LA RELIGIONE E GLI DÈI La religione romana più antica, a differenza di quella greca, non conosceva le grandi divinità antropomorfe, (che presentano cioè caratteristiche fìsiche e spirituali vicine a quelle degli uomini) ma aveva carattere sostanzialmente animistico e magico. L'uomo romano, cioè, si sentiva circondato da un numero veramente incredibile di piccole divinità (i numina), ciascuna delle quali aveva competenza su un particolare aspetto o su un particolare momento dell'esistenza. Furono gli Etruschi e i Greci a introdurre a Roma le divinità antropomorfe, a riprodurne le sembianze in statue ed a costruire «una casa» per gli dèi (il tempio). Parlando della religione romana, bisogna dunque distinguere fra divinità «indigene», tipiche della religione più antica e di quella popolare, e divinità «olimpiche», importate dalla Grecia a partire dal II secolo a.C.; bisogna inoltre operare una ulteriore distinzione fra «religione privata» (di cui era sacerdote il paterfamilias) e «religione pubblica» (di cui erano sacerdoti dei magistrati o comunque dei «pubblici funzionari»). La religione arcaica e popolare: i numina L'uomo romano cercava di interpretare e di dare ordine alla realtà in cui viveva e operava, collegandone ogni aspetto ed ogni momento a un agente divino, a una forza misteriosa e potenzialmente ostile chiamata numen (al plurale numina), della quale era indispensabile ottenere il favore con parole e gesti ritualmente esatti. Gli eruditi romani ci hanno trasmesso lunghe liste di invocazioni ai numina, vere e proprie litanie che mostrano come determinate azioni venissero minuziosamente scomposte nei loro momenti significativi, in modo che ogni istante e ogni evento fosse posto sotto la protezione di un particolare dio. Così per custodire la porta di casa i Romani invocavano ben tre divinità: Forculus preposto alle aperture (fores), Cardia che proteggeva i cardini (cardines) e Limentinus che presiedeva alla soglia (limen). Questi numina non hanno volto e forma fisica, sono pure forze agenti, senza neppure una distinzione di sesso, come dimostra la presenza nelle preghiere della formula apposta in molti casi al nome del dio: «sia egli un dio o una dea», oppure, «sia egli maschio o femmina». Anche quando, nei secoli successivi, giunsero dalla Grecia le divinità olimpiche, che si sovrapposero a quelle romane con un processo di progressiva identificazione, gli antichi numina rimasero sempre vivi nella memoria e nella pratica religiosa del popolo. Sant'Agostino testimonia (Civ. IV, 11) che ancora alla sua epoca (IV secolo) per le mamme romane a proteggere il bambino quando piangeva era Vaticanus1, a proteggerlo nella culla (cuna) era Cunina, a far sì che succhiasse per bene il latte era Rumina (da ruma, «mammella»), a porgergli da bere e da mangiare erano Potina e Educa2, a spingerlo all'azione era Strenula (da strenuus, «attivo», «valoroso»), a insegnargli la matematica era Numeria (da numerus) e a ispirargli buoni pensieri era la dea Sentiri3. 1. Pronunciando la parola Vaticanus come la pronunciavano i Latini, e cioè uaticanus, non è difficile avvertire nella sillaba iniziale il vagito dei neonati («uah!, uah!»). 2. Potina, dal verbo poto, «bere»; Educa dal verbo educo, «nutrire» 3. Sentia dal verbo sentio, che significa, tra l'altro, anche «pensare», «formulare buoni pensieri» (sententiae). I templi romani di età arcaica erano del tutto simili a quelli etruschi: così doveva presen-tarsi il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio, costruito nel 509 a.C. (ricostruzione del tempio di Giove Capitolino). Alla religione familiare apparteneva anche il culto dei morti che venivano seppelliti insieme ad oggetti che furono loro cari, nella convinzione che la vita proseguisse dopo la morte in un luogo tenebroso e sotterraneo (gli Inferi o l'Orco). Si pensava che esistesse anche un collegamento fra il regno dei morti e quello dei vivi: per questo, secondo un uso etrusco, in un punto sacro della città esisteva una fossa detta mundus normalmente coperta da una lastra di pietra. Nei giorni prescritti dedicati ai defunti il mundus veniva aperto e vi veniva versato il sangue delle vittime, poiché si riteneva che i morti, bevendo quel sangue, ricevessero nuova forza e nuovo vigore. Urna cineraria con allusione al viaggio agli Inferi per mare (ll-l secolo a.C. Volterra, Museo Guarnacci). Rimase comunque sempre vivo nella cultura romana il principio di assegnare forza di divinità ad ogni aspetto del reale che fosse in qualche modo produttore di effetti positivi o negativi nella vita dell'uomo. Per questo venivano divinizzate ed avevano un tempio la Fides (cioè «la lealtà»), la Concordia, la Libertà, la Vittoria, la Pudicizia, ma anche la Febbre e persino Robigo («la ruggine» che distrugge e corrode), Pavor («il terrore») e Pallor («la paura che fa impallidire»), poiché ciascuna di queste entità, come osserva Cicerone «ha una forza troppo grande per essere governata senza un dio». La religione familiare Accanto ai numina, che accompagnavano ogni atto e ogni gesto dell'esistenza, c'erano poi divinità comuni a gruppi di individui (la famiglia, lo stato, l'esercito, le corporazioni professionali ecc.) e il culto ad esse praticato aveva carattere comunitario, aveva cioè la funzione di rinsaldare il legame di appartenenza, ed assumeva di conseguenza grande importanza sul piano sociale e politico: onorare gli dèi della propria famiglia e della propria gens significava ribadire l'appartenenza ad un «clan» ed accettare gli obblighi che questo comportava; onorare gli dèi «comuni» di Roma significava riconoscersi cittadino romano ed impegnarsi ad assolvere gli obblighi e i doveri verso lo stato. Ogni famiglia onorava Vesta, dea protettrice del focolare domestico, i Lari, i Penati, protettori della casa e della famiglia, e i Mani, cioè le anime degli antenati. Sacerdote della religione familiare era il paterfamilias che presiedeva personalmente i riti prescritti sia in onore degli dèi della famiglia sia di quelli che proteggevano le proprietà e le attività economiche (il campo, la semina, il raccolto ecc.). Gli dèi olimpici e la religione pubblica Oltre alle divinità protettrici della propria casa, erano oggetto di culto anche gli dèi protettori dello stato, alla cui tutela era preposta una gerarchia celeste con a capo Giove (Iuppiter), signore del cielo, garante della grandezza e della potenza di Roma. Addetti alla religione pubblica erano appositi sacerdoti che facevano parte di alcuni collegi sacerdotali a capo dei quali c'era il «Pontefice massimo» (Pontifex maximus). Va comunque precisato che nell'antica Roma non esisteva una casta di sacerdoti «professionisti», depositari di un sapere misterioso e di potere divini, come nell'antico Egitto o nel mondo ebraico: sacerdote della religione familiare era, infatti, il paterfamilias e sacerdoti della religione di stato erano magistrati che avevano percorso una normale carriera politica, ai quali veniva affidato il compito di eseguire puntualmente i riti prescritti per assicurare alla comunità la benevolenza degli dèi. Fra collegi sacerdotali e istituzioni politiche c'era dunque un legame molto stretto. In ogni casa esisteva, accanto al focolare un piccolo tabernacolo (il larario) con dipinti, spesso sotto forma di piccole figure danzanti, i Lari, ai quali ogni giorno venivano offerti fiori. Erano queste le divinità protettrici della casa e di chi in quel momento la abitava. Ogni famiglia aveva poi gli dèi protettori della propria stirpe, i Penati, raffigurati in statuette di legno. A differenza dei Lari, i Penati seguivano la famiglia nei suoi spostamenti. Anche la città aveva i suoi Penati: quelli di Roma, secondo il mito, furono trasportati da Troia nel Lazio da Enea e venivano custoditi a Lavinio, cioè nella città fondata, secondo la tradizione, dall'eroe (63-79 d.C). La ricerca delta pax deorum: preghiere e sacrifici La religiosità per l'uomo romano non consisteva nell'essere fedele ad un rapporto personale ed esclusivo con un dio ritenuto «unico e vero» (si pensi alle grandi religioni monoteistiche), ma nel cercare in ogni circostanza la benevolenza del dio tutelare dell'azione che stava per intraprendere. I Latini, per designare la benevolenza degli dèi, usavano l'espressione pax deorum, che propriamente significa «pace degli dèi» e il modo per ottenerla, sia nell'ambito della religione privata, sia in quello della religione pubblica, era la esecuzione di un rito che doveva svolgersi con assoluta esattezza e precisione, con le formule e i gesti previsti dalla tradizione. Agli dèi venivano rivolte in primo luogo «invocazioni» e «preghiere» che potevano essere accompagnate dalla supplicano, durante la quale il richiedente, prostrato davanti alla statua, abbracciava le ginocchia del dio. La preghiera, sia nel culto pubblico che in quello privato, era talvolta accompagnata da offerte di corone di fiori, di focacce, di prodotti agricoli (frutta, latte, vino) o di profumi (venivano ad esempio bruciati grani d'incenso). La forma più impegnativa di offerta era costituita dal sacrificio di animali, che erano diversi a seconda della divinità da onorare: ad esempio a Giove veniva offerto un toro bianco, a Cerere una scrofa, alle divinità sotterranee animali di colore scuro). Le vittime, maschi per gli dèi e femmine per le dee, dovevano essere fisicamente perfette e dopo l'uccisione le loro carni venivano mangiate: solo le interiora, infatti, dopo che erano state esaminate per ricavare presagi, venivano bruciate e offerte integralmente agli dèi. Il sacrifìcio di animali era dunque un vero e proprio banchetto rituale. Un tipico sacrificio, fatto dal paterfamilias ogni primavera per propiziare un buon raccolto, era quello di un maiale, un montone e un toro, detto suovetaurilia dalle prime lettere delle tre parole latine che designano gli animali sacrificati: sus (il «maiale»), ovis (il «montone»), taurus (il «toro»). Una delle cerimonie pubbliche più solenni era il «lettisternio», un grande banchetto al quale, venivano «invitati» gli dèi, le cui statue, opportunamente vestite, erano collocate a mensa accanto ai sacerdoti che celebravano il rito. In onore degli dèi, sul modello etrusco e greco, venivano poi organizzati, a cura degli edili, pubblici spettacoli teatrali, giochi e gare sportive. Una preghiera privata... Ecco il testo di un'antichissima preghiera rivolta a Marte (in origine, come abbiamo già detto, dio agricolo) dal padrone di un campo nel corso di una ceri-monta che culminava con il suovetaurilia Si osservi la minuziosa e pedante specificazione di tutto quanto viene offerto e di tutto quanto viene richiesto in cambio: par di leggere le clausole di un contratto, e in effetti, il rapporto con gli dèi si pone nella Roma antica in termini strettamente «contrattualistici». Il testo ci è tramandato da Catone in un trattato sull'agricoltura composto nel II secolo a.C. Padre Marte, ti prego e ti chiedo di essere benevolo e propizio a me, alla mia casa e alla mia famiglia. Per questo dunque ho fatto condurre attorno al campo, alla terra e al mio fondo, un porco, un montone e un toro perché tu tenga lontano, respinga e storni le malattie visibili e invisibili, la sterilità del suolo e la devastazione, le calamità e le intemperie e perché tu permetta la crescita e la buona riuscita delle messi, del frumento e delle giovani piante e conservi sani e salvi i pastori e il bestiame e dia buona salute e prosperità a me, alla mia casa e alla mia famiglia. ... e una pubblica Ed ecco il testo di una «preghiera ufficiale», il Carmen saeculare, un inno agli dèi protettori di Roma, composto dal poeta Quinto Orazio Flacco in occasione dei «Ludi secolari», una grande celebrazione politica e religiosa insieme, voluta da Augusto nel 17 a.C. per celebrare l'inizio di una nuova era di pace e di prosperità. Di questa celebrazione noi possediamo il «verbale», pervenutoci grazie a un'epigrafe, in cui vengono accuratamente descritte tutte le cerimonie compiute nei tre giorni dei Ludi, dalla notte del 31 maggio sino al 3 giugno, cerimonie che culminarono con il canto del Carmen da parte di un coro di ventisette ragazzi e ventisette ragazze, dapprima sul Palatino e successivamente sul Campidoglio. Del Carmen saeculare, un componimento molto lungo e complesso, proponiamo le prime strofe in traduzione. Febo1 e signora delle selve Diana, chiare gemme del cielo; venerandi e venerati sempre: udite il canto di scelte vergini e di fanciulli puri che prescrisse la Sibilla2 di volgere agli dèi, cui furon cari i sette colli, al compiersi del tempo sacro. Almo Sole, che sul brillante carro porti e ci togli il giorno e vario e uguale nasci, di Roma nulla mai il tuo raggio veda più grande. (Trad. E. Centrangolo) 1. «Febo» è epiteto di Apollo, divinità solare, e significa propriamente «il Luminoso». 2. La celebrazione dei Ludi saeculares era dunque prescritta da un oracolo dei libri Sibillini e doveva contrassegnare il passaggio a un nuovo ciclo di anni, a una nuova era.