7.
DISCORSO EUCARISTICO
NELLA SINAGOGA
DI CAFARNAO
1- CENNI SULLO STILE DI GIOVANNI
La lingua
Giovanni scrive nel greco della koinè (=comune), il greco ellenistico parlato allora in tutte le regioni
dell’impero romano, la lingua che accomunava tutti e permetteva la comunicazione tra popoli diversi, come e ancor più dell’inglese ai nostri giorni.
La lingua giovannea però non rientra nella cosiddetta “koinè letteraria”, più raffinata (cui invece si
avvicina Luca), ma in quella popolare, la lingua comunemente parlata dal popolo.
Giovanni proviene dal contesto culturale semitico e riporta la tradizione di Gesù, che pure visse in
ambiente semitico e parlò in lingua semitica (l’aramaico). Di conseguenza il greco di Giovanni è
influenzato da parole ed espressioni semitiche, toponimi e vocaboli tipici di quel contesto, dunque è
un “greco semitizzante”; l’elemento semitico più evidente è la formula “Amèn amèn… = “in verità vi
dico, ma troviamo anche “grazia e verità” (Giov.1,14), “figli della luce” (Giov.12,46), “figlio della perdizione” (Giov,17,12).
Il vocabolario
Giovanni usa un vocabolario piuttosto ridotto e molto ripetuto: frequentissimi sono ad esempio i
vocaboli amare, conoscere, credere, giudei, giudicare, luce, rimanere, verità, vita; abbiamo già ampiamente esaminato nel 4° incontro il verbo “giudicare” e allo stesso modo ci soffermeremo nei
prossimi incontri su altri vocaboli tipici di Giovanni e sul loro uso e significato.
Lo stile
Lo stile di Giovanni è semplice e solenne ad un tempo; è semplice perché l’evangelista predilige frasi
brevi e coordinate, ed evita costruzioni complesse con tante subordinate; tale brevità delle frasi e la
frequente ripetizione di espressioni importanti conferiscono all’opera una particolare intensità e
così la semplicità diviene grandiosa, perché tutta incentrata sull’evento essenziale della RIVELAZIONE.
Infatti il fascino dello stile giovanneo – inconfondibile! – deriva proprio dal fatto che è frutto della
meditazione su Gesù e sulla Sua rivelazione ed è messo completamente al suo servizio, per illustrarla. Di qui la sensazione del lettore di trovarsi di fronte ad un‘opera a lungo e profondamente meditata.
Nei racconti l’evangelista sceglie uno sviluppo drammatico, che arriva fino ad un apice di tensione
teso ad evidenziare il senso profondo del fatto. I due più tipici racconti al riguardo sono quello del
cieco nato (Giov.9) e della resurrezione di Lazzaro (Giov.11).
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Inoltre il redattore mette in evidenza l’elemento simbolico ricavato dal fatto stesso e che esprime la
verità, di solito cristologica, implicita nel fatto raccontato (del simbolismo giovanneo abbiamo parlato nel 3° incontro su Giov.4)
I discorsi
Un’altra caratteristica di Giovanni è la presenza di lunghi discorsi, che raccolgono le riflessioni della
comunità e del redattore. Ne abbiamo accennato con i discorsi incontrati in Giov.3 e in Giov.5 e ne
riparleremo più avanti a proposito del discorso del cap.6°.
Tre procedimenti tipici di Giovanni sono poi il fraintendimento, il doppio senso e l’ironia.
Il fraintendimento
Esso consiste nell’uso sistematico dell’incomprensione come mezzo per far procedere l’insegnamento, così da far superare il modo di vedere umano e da far accettare la RIVELAZIONE di Gesù. La
sua persona, infatti, con le sue parole e le sue opere, resta enigmatica e spesso i suoi interlocutori
cadono nel malinteso: i Giudei, ad esempio, non capiscono di quale tempio Gesù stia parlando (cfr.
Giov.2,19-21); Nicodemo non comprende come si possa nascere da vecchi (Giov.3,3-5); la Samaritana
pensa a un altro tipo di acqua (Giov,4,10-15) e i discepoli a un altro tipo di cibo (Giov.4,31-34).
Soprattutto i Giudei sono vittime del fraintendimento, a causa della loro colpevole incredulità, per
cui sono il simbolo della condizione umana universale chiusa e incapace di arrivare a Dio, se non
accoglie il dono della verità, cioè della RIVELAZIONE.
Il doppio senso
Il suo impiego suggerisce un umile accostamento al mistero: le parole umane non sono in grado di
esprimere tutto il significato dell’evento; la stessa parola può fornire più significati e una singola
scelta impoverisce il messaggio; per cui il lettore saggio deve riuscire a comprendere in questi elementi simbolici la molteplicità dei significati e a tenerli insieme in una densa e profonda comprensione. Ad esempio nel dialogo con Nicodemo (Giov.3) l’avverbio greco “anothèn” può avere due
significati: “dall’alto” e “di nuovo”; il fariseo capisce che bisogna nascere “di nuovo”, mentre Gesù
voleva dire “dall’alto”; eppure i due significati non si oppongono, ma devono integrarsi, per rivelare
il mistero della nuova nascita per opera divina.
L’ironia
E’ forse il procedimento più emblematico del racconto giovanneo. Dal greco “eironèia”
(=dissimulazione, finzione), l’ironia è un procedimento retorico-letterario che consiste nell’affermare una cosa, ma facendo chiaramente capire che si vuole sottintendere, e quindi significare, il contrario di essa. Ad es. “Ma che bella giornata!” e piove a dirotto! oppure”Che uomo leale sei!” e si
intende il contrario.
Giovanni lo usa per mostrare come spesso e volentieri gli uomini credono di fare qualcosa, di andare
in una certa direzione, mentre, in realtà – senza rendersene conto – essi fanno esattamente il contrario; cioè il loro agire porta in direzione opposta a quella desiderata, e così finiscono per favorire
quello che credevano di distruggere o diminuire.
L’ironia giovannea è in un certo senso una sorta di velata e bonaria “presa in giro” degli uomini da
parte di Dio, come se dicesse: “Ecco, voi uomini credete, presuntuosi ignorantelli, di fare qualcosa
da voi diretta e guidata; in realtà è ben altro, se non esattamente il contrario!”
Riprendiamo, da questo punto di vista, tre passi dei primi capitoli di Giovanni, mentre altri li incontreremo nelle prossime lezioni.
- Giov.1,50: “Gesù dice a Natanaele: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose ben
maggiori di queste!»” Cioè: tu credi di essere al colmo della fede, ma in realtà sei solo
all’inizio!
- Giov.4,11: “Gli dice la donna [Samaritana]: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove
prendi dunque quest’acqua viva?»” La donna non ne è consapevole, ma qui è Gesù stesso
che esplicita e presenta l’altro significato dell’acqua assolutamente insospettabile per la
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Samaritana: “L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la
vita eterna” (Giov.6,14); e alla fine scopriremo che si tratterà dell’acqua effusa dal costato
stesso di Cristo (cfr. Giov.19,34)
- Giov.4,12: [dice la Samaritana]. “Sei tu più grande del nostro padre Giacobbe, che ci ha dato il pozzo?”
“Impossibile!” sembra sottintendere, ma il lettore sa che Gesù è molto, ma molto più
grande di Giacobbe!
Questo procedimento dell’ironia coinvolge ogni lettore del 4° vangelo, per fargli capire che deve
superare un’arrogante e presuntuosa lettura superficiale del testo, mirare al suo senso profondo e
lasciarsi coinvolgere in un serio approfondimento della fede. Ovviamente ciascuno di noi deve sentirsi interpellato in tal senso, ogni volta che accosta la Parola di Dio!
Conclusione
Siccome “lo stile è l’uomo” (G.L.Buffon), dobbiamo ammettere che dietro allo stile giovanneo così
unitario e singolare ci deve essere stata una personalità spiccatissima, che ha dato la sua impronta
personale e contemplativa a ciò che aveva sentito e visto di Gesù. Nella semplicità del suo linguaggio è nascosta una profondità di vita e di pensiero che non deve sfuggirci.
2- TRANSIZIONE DALL’EPISODIO
DELLA MOLTIPLICAZIONE
AL DISCORSO SUL PANE (Giov. 6,22-25)
Il giorno dopo, la folla, rimasta dall’altra parte del mare, vide che c’era
soltanto una barca e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla
barca, ma i suoi discepoli erano partiti da soli. 23Altre barche erano giunte
da Tiberìade, vicino al luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il
Signore aveva reso grazie. 24Quando dunque la folla vide che Gesù non
era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla
volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. 25Lo trovarono di là dal mare e gli
dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”.
22
Come si vede, l’episodio della moltiplicazione dei pani ha fatto scalpore, tanto che la gente giunge
da ogni dove e vuole a tutti i costi trovare Gesù.
3- IL DISCORSO EUCARISTICO
NELLA SINAGOGA DI CAFARNAO (Giov. 6, 26-58)
Questo lungo discorso, che – come sempre in Giovanni – spiega un “segno” (la moltiplicazione dei
pani) si può dividere chiaramente in tre parti:
a) un’introduzione (vv.26-29)
b) la prima parte (vv.30-47)
c) la seconda parte (vv.48-58)
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A) Introduzione (Giov. 6,26-29)
Gesù rispose loro: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non
perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi
siete saziati. 27Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo
che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di
lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. 28Gli dissero allora: “Che cosa
dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. 29Gesù rispose loro: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”
26
Si è detto nel 2° incontro che la Parola è indispensabile per interpretare correttamente il “segno” e
anche qui Gesù lo ribadisce, come abbiamo visto al v.26: la folla cerca Gesù per avere vantaggi materiali, mentre Gesù la esorta a cercare il “cibo che rimane per la vita eterna” e a “credere in Lui, che Dio ha
mandato”. In questa introduzione troviamo una sorta di riassunto-anticipo di tutto il discorso che
Gesù farà per spiegare il “segno” della moltiplicazione dei pani: Gesù è il vero dono di Dio, che si
contrappone alla manna del Primo Testamento. Abbiamo qui un altro dei discorsi di rivelazione,
tipici del 4° vangelo, che abbiamo presentato nelle linee fondamentali durante il 4° incontro.
B) Prima parte del discorso (Giov. 6,30-47)
Allora gli dissero: “Quale segno tu compi perché vediamo e crediamo?
Quale opera fai? 31I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto,
come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo”.32Rispose
loro Gesù: “In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il
pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero.
33
Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”.
34
Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”.
35
Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà
fame e chi crede in me non avrà sete, mai! 36Vi ho detto però che voi mi
avete visto, eppure non credete. 37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a
me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso
dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha
mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non
perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. 40Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio
e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.
41
Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto:
“Io sono il pane disceso dal cielo”. 42E dicevano: “Costui non è forse
Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?
Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?”.
43
Gesù rispose loro: “Non mormorate tra voi. 44Nessuno può venire a me,
se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo
giorno. 45Sta scritto nei profeti:”E tutti saranno istruiti da Dio.” Chiunque
ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46Non perché
qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre.
47
In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
30
*****
I Giudei chiedono un”segno”, che lo faccia riconoscere come il Messia atteso, il quale – come visto
nello scorso incontro – si sarebbe rivelato in una notte di Pasqua, dando di nuovo, come Mosè, la
manna dal cielo. Essi chiedono un segno, quando Gesù ne aveva appena compiuto uno e assai clamoroso!
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Così il Nazareno risponde loro che non Mosè, ma il Padre suo dà il pane, quello vero, dal cielo; e
subito dopo fa la grande RIVELAZIONE: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi
crede in me non avrà sete, mai! (v.35).
Il significato del versetto risulta ancora più chiaro dal confronto con due passi biblici ad esso collegati:
- Prov.9,5: [la Sapienza personificata dice] “Venite, mangiate il mio pane; bevete il vino che vi ho preparato”
- Sir.24,20: “Quanti si nutrono di me [la Sapienza, cioè la Legge e dunque: quanti mi meditano] avranno
ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete.
Se il primo dice sostanzialmente la stessa cosa di Gesù, il secondo mostra uno stadio antecedente,
perché si nota che ancora si avrà fame e sete; mentre Gesù dice chiaramente che chi viene a Lui non
avrà più fame né sete. Quindi Egli fa chiaramente vedere in sé la realizzazione della profezia di Isaia
49,10 “Non soffriranno né fame né sete, perché colui che ha pietà di loro li condurrà alle sorgenti di acqua”.
Questo dimostra che con Gesù i tempi sono compiuti, e il desiderio totalmente appagato, come è
avvenuto in maniera simbolica con i convitati che si sono saziati di pane.
Da che cosa si capisce che Gesù è l’ultima, definitiva Parola di Dio?
Anzitutto dal fatto che Egli – come visto sopra – realizza le profezie; in secondo luogo perché, anche
se il contesto è il dialogo con i Giudei, nel testo troviamo per ben 17 volte non un pronome personale
– “voi” o “tu” – bensì l’impersonale “chi”, “colui che” etc., il che significa “tutti coloro che….: è
ancora una sottolineatura della dimensione universale della salvezza, che troviamo pure nel v.39:
“Volontà del Padre è che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato”.
Questa prima parte del discorso è sua volta divisa in altre due sezioni dall’obiezione dei Giudei ai
v.41-42: come può dire queste cose costui, che ben conosciamo?
Così tra di loro i Giudei “mormoravano”….cioè essi non affrontano direttamente Gesù, ma protestano
tra di loro.
Il verbo “mormorare” è lo stesso usato nel Primo Testamento per dire la protesta del popolo contro
Jahvè. Giovanni lo usa di proposito perché rifiutare di credere in Gesù – inviato dal Padre e teso a
compiere la Sua volontà - è lo stesso che rifiutare di aderire al disegno di Dio.
Dunque ci troviamo ancora dinanzi a una mancanza di fede. Per i Giudei Gesù è semplicemente il
figlio di Giuseppe, un uomo come un altro. E’ lo scandalo che nasce dal contrasto tra la pretesa di
Gesù da una parte e la sua realtà storica e umana dall’altra. I Giudei non sanno vedere la “gloria
dell’Unigenito” nella “carne” dell’uomo Gesù, rifiutano una presenza divina che assume i tratti non
dello splendore e della potenza, ma della storia comune, non riconoscono la divinità sotto apparenze tanto umili. La loro è l’ottica puramente umana che Giovanni chiama “carne” (es. Giov.8,15: Voi
giudicate secondo la carne”).
Di fronte alle mormorazioni dei Giudei, Gesù non discute, ma afferma. Il dialogo c’è stato e anche la
pazienza di Dio, ma ora – arrivati al punto – c’è spazio soltanto per il sì o per il no (cfr. quanto detto
nella 4° lezione sui discorsi di rivelazione in Giovanni).
Così Gesù ribadisce – ancora più drasticamente – la sua pretesa. Non si sottrae allo scandalo, né lo
attenua. Egli ripete quanto ha detto nella prima sezione, rafforzandolo con un “Amen amen”(=in
verità, in verità…): “chi crede in me ha la vita eterna” (Giov.6,47).
C) Seconda parte del discorso (Giov. 6,48-58)
Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel
deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi
ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno
mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne
per la vita del mondo”.
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Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può
costui darci la sua carne da mangiare?”. 53Gesù disse loro: “In verità, in
verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non
bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne
e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
55
Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come
il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche
colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo;
non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo
pane vivrà in eterno”.
52
*****
Notiamo come Gesù ripeta con insistenza quanto affermato nella 1° parte: 48"Io sono il pane della
vita……il pane vivo disceso dal cielo….che dà la vita eterna” e specifica ulteriormente “e il pane che io darò
è la mia carne per la vita del mondo”, suscitando così un’altra aspra discussione tra i Giudei:“Come può
costui darci la sua carne da mangiare?” E Gesù di rincalzo: 54"Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue
ha la vita eterna… rimane in me… vivrà per me… vivrà in eterno.”
Il linguaggio di Gesù è crudamente realistico: mangiare la carne, bere il sangue….Viene da chiedersi
se il Messia non potesse usare espressioni più attenuate, più…. soft!
E invece varie ragioni ci fanno capire l’importanza e l’insostituibilità proprio di tali espressioni.
1°- Anzitutto è assolutamente evidente il riferimento al sacramento dell’Eucarestia; se ne deduce
che questa seconda parte del discorso è certamente successiva alla prima: essa presuppone l’esperienza da tempo acquisita della celebrazione dell’Eucarestia, da parte della comunità del redattore.
Se nell’episodio della moltiplicazione avevamo notato la stessa successione di verbi (prese i pani
– benedisse – diede) della formula eucaristica, nel discorso troviamo la corrispondenza tra “chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (v.54) e la formula dell’istituzione
dell’Eucarestia sia nella versione, più antica, di Paolo (“questo è il mio corpo per voi” – 1° Cor.11,23)
che in quella di Luca (“questo è il mio corpo dato per voi” – Luca 22,19)
All’Eucarestia Giovanni dedica tutto il cap.6°: è da notare che un così ampio discorso su tale
sacramento non si verifica in nessun altro testo del Nuovo Testamento! Come si è detto nell’incontro precedente, l’evangelista considera il “miracolo-segno” della moltiplicazione dei pani e il
successivo discorso un po’ come già una sorta di “trattato eucaristico”, offrendoci così una basilare fonte di riflessione teologica sull’Eucarestia.
2° - In secondo luogo è fondamentale la presenza del termine “carne” (in greco “sarx”); è lo stesso
termine usato nel Prologo (Giov.1,14: “ E il Verbo si fece carne”) cui evidentemente siamo rimandati.
E’ infatti richiamato il grande mistero dell’INCARNAZIONE su cui tanto insiste il 4° vangelo.
Nella prima parte del discorso c’era “il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al
mondo”(v.33): “chi discende dal cielo” esprime l’incarnazione del Verbo e “dà la vita al mondo”
dice l’effetto dell’incarnazione, cioè dare al mondo la vita che non muore mai, la salvezza universale.
Gesù, nella seconda parte, ribadisce il concetto: “il pane che io darò è la mia carne per la vita del
mondo”. (v.51); da notare il verbo al futuro “io darò”, in cui si esprime il dono volontario della
propria vita da parte di Gesù.
L’espressione cruda di Gesù, come abbiamo visto, ha di nuovo suscitato le mormorazioni-discussioni dei Giudei, i quali si rifiutano di dipendere radicalmente, per avere la vita eterna, da
questo Gesù che sta parlando con loro; è una dipendenza intollerabile, anzi sacrilega, per chi
non riconosce altro Salvatore che Dio.
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Sullo sfondo si avverte il contrasto, vivissimo negli anni 90-100 (quando ci fu la redazione definitiva del 4° vangelo), tra la sinagoga e la comunità cristiana primitiva, circa l’accettazione o
meno di Gesù come Figlio di Dio e Salvatore.
Soffermiamoci ora sul termine “sarx”, che corrisponde all’ebraico “basar”: è un vocabolo semitico che indica non tanto la carne, in senso materiale, come intendiamo noi, ma l’umanità, la
persona; nel linguaggio biblico l’espressione “carne e sangue”designa la persona umana nella sua
realtà storica, l’uomo totale nella sua manifestazione concreta. Quindi l’espressione “mangiare
la carne”, lungi dal far pensare all’antropofagia, indica piuttosto l’entrare in comunione totale
con il Salvatore; “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” – dice ancora
Gesù al v.56, sottolineando l’immanenza reciproca; e d’altra parte il realismo dell’Eucarestia sta
nel mangiare fisicamente quel pane che il più grande miracolo di Gesù trasforma nel Suo corpo.
3° - L’insistenza di Gesù e la durezza del discorso si spiegano anche tenendo presente il clima storico del tempo. Uno dei primi Padri della Chiesa, S.Ignazio di Antiochia (70-130 d. Cr.), che opera
nelle stesse comunità di Giovanni (in Asia Minore: Smirne, Efeso, etc.) ci testimonia che in quegli anni due grossi ostacoli si opponevano alla fede in Cristo (ne parla anche la 1° lettera di
Giovanni al cap.4°): - si negava l’incarnazione del Figlio
- si negava che l’Eucarestia fosse la carne del Figlio
Così, nel ribadire chiaramente la verità, Giovanni preferisce usare il termine “sarx”, invece del più
tenue “soma”=corpo, usato da Paolo e Luca nelle frasi sopra riportate, e, come ben sappiamo, insiste sulla realtà dell’incarnazione, come antidoto alle eresie allora serpeggianti nella comunità.
4- LA REAZIONE DEI DISCEPOLI (Giov. 6,59-79)
Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60Molti
dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura!
Chi può ascoltarla?”. 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli
mormoravano riguardo a questo, disse loro: “Questo vi scandalizza? 62 E
se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63 È lo Spirito che dà
la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito
e sono vita. 64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono”. Gesù infatti
sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui
che lo avrebbe tradito. 65E diceva: “Per questo vi ho detto che nessuno
può venire a me, se non gli è concesso dal Padre”.
66
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67Disse allora Gesù ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”. 68Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai
parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il
Santo di Dio”. 70Gesù riprese: “Non sono forse io che ho scelto voi, i
Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”. 71Parlava di Giuda, figlio di Simone
Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici.
59
*****
Nell’ultima parte del 6° capitolo troviamo qualcosa che ci sconcerta: non solo i Giudei, ma molti dei
discepoli di Gesù trovano dura la sua parola; anche loro “mormorano”!
Il discorso “duro” si riferisce senz’altro all’Eucarestia, ma anche a tutto il contenuto del cap.6: l’offerta di una salvezza che supera le attese dell’uomo (“Chi mangia questo pane vivrà in eterno”- v.58, l’origine divina di Gesù (“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo” – v.51), la necessità di condividere la Sua
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esistenza (“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” – v.56), l’accoglienza della
sua rivelazione (“Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me.” – v.45)
Gesù replica “Questo vi scandalizza?” (v.61) Il verbo viene dal termine greco “skàndalon”, che significa
“inciampo, ostacolo”; e allora il significato del verbo è: tutto questo è di ostacolo, di impedimento
alla vostra fede? D’altra parte Gesù non può ridurre o modificare il suo messaggio per non contravvenire alla volontà del Padre di cui è il Rivelatore. Toccherà all’uomo lasciarsi muovere dal Padre e
dallo Spirito per potersi inserire nella logica del piano divino.
“
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.” (Giov.6,66)
Da M. Orsatti, Giovanni, il vangelo “ad alta definizione”, pagg.96-98:
“A questo punto molti si ritirano. Gli studiosi la chiamano “crisi galilaica”, perché si verifica appunto in Galilea, e ha come conseguenza l’abbandono di Gesù da parte di molti.
L’ultima domanda dei discepoli (“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” – Giov.6,60) ha sancito lo
stacco dei più da Gesù, che vivrà la Pasqua con pochi, gli intimi, disposti a seguirlo anche là dove la
ragione si rifiuta istintivamente di andare.
*****
Alla defezione dei discepoli viene ora contrapposta l’adesione dei Dodici, eccezion fatta per uno. Il
brano costituito dai vv.67-71 conclude il cap.6 e, più particolarmente, il discorso del pane di vita. E’
costruito in due movimenti: da una parte la confessione di Pietro e dall’altra la consapevolezza di
Gesù del tradimento di Giuda.
Questa volta è Gesù che pone una domanda, dopo che la maggior parte dei discepoli si era ritirata.
Sono i Dodici ad essere interrogati: “Volete andarvene anche voi?” (v.67). La domanda, provocatoria e
senza mezze misure, ricorda ancora una volta l’improponibilità di una strada diversa da quella
seguita da Gesù. Non si può cambiare direzione, si può invece abbandonare o scegliere compagni di
viaggio meno esigenti.
Il motivo principale della defezione del gruppo precedente era stata l’incomprensione delle parole
di Gesù, era stata la pretesa di capire il mistero della sua persona. Per seguire Gesù, l’uomo vuole
capire e con questa pretesa si chiude all’azione trascendente di Dio; di conseguenza si isola e finisce
per staccarsi da Lui. Ma lontano da Lui è notte, sono tenebre.
La risposta di Pietro evita l’ostacolo, riconoscendo alla parola di Gesù un valore eterno e alla sua
persona un’origine divina: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e
conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (vv.68-69).
Il commento di Gesù a una professione di fede tanto elevata è amaro, anche se terribilmente vero.
Non tutti i Dodici si rispecchiano nelle parole di Pietro, perché uno, Giuda, tradirà il Maestro. Anche
l’appartenenza al gruppo dei Dodici, degli intimi, non immunizza contro il dubbio, la tentazione, la
prova e il cedimento. E’ importante saper rispondere come Pietro, esprimendo un’adesione personale a Cristo, un amore indiscusso a Lui, fatto di incondizionata fiducia, prima ancora che di logica
comprensione.”
5- I SACRAMENTI NEL VANGELO DI GIOVANNI
Come sappiamo, i SACRAMENTI sono segni efficaci della grazia istituiti dallo stesso Signore Gesù,
come ci testimoniano gli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto le Lettere di S.Paolo e il 4° vangelo.
Tali scritti dicono chiaramente, almeno per il Battesimo e l’Eucarestia, che in questi riti il credente
riceve la salvezza portata da Cristo, cioè la remissione dei peccati, la nuova nascita e la vita eterna. In
seguito la suddetta riflessione è stata approfondita ed estesa agli altri riti analoghi, detti appunto
“Sacramenti.”
64 — IL VANGELO DI GIOVANNI
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Per quanto riguarda Giovanni, c’è stato un periodo in cui, per influsso del teologo protestante R.
Bultmann (1884-1976, uno dei maggiori commentatori del 4° vangelo), si sosteneva che nel testo del
90-100 d. Cr. non c’era alcun riferimento ai Sacramenti. I protestanti infatti attribuiscono i riferimenti
ad essi a un redattore ecclesiastico successivo, che li avrebbe aggiunti per rendere la parola originaria del vangelo più conforme alle modalità di fede della Chiesa primitiva.
Secondo Bultmann tali riferimenti ai sacramenti sarebbero addirittura in contrasto con la TEOLOGIA di Giovanni, tutta imperniata sulla Parola e la risposta di fede.
Di conseguenza i protestanti non riconoscono la dignità del sacramento se non a quei riti di cui si
poteva provare con certezza l’istituzione ad opera di Cristo, e cioè il Battesimo e l’Eucarestia o –
come essi preferiscono chiamarla – “Cena”.
Inoltre i calvinisti riducevano il riferimento all’acqua di Giov.3,5 (“In verità, in verità io ti dico, se uno
non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio.”) a pura metafora; di conseguenza il
Battesimo è solo simbolo della promessa di Dio, efficace solo se c’è la fede nel credente.
Dal Concilio di Trento in poi ci sono stati vari pronunciamenti della Chiesa cattolica sui Sacramenti
e l’interpretazione non metaforica dei riferimenti ad essi nella Scrittura.
In sostanza si considerano i Sacramenti in un quadro di “storia della salvezza”: la Chiesa porta la
salvezza nel tempo mediante i Sacramenti, che però non sono gesti “magici”, ma “segni” efficaci
della grazia solo in rapporto alla fede di chi li riceve.
Così l’esegesi successiva a Bultmann, specie con O. Cullman (1902-1999), ha ridato importanza all’aspetto sacramentale in Giovanni. Anzi si nota nel 4° vangelo una insistenza maggiore su di essi
rispetto ai sinottici. Perché?
Ciò è dovuto a una maggior presa di coscienza dell’esperienza sacramentale nel periodo intercorso
tra i tre vangeli paralleli e l’ultimo, esperienza che risponde a un preciso interrogativo.
Gesù dice ripetutamente nel cap.6 di Giovanni: “Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque
vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (v.40). Ora, viene spontaneo chiedersi: se questa affermazione ha valore universale, com’è possibile per i credenti che non sono vissuti nel suo tempo
incontrarLo, vederLo, e di conseguenza credere in Lui e avere la vita eterna? Dove possiamo
incontrarLo, dopo la Sua ascensione al cielo? La risposta a questa domanda è: proprio nel Sacramento noi possiamo ancora incontrare il Signore, non si può certo dire “in carne e ossa”, ma certamente
nella Sua reale presenza.
Nel 4° vangelo troviamo tre chiari riferimenti a tre Sacramenti:
1° - Giov. 3,5: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di
Dio.” E’ un evidente riferimento al Battesimo. Nel versetto riportato Gesù parla a Nicodemo di una
rinascita dall’acqua, che compie in noi l’opera della rigenerazione. Così come è detta, questa parola
è del tutto misteriosa. Ma se rileggiamo tutto il discorso a Nicodemo (Giov.3,1-21), pensando che si
tratta di una catechesi battesimale, allora abbiamo la chiave interpretativa: si parla qui di una rinascita dall’acqua, nella comunità, la quale manifesta la presenza di Dio relativa a quella trasformazione che Gesù annuncia a Nicodemo.
2° - Giov. 6 – Tutto questo capitolo ci parla di un misterioso mangiare il pane, che è un nutrirsi di
Cristo, accogliendo in noi la sua potenza. Tale capitolo è una sorta di grande catechesi eucaristica,
che si riferisce ai gesti sacramentali compiuti nella comunità in cui si accoglie Cristo, con quanto ne
consegue: “Chi mangia questo pane vivrà in eterno” dice e ripete Gesù (v.51 e v.58). Nell’Eucarestia c’è la
Presenza reale del Signore.
3° - Giov. 20,23: “A chi [voi apostoli] rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno
non rimessi”. E’ il fondamento biblico del Sacramento della Riconciliazione.
Nei Sacramenti infatti continua l’opera salvifica di Gesù, quella che Egli ha compiuto dicendo al
paralitico: “Ti sono perdonati i peccati” (Marco 2,5) e nei confronti nella Samaritana, quando ha rovesciato la sua situazione umana portandola dalle tenebre alla luce.
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IL VANGELO DI GIOVANNI —
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Osserva il card. Martini in “Il vangelo secondo Giovanni”, Borla, pag.92:
“La vita di Cristo è presente nella comunità attraverso il dispiegarsi molteplice dell’economia sacramentale. Ciò che è avvenuto al paralitico, al cieco nato, all’adultera, avviene ora nel contatto col
segno sacramentale. Questa è quindi una delle forme privilegiate della presenza salvatrice del Verbo incarnato fra noi. Ma c’è ancora di più. Se leggiamo l’episodio della crocefissione di Gesù, vi si
parla dell’acqua e del sangue che escono dal suo costato ferito (vedi Giov.19,34). L’acqua e il sangue
rappresentano quei segni sacramentali che sono l’essere rigenerati dall’acqua battesimale e il bere il
sangue eucaristico di Cristo: sono la presenza fra noi del Dio per noi, del Cristo che dà per noi la sua
vita. Perciò non abbiamo fra noi soltanto il Cristo che perdona l’adultera, che guarisce il paralitico e
il cieco nato, bensì il Gesù che muore per noi e ci dà la sua vita e la sua morte, nei sacramenti.
Troviamo pure una cornice redazionale che insiste sul valore del teste: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera” (Giov.19,35)”
Il testimone Giovanni vuole dunque dirci in che modo ciascuno di noi può diventare partecipe degli
eventi di Cristo. Nei Sacramenti la comunità giovannea e ogni comunità successiva nel corso dei
secoli può incontrare Gesù, presente non più fisicamente nella storia, ma spiritualmente nei Sacramenti e in ogni credente.
DOMANDE PER AIUTARE L’ATTUAZIONE
DELLA PAROLA DI DIO NELLA NOSTRA VITA
(cfr.M. Orsatti, Giovanni, Un vangelo ad alta definizione)
MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DISCORSO EUCARISTICO (Giov. 6)
- Per credere, ho bisogno di molti segni, ho bisogno dei miracoli? Penso che la
presenza di miracoli farebbe aumentare la fede della gente? E la mia? Che cosa
aumenta veramente la fede? Che cosa ho imparato dal cap.6 di Giovanni?
- Quando e perché ricerco Gesù? Solo nel momento del bisogno e di un immeditato
tornaconto?
Oppure la mia ricerca dimostra di essere matura perché vado a Lui anche quando
“tutto va bene?”
- Esiste solo il problema del pane quotidiano, oppure ricerco e mi sforzo di accedere anche al pane eucaristico? La celebrazione eucaristica mi inserisce nel dinamismo di vita e di amore che porta a Dio e ai fratelli? Oppure si risolve in qualcosa
che non cambia la vita? Come ho vissuto la Messa domenica scorsa? In che cosa
la mia vita è stata arricchita? Gli altri hanno avuto occasione di accorgersene?
- Mi impegno a leggere la realtà che mi circonda e la mia vita a livello profondo? Mi
riservo spazi di silenzio che mi permettono di pensare in proprio, leggendo e
interpretando realtà e situazioni? Quanto il “sentito dire” mi coinvolge e mi condiziona? Il cap.6 distingue tra la folla e il gruppo dei Dodici: io da che parte sto?
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