Sanità Sociale Sanità Sociale

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Settimanale d’informazione socio-sanitaria dell’A.N.I.O.
anno 10 - n. 23 del 15 Giugno 2015
Sociale
“Varcare la soglia”, un
ottimo progetto contro la povertà infantile
pag.3
Sanità
C’è un legame tra
alimentazione e
Alzheimer?
pag.4
Sociale
Indennità di maternità
può essere concessa
anche se è maturata in
altri Paesi europei
pag.5
Sanità
Malattia di Crohn,
uno studio su un
nuovo farmaco apre
prospettive sulla sua
remissione
pag.6
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L
a psoriasi è una malattia cutanea a decorso cronico recidivante che si presenta
con una morfologia clinica polimorfa, colpisce fino al 3% della popolazione generale e può insorgere a qualunque età. La forma più frequente è la psoriasi volgare (90% dei casi), caratterizzata dalle tipiche lesioni eritemato-squamose in
sedi particolari: cuoio capelluto, regione sacrale, gomiti, ginocchia. Le lesioni possono
assumere dimensioni diverse per cui distinguiamo diverse varianti: psoriasi puntata,
guttata, nummulare, a placche.
Esistono poi la cosiddetta “psoriasi inversa”, che si localizza a livello delle pieghe
(generalmente ascellare o inguinale), la psoriasi pustolosa (rara) e la grave forma eritrodermica (rarissima).
pag. 2
SANITA’
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2
La “malattia psoriasica”… non solo pelle
L’
eziologia della psoriasi è ancora sconosciuta, anche se
sono stati identificati numerosi fattori scatenanti
come quelli traumatici, infettivi e psicosomatici, ma la patogenesi è di tipo autoimmune. Se è vero che la psoriasi è
una malattia molto nota e conosciuta anche dai non addetti ai lavori, molto meno nota è
la sua frequente associazione
con una malattia infiammatoria cronica articolare, definita
artrite psoriasica. In realtà,
la separazione tra malattia
cutanea e malattia articolare
è del tutto artificiosa, poiché si tratta di rovesci della
stessa medaglia, tanto che è
stato osservato dalla comunità scientifica che sarebbe più
appropriato parlare di “malattia psoriasica” piuttosto che
di psoriasi e artrite psoriasica. La prima associazione tra
psoriasi e artrite fu descritta
da Alibert nel 1850, ma, fino
alla prima metà del XX secolo,
l’artrite psoriasica venne considerata una variante di artrite reumatoide. Soltanto nel
1964 fu descritta come entità
nosografica a sé stante e nel
1973 Moll e Wright definirono i
primi criteri classificativi della
malattia. L’artrite psoriasica è
inquadrata tra le spondiloartriti, gruppo di malattie reumatologiche comprendenti anche la spondilite anchilosante
e caratterizzate dal punto di
vista anatomico dal coinvolgimento delle entesi, strutture
d’inserzione ossea di tendini,
legamenti e capsule articolari.
Nella maggior parte dei casi
(75%), la psoriasi precede di
molti anni i sintomi articolari.
Talvolta, questi possono insorgere contemporaneamente alle lesioni cutanee (15%
dei casi), mentre l’artropatia
compare prima della psoriasi in circa il 10% dei pazienti.
Non vi è una stretta correlazione tra estensione e gravità
delle lesioni cutanee e coin-
volgimento articolare.
Curiosamente, l’onicopatia psoriasica, che si osserva in non
oltre il 50% dei pazienti con
psoriasi, si riscontra in oltre
il 90% dei casi di artrite psoriasica. Nel complesso circa
1/3 dei pazienti con psoriasi
presenta artrite psoriasica. Si
tratta pertanto di una malattia reumatologica di frequente riscontro (colpisce oltre lo
0.5% della popolazione generale). Presso il nostro Centro
sono seguiti circa 400 pazienti
con tale patologia. La malattia colpisce in ugual misura i
due sessi, insorge più frequentemente nella III-IV decade di
vita, ma può cominciare a tutte le età. L’esordio è generalmente insidioso ma può essere
acuto in circa 1/3 dei casi.
La malattia è molto eterogenea ed è possibile identificare
differenti forme come quelle
con prevalente interessamento delle piccole articolazioni
di mani e piedi (simil-reumatoidi), quelle di oligoartrite
asimmetrica, prevalentemente a carico degli arti inferiori
(ginocchia e caviglie) e quelle con prevalente interessamento di rachide e bacino
(simil-spondilite). La diagnosi
è spesso difficile, soprattutto
nelle forme ad esordio tardivo (con artrosi concomitante),
o in assenza di psoriasi clinicamente evidente. In questi
casi, si utilizza la presenza
di familiarità, in accordo ai
più recenti criteri classificativi di malattia del 2006. La
diagnosi precoce si basa sul
corretto inquadramento dei
sintomi iniziali da parte del
medico di medicina generale
o del dermatologo e sul precoce invio dei casi sospetti al
reumatologo. La storia naturale della malattia, in assenza
di terapia, non è confortante,
potendo indurre deformazioni
articolari e disabilità. Inoltre,
la malattia si associa ad un
aumento di mortalità, prevalentemente per cause cardio-
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vascolari. Eppure la malattia
è potenzialmente curabile, a
condizione che un’adeguata
terapia farmacologica sia iniziata precocemente, prima
che compaiano danni articolari strutturali. La terapia si
basa sull’utilizzo dei farmaci
tradizionali
(methotrexate,
ciclosporina, leflunomide), in
grado di controllare la maggioranza dei casi, e, a scopo
sintomatico, dei farmaci anti-infiammatori non steroidei
e del cortisone. Per il trattamento delle forme più severe
e resistenti alle precedenti
terapie (circa il 30% dei casi),
disponiamo oggi di formidabili
armi terapeutiche rappresentate dai farmaci biotecnologici, che agiscono inibendo selettivamente alcune citochine
implicate nella patogenesi del
danno articolare e cutaneo. Si
tratta dei farmaci ad azione
anti-TNFe, più recentemente, ad azione anti-IL23 che
sono utilizzati presso il nostro
Centro dove circa 150 pazienti
sono in trattamento. Utilizzati in modo appropriato e in
mani esperte, garantiscono un
adeguato controllo di malattia
nella stragrande maggioranza
dei pazienti, con un eccellente profilo di tollerabilità.
Inoltre, sono estremamente
efficaci anche sulle lesioni cutanee.
Dott. Giuseppe Provenzano
Responsabile Centro
di Reumatologia,
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prescrizione di farmaci
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malattie reumatologiche rare
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SOCIALE
3
“Varcare la soglia”, un ottimo progetto
contro la povertà infantile
U
n progetto per contrastare la povertà infantile e favorire il passaggio delle famiglie
dalla condizione di bisogno ad
una consapevole richiesta di
aiuto. È questo il fine di “Varcare la soglia – Empowerment
e partecipazione per contrastare la povertà”, per cui questa mattina è stato siglato un
Protocollo d’Intesa tra il Comune di Palermo e Fondazione L’Albero della vita onlus.
A presenziare alla cerimonia
c’erano, tra gli altri, l’assessore alla Cittadinanza sociale,
Agnese Ciulla, il responsabile
Progettazione Nazionale, Andrea Crivelli, e i rappresentanti dei partner di progetto,
le associazioni Nuova Opportunità e Bayty Baytik. Varcare
la Soglia è un’iniziativa, già
attiva nella città di Palermo in
partenariato con l’Associazione Nuova Opportunità e l’Associazione Bayty Baytik, che dal
1 dicembre 2014 al 31 maggio
2015 ha coinvolto 56 famiglie
in cui vivono 178 bambini. Il
progetto si rivolge alle famiglie residenti nella VII Circoscrizione del Comune di Palermo, di cui fa parte il quartiere
conosciuto come Zen, in condizioni di grave disagio e difficoltà economica, mettendo
a loro disposizione un’equipe
di educatori per supportarle
in un processo di crescita. “Un
protocollo che nasce dalla sinergia tra i Servizi Sociali del
nostro Comune e il mondo del
volontariato, - ha dichiarato
l’assessore Ciulla - come anello di congiunzione tra l’idea
progettuale iniziale e un modello operativo di interventi
che, attraverso l’individuazione precoce dei bisogni emergenti della famiglie coinvolte,
hanno lo scopo di attivare le
risorse necessarie per soddisfarli e dare risposta concreta
alla sempre maggiore richiesta di attenzione da parte di
un territorio, quello della settima Circoscrizione della nostra città, che ha ancora tanto
bisogno di investimenti”. “Siamo convinti che grazie all’intesa con il Comune di Palermo
sarà possibile potenziare gli
sforzi della nostra Fondazione
per aiutare sempre più famiglie in difficoltà – ha dichiarato Ivano Abbruzzi, Presidente
di Fondazione L’Albero della
Vita onlus –. La povertà rappresenta una negazione dei
diritti fondamentali della persona, non solo perché determina la mancanza in termini
di bisogni primari, ma anche
perché impedisce l’accesso
alle esperienze che favoriscono la crescita e l’inserimento
nella comunità. Con Varcare la
Soglia perseguiamo l’obiettivo
di consentire ai bambini e alle
loro famiglie di partecipare
attivamente al cambiamento
e reintegrarsi nel tessuto sociale in piena autonomia”. A
livello operativo, il progetto
prevede inoltre sia l’attivazione di un servizio di sostegno al
bilancio familiare, attraverso
la fornitura mensile di generi
alimentari di prima necessità, sia la realizzazione di uno
sportello di accompagnamento e orientamento ai servizi
sanitari. Tra le attività di Varcare la Soglia è previsto anche
un percorso specifico di informazione e sostegno pre-parto che ha coinvolto finora 15
donne, favorendo buone pratiche nella gestione dei primi
mesi di vita del neonato.
Redazione
SALUTE E BENESSERE
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4
C’è un legame tra alimentazione e Alzheimer?
I
l legame tra diabete e Alzheimer sembra trovare
sempre più conferme, tanto
che alcuni ricercatori hanno
ribattezzato l’Alzheimer come
una forma di “diabete di tipo
3” o come “diabete cerebrale”che colpisce il cervello.
Recentemente, è stato rilevato che l’insulina è prodotta
anche nel cervello, non solo
nel pancreas e negli ultimi
7-8 anni c’è stato un aumento
dell’evidenza che l’utilizzazione del glucosio da parte del
cervello è un fattore chiave
nell’insorgenza della malattia
di Alzheimer. Gli studi più recenti dimostrano che uno dei
fattori in gioco nella sua insorgenza è proprio l’insulino – resistenza a livello cerebrale.
È noto che il cervello è in grado di usare “solo” il glucosio a
scopo energetico, non usa né
grassi né proteine per il proprio sostentamento. In una
condizione d’insulino – resistenza le cellule cerebrali
sono meno in grado di introdurre ed utilizzare glucosio,
ed è questo che si traduce con
una perdita progressiva delle
funzioni cerebrali. In condizioni di normalità, l’insulina
è in grado di regolare le funzioni dell’ippocampo (centro
responsabile del comportamento) eregola la funzione
dell’acetilcolina,
neurotrasmettitore
importantissimo
nei processi di memoria ed apprendimento. Uno sbilanciamento della funzione dell’insulina quindi, causerebbe nel
giro di poco tempo, danni alla
memoria, nel comportamento
e nell’apprendimento. Inoltre, l’insulina modula la plasticità sinaptica, promuove
il reclutamento di recettori
GABA (acido gamma-aminobutirrico) sulle membrane
post-sinaptiche, influenza la
conduttanza al calcio del recettore NMDA (recettoriN-metil D-aspartato), e regola la
ciclicità dei recettori AMPA
(recettore dell’acido α-amino-3-idrossi-5-metil-4-isoxazolepropionic). Con il tempo una
sua alterazione porterebbe ad
una progressiva degenerazione cerebrale. Da alcuni anni,
la ricerca scientifica, per arrivare a nuove strategie di
prevenzione contro l’Alzheimer, ha iniziato sempre più a
concentrare la propria attenzione su possibili fattori di
rischio di natura metabolica.
L’obesità, il diabete e l’ipertensione, possono, influenzare
l’insorgenza di questa patologia che com’è noto, colpisce
prevalentemente le persone
più avanti con gli anni. Anche se i meccanismi molecolari alla base della relazione
tra sindrome metabolica e
disturbi neurologici non sono
pienamente compresi, sta diventando sempre più chiaro
che le alterazioni cellulari e
biochimiche osservate nei disturbi del metabolismo possono costituire un ponte tra la
sindrome metabolica patologica e vari disturbi neurologici. Più di recente, la sindrome
metabolica (MetS) - un insieme di fattori metabolici quali
resistenza all’insulina, obesità
addominale, intolleranza al
glucosio, ipertensione, iperinsulinemia - è stata associata
ad un aumentato rischio di
sviluppare l’Alzheimer.
Forti evidenze suggeriscono
che l’infiammazione sistemica e l’adiposità centrale contribuiscono a perpetuare la
Sindrome metabolica insieme
al propriopatrimonio genetico, l’età, il genere, la dieta,
l’attività fisica e le abitudini
in generale. Un altro collegamento tra obesità, infiammazione, insulina e demenza è
la proteina precursore dell’amiloide (APP). L’APP è un’adipochinaprodotta e trasformata in A-40 – 42 dal tessuto
adiposo. Questo frammento è
espresso nei tessuti adiposi e
sovra-espresso in adipociti addominali di pazienti obesi. Nel
bacino del Mediterraneo, già
20 anni fa, si è valutato che
il 70% degli adulti possedeva
uno dei disturbi che caratterizzano la sindrome metabolica mentre nella popolazione
europea il tasso di sindrome
metabolica si aggira sul 7-30%.
D’altra parte, alcuni ricercatori americani hanno ipotizzato che la malattia di Alzheimer sia una terza forma di
diabete e questa ipotesi è stata formulata nel 2005 quando
avendo analizzato45 pazienti
post mortemcon questa patologia, misero in evidenza nel
cervello a livello istochimico
bassi livelli di insulina.
Successivamente, si è visto
che le differenti fasi diffe-
renti della malattia si legavano ad una riduzione di questi
parametri rispetto un cervello
sano.
Per concludere, chi soffre di
diabete di tipo 2 è maggiormente a rischio di demenza
senile rispetto al resto della
popolazione, per cui èimprescindibileun’attenzione accurata allo stile di vita nonché all’alimentazione non
solamente durante l’invecchiamento ma sin dall’inizio
della nostra vita.
Movimento edalimentazione
sana promuovono sia il mantenimento del peso corretto sia un adeguato equilibrio
psico-fisico. Oltretutto, è ben
noto che il movimento, non
agonistico, abbassa i livelli degli indici infiammatori e
rende l’organismo più sensibile all’insulina. In tal modo, si
riduce il rischio di sviluppare
il diabete di tipo 2 in soggetti
a rischio.
Dr.ssa Sonya Vasto
Nutrizionista
Ricercatore STEBICEF
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SOCIALE
5
Indennità di maternità può essere concessa
anche se è maturata in altri Paesi europei
L
a Corte di Giustizia europea ha riconosciuto
che uno Stato membro
non può rifiutarsi di corrispondere ad una lavoratrice
l’indennità di maternità che
aveva maturato secondo la
legge del proprio Paese europeo d’origine. Il giudizio ha
posto termine ad una controversia nata tra una cittadina
belga e l’Istituto nazionale di
assicurazione malattia-invalidità, da un lato, e l’Unione
nazionale delle mutue autonome, dall’altro. Queste
ultime le avevano negato il
versamento dell’indennità di
maternità per non avere maturato il periodo contributivo
minimo previsto dal diritto belga (sei mesi) riguardo
l’ultima attività dalla stessa
esercitata. La lavoratrice è
una dipendente pubblica che
aveva ottenuto una messa in
aspettativa per motivi personali per esercitare un’attività
lavorativa subordinata di natura privata. Secondo l’Unione
nazionale delle mutue autonome, la lavoratrice non aveva
conseguito con quest’attività
il periodo contributivo minimo
previsto per fruire del predetto beneficio. In realtà, questa
lavoratrice aveva lavorato,
prima della data presunta del
parto, per più di dodici mesi
ininterrottamente che è il
periodo richiesto, affinché gli
Stati membri possano stabilire
la fruizione dell’indennità di
maternità. Perciò, uno Stato
ospitante la lavoratrice non
può non tenere conto del periodo lavorativo concretamente svolto dalla lavoratrice,
anche in precedenza.
Questo
giudizio porta avanti un’effettiva garanzia dei diritti sociali
tutelati dalla direttiva e del
perseguimento del suo scopo.
Quest’ultimo mira a promuovere il miglioramento della
sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti,
puerpere o in periodo di allattamento, tenendo conto del
carattere sostanziale e non
formale del «periodo di lavoro
preliminare» esercitato.
Questa è la condizione essenziale per fruire del congedo di
maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte,
ripartite prima e/o dopo il
parto. Secondo la Corte «tali
periodi di lavoro devono essere intesi nel senso che essi
comprendono i diversi impieghi occupati in successione
dalla lavoratrice interessata
prima di tale data, ivi inclusi quelli svolti per differenti
datori di lavoro e con status
diversi.
L’unico requisito previsto da
tale disposizione è che la persona interessata abbia esercitato uno o più lavori durante
il periodo richiesto dal diritto
nazionale per avere diritto
all’indennità di maternità, in
applicazione della predetta
direttiva». Tale disposizione,
peraltro, non poteva svilupparsi diversamente, poiché
una soluzione diversa avrebbe
potuto creare delle diversità di trattamento all’interno
dell’ordinamento nazionale.
Ciò è inapplicabile, poiché
esistono già delle apposite dispense dal contributo minimo
per il dipendente pubblico dimissionario e per quello licenziato.
Francesco Sanfilippo
Pensioni, un decreto salva quelle miste dalla crisi economica
N
el decreto n. 65/2015,
è prevista un’importante misura che riguarda il coefficiente
di rivalutazione del montante
contributivo. La sua importanza è dovuta alla constatazione
che senza questo intervento
d’urgenza del Legislatore, il
“tesoretto” individuale da
utilizzare per determinare
l’importo delle pensioni con
il sistema contributivo e misto
avrebbe ottenuto una riduzione.
Nell’agosto del ’95, la
legge di riforma del sistema
pensionistico, la n. 335/1995
fece una distinzione netta tra
sistema retributivo e contributivo, conservando al centro
le pensioni calcolate con il
sistema misto come forma residuale. In realtà, non fu calcolato allora che esistesse la
possibilità che il coefficiente
di capitalizzazione del montante contributivo potesse divenire negativo. Questa legge
si limita, infatti, a stabilire
che il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del
prodotto interno lordo, (PIL)
nominale, appositamente calcolata dall’ISTAT, mentre l’anno da rivalutare fa riferimento
al quinquennio precedente.
Poiché il nostro Pil è divenuto negativo in questi ultimi 5
anni a causa della recessione
economica, le pensioni avrebbero ottenuto un coefficiente negativo, con effetti a dir
poco nefasti sui contributi dei
lavoratori e sulle loro pensioni future se il meccanismo
fosse stato applicato in modo
pedissequo.
Il Decreto-legge
n. 65/2015
stabilisce che, in
ogni caso, il coefficiente di
rivalutazione del montante
contributivo come determinato, adottando il tasso annuo di capitalizzazione fissato
dalla norma, non può essere
inferiore a uno, eccetto una
possibilità di un recupero da
effettuare sulle rivalutazioni
successive. In questo modo,
il decreto, di cui è attesa la
conversione in legge, scongiura il ricorso ad una rivalutazione negativa, prevedendo
un coefficiente mai inferiore
ad uno, seppur il tasso complessivo risultante dai calcoli
è negativo. Si tratta di una
misura di salvaguardia che
prevede anche il recupero di
questo “abbuono” nelle rivalutazioni successive. Si tratta
di un provvedimento quanto
mai efficace, che fa, però, riflettere in negativo sulla saggezza delle decisioni prese
in passato come dimostra il
recente giudizio della Corte
costituzionale sui provvedimenti presi dal Governo Monti
riguardo le pensioni. In realtà,
la materia pensionistica non
è un capitolo chiuso, poiché
la condizioni economiche del
Paese richiederanno prima o
poi nuovi interventi. Tuttavia,
la diminuzione costante e progressiva delle risorse, induce a
non conservare un ottimismo
spensierato. Si prevedono,
quindi, altri interventi correttivi in futuro, in mancanza di
una riforma globale del settore che già, però, ne ha subiti
molti negli ultimi anni.
Francesco Sanfilippo
SANITA’
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6
Malattia di Crohn, uno studio su un nuovo
farmaco apre prospettive sulla sua remissione
S
i aprono nuovi orizzonti per i pazienti affetti
dalla malattia di Crohn,
patologia infiammatoria cronica dell’intestino che
colpisce il tratto gastrointestinale provocando una vasta
gamma di sintomi. La scorsa
settimana a Washington durante il DDW (Digestive Disease Week), principale appuntamento
congressuale
internazionale sulle malattie
dell’apparato digerente, sono
stati presentati i dati delle
analisi di sottogruppo dello
studio sulla malattia di Crohn
con GED-0301 (Mongersen),
pubblicato sulla prestigiosa
rivista New England Journal
of Medicine lo scorso marzo. Lo studio, coordinato dal
professore Giovanni Monteleone dell’Università di Roma
- Tor Vergata, ha utilizzato
una terapia farmacologica che
ha prodotto una significativa remissione della malattia,
grazie ad un meccanismo di
azione innovativo concepito
per agire localmente, in una
patologia nella quale l’effetto
terapeutico dei farmaci fino
ad ora disponibili risulta ancora condizionato dalla gravità e
durata della malattia. Lo studio, condotto su 166 pazienti
adulti affetti da malattia di
Crohn moderata e grave con
lesioni infiammatorie documentate nell’ileo terminale
e/o nel colon destro, è il frutto di un partenariato fra 14
centri italiani ed uno tedesco,
ma nasce nel solco della ricerca italiana della scuola di Gastroenterologia di Tor Vergata
diretta dal prof. Pallone e portata avanti dal Prof. Giovanni
Monteleone con il supporto
dell’azienda
farmaceutica
Giuliani. Tra i centri italiani
che hanno contribuito al successo dello studio vi è l’Unità
operativa di Medicina Interna
2 dell’Azienda Villa Sofia Cervello diretta dal prof. Mario
Cottone, con il coordinamento
del dott. Ambrogio Orlando,
che ha contribuito alla realizzazione dello studio con l’inserimento di 10 pazienti. Elemento principe dello studio e
del trattamento farmacologico è l’utilizzo di una molecola, l’oligonucleotide antisenso
anti Smad 7, contenuta nel
farmaco GED – 0301, capace di bloccare una citochina
infiammatoria (in pratica una
diversa molecola proteica), lo
Smad 7, la cui presenza in livelli eccessivi stimola appunto
l’infiammazione, acuendo la
malattia. “Nei pazienti che
hanno ricevuto il farmaco attivo – spiega il dr. Orlando l’efficacia risulta veramente
elevata e rapida confrontata
con i farmaci disponibili fino
ad oggi. Inoltre l’assenza di
effetti collaterali e l’utilizzo
della somministrazione orale,
rappresentano caratteristiche
che renderebbero questo farmaco, sempre che i dati vengano confermati nello studio
di fase III e in altre localizzazioni di malattia, molto promettente per questi pazienti.
Dallo studio sono stati esclusi i pazienti con lesioni note
dello stomaco, dell’intestino
tenue prossimale, del colon
trasverso e/o del colon sinistro, stenosi, fistole, malattia
perianale, manifestazioni extraintestinali, infezioni attive
o recenti o storia di neoplasia
maligna”. I pazienti inclusi
nello studio sono stati randomizzati (termine tecnico uti-
lizzato negli studi sperimentali per attribuire ai pazienti
o il trattamento sperimentale
o un altro trattamento già in
uso o il placebo), attraverso
la somministrazione giornaliera per due settimane con una
delle tre dosi di GED-0301 (10
mg/die, 40 mg/die o 160 mg/
die) in compresse o placebo.
La risposta al trattamento è
stata valutata ai 15, 28 e 84
giorni ed è risultata positiva
con percentuali di remissione
diverse a secondo della dose
di farmaco somministrata. Il
punto finale di efficacia primaria dello studio era rappresentato dalla percentuale di
pazienti in remissione clinica,
indicata con il CDAI (Crohn
Disease Activity Index), il
punteggio di riduzione utilizzato in questa malattia, che
doveva essere inferiore a 150
al giorno 15 e mantenuto fino
al giorno 28. I pazienti potevano continuare ad assumere dosi stabili di cortisone o
mesalazina per via orale nel
corso delle due settimane di
trattamento e/o una dose stabile di immunomodulatori (p.
es. azatioprina, mercaptopurina, metotrexato) purché la
terapia fosse stata iniziata 6
mesi prima del trattamento.
Prima dell’inizio dello studio
e durante le due settimane
di trattamento non potevano
essere avviate terapie a base
di antibiotici, steroidi, immunosoppressori e agenti biologici. I pazienti arruolati nello
studio non dovevano aver ricevuto anticorpi anti-TNF-alfa
o altri agenti biologici oppure
antibiotici rispettivamente nei
90 giorni precedenti e nelle 3
settimane precedenti l’inizio
dello studio. “Nei prossimi
mesi - aggiunge il dott. Orlando dovrebbe partire lo studio
internazionale di fase III su
una casistica molto più ampia,
che se confermerà questi incoraggianti risultati dovrebbe
portare nell’arco di 2-3 anni
alla registrazione di questo
farmaco per il trattamento
della malattia di Crohn. Anche
in questo nuovo studio il nostro centro contribuirà ad arruolare pazienti offrendo loro
ancora una volta l’opportunità di utilizzare farmaci sperimentali per il trattamento
della loro malattia”.
Redazione
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250 ml di latte vegetale bio
75 ml di olio girasole
Una manciata di gocce cioccolato fondente( facoltativo)
120 ml sciroppo agave o di
acero
Se mettete zucchero di canna aumentare leggermente il
latte per ottenere sempre un
impasto cremoso e non troppo
asciutto. Una bustina di lievito
per dolci biologico, meglio se
vaniglinato.
Istruzioni
In un robot da cucina prima
tritare una parte delle noci
(circa 40 g ) poi aggiungere
tutti gli altri ingredienti (per
ultimi il lievito e poi alla fine
le restanti noci spezzettate
amalgamandole
all’impasto
delicatamente ma bene con
un cucchiaio di legno).
Trasferire in una tortiera di
24/26 cm di diametro ben
unta ed infarinata, cospargere
con una manciata di gocce di
cioccolato fondente uniformemente la superficie ( facoltativo).
Infornare a 180° in forno preriscaldato per circa 30 minuti
ma controllare la cottura perché dipende dal vostro forno
inserendo uno stuzzicadenti al
centro: se uscirà pulito la torta sarà pronta.
Autore: Tiziana Vitale
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Psicologa - Psicoterapeuta. Psicologia Psicoterapia del bambino, dell’adolescente e della famiglia. Via Tripoli 18 Palermo.
Recapiti telefonici: 329 4321204
GASTROENTEROLOGIA
DOTT. SERGIO PERALTA
Dirigente Medico U.O. di Gastro-enterologia ed Epatologia. Responsabile U.O.S. di
Endoscopia Digestiva Policlinico,
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settimanale d’informazione socio-sanitaria dell’A.N.I.O.
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Le informazioni pubblicate da “nell’Attesa…” non sostituiscono in alcun
modo i consigli, il parere, la visita, la prescrizione del medico.
I
l bizzarro titolo è una sfida che vogliamo lanciare ai
nostri lettori con l’obiettivo
di rianimare la tavola degli
italiani con un profondo significato salutistico.
Parliamo di buona alimentazione e sana cucina, alimenti
a “KM 0”.
Oggi mangiar sano è più complicato di quanto si possa immaginare, basta pensare alle
difficoltà di reperire le materie prime non contaminate,
l’acquisto di prodotti genuini
garantiti e a buon prezzo diventa sempre più complicato.
Causa il “cattivo” stile di vita
che oggi giorno la maggior parte della nostra società vive.
I tempi sono cambiati, la società oggi vive una realtà molto più caotica, spesso soggetta
a orari di lavoro ambigui, location distanti dalla propria
residenza e quindi costretti a
mangiare “cibo spazzatura”,
considerando il fatto che il
tempo che rimane per preparare un buon piatto è diventato davvero esiguo.
Il mercato del cibo facile, non
aiuta di certo, anzi ci da ragione di sostenere questa evidenza.
I fast-food esistevano prima?
I cibi di strada o street food
continuano si a sopravvivere,
ma sono diventate eccezioni o
nicchie, non considerabili nella massa.
Siamo nell’era dei McDonald,
pizza a pranzo, cena e colazione, cheeseburger, patatine
fritte, cartocci e tante altre
frivolerie.
La teoria espressa sopra non
esula il 65% degli italiani che si
“dice anziani”, infatti tra chi
cerca di arrotondare perchè
con la pensione non sopravvive e chi svolge la mansione di
nonno a tempo pieno il concetto non cambia. Lo stile di
vita è fondamentale per un’alimentazione corretta e sopra-
tutto sana.
Superati tutti questi inconvenienti resta la cosa più importante, quella di saper preparare un piatto, con ingredienti
semplici, sani e non artefatti,
perchè la nostra salute rivendica ogni giorno tutela!
Ecco da cosa parte la “Salute nel Piatto”, un concorso a
premi, che mira a premiare
tutti coloro che sanno cucinare piatti semplici, buoni e da
fare senza grandi complicazioni, ovviamente con un occhio
di riguardo alle ricette tipiche
delle periferie e delle province, dove la cultura del KM0,
sopravvive.
Come si partecipa?
Inviando una ricetta (completa di ingredienti e procedimento) o all’indirizzo di posta
elettronica:
[email protected]
o compilando il form sul sito
www.nellattesa.it
Un nutrizionista e il nostro
comitato scientifico, sceglieranno la ricetta della settimana da pubblicare sul giornale
“nell’attesa…”, inoltre le ricette più votate sulla nostra
pagina facebook andranno alla
finalissima a fine anno.
I premiati dalla rete (amici,
parenti, conoscenti e tutti
coloro che voteranno la ricetta) a fine anno parteciperanno alla serata organizzata da
ANIO denominata “CUOCI CA
TA RICRII” insieme a grandi
nomi della cucina italiana in
una serata di gala con fini sociali.
La giuria fatta dal pubblico
partecipante e da chef, premieranno gli autori del “piatto
sociale dell’anno”.
Adesso partiamo e inviateci
le vostre ricette tradizionali,
semplici e buone e arricchiamo il tavolo italiano di salute
e bontà.
Compila il form ed inoltra la
tua Ricetta!
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