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Era buona la prima
Madama Butterfly di Giacomo Puccini inaugura la stagione lirica al Teatro alla
Scala
/ 12.12.2016
di Sabrina Faller
Dopo Turandot con il finale di Berio e La Fanciulla del West senza «tagli», Riccardo Chailly propone
il recupero della partitura originale di Madama Butterfly (ricostruita da Julian Smith) che inaugura
la stagione scaligera e trionfa in quello stesso teatro che l’aveva rigettata il 17 febbraio 1904,
probabilmente vittima della guerra tra i due editori musicali più forti del momento, Ricordi e
Sonzogno.
Puccini, sedotto dall’omonimo dramma di David Belasco in un solo atto, visto a Londra nel 1900,
aveva audacemente proposto un’opera in soli due atti, di cui il secondo piuttosto lungo. Dopo il
fiasco, si affrettò a riscriverla in tre atti. Tagliò alcuni momenti nel primo atto che ridicolizzavano la
cultura giapponese, ad esempio un parente ubriaco di Butterfly, e addolcì con il rimorso il cinico e
razzista Pinkerton regalandogli «Addio, fiorito asil». Fece molto altro, e non in una sola volta, al
punto che è quasi impossibile stabilire quale delle almeno quattro diverse versioni riconosciute
dell’opera sia la definitiva. Su un punto alcuni studiosi oggi concordano, cioè sul fatto che, dal punto
di vista drammaturgico, la versione della prima assoluta alla Scala rappresenti la soluzione migliore.
Lo sostiene ad esempio il massimo biografo vivente di Puccini, il tedesco Dieter Schickling. Ovvio
perciò che la ripresa di questa prima versione costituisca un elemento di grande attrattività e
curiosità per il pubblico. L’allestimento del regista lettone Alvis Hermanis (che cura anche le scene
con Leila Fteita) sorprende per l’assenza di una cifra personale, che pure Hermanis possiede, ma
che sembra volere nascondere, a vantaggio di un’impronta solo tradizionale e, si direbbe,
addomesticata sulle attese di un pubblico fortemente conservatore.
Ci sono grappoli di geishe danzanti ad impreziosire lo spettacolo, e il grappolo bianco che apre il
primo atto dietro i pannelli luminosi delle porte scorrevoli, muovendo le braccia come ali di farfalla,
è davvero suggestivo. Ci sono momenti in cui interno ed esterno dialogano: penso all’inizio del
secondo atto, in cui la casa giapponese di Butterfly è diventata una casa occidentale con divanetto,
sedie, macchina da cucire, un’immaginetta di Gesù alla parete, e lei veste in abiti da giovane
americana dell’epoca, mentre il giardino con i ciliegi fioriti prima timidamente si affaccia tra le
pareti, poi erompe in primo piano nel fulgore della primavera.
Molti appassionati avranno, come me, atteso con ansia il lungo intermezzo della veglia in cui il
pubblico della «prima» del 1904 assistette al trascorrere della notte fino all’alba – l’idea era ripresa
da Belasco e aveva affascinato enormemente Puccini – in un tripudio di uccellini cinguettanti che
suscitarono l’ilarità della claque prezzolata. Qui la notte trascorre in un anonimo trionfo di eleganza,
raffinatezza e colori, gli uccellini si sentono appena, ma il momento della veglia si riconferma
centrale nella drammaturgia dell’opera. La presenza della moglie americana di Pinkerton, Kate, in
questa prima versione, è più accentuata, e nel contempo più morbida nei riguardi della giapponese,
e ci vorrà la mano di un regista francese, Albert Carré, per sancire definitivamente in scena – e di
conseguenza in partitura – l’isolamento di Butterfly, mentre al console statunitense spetterà l’ingrato
compito di «sostenere le ragioni di quell’immota bambola bionda», come spiega esaurientemente
Michele Girardi nel suo celebre saggio su Giacomo Puccini.
Nella versione scaligera assistiamo all’incontro tra le due donne, alla desolazione di Butterfly che
riconosce nei tratti occidentali della rivale una bellezza lontanissima dai canoni orientali ma
presente nel figlio suo e di Pinkerton, biondo con gli occhi azzurri, ed è in questo riconoscimento
della propria diversità razziale e del fallimento nel tentativo di congiungersi a una cultura che non è
la sua, che Cio-Cio-San concepisce l’idea della separazione dal bambino e la sua propria morte.
Madama Butterfly è uno scontro fra culture, che in questa prima versione presenta i suoi toni più
aspri. Maria José Siri è una Cio-Cio-San di presenza scenica incerta, ma quando dispiega la sua forza
drammatica convince e avvince. Bryn Hymel ci comunica un Pinkerton misuratamente volgare e
godereccio. Un plauso speciale è per la dolente Suzuki di Annalisa Stroppa e per lo Sharpless di
Carlos Alvarez, interprete perfetto anche al cinema. Vero re di questa produzione è in ogni caso
Riccardo Chailly, che ci regala un’opera potente e maestosa, eppure anche delicata e tenera in ogni
sfumatura dell’intensa tavolozza. Madama Butterfly è in scena alla Scala fino all’8 gennaio. Da
ricordare che per la prima volta si è potuto assistere alla «prima» in un cinema ticinese, il Lux di
Massagno: la sala piena ha sancito il successo dell’operazione.
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