COME VIVEVANO I ROMANI LE CASE DEI ROMANI Chiunque abbia visitato gli scavi di Pompei potrebbe essere indotto a credere che tutti i Romani vivessero in magnifiche e comode ville; in realtà a Roma la maggior parte dei cittadini viveva in angusti appartamenti in affitto (cenacula) posti all'interno di grandi casamenti popolari (insulae), mentre le signorili case di proprietà (domus) erano privilegio di una minoranza di famiglie ricche. Le case di città • Le domus, occupate di norma da un'unica famiglia, erano generalmente costituite dal solo pianterreno, mancavano di un prospetto esterno poiché sul lato della strada non si aprivano né finestre né balconi e contavano vari ambienti sia principali sia secondari destinati a un unico e preciso uso. L’ostium era l'ingresso principale attraverso cui si accedeva a un corridoio (vestibulum) a metà del quale si apriva la vera e propria porta di casa (ianua) sorvegliata da un portinaio (ostiarius). Oltre all'entrata padronale, ve n'era una di servizio (posticum) che si apriva su uno dei muri laterali della casa e dava su un vicolo. Il vestibulum dei palazzi signorili di Roma era un vasto salone ornato di splendide colonne e di statue e lì si raccoglievano i clientes in attesa di presentare al signore (patronus) il saluto del mattino (salutatio matutina) per averne in cambio un invito a pranzo o la sportula. La ianua che si apriva sul vestibulum immetteva in un altro corridoio (fauces) che conduceva all'atrium, la stanza principale della casa. L’atrium era il centro del corpo anteriore della domus romana e nell'epoca più antica costituiva il cuore della casa perché vi ardeva il focolare domestico ed era insieme stanza da lavoro, di ricevimento e camera nuziale. Ma con lo sviluppo degli ambienti posteriori della casa, l'atrio rimase un'anticamera grandiosa e sontuosamente arredata in cui si conservavano le immagini di cera degli antenati (imagines), gli dèi protettori della casa (Lares) in una cappelletta detta lararium, la cassaforte domestica (arca) e talvolta anche un ritratto marmoreo del padrone di casa. Nella parete dell'atrio situata di fronte alla porta si apriva una grande stanza, detta tablinum, con gli angoli delle pareti foggiati a pilastri e un'ampia finestra prospiciente il peristilio da cui riceveva luce ed aria: era la stanza-studio del padrone di casa, in cui veniva custodito l'archivio di famiglia. Sugli altri due lati dell'atrio si aprivano le alae, costituite da ambienti il cui uso era vario, anche se per lo più venivano destinati a camere da letto (cubicula). Attraverso un corridoio chiamato andron, dall'atrio si accedeva al peristilio (peristylium), la parte più interna e suggestiva della domus romana poiché consisteva in un giardino in cui crescevano con ordine e armonia erbe e fiori, circondato su ogni lato da un portico, generalmente a due piani, sostenuto da colonne: lo arricchivano numerose opere d'arte e ornamenti marmorei. Solo quando vennero a contatto con una civiltà più raffinata come quella greca, i Romani cominciarono a costruire nelle loro case ambienti esclusivamente destinati a sala da pranzo (triclinium), poiché in precedenza cenavano nell’atrium o nel tablinum. Il triclinio era generalmente una sala vasta e sontuosa fornita di più letti tricliniari (tori o triclinio) destinati ai commensali che allora usavano mangiare sdraiati. La grandiosità dei banchetti che si svolgevano nel triclinio farebbe pensare che la cucina (culina) fosse un ambiente molto ampio e razionalmente organizzato: si trattava invece di uno dei locali più angusti della casa (tanto dovevano lavorarci solamente gli schiavi...), uno sgabuzzino occupato per lo più da un focolare in muratura, invaso dal fumo che usciva da un'apertura praticata nel soffitto. Annesso alla cucina c'era il bagno (balneum), piccolo ambiente ad uso esclusivo della famiglia padronale, e infine le stanze per gli schiavi (cellae servorum o cellae familiares) la cui disposizione nella casa variava a seconda delle esigenze del padrone e della disponibilità dei locali. 1 Schema di domus. L'atrium della casa dei Cei a Pompei. Questo ambiente era per lo più di forma quadrangolare: al centro vi si trovava una larga vasca rettangolare detta impluvium perché destinata a ricevere l'acqua piovana che proveniva da un'ampia apertura (compluvium) praticata nel tetto inclinato verso l'interno. L'acqua veniva poi convogliata in una cisterna nel sottosuolo attraverso un'apertura praticata ai margini della vasca e circondata da un puteal («pozzo») cilindrico. • Le insulae, in stridente contrasto con le abitazioni signorili ora descritte, sorgevano nei quartieri popolari di Roma. Si trattava di costruzioni d'affitto a più piani che, sorte nel IV secolo a.C. dall'esigenza di offrire un alloggio entro il ristretto territorio dell' Urbs a una popolazione in continuo aumento, si erano sviluppate in senso verticale. Già nel III secolo a.C. numerose erano in città le insulae a tre piani, ma alla fine della repubblica e in periodo imperiale parecchi edifici superavano il sesto piano, come la famosa insula Felicles che si elevava su Roma come un grattacielo. 2 Costruite spesso da imprenditori privi di scrupoli che impiegavano materiali fragili e scadenti, amministrate da proprietari che miravano solo ad ottenere il massimo profitto da affitti esagerati, le insulae erano frequentemente preda di incendi e i continui crolli che minacciavano la sicurezza dei cittadini spinsero l'imperatore Augusto a proibire ai privati di elevare costruzioni al di sopra dei 70 piedi (21 m circa). L'insula comprendeva diversi appartamenti (cenacula), i più economici dei quali erano costituiti da pochi locali molto angusti e scarsamente areati che fungevano contemporaneamente da soggiorno, sala da pranzo e camera da letto. Anche le insulae però si dividevano in due categorie: nei palazzi più prestigiosi il pianterreno costituiva un'unità abitativa a disposizione di un unico locatario e assumeva quindi l'aspettò e i vantaggi di una casa signorile alla base dell'insula; nei palazzi popolari il pianterreno era invece occupato da botteghe o magazzini (tabernae) in cui gli inquilini non solo lavoravano ma vivevano e dormivano, poiché una scala di legno univa la bottega a un soppalco che costituiva anche l'abitazione dei bottegai (tabernarii). Particolarmente grave era il problema igienico perché tutti gli appartamenti mancavano di condutture d'acqua e di bagni: a Roma infatti le reti idriche e fognarie erano esclusivamente riservate all'uso pubblico e solo le domus e le case signorili al pianterreno delle insulae potevano usufruire, dietro pagamento di un canone molto alto, di un allacciamento privato. Veduta dell'atrium, del tablinum e del peristylium della Casa della Caccia a Pompei, del I secolo d.C; in primo piano è visibile una bocca di cisterna. 3 Particolare delle pitture di giardino del triclinium della Villa di Livia presso Roma, di età augustea (Livia era la moglie dell'imperatore Augusto). Questo genere di pittura, derivato dalle scenografie di età ellenistica raffiguranti i cosiddetti paradeisoi («giardini») orientali e molto diffuso nelle case romane, riflette l'amore dei Romani per la natura ma è anche carico di significati simbolici. Le villae di campagna • Nell'epoca più antica villa è «la fattoria», cioè un complesso di edifici simile alle «cascine» o ai «casali» delle nostre campagne, che comprendeva gli alloggi della intera familia (padroni e lavoranti sia liberi sia schiavi), le stalle per gli animali, i locali per la lavorazione dei prodotti agricoli (formaggi, olio, vino ecc.), i magazzini (horrea) per lo stoccaggio e la conservazione del grano, della frutta, del vino ecc. Essa era l'abitazione principale del patrizio romano, che si occupava personalmente del podere organizzando e controllando il lavoro della servitù; in città si recava soltanto per sbrigare i suoi affari e per adempiere ai suoi doveri di civis. A questo proposito venne tramandato come esemplare il comportamento del patrizio Lucio Quinzio Cincinnato che, nel corso della guerra contro gli Equi (metà del V secolo a.C.), ricevette l'annuncio della sua nomina a dittatore mentre era intento ad arare personalmente i suoi campi: corse a Roma, sconfisse gli Equi e ritornò immediatamente al suo lavoro nei campi. • A partire dal II secolo a.C, questo modello di vita ispirato a ideali di frugalità e austerità venne abbandonato a favore di un modello «cittadino»: i nobili eressero a loro abitazione principale le grandi domus in città pur continuando a trarre la loro ricchezza dalle proprietà terriere, affidate a uomini di fiducia detti vilici, (propriamente «amministratori della villa»): il padrone e la sua famiglia andavano nella villa solo d'estate per sfuggire alla calura di Roma. • In età imperiale, infine, la villa diventa soprattutto la «casa vacanze» immersa nel verde di curatissimi parchi e giardini, situata in una amena località di mare o di campagna: i romani molto ricchi ne possedevano più d'una, e facevano a gara per costruirla sempre più spaziosa e dotata di ogni comfort: oltre a numerose stanze (camere da letto, saloni per conversare e ascoltare musica, sale da pranzo, biblioteche ecc.), non mancavano mai un'ampia loggia con vetrate che permettesse di prendere il sole senza essere disturbati dal vento, lunghi e ampi porticati al piano terra nei quali fosse possibile non solo passeggiare stando «al coperto», ma anche andare a cavallo o in lettiga, e, infine, un vero e proprio complesso termale completo di piscine di acqua calda (calidarium), tiepida (tepidarium) e fredda (frigidarium). Parte integrante della villa signorile era, come si è detto, il parco con aiuole di fiori, piante rare, fontane capaci di produrre giochi d'acqua, viali ombrosi abbelliti da statue. Le infrastrutture 4 • Il riscaldamento. Scarsi erano presso i Romani i mezzi di riscaldamento, poiché anche il focolare non era in genere sormontato da un camino e quindi il fumo rendeva spesso l'aria irrespirabile. Per riscaldare i locali venivano usati bracieri o fornelli di varia forma e materiale. Solo nelle case più ricche, in età imperiale, fu installato un sistema di riscaldamento simile a quello in uso nelle terme, che consisteva nel far circolare aria calda nelle pareti attraverso un'intercapedine formata da mattoni forati all'interno. Grande tenuta agricola, mosaico cartaginese detto del dominus Julius (fine del IV secolo d.C, • L'illuminazione. Le case romane erano piuttosto buie anche di giorno per il ridotto numero di finestre e l'assenza del vetro trasparente. Di notte venivano illuminate con lampade ad olio (lucernae) o candelae diverse dalle nostre, formate da cordicelle ricoperte di sostanze grasse o cera, che venivano intrecciate come funi e fissate a candelabri detti lychni. Per spostarsi da un luogo all'altro si faceva luce con la lanterna a mano (lanterna), retta da uno schiavo adibito a questa mansione (lanternarius), e formata da un lume a olio protetto da sottili pareti di mica. Le fiaccole di legno resinoso dette taedae venivano invece usate in occasioni importanti come i matrimoni o i funerali. • L'arredamento. Nelle case romane l'arredamento era ridotto al minimo poiché le stanze, eccetto l’atrium e il triclinium, erano molto piccole. Con un unico sostantivo collettivo supellex («suppellettile») i Romani definivano tutto ciò che serviva all'arredamento e che si riduceva in genere ai letti, ai sedili, alle tavole e agli armadi, oltre naturalmente a tutto ciò che veniva usato per ornare la casa: quadri, baldacchini, tende (velario) e altro. Numerosi e di vario tipo erano i lecti; si badi, tuttavia, che i Romani usavano il termine lectus, i per indicare non solo i nostri «letti», ma anche «poltrone» e «divani», e con un aggettivo ne precisavano l'uso: ad esempio, il lectus cubicularis era il letto singolo, mentre il lectus iugalis o genialis era il letto matrimoniale; lectus lucubratorius era chiamata una comoda poltrona per leggere e studiare, lectus triclinialis era il divanetto su cui i commensali si sdraiavano per pranzare. I vari lecti erano poi ornati da cuscini detti pulvinari o, se destinati all'appoggio del capo, cervicalia. Per sedersi si usavano vari tipi di sedie, dal semplice scamnum o subsellium, uno sgabello a 4 gambe, alla sella, senza spalliera ma con i braccioli, alla comoda cathedra con una spalliera lunga e arcuata. Non esisteva una «tavola da pranzo», ma tavolini (mensae) di legno o di prezioso avorio posti presso il letto tricliniale ove i commensali potessero appoggiare le stoviglie. 5 Lungo le pareti dei vari locali c'erano poi cassapanche (arca, ae) e armadi (armarium, ii) di fattura più o meno pregiata, ora appoggiati a terra ora appesi al muro, come i nostri pensili. Fra le arcae ce n'era una particolarmente importante e preziosa, la cassaforte, fatta di materiali robusti e corredata di grosse borchie. Braciere in bronzo di età imperiale proveniente da Pompei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Tavola con esposizione di vasellame d'argento (affresco della tomba di Vestorio Prisco, Pompei). 6 LA SCUOLA Nella Roma antica non esisteva una scuola di stato che gratuitamente impartisse una cultura di base a tutti i cittadini. Si riteneva infatti che il compito di educare e istruire i figli appartenesse unicamente alla famiglia, che vi provvedeva in base alle sue condizioni economiche e sociali. È una conquista moderna, figlia dell'Illuminismo settecentesco, il principio secondo cui tutti i cittadini, a qualunque ceto appartengano, sono titolari di un «diritto all'istruzione» e che, di conseguenza, lo stato ha il dovere di istituire una scuola di base obbligatoria e gratuita. I corsi di studio Il più antico modello educativo della società romana prevedeva che della educazione dei figli si occupasse nella prima infanzia la madre e in seguito, soprattutto per i maschi, il padre, che aveva il compito di inserire il ragazzo nella vita economica e politica, trasmettendogli quindi anche i valori religiosi, sociali e civili che lo educassero a essere un buon cittadino. In genere tuttavia, soprattutto nelle città, la famiglia provvedeva alla istruzione dei propri figli affidandoli, a seconda delle proprie possibilità, a un pedagogo privato (si trattava per lo più di uno schiavo) o mandandoli in una scuola, ove un maestro radunava diversi bambini e ragazzi e impartiva un insegnamento collettivo. Quando pensiamo alla scuola romana tuttavia non dobbiamo pensare a grandi edifici suddivisi in aule con palestre e laboratori, ma, specie per la scuola elementare, dobbiamo immaginare locali angusti, talvolta «a cielo aperto», lungo le strade principali, spesso separati dal vociare della gente solo da una semplice tenda; l'arredamento era povero e scomodo: una sedia a braccioli per il maestro (cathedra) e sgabelli per i ragazzi che dovevano tenere le tavolette cerate (i quaderni di allora) sulle ginocchia. L'ambiente decisamente squallido e poco invitante rispecchiava la scarsa considerazione che nella società romana aveva il servizio scolastico e il bassissimo prestigio sociale ed economico di maestri e professori. Lo stipendio di un maestro elementare fissato dall’Edictum de pretiis di Diocleziano (301 d.C.) era di 50 denari per alunno al mese, il che significava che, per raggiungere il guadagno mensile di un operaio specializzato o di un artigiano, il maestro doveva radunare almeno 30 alunni; al grado scolare successivo il professore (grammaticus) stava decisamente meglio, il suo stipendio era infatti di 200 denari al mese per allievo; di poco più elevato (250 denari) era infine lo stipendio del docente di livello superiore (rhetor). L'anno scolastico incominciava a marzo, dopo i 5 giorni di festa (Quinquatrus) dedicati a Minerva, dea della cultura e quindi protettrice anche degli studenti, e prevedeva un periodo di vacanze estive. Si andava a scuola mattino e pomeriggio tutti i giorni, ad eccezione di quelli festivi e delle Nundinae, un giorno ogni nove, dedicato al mercato. Il corso di studi completo comprendeva tre gradi di istruzione corrispondenti, grosso modo, alla nostra scuola elementare, media e superiore. 7 Cippo funerario con scena di scuola. Gli scolari, disposti su due file, scrivono su tavolette; un altro scolaro sembra dettare, da un rotolo di papiro, sotto la guida del maestro (Roma, Museo Nazionale Romano). Affresco proveniente da Pompei raffigurante la fustigazione di uno scolaro nel Fòro. Lo scolaro viene appoggiato sulle spalle di un compagno, mentre un altro gli immobilizza le gambe. Nella scuola romana le punizioni corporali facevano parte del programma educativo e lo strumento usato era generalmente la ferula, una bacchetta così chiamata dal nome della pianta da cui spesso veniva ricavata (I secolo d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale). • Scuola primaria (ludus litterarius): l'insegnamento era impartito dal litterator che con metodi lenti e decisamente faticosi, fra i quali erano molto importanti le percosse, insegnava ai bambini a leggere, scrivere e far di conto. • Scuola media: l'insegnamento veniva impartito dal grammaticus ed era basato sullo studio della lingua e della letteratura greca e latina. Venivano letti e analizzati con uno studio pedante e minuzioso i più famosi testi poetici di cui si imparavano anche a memoria ampie parti. Dei Greci il più letto era Omero; fra i Latini, almeno fino al I secolo a.C., erano «in programma» soprattutto i poeti dell'età arcaica come Livio Andronico, Ennio, Plauto e Terenzio, ai quali successivamente si aggiunse Virgilio. La matematica e le «materie scientifiche» venivano studiate solo in quanto fornivano elementi necessari per la comprensione dei testi letterari. • Scuola superiore: il completamento dell'istruzione (e solo pochi potevano permetterselo) era affidato al rhetor, cioè al professore di" eloquenza che aveva il compito di preparare i giovani all'esercizio dell'oratoria, indispensabile per emergere nella vita politica e per esercitare l'avvocatura. Gli allievi studiavano le tecniche fondamentali dell'«arte del ben parlare» (rhetorica), analizzavano le opere in prosa più famose e si esercitavano a comporre e a declamare discorsi su argomenti fittizi, spesso di carattere mitologico. Tipiche esercitazioni delle scuole di retorica, specie in età imperiale, erano le controversiae e le suasoriae: le prime consistevano in discorsi nei quali si dibattevano due tesi opposte, nelle seconde si doveva invece cercare di persuadere qualcuno a fare o a non fare qualche cosa, portando le argomentazioni più opportune e svolgendole nel modo più efficace (ad esempio «Agamennone delibera se sacrificare o no Ifigenia», oppure «Silla delibera se abdicare o no»). A coronamento del ciclo completo di studi, i Romani ricchi mandavano i figli a perfezionarsi ad Atene, ove si trovavano le più famose scuole di filosofia e di retorica. 8 Piccolo abaco, risalente all'età imperiale: era utilizzato nella scuola primaria per imparare a contare (Roma, Museo Nazionale Romano). Frammento di sarcofago con un istitutore e i suoi allievi. Nelle famiglie romane abbienti i figli venivano spesso affidati a istitutori che li aiutavano nelle lezioni e nei compiti (ll-lll d.C, Città del Vaticano, Museo Gregoriano Profano). Libri e quaderni Noi siamo abituati ad associare la scuola e la cultura alla carta, anzi sarebbe addirittura impensabile immaginare il nostro mondo (e non solo la scuola) senza la carta (cioè senza libri, quaderni, giornali, riviste ecc.). Ma nel mondo romano la carta non esisteva, anche se esisteva la parola: charta era infatti chiamato il foglio di papiro che, assieme a quello di pergamena e alle tavolette cerate, costituiva uno dei più comuni (e costosi) materiali scrittori. • Il papiro era una pianta molto diffusa in Egitto, usata per fabbricare fogli su cui scrivere sin dal 3000 a.C. Il midollo della pianta (detto liber) veniva ridotto in sottili strisce, disposte l'una accanto all'altra in senso verticale; su di esse ne venivano stese e incollate altre disposte però in senso orizzontale, così da ottenere un foglio (charta) abbastanza compatto e consistente, opportunamente levigato con un tornio o a colpi di 9 martello. Si scriveva in genere su una sola facciata; i fogli venivano quindi uniti fra di loro e arrotolati intorno a un bastoncino (umbilicus) a formare un volumen (dal verbo volvo che significa appunto «avvolgere»). Il «libro» si presentava dunque sotto forma di rotolo, più o meno grosso, costituito da una lunga striscia di «pagine» e si leggeva srotolandolo: devolvere ad umbilicum significava propriamente «srotolare un volumen fino in fondo» quindi, in senso figurato, «leggere un libro sino alla fine». Tavoletta cerata rinvenuta a Pompei in scrittura capitale corsiva Affresco da Pompei che ritrae una donna con penna e rotolo. In passato e' stato considerato un ritratto della poetessa Saffo. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) 10 La grafìa corsiva era molto diversa dalle familiari lettere maiuscole che si vedono nelle iscrizioni. Questo è un frammento di una lettera scritta con l'inchiostro su una tavoletta di legno e ritrovata in Britannia. La lettera è indirizzata a un decurione di nome Lucio al quale si porgono i ringraziamenti per un dono di ostriche (I secolo d.C, Londra, British Museum). • La pergamena altro non era che pelle di capra o più spesso di pecora opportunamente conciata e derivava il suo nome dalla città di Pergamo (in Asia Minore) che nel II secolo a.C. ne fu il più famoso centro di produzione. I fogli di pergamena potevano dare origine a due diversi tipi di libro: a un volumen del tutto simile a quello fatto con chartae di papiro o a un codex costituito da fogli piegati e tagliati in quattro (quaternio, da cui il nostro «quaderno») uniti fra loro, come avviene nei libri di oggi. • Per scrivere si usavano inchiostri di diverso colore, fra i quali il più comune era quello nero (atramentum), e ci si serviva di cannucce appuntite (calamus) o di penne d'oca (penna). • Volumina e codices avevano evidentemente un costo molto elevato, di conseguenza per documenti di minore importanza («brutte copie», appunti, esercizi scolastici ecc.) si usavano tavolette di legno con i bordi rialzati su cui veniva spalmato uno strato consistente di cera di colore scuro (venivano chiamate cerae, codicilli o anche pugillares). Per scrivere si usava un bastoncino (stilus o graphium) con una estremità a punta e l'altra a spatola: con la prima si incideva la cera {arare, exarare), con l'altra si cancellava (stilum vertere significava letteralmente «girare lo stilo», quindi, in senso figurato, «cancellare», «correggere»). • Solo persone molto ricche potevano permettersi una biblioteca personale ben fornita ed essere quindi buoni clienti dei vari librai che, nelle loro botteghe, servendosi di copisti, riproducevano i libri che venivano loro richiesti. Fra i librai, che erano in genere anche editori, uno dei più famosi fu Tito Pomponio Attico, destinatario di molte lettere di Cicerone di cui fu forse l'amico più fidato. 11 Strumenti di scrittura ritrovati a Pompei: teche per inchiostro, uno stilo metallico, una penna metallica e un raschietto per eradere scrittura ad inchiostro (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). In questo famoso affresco pompeiano un panettiere e la moglie esibiscono orgogliosamente i simboli della ricchezza acquisita, tra i quali gli strumenti per scrivere; infatti nella ritrattistica romana i rotoli di papiro e le tavolette rivelano non tanto un interesse culturale quanto uno status sociale (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). 12 GIOCHI E SPETTACOLI Sui giochi sia dei bambini sia degli adulti abbiamo poche notizie frammentarie: nessuno degli autori latini ne parla diffusamente e dobbiamo quindi accontentarci dei rari accenni presenti qua e là nelle opere letterarie e figurative (pittura vascolare, bassorilievi ecc.). Qualche cosa di più sappiamo degli spettacoli «di massa» come le gare dei cavalli e i cruenti ludi gladiatori che attiravano grandi folle, scatenavano risse fra tifosi e alimentavano vorticosi giri di scommesse. Giochi e divertimenti dei bambini I giochi dei bambini romani non erano molto diversi da quelli dei bimbi di oggi: si divertivano con la trottola (turbo), con la corda, con il cerchio (orbis, trochus), ornato talvolta di piccoli campanelli, che veniva fatto girare con un bastoncino (clavis). Le bambine amavano giocare con le bambole, che potevano essere rozzi pupazzi di legno o di terracotta, o raffinate opere d'artigianato in legno o in avorio costruite in modo che la testa, le braccia e le gambe fossero perfettamente snodabili. Esistevano poi anche i «corredini» per le bambole che comprendevano, né più né meno di oggi, pettini, anelli, vestiti ecc. Anche i bambini romani amavano i giochi con la palla: si trattava di un pallone leggero gonfio d'aria (follis), diverso da quello, più pesante e duro, usato dai grandi. Molto praticati erano poi i giochi collettivi di abilità e destrezza: il più noto era quello delle noci, che consisteva nel far crollare da una distanza prestabilita un mucchietto di noci oppure nel centrare con un lancio perfettamente calibrato la bocca di un recipiente. I giochi con le noci dovevano essere molto diffusi, tant'è vero che per dire che la fanciullezza era finita si usava l'espressione «abbandonare le noci» (nuces relinquere). Diffusissimi erano poi i giochi di costruzione o di fantasia, come quelli ricordati dal poeta Orazio che fra le più comuni attività dei bambini cita «costruire cassette, attaccare topi a un carrettino, giocare "a pari e dispari", andare a cavallo di una canna». Con qualche variante insomma i bambini romani giocavano proprio come i nostri: non è infatti difficile riconoscere, dietro gli accenni degli scrittori o esaminando le figure di qualche bassorilievo, giochi come guardia e ladri, l'altalena, il nascondino, la mosca cieca (che nel mondo antico si chiamava «mosca di rame») e tanti altri ancora, nati dalla fantasia dei piccoli che, ieri come oggi, imitano le attività degli adulti, giocando «ai soldati», «ai giudici», «ai cavalli», oppure facendo i giochi d'azzardo, come la morra. Giochi di ragazzi raffigurati nelle pitture murali provenienti dalla tomba di via Portuense (Roma, Museo Nazionale). 13 Bambola di Crepereia Thriphaena, 150 - 160 d. C. Roma, Museo Nazionale Romano. Giochi e divertimenti dei grandi Molto diffusi erano i giochi d'azzardo, ufficialmente proibiti, come la morra (digitis micare) o i dadi nella varietà degli astragali (in latino tali, bastoncini con quattro facce numerate) e delle tesserae, del tutto simili ai nostri dadi. Esistevano poi giochi di società «intelligenti» simili alla nostra dama e ai nostri scacchi, consistenti nel muovere su una scacchiera (tabula lusoria) dei pezzi (calculi) secondo regole ben precise. Molto praticati, specie fra i giovani, erano alcuni giochi «di movimento» come quelli con la palla, fra i quali particolarmente popolari erano il trigon e soprattutto l’harpastum, un gioco di squadra piuttosto violento che prevedeva anche durissime mischie. Per tutte le attività all'aperto il punto di riferimento era il Campo Marzio, per la ginnastica le Terme e le palestre private. Del tutto sconosciuti erano gli sport della montagna quali lo sci, l'alpinismo o anche il semplice escursionismo alpino. Comunque nel mondo romano l'attività sportiva non rientrava fra gli hobby e i divertimenti, e men che meno aveva l'importanza che i Greci le attribuivano per un'armonica formazione dell'uomo (si pensi al significato che nel mondo ellenico avevano le Olimpiadi!): a Roma veniva praticata solo «per mantenersi in forma», per il resto i Romani amavano più lo sport-spettacolo che lo sport praticato direttamente, ed erano quindi più «tifosi» che «sportivi»; insomma allo stadio ci andavano non per giocare o per gareggiare ma soltanto per assistere alle gare e agli spettacoli gladiatori. Fra i divertimenti di massa, specie dei giovani, oggi ai primi posti bisognerebbe porre la discoteca o i concerti dei cantanti e dei complessi alla moda, nulla del genere esisteva invece in Roma antica. Per il costume romano (ed anche greco) la musica, la danza e il canto sono sempre legati a manifestazioni rituali (molti riti comportavano danze sacre) o comunque a forme di spettacolo consistenti in una esibizione di abilità e di grazia, riservate dunque a danzatori professionisti. La danza, inoltre, rientrava anche nella educazione delle fanciulle perché contribuiva a rendere aggraziati e armonici I movimenti del corpo, ma, per lo meno a Roma, era ritenuto sconveniente che una signorina di buona famiglia si appassionasse troppo e amasse esibirsi in pubblico. Non parliamo poi dei maschi, ai quali il ballo era severamente interdetto: dare del ballerino (saltator) a un uomo romano significava rivolgergli uno degli insulti più gravi. Danze (decisamente poco serie) e canzoni (tutt'altro che rituali) costituivano comunque il contenuto delle due forme di spettacolo teatrale che appassionavano maggiormente i Romani: il mimo (spettacolo di musica e danza) e il pantomimo (simile alla nostra commedia musicale). 14 Il gioco dei dadi (tesserae) raffigurato in un affresco di età imperiale nella taverna di Mercurio a Pompei. Questo mosaico di età imperiale raffigura una donna con delle nacchere che danza seguendo la musica di un doppio flauto suonato da un compagno; gruppi di artisti si esibivano scritturati per apparire a cene importanti (Città del Vaticano, Museo Pio Clementino). Spettacoli del circo e ludi gladiatori In Grecia, e soprattutto ad Atene, lo spettacolo che attirava grandi masse era quello teatrale (tragedia e commedia), i Romani invece preferivano decisamente assistere a gare sportive (soprattutto corse di cavalli) e ai combattimenti fra gladiatori. • La passione per gli spettacoli del circo (ludi circenses) era fortissima e coinvolgeva tutti i ceti sociali: il poeta Giovenale (II secolo d.C.) osservava amaramente che ai suoi tempi il popolo romano desiderava soltanto due cose, panem et circenses, cioè «avere la pancia piena e godersi gli spettacoli del circo». Nella Roma imperiale c'erano ben quattro circhi (oggi diremmo stadi o ippodromi) di cui il più grande e il più imponente era il circo Massimo, capace di contenere 250 000 spettatori. Vi si svolgevano corse di cavalli montati da fantini o di cocchi tirati da un numero variabile di cavalli: si andava dalla veloce biga con due soli cavalli al pesante carro con tiro a dieci (decemiugis). Il «tifo» per i colori delle varie scuderie era altissimo e provocava manifestazioni incredibili e spesso violente, anche perché attorno alle gare c'era un vorticoso giro di scommesse. 15 • Alla passione per il circo si associava quella per gli spettacoli violenti e sanguinosi dell'arena, ludi gladiatorii e venationes. I ludi gladiatorii, che in epoca imperiale si svolgevano nell'anfiteatro Flavio (il Colosseo), consistevano in combattimenti fra gladiatori reclutati in genere fra schiavi, prigionieri di guerra e condannati a morte, organizzati da impresari (lanìstae) che avevano istituito vere e proprie scuole in cui gli uomini venivano allenati a combattere e a morire bene. Il combattimento, infatti, si svolgeva all'insegna della morte-spettacolo e seguiva un preciso rituale: dopo una sontuosa cena (che per molti sarebbe stata l'ultima), i gladiatori con un abito scarlatto fregiato d'oro facevano il loro ingresso nell'arena e ne percorrevano tre volte il perimetro quindi sostavano davanti al podio delle autorità e rivolgevano all'imperatore il tradizionale saluto: Ave Caesar, morituri te salutant. Dopo il controllo delle armi e il sorteggio delle coppie, aveva inizio la serie dei combattimenti che il pubblico seguiva avidamente (anche perché sulla vita e sulla morte dei gladiatori si facevano scommesse), pronto a protestare e a invocare l'intervento dei lorarii («staffilatoli») se i gladiatori davano l'impressione di non impegnarsi a fondo. La lotta terminava b con la morte o con la resa di uno dei due: in quest'ultimo caso il gladiatore sconfìtto alzava la mano a chiedere grazia; mentre nei tempi più antichi questa veniva concessa o rifiutata dallo stesso avversario, in età imperiale era lasciata all'arbitrio dell'imperatore che, in genere, si atteneva agli umori del pubblico: se era favorevole alla grazia sventolava i fazzoletti e sollevava il pollice gridando Mitte! («Lascialo andare!»), se invece ne voleva la morte, abbassava il pollice (pollice verso) e gridava iugula! («Sgozzalo!»). Il vincitore riceveva premi e, dopo diverse vittorie, il definitivo congedo. • Molto amato era anche un altro tipo di spettacolo non meno feroce e cruento, il combattimento fra fiere (elefanti, bufali, orsi, leoni, tigri ecc.) o tra un gladiatore specializzato (bestiarius) e una o più fiere. In molti casi l'esposizione alle fiere (ad bestias) veniva scelta come modalità spettacolare per eseguire una condanna a morte, tale fu ad esempio la sorte di molti Cristiani. Ma altre atrocità si consumarono negli anfiteatri di Roma quali la rappresentazione realistica di battaglie navali, o di vicende storiche e mitologiche nelle quali la morte del protagonista non era una finzione scenica: Icaro veniva realmente fatto precipitare dall'alto! La folla assisteva entusiasta e avida di sangue, alla ricerca di sensazioni sempre più forti; imperatori e impresari cercavano di accontentarla inventando spettacoli sempre più atroci, in un crescendo di orrore che, forse più di ogni altra cosa, rivela il distacco che ci separa dalla civiltà romana. Essa non conosceva il concetto della sacralità della persona umana in quanto tale, portatrice di per sé di diritti inviolabili, ma distingueva fra «uomini liberi» titolari di dignità e garantiti dalla legge, e «gli altri», privi di diritti, in balia del loro proprietario (un privato o lo stato stesso) che poteva usarli a suo piacimento. Fu il Cristianesimo a porre fine a tale prospettiva proponendo la dottrina della sostanziale pari dignità di tutti gli uomini, tutti creati da Dio a sua immagine e somiglianza; con i primi imperatori cristiani vennero aboliti, fra il IV e il V secolo, sia i ludi gladiatorii sia l'abitudine di gettare ad bestias i condannati a morte. 16 Quattro pannelli pavimentali (emblemata), ciascuno raffigurante un auriga delle quattro fazioni del circo (l'azzurra o veneta, la verde o prasina, la rossa o russata e la bianca o albata), con il rispettivo cavallo (III secolo d.C, Roma, Palazzo Massimo alle Terme). Mosaico con scena di gladiatori (IV secolo d.C. Madrid, Museo Archeologico). 17 Una rissa tra tifoserie in un affresco pompeiano di epoca imperiale. La rissa sanguinosa tra Pompeiani e Nocerini è in corso, sia all'interno sia all'esterno dell'anfiteatro di Pompei. 18 I ROMANI A TAVOLA La frugalità era una delle virtù tipiche del mos maiorum e di conseguenza la cucina romana più antica era impronta a grande sobrietà e basata su pochi e semplici alimenti. E tale continuò sostanzialmente ad essere per la gran maggioranza della popolazione, anche quando giunsero a Roma prelibatezze e specialità alimentari da ogni parte dell'impero e i ricchi gareggiavano nell'allestire banchetti sontuosi, citati dagli scrittori satirici come esempi di pacchianeria e di cattivo gusto. I pasti quotidiani I pasti quotidiani dei Romani erano normalmente tre: lo ientaculum o prima colazione (del mattino), il prandium o seconda colazione (di mezzogiorno) e la cena, il pranzo della sera che costituiva il pasto fondamentale della giornata. I Romani in genere si svegliavano col sorgere del sole e verso le nove del mattino (ora terza) facevano una rapida e leggera colazione (ientaculum) a base di uova, latte e formaggio per ritemprare le energie. Era detta ientaculum anche la merenda che i fanciulli portavano a scuola. Verso mezzogiorno (ora sesta) veniva consumato, per lo più in piedi, un frettoloso spuntino (prandium) a base di cibi caldi o freddi che erano spesso avanzi della cena della sera precedente. Alle tre del pomeriggio (ora nona), e d'estate anche più tardi, cominciava la cena (o coena), il pasto più importante della giornata. In questo affresco pompeiano si vede una bottega di panettiere con vari tipi di pane e focacce disposti sul banco. Il pane dei Romani si distingueva in pane nero (panis plebeius o rusticus) fatto con farina contenente molta crusca, pane bianco ma non finissimo (panis secundarius) e pane bianco di lusso (panis candidus) impastato con farina raffinata e priva di crusca (I secolo d.C, Napoli, Museo Archeologico Nazionale). La cena Presso la gente più povera la cena era a base di polenta (puls) di farro (farratum), di miglio (fitilla) o di semola (alica). I cereali, ridotti in farina o lasciati in grani interi, venivano cotti in acqua o latte e la polenta, tenuta piuttosto morbida, poteva essere accompagnata, a seconda delle disponibilità, da uova, formaggio, interiora di animali o miele (puls punica). Dal II secolo a.C. si diffuse, accanto alla polenta, l'uso del pane che poteva essere d'orzo, di miglio, di spelta o di altri cereali. La cena dei ricchi invece constava di tre momenti distinti: il gustus (o gustatio o promulsis), la cena vera e propria e le secundae mensae. Il gustus consisteva in un antipasto durante il quale venivano serviti crostacei, uova preparate in vari modi, olive verdi e nere, ortaggi crudi e cotti (i Romani amavano particolarmente i funghi, i porri, la lattuga e gli asparagi) e crostacei. Il gustus era accompagnato dal mulsum, bevanda a base di vino leggero mescolato a miele. La cena vera e 19 propria era costituita da diverse portate (fercula o cenae) a base di carne, pollame, selvaggina o pesce delle più varie qualità: erano ritenute preli bate le carni di ghiro (glis), che veniva appositamente allevato nei gliraria, di pavone e di fenicottero. Nel corso della cena si beveva vino, solitamente caldo, puro (merum) o allungato con acqua. Durante i banchetti importanti, tra la cena vera e propria e il dessert (secundae mensae) venivano offerte libagioni alle statuette dei Lares domestici. Le secundae mensae infine comprendevano dolci di vario tipo, come focacce al miele (placentae), e frutti: mele, pere, pesche, noci, ciliegie, introdotte a Roma dopo le guerre mitridatiche, albicocche, originarie dell'Armenia, e datteri, importati dall'Africa. Quando il banchetto si protraeva per tutta la notte, dopo il dessert aveva inizio la comissatio, cioè una serie di brindisi beneauguranti che i commensali, inghirlandati, indirizzavano ai presenti su proposta di uno di loro, eletto a sorte rex convivii o arbiter bibendi. Questa «natura morta» fa parte di un affresco della Casa di Giulia Felice a Pompei. Sul ripiano sono disposti un mortaio con un grande cucchiaio, un vassoio ricolmo di uova e una brocca per il vino (oinochoe); alla parete sono appesi quattro tordi e un asciugamano frangiato. Una piccola anfora, anch'essa per il vino, è appoggiata all'angolo del ripiano. L'ambiente del banchetto I Romani del periodo arcaico e del primo periodo repubblicano erano soliti consumare la cena con molta semplicità nell’atrium, vicino al focolare. Quando la struttura della domus si ampliò, alla cena venne riservato un locale apposito detto, con una parola di origine greca, triclinium, dal nome dei tre divani su cui si stendevano i commensali per pranzare. In età imperiale, l'esigenza di ospitare a banchetto più di nove persone fece aumentare le dimensioni del triclinio e il lectus tricliniaris venne sostituito con un letto arcuato detto sigma, perché aveva la forma del sigma lunato greco (C), e poteva ospitare da 6 a 12 persone. Le stoviglie Il vasellame era costituito da piatti piani (patinae), fondi (catini) e da portata (lances); vi erano inoltre l'ampolla per l'aceto (acetabulum) e la saliera (salinum). Le coppe per le bevande (pocula) erano di varie forme (larghe senza piede né manici le paterae, alti con piede e manici ad ansa i calices...) e potevano essere di semplice coccio senza ornamenti (pocula pura) o di metalli preziosi (argento e oro) finemente cesellati (pocula gemmata). Il vino, posto in un grosso vaso (crater o cratera) in cui veniva mescolato con acqua calda prima di essere servito, era attinto per mezzo di un mestolo (cyathus) e versato nei pocula da uno schiavo addetto a tale compito {puer ad cyathum). Il cibo, prima di essere servito, veniva suddiviso in piccole porzioni (pulmenta) da uno schiavo detto scissor o carptor e i commensali lo portavano alla bocca con le mani, essendo sconosciuto 20 l'uso della forchetta. Poco usato era anche il coltello (culter), mentre era necessario il cucchiaio (cochlear) per sorbire i cibi liquidi come le minestre di verdura. L'uso della tovaglia (mantele) si affermò solo nel I secolo d.C. mentre il tovagliolo (mappa) era fornito dall'ospite o portato da casa da ciascun commensale che alla fine del pranzo vi avvolgeva gli avanzi da portar via. L'affresco pompeiano mostra una scena di banchetto. Solitamente il triclinio ospitava tre letti posti lungo le pareti: su ciascuno di essi prendevano posto tre persone e nello spazio tra i tre letti era posta la mensa o tavolo d'appoggio. I! letto tricliniare (lectus triclinaris) era simile a una larga panca coperta con un materasso su cui i commensali si sdraiavano di sbieco col gomito sinistro appoggiato al cuscino (I sec. d.C, Casa dei casti amanti, Pompei). 21 LE ISTITUZIONI POLITICHE L'ordinamento politico romano si può definire una «costituzione mista» che si articolava in un complesso meccanismo di poteri contrapposti ma complementari, con la finalità di stornare il pericolo dell'affermazione di una tirannide e di garantire stabilità e continuità allo stato. Si fondava su una struttura formata da un organismo direttivo (il senato), da sei magistrature ordinarie (consolato, pretura, censura, edilità, questura e tribunato della plebe) e da tre assemblee popolari (i comizi curiati, centuriati e tributi): vi erano poi numerose cariche collegiali inferiori e una magistratura straordinaria, la dittatura, alla quale si faceva ricorso nei momenti di particolare necessità per lo stato. Il senato Il senato (senatus) era l'organo direttivo della vita politica romana, di cui tracciava le fondamentali linee programmatiche per garantire continuità di indirizzo e stabilità di governo allo stato. Durante la monarchia i senatori (patres), il cui numero era salito a trecento dai cento dell'epoca di Romolo, venivano scelti dal re solo tra le gentes patrizie e svolgevano una semplice funzione consultiva. Con l'avvento della repubblica il loro numero fu accresciuto con l'ammissione di nuovi membri (conscripti, «aggiunti»), scelti tra le più ricche famiglie plebee; i senatori vennero così chiamati patres et conscripti poi la congiunzione et cadde e l'espressione patres conscripti assunse valore formulare, venne usata cioè nel linguaggio ufficiale per indicare l'insieme dei senatori riuniti per deliberare. I senatori erano nominati a vita e l'ammissione al senato, affidata in un primo tempo ai consoli e ai censori, dal I secolo a.C. divenne automatica per tutti quanti avessero ricoperto la questura, cioè la prima delle magistrature del cursus honorum. Il primo della lista dei senatori, detto princeps senatus, era solitamente il più anziano e il suo giudizio era tenuto in gran conto; in età imperiale invece il princeps senatus fu sempre l'imperatore. Segni distintivi dell'ordine senatorio erano la larga lista di porpora (latus clavus) intessuta nella tunica dall'alto fino al lembo inferiore, l'anello d'oro (anulus aureus) e i calzari rossi (calcei senatorii). Le competenze del senato si estendevano a tutti i campi della vita dello stato. In ambito legislativo discuteva e approvava in forma preventiva i progetti di legge da presentare ai comizi. In ambito esecutivo era suo compito dichiarare, in situazioni di emergenza, lo stato d'assedio con la nomina del dittatore o, con una speciale delibera (senatus consultum ultimum) proclamare lo stato di emergenza affidando i pieni poteri ai consoli con la formula solenne Videant consules ne quid res publica detrimenti capiat, «provvedano i consoli a che lo stato non riceva alcun danno». In campo militare il senato stabiliva il reclutamento o lo scioglimento dell'esercito, ne fissava il bilancio, divideva le province e i contingenti tra i comandanti, decretava il trionfo per i generali vittoriosi (imperatores). Dirigeva inoltre la politica estera poiché aveva il diritto di dichiarare guerra, di concludere trattati di pace o di alleanza e di stringere rapporti diplomatici coi paesi stranieri. In campo finanziario controllava l'erario e i beni dello stato, redigeva il bilancio, stabiliva il gettito tributario e dirigeva la zecca. In ambito religioso svolgeva un'attenta azione di sorveglianza: dopo aver consultato i competenti collegi sacerdotali, stabiliva le cerimonie e i sacrifici, disponeva la consultazione dei Libri Sibillini e prendeva provvedimenti contro i culti stranieri in difesa della religione di stato. Il senato si riuniva normalmente nella Curia, ma anche i templi (in particolare quello della Concordia e di Giove Statore) potevano costituire luoghi di riunione: tutte le sue deliberazioni (senatus consulta) avevano valore di leggi. L'opinione di Polibio Per lo storico greco Polibio (202-120 circa a.C.) la costituzione della repubblica romana presenta un aspetto che la differenzia da tutte le forme di governo in vigore presso gli altri popoli: essa riesce, infatti, a riunire il 22 meglio del regime monarchico (i consoli esercitano poteri simili a quello di un re), aristocratico (il senato è costituito dai nobili) e democratico (l'intero popolo è chiamato a deliberare nei Comizi). Le componenti dunque che nello stato romano gestivano il potere, erano quelle tre [consoli, senato e popolo] di cui ho parlato in precedenza. Tutti i settori dell'amministrazione, considerati singolarmente, erano così equamente ed opportunamente ordinati e regolati attraverso l'azione di queste componenti, che nessuno avrebbe potuto dire con sicurezza se questo sistema politico fosse, nel suo complesso, aristocratico o democratico o monarchico. Ed era ovvio che fosse così. Se infatti si fissava lo sguardo sul potere dei consoli, la costituzione appariva completamente monarchica e regia; se invece si guardava al potere del senato, essa dava l'impressione di essere aristocratica; se uno infine considerava il potere del popolo, questa gli sembrava chiaramente democratica. Ciascuna di queste componenti aveva, nell'ambito della costituzione, proprie competenze. (Storie VI, 11, 11-13; trad. A. Vimercati) Le assemblee del popolo Nella repubblica romana la «sovranità» (maiestas atque imperium) apparteneva, almeno per principio, al popolo che non la esercitava però direttamente ma la trasmetteva e conferiva ai magistrati. Pertanto per eleggerli e per accettare o rifiutare una legge, il popolo si riuniva in tre forme di pubbliche assemblee (comitia): i comizi curiati, centuriati e tributi, a seconda che i cittadini fossero convocati per curie, per centurie o per tribù. • Comizi curiati (comitia curiata): i comizi curiati, la cui istituzione risaliva all'età regia, costituivano la più antica forma di assemblea a cui partecipavano solo i membri delle gentes patrizie atti alle armi, suddivisi in 30 curie risalenti alla ripartizione del popolo romano - operata da Romolo - in tre tribù (Ramnes, Tities e Luceres), ognuna delle quali era divisa in 10 curie. Mentre in età regia questi comizi, pur avendo carattere consultivo, si esprimevano sulle più importanti questioni dello stato, in età repubblicana persero d'importanza e si mantennero solo per esplicare tradizionali atti formali quali il conferimento dell'imperium ai magistrati eletti dai comizi centuriati. Ricostruzione dell'edificio della Curia Giulia (I secolo a.C.-lll secolo d.C), situata nel Foro Romano e sede del senato. L'edificio, iniziato da Cesare e terminato da Augusto, fu poi ricostruito da Diocleziano, all'epoca del quale appartiene l'edificio in mattoni oggi visibile, ripristinato nel 1930-36. 23 • Comizi centuriati (comitia centuriata): i comizi centuriati erano l'assemblea di tutti i cittadini che avessero compiuto diciassette anni, militarmente ordinati in centurie, sulla base della riforma che la tradizione attribuiva a Servio Tullio ma che storicamente si fa risalire al primo periodo della repubblica. Il permanente stato di guerra della città in espansione aveva infatti reso necessario ampliare la base del reclutamento, cui aveva provveduto Servio Tullio suddividendo, in base al censo, tutto il popolo romano in 5 classi, ripartite a loro volta in centurie, cosi chiamate perché dovevano fornire ciascuna cento uomini all'esercito. La prima classe, che era anche la più ricca dal momento che vi appartenevano coloro che possedevano un capitale non inferiore a 100000 assi (monete di rame), era divisa in 98 centurie, la seconda, la terza e la quarta erano formate da 20 centurie ciascuna, la quinta da 30, mentre i nullatenenti (capite censi, «censiti solo come individui») e i proletari (ricchi solo di prole) erano considerati al di sotto delle classi (infra classem) e costituivano le ultime 5 centurie. Poiché nei comizi il popolo votava per centurie, risultava che la prima classe, costituita da ben 98 centurie sulle complessive 193, aveva da sola oltre la metà dei voti, così che le deliberazioni più importanti venivano di fatto prese dai cittadini più ricchi anche se costituivano una minoranza nella città. In compenso essi contribuivano in modo massiccio alle finanze pubbliche e fornivano il maggior numero di uomini all'esercito. I comizi centuriati, proprio per la loro struttura militare, si riunivano nel Campo Marzio, fuori dal pomerium, ed erano presieduti dai magistrati cum imperio, cioè con potere militare (consoli, pretori, dittatori). Spettava loro l'elezione dei magistrati superiori, l'approvazione delle leggi, la decisione in ultima istanza sulle dichiarazioni di guerra o sulle trattative di pace; avevano infine potere decisionale in tutte le cause penali che prevedevano per il cittadino la perdita dei diritti civili (de capite civis Romani). Per tali motivi i comizi centuriati assunsero un potere sempre maggiore e le loro deliberazioni ebbero forza di leggi (leges centuriatae). Particolare del fregio dell'ara di Lucio Domizio Enobarbo, che illustra la cerimonia della registrazione dei cittadini nelle liste elettorali: un cittadino togato si presenta al pubblico funzionario per dichiarare il proprio censo, tenendo in mano i documenti che lo attestano. • Comizi tributi (comitia tributa): i comizi tributi rappresentavano la forma più completa di assemblea popolare poiché ad essi intervenivano tutte le categorie di cittadini suddivisi in tribù territoriali (4 urbane e 31 rustiche) in base al luogo di abitazione. Nei primi tempi della repubblica vi partecipavano solo i plebei e venivano quindi chiamati concilia plebis («adunanze della plebe»), ma dopo la conquista dei diritti civili e politici da parte della plebe, tali assemblee 24 acquistarono una sempre maggiore importanza perché vi partecipava tutto il popolo, compresi i patrizi, e le loro deliberazioni (plebiscito) assunsero vigore di leggi per tutti i cittadini. I comizi tributi, inoltre, eleggevano i tribuni della plebe e i magistrati inferiori (edili, questori ecc.) ed esercitavano anche il potere giudiziario nel caso in cui un cittadino, condannato ad una pena capitale, avesse fatto ricorso all'assemblea popolare (provocatio adpopulum). Si radunavano per lo più nel Foro ed erano presieduti dai tribuni della plebe, poi sempre più spesso da magistrati superiori (come i consoli), a conferma della loro importanza. Le magistrature Con il termine magistratus si indicavano sia la carica sia la persona alla quale era stato legittimamente conferito un pubblico potere: i magistrati dunque detenevano il potere esecutivo. Si dividevano in magistrati «ordinari» e «straordinari», a seconda delle circostanze della loro nomina, e in magistrati cum imperio, o sine imperio in base al tipo di potere che detenevano. L’imperium, di cui erano investiti i magistrati superiori (pretori, consoli e dittatore), comportava il comando dell'esercito in guerra, l'interpretazione e l'applicazione della legge (compresa la condanna a morte) e il controllo amministrativo dello stato. Tutte le cariche repubblicane avevano caratteristiche comuni: erano elettive perché tutti i magistrati, tranne quelli straordinari come il dittatore, erano eletti dai comizi curiati o tributi; erano temporanee perché tutti i magistrati duravano in carica un anno (il dittatore però veniva eletto per sei mesi e i censori per diciotto); erano collegiali perché tutte le deliberazioni dovevano essere prese all'unanimità e il veto (intercessio) di un solo membro arrestava qualunque procedura. Tutti i magistrati inoltre erano responsabili dei loro atti e al termine del mandato dovevano render conto ai censori della loro gestione. Sarcofago con processus consularis, cioè la processione per l'entrata in carica di un console, che avveniva a Roma all'inizio dell'anno secondo un cerimoniale ben preciso (III secolo d.C, Roma, Palazzo Massimo alle Terme). Le cariche politiche (honores), proprio perché considerate «onori», venivano ricoperte gratuitamente dal cittadino che doveva quindi possedere un patrimonio che potesse garantire a lui e alla sua famiglia un tenore di vita confacente al rango; è questo uno dei motivi per cui il cursus honorum, cioè la carriera politica che procedeva per gradi prestabiliti dalla questura al consolato, era generalmente riservato a un ristretto gruppo 25 di famiglie nobili o ricche (nobilitas). L'aspirante ad una carica pubblica svolgeva la propria propaganda elettorale (ambitus) aggirandosi per la città vestito di una toga candida (per questo era detto candidatus, da cui l'italiano «candidato») e accompagnato da uno schiavo (nomenclator) che gli ricordava i nomi delle persone incontrate affinché egli potesse assicurarsi il loro voto. L'accesso alle magistrature era però consentito solo ai cittadini liberi optimo iure, che godessero cioè della pienezza dei diritti civili e politici, mentre ne erano esclusi quelli minuto iure come i liberti e gli stranieri residenti a Roma (peregrini). Magistrature ordinarie • Consoli (consules): i due consoli, la cui nomina aveva luogo nei comizi centuriati, erano i supremi magistrati dello stato e rimanevano in carica per un anno. Detenevano l’imperium loro conferito con atto formale dai comizi curiati e pertanto amministravano tutti gli affari interni ed esterni della repubblica, comandavano gli eserciti, curavano l'applicazione delle leggi, convocavano e presiedevano il senato. Qualora un console in carica morisse, veniva nominato un sostituto detto consul suffectus. In tempo di pace i consoli indossavano come segno distintivo la toga praetexta bordata di porpora, mentre in guerra vestivano il manto rosso detto paludamentum. A riprova della importanza del consolato si tenga presente che i Romani per designare gli anni usavano per lo più i nomi dei consoli in carica: di fondamentale importanza erano dunque i «fasti consolari», cioè gli elenchi dei consoli che venivano custoditi e aggiornati dai Pontefici. Allo scadere dell'anno i consoli diventavano consulares («ex consoli») e in qualità di proconsoli (proconsules) venivano inviati a governare una provincia. • Censori (censores): istituita nel 443 a.C. la censura era, rispetto alla dignità, la carica più elevata tra le magistrature romane. I censori, in numero di due, venivano eletti ogni cinque anni, scelti generalmente tra gli ex consoli (viri consulares) di provata moralità, e rimanevano in carica diciotto mesi. Redigevano le tabulae censoriae, liste dei cittadini divisi in base al censo (census) ai fini degli obblighi tributari e militari, amministravano l’ager publicus controllavano le entrate e le spese dello stato, vigilavano sulla moralità dei senatori e dei cittadini infliggendo la nota censoria a chi non si comportava degnamente. Soli tra i magistrati non erano sindacabili e il loro operato non era sottoposto al veto (intercessio) dei tribuni o di altri magistrati. Propaganda elettorale sui muri di Pompei: «Votate per Marco Samellio Modesto, degno della res publica»; alla terza riga inizia un altro testo che definisce il candidato «iuvenem probum», giovane onesto (copia di una scritta murale di Pompei, Roma, Musei Capitolini). • Pretori (praetores): i pretori detenevano ed esercitavano il potere giudiziario. Nel 336 a.C, anno di istituzione di tale magistratura, vi era un solo pretore, poi dal 242 a.C. ne furono eletti due, il praetor urbanus, giudice delle contese tra cittadini romani, e il praetor peregrinus, per dirimere le cause fra forestieri. Con l'incremento della popolazione e il moltiplicarsi dei processi il numero dei pretori crebbe fino a sedici. Duravano in carica un anno e la loro funzione consisteva nel presiedere le commissioni giudiziarie nelle cause penali e nel nominare i giudici e convocare le parti nelle cause civili. Detenevano la più alta carica a Roma in assenza dei consoli e per tale motivo poteva esser loro conferito l’imperium compreso il comando dell'esercito. Allo scadere del loro mandato ai pretori veniva generalmente assegnato il governo di una provincia in funzione di propretori (propraetores). 26 • Edili (aediles): gli edili (due patrizi, detti «curùli», e due plebei) svolgevano funzioni di polizia urbana, sorvegliavano l'ordine pubblico, la pulizia delle strade e delle Terme, si occupavano degli approvvigionamenti, esercitavano un particolare controllo sul mercato del grano e allestivano giochi e spettacoli pubblici. • Questori (quaestores): istituiti all'origine della repubblica con funzioni inquisitorie (da quaero, «indagare»), assunsero poi la funzione di tesorieri dello stato. Eletti inizialmente in numero di due, il loro numero aumentò fino a quaranta. Duravano in carica un anno e amministravano il pubblico erario, riscuotevano le imposte e i tributi, provvedevano alle spese dell'esercito. I quaestores urbani risiedevano a Roma mentre i quaestores militares seguivano i generali in guerra con funzione di tesorieri. Tribuni della plebe I tribuni della plebe {tribuni plebis), istituiti dopo la secessione della plebe sul Monte Sacro o sull'Aventino nel 494 a.C, passarono nel corso dei secoli da due a dieci; erano scelti tra i plebei nati liberi, ma successivamente furono eletti anche dei patrizi. Convocavano e presiedevano le assemblee della plebe (concilia plebis) e i comizi tributi (comitia tributa). La loro persona era sacra e inviolabile (sacrosancta) e difendevano i diritti della plebe esercitando il diritto di veto (ius intercessionis) sulle deliberazioni degli altri magistrati ritenute lesive degli interessi dei plebei oppure chiamando a discolparsi, una volta usciti di carica, quei magistrati che avevano agito contro la plebe. Magistrature straordinarie • Dittatore (dictator): veniva eletto dal senato in circostanze eccezionali, in casi di grave pericolo esterno o interno per lo stato, godeva di poteri straordinari e assoluti, compreso il comando dell'esercito (imperium). Durava in carica sei mesi. • Comandante della cavalleria (magister equitum): era il luogotenente del dittatore da cui veniva scelto e nominato e, come il dittatore, durava in carica sei mesi. Cariche collegiali minori Oltre alle magistrature del cursus honorum e a quelle straordinarie, esistevano a Roma alcuni collegi permanenti o provvisori di funzionari statali detti «minori» poiché il loro ufficio non comportava l'ammissione di diritto in senato, ma costituiva il primo gradino per giungere alla questura (primus gradus honoris). Questi pubblici ufficiali dapprima erano solo aiutanti dei magistrati poi, quando anch'essi furono eletti nei comizi tributi e ottennero una loro potestas, furono riconosciuti come funzionari dello stato. Fra le cariche più importanti ricordiamo i tresviri capitales, che avevano il compito di procedere all'arresto di cittadini, sorvegliare le carceri, eseguire le condanne a morte; i tresviri aere argento auro flando feriundo, con il compito di dirigere la produzione delle monete. C'erano poi funzionari addetti alla pulizia e alla manutenzione delle strade, alla vigilanza notturna, all'approvigionamento, agli acquedotti ecc. Amministrazione della giustizia L'amministrazione della giustizia o giurisdizione (iurisdictio) a Roma non era stabile ed esclusivo ufficio di magistrati specificamente istituiti, ma era piuttosto un'emanazione deìl'imperium. Mentre durante il periodo regio il compito di giudicare spettava al re, assistito dal consiglio dei senatori, in periodo repubblicano tale compito rientrava nelle competenze di diversi magistrati che godevano del diritto di infliggere punizioni (ius cöercitionis), che potevano andare dalle semplici multe alla condanna capitale, contro cui il cittadino poteva ricorrere al giudizio del popolo riunito nei comizi tributi (provocatio adpopulum). Le cause civili e penali erano affidate a giudici scelti tra gli appartenenti all’ordo senatorius o equestris che, eletti per un anno, operavano secondo le direttive dei pretori. 27 • Per i procedimenti civili il pretore, urbanus o peregrinus a seconda che si trattasse di cause tra cittadini romani o forestieri, sceglieva fra coloro che ne avevano i requisiti un giudice unico per il caso in questione, previo accordo delle parti in causa. • Per i procedimenti penali invece, che in ultima istanza spettavano ai comizi curiati, furono costituite col tempo commissioni permanenti di giudici (quaestiones perpetuae) presiedute da un pretore o da un suo delegato detto quaesitor. Ogni commissione, corrispondente più a meno alle nostre «sezioni» del Tribunale, era specializzata nel giudizio di determinati tipi di crimini: concussione (de repetundis), alto tradimento (maiesta-tis), peculato (peculatus), assassinio (inter sica-rios), avvelenamento {de venefìcio), violenza (de vi), falsa testimonianza (de falso), illegalità negli atti pubblici (de ambitu). Fuori Roma e nelle province amministrava la giustizia il governatore (proconsole o propretore) coadiuvato da magistrati (praefecti iure dicundo) istituiti a tale scopo. In caso di processi intentati contro gli ex governatori delle province per malgoverno, il giudizio spettava al senato che istituiva apposite commissioni d'indagine. Verso di moneta coniata nel 55 a.C. A da Quinto Cassio Longino in memoria del suo antenato Lucio Cassio che nel 137 aveva introdotto il voto segreto nelle assemblee giudiziarie: al centro il tempio di Vesta, fra le colonne una sedia curule, a sinistra l'urna per il voto, a destra una tavoletta con le lettere AC (absolvo/condemno). (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana). 28 L'ESERCITO L'esercito sino alla fine del II secolo a.C. era formato esclusivamente da cittadini delle prime classi censitane (quindi in grado di provvedere al proprio armamento) che, abbandonate temporaneamente le loro attività, accorrevano alla chiamata del console o del dittatore a difendere in armi una causa che sentivano come propria, a combattere, come si diceva, pro aris et focis, propriamente «per gli altari e i focolari», cioè a difesa di quanto avevano di più sacro. Con la riforma di Mario, avvenuta gradualmente alla fine del II secolo a.C., l'arruolamento fu esteso anche ai proletari, cioè ai cittadini nullatenenti, che venivano quindi mantenuti e equipaggiati dallo stato e che proprio dalla loro condizione di soldati traevano la loro fonte di sostentamento: era la premessa di un esercito «di mestiere», composto di professionisti fedeli, più che allo stato, alla concreta figura del loro comandante, dal cui successo dipendeva anche la loro paga e soprattutto dipendevano gli «extra» (bottino, prede di guerra ecc.). L'esercito assunse di conseguenza un peso politico sempre maggiore e in età imperiale furono numerosi gli imperatori che raggiunsero il potere supremo solo grazie alle truppe che li sostenevano: l'esempio lo diedero Cesare e Augusto, che uscirono vittoriosi dalle guerre civili proprio grazie alle legioni che preferirono essere fedeli ai loro comandanti che al senato di Roma. La legione La legione (legio) dopo la riforma attuata da Mario (fine II secolo a.C.) comprendeva, nella sua struttura ideale, 6000 uomini, suddivisi in 10 coorti (cohortes) di 600 uomini, ciascuna delle quali era formata da 3 manipoli (200 uomini ciascuno) comprendenti 2 centurie (100 uomini). Il comandante in capo (dux) era il console o un altro magistrato cum imperio, cioè con i poteri propri di un comandante supremo (pretore, proconsole, propretore ecc.), affiancato da uno staff di collaboratori di cui facevano parte i legati (i «luogotenenti», oggi diremmo gli ufficiali di Stato Maggiore), i tribuni militum («ufficiali superiori»), in parte di elezione popolare in parte di nomina del comandante, il praefectus equitum («comandante della cavalleria»), un questore (con compiti amministrativi e logistici), il praefectus fabrum («comandante del genio») ecc. L'ossatura della legione era costituita dai centurioni (centuriones), corrispondenti ai nostri sottufficiali o agli ufficiali inferiori che avevano il comando delle centuriae, le unità operative più piccole di 100 uomini ciascuna; essi vivevano a contatto con la truppa, condividevano rischi, disagi e paure dei soldati e, con il loro comportamento, erano in grado di determinare il «tono» di un reparto. Non mancavano poi reparti speciali, formati dagli addetti a servizi particolari, come i fabri (oggi diremmo i genieri), o i suonatori di strumenti quali i cornicines («suonatori di corno») o i tibicines («suonatori di tromba»), o come gli addetti ai bagagli ed agli animali da soma (calones) ecc. Accanto alle truppe regolari c'erano quelle ausiliarie (auxilia), fornite dalle province o dagli alleati e ripartite in cohortes di 400-500 uomini, in genere indicate con il nome della popolazione di origine. Tipiche truppe ausiliarie erano gli squadroni di cavalleria, in genere 10 per legione, per un complesso di 300 uomini. 29 Cammeo con l'aquila romana, emblema militare divenuto poi simbolo del potere imperiale (Vienna, Kunsthistorisches Museum). Bassorilievo che raffigura un combattimento tra romani e barbari (Il secolo d.C, Roma, Museo Nazionale Romano). Le coorti pretorie, composte da soldati scelti. Bassorilievo del I secolo a.C. 30 Stele del centurione bolognese Marco Cellio, appartenente alla XXII legio e ucciso dai Germani nella foresta di Teutoburgo nel 9 d.C. La corona di quercia significa che Marco aveva salvato in battaglia un cittadino romano; i medaglioni sulla corazza, disposti secondo un ordine e con un significato preciso sono decorazioni militari corrispondenti alle moderne medaglie. Ai lati del centurione le effigi di due liberti periti insieme a lui (Bonn, Rheinsches Landesmuseum). L'armamento individuale Armamento difensivo (arma) • Elmo: era di due tipi, la galea di cuoio rinforzato da anelli metallici e la cassis interamente metallica. Sull'elmo degli ufficiali c'era un pennacchio formato da piume o da crini di cavallo (crista o iuba). • Scudo: il più comune era lo scutum ovale lungo m 1,20, convesso, formato da assi di legno ricoperte di cuoio e con i bordi metallici; era caratteristica, al centro, una protuberanza chiamata umbo e che serviva a deviare le frecce. Più leggeri erano il clypeus e la parma, un piccolo scudo rotondo in dotazione alla cavalleria ed ai reparti d'assalto. • Corazza (lorica): si andava dalla semplice placca metallica per proteggere il petto, al giubbetto di maglie (lorica hamata) o di lamine metalliche (lorica squamata), al corsetto costituito da tre pezzi snodabili (lorica segmentata), che divenne il modello più diffuso in età imperiale. • Schinieri o gambali: si chiamavano ocreae ed erano in metallo o in cuoio. Armamento offensivo (tela) • Spada: il modello più importante e più diffuso era il micidiale gladius, di origine iberica, lungo 70 cm e con lama a doppio taglio. Veniva conservato in un fodero di legno appeso ad una bandoliera di cuoio (balteus), portata a tracolla e pendente dal lato destro. C'era poi l’ensis, più lunga e più sottile e, a partire dalla fine del III secolo, la spatha (da cui l'italiano «spada») a lama piatta e lunga un metro, • Giavellotto: ogni soldato aveva in dotazione un pilum, pesante giavellotto di origine sannitica che poteva superare i due metri e pesare più di due chili, formato da un manico di legno e da una punta metallica. Esso veniva scagliato contro il nemico all'inizio della battaglia, da una distanza di 30-35 metri. Simile al pilum era l’hasta che si differenziava per la minor lunghezza della parte in ferro. • Proiettili vari: erano di moltissimi tipi, si andava dalle sagittae (frecce da scagliare con l'arco), ai glandes, proiettili di pietra o di metallo che venivano lanciati con le fionde dai frombolieri (funditores), fra i quali erano particolarmente famosi quelli delle isole Baleari. 31 Le macchine da guerra Con il termine generico di tormenta si indicavano gli strumenti e le macchine sia di difesa sia di offesa, che venivano impiegate in battaglia e negli assedi. Macchine da offesa • Ariete (aries): si trattava di una lunga trave con ad una estremità un pesante blocco metallico spesso sagomato a forma di ariete; veniva usato per sfondare le porte della città assediata o per aprire brecce nelle mura. • Macchine da lancio: le più semplici erano le ballistae («balestre»), foggiate ad arco, e gli scorpiones («scorpioni») che servivano per lanciare frecce o pietre; le più complesse erano le pesanti catapultae, con le quali si potevano scagliare a notevole distanza grossi proiettili e che costituivano quindi l'artiglieria pesante dell'epoca. • Torri (turres): erano le tipiche macchine da assedio in legno, alte quanto le mura della città assediata. Accostate alle mura consentivano di «spiare» i movimenti dei nemici e di portare gli uomini direttamente sugli spalti. Macchine difensive • Plutei: erano paraventi di legno rivestiti di pelle e montati su ruote che servivano a proteggere i soldati assedianti dai proiettili durante l'avanzata. • Musculi (propriamente «topolini»): erano delle gallerie mobili, ove stavano e lavoravano i soldati assedianti. • Vineae (propriamente, «vigne», «pergolati»): erano delle macchine con tetto a forma di pergolato, sotto cui gli assedianti trovavano riparo dai proiettili dei nemici nella loro avanzata. Particolare di un rilievo proveniente dal tempio della Fortuna Primigenia a Preneste, con nave da guerra romana; vi sono raffigurati alcuni soldati con le loro armature (ll-l secolo a.C. Musei Vaticani) L'accampamento 32 L'accampamento (castra, castrorum) era sempre di forma quadrata o rettangolare, percorso da due vie .principali (il cardo e il decumanus) al cui incontro sorgeva il «reparto comando» (praetorium) con la tenda del comandante (tabernaculum ducis) e, attorno, quelle dei legati e dei tribuni; alle spalle del praetorium c'erano, disposte secondo un preciso allineamento e raggruppate per reparto, le tende dei soldati {contubernio), ciascuna delle quali ospitava sino a dieci uomini. Predisporre l'accampamento esigeva la precisione e l'esperienza di diverse squadre di specialisti: dapprima toccava agli agrimensores o gromatici (oggi diremmo ai geometri) stabilire con esattezza il tracciato (castra metari) con l'aiuto dei metatores (dal verbo metior, «misurare»), che per determinare gli angoli si servivano di uno strumento che si chiamava groma (donde il termine gromatici); subentravano quindi sterratori e muratori che, sotto la guida di centurioni esperti, scavavano tutto intorno all'area prescelta un ampio fossato (fossa) e, con l’agger, cioè con la terra dello scavo unita ad altri materiali (pietre, legname ecc.) costruivano un terrapieno sormontato da una palizzata (valium). Le opere di difesa e di protezione (munitiones) erano completate da una serie di fortini (castella) in grado di ospitare le sentinelle (excubiae, custodes, vigiles) ed eventuali piccoli reparti di pronto intervento (praesidia). Le porte, ben sorvegliate, erano quattro: sui due lati principali si aprivano la decumana e la praeto-ria, poste ai due estremi del decumanus; sugli altri due lati c'erano invece la principalis dextera e la principalis sinistra, in corrispondenza alla via principalis, coincidente in genere con il cardo. Lo schema geometrico dell'accampamento romano è alla base della pianta di molte città europee (uno degli esempi più famosi è Torino), caratterizzate da un reticolo di strade che si incrociano ad angolo retto. Soprattutto gli accampamenti stanziali (stativa castra), in cui l'esercito trascorreva i lunghi mesi durante i quali erano sospese le operazioni militari (autunno-inverno), erano vere e proprie piccole città completamente autonome dal punto di vista logistico e con una vita economica e commerciale piuttosto animata: al seguito dell'esercito, c'era infatti una nutrita schiera di personaggi (vivandieri, osti, commercianti, avventurieri ecc.) che viveva vendendo beni e servizi ai soldati, in genere acquartierata fuori dall'accampamento, ma in continuo rapporto con i militari. I legionari costruivano l'accampamento producendo da soli i materiali necessari, come questa antefissa (tegola frontale di un tetto); vi sono impressi il nome e l'emblema della XX legione, un cinghiale alla carica (I secolo d.C, Londra, British Museum). 33 Accampamento militare (castrum). Esso veniva costruito, se possibile, su un terreno rialzato, nei pressi di un corso d'acqua o di una sorgente, e con intorno prati per il foraggio. 34 LA RELIGIONE E GLI DÈI La religione romana più antica, a differenza di quella greca, non conosceva le grandi divinità antropomorfe, (che presentano cioè caratteristiche fìsiche e spirituali vicine a quelle degli uomini) ma aveva carattere sostanzialmente animistico e magico. L'uomo romano, cioè, si sentiva circondato da un numero veramente incredibile di piccole divinità (i numina), ciascuna delle quali aveva competenza su un particolare aspetto o su un particolare momento dell'esistenza. Furono gli Etruschi e i Greci a introdurre a Roma le divinità antropomorfe, a riprodurne le sembianze in statue ed a costruire «una casa» per gli dèi (il tempio). Parlando della religione romana, bisogna dunque distinguere fra divinità «indigene», tipiche della religione più antica e di quella popolare, e divinità «olimpiche», importate dalla Grecia a partire dal II secolo a.C.; bisogna inoltre operare una ulteriore distinzione fra «religione privata» (di cui era sacerdote il paterfamilias) e «religione pubblica» (di cui erano sacerdoti dei magistrati o comunque dei «pubblici funzionari»). La religione arcaica e popolare: i numina L'uomo romano cercava di interpretare e di dare ordine alla realtà in cui viveva e operava, collegandone ogni aspetto ed ogni momento a un agente divino, a una forza misteriosa e potenzialmente ostile chiamata numen (al plurale numina), della quale era indispensabile ottenere il favore con parole e gesti ritualmente esatti. Gli eruditi romani ci hanno trasmesso lunghe liste di invocazioni ai numina, vere e proprie litanie che mostrano come determinate azioni venissero minuziosamente scomposte nei loro momenti significativi, in modo che ogni istante e ogni evento fosse posto sotto la protezione di un particolare dio. Così per custodire la porta di casa i Romani invocavano ben tre divinità: Forculus preposto alle aperture (fores), Cardia che proteggeva i cardini (cardines) e Limentinus che presiedeva alla soglia (limen). Questi numina non hanno volto e forma fisica, sono pure forze agenti, senza neppure una distinzione di sesso, come dimostra la presenza nelle preghiere della formula apposta in molti casi al nome del dio: «sia egli un dio o una dea», oppure, «sia egli maschio o femmina». Anche quando, nei secoli successivi, giunsero dalla Grecia le divinità olimpiche, che si sovrapposero a quelle romane con un processo di progressiva identificazione, gli antichi numina rimasero sempre vivi nella memoria e nella pratica religiosa del popolo. Sant'Agostino testimonia (Civ. IV, 11) che ancora alla sua epoca (IV secolo) per le mamme romane a proteggere il bambino quando piangeva era Vaticanus1, a proteggerlo nella culla (cuna) era Cunina, a far sì che succhiasse per bene il latte era Rumina (da ruma, «mammella»), a porgergli da bere e da mangiare erano Potina e Educa2, a spingerlo all'azione era Strenula (da strenuus, «attivo», «valoroso»), a insegnargli la matematica era Numeria (da numerus) e a ispirargli buoni pensieri era la dea Sentiri3. 1. Pronunciando la parola Vaticanus come la pronunciavano i Latini, e cioè uaticanus, non è difficile avvertire nella sillaba iniziale il vagito dei neonati («uah!, uah!»). 2. Potina, dal verbo poto, «bere»; Educa dal verbo educo, «nutrire» 3. Sentia dal verbo sentio, che significa, tra l'altro, anche «pensare», «formulare buoni pensieri» (sententiae). 35 I templi romani di età arcaica erano del tutto simili a quelli etruschi: così doveva presen-tarsi il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio, costruito nel 509 a.C. (ricostruzione del tempio di Giove Capitolino). Alla religione familiare apparteneva anche il culto dei morti che venivano seppelliti insieme ad oggetti che furono loro cari, nella convinzione che la vita proseguisse dopo la morte in un luogo tenebroso e sotterraneo (gli Inferi o l'Orco). Si pensava che esistesse anche un collegamento fra il regno dei morti e quello dei vivi: per questo, secondo un uso etrusco, in un punto sacro della città esisteva una fossa detta mundus normalmente coperta da una lastra di pietra. Nei giorni prescritti dedicati ai defunti il mundus veniva aperto e vi veniva versato il sangue delle vittime, poiché si riteneva che i morti, bevendo quel sangue, ricevessero nuova forza e nuovo vigore. Urna cineraria con allusione al viaggio agli Inferi per mare (ll-l secolo a.C. Volterra, Museo Guarnacci). Rimase comunque sempre vivo nella cultura romana il principio di assegnare forza di divinità ad ogni aspetto del reale che fosse in qualche modo produttore di effetti positivi o negativi nella vita dell'uomo. Per questo venivano divinizzate ed avevano un tempio la Fides (cioè «la lealtà»), la Concordia, la Libertà, la Vittoria, la Pudicizia, ma anche la Febbre e persino Robigo («la ruggine» che distrugge e corrode), Pavor («il terrore») e Pallor («la paura che fa impallidire»), poiché ciascuna di queste entità, come osserva Cicerone «ha una forza troppo grande per essere governata senza un dio». La religione familiare 36 Accanto ai numina, che accompagnavano ogni atto e ogni gesto dell'esistenza, c'erano poi divinità comuni a gruppi di individui (la famiglia, lo stato, l'esercito, le corporazioni professionali ecc.) e il culto ad esse praticato aveva carattere comunitario, aveva cioè la funzione di rinsaldare il legame di appartenenza, ed assumeva di conseguenza grande importanza sul piano sociale e politico: onorare gli dèi della propria famiglia e della propria gens significava ribadire l'appartenenza ad un «clan» ed accettare gli obblighi che questo comportava; onorare gli dèi «comuni» di Roma significava riconoscersi cittadino romano ed impegnarsi ad assolvere gli obblighi e i doveri verso lo stato. Ogni famiglia onorava Vesta, dea protettrice del focolare domestico, i Lari, i Penati, protettori della casa e della famiglia, e i Mani, cioè le anime degli antenati. Sacerdote della religione familiare era il paterfamilias che presiedeva personalmente i riti prescritti sia in onore degli dèi della famiglia sia di quelli che proteggevano le proprietà e le attività economiche (il campo, la semina, il raccolto ecc.). Gli dèi olimpici e la religione pubblica Oltre alle divinità protettrici della propria casa, erano oggetto di culto anche gli dèi protettori dello stato, alla cui tutela era preposta una gerarchia celeste con a capo Giove (Iuppiter), signore del cielo, garante della grandezza e della potenza di Roma. Addetti alla religione pubblica erano appositi sacerdoti che facevano parte di alcuni collegi sacerdotali a capo dei quali c'era il «Pontefice massimo» (Pontifex maximus). Va comunque precisato che nell'antica Roma non esisteva una casta di sacerdoti «professionisti», depositari di un sapere misterioso e di potere divini, come nell'antico Egitto o nel mondo ebraico: sacerdote della religione familiare era, infatti, il paterfamilias e sacerdoti della religione di stato erano magistrati che avevano percorso una normale carriera politica, ai quali veniva affidato il compito di eseguire puntualmente i riti prescritti per assicurare alla comunità la benevolenza degli dèi. Fra collegi sacerdotali e istituzioni politiche c'era dunque un legame molto stretto. In ogni casa esisteva, accanto al focolare un piccolo tabernacolo (il larario) con dipinti, spesso sotto forma di piccole figure danzanti, i Lari, ai quali ogni giorno venivano offerti fiori. Erano queste le divinità protettrici della casa e di chi in quel momento la abitava. Ogni famiglia aveva poi gli dèi protettori della propria stirpe, i Penati, raffigurati in statuette di legno. A differenza dei Lari, i Penati seguivano la famiglia nei suoi spostamenti. Anche la città aveva i suoi Penati: quelli di Roma, secondo il mito, furono trasportati da Troia nel Lazio da Enea e venivano custoditi a Lavinio, cioè nella città fondata, secondo la tradizione, dall'eroe (63-79 d.C). La ricerca delta pax deorum: preghiere e sacrifici La religiosità per l'uomo romano non consisteva nell'essere fedele ad un rapporto personale ed esclusivo con un dio ritenuto «unico e vero» (si pensi alle grandi religioni monoteistiche), ma nel cercare in ogni 37 circostanza la benevolenza del dio tutelare dell'azione che stava per intraprendere. I Latini, per designare la benevolenza degli dèi, usavano l'espressione pax deorum, che propriamente significa «pace degli dèi» e il modo per ottenerla, sia nell'ambito della religione privata, sia in quello della religione pubblica, era la esecuzione di un rito che doveva svolgersi con assoluta esattezza e precisione, con le formule e i gesti previsti dalla tradizione. Agli dèi venivano rivolte in primo luogo «invocazioni» e «preghiere» che potevano essere accompagnate dalla supplicano, durante la quale il richiedente, prostrato davanti alla statua, abbracciava le ginocchia del dio. La preghiera, sia nel culto pubblico che in quello privato, era talvolta accompagnata da offerte di corone di fiori, di focacce, di prodotti agricoli (frutta, latte, vino) o di profumi (venivano ad esempio bruciati grani d'incenso). La forma più impegnativa di offerta era costituita dal sacrificio di animali, che erano diversi a seconda della divinità da onorare: ad esempio a Giove veniva offerto un toro bianco, a Cerere una scrofa, alle divinità sotterranee animali di colore scuro). Le vittime, maschi per gli dèi e femmine per le dee, dovevano essere fisicamente perfette e dopo l'uccisione le loro carni venivano mangiate: solo le interiora, infatti, dopo che erano state esaminate per ricavare presagi, venivano bruciate e offerte integralmente agli dèi. Il sacrifìcio di animali era dunque un vero e proprio banchetto rituale. Un tipico sacrificio, fatto dal paterfamilias ogni primavera per propiziare un buon raccolto, era quello di un maiale, un montone e un toro, detto suovetaurilia dalle prime lettere delle tre parole latine che designano gli animali sacrificati: sus (il «maiale»), ovis (il «montone»), taurus (il «toro»). Una delle cerimonie pubbliche più solenni era il «lettisternio», un grande banchetto al quale, venivano «invitati» gli dèi, le cui statue, opportunamente vestite, erano collocate a mensa accanto ai sacerdoti che celebravano il rito. In onore degli dèi, sul modello etrusco e greco, venivano poi organizzati, a cura degli edili, pubblici spettacoli teatrali, giochi e gare sportive. Le divinità maggiori Ecco, in ordine alfabetico, le divinità più importanti della religione pubblica romana: tutte sono state assimilate a una divinità olimpica greca, ad eccezione di Giano, unico dio totalmente italico. • Apollo (Apollo): introdotto a Roma e in Italia sia attraverso l’Etruria (si pensi all'Apollo di Veio) sia direttamente dalle colonie greche, mantenne i caratteri propri del dio greco Apollo e non fu mai completamente assimilato a divinità italiche. Come dio del sole, dispensatore di calore e di vita, era protettore della salute degli uomini e delle greggi; come dio della poesia e della musica presiedeva il coro delle nove Muse; a Roma però era soprattutto considerato il dio della divinazione e il suo oracolo a Delfi in Grecia, dove la Pizia proferiva le sue oscure sentenze, era conosciuto in tutto il mondo antico. • Cerere (Ceres): antica divinità italica della terra, era spesso associata nel culto alla Tellus Mater («Madre Terra») in quanto datrice dei frutti dell'agricoltura, in particolare dei cereali, e come tale assimilata alla greca Demètra. Come dea dell’agricoltura era considerata anche protettrice dell'annona (approvigionamenti) e della pace. • Diana (Diana): divinità italica della luce lunare assimilata poi alla greca Artemide, veniva considerata protettrice dei boschi e della caccia. Il suo culto venne poi legato ai riti propiziatori per la fecondità non solo della natura, ma anche degli uomini. • Giano (Ianus): divinità italica che non ha corrispondente nel mondo greco. Protettore della porta (ianua) e dell'arco, mezzi di accesso alla casa e alla città, veniva considerato dio degli inizi (da lui infatti prende il nome Ianuarius, il primo mese dell'anno) e difensore della pace. Era rappresentato bifronte e le porte del suo tempio nel Foro romano venivano chiuse in tempo di pace e aperte in tempo di guerra. • Giove (Iuppiter): dio italico del cielo, di sicura origine indeuropea, presiedeva ai fenomeni atmosferici ed era onorato con gli appellativi di Tonans («Tonante»), Pluvius («Pluvio») e Fulgurator («Folgoratore»). Assimilato al greco Zeus, era capo e padre degli dèi e degli uomini, dispensatore dei beni e dei mali ai 38 mortali, simbolo della giustizia, protettore dello stato e garante delle promesse e dei giuramenti; per tutte queste competenze era invocato come Optimus Maximus («Ottimo Massimo») e come tale presiedeva la «Triade capitolina» (Giove, Giunone e Minerva), che dal tempio sul Campidoglio reggeva e guidava le sorti di Roma. • Giunone (Iuno): antica dea italica poi assimilata alla greca Era; sposa di Giove, era simbolo della femminilità e protettrice delle donne in ogni fase della loro vita; infatti come Pronuba presiedeva alle nozze, come Interduca conduceva là sposa alla nuova casa e come Lucina proteggeva le partorienti. Divenne poi un'importante dea dello stato e con l'appellativo di Regina costituiva con Giove e Minerva la Triade venerata nel tempio sul Campidoglio (v. Giove). • Marte (Mars): principale dio italico dopo Giove; era in origine una divinità agreste (da lui infatti prende nome Martius il primo mese della primavera), espressione di un popolo dipendente dall'agricoltura per le risorse alimentari, ma spesso impegnato nella guerra; assunse quindi anche gli attributi di divinità guerriera e, assimilato al greco Ares, divenne il dio della guerra. A Roma godeva di onori particolari in quanto simbolo della potenza della città e padre di Romolo. Per il suo culto il re Numa aveva istituito il collegio dei sacerdoti Salii. • Mercurio (Mercurius): dio dei mercati e del commercio. Non c'è traccia a Roma o in Italia di un suo culto primitivo, si deve quindi dedurre che fosse lo stesso dio greco Ermes introdotto a Roma con il nome che ricordava le sue attività mercantili (mercari, «commerciare»). • Minerva (Minerva): dea italica protettrice della città e dei mestieri, aveva originariamente attributi più domestici che guerrieri. Quando fu assimilata alla greca Atena divenne, oltre che protettrice delle arti e delle scienze, anche dea della guerra, intesa come perizia e capacità strategica contrapposta alla forza e alla violenza di Marte. Il suo culto si affermò a Roma dopo l'introduzione della Triade capitolina di cui Minerva faceva parte. • Nettuno (Neptunus): dio italico delle acque ma non del mare; solo la successiva identificazione con il greco Poseidone, dio del mare, estese il suo culto anche in tal senso. A Roma era soprattutto onorato come Neptunus Equester, protettore dei cavalli e delle corse nel circo. • Plutone (Pluto): sovrano del regno dell'oltretomba, era anche il dio sotterraneo che alimentava la vegetazione e donava o celava agli uomini le ricchezze minerali nascoste nel sottosuolo. Assimilato al dio greco Ade, era onorato a Roma anche col nome di Dite (cfr. dives, «ricco») personificazione della ricchezza. • Quirino (Quirinus): dio di origine sabina, era venerato fin dai tempi più antichi sul Quirinale. Era collegato agli aspetti più civili (attività economiche) della Roma arcaica e faceva parte dell'antica triade posta a difesa dello stato insieme a Giove e a Marte. Quirinus era l'epiteto di Romolo divinizzato e Quirites erano chiamati i cittadini romani. • Saturno (Saturnus): antica divinità italica della semina (cfr. sero, «seminare»; satus, «seminagione») fu più tardi assimilato con il greco Cronos e gli furono quindi attribuiti i caratteri di quest'ultimo: era padre di Giove, Giunone, Cerere, Plutone e Nettuno e veniva ritenuto il re dell'antico Lazio durante la mitica Età dell'Oro. In memoria dell'aureo regno di Saturno (Saturnia regna) a Roma, dal 17 al 19 dicembre, si celebravano i Saturnali (Saturnalia) durante la quale tutti si scambiavano doni, gli schiavi erano serviti a tavola dai padroni e ognuno si divertiva mangiando e bevendo in allegria. • Venere (Venus): dea italica originariamente legata al culto della rinascita primaverile della natura e quindi della fertilità. In seguito all'assimilazione con la greca Afrodite divenne dea della bellezza e dell'amore. A Roma era venerata anche come datrice di vittoria, protettrice della concordia civile e come genitrice (Venus Genetrix) della stirpe del troiano Enea e della gens Iulia. • Vesta (Vesta): dea del focolare, dell'economia e della vita domestica, equivalente alla greca Hestìa. Il sacro fuoco che ardeva nel suo tempio e che era simbolo del focolare dello stato non doveva mai spegnersi ed era custodito dalle Vestali. • Vulcano (Vulcanus): antico dio italico del fuoco, in particolare quello vulcanico. Era venerato a Roma fin dai tempi più antichi con l'epiteto di Mulciber («colui che ammollisce, che fonde [il ferro]»). Assimilato poi al greco Efesto, aveva la sua officina nelle viscere dell'Etna dove, come fabbro degli dèi, eseguiva mirabili opere in metallo con l'aiuto dei Ciclopi; per tale motivo era ritenuto dio della lavorazione dei metalli. 39 Rilievo dell'ara dei Vicomagistri, raffigurante un corteo sacrificale con tre tori, vittimari, musici, littori. I Vicomagistri erano i capi dei vici o quartieri della città, a cui Augusto affida dal 18 a.C. i Lari della sua casa, che diventano così protettori di tutta la città (30-40 d.C, Città del Vaticano, Museo Gregoriano Pagano). Una preghiera privata... Ecco il testo di un'antichissima preghiera rivolta a Marte (in origine, come abbiamo già detto, dio agricolo) dal padrone di un campo nel corso di una ceri-monta che culminava con il suovetaurilia Si osservi la minuziosa e pedante specificazione di tutto quanto viene offerto e di tutto quanto viene richiesto in cambio: par di leggere le clausole di un contratto, e in effetti, il rapporto con gli dèi si pone nella Roma antica in termini strettamente «contrattualistici». Il testo ci è tramandato da Catone in un trattato sull'agricoltura composto nel II secolo a.C. Padre Marte, ti prego e ti chiedo di essere benevolo e propizio a me, alla mia casa e alla mia famiglia. Per questo dunque ho fatto condurre attorno al campo, alla terra e al mio fondo, un porco, un montone e un toro perché tu tenga lontano, respinga e storni le malattie visibili e invisibili, la sterilità del suolo e la devastazione, le calamità e le intemperie e perché tu permetta la crescita e la buona riuscita delle messi, del frumento e delle giovani piante e conservi sani e salvi i pastori e il bestiame e dia buona salute e prosperità a me, alla mia casa e alla mia famiglia. ... e una pubblica Ed ecco il testo di una «preghiera ufficiale», il Carmen saeculare, un inno agli dèi protettori di Roma, composto dal poeta Quinto Orazio Flacco in occasione dei «Ludi secolari», una grande celebrazione politica e religiosa insieme, voluta da Augusto nel 17 a.C. per celebrare l'inizio di una nuova era di pace e di prosperità. Di questa celebrazione noi possediamo il «verbale», pervenutoci grazie a un'epigrafe, in cui vengono accuratamente descritte tutte le cerimonie compiute nei tre giorni dei Ludi, dalla notte del 31 maggio sino al 3 giugno, cerimonie che culminarono con il canto del Carmen da parte di un coro di ventisette ragazzi e ventisette ragazze, dapprima sul Palatino e successivamente sul Campidoglio. Del Carmen saeculare, un componimento molto lungo e complesso, proponiamo le prime strofe in traduzione. Febo1 e signora delle selve Diana, chiare gemme del cielo; venerandi e venerati sempre: udite il canto di scelte vergini e di fanciulli puri che prescrisse la Sibilla2 di volgere agli dèi, cui furon cari i sette colli, al compiersi del tempo sacro. Almo Sole, che sul brillante carro porti e ci togli il giorno e vario e uguale 40 nasci, di Roma nulla mai il tuo raggio veda più grande. (Trad. E. Centrangolo) 1. «Febo» è epiteto di Apollo, divinità solare, e significa propriamente «il Luminoso». 2. La celebrazione dei Ludi saeculares era dunque prescritta da un oracolo dei libri Sibillini e doveva contrassegnare il passaggio a un nuovo ciclo di anni, a una nuova era. 41