TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 22-04-2008 16:53 Pagina 105 Il Tempietto 105 Giovanni Pascoli e la verità nell’era nuova Il superamento del relativismo assoluto Francesca Irene Sensini della Sorbona di Parigi “E se ho la profezia, e conosco tutti i misteri e tutta la scienza, e se ho tutta la fede, sì da tramutare i monti, ma non ho l’agàpe, nulla io sono... L’agàpe (egli continua) tutto soffre, tutto crede, tutto spera... i Con l’opuscolo La messa d’oro, Giovanni Pascoli invia un saluto personale al Mons. Geremia Bonomelli in occasione del suo giubileo: la “messa d’oro”, appunto. Immagina di entrare in chiesa in quella solenne occasione e di essere fermato da alcuni “severi custodi dell’adito cristiano”. Sbarrandogli il passo alla celebrazione, essi lo interrogano sulla sua fede e sulla sua speranza. Ma egli li esorta piuttosto a chiedergli conto di ciò che è veramente essenziale, che può redimere qualunque uomo - anche chi, come lui, non ha la fede e la speranza di un credente - e presuppone tutto il resto: l’agàpe, la caritas, l’amore. E cita a testimone del suo pensiero S. Paolo, ad Cor. XIII, 13. Così Pascoli idealmente invita a non restare sulla porta del tempio tutti coloro che credono nel progresso dell’umanità, siano essi uomini di scienza, “fieri lottatori di classe”, come i compagni della sua giovinezza di socialista anarchico, o “memori difensori della patria” degli anni risorgimentali. Mons. Bonomelli è, infatti, ai suoi occhi il rappresentante di una fede vissuta che va oltre le confessioni e le ideologie e che riconosce nell’amore il carattere distintivo dell’umano e il motore della sua evoluzione. Non la ragione, che limita al calcolo egoistico della propria conservazione, del proprio utile, ma l’agàpe spinge l’uomo a superare se stesso, uscendo da sé e riconoscenendosi nell’altro. E in questo specchiarsi dentro un immagine viva, attraverso l’esperienza del confronto, che egli accresce la propria conoscenza, realizzando il progresso individuale e sociale. Pascoli allude a una conoscenza mobile, indifinitamente perfettibile e non assoluta, perché condizionata dalla natura delle facoltà umane: una conoscenza relativa che si apre su possibilità inesauribili di scoperte. 1. Una ricerca comparatistica nel segno dell’agàpe In questo scritto, come in altre prose destinate a essere lette in occasioni TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 106 22-04-2008 16:53 Pagina 106 Il Tempietto pubbliche, Pascoli esprime la sua profonda vocazione di uomo e di poeta: raccogliere pazientemente i vari frammenti relativi della verità assoluta, per progredire nella ricerca individuale e per contribuire alla ricerca collettiva.Questa verità assoluta è innanzitutto la dignità umana, compendiata dalla virtù dell’amore; essa è anche il “mistero”termine tecnico del lessico pascoliano - permanente dell’essere, allusivo di un oltre e di un Dio coincidente, per la filosofia immanente dell’autore, con un concetto-limite, non vuoto ma tragicamente misterioso. In nome di questa vocazione umana e poetica, inoltre, Pascoli si sente chiamato a sollecitare il confronto delle diverse tessere di verità accumulate nel corso della storia, presso culture diverse, anche lontanissime, perché risaltino i valori fondanti dell’esperienza umana sulla terra, non condizionati dal tempo e dallo spazio. Da questo dipende la possibilità dell’amore in quanto riconoscimento di una verità universale, che nasce da un comune essere uomini.Non si tratta tuttavia di sincretismo, che tende alla fusione in un amalgama indistinto di idee e sistemi differenti, ma di una tendenza comparatistica che il Pascoli deriva in buona misura anche dagli orientamenti della cultura europea coeva, in cui fioriscono nuove discipline scientifiche, come la storia delle religioni e la linguistica comparata, verso cui egli mostra particolare interesse. Nel discorso l’Avvento, del 1901 - in cui ancora una volta un termine connotato dal punto di vista religioso diventa espressione di un’attesa universale di rinnovamentoii - il sincretismo è chiaramente escluso, in nome dell’esigenza di un confronto che non sopprima le identità rispettive degli elementi confrontati, ma esalti le possibilità di “concordia”, intesa in un senso ampio, intellettuale e sociale: “trovare il nesso e la somiglianza tra le idee e i sistemi e le credenze più disparate, è servire fedelmente la causa della concordia dell’irrequieto genere umano”. Dopo queste indispensabili premesse, cercheremo di illuminare il percorso intellettuale che consente al Pascoli di superare il relativismo assoluto novecentesco - per cui ogni conoscenza equivale ad ogni altra, nella disperazione della verità come meta tendenziale - per approdare a una visione altamente problematica della conoscenza, che elegge a suo strumento privilegiato la poesia, intesa in senso romantico come esperienza assoluta e totalizzante. 2. La verità nella scienza Occore sottolineare che l’itinerario intellettuale del Pascoli si svolge a cavallo dei due secoli, in un tempo segnato dal trionfo del sapere tecnicoscientifico, dall’affermazione del materialismo filosofico e dal conseguente, progressivo restringersi degli orizzonti metafisici e spirituali. Nel progresso scientifico e materiale della società, Pascoli riconosce, sul piano storico-colletivo, l’origine della frattura nel rapporto tra l’uomo e il mondo. Nel corso della sua evoluzione, TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 22-04-2008 16:53 Pagina 107 Il Tempietto dai primordi all’età moderna, infatti, l’uomo avrebbe finito per perdere fatalmente la possibilità di esistere in armonia con le cose e di cogliere nell’immediatezza il senso del reale. Dalla perdita di questa condizione ‘edenica’ originaria - che Pascoli identifica con la Fanciullezza dell’umanità e del singolo - deriva un radicale impoverimento delle facoltà dell’anima: il soggetto si scopre incapace di provare quella meraviglia di fronte all’essereiii da cui discendeva, nei tempi della Fanciullezza, la conoscenza intuitiva del mondo (e una parola naturalmente poetica). Così Pascoli prende atto della condizione dell’uomo moderno e si volge alla ricerca di modelli culturali i frammenti della verità/mistero capaci di rigenerare un’identità, individuale e sociale, franta e dispersa. La soluzione di questa crisi antropologica coincide per l’autore con il ritrovamento delle facoltà originarie dell’anima e, con esse, della vera poesia, che riunisce in sé l’esperienza del bello, del vero e del bene. È proprio da questa considerazione che deriva al pensiero del Pascoli una slancio utopico capace di contrastare dialetticamente con il relativismo radicale e il senso del nulla che lo accompagna fatalmente. Non bisogna dimenticare, infatti, che la filosofia ‘estetica’ del Pascoli, maturata dal Weltschmerz leopardiano, presenta interessanti punti di contatto essenziali con la Philosophie des Unbewussten (La Filosofia dell’incoscio del 1869) di Edward Von Hartmann, che Pascoli leggeva in traduzione francese,iv con le 107 metafisiche orientali,v e appare influenzata dalla concezione meccanicistica della natura, propria delle scienze positive, già presente nel concetto di “volontà del mondo”, come forza cieca, del pensiero di Schopenhauer, riscoperto con particolare interesse nella seconda metà dell’Ottocento e in Francia divulgato dalla Revue des deux mondes, che fu tra l’altro uno strumento fondamentale negli scambi culturali con l’Italia.vi Ma l’ossessione della morte e l’angoscia della fine, nell’assenza di una prospettiva trascendente, si trasformano in Pascoli in moventi di speranza e di esaltazione, e diventano la base di un programma morale ed etico che trova compiuta teorizzazione nelle prose L’Èra nuova (1899) - che portava in origine il significativo titolo Sulla poesia - e nel già citato L’Avvento. In questi scritti, Pascoli trae dalla riflessione sul progresso scientifico e sul valore gnoseologico della scienza, un tassello di quella verità che lo conduce all’elaborazione ultima del suo pensiero. Al volgere del secolo, è chiaro all’autore che il mito scientista deve dichiararsi fallito. La scienza, infatti, non ha offerto agli uomini che un miglioramento materiale delle loro condizioni di vita, senza poter nulla per allargare i loro orizzonti conoscitivi e spirituali oltre la materia, e dunque senza poter nulla per la loro felicità: “Forse è in queste parole - infelicità umana - la ragione della nota discordante nell’inno che la scienza meriterebbe, alla fine del secolo della sua più grande operosità?”. L’attualità TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 108 22-04-2008 16:53 Pagina 108 Il Tempietto del discorso del Pascoli è quanto mai evidente per il mondo postmoderno, in cui la scienza e la tecnica continuano a compiere progressi straordinari, ma non per questo sono meno mute riguardo ai fini e ai valori dell’umanità.vii Benché sempre più evoluta, l’umanità resta infelice, e anche più infelice di prima a causa della scienza stessa che ha eroso la fede in una verità assoluta, ulteriore, se non trascendente, l’esperienza positiva e la materia: “Noi siamo costretti (da te, scienza crudele e inopportuna) a interpretare le parole d’un nostro sacro libro in un modo affatto nuovo. Siamo costretti a pensare che quel libro contiene la verità, sì, ma una verità che cambia col tempo, che va interpretata secondo i progressi delle altre umane conoscenze: verità che era vera a un modo per Dante, a un altro per noi, omiciattoli che non siamo Dante”.viii Naturalmente Pascoli si riferisce alle Sacre Scritture, di cui sottolinea, da non credente, la sacralità. In esse, infatti, egli riconosce una verità immutabile, che si distingue da giustificazioni e credenze sottoposte al vaglio del tempo: essa è la dignità del’uomo, l’esigenza di un senso altro, superiore; è in ultima analisi, la tensione a trascendere la pura dimensione materiale e terrena per un oltre che in Pascoli resta tormentoso mistero. 3. La verità nella fede Per questo, egli spinge l’uomo moderno a tornare alla fede - che è la fede cristiana e, nel contempo, l’aspirazione universale a realizzare la propria umanità attraverso la ricerca del senso - e, in particolare, a considerare di essa il frammento di verità più luminoso, di cui la sconfitta della scienza diventa, in qualche modo, una dimostrazione: “La morte doveva ella (scil. La scienza) cancellare. Viaggiare più velocemente, sapere più presto e dare le proprie notizie, aver qualche agio di più, che cosa è mai se non un rimpianto maggiore per chi deve morire? Il morire doveva essere tolto dalla scienza; ed ella non l’ha tolto. A morte dunque la scienza! Noi torniamo alla fede che (è verità? è solo illusione? ma illusione, a ogni modo, che ci vale per verità) che non solo ha abolita la morte, ma nella morte ha collocata la vita e la felicità indistruttibile! E così alla scienza, sulla fine del secolo del suo maggior lavorìo, è fatto, invece dell’inno che poteva aspettarsi, il rimprovero più amaro. Non solo essa non ha fatto nulla di bene novello al genere umano, ma ha tentato di togliergli il bene che già possedeva”.ix A questa verità che la fede insegna agli uomini, si accompagna la verità che la scienza, fallendo, indica, come la luce che squarcia le tenebre delle illusione di cui l’uomo si compiace: TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 22-04-2008 16:53 Pagina 109 Il Tempietto “Questa è la luce.x La scienza in ciò è benefica, in cui si proclama fallita. Essa ha confermata la sanzione della morte. Ha risuggellate le tombe. Ha trovato, credo, che non si può libare il nettare della vita con Giove in cielo”.xi Per l’uomo pascoliano, ateo, la mortalità come cifra del destino umano è la luce accecante della verità che si fa antidoto contro il male non necessario, - quello che l’uomo infligge ad altri simili - corollario della disperazione del senso. È molto interessare rilevare, nel passaggio che segue, come la distanza assoluta di Dio dal pensiero del Pascoli non implichi l’assenza di una morale altra dall’utile e dal bene egoistici, ma al contrario la presupponga. Se non c’è giustizia divina, né punizione né merito, il crimine resta nel nulla, senza possibilità di rimedio, di redenzione; resta eterno, immedicato. E l’uomo non può sopportare l’assurdo di un male assoluto, di un non-senso irrisolvibile: “Ma questa è la luce? Oh! la morte, a fissarla, abbarbaglia. Meglio la penombra nella quale si stende il pianoro Elisio, più utile l’ombra nella quale stridono le Eumenidi. Sì? Ecco uno scellerato che non crede alla morte. Lo imagino oppresso da un suo delitto. Lo vedo anelante di terrore. A un tratto qualcuno sa introdurre nella sua coscienza l’assoluta convinzione che quelle vendicatrici sono fantasmi, e che esso non sarà punito. Lo scellerato respira; mette forse un urlo, non che un sospiro, 109 di sollievo e di gioia. Il qualcuno si allontana. Colui è ora solo, e, poichè l’altro ha veramente mutata la sua coscienza, sente il nulla [...]. L’ucciso nel nulla: l’uccisore nel nulla: non resta che il delitto, senza castigo e senza perdono: incancellabile! irreparabile! eterno!”xii Dalla necessità del morire in una prospettiva immanente, deriva all’uomo la necessità di coltivare la virtù maggiore di S. Paolo, l’agàpe, /caritas che gli permetterà di salire l’ultimo gradino della sua evoluzione e diventare uomo autenticamente umano:xiii “Uomo, abbraccia il tuo destino! Uomo, rassegnati ad essere uomo! Pensa nel tuo solco: non delirare. L’amore, pensa, è ciò che non solo di più dolce, ma di più sacro e e di più tremendo tu possa fare; perchè è aggiungere nuovi sarmenti al grande rogo che divampa nell’oscurità della nostra notte”.xiv 4. La verità nell’era nuova e la missione della poesia Nell’oscurità senza dio a cui Pascoli fa cenno, l’amore universale è questa luce tragica che si alimenta di vite destinate a morire, ed è il valore e la dignità che l’umanità oppone alla morte nullificazione e male assoluto. Portatrice di questa verità etico-morale che unisce la rivelazione della fede, reinterpretata in senso tutto umano, e il dato della scienza, è la poesia dell’èra nuova - del nuovo secolo che Pascoli vedeva destinato ad una vera e propria palingenesi dell’umanità - che, TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 110 22-04-2008 16:53 Pagina 110 Il Tempietto abbandonate le illusioni, è chiamata a dare all’uomo l’intuizione profonda della propria mortalità. Abbracciando la caritas universale, Pascoli trasfigura così la propria angoscia in un inedito umanesimo moderno e, insieme, in una moderna poesia, chiamata ad annunciarlo: “che il poeta è quello e la poesia è ciò che DELLA SCIENZA FA COSCIENZA. La scienza può dire alla poesia: Io ho lavorato, e tu no: dal mio lavoro non è nato tutto il bene che doveva, ed è nato anche del male che non doveva, perchè tu non hai cooperato con me. Io ho dato il grano; ma tu non ne hai fatto il pane. Io ho pòrto il grappolo; ma tu non ne hai spremuto il vino. Io ho fornita la verità; ma tu non ne hai nutrite le anime. Io non posso far tutto io sola”.xv E i poeti dell’èra nuova saranno uomini di fede, liberi dalle illusioni di chi non riconosce nella limitatezza propria della natura umana - la finitudine dell’essere e il relativismo della conoscenza rispetto a un assoluto che non è un nome vuoto, ma un mistero - la dignità di una ricerca sempre perfettibile e un’aspirazione inesausta all’oltre: “Dovete riuscire voi, o poeti della nuova èra. [...] Voi dovete essere sinceri: rinunziare subito, se già nel vostro spirito ne è qualche tentazione, a fingere di credere: voi dovete credere”. NOTE i Giovanni PASCOLI, Prose, a cura di Augusto Vicinelli, La Messa d’oro, I, p. 270. I rilievi, salvo diversa indicazione, sono dell’autore. ii “Ecco l’avvento! Quel che è cominciato già, sebbene non abbia ancora conquistata tutta la terra, è il regno della pietà, cioè della volontà, cioè della libertà!” (G. PASCOLI, Opere, ed. cit., I, p. 222). iii La meraviglia pascoliana, facoltà generatrice della poesia buona del bello e del vero - di una poesia che è, per sua intrinseca essenza e vocazione, filosofia rimanda al qauma>zein, “meravigliarsi”, del Socrate platonico: “meravigliarsi, la filosofia non ha altra origine” (Platone, Teeteto, 155d). Lo stesso Aristotele riconosce nella meraviglia la radice prima ed eterna della ricerca filosofica: “gli uomini, sia nel nostro tempo che dapprincipio, hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia, poiché dapprincipio essi si meravigliavano delle stranezze che erano a portata di mano, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, affrontarono maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo” (Metafisica I 2, 982a-982b). Come ha messo in luce JeanPierre Vernant, si tratta, nei primi filosofi milesii, in Socrate e in Platone, di una meraviglia e di un ‘meraviglioso’, vissuto come esperienza di rivelazione estetica e gnoseologica, che non impone la contemplazione muta, estatica, afasica, del ‘divino’, ma invita all’interrogazione e alla problematizzazione filosofica: “c’est la force de la phusis, dans sa permanence et dans la diversitè de ses manifestations, qui prend la place des anciens dieux; par la puissance de vie et le principe d’ordre qu’elle recale, elle assume elle-même tous TEMPIETTO 30 ANNI:TEMPIETTO 30 ANNI 22-04-2008 16:53 Pagina 111 Il Tempietto les caractères du divin” (Jean Paul VERNANT, Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, La Découverte, Paris 1996, p. 406). Così, la meraviglia del Pascoli non coincide con l’esotismo, il soprannaturale, la bizzarria fantastica, ma con la fu>siv l’essere della natura come misterioso oggetto d’incanto e di inquieta indagine. iv Per l’influenza della filosofia di Hartmann sul pensiero pascoliano e sulla personale lettura di Leopardi, rinvio a Massimo CASTOLDI, Pascoli e Leopardi: la genesi della conferenza Il Sabato (1896), in “Rivista Pascoliana”, 8 (1996), pp. 31-61. v Nella biblioteca di Castelvecchio si trova lo scritto di Michèle KERBAKER, Introduzione alla Bagavadgîta, in “Rivista orientale”, Fodratti, Firenze 18661867, dove si illustra l’episodio del Mahabharata in cui Krishna, avatar umano di Vishnu, espone la propria rivelazione filosofica. Da questo articolo e certamente da altre fonti contemporanee, tra cui lo stesso pensiero di Schopenhauer, Pascoli verosimilmente attinge l’idea dell’illusorietà dell’individuo, assente nel pensiero greco, dove l’anima individuale, la yuch>, rappresenta il freno alla dispersione dell’io nel Tutto, il limite ontologico dell’uomo ma anche la sua garanzia di eternità nel essere. vi “In Italia almeno dal 1880 erano a disposizione degli studi su Schopenhauer, come quello raccolto nel volume Santi, solitari, filosofi di Giacomo Barzellotti, che contiene anche il saggio su David Lazzaretti ampiamente antologizzato e lodato con calore da Pascoli in Sul limitare, e sempre a partire dagli anni ‘80 cominciano ad essere disponibili in Italia le prime traduzioni delle opere del filosofo” 111 (Marina MARCOLINI, I Poemi conviviali: un libro per la critica di domani, in “I Poemi conviviali di G. Pascoli. Atti del Convegno di studi”, (San Mauro Pascoli e Barga, 26-29 settembre 1996), a cura di Mario Pazzaglia, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 209). Per un’indagine dei rapporti tra i Poemi conviviali e la filosofia contemporanea rinvio inoltre all’articolo di Willy HIRDT, I Poemi conviviali tra mitografia e filosofia, in “Studi italiani”, XII, 2000, 1, pp. 75-95. vii Le riflessioni del Pascoli sono, in fondo, molto vicine a quelle di Umberto GALIMBERTI nel suo L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007, che sottolinea come scienza e tecnica si limitino a essere efficaci e a funzionare, senza tendere a uno scopo che sia al di là dell’attuazione immediata di un compito materiale, senza produrre un senso al di là dell’atto. viii G. PASCOLI, Prose, ed. cit., L’Èra nuova, I, p. 113. ix Ibid., p. 112. x In questo passaggio dell’Èra nuova, Pascoli riprende l’immagine di S. Giovanni 3, 19: “E gli uomini amarono più le tenebre che la luce”. xi G. PASCOLI, Prose, ed. cit., L’Èra nuova, I, p. 119. xii Ibid., p.121. xiii Proprio del Pascoli è il concetto di homo humanus, ultima tappa dell’evoluzione dell’uomo moderno, ridotto dalla società moderna, prona all’utile e al produttivismo, a mero homo oeconomicus (G. PASCOLI, Prose, ed. cit., La messa d’oro, p. 219 et 224). xiv G. PASCOLI, Prose, ed. cit., L’Èra nuova, p. 121. xv Ibid., I, p. 111.