REPUBBLICAITALIANA Sentenza

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R E P U B B L I C A
I T A L I A N
A
In Nome del Popolo Italiano
Il Tribunale di Genova, sezione lavoro, Giudice monocratico dott. Marcello Basilico
ha pronunciato la seguente
Sentenza
nella causa promossa da
MARROSU Cristiano e SARDINO Gianluca, entrambi residenti in Genova ed ivi elettivamente
domiciliati, in via Fiume 4/6, presso lo studio e la persona degli avv. G. Bellieni ed A. Lanata, che li
rappresentano e difendono, con facoltà di agire anche disgiuntamente fra loro, per procura speciale
RICORRENTI
apposta a margine dei rispettivi ricorsi,
contro
Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie
Convenzionate, in persona del legale rappresentante Direttore Generale dott. Gaetano Cosenza,
elettivamente domiciliato in Genova, via S. Giacomo e Filippo 15/5, presso lo studio dell'avv. C.
Ciminelli, che la rappresenta e difende per mandato a margine della memoria di costituzione
CONVENUTA
Conclusioni per entrambi i ricorrenti: “la Signoria Vostra Illustrissima, ritenuta la propria
competenza, previa fissazione dell’udienza di discussione, esaminati i documenti e raccolte le prove
che si offrono, previa ogni più opportuna declaratoria e pronuncia, si compiaccia di accogliere le
seguenti conclusioni:
1 - dichiarare che tra il ricorrente Cristiano MARROSU e l’AZIENDA OSPEDALIERA
OSPEDALE
SAN
MARTINO
DI GENOVA
e
CLINICHE
UNIVERSITARIE
CONVENZIONATE, in persona del legale rappresentante, sussiste un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato a far data dal 03 luglio 2000.
2 - dichiarare la sussistenza nel comportamento dell’AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN
MARTINO DI GENOVA e CLINICHE UNIVERSITARIE CONVENZIONATE dei caratteri del
recesso volontario dal rapporto di lavoro (licenziamento).
3 - dichiarare l’illegittimità del recesso dell’AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN
MARTINO DI GENOVA e CLINICHE UNIVERSITARIE CONVENZIONATE, per i motivi di
cui in premessa.
4 - ordinare all’AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN MARTINO DI GENOVA e
CLINICHE UNIVERSITARIE CONVENZIONATE, in persona del legale rappresentante, di
reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro o, in denegato subordine, condannare la stessa a versare
al ricorrente un’indennità non inferiore a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, salva
migliore determinazione in corso di causa.
5 - condannare l’AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN MARTINO DI GENOVA e
CLINICHE UNIVERSITARIE CONVENZIONATE, in persona del legale rappresentante, al
risarcimento del danno, da liquidarsi in misura non inferiore a cinque mensilità di retribuzione
globale di fatto, salva migliore determinazione in corso di causa.
6 - - condannare l’AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN MARTINO DI GENOVA e
CLINICHE UNIVERSITARIE CONVENZIONATE, in persona del legale rappresentante, al pagamento in favore del ricorrente di una indennità sostitutiva del preavviso.
7 - condannare l’AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN MARTINO DI GENOVA e
CLINICHE UNIVERSITARIE CONVENZIONATE, in persona del legale rappresentante, alla rifusione delle spese tutte di causa, diritti e onorari di avvocato compresi, incluse C.P.A. e I.V.A. come
per legge”.
Conclusioni per la convenuta: “Si conclude per la declaratoria di inammissibilità e/o infondatezza
del ricorso. In ogni caso per la reiezione dello stesso, In subordine e salvo gravame perché
l’eventuale e contestato credito del ricorrente venga compensato con l’aliunde perceptum. Vinte le
spese”.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con separati ricorsi, depositato rispettivamente il 15 ed il 20 maggio 2003, Marrosu Cristiano e
Sardino Gianluca esponevano:
- di avere lavorato alle dipendenze l’Azienda Ospedaliera Ospedale S, Martino di Genova e
Cliniche Universitarie Convenzionate (di seguito, per brevità, Azienda) con inquadramento nel
livello B e qualifica di operatore tecnico cuoco, da ultimo con contratto a termine di sei mesi a fare
data dal 10, per Marrosu, e dall’11, per Sardino, gennaio 2002, contratto preceduto da altri quattro,
per Marrosu, e tre, per Sardino, negozi a tempo determinato, stipulati a partire dal 1999;
- di avere comunicato per iscritto all’Azienda l’8 luglio 2002, che, non sussistendo i presupposti per
l’apposizione del termine e dovendosi pertanto il rapporto considerare a tempo indeterminato sin
dalla prima assunzione, venivano messe a disposizione del datore di lavoro le proprie energie
lavorative;
- di essersi di conseguenza presentati sul luogo di lavoro per proseguire l’attività, venendo invitati a
lasciarne i locali, e di avere pertanto impugnato il licenziamento così intimato dall’Azienda;
- di ritenere illegittimo il termine apposto al contratto di lavoro in quanto:
1) non specificava le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo
legittimanti l’apposizione del termine, così come invece prescritto dall’art. 1 co. 1° d. lgs. n.
368/2001;
2) tra l’ultimo ed il penultimo contratto intercorreva un intervallo inferiore ai 10 giorni minimi
previsti dall’art. 5, terzo comma, d. lgs. n. 368/2001;
3) che anche ai sensi dell’art. 31, comma 11, C.C.N.L. di comparto l’intervallo minimo tra due
contratti di lavoro a termine non poteva essere inferiore a 10 giorni.
- di ritenere pertanto che il rispettivo rapporto di lavoro doveva essere considerato a tempo
indeterminato quantomeno dalla data iniziale dell’ultimo contratto e che il rifiuto da parte del datore
di lavoro delle prestazioni lavorative da loro offerte debba qualificarsi come un licenziamento,
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inefficace perché intimato verbalmente ed illegittimo perché non assistito da giusta causa o
giustificato motivo.
Formulavano dunque le conclusioni in epigrafe trascritte.
Si costituiva tempestivamente in giudizio la parte convenuta, sostenendo l’inammissibilità e
comunque l’infondatezza del ricorso avversario, di cui chiedeva dunque la reiezione.
All’udienza di trattazione le controversie venivano riunite. Dopo l’assunzione dei liberi
interrogatori delle parti ed il vano esperimento del tentativo di conciliazione, il tribunale, udita la
discussione dei difensori, sollevava una questione interpretativa pregiudiziale alla Corte di Giustizia
delle Comunità Europea, pronunciando ordinanza il 21.1.2004 e sospendendo il giudizio.
A seguito di sentenza pronunciata il 7.9.2006 dalla Corte europea di Lussemburgo, i ricorrenti
depositavano il 5.2.2007 ricorsi in riassunzione del giudizio. All’udienza di discussione fissata dal
tribunale le difese concludevano come in epigrafe e la causa veniva decisa, così come da dispositivo
letto in udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è fondato nei soli limiti di seguito esposti.
Entrambi i ricorrenti hanno lavorato alle dipendenze dell’Azienda Ospedaliera Ospedale San
Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate in una serie di rapporti a termine,
l’ultimo dei quali instaurato a seguito di deliberazione n. 3711 del 19.12.2001. Con separati ricorsi,
riuniti in corso di giudizio, entrambi hanno sostenuto di avere subito il recesso, da parte
dell’amministrazione datrice di lavoro, dopo avere messo a disposizione di questa, per iscritto e
fisicamente, le rispettive energie lavorative presentandosi sul posto di lavoro successivamente alla
scadenza del termine dell’ultimo contratto. Hanno pertanto impugnato l’atto di licenziamento così
configurato, invocando l’applicazione della disciplina di cui al d. lgs 368/2001 e chiedendo nella
presente sede dichiararsi la sussistenza d’un rapporto lavorativo a tempo indeterminato, dalla data
suddetta, nonché l’illegittimità del recesso, con condanna dell’Azienda convenuta al pagamento
delle retribuzioni dovute ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 l. 300/70.
L’Amministrazione datrice di lavoro si è costituita in giudizio eccependo l’inapplicabilità alla
fattispecie della disciplina invocata e comunque l’impossibilità di pervenire alle conseguenze
pretese da controparte, stante il divieto di costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato
da parte delle p.a. imposto dall’art. 36, secondo comma, d. lgs 165/2001. Ha pertanto impostato il
rilievo in termini di inammissibilità delle domande attrici.
Ma l’applicazione della disposizione di legge al caso in esame comporta una valutazioni di
correttezza della qualificazione giuridica dei fatti compiuti dai ricorrenti ed un’operazione
d’interpretazione della norma. Perciò l’eccezione si riflette sul merito della causa e dunque non
riguarda l’ammissibilità o meno delle relative domande, bensì la loro fondatezza.
Va osservato in proposito che – com’è pacifico tra le parti in causa – ambedue i ricorrenti hanno
lavorato alle dipendenze dell’Azienda in forza d’una pluralità di contratti a tempo determinato.
Marrosu Cristiano, in particolare:
- dal 25.10.99 al 24.4.2000 [contratto del 20.10.99 in all. 2 al suo ricorso];
- dall’8.5.2000 al 7.11.2000 [contratto del 5.5.2000 in all. 3 ric.];
- dal 21.11.2000 al 20.2.2001 [contratto del 17.11.2000 in all. 4 ric.];
- dal 3.7.2001 al 2.1.2002 [contratto del 29.6.2001 in all. 5 ric.];
- dal 10.1.2002 al 9.7.2002 [contratto del 3.1.2002 in all. 1 ric.].
Sardino Gianluca, a sua volta:
- dal 3.6.99 al 2.12.99 [contratto dell’1.6.99 in all. 2 al suo ricorso];
- dal 13.6.99 al 12.6.2000 [contratto del 9.12.99 in all. 3 ric.];
- dal 4.7.2001 al 3.1.2002 [contratto del 3.7.2001 in all. 4 ric.];
- dall’11.1.2002 al 10.7.2002 [contratto del 2.1.2002 in all. 1 ric.].
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L’applicazione del d. lgs. 368/2001 al lavoro alle dipendenze di ente pubblico.
Con riguardo anche all’assunzione di personale a tempo determinato alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni, l’art. 36 secondo comma d. lgs 165/2001 (già art. 36 ultimo comma d. l.vo 29/93)
stabilisce che, “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o
l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la
costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche
amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto
al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni
imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei
confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave”.
La difesa resistente ha richiamato queste ultime previsioni come ragioni di sbarramento alle
pretese avversarie, rilevando, tra l’altro, come la questione di legittimità costituzionale della norma
che esclude la costituzione di rapporti a tempo indeterminato sia stata dichiarata non fondata dalla
Corte costituzionale con la recente sentenza n. 89 del 27 marzo 2003 (in G.U. – prima serie speciale
n. 13 del 2 aprile 2003). Si tratta a questo punto di verificare se la disciplina del contratto di lavoro a
termine, invocata dagli attori e cronologicamente successiva a quella contenuta nel d. l.vo 165/2001,
sia applicabile – ed in che misura – alla fattispecie in esame. E’ evidente che, nell’ipotesi d’una
soluzione totalmente affermativa, si potrebbe dare accesso alle richieste dei lavoratori ricorrenti,
superandosi il divieto posto dall’art. 36, secondo comma.
Con ordinanza del 21.1.2004 – che si richiama integralmente – il tribunale ha sollevato alla Corte
di giustizia delle Comunità Europee il seguente dubbio interpretativo <<se la Direttiva 1999/70/CE
(articolo 1 nonché clausole 1, lett. b, e clausola 5 dell’Accordo quadro sul lavoro CES-UNICECEEP recepito dalla Direttiva) debba essere intesa nel senso che osta ad una disciplina interna
(previgente all’attuazione della Direttiva stessa) che differenzia i contratti di lavoro stipulati con la
pubblica amministrazione, rispetto ai contratti con datori di lavoro privati, escludendo i primi dalla
tutela rappresentata dalla costituzione d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di
violazione di regole imperative sulla successione dei contratti a termine>>.
Con sentenza del 7.9.2006 la Corte Europea si è espressa ritenendo [par. 39] che tanto la direttiva
1999/70/CE quanto l’accordo quadro recepito “si applicano ai contratti e ai rapporti di lavoro a
tempo determinato conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico”. Anche questi
negozi giuridici sottostanno, in particolare, al comune obiettivo, previsto dalla clausola 1, lett. b),
dell’accordo quadro europeo, “di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi
derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”
[par. 43].
Prima conclusione cui si perviene è dunque la seguente: se l’art. 36 del d. lgs 165/2001 viene in
considerazione in ordine alle conseguenze della violazione di norme imperative in materia, la fonte
di diritto sostanziale, per i rapporti instaurati successivamente alla sua entrata in vigore, è senz’altro
contenuta nel d. lgs 368/2001, che ha dato attuazione alla normativa comunitaria.
Tutti i rapporti intercorsi tra le parti in causa sono stati costituiti mediante contratti individuali, in
attuazione – vi si legge – di altrettante delibere del direttore generale dell’Azienda [all. 2 alla
memoria di costituzione della resistente] con cui si è stabilita la riassunzione a termine del personale
già utilmente collocato nella graduatoria di selezione pubblica, indetta dall’Amministrazione stessa
per l’assunzione di personale a tempo determinato nella qualifica di “operatore tecnico cuoco”.
L’ultimo dei contratti impugnati da ciascun ricorrente è stato in effetti stipulato dopo l’entrata in
vigore del d. lgs 368/2001, come già si è osservato nell’ordinanza di rimessione alla Corte europea.
Occorre pertanto valutare se, in ragione della conclusione cui ha condotto l’affermata applicazione
al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione del nuovo regime dei contratti a tempo
parziale, in quel rapporto intercorso tra le parti possa dirsi legittima l’apposizione del termine.
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Sull’osservanza della disciplina imperativa del d. lgs 368/2001.
L’art. 1 del d. lgs 368/2001 elenca, al primo comma, i possibili motivi giustificativi del termine e, al
capoverso successivo, prescrive che le ragioni dell’apposizione siano “specificate” nell’atto scritto
negoziale. Il testo degli ultimi contratti dei ricorrenti è identico [all. 1 a ciascun ricorso] e non reca
indicazione alcuna di tali ragioni. Nelle premesse contrattuali si accenna a “esigenze straordinarie”
che hanno richiesto il rinnovo dell’incarico di cuoco.
La lettera della legge non è casuale nel precetto che impone una “specificazione” dei motivi e
preclude un’interpretazione che consenta alle parti contraenti un rinvio generico ad una delle
esigenze previste al primo comma dello stesso articolo. Occorre dunque che il contratto non si limiti
ad indicare quali, tra i motivi di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o istitutivo, abbiano
giustificato l’adozione del contratto a tempo determinato, ma ne enunci anche il contenuto nel caso
concreto.
Questa lettura, aderente al tenore letterale, è coerente con le cautele dettate per l’impiego dello
strumento del contratto a termine ed esplicitate, innanzi tutto, nella direttiva europea 1999/70/CE, di
cui il d. lgs 368/2001 è attuazione. Ma vi sono anche ragioni di equilibrio del sistema normativo
interno a giustificarla. I commentatori della nuova disciplina hanno osservato come, rispetto a quella
previgente di cui alla legge 230/62, la nuova abbia sì inteso consentire un più largo accesso al
contratto a tempo determinato - ammettendo una gamma più ampia d’ipotesi, estesa alla generalità
dei destinatari e svincolata in sostanza da elencazioni tassative – ma abbia introdotto, quasi per
contrappeso, requisiti formali più rigorosi. In precedenza, infatti, era sufficiente che dall’atto scritto
risultasse solo il termine, mentre i motivi ben potevano risultare altrimenti [tra le tante, Cass., sez.
lav., 8 luglio 1995, n. 7507, in Orient. giur. lav., 1995, 613; Cass., sez. lav., 9 agosto 1996, n. 7385,
in Giur. it. 1997, I, 1, 610].
E’ stato ben affermato, in effetti, che “l'ampiezza dell'ambito delle ragioni che giustificano
l'apposizione del termine a un contratto di lavoro ex art. 1, D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 è
ridimensionata dalla previsione contenuta nel secondo comma di quella norma, che impone una
specifica indicazione delle ragioni stesse” [Trib. Milano 15 ottobre 2003, in D&L Riv. crit. dir. lav.
2003, 937. In senso analogo, con riguardo soprattutto alla permanente eccezionalità del contratto a
termine Trib. Firenze 5 febbraio 2004, nella stessa rivista, 2004, 325]. Questo nuovo assetto
dell’equilibrio tra elementi formali e sostanziali rende la disciplina vigente nel nostro ordinamento
non dissonante rispetto all’obiettivo del legislatore comunitario di salvaguardare il contratto a tempo
indeterminato come “forma comune dei rapporti di lavoro”.
Anche ad ammettere che il preambolo entri a fare parte del testo negoziale, il richiamo alle
“esigenze straordinarie”, non altrimenti precisate, risulta troppo generico per soddisfare il requisito
di legge.
La difesa resistente ha sostenuto che l’accordo in questione integrerebbe in realtà una proroga del
contratto precedente intercorso tra le parti, il 29 giugno ed il 3 luglio 2001 rispettivamente per
Marrosu e Sardino. La tesi non è condivisibile.
I contratti stipulati rispettivamente il 3 ed il 2 gennaio 2002 statuiscono che il lavoratore “viene
assunto nella posizione funzionale” anzidetta, fissando le date d’inizio e fine del rispettivo rapporto;
hanno la veste formale di atti negoziali autonomi e non richiamano in alcun passaggio i rapporti
precedenti. Il fatto che, in premessa, evochino la procedura selettiva – seguita però nel 1999 per
individuare i destinatari iniziali dei rapporti con l’Azienda – e successivi atti del Direttore generale
(in particolare, un “provvedimento 3711 de 19/12/2001) non muta il tenore dell’accordo su cui le
parti hanno manifestato reciprocamente il consenso. Una cosa, infatti, sono le determinazioni
unilaterali con cui l’Azienda si risolve a contrarre obbligazioni ed altra cosa sono le modalità con
cui tale obbligazioni vengono assunte con le controparti negoziali.
Non risulta, del resto, che il testo della deliberazione n. 3711/2001 [all. 2 mem.] fosse stato
accluso ai contratti. E anche fosse, esso avrebbe confermato la natura autonoma dei nuovi rapporti.
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La delibera contiene infatti l’espressa manifestazione di volontà di “riassumere a tempo
determinato” i lavoratori e, si legge in premessa, “con un ulteriore contratto..”. Viene dunque
esplicitato il carattere autonomo dei nuovi contratti.
A questi elementi si aggiunga che, tra la data di scadenza del termine del penultimo e quella
d’inizio dell’ultimo contratto, sono trascorsi, per entrambi i ricorrenti, otto giorni. La riassunzione a
termine “entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei
mesi” comporta che il secondo rapporto si considera ex lege a tempo indeterminato, ai sensi del
terzo comma dell’art. 5 d. lgs 368/2001. I ricorrenti hanno addirittura invocato la norma dell’ultimo
capoverso del medesimo art. 5, ritenendo che, tra i contratti in questione, non vi sarebbe stata
“alcuna soluzione di continuità” e sostenendo pertanto il proprio diritto al riconoscimento del
rapporto a tempo indeterminato dalla data di stipula del negozio precedente.
La soluzione della questione è allo stato superflua. E’ sufficiente constatare, in definitiva, la
molteplicità comunque dei profili di contrasto con la disciplina imperativa contenuta nel d. lgs
368/2001.
Le conseguenze della nullità della clausola nel rapporto di lavoro pubblico.
A fronte della prospettata applicazione della disciplina anzidetta, nella discussione orale della causa
la difesa di parte convenuta ha evidenziato un ulteriore profilo d’inammissibilità, riferito in questo
caso alle conseguenze sanzionatorie della disciplina stessa. Si è obiettato che, ravvisando nell’atto
risolutivo del rapporto un vero e proprio licenziamento, parte attrice avrebbe esercitato un’azione
non di nullità parziale del contratto impugnato, qual è quella volta all’accertamento d’un rapporto a
tempo indeterminato, bensì d’illegittimità del recesso. Basandosi dunque su una causa pretendi
diversa, la domanda non potrebbe pervenire alle conseguenze previste dal d. lgs 368/2001.
In effetti, “nell'ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato, e di
comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono
applicabili né la norma di cui all'art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, né quella di cui all'art.
18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ancorché la conversione del rapporto a termine in rapporto
a tempo indeterminato dia egualmente al dipendente il diritto di riprendere il suo posto e di
ottenere il risarcimento del danno qualora ciò gli venga negato. Infatti, mentre la tutela prevista
dall'art. 18 cit. attiene ad una fattispecie tipica, disciplinata dal legislatore con riferimento al
recesso del datore di lavoro, e presuppone l'esercizio della relativa facoltà con una manifestazione
unilaterale di volontà di determinare l'estinzione del rapporto, una simile manifestazione non è
configurabile nel caso di disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la
rinnovazione tacita del contratto, comunichi la scadenza del termine, sia pure invalidamente
apposto, al dipendente, sicché lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione
che le parti danno ad una clausola nulla. Ne consegue che, al dipendente che cessi l'esecuzione
della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione
finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di "mora
accipiendi" del datore di lavoro, situazione, questa, che non è di per sé integrata dalla domanda di
annullamento del licenziamento illegittimo con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro; in
base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del
danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza, così come,
dalla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, deriva
che, al di fuori di espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto se la
prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di "mora
accipiendi" nei confronti del dipendente” [Cass., sez. un., 8 ottobre 2002, n. 14381. Più di recente,
nello stesso senso, Cass., sez. lav., 14 luglio 2005, n. 14814].
Nei rispettivi ricorsi i lavoratori hanno richiesto l’accertamento d’un rapporto di lavoro a tempo
indeterminati, a fare data dal 3.7.2000 e quello dell’illegittimità del licenziamento, con ordine
all’Azienda convenuta di reintegra nel posto di lavoro o, in subordine, al pagamento di una
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“indennità non inferiore a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto”. Vi è peraltro anche
un’ulteriore domanda risarcitoria, “da liquidarsi in misura non inferiore a cinque mensilità di
retribuzione globale di fatto”.
Malgrado l’entità delle pretese così determinate evochi le previsioni dell’art. 18 l. 300/70, commi
quarto e quinto, è corretto osservare che nel ricorso si fa rinvio tanto a quest’ultima disciplina
quanto, espressamente, a quella di cui al d. lgs 368/2001, artt. 1 e 5. Si fa inoltre esplicito
riferimento alla comunicazione dell’8.7.2002 [all. 6 ric. Marrosu e 5 ric. Sardino] che così recita:
“rilevo l’insussistenza dei requisiti per l’apposizione di un termine finale e la presenza deli elementi
per affermare che il rapporto di lavoro che mi lega a Voi deve intendersi a tempo indeterminato sin
dalla prima assunzione.
Riservata ogni valutazione e impregiudicata ogni azione in merito, con la presente, che si intende
rivolta al Vostro legale rappresentante a ogni effetto di legge, metto a Vostra disposizione le mie
energie lavorative e mi presenterò per rendere la precisazione di lavoro anche successivamente
alla scadenza risultante dal contratto.. attendendomi la corrispondente retribuzione”.
L’immediata messa in mora del datore di lavoro e l’offerta della prestazione lavorativa denotano in
modo non equivoco l’intento dei ricorrenti di ottenere il pagamento delle retribuzioni anche dopo la
scadenza contrattuale illegittima, in conformità ai principi giurisprudenziali dianzi enunciati. La
lettura coordinata di questi elementi inducono a qualificare la domanda di risarcimento come
collegata ad un’azione di nullità del termine, che la comunicazione dell’8.7.2002 e l’esposizione
delle ragioni di diritto contenuta nell’atto introduttivo richiamano del resto espressamente. Tale
azione sembra proposta in via alternativa rispetto a quella per illegittimità del recesso.
Quanto alle conseguenze dell’accoglimento della domanda di nullità parziale, autorevole dottrina
ha tratto argomento dalla sanzione dell’inefficacia del termine - espressamente stabilita dall’art. 1,
secondo comma, d. lgs 368/2001 per il caso di apposizione non risultante da atto scritto – per
sostenere di conseguenza che anche in caso d’insussistenza di ragioni giustificatrici
dell’apposizione del termine il contratto si convertirebbe ex tunc in rapporto a tempo indeterminato.
A tale conclusione conduce in effetti un’interpretazione sistematica del decreto legislativo. Si
consideri che, se la legge sanziona con l’inefficacia il termine di durata privo di forma scritta e la
mancata specificazione scritta delle ragioni dello stesso, identico trattamento deve ritenersi
applicabile anche nel caso di apposizione del termine al di fuori delle ipotesi consentite, ancorché
per iscritto. La divaricazione tra la comunicazione formale e l’attività effettiva incide infatti sullo
stesso rispetto del requisito della forma scritta, con conseguente inefficacia della clausola di
apposizione del termine e conversione quindi del contratto in contratto a tempo indeterminato.
Il testo normativo dispone inoltre la conversione del contratto a tempo indeterminato nel caso di
protrazione ultra tempus di un contratto a termine legittimamente stipulato e/o prorogato superiore
ad un certo numero di giorni ovvero in caso di riassunzione ravvicinata (art. 5). Sarebbe del tutto
incoerente, a fronte di tale previsione, che la stessa sanzione non fosse invece applicabile all’ipotesi
del difetto originario della condizione di apponibilità del termine.
L’interpretazione della disciplina legale nel senso sopra descritto risulta, del resto, sostanzialmente
necessitata, dal momento che – ove così non fosse – dovrebbe dirsi violata la c.d. clausola di non
regresso, stabilita dall’accordo quadro annesso alla direttiva europea. Dispone la clausola n. 8
dell’accordo che “l' applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre
il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall’ accordo stesso” .
L’esistenza nel corpo della direttiva di una clausola di "non regresso" non può essere intesa come
preclusione di qualsiasi modifica delle normative nazionali preesistenti. Occorre peraltro che
l’obbligo di recepimento della direttiva stessa non si trasformi in un pretesto per peggiorare il livello
di tutela dei lavoratori già in precedenza previsto dall’ordinamento.
Il riferimento al “livello generale di tutela” si può intendere riferito a singoli aspetti di disciplina,
o, come sembra preferibile, alla disciplina complessiva del contratto a termine. Certamente,
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peraltro, il d. lgs 368/2001 comporterebbe una riduzione drastica del livello di garanzia laddove
l’apposizione illegittima del termine comportasse il venir meno dello stesso vincolo contrattuale.
Pertanto, in base all’interpretazione sistematica del d. lgs 368/2001 ed anche alla luce di una
lettura del testo normativo che ne assicuri la conformità alla direttiva comunitaria, deve concludersi
che, qualora il termine di durata sia inserito fuori dei casi consentiti, il contratto deve considerarsi
sin dall’inizio a tempo indeterminato.
Se queste sono le conseguenze generali derivanti dal nuovo regime di legge, la loro applicazione
va contemperata, nella presente controversia, col vincolo imposto dal secondo comma dell’art. 36 d.
lgs 165/2001. Esso preclude la possibilità di una conversione dei rapporti di lavoro subordinati
cosiddetti “pubblici”; la Corte costituzionale [sentenza 13 marzo 2003 n. 89] ha giudicato il divieto
conforme agli artt. 3 e 97 della Costituzione, ritenendo che l’assimilazione tra questi rapporti e
quelli alle dipendenze d’un imprenditore privato - compiuta con la riforma che il t.u. 165/2001 ha
completato - non esclude la permanenza di distinzioni tra i diversi regimi. Queste sono giustificate,
quanto al profilo genetico del contratto, dal principio fondamentale dell’accesso mediante concorso,
previsto dall’art. 97, terzo comma, Cost. in materia di pubblico impiego; tale principio impedisce di
ritenere irragionevole la disparità di trattamento, tra lavoratori privati e lavoratori occupati presso la
pubblica amministrazione, che si riscontra pertanto anche nelle conseguenze dell’accertata
illegittimità di stipulazione e successione di contratti a tempo determinato.
La norma del testo unico sul pubblico impiego si pone dunque come ostacolo all’attuazione piena,
nel nostro ordinamento, dei principi adottati con la direttiva comunitaria. Il dubbio interpretativo
che nasce dall’esigenza di coordinare i due diversi regimi è stato risolto dalla citata pronuncia del
7.9.2006. Secondo la Corte di giustizia europea, la disciplina comunitaria “non osta, in linea di
principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall’utilizzo di una
successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro
rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a
tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro
conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga
un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una
successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore
pubblico”.
Occorre dunque verificare se il nostro ordinamento appresti misure a favore del lavoratore, il cui
rapporto sia stato illegittimamente risolto, aventi un’efficacia tale da evitare che il divieto di
conversione del rapporto a tempo indeterminato si risolva in un pregiudizio eccessivo per il
lavoratore stesso, favorendo la pratica dell’indebito ricorso al contratto a termine, da parte delle
pubbliche amministrazioni.
Nella pronuncia resa incidentalmente in questo giudizio ed in altra che ha affrontato l’identica
questione [cfr. Corte giust. U.E. 4 luglio 2006, C-212/04, Konstantinos Adeneler + altri vs Ellinikos
Organismos Galaktos] la Corte si è detta incompetente a pronunciarsi sull’interpretazione del diritto
interno, spettando tale compito esclusivamente al giudice del rinvio, che deve nel caso di specie
stabilire se gli obblighi di prevenzione degli abusi e di tutela del lavoratore a tempo determinato
siano soddisfatti dalle disposizioni della normativa nazionale rilevante. Ha ritenuto tuttavia di
potere fornire, ove necessario, precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua
interpretazione [v. sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., in Racc. pag. I-1609,
punti 76 e 77].
Dal punto di vista generale, essa ha segnalato che, quando, come nel caso in esame, il diritto
comunitario non preveda sanzioni specifiche per gli abusi accertati, “spetta alle autorità nazionali
adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un
carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per
garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro (sentenza
Adeneler e a., cit., punto 94) [..] Anche se le modalità di attuazione di siffatte norme attengono
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all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia
procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che
disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere
praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento
giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 14 dicembre 1995, causa
C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12, nonché Adeneler e a., cit., punto 95)” [Corte
giust. 7.9.2006, cit., par. 51-52].
Sullo specifico quadro regolatore nel nostro ordinamento dei rapporti alle dipendenze delle p.a., la
Corte ha osservato che “una normativa nazionale quale quella controversa nella causa principale,
che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato,
nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa del ricorso abusivo da
parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo
determinato, sembra prima facie soddisfare i requisiti ricordati ai punti 51-53 della presente
sentenza”. In ultima analisi, spetta però al giudice interno “valutare in quale misura le condizioni di
applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36, secondo comma, prima frase, del d. lgs. n.
165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo
abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di
lavoro a tempo determinato” [Corte giust. 7.9.2006, cit., par. 55-56].
Si deve dunque pervenire ad una soluzione che orienti la disciplina interna di riferimento in una
direzione di compatibilità con quella europea. Sul punto, infatti, ancora più netta è stata la citata
sentenza del 4.7.2006 [in C-212/04, Adeneler, par. 105], enunciando il seguente principio di diritto:
“qualora l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato non preveda, nel settore
considerato, altra misura effettiva per evitare e, nel caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di
contratti a tempo determinato successivi, il detto accordo quadro osta all’applicazione di una
normativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un
contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di
fatto, hanno avuto il fine di soddisfare «fabbisogni permanenti e durevoli» del datore di lavoro e
devono essere considerati abusivi”.
La tutela spettante ai ricorrenti.
Nel nostro ordinamento non sono ravvisabili strumenti di ripristino della situazione giuridica
soggettiva della lavoratrice in forma specifica. E’ necessario pertanto rifarsi necessariamente al
meccanismo del risarcimento del danno per equivalente. Il pregiudizio arrecato ai ricorrenti nel caso
di specie corrisponde alla perdita del posto di lavoro e dunque di uno stabile trattamento retributivo
assicurato dal rapporto d’impiego alle dipendenze di un ente pubblico.
La pubblica amministrazione, stipulando contratti di lavoro a tempo determinato, opera in un
contesto giuridico che ha, come cornice di riferimento, la disciplina europea, costituita non solo
dalle norme di diritto positivo dettate dai soggetti legiferanti, ma anche dalla giurisprudenza
dell’organo giurisdizionale. In tale quadro rappresentano principi inderogabili l’affermazione per
cui il contratto a tempo indeterminato è la forma comune dei rapporti di lavoro e quella,
conseguente, secondo la quale l’adozione di contratti a termine, se consentita, deve necessariamente
accompagnarsi a cautele inerenti motivi, durata e numero, onde prevenire discriminazioni tra
lavoratori e abusi, e prevedere sanzioni adeguate ed effettive.
La misura dell’adeguatezza e dell’effettività è data dunque non soltanto dall’idoneità dello
strumento a riparare il danno sofferto, ma anche dalla forza dissuasiva che è propria dei meccanismi
sanzionatori. In questa prospettiva, il mezzo più appropriato è quello riprodotto nei commi quarto e
quinto dell’art. 18 l. 300/70, che – al di là delle discettazioni sulla natura giuridica – prevede
comunque delle obbligazioni collegate ad eventi specifici (il recesso illegittimo e l’esercizio
dell’opzione per un’indennità in vece della reintegrazione nel posto di lavoro), ma forfettizzate in
modo da esplicare un’efficacia anche deterrente.
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Si tratta del resto dell’unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del
posto di lavoro assistito dalla cosiddetta stabilità reale, qual è quello alle dipendenze della pubblica
amministrazione. Per le ragioni esposte, si ritiene che - commisurando il risarcimento alla valore
minimo (cinque mensilità – art. 18 comma quarto) del danno provocato dall’intimazione del
licenziamento invalido più la misura sostitutiva della reintegra (quindici mensilità – art. 18 comma
quinto) - si ottenga la misura “che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela del lavoratore”
e che possa “essere applicata al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le
conseguenze della violazione del diritto comunitario” [Corte giust. 4.7.2006, C-212/04, Adeneler,
par. 102].
Soltanto in questo modo si perviene all’applicazione della normativa nazionale in termini
compatibili con la disciplina comunitaria, in adesione ai precetti contenuti nelle richiamate decisioni
della Corte di giustizia europea.
Le conclusioni raggiunte trovano immediata applicazione alla situazione del ricorrente Sardino
Gianluca, che - secondo quanto è emerso dal suo interrogatorio libero e dai documenti acquisiti in
corso di causa - non ha più reperito stabile occupazione dopo la cessazione dell’ultimo rapporto con
l’Azienda convenuta. La retribuzione di giugno 2002 [all. 17 ric.], pari a € 1.366,21, offre una
media dei compensi percepiti mensilmente anche per lavoro straordinario e notturno. Assumendola
a parametro di calcolo, si perviene ad un importo totale corrispondente ad € 29.601,21 (€ 1.366,21 x
13 : 12 = € 1.480,06 x 20 = 29.601,21). Da questo va detratto quanto è stato percepito nel corso del
2003 [all. 39 segg.] e che è complessivamente pari a € 7.778,77.
L’Azienda convenuta deve in definitiva essere condannata a corrispondere a Sardino Gianluca la
somma di € 21.822,44, sulla quale vanno applicati rivalutazione monetaria e interessi legali, a
seguito della sentenza del 23 ottobre 2000, n. 459 [in Guida al Lavoro de Il Sole - 24 Ore n. 44,
pag. 25], con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 22
comma trentasei l. 724/94. Gli interessi devono calcolarsi sul capitale rivalutato annualmente,
secondo il più recente orientamento della Corte Suprema [Cass., sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38, in
Guida al lav. 2001, n. 8, 10].
Anche per il ricorrente Marrosu Cristiano il compenso percepito a giugno 2002 [all. 17 ric.]
rappresenta il parametro di riferimento più completo per la determinazione del risarcimento. La sua
situazione lavorativa è risultata tuttavia ben diversa, poiché, scaduto il termine del contratto
impugnato, egli ha lavorato ancora per la convenuta con altri tre rapporti di durata semestrale, alla
conclusione dei quali (gennaio 2005) è stato assunto a tempo indeterminato, con un solo mese
interlocutorio, presso l’impresa privata appaltatrice del servizio mensa nella stessa struttura
ospedaliera. Per sua ammissione, la retribuzione percepita dal nuovo datore di lavoro (Serenissima
Ristorazioni s.p.a.) è inferiore di circa € 100,00 a quella precedente.
In questo caso il risarcimento spettante va ridimensionato in funzione soprattutto dell’incertezza
lavorativa determinata dalla scadenza del termine di durata contrattuale e delle minori garanzie di
stabilità fornite dal posto di lavoro presso un’impresa privata appaltatrice d’un servizio pubblico,
destinato ad essere periodicamente ricontrattato. Risponde ad equità la limitazione del risarcimento
a dieci mensilità e dunque all’importo complessivo di € 14.895,10 (€ 1.374,93 x 13 : 12 = €
1.489,51 x 10 = € 14.895,10).
Parte convenuta deve dunque essere condannata a corrispondere al ricorrente Marrosu la somma
suddetta, anch’essa maggiorata di accessori come dianzi precisato.
Ogni ulteriore domanda attrice deve essere respinta, alla luce delle considerazioni svolte.
Negli atti di causa il difensore ha omesso di richiedere la liquidazione delle spese di lite. Ma “il
regolamento delle spese è consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del giudizio,
pertanto la condanna al pagamento delle spese di lite, legittimamente può essere emessa, a carico
della parte soccombente, anche d'ufficio, in mancanza di un'esplicita richiesta della parte
vittoriosa, a meno che risulti che esista una esplicita volontà di quest'ultima di rinunziarvi” [Cass.,
sez. un., 10 ottobre 1997, n. 9859, in Giust. civ. Mass. 1997, 1901].
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Valutate la complessità e la novità delle questioni trattate, la condotta delle parti e la parziale
reiezione delle domande attrici, parte convenuta va considerata soccombente nella misura dei 2/3,
percentuale cui va commisurato il valore delle spese di lite, liquidato come da dispositivo, da
rifondere a ciascun ricorrente. La frazione residua si compensa tra le parti.
P.Q.M.
visto l’art. 429 c.p.c., definitivamente pronunciando,
a) dichiara tenuta e per l’effetto condanna l’Azienda Ospedaliera Ospedale S. Martino di
Genova e Cliniche Universitarie convenzionate, in persona del direttore generale, a
corrispondere ai ricorrenti, a titolo di risarcimento del danno, gli importi di € 14.895,10,
quanto a MARROSU Cristiano, e di € 21.822,44, quanto a SARDINO Gianluca, maggiorati
entrambi degli interessi legali decorrenti dal 10.7.2002 e fino al saldo;
b) respinge le ulteriori domande dei ricorrenti;
c) condanna la convenuta a rifondere ciascun ricorrente delle spese di lite nella misura dei 2/3,
misura liquidata in € 2.400,00 per ciascuno oltre a IVA e CPA, compensando tra le parti la
frazione residua di spese.
Genova, 5 aprile 2007
IL GIUDICE
Marcello Basilico
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