quale diversi valori svolgerebbero il ruolo di riferimento pur restando in tensione gli uni con gli altri. Non è che si debba rifiutare ogni gerarchizzazione, al contrario. Ma assicurarsi che il vertice della piramide sia una piattaforma composta di valori diversi e non un vertice a valore unico. Quando si perde il senso della ricerca di un equilibrio tra diversi valori importanti, si cade nel pensiero di tipo idolatrico. Ci può fare degli esempi contemporanei di questo pensiero di tipo idolatrico? Ce ne sono certo molti, dipende sicuramente dagli individui e dai contesti. Mi interrogo ad esempio su un tipo di ossessione ecologica che, in certi casi, dimentica completamente altri bisogni o desideri. Penso anche a certi discorsi sulla “vita” che fanno di quest'ultima un assoluto intoccabile ed impediscono così l'azione responsabile nella quale il valore della vita è anch'esso soggetto a interrogativi. È l'oggetto del mio libro precedente La Vie hors-la-loi (Lessius, 2009). La quarta legge di Noè proscrive le unioni illecite. Nella misura in cui il dettaglio di ciò che è o non è lecito viene precisato, non ci sono possibili ambiguità sul senso di questo divieto. Ciò che valeva nell'epoca rabbinica vale quindi anche per oggi? In effetti, non c'è ambiguità. Ma malgrado tutto ci sono delle domande che si pongono. Il problema è che i riferimenti dati nel testo talmudico a proposito di questa quarta legge fanno riferimento ad un capitolo specifico della Torah, il capitolo 8 del Levitico. Questo capitolo mette in primo piano la specificità di ciò che è proibito o no. Si tratta nello specifico di tutto il problema dei divieti sessuali. Tuttavia, la questione trattata non è tanto quella delle pratiche sessuali quanto quella delle relazioni di prossimità poiché in ciascuno dei casi citati dalla Torah, il partner sessuale proibito è appunto un “vicino”. L'idea di riflettere sul nostro modo di comportarci verso ciò che è immediatamente disponibile mi interessa. Allora, che cosa ci potrebbe dire questa quarta legge? Molto semplicemente che ciò che è accessibile non è sempre autorizzato. Questo apre delle prospettive affascinanti. Ad esempio in materia di consumi o di bioetica. L'accessibile, il possibile non è necessariamente autorizzato. Non è anche questa capacità a riflettere sui propri gesti, a trattenersi, che definisce la natura umana rispetto alla natura animale? Del resto, questi divieti sulle unioni illecite sono sorprendenti, poiché, secondo i testi biblici, l'umanità si è precisamente costruita su unioni illecite. È stato necessario che Caino, figlio di Adamo, trovasse una donna. E a parte una delle sue sorelle... Stessa cosa per Lot e le sue figlie. Ci si ritrova quindi in una situazione in cui l'umanità è partita su delle basi che oggi sono considerate dei divieti. In altri termini, le cose sono cambiate e il ritorno indietro non è più possibile. La posta in gioco non è piccola. Pensate a tutti coloro che vogliono ritornare alla “belle époque”, all' “età dell'oro”: gli ebrei che cercano di ri-ghettizzarsi per vivere solo tra loro, i musulmani che vogliono tornare al tempo dei compagni di Mohammed, i cattolici nostalgici dell'epoca del concilio di Trento, ecc. Per la quinta legge, “Non uccidere”, non si può essere più chiari... Niente è mai chiaro. La tradizione ebraica mi insegna che il testo della Torah è la comunicazione di Dio con gli uomini, cioè una comunicazione dell'infinito verso il finito. Necessariamente c'è una distanza infinita da colmare che rende ogni semplicità impossibile... Il “Non uccidere” delle leggi di Noè non è identico al “Non uccidere” dei dieci comandamenti. Non viene utilizzato lo stesso verbo in ebraico. Il verbo usato nelle leggi di Noè, è, a propriamente parlare, “spargere il sangue”; quello dei dieci comandamenti, è “commettere un omicidio”. C'è una differenza. Nel secondo caso, è possibile uccidere rispettando il divieto, ad esempio in caso di legittima difesa. Forse bisogna cercare di andare al di là delle letture abituali su questa proibizione di spargere il sangue. Se si mette in parallelo questo divieto con altri codici legislativi dell'epoca passata, si constata che il codice ebraico è senza dubbio l'unico per il quale la vita umana non si traduce mai in termini di transazione. Qui c'è qualcosa che è dell'ordine dell'assoluto. Diciamo semplicemente: il “Non uccidere” non funziona. Tutti uccidono. Ovunque. Anche tra gli ebrei. Ma si conserva comunque un'idea di assoluto che non bisogna trasgredire. In una società che è capace sistematicamente di rimettere tutto in discussione, questa idea di un “non trasgredibile” mi interpella. Non so esattamente quale sia questo “non trasgredibile”, non so veramente come esprimerlo né come definirlo, ma sento che esiste. È già molto. La sesta legge proibisce semplicemente il furto e lei ci vede un'accettazione della disuguaglianza... In questo, mi sono detto che i miei amici cristiani avrebbero avuto molto difficoltà ad accettare questa idea. Per definizione, perché ci sia furto, bisogna che ci sia proprietà. E se c'è proprietà, c'è disuguaglianza. Non si tratta di dire che l'ebraismo valorizza la disuguaglianza. Ma avanzando la proibizione del furto, l'ebraismo dice in sostanza che accetta queste disuguaglianze. L'ebraismo ha una visione tutta particolare della lotta contro le disuguaglianze. La tsedakah – a volte tradotta con “carità” - è un insegnamento centrale della Torah e della tradizione rabbinica. Ma tale insegnamento è molto inquadrato. Ci viene detto che bisogna limitare le disuguaglianze più evidenti, ma non ci si dice che dobbiamo lavorare per un mondo egualitario. Una cosa mi ha sempre colpito: non c'è una Madre Teresa o un Abbé Pierre nell'ebraismo, cioè delle persone che aiutano gli altri scegliendo per se stessi la spogliazione totale. Senza dubbio non è un caso. Da qui, questa interpretazione della legge: una società che ha per obiettivo l'assoluto dell'eguaglianza non tiene conto della realtà di una natura umana che è il bisogno di possesso, un bisogno che occorre rispettare. Certo, questo non significa che tutto è permesso. Questa differenza con il cristianesimo fa problema. Vuol dire che non c'è accordo su ciò che è il minimo umano? È che l'intuizione del minimo umano presentata attraverso le sette leggi di Noè è una concezione ebraica. Ciò non significa che valga solo per gli ebrei, ma corrisponde a ciò che gli ebrei pensano che gli altri dovrebbero come minimo rispettare perché sia possibile una coabitazione con loro. Tutta la difficoltà del lavoro del dialogo consiste proprio nel riconoscere che gli “altri” non definiscono necessariamente il minimo allo stesso modo nostro. Questo non ha quindi niente a che vedere con l'idea di una base minima comune alle grandi tradizioni filosofiche e religiose, una sorta di etica mondiale come quella che tenta di mettere in evidenza Hans Küng con la sua fondazione Weltethos? No, non è la stessa cosa. Ancora una volta, le sette leggi di Noè sono ciò che l'ebraismo propone all'umanità come minimo comune, ma questa visione universale è la visione universale... dell'ebraismo. Il fatto è che questa visione dell'universale non è necessariamente condivisa dagli altri. Quest'idea è molto interessante nel contesto attuale di diversità perché mi obbliga a mantenere uno sguardo critico nei confronti della mia tradizione. Diventa difficile per gli ebrei constatare che c'è una distorsione nella lettura di tutti questi testi, una specificità ebraica inaggirabile. Ma allora dobbiamo interpretare le cose come Maimonide nel X secolo e concludere che non c'è coabitazione possibile? Evidentemente no, poiché, di fatto, viviamo già insieme. Certo, tutto questo è estremamente delicato da maneggiare. Immagini quello che mi direbbero se annunciassi ad esempio che la visione universale del mondo proposta dall'ebraismo integra l'accettazione delle disuguaglianze... Ma intanto, è un fatto, è nei testi. Quindi bisogna riflettere su questi testi e non cercare di nasconderli. La settima legge di Noè è la più sorprendente. Proibisce di strappare e mangiare un membro di un animale vivo... Questa legge mi ha molto turbato. Sembra strana e quasi inutile. Il fatto di strappare un membro di un animale vivo per mangiarlo appare evidentemente barbaro, ma non sembra che tale atto barbaro, piuttosto raro mi sembra, perturbi l'equilibrio del mondo. Dall'altro lato, atti barbari, se ne vedono molti, in particolare commessi dagli uomini su altri uomini. Se si fosse voluto lottare contro la barbarie, perché aver scelto di mettere in primo piano il problema dell'animale? Ho trovato delle piste di riflessione possibili su questa settima legge. L'animale è forse il simbolo di ogni essere verso il quale mi rendo colpevole di violenza e che riduco a statuto di animale. Nei genocidi di ogni tipo, colui che viene ucciso è spesso ridotto allo stato di bestia. Ma c'è altro. Le leggi sul cibo – quello che si ha o meno il diritto di consumare – sono cambiate. Secondo la tradizione biblica, l'uomo ha cominciato con l'essere vegetariano. Poi ha consumato carne. Ma non in maniera qualsiasi. Precisando le condizioni alle quali è lecito o meno consumare la carne di un animale, si creano dei quadri di riferimento che permettono di far entrare una certa forma di violenza nel nostro quotidiano. La riflessione offerta dalla settima legge di Noè non si fermerebbe quindi alla constatazione che esistono degli atti barbarici. Direbbe anche: “Ecco un atto violento, questo atto è proibito, ma tutto ciò che è al di qua è autorizzato poiché, del resto, voi avete il diritto di consumare l'animale, e quindi di ucciderlo.” La nostra società è in grado di gestire la violenza che genera? Ecco un argomento estremamente sensibile per tutte le società! I romani avevano capito molto bene questo offrendo al popolo “pane e giochi”, una sorta di inquadramento molto precario della violenza sociale... Ammetto che questo argomento è ancora molto delicato, se non tabù. Ma ancora una volta, è la differenza tra una società ideale ed una società semplicemente decente. E reale. *David Meyer è rabbino del movimento ebraico liberale e lavora da anni sul dialogo interreligioso. Abita a Bruxelles, insegna in molte università, in Belgio e in altri paesi, in particolare alla Pontificia università gregoriana di Roma. Oltre Le Minimum humain, in collaborazione con il pastore Jean-Marie de Bourqueney, ha pubblicato anche alle edizioni Lessius Les versets douloureux (2008, con Yves Simoens e Soheib Bencheikh) e La Vie hors-la-loi (2009).