! Università!degli!Studi!di!Enna!“Kore”! Archeologia!del!Mediterraneo! ! Geografia)del)Mediterraneo) DISPENSA! ! 1. INTERSEZIONI!DI!LIVELLI!SPAZIALI! Per! capire! in! cosa! i! metodi! e! i! ragionamenti! geografici! sono! indispensabili! a! qualsiasi! analisi!territoriale,!bisogna,!innanzitutto,!chiarire!che,!contrariamente!a!un’opinione!assai! diffusa,! i! fenomeni! detti! fisici! non! sono! che! una! parte! delle! molteplici! categorie! di! fenomeni! presi! in! considerazione! dalla! geografia.! Ciascuna! di! queste! categorie! è! poi! oggetto!di!una!specifica!branca!(geologia,!climatologia,!idrografia,!ecc.).!! Le! differenti! tesi! geografiche/geopolitiche! che! si! affrontano! utilizzano! ciascuna! questo! o! quel!dato!geografico!per!provare!il!loro!buon!diritto!ed!è!dunque!utile!avere!una!visione!di! insieme!ed!una!visione!precisa!di!ciascuno!di!questi!dati.!Così,!la!rivendicazione!o!la!difesa! delle!«frontiere!naturali»,!tesi!geopolitica!classica,!si!fonda!sulla!presentazione!delle!forme! del!rilievo,!ma!ciascuna!delle!forze!in!campo!sceglie!come!linea!legittima,!fra!i!tracciati!dei! corsi! d’acqua! e! gli! spartiacque,! quello! che! è! posto! più! «avanti»,! in! modo! da! estendere! il! proprio!territorio.! Lo! studio! delle! differenti! rappresentazioni! e! dei! diversi! argomenti! geografici/geopolitici! deve! prendere! in! considerazione! quindi! carte! attuali! e! carte! storiche! che! rappresentino,! per!una!stessa!porzione!di!spazio!terrestre,!la!ripartizione!di!queste!diverse!categorie!di! fenomeni.! Inoltre,! va! segnalato! che! in! ambito! geopolitico,! l’uso! delle! carte! è! di! sovente! oggetto!di!trucchi:!ciascuna!delle!rappresentazioni!tematiche!che!si!confronteranno!per!il! controllo! dello! stesso! territorio! fonderà! i! suoi! argomenti! sulla! carta! che! meglio! le! conviene,!mentre!la!tesi!rivale!sceglierà,!senza!dirlo,!un’altra!carta!che!rappresenterà!altri! fenomeni!utili!a!confortare!le!sue!rivendicazioni.! Queste!tattiche!cartografiche!contraddittorie!sono!rese!possibili!dal!fatto!–!generalmente! disconosciuto!–!che!ciascuno!dei!fenomeni!che!isoliamo!nel!pensiero!ha!la!sua!particolare! configurazione! spaziale! su! una! stessa! porzione! di! territorio.! Così! la! maggior! parte! dei! differenti!insiemi!spaziali!che!si!possono!tracciare!su!una!stessa!carta!(o!su!dei!calchi)!per! rappresentare!le!diverse!caratteristiche!di!uno!stesso!territorio!(risorse!geologiche,!forme! del! rilievo,! insiemi! di! vegetazione,! ripartizione! delle! lingue,! delle! religioni! ecc.)! ha! dei! limiti! che! non! coincidono! con! quelli! di! altri! insiemi! spaziali.! Questi! insiemi! spaziali! formano!una!serie!di!intersezioni.! 1" " Ciò! riveste! una! grande! importanza! in! materia! di! ragionamenti! geografici/geopolitici,! soprattutto! quando! si! tratta! di! frontiere.! La! maggior! parte! delle! frontiere! traversano! le! intersezioni! che! formano! i! limiti! dei! diversi! insiemi! spaziali.! Da! tali! discrepanze! ne! sono! risultati!gravi!conflitti!geopolitici.!! Il! metodo! è! di! classificare! per! ordine! di! grandezza! i! molteplici! insiemi! di! qualsiasi! taglia! che! bisogna! prendere! in! considerazione! –! che! siano! geologici! o! religiosi! –! e! di! rappresentare! questi! diversi! ordini! (dal! locale! al! planetario)! come! una! serie! di! piani! sovrapposti,! con! per! ciascuno! di! essi! la! carta! che! mostri! le! intersezioni! degli! insiemi! di! dimensioni! simili! cartografati! alla! stessa! scala.! È! combinando! i! dati! che! appaiono! su! ciascuno!dei!piani!di!un!tale!schema,!che!alcuni!definiscono!«diatopico»!o!«multiscalare»,! che!si!potrà!condurre!il!ragionamento!ai!diversi!livelli!di!analisi!spaziale.!Un!tale!approccio! costituisce! la! forma! più! operativa! e! più! strategica! del! ragionamento! sui! territori,! cioè! il! ragionamento!geografico!nella!sua!definizione!epistemologica!più!efficace.! La! geopolitica,! quindi,! in! quanto! approccio! scientifico,! non! si! limita! all’esame! delle! rappresentazioni! contraddittorie.! Essa! deve! sforzarsi! di! costruire! una! rappresentazione! più!globale!e!molto!più!obiettiva!delle!situazioni,!per!proporre!soluzioni!agli!scontri!in!atto! ma!anche!per!cercare!di!prevedere!gli!scenari!futuri.! ! 2. SOTTOSVILUPPO! Per! aree! sottosviluppate! si! intendono! quelle! zone! in! grandissimo! ritardo! sul! piano! economico,!occupazionale,!sociale!ed!infrastrutturale.!! Tali!aree,!i!cui!problemi!più!gravi!sono!la!fame,!la!sete,!le!malattie!mortali!e!la!siccità! sono! solitamente! anche! percorsi! dalla! una! crescita! demografica! eccezionale! con! tassi! di! natalità!altissimi.! Le! aree! più! sottosviluppate! al! mondo,! da! cui! provengono! anche! le! grandi! masse! odierne! di! emigranti,! coincidono! con! molti! paesi! dell’America! Latina,! parte! dell’Asia! e! con! l’intero!continente!africano.! Oltre,!però,!a!questa!gravissima!forma!di!sottosviluppo!che!coinvolge!i!continenti!citati,! ne!esistono!delle!altre!forme!che!vanno!comunque!definite!come!casi!di!sottosviluppo.!Vi!sono! difatti! altre! aree! geografiche,! europee,! ad! esempio,! che! sono! considerate! sottosviluppate! poiché! in! ritardo! rispetto! alle! regioni! o! alle! nazioni! più! avanzate! all’interno! della! stessa! comunità!europea.!! In!queste!aree!sottosviluppate!non!si!registrano!problemi!quali!la!fame,!la!siccità!o!le! epidemie!mortali,!ma!potremo!parlare!ugualmente!di!aree!sottosviluppate,!poiché!in!ritardo! su!alcuni!aspetti!fondamentali!degli!standard!europei:!pil!pro!capite,!agricoltura!premoderna,! alti! tassi! di! disoccupazione! (soprattutto! giovanile),! bassa! qualità! dei! servizi! (trasporti! pubblici,!ospedali,!raccolta!rifiuti,!ecc.),!assenza!di!una!valida!classe!imprenditoriale.! Con!particolare!riferimento!all’Italia,!un!fenomeno!strettamente!legato!al!sottosviluppo! è!la!diffusa!presenza!delle!grandi!organizzazioni!criminali,!che!per!di!più,!negli!ultimi!decenni,! partendo! dalle! aree! maggiormente! sottosviluppate,! sono! riuscite! ad! infiltrarsi! nelle! regioni! economicamente!più!avanzate!del!nostro!paese.!! 2" " Il! caso! più! eclatante,! in! tal! senso,! è! quello! della! ‘ndrangheta! che! dalla! Calabria! si! è! ramificata!in!molte!regioni!del!nord!Italia!(Lombardia,!EmiliaURomagna!e!Veneto).!!!! Su! scala! europea! invece,! all’inizio! degli! anni! Novanta,! si! è! registrato,! tra! le! aree! classificate! come! sottosviluppate,! un! caso! virtuoso! di! una! nazione! che,! in! breve! tempo,! è! riuscita!a!passare!da!uno!stato!di!sottosviluppo!ad!una!fase!di!crescita!esponenziale.! Il! paese! in! questione! è! l’Irlanda! che! mettendo! in! atto! delle! politiche! rivolte! ad! agevolare! ed! incentivare! gli! investitori! stranieri! e! soprattutto! sfruttando! quasi! il! 99%! dei! «Fondi! strutturali! europei»,! è! riuscita! ad! ottenere! una! fortissima! ascesa! economica,! meritandosi!così!l’appellativo!di!“Tigre!celtica”.!! In! seguito,! a! partire! dalla! fine! del! 2006,! anche! l’Irlanda! è! stata! colpita! dalla! crisi! economica!globale,!tuttavia!il!caso!irlandese!resta,!senza!alcun!dubbio,!un!mirabile!esempio!di! sviluppo.! ! 3. Fondi!Strutturali!Europei! L’UE! ha! individuato,! tra! i! suoi! Stati! membri,! quelle! regioni! che,! secondo! i! parametri! summenzionati,!devono!essere!considerate!come!sottosviluppate!e,!per!tale!ragione,!le!ha! inserite!in!specifici!programmi,!settennali,!di!sviluppo!economico.! Prprio!per!queste!regioni,!l’UE!stanzia!dei!fondi!speciali!denominati,!per!l’appunto,!«Fondi! Strutturali!Europei».! I!«Fondi!strutturali!europei»!nascono!quindi!con!l’intento!di!far!sviluppare!queste!aree!in! ritardo! rispetto! a! quelle! che! sono! le! medie! europee! e! si! pongono,! principalmente,! tre! obiettivi.!! 1. Riduzione!delle!disparità!regionali!in!termini!di!ricchezza!e!benessere! 2. Aumento!della!competitività!e!dell'occupazione! 3. Sostegno!alla!cooperazione!transfrontaliera! Si! precisa! che,! per! quanto! cooperazione! transfrontaliera,! s’intende! la! promozione! della! ricerca!di!soluzioni!congiunte!a!problemi!comuni!tra!autorità!confinanti,!come!lo!sviluppo! urbano,!rurale!e!costiero!o!la!creazione!di!relazioni!economiche!e!reti!di!piccole!e!medie! imprese.!A!tal!riguardo,!sono!ammissibili!regioni!situate!lungo!le!frontiere!terrestri!interne! e!talune!frontiere!esterne,!nonché!alcune!frontiere!marittime!adiacenti.! I! Fondi! strutturali! possono! essere! impiegati! non! esclusivamente! in! un! ambito,! ma! in! molteplici! settori,! dal! mantenimento! e! valorizzazione! dei! Beni! culturali,! ai! piani! per! lo! sviluppo!turistico,!per!la!salvaguardia!dell’ambiente!o!per!le!competenze!scolastiche,!solo! per!citarne!alcuni.! Il! settore! che! più! da! vicino! riguarda! il! ! mondo! della! scuola! è! quello! dei! PON! (Progetti! Operativi!Nazionali)!ed!in!particolare!le!categoirie!FSE!e!FESR.! Il! Fondo! Sociale! Europeo! (FSE),! finanzia! interventi! nel! campo! sociale.! Ha! il! compito! di! intervenire! su! tutto! ciò! che! concorre! a! sostenere! l'occupazione! mediante! interventi! sul! 3" " capitale! umano:! prevenire! e! combattere! la! disoccupazione,! creazione! di! figure! professionali! e! di! formatori.! I! beneficiari! sono! soprattutto! giovani,! donne,! adulti,! disoccupati! di! lunga! durata,! occupati! a! rischio! di! espulsione! dal! mercato! del! lavoro! e! gruppi!a!rischio!di!esclusione!sociale.! Il!Fondo!Europeo!di!Sviluppo!Regionale!(FESR),!finanzia!gli!interventi!infrastrutturali!nei! settori!della!comunicazione,!energia,!istruzione,!sanità,!ricerca!ed!evoluzione!tecnologica.! L’UE!stanzia,!pertanto,!questi!fondi,!con!piani!pluriennali,!fin!dal!1989,!attualmente!siamo! arrivati! al! piano! “2014U2020”;! anche! per! quest’ultimo! settennio! è! stato! confermato! l’utilizzo! del! PIL! pro! capite! come! criterio! per! la! ripartizione! dei! territori,! introducendo,! però,! rispetto! alla! precedente! programmazione,! una! categoria! intermedia! di! regioni.! I! territori!dell’Unione!sono!così!suddivisi!in!tre!categorie:! 1. Regioni!meno!sviluppate!(PIL!pro!capite!inferiore!al!75%!della!media!UE)! 2. Regioni!in!transizione!(PIL!pro!capite!compreso!tra!il!75%!e!il!90%!della!media!UE)! 3. Regioni!più!sviluppate!tutti!i!restanti!territori! Per!quanto!riguarda!l’Italia,!rispetto!al!piano!2007U2013!l’unica!differenza!concreta!è!nel! passaggio! di! due! Regioni! (Abruzzo! e! Molise)! dall’obiettivo! convergenza! alle! “Regioni! in! transizione”.! Le! regioni! Campania,! Calabria,! Puglia! e! Sicilia! rimangono! invece! nella! categoria!delle!regioni!meno!sviluppate.! Considerando,!dunque,!la!più!che!ventennale!esistenza!di!tali!risorse!economiche,!regioni! come!la!Sicilia!avrebbero!potuto!ridurre,!e!da!tempo,!i!loro!tassi!di!disoccupazione,!invece,! è!stato!fatto!poco!o!nulla,!tanto!più!che!i!pochi!progetti!approvati!hanno!riguardato!aspetti! marginali!con!ritorni!sul!piano!dello!sviluppo!economico!limitati!o!addirittura!inesistenti.!!!! ! 4" " CLAUDIO GAMBINO TERRORISMO GLOBALE FALZEA EDITORE ISBN 978-88-8296-276-0 Copyright © 2008 Falzea Editore s.r.l. Viale Calabria, 60 89133 Reggio Calabria (Italy) tel. +39 0965 55042 fax +39 0965 58233 [email protected] www.falzeaeditore.it Realizzazione editoriale eseguita nella redazione È vietata la riproduzione anche parziale, con qualunque mezzo effettuata, compresa la fotocopia ad uso interno, se non autorizzata. 1. I MOVIMENTI RADICALI ISLAMISTI a) Dalla storia dell’Islam al sorgere dei movimenti radicali islamisti Islam significa sottomissione o abbandono: l’uomo deve mettersi completamente nelle mani di Dio e sottomettersi al suo volere. Solo così si può essere musulmani. L’Islam è connesso alla cultura araba, anche se solo una minoranza dei musulmani sono arabi. Ciò che unisce tutti i musulmani è il loro testo sacro: il Corano, scritto in arabo. L’Islam è la religione più giovane delle religioni mondiali e si fa risalire a Maometto, nato in Arabia, nella città della Mecca, attorno al 570 d.C. La Mecca, oltre ad essere un importante centro commerciale era anche un polo religioso. La pietra nera che vi era custodita era una reliquia sacra anche per tribù nomadi che vivevano fuori dalle sue mura. Già prima di Maometto la città era stata meta di pellegrinaggi, ma si era diffuso il culto degli dei ed entità sovrannaturali e non esisteva alcuna legge al di fuori delle antiche usanze: chi le infrangeva veniva espulso e dichiarato fuorilegge. La coesione delle tribù dipendeva dai legami di sangue e se uno dei suoi membri veniva ucciso la perdita andava compensata. Quando si attenuò il nomadismo a favore di una maggiore sedentarietà, queste tradizioni si indebolirono, mentre cresceva l’influenza dell’Ebraismo e del Cristianesimo, che, alla Mecca, attirava, in special modo, gli schiavi e le classi più basse della società. Maometto fu influenzato da monaci ed eremiti cristiani, che vivevano in totale solitudine nel deserto arabo. Il Corano ha parole di lode per questi cristiani che attribuivano più importanza alla preghiera che al commercio. I MOVIMENTI ISLAMISTI 10 All’età di 40 anni, mentre meditava, Maometto ebbe una visione: gli apparve l’Arcangelo Gabriele con un rotolo di pergamena e lo invitò a leggere, ma egli rispose che non sapeva leggere, ed allora l’angelo disse: «Leggi nel nome del tuo Signore!». La parola «leggi» in arabo ha la stessa radice di Corano che significa lettura o declamazione. Il Corano è la raccolta delle rivelazioni ricevute da Maometto nel corso degli anni e quindi anche i musulmani hanno un testo sacro, che fu trascritto, per la prima volta, dopo la sua morte. I 114 capitoli (sure) che costituiscono il Corano, non sono disposti in ordine cronologico ma in ordine di lunghezza: dai più lunghi ai più corti. Unica eccezione la sura che apre il Corano. Dopo la rivelazione, Maometto cominciò a predicare alla Mecca, però il suo definirsi profeta od inviato da Dio fu accolto dalle famiglie influenti come un tentativo di impadronirsi del potere politico della città. Inoltre le autorità reagirono con sdegno alla concezione di Allah come unico e vero Dio e lo accusarono di paganesimo. Nell’anno 622 il profeta abbandonò la Mecca di nascosto; l’emigrazione di Maometto fu chiamata in arabo higira, che vuol dire infrazione alla legge o partenza. Il profeta aveva spezzato il legame con la comunità, con i parenti e con la città natale. Non si trattò di una fuga: fu considerato come Abramo quando, su esortazione di Dio, lasciò la sua dimora di Ur, in Mesopotamia. A Medina il profeta divenne un leader religioso e politico e condusse la battaglia per diffondere la nuova religione; il termine che designa questa lotta è il medesimo che più tardi venne usato per designare la guerra santa «Jihad». La guerra in nome di Allah era più importante di qualsiasi principio morale e religioso. Nei successivi dieci anni Maometto conquistò la Mecca e riunì sotto il suo potere vaste regioni dell’Arabia. Prima della sua morte, avvenuta nel 632, aveva unificato il paese in un solo vasto regno basato da vincoli religiosi più importanti degli antichi legami di discendenza e di tribù. Dopo la morte di Maometto i musulmani furono governati da califfi o reggenti. I primi tre facevano parte dei suoi primi discepoli. Il quarto califfo fu Alì, era figlio dello zio Abu Talib, quindi cugino di Maometto ed allo stesso tempo ne era anche il genero, in quanto 11 Dalla storia dell’Islam al sorgere dei movimenti islamisti si era sposato con sua figlia Fatima. Con Alì si ebbe la divisione del mondo islamico; il califfo, inviso a molti, fu assassinato dai suoi oppositori. Per i suoi fautori Alì, essendo il parente più prossimo del profeta, era il naturale successore. Il partito di Alì, Shi’at Alì, fu responsabile di quella ramificazione dell’Islam che oggi è chiamata Shi’a, e che, tra l’altro, è la religione di stato in Iran. Il ramo Shi’a sosteneva che il leader dovesse essere un diretto discendente del profeta, mentre per i Sunniti, corrente principale, il potere doveva spettare a chi lo deteneva di fatto. Dopo la morte di Alì, la sede del califfo restò, per un periodo, a Damasco, poi fu trasferita a Bagdad, dove rimase per 500 anni. Quando il capo religioso dell’Islam divenne il sultano turco, la sede fu spostata ad Istanbul. Dopo la deposizione dell’ultimo sultano, nel 1924, nessun califfo è stato più a capo del mondo arabo. Nonostante la spaccatura interna, l’Islam si diffuse molto in fretta. Nel secolo successivo alla morte di Maometto, iniziò la decadenza del Regno Persiano e dell’Impero Bizantino e i conquistatori arabi si spinsero dal nord Africa all’Europa, attraverso Gibilterra e si fermarono a Poitiers, in Francia. Per molti secoli gli Arabi dominarono l’Andalusia, ove hanno lasciato tracce della loro cultura visibili, e la Sicilia dove gli Arabi furono la civiltà dominante fino all’arrivo dei Normanni. Gli arabi dominarono il sud della penisola iberica, con un califfato a Cordova, ove si formò un centro culturale con eruditi provenienti da tutto il mondo musulmano. La cultura arabo-ispanica esercitò grande influenza in Europa: architettura, letteratura, filosofia. Nel 1492 si registra la caduta del regno di Granada e la fine della dominazione islamica in Spagna. Nel 1529 attraverso i Turchi, i musulmani giungono alle porte di Vienna, ma nel 1571 i Turchi vengono sconfitti a Lepanto da una coalizione cristiana partita dal porto di Messina al comando di Don Giovanni d’Austria. Oggi l’Islam occupa, a livello mondiale, nella graduatoria delle religioni, la seconda posizione per numero di fedeli. La religione più diffusa nel mondo è il cristianesimo che annovera il 36,6 per cento (2.217.037.000 fedeli nel 2000) della popolazione mondiale, seguito dall’Islam con 1.188.042.000 fedeli pari al 19,6 per cento. La maggior parte dei musulmani si concentra nelle regioni asiati- I MOVIMENTI ISLAMISTI 12 che, soprattutto in Indonesia (182.570.000), Pakistan (134.480.000), India (121.000.000), Bangladesh (114.080.000), seguiti da paesi con presenze sotto i cento milioni ma con incidenze percentuali elevatissime sulla popolazione totale, come la Turchia (98,8%) e l‘Iran (99,6%). Nel continente africano si distinguono l’Egitto (58.630.000), la Nigeria (53.000.000), il Marocco (28.780.000), il Sudan (25.610.000) e l’Etiopia (21.000.000). In Europa, i musulmani sono 31.566.000, pertanto nell’arco di quarant’anni sono più che quadruplicati; nelle Americhe, gli USA concentrano la comunità più numerosa con il 70 per cento dei musulmani; questi raggiungono i 4.450.000 nell’America settentrionale, mentre 1.672.000 vivono nell’America Latina. In Oceania professano l’Islam 301.000 persone. Come è stato evidenziato in una recente indagine1, l’Islam è oggi radicato in aree poste ben al di là dei luoghi di diffusione tradizionale: è un «universalismo che oltrepassa le frontiere». L’Islam non riguarda solo la fede e la sfera religiosa, ma domina tutti i settori della vita privata e sociale e l’interpretazione della legge ha sempre occupato un ruolo preponderante. Nei paesi islamici a detenere la leadership religiosa sono i giuristi, non esiste struttura clericale organizzata. Per l’Islam, il Corano è la parola di Dio in senso assolutamente letterale. Per il Cristianesimo la rivelazione avviene con Gesù, è Gesù stesso. Per l’Islam Maometto è solo un tramite e la vera Rivelazione è contenuta nel Corano. Ossia nel Cristianesimo la parola di Dio è un uomo, nell’Islam è un libro, indi non è corretto paragonare Gesù a Maometto e la Bibbia al Corano. I doveri religiosi dei musulmani si riassumono nei cinque pilastri: professione di fede, preghiera, digiuno, elemosina e pellegrinaggio alla Mecca. Professione di fede: «Non vi è alcun dio all’infuori di Dio e Maometto è il Suo profeta». Questa frase viene ripetuta più volte al giorno, gridata dai minareti nell’ora della preghiera, e scritta sui R. GALLIANO-R. C. GATTI, Occidente e Islam oggi: «scontro di civiltà o guerra civile islamica»? in «Atti del XXIX Congresso Geografico Italiano» Geografia-Dialogo tra generazioni, vol. II, contributi, a cura dell’Associazione dei Geografi Italiani, Bologna, Patron, 2005, pp. 234-235 1 13 Dalla storia dell’Islam al sorgere dei movimenti islamisti muri della moschea. Sono le prime parole sussurrate all’orecchio di un neonato e le ultime ad un moribondo. Preghiera: l’Islam prescrive le preghiere 5 volte al giorno; un tempo era il muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera, ora l’invito è diffuso da un altoparlante: «Dio è il più grande. Io proclamo che non vi è alcun dio all’infuori di Dio. Io proclamo che Maometto è il profeta di Dio. Vieni alla preghiera. Vieni alla salvezza. Dio è il più grande. Non vi è alcun dio all’infuori di Dio.» Si possono recitare le preghiere in qualsiasi luogo, inginocchiati in direzione della Mecca. Gli uomini pregano nella sala principale della moschea, le donne si riuniscono in un loggione o in un locale nascosto da una tenda, nel fondo della sala. Qualsiasi musulmano adulto può essere imam, solitamente persona con buona istruzione teologica, anche se nell’Islam non esiste una struttura clericale organizzata. Digiuno: il Corano proibisce di mangiare carne di maiale, perché impuro, e bere alcol. Fa eccezione il digiuno nel ramadan, che cade al nono mese dell’anno lunare: tra il sorgere ed il tramontare del sole è proibito mangiare, bere, fumare ed avere rapporti sessuali. Il ramadan è il mese in cui Maometto ricevette la prima rivelazione. Elemosina: questo termine non esprime bene il senso del termine arabo, poiché si tratta di un atto rituale e di un vero e proprio dovere imposto dal Corano. L’elemosina è una piccola tassa pari a un quarantesimo, o al 2,5 per cento, del capitale e della proprietà, ma si può donare di più. Secondo Maometto queste somme devono essere date dai ricchi ai poveri. L’obbligo dell’elemosina ha svolto un ruolo significativo nella formazione di un socialismo islamico in diversi paesi. Pellegrinaggio alla Mecca: l’Islam si connota per la presenza di città monosemitiche, vale a dire di contesti urbani che possono essere considerati come città-simbolo che contribuiscono a caratterizzare le specificità delle religioni. In questo senso la città simbolo dell’Islam è La Mecca. Ogni anno, in una data fissa del calendario lunare, folle di fedeli convergono alla Mecca, partecipano a pellegrinaggi nei dintorni della città, che si è ampliata senza soste per accogliere masse sempre più numerose di fedeli, e venerano la Ka’ba. I devoti girano sette volte attorno alla Ka’ba, proprio come fece Muhammad, e sostano innanzi alla Pietra Nera, incastonata ad al- I MOVIMENTI ISLAMISTI 14 tezza d’uomo esternamente all’angolo orientale del santuario. Attorno a questa reliquia si stende l’immenso cortile di una moschea monumentale, capace di accogliere centinaia di migliaia di fedeli. La Mecca è, dunque, il luogo in cui il musulmano realizza il rapporto con il trascendente. Il principio dell’unità dei fedeli, che costituisce uno dei fondamenti dell’insegnamento coranico, è ontologicamente evidente proprio alla Mecca, cui è motivatamente vietato l’accesso a chi non è musulmano per evitare che disturbi la purezza del rito e il carisma dei simboli. In qualunque parte del mondo si trovi, il musulmano prega cinque volte al giorno con il viso rivolto alla Mecca. Addirittura, all’interno delle moschee v’è una nicchia, mihrab, incastonata in una parete per indicare la direzione della qibla, il punto della Mecca verso cui si rivolge. Per estendere la conoscenza delle città-simbolo musulmane ove si trovano i segni più ricchi del senso della spiritualità e del rapporto con la trascendenza, ci si può spostare a Medina. Questa città costituisce il secondo luogo simbolico dell’islamismo, ma lo è per ragioni diverse e quindi con significati differenti rispetto alla Mecca, almeno per quanto riguarda il rapporto tra esistenza e trascendenza2. Per tradizione l’Islam non distingue tra religione e politica, tra fede e morale. I doveri religiosi, morali e sociali degli uomini sono tutti stabiliti nella legge sacra dei musulmani, shar’ia, che significa «la via dell’abbeveratoio», cioè la giusta condotta di vita che Dio ha indicato. Il Corano è un codice di regole e istruzioni per la gestione della società, dell’economia, del matrimonio, del ruolo della donna, etc. Se il Corano non dà indicazioni i musulmani si attengono alla tradizione (sunna, cioè «pratica», «usanza») e si rifanno a Maometto ed ai califfi nelle raccolte dette hadith («conversazione» o «comunicazione»). Riguardo alle donne il Corano esprime concetti contradditori: «Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre» (sura 4,34). «Le donne devono avere nei confronti degli uomini gli stessi diritti che gli uomini nei confronti delle donne» (sura 2,228). La differenza nel trattamento di uomini e donne si manifesta in diversi modi nella vita A. VALLEGA, Geografia culturale. Luoghi, spazi, simboli, Torino, UTET, 2003, p. 160 2 15 Dalla storia dell’Islam al sorgere dei movimenti islamisti sociale. Quando si stipula il contratto di matrimonio, l’uomo versa una dote che rimane proprietà della donna e che non può essere usata senza il suo consenso. Alle donne è imposta la monogamia, mentre l’uomo può avere quattro mogli. Oggi il divieto di poligamia è in vigore in Turchia e in Tunisia; il divorzio è possibile se richiesto dall’uomo che ha la responsabilità economica della famiglia. L’uomo ha il diritto di punire la donna se questa è disobbediente: «Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele» è detto nella sura 4. La circoncisione per le donne non è obbligatoria come per gli uomini ed il Corano non ne fa menzione; tuttavia è usanza praticata in alcune regioni del nord Africa. Pure l’usanza del velo, che copre il volto, non deriva dal Corano, anche se un tempo lo usavano solo le donne di casta superiore e non riguardava la donna che lavorava. La battaglia contro il velo ha rappresentato una questione primaria nel processo di modernizzazione di molti paesi arabi, ma parallelamente al rinnovamento islamico degli ultimi anni si è risvegliato un nuovo interesse per questa usanza. Negli stati musulmani del Medio Oriente e dell’Africa del nord, i matrimoni restano religiosi. Il matrimonio laico, ateo, non è consentito, come del resto anche in Israele. La maggior parte dei matrimoni misti – in particolare tra musulmani e cristiani – sono vietati dai codici religiosi della famiglia. Ma solo l’Arabia Saudita – in virtù di una vecchia tradizione per la quale l’Arabia centrale, luogo della Rivelazione, deve essere integralmente musulmana – ammette esclusivamente sudditi musulmani e il matrimonio musulmano. Solo le ambasciate sono libere di far amministrare al loro interno i sacramenti cristiani. Nell’Islam non esiste un clero nel senso di una gerarchia che dispone di poteri sacramentali, come nel cristianesimo, ma di fatto esiste un «personale» specializzato nei compiti del culto e della dottrina, che nel mondo musulmano costituisce una rete di studiosi della materia religiosa, di giuristi del diritto musulmano, di capi preghiera nelle innumerevoli moschee o santuari, di predicatori del venerdì, di giudici per le questioni musulmane. Tutti i problemi (pratici, intellettuali, giuridici, politici, ecc.) che si presentano a questo personale sono discussi in riunioni internazionali, in congressi di studiosi, in conferenze di capi di stato e dei loro ministri. L’università islamica I MOVIMENTI ISLAMISTI 16 di Al-Ahzar del Cairo, ad esempio, è considerata come un antico centro intellettuale del pensiero musulmano in tutti i campi. Nell’Islam si è sviluppata una corrente che considera fondamentali la meditazione e il ritiro spirituale ed è stata definita «sufismo», forse in riferimento al mantello di lana indossato dagli adepti (lana in arabo si dice suf). Sebbene l’ascetismo non abbia mai rappresentato un ideale per l’Islam, i fedeli sono sempre stati esortati ad una condotta semplice e, perciò, si ribellarono al lusso che vi era alla corte del califfo a Bagdad e si diedero a vita puritana, con digiuno, preghiera e meditazione. I primi mistici entrarono in conflitto con l’Islam ufficiale e, in alcuni casi, furono accusati di blasfemia ed uno dei sufi più famosi, Hallaj, fu condannato a morte. Centocinquant’anni dopo Hallaj, Ghazali tentò la mediazione tra la pratica del sufismo e la teologia ufficiale. Ghazali è stato uno dei più eminenti pensatori di tutti i tempi e, secondo lui, la verità ultima può essere raggiunta solo attraverso l’estasi e l’unione mistica con Dio. Il sufismo prevede speciali esercizi di meditazione: la ripetizione prolungata di una preghiera o di una parola, a cui si possono associare precisi movimenti o esercizi di respirazione. «Strumenti» usuali sono una sorta di rosario e la ripetizione dei «novantanove nomi più belli» che si usano per definire Dio. Il sufismo non è un movimento organizzato, tuttavia si ritrovano sufi sia tra i musulmani sciiti sia tra i musulmani sunniti. Sia i sunniti che gli sciiti credono nella tradizione scritta nel X secolo che riferisce parole e azioni di Maometto; gli sciiti considerano, però, alcune parole e azioni false e inventate. Quindi, ci troviamo di fronte a due varianti di una stessa tradizione, che vede quella sciita richiamarsi principalmente ai fatti e ai detti di Alì3. Uno degli assi dottrinali dell’Islam sciita è la commemorazione del martirio dell’imam Hussein, nipote del Profeta, figlio di Alì, quarto califfo dell’Islam. Hussein fu sconfitto e messo a morte a Karbala (nel sud dell’attuale Iraq) nel 680 dalle truppe del califfo sunnita di Damasco, che gli sciiti, sostenitori della famiglia di Alì, consideravano un usurpatore. Tradizionalmente, questa cerimonia è l’occasione per esprimere quello che viene definito il «dolorismo» sciita: i fedeli compiono riti di flagellazione, piangono di3 O. CARRÈ, L’Islam laico, Bologna, Il Mulino, 1993 G. KEPEL, Jihad ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma, Carocci, 2004, p. 38 5 O. CARRÈ, op. cit. 4 17 Dalla storia dell’Islam al sorgere dei movimenti islamisti speratamente evocando il martirio di Hussein e della sua famiglia e si rimproverano per non essere accorsi in suo aiuto. Il clero ha assunto questa cerimonia a simbolo del rifiuto del mondo, in particolare del potere e della politica, ritenuti malvagi e spregevoli, tanto più che, secondo la maggioranza degli sciiti, il dodicesimo imam, discendente di Alì, Mohammed al Mahdi, è scomparso nell’874 e ritornerà solo alla fine dei tempi. Durante il suo «occultamento», il mondo è stato avvolto dalle tenebre e dall’ingiustizia e ritroverà la luce e l’equità solo al momento del ritorno del messia. Sul piano politico, tale interpretazione ha avuto come conseguenza un atteggiamento «quietista»: i fedeli considerano il potere iniquo, ma non si ribellano apertamente. Seguono, invece, con ardore e devozione i religiosi, la cui indipendenza è garantita dalla «zakat», l’obolo legale, versato direttamente dai fedeli.4 La diversità dei substrati sociali e culturali sui quali l’Islam si è impiantato, la sua capacità di combinarsi con tradizioni anche molto differenti tra loro e la pluralità di interpretazioni alle quali il Corano si presta, autorizzano a chiedersi da tempo se non sia più pertinente parlare di Islam al plurale. Inoltre, occorre distinguere (e separare) l’Islam dall’islamismo (altrimenti definito Islam radicale o politico). Se l’Islam non è uguale dappertutto, e se non è pensabile identificare fondamentalismo e islamismo con l’Islam, è pur vero che non si può oggi non rilevare come in molti paesi islamici vi sia da parte delle popolazioni, in genere, un forte e disperato bisogno di rivalsa nei confronti dell’Occidente; bisogno mosso da un «disagio» che pare oggi volersi esprimere soltanto attraverso il linguaggio della religione. Nel mondo islamico ha avuto, a lungo, un ruolo di grande rilevanza il modello saudita in cui il sunnismo (tradizione), come lo sciismo (gruppo), conosce e ha conosciuto correnti estremiste se non terroriste e tanto l’uno quanto l’altro conoscono e hanno conosciuto una grande corrente di compromessi nell’organizzazione delle società e delle relazioni internazionali.5 È l’Islam dotto degli ulema a detenere il monopolio del discorso religioso. Le origini e i motivi del successo iniziale della monarchia saudita sono, in effetti, legati a un’alleanza stretta nel 1745 tra l’emiro Muhammad Ibn Saud e un riformatore puritano, Muhammad Wahhab (1703-1792), nemico giurato delle superstizioni, colpevoli di aver alterato l’Islam delle origini. L’ideologia wahhabita che ne è derivata è d’importanza capitale per chi vuol capire l’Islam contemporaneo sunnita, nato dal pensiero di Qutb e Mawdudi, perché ha in comune con esso notevoli elementi dottrinali, in particolare l’ingiunzione a tornare all’Islam primitivo.6 Questa contiguità ha, comunque, avuto un’importanza decisiva per i successivi sviluppi dell’Islam sunnita: è in Arabia Saudita che, fin dalla metà degli anni Cinquanta, trovano rifugio diversi Fratelli musulmani egiziani perseguitati da Nasser. Essi forniranno al paese una base di funzionari e intellettuali più esperti della maggior parte dei sauditi dell’epoca e, tramite l’Università di Medina, insegneranno a studenti venuti da tutto il mondo musulmano il pensiero dei Fratelli, facilitandone così la diffusione. b) Fratelli musulmani: la matrice dell’islamismo moderno I MOVIMENTI ISLAMISTI 18 L’islamismo è stato un significativo movimento in Egitto sin dalla nascita dei «Fratelli musulmani», un movimento fondato da un insegnante, Hassan al-Banna, nel 1928; lo scopo di al-Banna era di contrastare il sovvertimento dei valori islamici, operato dal sistema di istruzione occidentale ed egli fu uno dei primi a ricorrere a una netta contrapposizione tra l’Islam e il sistema di valori, del tutto incompatibile, rappresentato dall’Occidente. Il movimento aveva elaborato, attraverso l’opera di al-Banna (1906-1949) e i suoi metodi di organizzazione delle masse, un modello per il pensiero e l’azione che sarà utilizzato dai movimenti islamisti del ventesimo secolo. La fondazione dei Fratelli musulmani rappresenta una reazione al periodo di smarrimento che l’Islam viveva a quel tempo. Il movimento, infatti, incarna la dimensione politica dell’Islam, sostituendosi al califfato scomparso, cui sarebbe spettato tale compito. Ai partiti nazionalisti egiziani dell’epoca che reclamavano l’indipendenza, la fine dell’occupazione inglese e una Costituzione democratica, i Fratelli oppone6 G. KEPEL, op. cit., pp. 52-53 19 Fratelli musulmani: la matrice dell’islamismo moderno vano uno slogan che è rimasto assai in voga nella corrente islamista: «la nostra Costituzione è il Corano», il che voleva dire, secondo un’altra formulazione, che «l’Islam è un sistema completo e totale». Tutti i movimenti islamisti, di qualsiasi tendenza essi siano, hanno fatto propria questa dottrina: la soluzione ai problemi politici dei musulmani consiste nell’instaurazione di uno Stato islamico che applichi la «shar’ia» (legge tratta dai Testi sacri dell’Islam). I Fratelli musulmani prosperarono, passando da 500 sezioni nel 1940 a 5.000 nel 1946, ciascuna delle quali con una moschea, una scuola e un club. A quel tempo una piccola organizzazione interna, i «messaggeri dello spirito», era impegnata anche in sporadici attacchi terroristici, a danno soprattutto dei traditori dell’Islam. Alla fine degli anni Quaranta del XX secolo, il governo egiziano contrastò l’ascesa dei Fratelli musulmani mettendoli al bando e uccidendo nel 1949 il loro leader fondatore, al-Banna. L’istituzione di una repubblica indipendente con Gamal Abdel Nasser (che i Fratelli musulmani cercarono di assassinare nel 1954) determinò misure repressive più generali che culminarono nel 1965 con la soppressione su vasta scala dell’organizzazione, l’arresto e l’esecuzione del successore di al-Banna, Sayyid Qutb. Il martirio di quest’ultimo diede nuova linfa alla convinzione che l’Islam era vittima dello spietato assalto della modernizzazione e che doveva essere difeso fisicamente e spiritualmente. Quanto l’islamismo fosse forte lo dimostrò la decisione del successore di Nasser, Anwar Sadat, di revocare il bando dei Fratelli musulmani. Nel 1981, lo stesso Sadat fu assassinato nel modo più spettacolare, mentre riceveva il saluto durante una grande parata militare. Questa azione fu, chiaramente, in parte frutto della reazione allo storico accordo con Israele e agli arresti in massa di estremisti religiosi (sia musulmani che cristiani copti), ma indicò anche l’intensificarsi dell’attacco alla laicità dello stato egiziano da parte di due temibili propaggini dei Fratelli musulmani, il Gruppo islamico (Gamat al-Islamiya) e al-Jihad. AlJihad organizzò l’assassinio del presidente Sadat; l’intento era quello di far scattare la scintilla per una ribellione di massa, che però non si è mai realizzata. Negli anni successivi l’organizzazione ha subìto una feroce repressione, bilanciata, però, da un alto livello di reclutamento. Centinaia di volontari si recarono in Afghanistan per combattere, al fianco dei mujahiddin afghani, contro il locale governo marxista. Per ironia della sorte, naturalmente, si è trattato di combattenti sovvenzionati e addestrati dal loro più grande nemico, gli Stati Uniti d’America. c) Dal nazionalismo all’idea dello stato islamico I MOVIMENTI ISLAMISTI 20 Fino alla metà degli anni Sessanta, nella maggior parte dei paesi musulmani predominava la cultura del nazionalismo. Essa era stata elaborata dalle élites locali, che avevano saputo contrastare con successo la colonizzazione europea proclamando i nuovi Stati; i nazionalisti avevano voluto fondare una Storia di cui erano ormai attori protagonisti, segnando una rottura netta e radicale con il passato. Ma la clamorosa sconfitta subita dal mondo arabo nella guerra dei Sei Giorni (1967) ha provocato l’inizio dello sgretolarsi di quel consenso basato sui valori nazionalisti su cui si fondava la legittimità del potere7. Arrivata all’età adulta negli anni Settanta, la prima generazione di musulmani dopo l’indipendenza non aveva memoria diretta delle lotte di liberazione anticoloniali. Estremamente numerosa, a causa dell’esplosione demografica, non può godere dell’ascensione sociale, resa possibile dall’indipendenza. L’universo dell’Islam conosce un radicale cambiamento con questa massa di giovani che devono fronteggiare sfide di ogni tipo per le quali le conoscenze trasmesse dai genitori, in maggioranza analfabeti, sono di scarsa utilità. Lo iato culturale e sociale tra le due generazioni è grande e i giovani degli anni Settanta non riescono ad inserirsi: il loro inurbamento diventa, spesso, sinonimo di affollamento in zone abitative precarie alla periferia delle città. Grazie al sapere acquisito nella scuola pubblica di massa, aspirano a cambiare status, a salire i gradini della società, mentre i loro antenati si accontentavano di ruoli sociali immutabili, tanto che non avevano mai guardato al di là del proprio villaggio. Il cambiamento è di grandi proporzioni, l’istruzione acquisita da questi giovani consente loro di esprimersi in forma corretta in pubblico, di leggere, di dibattere e di sentirsi allo stesso livello intellettuale delle élites nazionali al potere. Il balzo 7 G. KEPEL, op. cit., pp. 24, 32 8 G. KEPEL, op. cit., pp. 68-70 21 Dal nazionalismo all’idea dello stato islamico culturale in avanti non si traduce, però, per questi giovani nell’atteso progresso sociale. Questa frustrazione genera risentimento verso le élites, giudicate colpevoli di dominare lo Stato, di escludere dal potere e dalla ricchezza i giovani che hanno investito nel sapere. Proprio sul terreno culturale si esprimerà il malcontento sociale e politico, attraverso il rigetto dell’ideologia nazionalista dei regimi al potere e l’abbraccio dell’ideologia islamista. Un processo che avviene dapprincipio con la mediazione degli studenti: i campus, dominati all’inizio degli anni Settanta da gruppi di sinistra, passano sotto il controllo dei movimenti islamisti. È tra questi studenti che si forma l’intellighenzia islamista, la quale non costituisce un gruppo sociale omogeneo dagli obiettivi ben definiti ma, partendo dalla frattura sul terreno culturale con il nazionalismo, fa dell’islamismo una lotta per l’egemonia politica. Ciò permetterà al movimento di reclutare gli adepti in ambienti diversi, i cui interessi di classe divergono. Due gruppi sociali saranno particolarmente permeabili alla penetrazione islamista: la gioventù urbana povera – la massa degli esclusi, frutto dell’esplosione demografica e dell’esodo dalle campagne – e la borghesia religiosa, costituita da classi medie prive di accesso alla politica ed economicamente tartassate da regimi militari o monarchici. Questi due gruppi chiedono in coro l’applicazione della shar’ia e l’instaurazione di uno Stato islamico, ma non s’immaginano quest’ultimo allo stesso modo. I primi gli danno un contenuto socialmente rivoluzionario, i secondi vi vedono soprattutto l’occasione di prendere il posto dell’élite al potere. Quest’ambiguità è alla base della corrente islamista contemporanea e se i due gruppi si disuniscono, il movimento non è più capace di conquistare il potere. L’ideologia non funziona più da collante: emergono pensieri islamisti diversi che si annullano l’uno con l’altro.8 I movimenti islamisti non sono semplici partiti politici, nel senso tradizionale della parola: in essi il rapporto fra mistica e politica è forte, ogni membro è chiamato a cercare l’Islam «autentico», liberandolo da tutte le aporie della storia. Allo stesso tempo sono anche organizzazioni sociopolitiche, che mirano a pervenire al potere mobilitando diversi settori della società, attraverso elezioni o con altri mezzi, quali strategie eversive o lotta politico-militare. Negli anni Settanta si affermano l’Islam della contestazione e l’Islam militante. In questo decennio i movimenti islamisti divengono la principale forza di opposizione nei paesi del Medio Oriente e si attestano tra i movimenti studenteschi islamici in Europa. All’origine di questo fenomeno sono riconoscibili tre fattori principali: in primo luogo, l’usura del potere, nei paesi usciti dal periodo post-coloniale; in secondo luogo, la disastrosa sconfitta araba nella guerra dei sei giorni contro Israele, autentico trauma per il mondo arabo-musulmano; il terzo fattore, infine, è la drastica trasformazione socioeconomica che, in breve tempo, sconvolge l’intera società tradizionale dei paesi islamici: urbanizzazione e nascita di nuovi agglomerati metropolitani, scolarizzazione di massa, accesso all’istruzione universitaria per la gioventù nata dopo la decolonizzazione, ingresso della donna nella vita attiva. d) La diffusione del pensiero radicale: le teorie di Mawdudi, Qutb e Khomeini I MOVIMENTI ISLAMISTI 22 Il primo a concepire l’idea di «homo islamicus», vale a dire di un essere che si identifica totalmente con i principi dell’Islam, una specie di «uomo totale», di uomo perfetto è stato Mawdudi (19031979). Questo pensatore musulmano di origine indiana ha teorizzato in termini sia teologici sia politici l’idea di antioccidentalismo come costante nella storia dell’Islam. Il modello politico elaborato da Mawdudi si basa essenzialmente sul testo coranico e sulla tradizione profetica (Sunna) e così definisce l’approccio globale a un Dio che è sovrano nell’al di là e nell’al di qua. L’Islam diviene un tutto indivisibile, che si deve accettare o rifiutare per intero, ma anche un tutto immutabile, che non ammette cambiamenti o trasformazioni. L’Islam è una costituzione divina ed eterna che lo stato islamico deve porre come unico fondamento. «Una vita voluta e guidata da Dio è superiore a una vita scelta dall’uomo». La vita occidentale è segnata da una tara che la condurrà all’autodistruzione, perché vive nell’ignoranza delle direttive divine. Nello stesso periodo in cui Banna fonda i Fratelli musulmani, Mawdudi pubblica il suo primo libro, «La jihad nell’Islam». Per lui, ogni nazionalismo è empietà (kufr), tanto più se esso si rifà ad una concezione di stato di derivazione europea. Mawdudi predica un’isla- 8. CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI L’ORIGINE a) Dalla diaspora degli Ebrei alla proclamazione dello Stato d’Israele La Palestina è una delle regioni mediterranee di più remoto popolamento. Gli Israeliti (o Cananei) vi giunsero non prima del 1300 a.C.; essi erano di stirpe semitica, esercitavano il nomadismo pastorale ed erano suddivisi in diverse tribù finché, uniti nella lotta contro i Filistei, formarono la prima nazione ebraica, che sarebbe sopravvissuta alle vicende di una storia particolarmente tormentata (dominazioni degli Assiri, dei Babilonesi, dei Macedoni, dei Romani). La conquista di Gerusalemme a opera dei Romani (66-70), dopo la prima rivolta giudaica, segnò la diaspora definitiva del popolo ebraico, che, inutilmente, tentò di riacquistare l’indipendenza nel II sec. (seconda rivolta giudaica di Bar Kokheba, 132-135) la diaspora portò per 1800 anni gli ebrei lontano dalla loro patria d’origine, dove, nel frattempo, si erano andati lentamente insediando gruppi sempre più numerosi di Arabi. L’indipendenza d’Israele (14 maggio 1948) ha avuto la sua origine negli sforzi dei sionisti per ricreare un «focolare nazionale» per gli Ebrei della diaspora, minacciati dalla recrudescenza dell’antisemitismo (1880), particolarmente attivo in Germania e in Russia. La Palestina fu ritenuta il luogo naturale per tale «focolare». L’Alleanza israelitica universale e gli Amanti di Sion vi fondarono colonie agricole (diciassette, dal 1870 al 1896), con lo scopo di ricostituire una classe rurale ebrea. Le sovvenzioni finanziarie del barone Edmond de Rothschild favorirono, dal 1887 al 1899, la creazione di altre colonie a Ekron (Mazkeret Batya) e a Rishon-le-Zion. Il fondatore del Movimento sionista, Theodor Herzì, dichiarò al primo congresso sionistico di Basilea (agosto 1897), che entro cinquant’anni lo Stato ebraico si sarebbe costituito, disegnandone la struttura, le finalità e i mezzi di attuazione. Furono rapidamente realizzati la Banca nazio- CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 160 nale ebraica, per la raccolta e l’amministrazione dei capitali necessari, e il Fondo nazionale ebraico, per la messa in valore delle terre acquistate. I sionisti si proponevano di ricostruire in Palestina una patria per tutti gli Ebrei «che non potevano o non volevano restare nel paese in cui si trovavano». L’emigrazione verso la Palestina, prima fenomeno isolato o di piccoli gruppi tollerati dal governo ottomano, divenne, ben presto, imponente fenomeno di massa, incrementato dalla condizione insostenibile di vita degli Ebrei residenti nei paesi dell’Europa orientale. L’immigrazione in Terra Santa (o aliya) è uno stato dei grandi ideali che hanno permesso la ricostruzione di Israele; la sua importanza storica, politica, sociale ed economica, perciò, è stata considerevole. Nel 1882, quando iniziò la migrazione sionista, la popolazione totale della Palestina si aggirava intorno ai 25.000 abitanti, più della metà dei quali abitavano a Gerusalemme. Nel 1900 c’erano già 50.000 Ebrei in Palestina, ma ancora la metà circa era costituita da cittadini di Gerusalemme. Nel 1914 la popolazione ebraica raggiungeva gli 85.000 abitanti: c’erano già 47 insediamenti agricoli israeliti con una popolazione di circa 12.000 abitanti. Dopo la prima guerra mondiale, tale emigrazione ebbe un nuovo e massiccio incremento in virtù di due decisioni internazionali: la «dichiarazione di Balfour» (2 novembre 1917), che, frutto dei negoziati condotti da Chaim Weizmann, confermava al popolo ebraico il diritto di istituire un centro nazionale in Palestina, e il mandato assegnato dalla Società delle Nazioni alla Gran Bretagna per la realizzazione di tale centro, in seguito al quale all’Agenzia ebraica veniva riconosciuta la rappresentanza degli interessi della nazione ebraica presso la potenza mandataria. La soluzione auspicata era quella di uno Stato palestinese arabo-ebraico integrato. Nel periodo che intercorse fra le due guerre mondiali l’immigrazione sionista in Palestina ebbe uno sviluppo rapidissimo. La maggior parte degli immigrati proveniva dai paesi dell’Europa orientale; nei primi anni dopo la prima guerra mondiale essi provenivano soprattutto dalla Russia, ma in seguito principalmente dalla Polonia. Dal 1920 al 1930 numerosi Ebrei immigrarono dalla Germania e più tardi anche dall’Austria e dalla Cecoslovacchia. Nel 1931 la popolazione ebraica della Palestina era salita a 175.000 abitanti e nel 1939 raggiunse quasi i 420.000; mentre nel 1922 gli ebrei costituivano circa il 10 per cento della popolazione 161 Dalla diaspora degli Ebrei alla proclamazione dello Stato d’Israele palestinese, nel 1931 essi ne rappresentavano il 18 per cento e nel 1939 il 30 per cento. In seguito, all’aumento dell’immigrazione ebraica (specie dopo l’applicazione della politica razziale di Hitler, 1933), la Palestina fu teatro di sanguinosi disordini. Gli Arabi, temendo di essere ridotti a una minoranza rispetto agli Ebrei, dal 1935 al 1939 condussero una rivolta armata contro gli Inglesi. In Europa il numero degli Ebrei si ridusse drasticamente in seguito all’olocausto che caratterizzò l’era del dominio nazista. Gli Ebrei in Germania, in applicazione delle leggi di Norimberga (1935), furono esclusi, a poco a poco, da tutte le funzioni pubbliche e dalle professioni liberali; sottoposti a tasse particolari, divennero anche oggetto di pogrom organizzati. Molti scelsero il suicidio; circa 200.000 preferirono emigrare, a prezzo della perdita di una grande parte dei loro beni. Ma gli altri paesi, pur disapprovando il comportamento dei nazisti, si mostrarono poco propensi ad accogliere gli emigranti e il governo inglese rifiutò loro l’ingresso in Palestina. Navi cariche di infelici errarono, così, per i mari alla ricerca di un porto di salvezza e parecchie centinaia di migliaia di Ebrei polacchi, residenti in Germania ed espulsi dai nazisti, dovettero accamparsi nella «terra di nessuno» alla frontiera germanopolacca, che il governo polacco proibiva loro di passare. In Italia il regime fascista, a partire dal 1938, seguì l’esempio della politica razzista hitleriana, escludendo gli Ebrei dall’esercito, dal partito fascista, dai pubblici uffici e dalle scuole, proibendo loro i matrimoni misti e limitandone gravemente l’attività professionale ed economica, benché in pratica (almeno in un primo tempo) queste misure fossero meno rigidamente applicate, anche per la loro impopolarità presso l’opinione pubblica. Con le vittorie e le conquiste dei nazisti, in tutta l’Europa occupata gli Ebrei furono sottoposti a disposizioni discriminatorie e vessatorie: obbligo di portare un distintivo (stella gialla), imposizione di un timbro speciale sui documenti d’identità, proibizione di frequentare ristoranti e cinema e di circolare in determinate ore, ecc. Nello stesso tempo cominciò l’espropriazione sistematica dei loro beni per mezzo delle misure dette di «organizzazione economica», che affidavano i commerci e le attività economiche degli Ebrei alla gestione di amministratori provvisori; opera di spolia- CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 162 zione su vasta scala, che ebbe particolarmente di mira le opere d’arte. La sorte degli Ebrei fu soprattutto tragica nell’Europa orientale, particolarmente in Polonia, a partire dalla fine del 1940. Le autorità naziste, dopo aver pensato a un ammassamento degli Ebrei orientali in una riserva a Lublino, e al trasporto di quelli occidentali nel Madagascar, decisero nel 1942 il loro sterminio sistematico, battezzato come «soluzione finale». In tutta l’Europa occupata si ebbero, così, rastrellamenti metodici, che trascinarono centinaia di migliaia di Ebrei, dapprima in campi di internamento improvvisati, poi nei campi di concentramento e di sterminio, dove i più validi erano attesi dalla morte lenta provocata dal lavoro forzato e dai crudeli sistemi impiegati nei campi, e gli altri – vecchi, malati, fanciulli – dal passaggio quasi immediato nelle camere a gas e nei forni crematori. In complesso, perirono in tal modo quasi 6 milioni di Ebrei. L’imperversare delle persecuzioni naziste spinse gli Ebrei a reclamare il diritto a una immigrazione illimitata in Palestina. In seguito all’atteggiamento negativo degli Inglesi (episodio della nave Exodus, estate 1947), motivato anche dagli impegni da loro assunti verso gli Arabi durante la seconda guerra mondiale, gli Ebrei organizzarono l’immigrazione clandestina, appoggiata da una vasta rete protettiva e dall’organizzazione paramilitare dell’Hagana. Venne, così, condotta una dura e lunga guerriglia prevalentemente con atti terroristici contro Arabi e Inglesi, che rese inevitabile una soluzione politica della situazione. Considerata l’impossibilità di un accordo diretto tra Ebrei ed Arabi, la Gran Bretagna ricorse alle Nazioni Unite. Queste, nel novembre 1947, si pronunciarono a favore della spartizione della Palestina in due Stati indipendenti, uno arabo e l’altro ebraico, e della costituzione della città di Gerusalemme in zona internazionale sotto il loro controllo. Tale risoluzione, respinta dagli Arabi, provocò la guerra. Gli Ebrei di Palestina decisero di costituire un comitato esecutivo di 13 membri (aprile 1948) sotto la presidenza di David Ben Gurion, che proclamò l’indipendenza dello Stato d’Israele (14 maggio), poche ore prima della fine del mandato britannico (15 maggio ora zero). Riconosciuto dalle principali potenze mondiali, il piccolo Stato di 650.000 mila abitanti spezzò l’offensiva dei paesi arabi; ma la guerra, nonostante l’intervento dell’ONU, mediatore il conte Folke Bernadotte (che fu assassinato a Gerusalemme il 17 settembre 1948), si protrasse fino agli armistizi del 1949 (da febbraio a luglio). In seguito ad essi i confini d’Israele furono fissati in modo irrazionale (più di 1.000 km. di frontiera) e la città di Gerusalemme fu divisa in due parti: i luoghi santi attribuiti alla Giordania e la città nuova al giovane Stato, che ne fece la sua capitale. La fondazione dello Stato di Israele ha ricondotto, in parte, il problema ebraico al suo aspetto antico, rifacendo di una frazione della Palestina un paese sovrano in mezzo alle nazioni del Medio Oriente. L’antisemitismo ha preso, da allora, un aspetto nuovo, da cui sono estranee questioni razziali, mentre quelle religiose rappresentano soprattutto un pretesto di ostilità: esso appare come la principale componente di un nazionalismo arabo che si è visto sorgere di fronte, proprio in una posizione geografica chiave, uno stato forte e moderno, del tutto occidentalizzato, capace di convogliare grandi risorse economiche nel contesto di un Medio Oriente tradizionalmente arretrato. Mentre l’Occidente cristiano ha finito per simpatizzare con Israele, vari paesi arabi, nel tempo, hanno alimentato una violenta propaganda antisemita, giunta a predicare la guerra di sterminio e a negare a Israele il diritto di esistere. La questione arabo-israeliana nasce negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, dando luogo a una stabile guerra e a un’instabile pace. Il primo conflitto si registra subito dopo la proclamazione dello Stato d’Israele che provoca l’invasione da parte degli eserciti di cinque paesi: Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq. La guerra finirà il 7 gennaio 1949, dopo che il neonato Stato di Israele avrà ampliato il territorio, sotto il suo controllo, verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. L’armistizio suddivide la città di Gerusalemme tra Israele e la Giordania. Resta senza soluzione la sorte di circa quattrocentomila profughi arabi fuggiti da Israele durante la guerra e sistemati in campi provvisori di accoglienza vicino al confine. Subito dopo la metà degli anni ‘50 del XX secolo si registra il secondo conflitto denominato «guerra del Sinai». Infatti, nel 1956 Israele invade la penisola, che costituisce la fascia territoriale di collegamento tra Asia ed Africa, dopo che l’Egitto ha proclamato L’instabile pace e la stabile guerra b) L’instabile pace e la stabile guerra 163 CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 164 la nazionalizzazione del canale di Suez. Forze dell’esercito francese e britannico assumono il controllo del canale, gli Israeliani conquistano Gaza, sulla costa mediterranea, e Sharm el Sheikh, sul Mar Rosso. Israele si ritira nel 1957 dopo che le Nazioni Unite gli garantiscono un accesso al Golfo. Quasi un decennio dopo, s’inserisce nel complesso quadro del Medio Oriente un nuovo soggetto politico-militare. Nel 1964, difatti, nasce l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che punta a dare una rappresentanza ai Palestinesi, slegandoli dalla dipendenza dei paesi arabi. Poco dopo ne diventa capo Yasser Arafat che la guiderà fino alla morte. A tre anni di distanza dalla nascita dell’OLP, esplode la «guerra dei 6 giorni». L’Egitto chiude l’accesso al golfo di Aqaba concesso all’esercito israeliano e mobilita le sue truppe, insieme a Siria e Giordania. In risposta Israele lancia un attacco preventivo e distrugge gli aerei dell’aviazione egiziana ancora a terra, aggiudicandosi, così, la superiorità aerea su tutta la regione. Con i carri armati riesce a occupare in soli tre giorni tutta la penisola del Sinai, le alture del Golan, la Cisgiordania, la Città vecchia di Gerusalemme (che sarà successivamente annessa) e Gaza. Le Nazioni Unite intervengono per risolvere il conflitto e organizzare un cessate il fuoco nel quale richiedono il ritiro israeliano dai territori occupati. In realtà, un’ambiguità di traduzione nel documento segnerà, per sempre, la politica del Medio Oriente. Se, infatti, nel testo inglese le Nazioni Unite chiedono il ritiro «da territori occupati» (cioè da alcuni), quello in francese riporta «ritiro dai territori occupati» (cioè da tutti). L’inizio degli anni Settanta è segnato da una grave fase di tensioni interne al mondo arabo. In seguito a una serie di dirottamenti aerei da parte di guerriglieri palestinesi, la Giordania teme che l’Olp possa diventare pericolosa per la sua stessa sovranità, per questo motivo l’esercito giordano spinge l’organizzazione fuori dai suoi confini con un’azione violenta e sanguinosa. L’Olp si trasferisce in Libano. Nel settembre 1972 un gruppo palestinese noto come «Settembre nero» sequestra un gruppo di atleti israeliani che partecipano alle Olimpiadi di Monaco. Undici di loro muoiono nell’attacco delle teste di cuoio per liberarli. L’azione ha e avrà per sempre un impatto fortissimo nei rapporti tra Palestinesi e Israeliani. Nel 1973, si costituisce, con l’intento di attaccare Israele, un’articolata coalizione di paesi arabi. Il conflitto che ne scaturisce viene 165 L’instabile pace e la stabile guerra denominato «guerra del Kippur» dal nome della festività ebraica che Israele stava celebrando proprio nel giorno in cui Egitto e Siria sferrarono l’attacco. Anche l’Iraq si unisce all’attacco e gli altri Paesi arabi contribuiscono allo sforzo comune. Preso di sorpresa, Israele impiega diversi giorni per mobilitarsi e subisce pesanti perdite. Nonostante questo riesce a fermare l’offensiva e si dimostra nuovamente la potenza militare egemone della regione. L’esercito israeliano attraversa il canale di Suez e occupa parte della sponda occidentale e conquista grandi porzioni di territorio siriano. Le Nazioni Unite intervengono di nuovo per fermare il conflitto. L’accordo prevede, tra l’altro, il ritiro di Israele da una parte delle aree del Sinai. L’anno successivo, grazie a un accordo, la Siria recupera parte dei territori perduti. Sul Golan viene creata una zona cuscinetto. Alla fine degli anni Settanta sembrano prendere corpo le speranze di pace. Infatti, nel marzo del 1979 il presidente Usa Jimmy Carter riesce a portare nel Maryland il presidente egiziano Sadat e il premier israeliano Menachem Begin. La pace tra Egitto e Israele mette fine a una guerra tra i due paesi durata 31 anni. Due anni dopo Sadat verrà assassinato da un estremista arabo contrario alla pace. I primi anni Ottanta registrano una nuova fase del conflitto. Dopo aver annesso, nel 1981, le alture del Golan, nel 1982 l’esercito israeliano attacca il Libano del Sud e Beirut come rappresaglia per gli attacchi subìti, per molti anni, attraverso la frontiera dai guerriglieri filopalestinesi. Una volta entrati nel Paese e dopo aver circondato la capitale, gli Israeliani si fermano per trattare. Dopo dieci settimane di bombardamenti, l’Olp accetta di lasciare Beirut sotto la protezione di una forza multinazionale e di ricollocare in Tunisia il suo quartier generale. In cambio, Israele si ritira dalla maggior parte del Libano, ma continua a mantenere il controllo di una zona cuscinetto lungo il confine. Il 1987 è un anno che in Medio Oriente ha lasciato un’impronta di grande rilevanza: l’esplosione nei territori occupati della prima «Intifada», «rivolta delle pietre». I Palestinesi che vivono a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme si rivoltano contro gli Israeliani. Le manifestazioni continuano per anni e Arafat arriva a proclamare l’Olp come il governo in esilio di uno «Stato di Palestina». Quando le trattative di pace inizieranno, nel 1991, l’Olp ne verrà, però, formalemente esclusa, anche se i suoi rappresentanti formeranno buona parte della delegazione giordana, che – insieme a Siria, Libano CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 166 e Israele - viene invitata a partecipare alla conferenza di Madrid, organizzata dal presidente degli Stati Uniti, George Bush, alla presenza del capo del governo spagnolo, Gonzales, e del presidente russo Gorbaciov.149 Nel 1993 vengono stipulati gli accordi di Oslo, ufficialmente chiamati «Dichiarazione di principi sui progetti di auto-governo interinali» o Dichiarazione di Principi (DOP), conclusi il 20 agosto 1993; la cerimonia pubblica ufficiale di firma ebbe luogo a Washington il 13 settembre 1993, con Yasser Arafat che siglò i documenti per conto dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Shimon Peres, che firmò per conto dello Stato d’Israele. Gli Accordi di Oslo furono la conclusione di una serie di intese segrete e pubbliche che erano state messe in moto, in particolare, dalla Conferenza di Madrid del 1991, e di negoziati condotti nel 1993 tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (che agiva in rappresentanza del popolo palestinese), come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo-israeliano. In essenza, gli accordi stabilivano il ritiro delle forze israeliane da alcune sezioni della Striscia di Gaza e della Cisgiordania e affermavano il diritto palestinese all’autogoverno in tali aree, attraverso la creazione dell’Autorità palesitnese. Il governo palestinese ad interim sarebbe durato per un periodo di cinque anni, durante i quali sarebbe stato negoziato un accordo permanente (a partire al più tardi dal maggio 1996). Questioni annose come Gerusalemme, rifugiati, insediamenti israeliani nell’area, sicurezza e confini, vennero deliberatamente esclusi dagli accordi e lasciati in sospeso. L’autogoverno ad interim sarebbe stato garantito per fasi. Fino allo stabilimento di un accordo sullo status finale, Cisgiordania e Gaza sarebbero state divise in tre zone: * Zona A - pieno controllo dell’Autorità palestinese. * Zona B - controllo civile palestinese e controllo israeliano per la sicurezza. * Zona C - pieno controllo israeliano, eccetto che sui civili palestinesi. Questa zona comprendeva gli insediamenti israeliani e le zone di sicurezza senza una significativa popolazione palestinese. 149 http://www.repubblica.it/speciale/intifada/storia.html 167 L’instabile pace e la stabile guerra Assieme ai principi, le due parti firmarono lettere di mutuo riconoscimento. Il governo israeliano riconobbe l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese, mentre l’OLP riconosceva il diritto a esistere dello stato di Israele e rinunciava al terrorismo, alla violenza e al desiderio della distruzione di Israele. L’obiettivo dei negoziati israelo-palestinesi era di stabilire un’autorità palestinese di autogoverno ad interim, un consiglio eletto per il popolo palestinese della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, per un periodo transitorio di non più di cinque anni, che portasse a un insediamento permanente basato sulle risoluzioni 242 e 338 dell’ONU, parte integrale dell’intero processo di pace. Per far sì che i Palestinesi potessero governarsi in base a principi democratici, elezioni politiche generali e libere si sarebbero dovute svolgere per eleggere il Consiglio. La giurisdizione del Consiglio palestinese avrebbe coperto la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, eccetto per questioni che sarebbero state negoziate nei colloqui per lo status permanente. Le due parti consideravano Cisgiordania e Striscia di Gaza come una singola unità territoriale. Il periodo transitorio di cinque anni sarebbe iniziato con il ritiro dalla Striscia di Gaza e dalla zona di Gerico. I negoziati per lo status permanente sarebbero cominciati non appena possibile tra Israeliani e Palestinesi. I negoziati avrebbero dovuto coprire le questioni rimaste in sospeso: Gerusalemme, rifugiati, insediamenti, accordi per la sicurezza, confini, relazioni e cooperazione con gli altri vicini e altre questioni di interesse comune. Ci sarebbe stato un trasferimento di autorità tra le forze di difesa israeliane e i Palestinesi autorizzati, riguardanti educazione e cultura, salute, assistenza sociale, tassazione diretta e turismo. Il Consiglio avrebbe costituito una forza di polizia, mentre Israele avrebbe continuato ad avere la responsabilità per la difesa da minacce esterne. Un Comitato di Cooperazione Economica israelo-palestinese sarebbe stato istituito allo scopo di sviluppare e implementare, in maniera cooperativa, i programmi identificati nei protocolli. Si sarebbe attuato un ridispiegamento delle forze militari israeliane in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La Dichiarazione di Principi sarebbe entrata in vigore un mese dopo la sua firma. Tutti i protocolli annessi alla Dichiarazione di Principi e i verbali concordati che la riguardavano sarebbero stati considerati come parte di essa. CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 168 Malgrado le grandi speranze suscitate dagli Accordi e dalle successive intese, che s’impegnavano alla normalizzazione delle relazioni d’Israele col mondo arabo, il conflitto non è stato risolto. Le ambiguità di Arafat, l’unilateralismo di Israele, la deriva della seconda Intifada, le incertezze e la miopia strategica della comunità internazionale: c’è tutto questo dietro la «morte» degli accordi di Oslo. È il fallimento, in primis, della logica «gradulista» nell’approccio ai tanti contenziosi che segnano il conflitto israelo-palestinese; una logica che rimandava a un futuro indefinito la discussione delle questioni cruciali: i conflitti definitivi dei due Stati; lo statuto di Gerusalemme; il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Un errore strategico perché nel tormentato scenario mediorientale il fattore tempo è sempre risultato decisivo e quasi sempre in negativo.150 Nel 1995 Israele e Olp firmano un accordo per allargare le aree dell’autonomia palestinese. Un’intesa definitiva sembra possible e vicina anche perché, forse per la prima volta, i due popoli sono guidati da personaggi che godono della reciproca stima e fiducia. Ma la sera del 4 novembre, a Tel Aviv, Yitzhak Rabin viene ucciso da Yigal Amir, uno studente di 25 anni, estremista di destra che spiega così il suo gesto: «Rabin voleva consegnare Israele agli arabi». A lungo si dicuterà sui legami di Amir con ambienti di destra e dell’esistenza di eventuali mandanti. Nel 1996, Amir verrà condannato all’ergastolo come esecutore unico di quello che è stato definito il «più grave omicidio politico della storia di Israele». Il peso dell’assassinio di Rabin sarà devastante sulla sorte dei rapporti fra Israele e Palestinesi. Il processo di pace ripiomberà indietro di anni. L’anno dopo Israele sospende le trattative con la Siria dopo una serie di attentati nel Paese. Nello stesso periodo il conservatore Benyamin Netanyahu supera di misura Shimon Peres (succeduto a Rabin alla guida del partito laburista) vincendo le elezioni in Israele. Yasser Arafat, nelle prime elezioni della storia del popolo palestinese, viene scelto a stragrande maggioranza come presidente. Netanyahu annuncia che non restituirà il Golan. La decisione del governo israeliano di consentire la ripresa delle costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati porta a nuovi scontri tra Palestinesi e coloni israeliani. U. DE GIOVANNANGELI, Radiografia di Hamas, in «LIMES», Gli imperi del mare, n. 4, Roma, 2006, p. 250 150 169 Israele contro Hezbollah: quando non vincere significa perdere Nel 1998, Netanyahu e Arafat sottoscrivono l’accordo di Wye Plantation. che prevede lo scambio «terra contro pace», il ritiro parziale dell’esercito israeliano, il trasferimento del 14,2 per cento della Cisgiordania sotto il controllo palestinese e la liberazione di 750 detenuti palestinesi. Nel 1999 il presidente Clinton annuncia che Siria e Israele, dove a maggio si è insediato il nuovo governo laburista di Barak, riprenderanno le trattative. A settembre Barak e Arafat firmano un accordo per attuare gli accordi di Wye Plantation, Israele libera 200 detenuti palestinesi e comincia a trasferire il controllo di una parte della Cisgiordania ai Palestinesi. Nel 2000, dopo quindici giorni di colloqui fra Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak, il presidente USA, Bill Clinton, annuncia il fallimento del vertice di Camp David. La tensione tende nuovamente a salire e, nel settembre 2000, comincia la seconda Intifada, scatenata da una provocatoria passeggiata dell’allora candidato premier israeliano Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee. Le principali formazioni militari che combattono Israele sono: la Brigate Izz ad-Dīn al-Qassām (braccio armato di Hamas, vicina ai Fratelli musulmani), la Jihad Islamica, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, le Brigate dei Martiri di alAqsa (braccio armato del partito Fatah). Il conflitto scende d’intensità quando, l’11 novembre 2004, muore Arafat. Il governo israeliano, guidato da Ariel Sharon, e le cancellerie delle grandi potenze mondiali si dichiarano di nuovo pronte al confronto con i Palestinesi, dopo che Arafat era stato considerato negli ultimi anni un interlocutore poco credibile. A gennaio 2005 si tengono le elezioni presidenziali in Palestina e successore di Arafat viene nominato Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Il dialogo riprende e il governo Sharon decide unilateralmente di sgomberare la Striscia di Gaza, occupata nel 1967, ad agosto 2005. L’esercito di Tel Aviv sgombera con la forza i coloni israeliani e lascia l’amministrazione del territorio ai Palestinesi. Il 25 gennaio 2006, le elezioni politiche in Palestina sanciscono la vittoria del partito armato degli islamisti di Hamas; tema che verrà affrontato in un apposito paragrafo, data la rilevanza geopolitica dell’evento. Volendo indicare delle sintetiche annotazioni quantitative, non possiamo non evidenziare il tragico bilancio di questi sessant’anni di storia in cui la pace è stata solo virtuale. Le guerre tra Israele e i paesi arabi confinanti, dal 1948 al 1973, hanno causato la morte di circa 100 mila persone. La prima Intifada, dal 1987 al 1992, ha causato la morte di 2 mila persone, in massima parte Palestinesi. Dall’inizio della seconda Intifada (settembre 2000) al 13 dicembre 2006, sono morti 4486 Palestinesi e 1045 Israeliani.151 c) Israele contro Hezbollah: quando non vincere significa perdere CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 170 L’estate 2006 è stata segnata dall’esplosione del conflitto tra Israele e Hezbollah. Tale conflitto trae una delle sue origini dal mancato rispetto da parte del governo libanese della risoluzione 1599, entrata in vigore nel 2004, che chiedeva, tra l’altro, il dispiegamento delle forze libanesi nel Sud del paese e lo smantellamento dei gruppi e delle organizzazioni terroristiche, Hezbollah incluso. Così, quando il 12 luglio 2006 il conflitto è cominciato, Hezbollah controllava il Sud del Libano, con una presenza che aumentava la tensione lungo il confine.152 La mattina del 12 luglio 2006, la notizia della cattura dei due soldati di Tsahal da parte di un commando del partito di Dio provoca l’immediata replica israeliana. Hezbollah e Israele davano il via alla loro ennesima battaglia che per 34 giorni avrebbe coinvolto gran parte del territorio libanese e la Galilea. Il Paese dei cedri era, così, nuovamente terreno di scontro con lo Stato ebraico. Questa volta, però, non era una coalizione di eserciti arabi come nel 1948, né una resistenza laica libanese, come alla fine degli anni Sessanta, né una coalizione di gruppi locali e milizie palestinesi come nel 1982, quando Tsahal si spinse fino al cuore del paese, a Beirut. A occupare la trincea libanese contro quella nemica è, invece, il Partito di Dio: una formazione politico-militare rappresentata nel parlamento e nel governo di Beirut, guidata da un’autorità sciita del Libano, formata da uomini libanesi provenienti dalle regioni del Sud, dalla capitale e dalla valle del Biqā. La guerra esplosa nel luglio 2006 si è caratterizzata come un confronto militare tra nemici con interessi diversi: per Israele si htttp:// www.peacereporter.net M. ANSALDO, Un generale israeliano racconta la sua guerra, in «Limes», Israele contro Iran, Roma, suppl.to al n.4, 2006, p. 48 151 152 L. TROMBETTA, Il Libano: uno, nessuno, centomila, in «Limes», Israele contro Iran, Roma, suppl.to al n. 4, 2006, p. 66 153 171 sraele contro Hezbollah: quando non vincere significa perdere trattava di distruggere, una volta per tutte, la capacità offensiva di Hezbollah, che, invece, mirava a mettere a nudo la vulnerabilità dello Stato ebraico dopo decenni di presunta invicibilità. Ma il conflitto ha avuto anche una dimensione più ampia: Iran e Siria, principali sostenitori di Hezbollah, hanno permesso che si scatenasse il conflitto nel Paese dei cedri per i loro diversi interessi regionali: Teheran per alzare il prezzo dei negoziati con gli Stati Uniti, da sempre a fianco di Israele, e Damasco per indebolire un Libano che rischiava di uscire dal suo tradizionale controllo. Washington, invece, con Hezbollah annientato, avrebbe potuto realizzare più agevolmente i suoi piani mediorientali. Vediamo a questo punto le fasi delle operazioni.153 La fase uno, a partire dal secondo giorno di confronto, il 13 luglio, era mirata, da parte d’Israele, a distruggere le capacità strategiche del nemico. Si trattava di neutralizzare i missili a medio e lungo raggio, lanciati da Hezbollah verso il territorio israeliano. Un altro punto fermo era chiudere quelli che si è soliti definire, in termini militari, i confini di guerra, in modo che nessuno potesse influire dall’esterno, facendo arrivare armamenti. Israele, perciò, ha creato un blocco per terra, mare e cielo e si è posto l’obiettivo di operare nel cuore del quartier generale Hezbollah, nei loro comandi e nelle postazioni di controllo. La seconda fase è compresa fra il 16 e il 27 luglio. Hezbollah ha cominciato a lanciare, ogni giorno, fra i 100 e i 200 missili contro i centri abitati nel Nord d’Israele. Inoltre ha usato le aree urbane e la popolazione come scudi umani, per cui Israele ha cercato di convincere la popolazione locale a lasciare la zona, ad abbandonare i villaggi, per avere più libertà di condurre attività militare contro l’organizzazione terroristica senza arrecare danni ai civili libanesi. Israele ha assicurato che venissero prestati gli aiuti umanitari provenienti da enti internazionali attraverso i corridoi, sospendendo l’attività militare per non attaccare i convogli, per esempio nella fascia che va da Beirut fino a Tiro. La terza fase, imperniata sulle manovre di terra, va dal 27 luglio fino alla tregua del 14 agosto. Riguardo l’obiettivo d’Israele di distruggere le postazioni di lancio dei missili che non potevamo es- CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 172 sere scoperte dall’alto, in quanto erano localizzati sotto il terreno, in fondo alle abitazioni, nei giardini delle moschee.154 Dopo aver cominciato le manovre, l’entrata in vigore della risoluzione 1701 dell’Onu ha dato ad Israele solo 60 ore di tempo per concludere le operazioni militari che non hanno ottenuto i risultati sperati dallo stato ebraico. In questa seconda guerra del Libano – termine coniato dai media israeliani una settimana dopo l’inizio del conflitto – non vi è stata una chiara linea di demarcazione tra fronte e retrovie.155 Non è stato un conflitto tradizionale fra eserciti regolari, in un campo di battaglia ben determinato, con frontiere chiare, con tattiche e strategie prestabilite. Israele si è trovato dall’oggi al domani con un sesto della popolazione in prima linea. Più di un milione di civili ha sofferto i bombardamenti dei miliziani di Hezbollah. Più della metà dei civili residenti in prossimità della frontiera – circa 96 mila persone – ha dovuto evacuare le sue case già nei primi giorni del conflitto. Fino alla tregua, il conflitto è costato la vita a 117 militari israeliani e a 41 civili. Più di quattromila razzi katiuscia sono stat lanciati nel Nord d’Israele da Hezbollah. Sotto il profilo militare si può concordare con gli analisti che mettono in evidenza tutti gli errori «tecnici» commessi dallo Stato ebraico.156 Israele ha condotto una campagna contro un avversario asimmetrico con lo strumento sbagliato, con informazioni insufficienti e con vincoli politici insuperabili. Ha posto degli obiettivi troppo ambiziosi (la distruzione di Hezbollah) o non ottenibili con gli strumenti prescelti (liberare i soldati prigionieri). Ha valutato, in eccesso, la propria capacità e, in difetto, quella dell’avversario. Si è limitato all’esame del problema al livello operativo ed ha trascurato sia quello tattico che quello politico. La seconda guerra del Libano ha messo alla prova la capacità dell’intelligence israeliana di fornire, in tempo reale, informazioni di qualità alle forze sul campo di battaglia. L’intelligence M. ANSALDO, op. cit., pp. 50-51 G. CAVAGLIONI, C’è ancora uno Stato in Israele?, in «Limes», suppl.to al n.4, 2006, p. 145 156 F. MINI, Tashal una sconfitta da manuale, in «LIMES», Israele contro Iran, Roma, suppl.to al n. 4, 2006, p. 39 154 155 157 158 F. MINI, op. cit., p. 42 M. ANSALDO, op. cit., p. 54 173 La Palestina araba di oggi: i neofondamentalisti al potere attraverso libere elezioni israeliana non ha saputo dare una qualsiasi informazione sulla sorte dei soldati rapiti; ha fallito nella trasmissione di informazioni precise alle forze sul campo di battaglia riguardo ai letali missili anticarro, sia per quanto concerne le quantità che i modi di impiego in combattimento; non ha fornito alcun rapporto sui sofisticati armamenti in possesso di Hezbollah, primo fra tutti il missile che ha colpito una nave della Marina israeliana; non ha saputo aggiornare l’esercito, né prima né durante i combattimenti, sul sofisticato apparato bellico che Hezbollah aveva costruito per la guerra in zone abitate; non ha saputo offrire alle forze sul campo informazioni tattiche di qualità sugli spostamenti delle truppe di Hezbollah; si è trovato in grandissima difficoltà nel seguire i rapporti fra Iran, Siria e Hezbollah; infine, ha fallito nella trasmissione di informazioni alle unità speciali dell’esercito offrendo loro dati non corretti o non aggiornati che hanno portato a operazioni fallimentari come quella dell’unità speciale a Ba’lbak o quella dell’unità speciale della Marina a Tiro.157 Nonostante l’ostinazione israeliana nel definire Hezbollah un’organizzazione terroristica, la guerra si è svolta, sin dall’inizio, con metodi inadatti a combattere il terrorismo. Se l’obiettivo d’Israele doveva essere l’eliminazione della capacità militare di Hezbollah nel Sud del Libano (anche tramite la contemporanea ricerca del caos in tutto il paese con le distruzioni strutturali, l’esodo della popolazione e il blocco dei rifornimenti), il presupposto fondamentale era avere adeguate informazioni almeno su tre punti: l’ordine di battaglia di Hezbollah (cioè l’individuazione dei comandi, dei missili e dei razzi); la tenuta morale e organizzativa di Hezbollah e il limite di rottura per l’intervento dei sostenitori esterni. Le operazioni si sono svolte nella completa ignoranza di questi tre elementi. I militanti di Hezbollah, perciò, hanno potuto lanciare i razzi a corta gittata, i katiuscia, fino a trenta chilometri, senza che Israele riuscisse a distruggerli. Inoltre, per Hezbollah il fatto che il loro leader sia sopravvissuto ha costituito un’altra vittoria.158 Il Partito di Dio, così, è assurto a mito della comunità islamica, che vede in Nasrallah (in arabo: «Vittoria di Dio») un con- CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 174 dottiero capace di infliggere ai Sionisti quei colpi che i loro governanti non hanno mai voluto o saputo infliggere. La fama dello sceicco si è diffusa persino fra i Sunniti e ha messo in allarme le autocrazie arabe «moderate» più o meno filoccidentali.159 Gli stessi Fratelli musulmani (sunniti) hanno riconosciuto l’eroismo dei libanesi sciiti. È nato un «modello Hezbollah» che fa proseliti in varie zone, a cominciare dall’Iraq e dall’Afghanistan. Hezbollah ha conseguito, in sostanza, un importante successo dal punto di vista mediatico e della popolarità nel mondo arabo-islamico:160 le società dei vari paesi della regione sono oggi più coscienti della possibilità di costringere Israele alla resa e questi popoli sono ora più pronti a esercitare pressioni sui loro stessi governanti. In definitiva, Israele non ha perso sul campo la guerra, ma non l’ha neanche vinta e, dato che la storia dei conflitti arabo-israeliani aveva dimostrato che la nazione ebraica era quasi invincibile, secondo il parere di molti osservatori, la non vittoria d’Israele contro Hezbollah, nella seconda guerra del Libano, è stata considerata simbolicamente una sconfitta. Per quanto riguarda la situazione interna del Libano, va sottolineato che in questo paese lo Stato, come lo si concepisce in Occidente non è presente. Dietro la facciata delle istituzioni, il potere è spesso gestito da diversi centri di potere, alternativi e paralleli a quelli ufficiali, apparentemente periferici, espressione delle esigenze delle differenti comunità che popolano il paese. Questo dato fa del Libano un paese estremamente debole, vittima di ricorrenti fasi d’instabilità, determinate da tensioni interne e da continui tentativi esterni d’influenzare la sua vita politica.161 d) La Palestina araba di oggi: i neofondamentalisti al potere attraverso libere elezioni Il 25 gennaio 2006 rappresenta una data che segna un svolta epocale per l’intero Medio Oriente. Per la prima volta nella storia di questa tormentata e nevralgica area del pianeta, un movimento L. CARACCIOLO, Editoriale. Il muro bucato, in «Limes», Israele contro Iran, suppl.to al n. 4, 2006, p. 12 160 A FAYYAD, Hizbullah non è al guinzaglio di Teheran, in «Limes», Israele contro Iran, Roma, suppl.to al n. 4/2006, pp. 83-87. 161 L. TROMBETTA, op. cit., p. 68 159 162 U. DE GIOVANNANGELI, op. cit., p. 249 175 La Palestina araba di oggi: i neofondamentalisti al potere attraverso libere elezioni fondamentalista sale al potere non attraverso le armi o con un colpo di mano militare, ma attraverso libere elezioni. La vittoria di HAMAS è anche il riflesso di un duplice fallimento: della dirigenza «arafattiana» nei Territori e della strategia di concepimento militare praticata in questi anni da Israele. Le gravi carenze manifestate dall’Autorità Nazionale Palestinese hanno costituito la vera forza di HAMAS; per l’OLP si è trattato di un un crollo annunciato negli anni del disincanto, seguiti alla stagione della speranza che si era dispiegata con la firma degli accordi di Oslo-Washington (settembre 1993); un disincanto che è cresciuto, assieme alla manifesta incapacità dimostrata, a suo tempo, dalla leadership imposta da Yasser Arafat di compiere l’indispensabile salto di qualità per trasformare capi guerriglieri in classe dirigente di uno Stato in formazione. Incapacità gestionale, abuso di privilegi, corruzione, condotta contraddittoria dei negoziati con Israele: sono stati questi i fattori che hanno determinato la sconfitta del partito-regime Fatah. Non si comprendono, perciò, pienamente le ragioni del trionfo di HAMAS e del suo radicamento in ogni settore della società palestinese se non si tiene conto dei gravi errori commessi dall’ANP. La laica Ramallah, la cristiana Betlemme, la borghese Gerusalemme Est hanno preferito votare per HAMAS perché ferite dalla corruzione, dilagante in ogni ambito, dell’Autonomia palestinese. Il fallimento dell’ANP e della dirigenza arafattiana non si misura solo nel denaro dilapidato, nei progetti di sviluppo rimasti sulla carta. Il fallimento investe anche il campo, non meno importante, delle libertà. Afferma in proposito Bassām ‘Īd, giornalista e direttore generale del Palestinian Right Monitorig Group: «La vittoria di HAMAS», sostiene ‘Īd, «riflette il fallimento fatto registrare dalla nomenklatura al potere su un terreno decisivo: quello della costruzione delle basi di uno Stato di diritto nei Territori palestinesi. È il fallimento di chi ha continuato a ritenere, stoltamente, che il rispetto dei diritti umani, l’indipendenza della magistratura, il controllo del parlamento sull’operato dell’esecutivo, la trasparenza nell’amministrazione pubblica, fossero degli optional per un popolo che lotta per la propria indipendenza nazionale».162 Più che di «mani verdi» sulla Palestina, si potrebbe parlare di un’invocazione di «mani pulite» in Terra Santa. CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO: L’ORIGINE DI TUTTE LE QUESTIONI MEDIORIENTALI 176 Facendo leva su questo diffuso malcontento, HAMAS ha costruito le sue fortune elettorali, innestando la promessa di un governo dalle «mani pulite» sul classico impianto politico-ideologico che caratterizza HAMAS, sin dalla sua fondazione. HAMAS ha vinto le elezioni sulle promesse della lotta alla corruzione e non sui proclami jihadisti; costituisce, dunque, una contraddizione solo apparente il fatto che un sondaggio effettuato a marzo del 2006 dal Centro di ricerca di Khalil Shiqaqi riveli che il 75 per cento dei Palestinesi, una maggioranza schiacciante, vuole che il governo HAMAS apra negoziati con Israele. Islamizzare la causa palestinese e «palestinizzare» il jihad globalizzato costituiscono la doppia sfida di HAMAS. Una sfida che ha come posta in gioco non solo la leadership del dopo-Arafat nei Territori, ma anche la conquista di un ruolo-guida nel variegato arcipelago politico (e militare) dell’islam radicale. Corano e irredentismo nazionalista: si muove su questo doppio binario l’ideologia sulla quale HAMAS ha costruito il suo radicamento anche e soprattutto nelle università di Gaza e Cisgiordania, tra i ceti acculturati palestinesi. Le ragioni della crescita del movimento islamista nei Territori vanno, dunque, ricercate nei caratteri di HAMAS, nella particolarità della sua struttura politico-militare. A differenza di Fatah, in HAMAS i poteri e le responsabilità sono più distribuiti, anche sul territorio. Consigli direttivi del movimento sono presenti in tutti i distretti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e i loro membri vengono eletti e non sono, nella maggioranza dei casi, espressioni delle grandi famiglie che caratterizzano, invece, l’ANP. Una ideologia galvanizzante, una disciplina di ferro e risorse finanziarie: questi alcuni elementi che hanno contribuito a nutrire nei Territori il mito di Izz l-Dīn al-Qassām, il braccio armato di HAMAS, trasformatosi, nel corso del tempo, come ammettono gli stessi esperti militari israeliani, in un’importante milizia popolare. A differenza delle Brigate dei martiri di al-Aqsà (Fatah), spesso coinvolte in prevaricazioni e regolamenti di conti personali, i miliziani di ‘Izz al-Dīn al Qassām sono, di rado, al centro di scandali pubblici. Il loro numero non è noto, ma a Gaza si stima che i miliziani addestrati e armati siano almeno 15 mila.163 163 U. DE GIOVANNANGELI, op. cit., p. 252 e) La Striscia di Gaza: teatro della contrapposizione tra hamas e al-Fatah La Striscia di Gaza costituisce una delle aree simbolo delle tensioni medio-orientali. Allo stato attuale, si tratta di un territorio sottoposto all’egemonia di Hamas. Come risulta da un articolo pubblicato su «L’Espresso»,166 dal confine con l’Egitto di Rafah sono passati nel 2006 - secondo le valutazioni del generale Pietro Pistoleri, comandante degli osservatori dell’UE - almeno 60 milioni di dollari, utilizzati per costituire una forza armata, parallela all’esercito ufficiale, sul modello dei Pasdaran iraniani. Hamas non fa mistero di avere allestito un campo paramilitare nel centro della Striscia, lontano dal confine per U. DE GIOVANNANGELI, op. cit., p. 255 U. DE GIOVANNANGELI, op. cit., p. 249 166 G. RIVA, Striscia di Gaza e di sangue, in «L’Espresso», 4 gen. 2007, p. 34 164 165 177 La Striscia di Gaza: teatro della contrapposizione tra hamas e al-Fatah Su un punto, cruciale, concordano gli analisti politici israeliani e palestinesi: sarà la prova del governo a dare risposta su quale sarà il vero volto di HAMAS. L’islamizzazione dal basso è fondamentale nella strategia di conquista della società palestinese. Ciò significa per HAMAS abbinare alla «lotta contro il sionismo» la costruzione di una sorta di Stato sociale che gestisce mense e ospedali, strutture educative e ricreative, l’assistenza alle vedove e alle famiglie dei detenuti. Lo Stato sociale di HAMAS si è rivelato uno straordinario veicolo di trasmissione del messaggio islamista e un grande bacino di arruolamento. Non va dimenticato che HAMAS è, in primo luogo, un movimento sociale che, finora, ha beneficiato dell’appoggio di una gran parte della popolazione. Si tratta di un’organizzazione caritatevole, con scuole, ospedali, università, giornali. Il braccio armato di HAMAS è una piccola parte del movimento.164 Questo confronto interno tra le varie «anime» del movimento ha portato alla scelta di partecipare alla competizione elettorale; un confrontoscontro destinato a svilupparsi nel vivo dell’esperienza di governo. «Una cosa è certa: HAMAS non è una meteora ma una parte inalienabile della realtà palestinese con cui Israele dovrà fare i conti e adeguare una strategia che non può risolversi con l’azione militare», riflette Danny Rubinstein, profondo conoscitore dell’universo politico palestinese, firma di punta del quotidiano Ha’aretz. 165 motivi di sicurezza. In questo campo sono passati dai 3 ai 5 mila soldati, di giovane età che avrebbero avuto come addestratori dei «maestri» forniti da Hezbollah, nell’ambito di una strana alleanza tra sunniti e sciiti. Gli istruttori sarebbero anche serviti per utilizzare metodi di guerriglia già sperimentati nel sud del Libano e che necessitano di una rete di tunnel collegati, in avanzata fase di costruzione. È la prassi della guerra underground, il mordi e fuggi che disorienta l’avversario. I cunicoli servono al duplice scopo di spostare al coperto le truppe e di occultare le armi per salvarle da eventuali incursioni di Tsahal. Dal confine con l’Egitto sono transitate, naturalmente, anche le armi. Negli arsenali sono stati introdotti, accanto alle tipologie di armi già disponibili (fucili automatici, bazooka, RPG, razzi kassam, mortai) missili anti-aereo Strela e armi guidate anticarro. La rilevante disponibilità di mezzi ha convinto i piccoli nuclei di aderenti ai Comitati di resistenza popolare a unirsi ad Hamas, a testimonianza della polarizzazione dello scontro. Nella Striscia, anche ribattezzata «Hamasland», Fatah non è rimasto inerte, anzi ha cercato di riorganizzare il consenso perduto presso la comunità locale con un forte rinnovamento dei quadri dirigenti. Fatah, scosso dall’esito elettorale negativo di gennaio 2006, perciò, ha abbandonato, almeno parzialmente, le «stanze del potere» per cercare un vasto consenso popolare, riprendere contatto con quei settori di società che aveva per troppo tempo dimenticato, come, ad esempio, i campi profughi, prima lasciati sotto l’influenza esclusiva di Hamas. La ricerca di consenso costituisce un aspetto della strategia del movimento secolare. L’altro è rappresentato dalla disponibilità di importanti forze militari. Mohammed Dahlan, l’ex uomo della sicurezza interna, ha riorganizzato i suoi seguaci a Gaza. Sono pronti ad operare nella Striscia di Gaza anche quelle 6 mila unità ora di stanza a Ramallah, che hanno goduto di una ferrea educazione militare in Giordania, pare grazie al contributo di denaro e di istruttori americani. Una sorta di esercito a dispiegamento rapido, posto a disposizione di Abu Mazen, grazie anche al quale Fatah si è sentita pronta a lanciare la sfida ad Hamas. Se nella Striscia di Gaza le contrapposizioni si configurassero solo come lotte intestine, sarebbero neutralizzabili e circoscrivibili. Ma la dinamica interno-esterno ha rimesso in gioco altri attori mediorientali e non solo, col rischio concreto di un’ulteriore espansione delle ripercussioni internazionali. Lo sostiene, ad esempio, Ghassan Khatib, fra i più reputati analisti dell’area: «La Siria e l’Iran al fianco di Hamas. E, di conseguenza, Fatah è spinta a farsi più vicina all’Egitto, all’Arabia Saudita e, tramite questi, agli Stati Uniti. La sfortunata conseguenza è che ora non disponiamo più di un’agenda che ha come priorità le nostre questioni, ma deve tenere conto di uno scenario globale».167 179 G. RIVA, op. cit., pp. 35-36 La Striscia di Gaza: teatro della contrapposizione tra hamas e al-Fatah 167