Il seme della bolla d`oro

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Il seme della bolla d'oro
di Nello Filippetti
Nell’ampolla del cielo, dentro bolle di luce, abitavano i semi dei bimbi, chicchi di luce
senza pupille, grumi d’armonia senza memoria né udito. Nel grembo del Cervello di Cristallo
ancorato nel centro del cielo abitavano gli occhi e la memoria dei bimbi, l’udito della vita.
Dal Cervello di Cristallo si staccavano ottici aghi blu, elitre di memoria e d’udito, entravano nelle bolle di luce, e i semi dei bimbi fiorivano dentro il cielo. Tintinnando.
E polvere di latte per i bimbi fioriti nell’aria era il pulviscolo delle stelle.
Così nascevano i bimbi (dove ho scritto e il latte era quello che ho detto) da quando era no diventati sassi i passi del babbo e della mamma e dei nonni non restavano che la pipa e il
fuso in disuso. Da quando sulla terra s’era smesso di credere che la vita fosse aspettare le
rondini, le ciliege, la neve, e che l’amore fosse un fiore, un ramoscello di liquirizia, il cuore
del dormiolo d’oro, il nido del cardellino, il pane, il fiocchettino di lardo, e nessuno più riuscì
a udire crescere l’erba, camminare il tempo.
Non però questo era vero sopra tutta la terra perché dentro la Casa che abitava sul Pettine del Vento, nella Coda del Bosco, vivevano ancora il babbo e la mamma e sognavano un
bimbo che fosse bello, buono, e pure cattivo, che avesse le mani del babbo e gli occhi della
mamma, e di entrambi la memoria della Casa dove abitavano la tosse del nonno e la voce
della nonna e dove d’inverno veniva a vivere il Cuore del Bosco portandosi dietro la volpe
con i suoi pupilli aguzzi come spilli mentre fuori (diceva la nonna) farina per il sorbellino pallucchino era il bianco della neve.
Ma nella Casa non c’era rimasto nulla, una crosta, un chicco di grano che fosse il seme
d’un sogno, nemmeno la nostalgia del pane. Non c’era che il Cuore dell’Inverno, che la Memoria del Bimbo.
Allora la mamma disse che bisognava mangiarsi il Cuore dell’ Inverno.
“No,” disse la Memoria del Bimbo. “Il Cuore dell’Inverno è il seme della primavera.” Disse:
“L’ha detto il nonno.”
E la mamma sentì stormire la primavera e udì le api quando la Memoria del Bimbo si
staccò dal babbo e camminò dentro di lei.
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“Midolla d’amore, brusio delle mie ossa,” disse il babbo alla mamma. “Non le senti le api?”
E le api erano i polpastrelli delle mani del babbo.
“Si,” rispose al babbo la mamma. “Sussurro del mio cuore.” E la mamma era il miele del
babbo.
E dal miele della mamma usci la bolla d’oro e dentro la bolla d’oro il babbo mise il seme
del bimbo e dentro il seme del bimbo mise la zolletta della memoria della vita del babbo e
della mamma che tenendosi per mano entrarono dentro la fotografia che stava sul comò,
parlandosi, di loro, del dolce tempo della vita assieme sopra la terra.
E la bolla d’oro cadde dentro il cielo, tra le infinite bolle di luce che nuotavano dentro l’aria. E dalle bolle di luce uscivano tintinnando i bimbi e gocce di latte per loro erano le stelle.
Ma il bimbo della bolla d’oro non nasceva mai, non riusciva a uscire perché aveva paura
di precipitare nell’infinito che attorno a lui era senza pareti, senza udito, e non finiva mai, e
di morire di fame senza il latte della mamma. Perché nella zolletta della sua memoria le stelle
erano gli occhi della mamma e che l’infinito era liquido e rotondo c’era scritto, che di sussurri e colori una sfera era.
Chiuso dentro la bolla d’oro il bimbo non era nessuno, non riusciva a nascere, e per questo piangeva. Ma ecco che il pianto del bimbo senza struttura bagnò la zolletta della memoria
che si mosse, germogliò, e il bimbo iniziò a vedere, a udire, a ricordare. A nascere. E la zolletta della memoria crebbe, si mangiò il Cervello di Cristallo, e divenne il centro del cielo, il
cuore della terra.
“E il seme diventò un filo d’erba, un albero, il bosco,” diceva la nonna al bimbo perché imparasse a sognare, perché non credesse mai che la vita fosse più grande del seme d’un sogno.
“Diventò quello che vuoi tu.”
E il bimbo entrò nel Cuore del Bosco per andare a scoprire gl’ingressi segreti delle galle rie che conducevano alle favolose città degli gnomi illuminate dai diamanti e lastricate di rubini e smeraldi, per seguire le labirintiche orme del porcodente signore delle ghiande e rintracciarne la casa che si narrava (narrava la nonna) fosse fatta di sughero e avorio e si trovasse sotto l’introvabile quercia dalle ghiande d’oro, per cercare la strada delle formiche del miele che portava alla misteriosa dimora del pallucchino sorbellino che si diceva desse il dono
dell’eterna infanzia al bimbo che l’avesse sorpreso nel sonno, per inseguire nell’aria i meravi-
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gliosi fiori volanti, per arrampicarsi sugli alberi, per andare a vedere lassù, dentro i nidi, i semi
del vento, i germogli del cielo, per trovare l’alberello della nonna che era un sogno che cam minava e faceva la popò.
“E il bimbo prese l’alberello per mano e lo portò a far la popò,” diceva la nonna al bimbo
che non sapeva che l’alberello era un bimbo. “Perché il babbo e la mamma erano il sole e la
pioggia e non potevano portarcelo.”
E il bimbo dormiva nel Torlo della Casa dove d’inverno veniva a vivere il Cuore del Bosco portandosi dietro la volpe con i suoi pupilli secchi come spilli. E quando la coda del vento sbatteva sui vetri della finestra perché anche il vento voleva venire ad abitare dov’era venuto a vivere il Cuore dell’inverno, la nonna al bimbo che sognava i ladri, si svegliava, gli diceva di dormire, che non era niente, perché erano i pettirossi che volevano entrare avendo
sentito dire che lì dentro c’era un bimbo che faceva il signore che di giorno sprecava le briciole del pane e di notte le briciole del sonno.
“Diceva la volpe ai suoi pupilli
quando sarete a polli e quando a grilli,” diceva la nonna sognando per il bimbo strutto e midolla, la madia in fiore che il nonno aveva fatto con l’albero della farina perché il cuore del
pane non morisse mai.
E: nel sonno: udiva il bimbo tintinnare le mani della nonna che gli rimboccava le coperte
cardandole (e corde d’arpa erano le rughe del tempo) col tremore degli anni, della sua voce, e
russare udiva gli gnomi nella barba del nonno che al bimbo che dormiva gli guardava il sonno, vegliando, fumando, caricandosi la pipa con i tarli della porta perché così imparavano a
non rodere il sonno del bimbo che della nonna era il bozzolo, il suo stronzetto d’oro, e del
nonno la prolunga della sua vita era, la risonanza della sua prodigiosa lontananza.
Il nonno era enorme, secolare, e con le sue grandi ossa sosteneva la Casa che era vecchia
e aveva la bronchite. E diceva che non si sbagliava, che il bimbo era tutto lui, il suo sputo. E
che un giorno gli avrebbe lasciato la pipa al bimbo, diceva.
Ma la nonna non voleva che il nonno dicesse quello perché il bimbo era ancora un bisbi glio e aveva paura della pipa del nonno che era impressionante, nera come un turco, e faceva
spavento quando s’inceppava e al nonno gli pigliava quella tosse che faceva tremare la casa,
che scoperchiava il tetto.
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Ma la nonna non sapeva quello che diceva, diceva il nonno, perché il bimbo era già un
uomo e poteva fumare la pipa quando voleva e quanto gli piaceva. E il bimbo era affascinato
dalla pipa del nonno perché non si sapeva da dove veniva, perché una volta il nonno giurava
che l’aveva fabbricata lui con il cranio d’un drago puntualmente ammazzato dal nonno con
una mano sola, mentre un’altra volta giurava che gliel’avevano scavata gli gnomi-giganti (una
razza di gnomi conosciuta dal nonno) dalle radiche della terra lavorandoci sopra per millenni.
Però quella volta che il nonno disse che la pipa era il cuore dell’inverno, al bimbo tremò
il suo cuore. Credette che il nonno avesse ammazzato l’inverno, e al bimbo tremò il pianto
negli occhi.
Allora il nonno acchiappò su il bimbo, lo straziò dentro quella sua infernale barba tarlata
brulicante di gnomi, e se lo ingoiò avvolgendolo in una boccata di fumo denso e nero come
la pece: ma celeste nella caverna dei suoi bronchi dove grugniva la sua tenerezza, dove ruminava il suo rudimentale amore per il bimbo che era il suo sputo. E il bimbo s’arrampicò sulle
rughe del nonno facendogli il solletico perché lì affiorava l’anima del nonno tenera come un
neonato quando si trattava del bimbo. E la nonna sorrideva con quel suo bellissimo dente da
strega che spuntava fuori giallo come un chicco di granturco, come la pepita d’oro che il
bimbo credeva che fosse.
E il bimbo abitava ancora nella midolla del sonno quando un topolino mormorino in un
orecchio gli camminò.
Era la prima erba di primavera che era entrata da sotto la porta, da dove erano usciti il
Cuore del Bosco e il Cuore dell’Inverno portandosi via la volpe con i suoi pupilli aguzzi
come spilli. E il bimbo senti l’erba parlare e camminare.
“Sono l’erba,” gli disse l’erba. “E mi manda il sole.” E al bimbo gli si sciolse il sonno.
Dalle lunghe ossa della nonna (il nonno diceva che la nonna era un cardellino, e vacci a
capire, vallo un po' a capire come ragionava il nonno!) usci l’estate.
Altissima quantunque seduta, diritta, vestita di nero, con il gatto sulle ginocchia, cieca, le
ossa fiorite d’api, stava sotto il fico la grande vecchia magica e bellissima e filava il tempo antico sulla sua tremolante voce lontanissima, sul suo dente superstite.
Se non fosse stato per il bimbo che sgranava la sua memoria, che sbranava il suo cuore in
sussurri, non si sarebbe detto che lei fosse viva, che lei parlasse. Se non fosse stato per le lun-
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ghe ossa di lei che sotto il fico brusivano al fresco della sera.
Nel remotissimo tempo procedevano le tremolanti parole che la grande vecchia magica e
bellissima guidava sul suo traballante dente superstite.
Sulle profonde rughe delle sue corde vocali scendeva la grande vecchia magica e bellissi ma, inumidendole, rifiatandoci sopra, per non sgretolarne il suono, per non rompere il filo di
seta della sua memoria.
“E il pane era un chicco di grano e il chicco di grano era un fiocco di neve e il fiocco di neve
era la midolla del pane,” diceva: e sempre quello filava, sempre quello narrava: la grande vecchia magica e bellissima.
E sempre quello voleva sentire il bimbo perché non gli bastava mai e seguitava a scavare
il miele nelle lunghe ossa della grande vecchia magica e bellissima, a scalzare il traballante
dente superstite che della grande Casa sul Pettine del Vento era il punto d’ appoggio e della
grande vecchia magica e bellissima l’equilibrio delle sue tremolanti parole, il bozzolo d’oro
del filo di seta della sua memoria.
E quando il filo di seta si spezzò, dalla grande vecchia magica e bellissima si staccò la figura della mamma, e la figura della mamma entrò dentro la Casa dov’era fiorito il fuso della
nonna che il nonno aveva estratto dall’anima del melo per lei che fu la somarella del suo cuo re. E dentro la Casa c’era il babbo che fumava la pipa del nonno sognando di lasciarla al
bimbo.
“Sarà un fiore,” disse la mamma. “Una stella.”
“No,” rispose il babbo che sognava anche lui che fosse un fiore, una stella, ma che non poteva permetterselo. “Sarà uguale al nonno.” E aveva ragione il babbo.
Dal Torlo della Casa uscì il bimbo.
E il bimbo vide gli alberi dentro la bolla d’oro e la lunga acqua semovente entrare nella
grande acqua rotonda, e vide colori e suoni che non credeva mai si potessero toccare, e vide
gocce di luce con le ali, semi alati, e l’uccello-vascello attraversare il cielo vide, e i fiori volanti
vide che erano le farfalle, le palpebre dell’aria, e i raggi del sole fioriti d’api vide, e la pioggia
udì, l’erba, che avevano gli occhi e camminavano. E il colibrì della vita il bimbo udì.
Il bimbo era nato, e si chiamava come ti chiami tu.
29 giugno 1987
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