La discesa di Orfeo di Tennessee Williams Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano_16 ottobre - 4 novembre 2012 traduzione di Gerardo Guerrieri drammaturgia e regia di Elio De Capitani scene e costumi di Carlo Sala con Cristina Crippa, Elena Russo Arman, Edoardo Ribatto, Luca Toracca, Cristian Giammarini, Corinna Agustoni, Sara Borsarelli, Federico Vanni, Debora Zuin, Marco Bonadei, Carolina Cametti e Alessandra Novaga (chitarra elettrica) luci di Nando Frigerio suono Giuseppe Marzoli produzione Teatro dell'Elfo “Una sorta di barbara dolcezza”: le note di regia a “La discesa di Orfeo”, nel programma di sala, si chiudono con questo bell’ossimoro dal sapore pasoliniano; in realtà è tratto proprio dal testo di Williams, diretto da Elio De Capitani, che ha debuttato il 13 luglio al festival di Spoleto ed è ora all’Elfo Puccini, a cento anni dalla nascita dell’autore e a trenta dalla sua morte. La citazione di Pasolini non è casuale: come altri autori in apparenza lontani, eppure tutti cari al regista – per primo Fassbinder – entra in risonanza con questo melodramma a tinte forti e passionali, ma anche con i precedenti spettacoli di De Capitani nati sotto lo stesso segno (fra tutti il Williams di Un tram che si chiama desiderio, del 1993, con Mariangela Melato, e di Improvvisamente, l'estate scorsa del 2011). Il testo è una novità assoluta per l’Italia, ma ha una lunga storia alle spalle: Orpheus Descending nasce come rielaborazione del dramma inedito Battle of Angels, nel 1957 viene messo in scena per la prima volta a New York, nel 1959 diviene un film di Sidney Lumet, The fugitive kind – in italiano Pelle di serpente – con Marlon Brando e Anna Magnani, nel 1988 viene ripreso con grande successo da Peter Hall prima a teatro e poi al cinema). Potrebbe essere ambientata nella Roma dei ragazzi di vita, o nella Berlino di Döblin e di Fassbinder, questa storia torbida di violenza e tradimenti, di vendetta e di morte: Williams sceglie un piccolo paese di uno Stato del profondo Sud americano, schiavista, razzista e senza speranza. Qui gli evasi sono braccati e sbranati dai cani, i neri non possono bere alcol, gli immigrati italiani arricchiti col proibizionismo vengono bruciati vivi, le donne sono oppresse, comprate, annichilite dai mariti, o dalle famiglie. Finché un musicista di passaggio, giovane e bello, illumina per un istante le loro vite, dando corpo a tutte le loro fantasie e speranze di fuga, per poi bruciare come una falena nel fuoco che ha provocato. Gli autori-totem dell’Elfo, Pasolini e Fassbinder, ci sembrano aleggiare sul palco – come fantasmi – a fianco degli undici attori ben affiatati che recitano nella scenografia di Carlo Sala: una sala prove spoglia senza arredi né oggetti a parte tavoli, sedie, una tenda e un letto. Nudi e crudi, come i protagonisti del noto racconto di Alan Bennet, spogliati e ripuliti e privati di tutto, gli attori restano soli a fronteggiare una drammaturgia che rivela sorprendentemente, sotto i toni melodrammatici ed estremi, un’anima da tragedia greca. E De Capitani lo mette in luce in modo assolutamente incontestabile: grazie a lui Val Xavier, lo straniero con la chitarra, riesce perfettamente ad incarnare Orfeo che scende negli Inferi per salvare la sua Euridice e – a differenza del modello greco – pur di restarle accanto è pronto a morire per lei e con lei; ma non possiamo non riconoscere in lui anche il Dioniso delle Baccanti, che viene a sconvolgere col suo fascino ambiguo la quiete apparente di una comunità: proprio come l’ospite pasoliniano di Teorema. E può ricordarci infine l’Egisto delle Coefore di Eschilo (tradotto – ancora da Pasolini – in un altro spettacolo dell’Elfo), se vediamo in Lady non solo Euridice ma Clitemnestra: abbandonata dal primo amore, malmaritata al carnefice che le ha rovinato la vita e pronta a tutto pur di vendicarsi. Cristina Crippa –che ha fortemente voluto questo spettacolo – è perfetta nel ruolo di Lady come lo sono Edoardo Ribatto in quello di Val e Elena Russo Arman in quello di Carol Cutrere (la giovane ereditiera che offre allo straniero la chance di una vita migliore, inutilmente). Attorno a loro si muovono gli altri otto attori in scena, quasi ad avvolgere i tre protagonisti fino a soffocarli nel finale: commentano le loro azioni, si alternano nelle parti dei comprimari, con un’armonia degna di un coro greco e una coreografia ben studiata. Il tutto accompagnato dal vivo da una chitarra elettrica che col suo lamento doloroso e straziante ci ricorda il blues delle origini: nato da quelle sopraffazioni, dal sangue, dalla violenza che Williams raffigura così bene e che ritornano in modo sempre più doloroso e bruciante – come ci ricorda questo spettacolo e il regista nel programma di sala– “in questi anni di spietata Belle Epoque al tramonto”. Martina Treu