capitolo 1 - Dipartimento di Giurisprudenza, Studi politici e

CAPITOLO I
LA CITTA’ STATO
Sommario: 1- Le origini di Roma; 2- Il predominio nel Lazio; 3- La struttura
della civitas; 4- le assemblee popolari; 5-Le magistrature superiori; 6- Le altre
magistrature; 7- Il senato; 8- I collegi sacerdotali.
1- Le origini di Roma
Secondo una tradizione accolta dagli storiografi dell’età di Augusto (in
particolare Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso), Roma sarebbe sorta nel 753 a. C.
per iniziativa di un gruppo armato (proveniente dalla comunità latina di Alba
Longa, a cui si erano uniti elementi provenienti da altre comunità vicine), che
sotto il comando di Romolo si sarebbe impadronito del territorio sovrastante il
guado del Tevere corrispondente all’Isola Tiberina, creando sul colle Palatino una
fortificazione da cui si sarebbe sviluppata la città.
Siccome i reperti archeologici attestano che il Palatino e gli altri colli
circostanti erano abitati già da tempi più remoti, gli storici odierni sono inclini a
considerare inattendibile il racconto tradizionale, e ritengono che Roma sia sorta
dalla spontanea fusione delle comunità preesistenti.
Non vi sono elementi sufficientemente sicuri per affrontare la questione, e
sarebbe ragionevole accontentarsi del puro dato di fatto, che Roma è sorta in quel
luogo e all’incirca in quel periodo. Tuttavia non è privo di interesse soffermarsi
sulle ragioni del dissenso, per farsi un’idea dei percorsi conoscitivi che
sorreggono la critica storica.
Se noi riduciamo il confronto fra le due opposte ricostruzioni alle premesse
più elementari che stanno rispettivamente a fondamento dell’una e dell’altra,
constatiamo che la presenza di insediamenti preesistenti è necessaria per la tesi
che ricollega l’origine di Roma al consenso, mentre resta del tutto irrilevante per
la tesi che riconduce l’origine di Roma ad un atto di forza.
E’ da dire che l’atteggiamento complessivo tenuto da Roma nei confronti dei
vicini in epoca storica, indubbiamente più aggressivo che difensivo, depone a
favore del racconto tradizionale. Qui però interessa soltanto richiamare
l’attenzione sul gioco delle opinioni, per acquisire consapevolezza critica sul
modo di affrontare i problemi.
Le opinioni, sul piano strettamente personale, possono reggersi benissimo
sulla base di preferenze puramente istintive, legate all’esperienza o all’indole
delle persone; ma per essere utilmente comunicate ad altri devono assumere una
valenza obiettiva, che viene per lo più ottenuta attraverso percorsi argomentativi,
coi quali muovendo da elementi certi o comunque condivisi si cerca di rendere
credibili quelli incerti.
L’attendibilità di una opinione dipende dunque dagli elementi (o fattori) posti
a suo fondamento, che devono essere almeno tre: un termine di riferimento
fattuale (insediamenti preesistenti), un canone di inferenza, che di solito è
rappresentato da esperienze condivise (nel caso nostro, ad esempio,
l’atteggiamento tenuto da Roma nei tempi successivi, oppure l’idea che l’unione
fa la forza) ed infine le conclusioni che si propongono come opinione da
condividere. Sia il dato fattuale (insediamenti preesistenti) sia i due canoni di
inferenza, isolatamente considerati, si possono considerare attendibili; la loro
relazione però è qualcosa che instauriamo noi, e di per sé è semplicemente
possibile. Siamo dunque di fronte ad una operazione di carattere preferenziale,
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che muovendo da conoscenze già disponibili, crea spazio per un allargamento
della conoscenza, rappresentato dalla relazione di interdipendenza suggerita, che
crea uno spazio in cui è possibile inserire (inferre) elementi ulteriori. Essa di per
sé vale come proposta, e non comporta acquisizione di conoscenze nuove,sul
piano dei fatti, finché non emergono riscontri esterni che danno conferma delle
relazioni proposte1.
E’ doveroso dare atto di questo perché tutta questa prima parte è impostata in
modo di suggerire delle relazioni, ma senza che vi sia lo spazio per discuterle e
verificarle, che richiederebbe un corso apposta, come un tempo avveniva.
Possiamo così ritornare al racconto della tradizione, alla quale ormai ci si può
richiamare senza troppe preoccupazioni, lasciando al senso critico di ognuno di
valutarne l’attendibilità.Si narra dunque che Romolo, dopo aver fondato la nuova
città, avrebbe suddiviso la popolazione in tre tribù, secondo la provenienza (Titii,
Ramnes, Luceres), ognuna delle quali era stata suddivisa al suo interno in dieci
curiae, costituite dai nuclei familiari insediati sulle porzioni di territorio a loro
assegnate 2 . Le curiae avevano quindi al tempo stesso una base personale e
territoriale, esvolgevano una duplice funzione: militare, per il reclutamento dei
soldati, e civile, per riunire i cittadini in assemblea (comitia) quando vi erano
operazioni che riguardavano l’intera cittadinanza, come ad esempio la
dichiarazione di guerra, l’acquisizione di nuove gentes o familiae, o la nomina
(inauguratio) di un nuovo re.
Sempre a Romolo si fa risalire l’istituzione di un consiglio di anziani
(senatus), composto di cento membri, come pure la distinzione della popolazione
in due classi, patrizi e plebei, riservando ai primi le funzioni pubbliche e
destinando gli altri alle attività produttive.
2. Il predominio nel Lazio
La regione laziale, al tempo della fondazione di Roma, era caratterizzata da
insediamenti rurali, accorpati intorno a modesti nuclei urbani, che in sostanza
erano l’esito dell’occupazione territoriale avvenuta alcuni secoli prima da parte di
popolazioni indoeuropee. Erano popolazioni organizzate per stirpi, che
rispecchiavano un’origine comune, ma non necessariamente di sangue, che a loro
volta si erano frammentate in nuclei più ristretti su base territoriale, che andavano
1E’ chiaro che questo discorso non è stato fatto per affrontare il problema delle origini di
Roma, che di per sé è abbastanza irrilevante, ma si è preso spunto da una questione elementare per
evidenziare una impostazione di pensiero che nel campo del diritto svolge un ruolo primario, e che
sarà il filo conduttore di tutto il corso. Resta da aggiungere fin da ora che la concezione romana
del diritto esigeva delle certezze, alle quali si poteva arrivare in due modi: o per statuizione,
facendo decidere a qualcuno (come nel caso delle leggi e delle sentenze), oppure per
ragionamentoimpostando una verifica in termini stringenti. La tecnica adottata Romani in sede
processuale era in sostanza questa, di dare la precedenza a quella delle due tesi che si riteneva
prevalente e sottoporla a giudizio stringente sulla base degli argomenti contrari; se riusciva a
superarli diventava definitiva, diversamente si teneva per buona l’altra. Questa tecnica richiedeva
in sostanza due stadi di giudizio, quello per accordare la precedenza e quello per verificarla.
L’argomento verrà affrontato nella seconda parte. Fin da ora si può precisare (e questo vale
anche per le ricostruzioni storiche) che in qualunque ragionamento il termine di riferimento che
funge da premessa deve essere un dato fattuale, perché diversamente manca qualunque riscontro
reale, e si rischia dicadere in un gioco di vuote allegazioni; l’altro riferimento invece può
richiamare anche dei contenuti di esperienza generici, affinché dal loro ambito si possano
utilizzare quelli che di volta in volta interessano.
2 Anche qui siamo di fronte a dei riferimenti (le tribù, le curiae, le familiae) confermati da
molteplici attestazioni, e ad un evento (la loro istituzione da parte di Romolo) che manca invece di
conferme fattuali. Addirittura si discute se Romolo sia davvero esistito, o sia un nome inventato
per indicare un immaginario fondatore.
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sotto il nome di populi o di civitates secondo che venissero in considerazione le
persone o gli assetti del territorio.
Nella parte centrale del Lazio erano insediati i Latini, e con loro confinavano
a est i Sabini e gli Osci, a sud i Volsci, a nord, di là dal Tevere, gli Etruschi
(questi ultimi di origine diversa, giunti in Italia via mare).
L’organizzazione delle popolazioni latine era il riflesso di un’economia
pastorale, tendenzialmente autosufficiente, e la loro vita politica, in assenza di un
potere centrale che tenesse insieme le comunità locali, era caratterizzata da
alleanze fondamentalmente difensive, per fronteggiare le prepotenze dei vicini,
ma ben spesso utilizzate anche per incursioni ai loro danni. Non del tutto diverso,
anche se assai più evoluto, era l’assetto delle stirpi etrusche, che avevano già da
tempo assimilato l’esperienza greca della pòlis ed avevano un’economia capace di
industria e commercio, sia terrestre che marittimo.
Una conseguenza importante di questo assetto politico, caratterizzato in
sostanza da rapporti di vicinato fra le singole comunità, è la grande rilevanza che
assumeva il principio di reciprocità, come condizione della loro stessa
coesistenza, per cui si era sviluppato fin dai tempi remoti, ancor prima del diritto
cittadino, una sorta di diritto internazionale, rappresentato dalle relazioni in cui
quella coesistenza si esprimeva, come le ambascerie, le alleanze, le regole del
commercio, le stesse formalità di guerra.
Era, come è ancora oggi il diritto internazionale, un diritto imperfetto, nel
senso che esprimeva bensì condizioni di reciprocità, ma mancando un’autorità che
potesse garantirle, pronunciandosi sopra le parti in contrasto, veniva meno tutte le
volte che prevalevano i rapporti di forza. Un diritto quindi possibile, ma non
sempre praticabile. Ciò che in ogni caso merita di essere sottolineato è che Roma
ha saputo sfruttare questo assetto di rapporti con straordinaria sagacia politica,
orientando la sua azione politica ad un progetto di egemonia, più che di conquista.
Lo straordinario successo conseguito nei secoli successivi è in buona parte
riconducibile all’uso accorto di queste esperienze primordiali.
I primi due secoli e mezzo di storia sono stati caratterizzati per Roma da
continue lotte con i vicini, suscitate bensì, secondo la versione dei Romani, dalla
necessità di difendere la propria indipendenza più che da un proposito di
espansione territoriale, ma in concreto alimentate dal fatto che per i Romani
l’indipendenza era fatta coincidere con la preminenza (maiestas) del popolo
romano rispetto ai vicini, il che rendeva inevitabile intervenire ogni qualvolta si
creava uno spostamento di equilibri.
I fatti più salienti di questo periodo si possono considerare la distruzione di
Alba, da cui Roma aveva tratto un significativo incremento di territorio, e la
fondazione di Ostia, che le aveva dato la possibilità di aprirsi ai traffici marittimi.
Quest’ultima vicenda è legata verosimilmente all’influenza etrusca, che pur senza
tradursi in una vera e propria conquista territoriale, si era di fatto concretizzata in
un controllo della città, come attesta il fatto che gli ultimi re di Roma, i Tarquinii,
erano di stirpe etrusca.
Forti di una fiorente economia commerciale, attraverso l’inserimento di
gruppi gentilizi all’interno delle comunità preesistenti, gli Etruschi si erano spinti
fino al territorio di Cuma, una delle più antiche colonie greche (da cui aveva tratto
origine Napoli), e vi avevano fondato come avamposto Capua, impegnandosi in
una serie incessante di conflitti che in un primo tempo avevano visto i Latini,
unitamente ai Romani, in guerra con i Volsci, spalleggiati a loro volta dai Greci,
poi, cambiate le alleanze, i Latini con i Volsci ed i Greci contro i Romani e gli
Etruschi.
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Più o meno in concomitanza con la cacciata dei Tarquinii, le città latine
avevano cercato di sottrarsi all’egemonia di Roma e si erano federate fra loro
dando vita ad una lega, che aveva chiaramente lo scopo di unire le forze. Questo
fu occasione di ripetuti conflitti coi Romani, in cui le parti in contesa trovavano
appoggio di volta in volta nelle popolazioni circostanti, finché nel 493 a.C. si
arrivò ad un trattato, il foedus Cassianum, che stabiliva reciprocità di diritti fra
Roma e la Lega. A seguito di questo accordo si riaccesero le ostilità con le
popolazioni circostanti, che consentirono ai Latini di sottrarre territori agli Equi
ed ai Volsci3, e a Roma di impadronirsi della città rivale di Veio. A seguito di ciò
le risorse delle due parti rimanevano equivalenti, ma Roma aveva indubbiamente
il vantaggio di essere un’entità politica unitaria.
Intorno al 390 a.C. Roma aveva subito una rovinosa invasione da parte dei
Galli, che l'avevano messa al sacco e incendiata. Le città della Lega Latina
cercarono di approfittarne per scrollarsi di dosso l’egemonia romana, ma senza
successo. Roma resistette ed incominciò a praticare una politica discriminatoria,
che privilegiava alcune città rispetto alle altre, concedendo loro la cittadinanza
romana, senza che perdessero la propria. Questo non impedì che qualche decennio
più avanti le città della Lega cercassero ancora una volta di contrastare l’egemonia
romana, ma Roma ebbe ancora il sopravvento e nel 338 a.C. la Lega latina venne
sciolta. Con ciascuna città vennero conclusi trattati diversi, privandole tutte però
del diritto di stringere alleanze in modo autonomo, cosicché tutto quanto il Lazio,
pur restando articolato in comunità formalmente indipendenti, di fatto era
saldamente nelle mani di Roma.
3- La struttura della civitas
La struttura di Roma, secondo la tradizione che si è riferita, è fin dalle origini
quella della città-stato, espressione che vuole essere l’equivalente della nozione
romana di civitas, per indicare la comunità organizzata intorno ad un nucleo
urbano, in cui si svolgevano le relazioni di vita più importanti della comunità. La
parola Stato(status) allude in generale nella lingua latina agli assetti stabili su cui
si fonda il modo di essere di una cosa, ed in questo caso viene utilizzata per
alludere alle strutture attraverso cui si svolgeva la vita cittadina.
Per quanto attiene al profilo territoriale, nella civitas possiamo distinguere il
nucleo urbano vero e proprio (sede delle funzioni pubbliche, del culto e del
mercato), il contado (costituito dagli insediamenti agricoli, col loro appezzamento
di terreno privato, e dai terreni destinati allo sfruttamento comune, come i pascoli
ed i boschi) ed infine il territorio, che comprende l’intera area geografica
assoggettata al potere della civitas, in cui erano presenti anche altri nuclei di
popolazione, anteriori alla conquista o insediati successivamente.
3 Si può ricordare un episodio riferito da Livio(II,17), che dà un’idea di queste guerre. I
Romani assediavano Populonia, che era stata in origine un insediamento latino, di cui però si erano
impadroniti gli Aurunci, che verosimilmente erano uno dei populi che facevano parte della stirpe
osca. I Romani si accingevano a dare la scalata alle mura, quando la città decise di arrendersi.
Secondo la consuetudine la resa evitava la distruzione totale, i Romani però le inflissero una sorte
non meno dura che se fosse stata presa d’assalto: i maggiorenti furono decapitati, gli altri abitanti
(i coloni, come dice Livio, lasciando incerto se vi fossero anche abitanti di stirpe diversa) vennero
venduti come schiavi, la città venne distrutta ed i campi messi all’asta. Livio attribuisce questo
atteggiamento al fatto che i Romani erano furiosi per un rovescio che avevano subito in
precedenza, ma è più probabile che fin dall'inizio il progetto fosse di eliminare gli Aurunci per
riportarvi i Latini.
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Per quanto attiene alla popolazione, il tratto più caratteristico è rappresentato
dalla coesistenza di aggregazioni e stratificazioni diverse. Il livello più alto di
aggregazione era rappresentato dalle stirpi (Latini, Sabini, Etruschi, ecc.),
articolate in comunità (civitates) a loro volta composte da familiae e da gentes
(gruppi parentali). In Roma, come retaggio delle stirpi, vi erano anche le tribù, che
però nel tempo erano diventate delle semplici circoscrizioni cittadine in funzione
elettorale.
Altre distinzioni, che probabilmente sussistevano anche nelle altre comunità,
dipendevano dagli assetti sociali, e potevano derivare sia dal fatto che le
popolazioni vinte, se non venivano ridotte in schiavitù, restavano in posizione
subalterna (salva la possibilità che singoli gruppi familiari o gentilizi venissero
conservati nel proprio rango ed accolti nella civitas), sia dal fatto che è del tutto
naturale riconoscere preminenza ai più valorosi, così come è naturale che,
sviluppandosi il commercio, emergano i più intraprendenti. A Roma quegli assetti
sociali avevano dato vita alla distinzione fra patrizi e plebei, come pure fra patroni
e clienti (clientes erano persone che pur essendo estranee alle gentes od alle
familiae) si mettevano a disposizione con un vincolo di carattere personale,
ricevendone protezione. Possiamo dire dunque che le disuguaglianze erano uno
dei fattori costitutivi della civitas, non meno della solidarietà derivante dal fatto
che alla resa dei conti la sorte dei singoli era legata a quella della città. Il
problema politico vero suscitato da queste disuguaglianze non era quindi di
eliminarle, ma di trovare le condizioni per la loro coesistenza.
Per quanto infine attiene alla struttura organizzativa, prendendo a riferimento
la diversa funzione assegnata ai cittadini, si può dire che la civitas era organizzata
su tre livelli: il popolo, i magistrati ed il senato, a cui corrispondevano
rispettivamente tre funzioni, che in ordine di importanza erano rispettivamente: la
funzione direttiva, demandata al senato, la funzione operativa demandata ai
magistrati e la funzione deliberativa, nel senso assai stretto che si dirà, demandata
alle assemblee popolari. Un ruolo a sé e molto importante avevano i collegi
sacerdotali.
4. Le assemblee popolari
La singolarità più vistosa dell’assetto romano, rispetto alle esperienze odierne,
è che solo in senso generico si intendeva per populus romanus l’insieme di tutti i
cittadini, perché in realtà sul piano operativo il popolo era rappresentato non già
dai singoli cittadini, ma dai raggruppamenti attraverso cui venivano costituiti in
assemblea, per partecipare alle funzioni pubbliche. In pratica il popolo fin
dall’origine partecipava alle assemblee suddiviso per curie, ed ogni curia
esprimeva solo un voto, che era la risultante della maggioranza interna, la quale a
sua volta dipendeva dai criteri con cui i cittadini venivano iscritti alle curie, che
verosimilmente erano gli stessi con cui si procedeva al reclutamento dell’esercito.
Le assemblee però non avevano alcun potere di iniziativa e nemmeno di
discussione, ma soltanto il potere di esprimere consenso o dissenso alle proposte
dei magistrati, e soltanto in età repubblicana, per consentire la discussione, era
stata introdotta la regola che le proposte fossero rese pubbliche prima
dell'assemblea.
La figura più antica di assemblea popolare erano stati i comitia curiata, di cui
già si è detto, che assolvevano a funzioni civili e religiose. Nel tempo però erano
stati soppiantati da due nuove figure, i comitia tributa ed i comitia centuriata.
I comitia tributa si possono considerare la naturale conseguenza
dell’espansione territoriale di Roma, che aveva reso necessario sostituire gli
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originari distretti di leva, costituiti dalle curiae, con nuovi distretti, che avevano
una connotazione puramente geografica, anche se conservavano il nome tribus.
come semplice sinonimo di ripartizione. Al momento della riforma le tribù erano
20, di cui 4 interne alla città (urbane) e 16 esterne (rustiche); nel tempo
crebbero di numero, fino a 35, poi però, per non alterare l'assetto interno della
civitas, si stabilì che le nuove comunità a cui si concedeva la cittadinanza fossero
iscritte nelle tribù esistenti, e così le tribù tornarono ad essere circoscrizioni a base
mista, territoriale e personale.
Quanto ai comitia centuriata, si possono considerare una conseguenza della
riforma militare introdotta dal re Servio Tullio. Egli aveva suddiviso la
popolazione in cinque classi, in base alla superficie di terra posseduta, e a carico
di ciascuna classe aveva posto un numero prestabilito di centuriae (contingenti di
cento uomini armati). Al di sopra delle cinque classi stava la classe di coloro che,
per il loro rilevante patrimonio, dovevano fornire 18 centurie di cavalieri. Che la
riforma riguardasse il reclutamento vero e proprio è assai dubbio, perché
assegnava un numero molto alto di centurie alla classe più alta (80), un numero
proporzionalmente assai basso a ciascuna delle tre classi intermedie (20) ed
appena poco di più all’ultima (30), là dove la proporzione numerica della
popolazione, fra ricchi e poveri, farebbe presumere che anche a Roma fosse di
segno opposto. E’ da ritenere quindi che in realtà la riforma, dal punto di vista
militare, fosse nata solo con lo scopo di coprire i costi di allestimento
dell’esercito, mentre al reclutamento vero e proprio è probabile che si procedesse
attraverso le tribù.
I modi in cui da queste riforme militare si sono sviluppate le nuove assemblee
cittadine non li conosciamo. Sarebbe ragionevole ritenere che siano sorte in età
repubblicana, in concomitanza con l’istituzione delle nuove magistrature, per
assolvere alla funzione elettorale, che in precedenza non esisteva, ma ignoriamo
come realmente siano andate le cose. Possiamo solo intuire che l’istituzione dei
nuovi comizi rispondeva a due differenti esigenze: tener conto dei nuovi nuclei
ammessi alla cittadinanza (comitia tributa) e riconoscere maggior peso politico ai
ceti che sopportavano il maggior carico economico (comitia centuriata). Ancora
al tempo della unificazione d’Italia si riteneva che solo chi pagava le tasse avesse
diritto di partecipare alla vita pubblica. In ogni caso il risultato pratico era questo,
che la prima classe, unita ai cavalieri, aveva un numero di centurie che poteva
condizionare l’esito di qualunque votazione, in quanto, per la regola ricordata
sopra, ogni centuria esprimeva un solo voto.
Ultimi in ordine di tempo, ma diventati subito assai importanti, sono i concilia
plebis, detti tributa perché erano organizzati sulla base delle tribù. La loro
introduzione è legata alla ribellione della plebe, iniziata nel 494 a. C., poco dopo
la cacciata dei re, suscitata probabilmente dal malumore provocato
dall’ordinamento centuriato4. Rifiutando di sottostare ad un sistema che toglieva
4 Livio (II, 23) sottolinea le condizioni drammatiche della plebe ricordando un episodio che
sarebbe occorso durante la guerra coi Volsci. I plebei erano in fermento, perché lamentavano che
mentre fuori combattevano per la libertà e la supremazia di Roma, in città erano oppressi e fatti
schiavi dai concittadini. Ad un tratto si era presentato nel foro un vecchio, con le vesti logore ed il
corpo macilento. Alcuni lo avevano riconosciuto, e dicevano che aveva rivestito i gradi militari,
ricordando le sue benemerenze. Interrogato dagli altri, aveva raccontato che mentre era alle armi
nella guerra coi Sabini questi gli avevano devastato il podere, bruciata la fattoria e portato via il
bestiame. Costretto a fare dei debiti, a causa delle usure dapprima aveva venduto il campo, poi
anche gli altri beni, ed infine aveva dovuto mettere a disposizione del creditore il proprio corpo,
assoggettato al lavoro coatto ed alle torture, come dimostravano ancora i segni recenti delle
frustate. A seguito di ciò il tumulto si era esteso a tutta la città. I consoli si erano affrettati a
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alle classi umili qualunque peso politico, la plebe si era raccolta sul monte Sacro
(o, secondo un’altra versione, sull’Aventino) col proposito di abbandonare Roma
e costituire una nuova comunità. La ribellione venne superata con un accordo, che
da un lato riconosceva lo stato di fatto (e quindi il governo dei patrizi), ma d’altro
lato riconosceva alla plebe una propria autonomia sul piano della vita cittadina
(non sul piano militare), che consisteva nel diritto di riunirsi in assemblea
separata, di darsi proprie leggi (plebiscita) e di avere propri magistrati, detti
tribuni plebis.
5. Le magistrature superiori
Il termine magistratura deriva da magister, che indicava la posizione di
preminenza in un certo ambito: magister equitum era ad esempio il comandante
della cavalleria.
Nei tempi più antichi Roma aveva un assetto monarchico, impersonato dalla
figura del rex, che assommava in sé tutti i poteri pubblici (militari, civili e
religiosi) ed esercitava in modo esclusivo la funzione di comando. Non è sbagliato
però presentarlo come magistrato, al pari delle figure che ne prenderanno il posto
in epoca successiva, perché ci consente di configurare il suo potere come funzione
demandata dalla civitas. Rex significa reggitore, ed il termine esprime bene la
totalità dei poteri che gli competono; ma alla civitas, nel momento stesso in cui lo
sceglieva, si riconosceva un potere di autodeterminazione: siamo quindi di fronte
ad una comunità che si sceglie un capo, e non ad una popolazione sottoposta ad
un capo.
Il rex era designato dal senato, con una procedura, l’interregnum, che
consentiva di raccogliere i consensi, senza procedere ad una vera e propria
elezione. I senatori, a turno, assumevano per cinque giorni il titolo di interrex, e
questi, una volta raggiunto l’accordo, provvedeva alla nomina (creatio) del nuovo
rex, dopo di che si procedeva alla solenne investitura, sia religiosa che politica.
L’investitura religiosa aveva luogo attraverso la cerimonia della inauguratio,
in cui attraverso segni magici, in particolare il volo degli uccelli, si cercava il
consenso degli dei; l’investitura politica, che aveva luogo successivamente da
parte dei comizi, verosimilmente non aveva spazio diverso da quello
dell’acclamazione, ma venne intesa o forse anche configurata come lex, la lex
curiata de imperio (imperium era la funzione di comando, che il popolo
riconosceva al nuovo monarca). Si può quindi essere d’accordo con coloro che
sottolineano come la regalità romana non fosse né ereditaria né elettiva, ma avesse
luogo per designazione.
Il sistema monarchico durò per circa due secoli e mezzo dalla fondazione. Nel
509 però scoppiò una ribellione e secondo la tradizione venne instaurato un nuovo
ordinamento, che prevedeva al posto del re due magistrati annuali, datti consules,
eletti direttamente dai comizi (centuriati), i cui poteri decadevano
automaticamente allo scadere del mandato. Essi non solo dovevano condividere il
potere fra loro, condizionandosi reciprocamente col diritto di veto (intercessio),
convocare il senato, ma qui le opinioni erano divise: Appio suggeriva di affrontare la plebe coi
poteri consolari, in modo che, arrestato qualcuno, gli altri si sarebbero acquietati; Servilio
proponeva che si cercassero rimedi più miti. Solo alla notizia che i Volsci si stavano dirigendo con
l’esercito contro Roma Servilio potè prendere la decisione di liberare dalle catene coloro che si
fossero arruolati, ma conclusa la guerra, Appio ricominciò ad applicare le leggi sui debiti.
L’impostazione letteraria del racconto è evidente, ma al tempo stesso è innegabilmente
realistica.
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ma erano limitati anche dal fatto che il cittadino, contro i provvedimenti che
colpivano la persona, poteva difendersi ricorrendo ai comizi (provocatio ad
populum). Era l’instaurazione della libera res publica, intesa come governo
della civitas controllato dai cittadini, da cui è derivato il nostro termine
repubblica, come forma di governo antitetica alla monarchia.
Sul piano storico si dubita che le cose siano andate in modo così piano, e la
tradizione stessa fornisce in realtà notizie contraddittorie, che lasciano intravedere
una vicenda molto tormentata, sia per tensioni politiche interne che per guerre
esterne. Di fatto però questo è stato l’esito, ed è il solo da tener presente in questa
sede.
Ai consoli era conferito l’imperium, cioè il potere di comando, che si
distingueva in imperium militiae ed imperium domi. Il primo coincideva col
comando militare, ed era incondizionato, consono al proverbiale rigore della
disciplina militare romana. L’altro, che potremmo definire potere civile, aveva la
medesima ampiezza, nel senso che i consoli avevano il potere di costringere anche
fisicamente il cittadino (coercitio) e di metterlo a morte, ma non era
incondizionato; il cittadino infatti poteva contare, oltre che sulle due garanzie
ricordate sopra, anche sull’intercessio dei tribuni della plebe.
Rientravano nell’imperium domi il potere di presiedere il senato, di convocare
i comizi e proporre leggi, di indire le elezioni, di amministrare la giustizia sia in
campo civile che in campo penale. Originariamente spettavano ai consoli anche
tutte le altre funzioni pubbliche minori, che però potevano essere demandate a dei
collaboratori scelti da loro.
Una magistratura di carattere straordinario era il dictator. Nata come
magistratura d’emergenza, sospendeva il normale svolgimento delle funzioni
pubbliche, con lo scopo di concentrare il comando della civitas in una sola
persona, per un tempo limitato, di regola sei mesi. Come dice il nome, ciò che il
dittatore stabilisce (dicit) deve essere osservato, come se fosse legge. Egli ha
dunque qualcosa di più che l’imperium, e questo spiega perché sul finire della
repubblica si sia fatto ricorso a questa figura per imporre riforme costituzionali.
Fra le magistrature supreme sono infine da ricordare i censori (censores). Per
la verità erano privi di imperium, ed erano stati istituiti per procedere al census,
cioè alla stima dei patrimoni, al fine di inquadrare i cittadini nelle diverse classi
dell’ordinamento centuriato. Si trattava evidentemente di un compito di notevole
rilevanza sul piano politico, che assunse via via sempre maggiore importanza, in
quanto era inevitabile che venisse in considerazione anche il modo in cui la
ricchezza era stata acquisita o dissipata. Da lì aveva preso avvio una più generale
funzione, quella di valutare la condotta dei cittadini ed esprimere un giudizio di
biasimo (nota censoria) nei confronti di coloro che tenevano costumi non consoni
al rango. I censori venivano eletti ogni cinque anni, e restavano in carica diciotto
mesi. La carica, inizialmente riservata ai patrizi, venne estesa anche ai plebei, e
per iniziativa dei tribuni della plebe (plebiscito Ovinio) venne affidato anche il
compito di nominare i senatori in sostituzione di quelli deceduti (lectio senatus),
scegliendoli fra gli ex magistrati. Fu considerata pertanto la carica più prestigiosa,
coronamento supremo della carriera politica.
6.Le altre magistrature
Fra le ragioni che possono aver suggerito l’istituzione di due magistrati
supremi vi era stata probabilmente la necessità di assicurare che l’esercizio
dell’imperium potesse aver luogo contemporaneamente sia in città che fuori; non
era infrequente però che la guerra impegnasse entrambi i consoli, con la
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conseguenza che di fatto l’imperium domi veniva esercitato in modo saltuario da
sostituti (praefecti) designati dai consoli. Si venne così nella determinazione di
istituire un nuovo magistrato con gli stessi poteri dei consoli, anche se di
rango inferiore, il pretore.
Il nome praetor, che i Romani stessi ricollegavano ad una funzione di
comando militare (prae-itor, colui che guida), fa supporre che questa figura
esistesse già nell’esercito; ma qui interessa solo la nuova magistratura cittadina,
istituita nel 367 a.C. con la specifica funzione di amministrare la giustizia.
Il pretore, al pari dei consoli, aveva il potere di comando (imperium), che nel
campo civile assumeva forme diverse, a seconda della finalità perseguita: il
iussum, il decretum e l’edictum.
Iussum (comando) era l’ordine rivolto al singolo cittadino di fare o non fare
qualcosa; decretum (decisione), era il provvedimento con cui il pretore risolveva
questioni che ricadevano sotto la sua potestà; edictum (proclama) era il
provvedimento con cui stabiliva in via generale come dovevano essere affrontate
le questioni di sua competenza. In sostanza, mentre il iussum era un
provvedimento rivolto alla singola persona, l’edictum riguardava in generale tutti i
cittadini; d’altra parte, mentre l’edictum aveva carattere puramente
programmatico, il decretum aveva efficacia costitutiva: in altre parole, decideva
direttamente l’assetto delle situazioni affrontate. Un esempio caratteristico di
decreto era la sentenza di condanna, con cui veniva stabilito il trattamento da
applicare al reo.
Abbiamo qui un esempio molto significativo di impiego rigorosamente
tecnico del linguaggio, su cui si dovrà tornare. Merita attenzione anche l’uso del
termine dicere, perché a differenza del nostro verbo “dire”, assume il significato
di proclamare, cioè dichiarare in modo ufficiale e vincolante. Ce ne occuperemo
quando si chiarirà perché all’amministrazione della giustizia era stato dato il nome
di iurisdictio.
Una magistratura molto importante sul piano politico interno, forse alla resa
dei conti la più importante, è il tribunato della plebe. I tribuni plebis erano stati
riconosciuti inizialmente come semplici rappresentanti della plebe, ma il
giuramento con cui i plebei in occasione della secessione si erano impegnati a
vendicare con la morte chiunque avesse attentato alla loro incolumità, li aveva resi
fin dai primi tempi sacrosancti, cioè inviolabili. Ad essi spettava inizialmente il
ius auxilii a favore del plebeo ingiustamente perseguitato dai magistrati patrizi,
che in seguito divenne un generale diritto di intercessio contro i provvedimenti
ritenuti lesivi dei plebei. Spettava inoltre il potere di proporre ai concilia plebis
l’adozione di deliberazioni (plebiscita), da opporre alle leggi votate dai patrizi,
finché si riconobbe che anche i plebisciti potevano valere come leggi per tutti i
cittadini. Col definitivo pareggiamento fra patrizi e plebei, sancito dalla lex
Hortensia del 286 a.C., i tribuni della plebe divennero veri e propri magistrati del
popolo romano, e fu loro riconosciuto anche il diritto di convocare il senato.
Fra le magistrature con funzioni prettamente amministrative sono da ricordare
infine gli edili (aediles) ed i questori (quaestores). Ai primi era affidata la
sorveglianza degli edifici e delle opere pubbliche, nonché dei mercati, ed erano
detti curuli in quanto nei mercati avevano anche competenza giurisdizionale, che
esercitavano da un apposito scanno, la sella curulis. Ai questori invece era
affidata la contabilità pubblica, ed in particolare la gestione della cassa dello Stato
(aerarium).
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7. Il senato
Il senato (senatus) verosimilmente era sorto come un consiglio degli anziani
(senes), costituito dagli esponenti delle famiglie nobili (patres), che secondo la
tradizione erano stati designati in origine dallo stesso Romolo in numero di cento,
elevati poi a trecento. Al senato come s’è visto spettava la designazione del rex.
Con la caduta della monarchia il senato era diventato l’organo supremo della
civitas, che assommava in sé in modo permanente e collegiale la direzione politica
dello stato, mentre ai magistrati competevano solo funzioni specifiche e solo in
via temporanea.
Al senato compete anzitutto la politica estera, nella quale ha il compito di
rappresentare e far valere la maiestas populi romani, cioè la superiorità di Roma.
In particolare è il senato che riceve ed invia le ambascerie e definisce le
condizioni dei trattati o le operazioni belliche da intraprendere, anche se la
dichiarazione di guerra vera e propria e la ratifica dei trattati sono competenza dei
comizi centuriati. Da questa funzione direttiva della politica estera deriverà poi il
potere del senato di designare i governatori dei territori occupati (provinciae).
Sul piano della politica interna la funzione direttiva del senato si esprime
nell’auctoritas, cioè nel potere di ratifica. In linea di principio erano sottoposte
alla ratifica del senato tutte le deliberazioni dei comizi; di fatto però, per evitare
che ne derivassero conflitti politici molto gravi, si finì per adottare il principio
che il senato esprimesse un parere preventivo sulle proposte che i magistrati si
accingevano a sottoporre ai comizi. Analoga funzione svolgeva per la elezione dei
magistrati.
Nel corso della storia tuttavia si è verificato più di una volta che il dissenso
fra i magistrati (in particolare i tribuni della plebe), forti dell’appoggio popolare,
ed il senato, arroccato a difesa della classe nobiliare, sfociasse in aperto conflitto.
In questo caso il senato, come organo supremo della civitas, si era arrogato il
potere di dichiarare lo stato di emergenza (senatus consultum ultimum), con cui
venivano sospese le garanzie costituzionali e demandato ai consoli di perseguire il
magistrato ribelle (provideant consules ne quid res publica detrimenti capiat).
Un altro potere che il senato si era arrogato era quello di istituire delle
commissioni speciali (quaestiones), con lo scopo di procedere alla repressione
penale nei casi di maggior rilevanza politica. Di per sé era naturale che il
magistrato nei casi gravi si consultasse con il senato, ma le commissioni,
desautorando il magistrato dalla sua funzione, davano al senato un controllo
discrezionale sulla giustizia criminale che divenne uno dei motivi centrali della
lotta politica.
8. I collegi sacerdotali
Le popolazioni italiche, come i generale le popolazioni indoeuropee, avevano
una religiosità abbastanza semplice, che faceva presiedere ciascuna
manifestazione del mondo fisico da una divinità, e così pure gli aspetti più
importanti della vita sociale. Anche il culto aveva impostazioni molto
pragmatiche, rivolto in sostanza ad avere propizie le divinità che presiedevano alle
varie operazioni: sacrifici e preghiere per ingraziarsi gli dei, festività che ne
celebravano la potenza, riti espiatori dei comportamenti considerati offensivi, riti
divinatori per capire se erano favorevoli o sfavorevoli, feste di ringraziamento
quando le operazioni si concludevano in modo favorevole.
Dei riti romani originari sappiamo poco, perché la loro religiosità elementare
è stata sicuramente sopravanzata dai riti etruschi, assai più elaborati; occorre dare
atto però che nella sostanza erano rimaste estranee ai Romani impostazioni
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complesse, come la lotta contro il male, di cui abbiamo tracce nelle tombe
etrusche, ma non nei culti romani.
Il culto è considerato una funzione pubblica di primaria importanza,
demandato ad appositi collegi di sacerdoti, che vi provvedevano con rigoroso
rispetto della tradizione. E’ da sottolineare però che questi collegi non
costituivano delle caste, come accadeva presso i popoli orientali, ma esprimevano
anch'essi delle funzioni pubbliche, demandate al pari delle magistrature a
cittadini ritenuti degni e capaci di assolvere il compito affidato. L’assunzione al
sacerdozio aveva luogo di regola per cooptazione, cioè per scelta da parte di
coloro che già ne facevano parte.
In epoca storica il collegio più importante è senza dubbio quello dei
pontifices, che aveva una chiara connotazione politica, nel senso che doveva
sorvegliare la vita cittadina affinché non venisse recata offesa alle divinità. In
pratica erano i custodi dei mores, cioè dell’assetto di vita su cui si reggeva la
civitas, tanto che a loro risalgono le prime elaborazioni del diritto. Per questa loro
funzione avevano assunto anche una sorta di sorveglianza su tutti gli atti di culto,
anche quelli di origine più remota.
Altro collegio importante era quello dei fetiales, che sorvegliava, allo scopo di
propiziare gli dei, il rispetto delle regole relative ai rapporti con le comunità
esterne, in particolare per quanto atteneva alle ambascerie, agli ostaggi ed alle
dichiarazioni di guerra.
Per ogni divinità inoltre vi era un collegio sacerdotale che ne curava il culto, e
fra questi i più importanti erano i flamines, incaricati di svolgere i sacrifici in
onore degli dei a cui era affidata la protezione della città. Altri due collegi
importanti erano quelli degli augures e degli aruspices. I primi avevano il
compito di assumere gli auspicia, cioè di interpretare i segni del cielo, in
particolare il volo degli uccelli, per capire quale era l’atteggiamento degli dei sulle
questioni che la civitas doveva affrontare; gli altri, secondo rituali di derivazione
etrusca, cercavano di interpretare l'atteggiamento degli dei dalle viscere degli
animali sacrificati.
Un sacerdozio che pur essendo composto da più membri non aveva carattere
collegiale, perché costituito da donne, era quello delle vestali (virgines vestales),
che avevano il culto di Vesta, protettrice del focolare domestico.
Restano da ricordare, per avere un quadro sufficientemente completo della
spiritualità romana, di cui la religio, cioè il rispetto delle entità soprannaturali, era
certamente una componente fondamentale, i culti domestici, detti sacra, a cui ogni
famiglia attendeva con zelo, e riguardavano i manes, spiriti protettori dei defunti, i
lares, che impersonavano le virtù civili degli antenati, ed i penates, che erano
ancora gli antenati, come protettori della vita familiare.
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