Alimenti: cultura, storia, consigli

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Associazione Consumatori Piemonte
via San Francesco D’Assisi 17, Torino
tel.: 011- 4367413
A cura di Iole Costantino
Alimenti: cultura, storia, consigli
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Cereali
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Pane
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Pizza
Pomodoro
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Formaggi
5
Dolci
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7
Yogurt
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Cacao
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Commercio Equo e Solidale
Il marchio Trans fair
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Il marketing del Commercio Equo e Solidale
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Fare la spesa
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Raccolte differenziate
Bibliografia
Cereali
Letteratura
E lì, senza sospendere i discorsi, l’amico si mise in faccende per fare un po’ d’onore a Renzo,
come si poteva così all’improvviso e in quel tempo. Mise l’acqua al fuoco, e cominciò a far la
polenta; ma cedè poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se n’andò dicendo “son rimasto solo; ma! son rimasto solo!”
Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli, con
fichi e pesche; e posato tutto, scodellata la polenta sulla tafferia, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento.
(Manzoni, I Promessi Sposi)
Appunti
I cereali più diffusi oggi
Le graminacee che sono in grado di fornire farine sono dette cereali, in ricordo di Cerere, antica divinità italica delle messi, molto venerata nei culti degli antichi Romani, dato che i cereali
rappresentavano il cibo base dell’alimentazione quotidiana.
Anche se i cereali selvatici venivano raccolti già da tempo dove ne esistevano, è con gli inizi
del neolitico che si assiste alla rivoluzione economica che sta alla base della nostra alimentazione tradizionale: coltura di cereali, allevamento. In questo periodo il grano è impiegato nella
preparazione del pane lievitato ed in gallette. L’abbondanza delle macine in pietra e la cura particolare ad esse riservata nelle case testimoniano l’importanza immediatamente assunta dai
cereali.
Nell’alimentazione moderna risultano piuttosto “fuori moda” ma a livello mondiale, costituiscono tuttora la principale risorsa alimentare per l’umanità. Ecco i più comuni:
Avena
È un cereale resistente al freddo e all’umido, coltivato soprattutto nei paesi del nord Europa.
Contiene proteine per il 13% del peso. Ha un contenuto di grassi relativamente alto (circa il 7%)
e una fibra abbondante. Secondo i nutrizionisti, il suo consumo è in relazione alla diminuzione
del tasso di colesterolo nel sangue. L’avena integrale è ricca di sali minerali. La troviamo utilizzata come farina nel pane (per esempio nella ricetta del pane arabo), o sotto forma di fiocchi.
Farro
È considerato il “padre” del frumento, dal quale si distingue per il rivestimento aderente al chicco come l’orzo e l’avena. Era sacro agli abitanti dell’Italia: latini, umbri, sabini. La focaccia di
farro era il piatto di rito nel matrimonio romano.
Oggi è usato come semola per la produzione di pasta; decorticato, viene consumato soprattutto in minestre con legumi (in Toscana, per esempio, lo si può trovare in diverse ricette tradizionali), ma è diffusa la sua presenza anche in sfarinati per la preparazione di pane e biscotti. Il
farro ha una composizione simile al frumento; è più resistente nella crescita, adatto a coltivazioni anche in terreni poco fertili.
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Frumento o grano
È il più diffuso fra i cereali ed ha il primato fra tutti quelli che si adoperano per la produzione del pane
e delle paste alimentari. In natura vi sono diversi tipi di frumento (circa millesettecento) ma si possono
riunire tutte le infinite varietà sotto tre categorie commerciali: grani duri, grani semiduri, grani teneri.
Alla base dell’alimentazione umana da tempo immemorabile, il frumento è tuttora il cereale più diffuso, forse perché particolarmente adatto alla lievitazione e alla panificazione.
Grano saraceno
Andò…. alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde,
dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia di gran saraceno. ….Ma non c’era quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la
polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un
gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: “volete restar servito?”,
complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! Non lascia mai di fare a chi
lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse
all’ultimo boccone.
“Vi ringrazio,” rispose Renzo: “venivo solamente per dire una parolina a Tonio; e, se vuoi, Tonio, per
non disturbar le tue donne, possiamo andare a desinare all’osteria, e lì parleremo”. La proposta fu per
Tonio tanto più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacchè, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile.
(A. Manzoni, 1983)
Tra il XV e il XVI secolo un nuovo cereale si diffonde nell’Italia del Nord: il grano saraceno, con cui i
contadini lombardi e delle aree alpine cominciano a fare una polenta di sapore più amarognolo e di
diverso colore rispetto a quella gialla della tradizionale polenta di miglio e di quella vivanda - anch’essa nuova e anch’essa antica - che i contadini della regione padana cominciano a trarre dal mais, il
nuovo cereale venuto dall’America.
In realtà il grano saraceno non è una graminacea ma appartiene alla famiglia delle poligonacee; gli
usi alimentari a cui viene destinato e il profilo nutrizionale lo avvicinano però ai cereali.
Oltre ad essere coltivato, cresce spontaneamente in alcune parti dell’Europa nordorientale. In Italia
è coltivato in alcune zone di montagna, in particolare in Sud Tirolo e Valtellina dove si continua ad
impiegare per la preparazione di polente e di una pasta di tradizione locale: i “pizzoccheri”; anche le
“crepes” tipiche della Bretagna, in Francia, sono fatte con grano saraceno.
Mais
Il cereale degli antichi Maya fu portato in Europa da Cristoforo Colombo fin dal suo primo viaggio.
Già nella seconda metà del Cinquecento il mais è presente in Italia, nelle pratiche di coltivazione e
nella dieta contadina, “adattato” agli usi di cucina tradizionali. Un uso che faceva parte della nostra
storia ed era invece ignoto alle popolazioni americane che consumavano il mais in molti modi diversi:
bollito o arrostito, intero o a grani o impastato, ma non sotto forma di polenta.
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Come spesso avviene nella storia della cultura - e perciò della cucina - il diverso viene adattato al
proprio. In questo caso, però, le conseguenze furono drammatiche: tra XVIII e XIX secolo si diffusero
nelle campagne italiane vere e proprie epidemie di pellagra, una malattia da carenza vitaminica causata da un’alimentazione monotona, basata quasi unicamente sul mais sotto forma di polenta: è solo
attraverso quel tipo di preparazione, infatti, che esso viene privato di alcune vitamine essenziali all’organismo umano; per questo, in America non si era mai verificato alcun fenomeno del genere.
Affiancandosi dapprima ai cereali tradizionali, il mais a poco a poco li spazzò via: le ragioni della
fame, fattesi implacabili durante il Settecento, costrinsero i contadini a “scegliere” la pianta più produttiva, a scapito di tutto il resto. Nei momenti di carestia, che si verificarono alla fine del XVII e nella
prima parte del XVIII secolo, il mais ha consentito a molti di sopravvivere.
Ma il mais che conosciamo oggi non è quello originario. Non particolarmente ricco di proteine (910%), di valore nutrizionale abbastanza basso per fare da piatto “completo”, necessita, come gli altri
cereali, di un’integrazione con i legumi e alimenti di origine animale. Il mais contiene provitamina A
(betacarotene), ma solo nella varietà di mais gialla. Ha un discreto contenuto di grasso (circa il 4%),
presente nel germe, che può essere estratto per la produzione di olio di mais.
Impieghi del mais nell’alimentazione moderna
Le pannocchie possono essere lessate o passate alla griglia e consumate come verdura. Molto più
diffuso in Italia è l’uso della farina per la preparazione della polenta.
La farina di mais è spesso utilizzata, in piccole percentuali, nella preparazione di pane e di biscotti.
Dal mais si ottengono anche alcuni zuccheri utilizzati dall’industria dolciaria.
I fiocchi, croccanti e leggeri, sono impiegati comunemente nella prima colazione con latte e yogurt.
Oggi è diffuso anche in Italia il pop-corn, tipica “merendina” statunitense ottenuta con l’”esplosione”
dei chicchi di mais messi al fuoco.
Miglio
Ha avuto un posto di rilievo nell’alimentazione delle generazioni che ci hanno preceduto, in particolare nell’Italia settentrionale dove la polenta di miglio era un piatto tipico in Veneto, Lombardia,
Trentino.
Si tratta di una graminacea con un buon tenore di proteine (11% circa, più del mais e dell’orzo), un
discreto contenuto di ferro e altri minerali. Contiene inoltre acido salicilico che ha un effetto positivo
su unghie, pelle e capelli. La sua farina miscelata con quella del grano è talvolta usata nella panificazione e nella preparazione di paste speciali; il miglio per essere digeribile è consumato in chicchi
decorticati, accompagnato da verdure.
Orzo
Utilizzato fin dai tempi degli antichi Egizi per la produzione della birra, oggi viene coltivato in misura
molto ridotta e rivolta soprattutto all’alimentazione animale. Cresce anche in terreni poco fertili ed è
coltivato in quasi tutti i Paesi del mondo.
È nutriente quasi come il frumento: il chicco intero apporta circa il 10% di proteine, di valore nutrizionale simile a quelle del frumento. L’orzo, a differenza del grano, è però solo parzialmente panificabile; forse proprio per questo, nonostante la sua notevole adattabilità, è stato soppiantato, nel corso
del tempo, dal frumento.
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L’orzo nell’alimentazione moderna
La farina può essere usata, mescolata con quella di frumento, per la panificazione e per la preparazione di dolci e focacce; i chicchi, decorticati, si prestano alla preparazione di zuppe e minestre.
I fiocchi, ottenuti dai semi schiacciati e sottoposti a riscaldamento, possono essere aggiunti a minestre, zuppe, latte o yogurt.
Con l’orzo tostato, si ottiene un ottimo sostituto del caffè.
Segale
È, come l’avena, un cereale tipico dei paesi del Nord, in particolare di quelli di lingua tedesca. In
Italia la coltivazione è concentrata in alcune zone del Nord. Conosciamo soprattutto il pane che si
ottiene con la sua farina: è molto umido e può essere conservato per giorni, perché contiene zuccheri particolari in grado di trattenere l’acqua. Rispetto al frumento, è leggermente più povero di proteine
e sali. È un ottimo cereale, da consumare sotto forma di chicchi, ma soprattutto di fiocchi per la prima
colazione, nella preparazione del muesli o da aggiungere a latte e yogurt.
Cereali meno conosciuti
Panico
Pianta perenne. A piena maturazione, presenta piccole pannocchie con spighette formate da semi molto
piccoli. Questi contengono una buona quantità di amido e sono utilizzabili per la preparazione di pani.
In molte nazioni africane e sudamericane rappresenta la principale fonte di carboidrati. Alle nostre latitudini trova, invece, poco spazio nell’alimentazione umana e viene utilizzato come cibo per gli uccelli da
gabbia.
Sorgo
Graminacea molto coltivata come alimento in Africa. Si può utilizzare la pannocchia intera, come il
mais, o macinare. Rispetto al mais, è più ricco di proteine e più povero di grassi.
Amaranto
E’ uno dei cereali più antichi dell’umanità. Il suo nome deriva dal colore del rivestimento del seme.
Inka e Aztechi lo chiamavano “kiwicha” e lo veneravano come cereale magico. Credevano, infatti che
il suo consumo conferisse forze sovrannaturali.
E’ privo di glutine. Ha un elevato contenuto di lisina, amminoacido essenziale poco presente negli
altri cereali.
Quinoa
E’ il seme di una pianta della famiglia degli spinaci coltivata sulle Ande ad elevate altitudini da 5000
anni. E’ nutriente equilibrato e molto digeribile, ricco di proteine, ma privo di glutine. Si usa così, ma
anche macinato, mescolando la farina con quella di frumento, per produrre pane, pasta e biscotti.
Grano kamut
Cereale antichissimo coltivato in Egitto e nella Mesopotamia più di 5000 anni fa.
Non avendo subito selezioni per aumentarne la resa, ha mantenuto inalterato valore nutritivo e patrimonio genetico. Il chicco, molto più grande di quello del frumento, è anche più ricco di proteine e
meno allergizzante.
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Pane
Letteratura
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola; ma nessuno di loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che
triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana; e perché la trippa non
gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato.
La Volpe avrebbe spilluzzicato volentieri qualche cosa anche lei; ma siccome il medico le
aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte
con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre
si fece portare un tornagusto, un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non
poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di
pane, e lasciò nel piatto ogni cosa.
(C.Collodi, Le avventure di Pinocchio)
Camminando, ”vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve […]. Si chinò sur
una di quelle, guardò, toccò e trovò ch’era farina. - Grand’abbondanza, - disse tra sé - ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davano a intendere poi che la
carestia è per tutto. […] Vide poi appié della colonna, vide sugli scalini del piedestallo certe
cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fosser state sul banco d’un fornaio, non si
sarebbe esitato un momento a chiamarle pani. […] Si chinò, ne raccolse uno: era veramente un
pan tondo, bianchissimo […]. - È pane davvero! - disse ad alta voce; tanta era la sua meraviglia: -così lo seminano in questo paese? In quest’anno? E non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo?”
(A. Manzoni, I promessi sposi)
Un po’ di storia
Quale sia stato il cereale più anticamente coltivato in Egitto è oggetto ancora di discussione,
ma è sicuro che l’orzo è stato trovato in insediamenti preistorici del delta del Nilo, datati attorno
al 4000 a C.; all’orzo si aggiungevano il grano e il farro. Le pianure, periodicamente inondate dal
fiume, producevano cereali in abbondanza, sufficienti per l’uso interno e per l’esportazione.
Grano ed orzo erano la base dell’alimentazione, utilizzati per la fabbricazione del pane e della
birra; il pane di farro era consumato soprattutto dai ceti più modesti.
Il pane si faceva, come ovvio, aggiungendo alla farina l’acqua e un po’ di sale, e impastando
la massa ottenuta, a mano oppure, per grandi quantità, con i piedi dentro larghi recipienti; i
pani, bassi e schiacciati, potevano essere cotti direttamente su una pietra piatta messa sul
fuoco o sul piano del forno aperto, oppure cuocevano aderenti alle pareti interne del forno. La
lievitatura non era ignota, ottenuta dalla pasta inacidita; questo sistema non escludeva, almeno
dal 1500 a.C. l’impiego di un lievito vero e proprio, ricavato dalla fabbricazione della birra, che
di regola era associata alla panetteria.
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Dai poemi omerici all’età imperiale romana, il mondo mediterraneo antico è mondo del pane o, per
lo meno, mondo dei cereali e del cibo (pappa, pane, focaccia) preparato con i cereali
In Omero, anche se gli eroi mangiano carne, gli uomini sono definiti come coloro che mangiano pane,
e si contrappongono agli dei, che vivono invece di nettare e di ambrosia (qualunque cosa siano queste sostanze, ancora abbastanza misteriose). Una dieta di carne e di latticini caratterizza il selvatico
Polifemo, essere mostruoso e antropofago, che beve latte e non conosce il vino, bevanda umana per
eccellenza. A questo quadro di riferimento si attiene in linea di massima la cultura antica.
Le piante e l’agricoltura distinguono l’uomo civile dal barbaro: selvaggi e barbari vengono considerati i popoli che non praticano l’agricoltura.
Il Medio Evo segna una rottura con la tradizione agricola romana; si diffondono, a scapito del frumento, la segala e l’avena, (vere “invenzioni” medioevali, erbe selvatiche selezionate e messe a coltura dal IV - V secolo in poi), la spelta, il miglio, il sorgo.
Nei secoli dopo il Mille si afferma in modo deciso la presenza del pane nel regime alimentare;
nell’Italia tra la fine del Duecento e la fine del Trecento, il consumo delle popolazioni cittadine è orientato quasi esclusivamente verso il pane di frumento.
L’uso alimentare dei cereali non si limitava alla panificazione; i grani minuti in special modo, trovavano largo impiego, secondo la tradizione romana, nella preparazione di minestre e zuppe, come pure
di focacce. Questi cibi erano particolarmente diffusi tra le popolazioni contadine, a volte in sostituzione dello stesso pane.
Il predominio del pane nel Medio Evo è ben messo in evidenza dall’uso della parola “companatico”,
che da allora indica ciò che accompagna il pane: l’insieme dei condimenti ed alimenti secondari.
Fino al XX secolo, nelle campagne, i contadini distinguono ciò che nutre, il pane o altri alimenti a
base di cereali, da altri alimenti che hanno la funzione di condimento.
Dal Medio Evo fino all’età moderna il pane non era solo un alimento popolare; era l’alimento fondamentale per i contadini e anche per nobili e borghesi: il pane bianco per i ricchi, il pane nero, “bigio”,
spesso ottenuto anche da altri cereali, per i poveri. Ma anche il pane di frumento e bianco era diverso: quello contadino poteva essere di macinato non setacciato ed era un pane grosso, protetto da una
crosta spessa perché non si indurisse e si consumava raffermo perché la preparazione non poteva
essere frequente; nell’alta società si consumavano panini, preparati giorno per giorno. Mangiare il proprio pane raffermo era diventato un principio morale, e di economia contadina: “pane duro fa casa
sicura”.
Occorre però anche precisare che cosa si intendesse per ”pane”: c’era infatti la tendenza a considerare pane ogni alimento di base; si cercava inoltre di ottenere il pane da ogni specie di cereali, altri
grani, legumi e frutti secchi. I montanari delle Dolomiti, della Calabria e di altre regioni povere preparavano il pane dalle castagne.
Nel XVII e XVIII secolo, in alcune regioni del Nord Europa e in Irlanda la patata andò a coprire il ruolo
di pane dei poveri.
Il pane resta ancora oggi uno degli alimenti fondamentali in Italia, anche se il consumo medio attualmente è circa la metà rispetto a quarant’anni fa.
Nel XIX secolo il pane divenne uno dei tanti cibi, che gli italiani, immigrati in America, utilizzarono
come simbolo di identità nazionale.
Portare con sé sempre qualcosa da mangiare è un tratto distintivo degli Italiani ed in special modo il
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pane, impastato nella maggior parte delle casa, posto a lievitare nelle domestiche madie e portato settimanalmente a cuocere al pubblico forno costituisce un profondo legame con la famiglia e la tradizione.
“Il calabrese” scrive Alvaro “anche quando parte per l’America (…) si porta il suo pane”
Era usanza dei Calabresi infilare il pane in una manica della giacca che veniva legata poi al fondo
come un sacco; “pane e mantu grava ma non tantu” recita infatti un proverbio calabrese che spiega
come l’ingombro del pane e del companatico, durante un viaggio, non sia poi così gravoso in rapporto alla comodità di avere il proprio cibo a portata di mano.
Gli Italiani, quando partono per il nuovo mondo, si riconoscono per il loro legame fisico e mentale con
il cibo; tipico del viaggiatore italiano dei primi del 900 è la grande munizione di pane che veniva tagliata, giorno dopo giorno, fetta dopo fetta, con l’aiuto di un temperino o di un coltellino a serramanico.
Appunti
In panetteria…
Salati, dolci, insipidi, con semi… esistono molti tipi di pane, ma quelli più diffusi sono identificabili
anche attraverso il nome.
Sul cartellino esposto troverai le informazioni utili sui diversi tipi:
C O M U N E , in genere il tipo più semplice, preparato dal fornaio con farina, lievito e, non sempre, sale.
Sono pagnotte da mezzo chilo o un chilo, a prezzo più basso. Hanno una buona conservabilità.
T I P O P U G L I E S E O T O S C A N O , a volte, di questi pani regionali, resta solo il nome: dovrebbero essere
preparati con lievito naturale, il pugliese con il grano duro e il toscano senza sale;
I G P E D O P : ci sono i tipici anche tra i pani: il primo a ottenere un riconoscimento è stato il “Pane casereccio di Genoano IGP”, prodotto in Lazio, molto diffuso a Roma e dintorni. Si è completata anche
la pratica europea per la “Coppia ferrarese IGP”, ed è diventato DOP il pugliese “pane di Altamura”;
P A N I N I A L L ’ O L I O O A L L A T T E : sono panini di farina raffinata, il cui sapore è modificato dalla presenza di latte e di grassi;
A I C E R E A L I O A L L A S O I A : per ottenere il pane è possibile mescolare altri sfarinati alla farina di frumento. Spesso si aggiungono anche piccoli semi come quelli di lino o di sesamo.
Puoi trovare il pane incartato o sfuso; la comunicazione degli ingredienti che compongono il pane è
diversa.
Se il pane è venduto incartato gli ingredienti si trovano sull’etichetta, se invece è venduto sfuso, il
panettiere è tenuto a esporre al pubblico l’elenco completo degli ingredienti.
Il pane integrale
Offre indubbi vantaggi nutritivi, grazie all’alta percentuale di fibre contenute e ad un peso calorico
inferiore ad altri tipi di pane. È leggero (230kcal per 100g) più del pane comune (279kcal), del pane
d’orzo, di quello di segale, e del pane di soia. Per non dire poi di quello al latte e all’olio (300kcal).
Attenzione però ai pani integrali che sono tali solo di nome, poiché ottenuti con raffinazione e successiva aggiunta di farina integrale.
T r a i c o n f e z i o n a t i invece, 100g di grissini equivalgono a 430 kcal. I crackers intorno alle 400, così
come le patatine fritte. Poco meno (360) i salatini. Addirittura 390 le fette biscottate.
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Pizza
Letteratura
La pizza è una specie di stiacciata, come se ne fanno a Saint-Denis: è di forma rotonda e si
lavora con la stessa pasta del pane. Varia nel diametro secondo il prezzo. Una pizza da due centesimi basta per un uomo, una pizza da due soldi deve soddisfare un’intera famiglia.
A prima vista la pizza sembra un cibo semplice: sottoposta ad esame, apparirà come un cibo
complicato. La pizza è all’olio, al lardo, alla sugna, al formaggio, al pomodoro, ai pesciolini.
E’ il termometro gastronomico del mercato: il prezzo aumenta o diminuisce secondo il variare
del corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata. Quando la
pizza ai pesciolini costa mezzo grano, vuol dire che la pesca è stata buona; quando la pizza all’olio costa un grano, significa che il raccolto è stato cattivo.
Altra cosa influisce sul prezzo della pizza: la sua maggiore o minore freschezza. Si capisce che
non si può più vendere la pizza del giorno prima allo stesso prezzo di quella della giornata: vi
sono, per le piccole borse, pizze di una settimana, le quali possono sostituire, vantaggiosamente se non gradevolmente, la galletta di bordo. ( Alexandre Dumas, Il corricolo )
Alexandre Dumas visita l’Italia da turista nel 1835. Nell’opera in cui descrive questo viaggio,
intitolata al “Corricolo”, il tipico calesse napoletano, ci ha lasciato ricordi, impressioni, aneddoti sullo stile di vita povero ma anche allegro dei “lazzaroni”; di questi descrisse anche il modo
di mangiare: pizza d’inverno, cocomero d’estate. E i maccheroni?
“I maccheroni”, dice Dumas, “costano due soldi la libbra, il che li rende accessibili alla borsa
dei lazzaroni solo la domenica ed i giorni festivi.”
Un po’ di storia
La pizza può essere considerata un piatto vecchio di secoli, presente non solo nella penisola
italica. Nella cultura romana antica troviamo la descrizione di una spianata di farina impastata
con acqua, da cuocere in una piastra rovente. Di un piatto simile parlano diversi autori, tra cui
Catone, Orazio, Virgilio.
Se vogliamo, però, inserire la pizza nella tradizione napoletana, le prime pizzerie di cui si ha
notizia, risalgono alla fine del ‘600 e all’inizio del ‘700; si tratta in genere di laboratori o più semplicemente di forni che servono i clienti ma anche riforniscono gli ambulanti che la vendono per
strada ai passanti; soltanto nella seconda metà del Settecento, alcune di queste pizzerie si dotano di tavolini col ripiano di marmo, dove i clienti possono fermarsi a consumare la pizza; la
norma rimane però il consumo per strada.
Nell’Ottocento la pizza continua ad essere il cibo dei poveri ma, verso la fine del secolo, acquista un nuovo statuto che la fa entrare come piatto proprio della cucina italiana nell’universo simbolico patriottico e risorgimentale: la real casa Savoia rilascia al pizzaiolo Raffaele Esposito un
attestato per la pizza preparata alla Regina Margherita in visita alla città di Napoli.
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Secondo la tradizione, in quell’occasione R. Esposito prepara 3 pizze: una bianca, condita con olio,
formaggio e basilico, una con i “ceccenielle”(pesciolini), ed una al basilico, pomodoro e mozzarella,
quindi rossa, bianca e verde. Non è chiaro se questa pizza sia stata improvvisata per quell’occasione
con i colori della bandiera italiana o se preesistesse ed in quell’occasione sia entrata a far parte di un
nuovo universo simbolico, diventando parte di quei cibi in cui gli italiani si riconoscono. In particolare vi si sono riconosciuti i numerosi emigranti che nel periodo post-unitario hanno abbandonato diverse regioni dell’Italia, soprattutto meridionale, per sfuggire alla miseria; sarà proprio l’emigrazione il
motore di diffusione dell’immagine per cui pasta, spaghetti e pizza sono sinonimi di italianità in Italia
e all’estero.
La pizza oggi
La pizza è l’alimento cotto che più rappresenta, all’estero, la cucina italiana.
Al pari del panino imbottito e dell’hamburger, costituisce un tipico cibo metropolitano, consumato su
vasta scala da grandi e piccini, che si adatta agevolmente a diversi stili di vita.
Fra gli altri cibi “fast food”, la pizza tradizionale deve la sua diffusione al fatto che si presta a costituire un piatto unico, dal costo contenuto, capace di fornire da solo i nutrienti di un pasto; può essere consumata senza necessità di una tavola o di stoviglie, al bar, per strada, a casa, in un locale apposito.
Pur avendo un’origine geo-gastronomica precisa, può adattarsi ad ingredienti di origine diversa ed
assecondare i gusti di culture alimentari lontanissime con varianti tipiche, creative, etniche, nazionali, versioni povere e lussuose.
Il nome di una tipica pizza della nostra cultura alimentare, “quattro stagioni”, contiene un potente
richiamo simbolico al calendario solare e gastronomico. In realtà, la pizza come la intendiamo oggi,
non è un prodotto stagionale, ma per tutte le stagioni. Sfrutta il progresso dell’agronomia e dell’industria alimentare che rendono presente in luoghi lontani da quelli di produzione e per tutto l’anno: farina, pomodoro, mozzarella, alici o altri ingredienti.
Ben diversi sono gli antecedenti lontani di questo piatto, ad esempio nella cultura romana antica. Nel
“Moretum”, Virgilio (I secolo d. C.) descrive la preparazione, da parte di un contadino, di una focaccia
condita con erbe pestate nel mortaio, olio e formaggio. Le erbe conferiscono profumo, l’olio e il formaggio sapore e morbidezza: si tratta di un modello alimentare basato sull’autoproduzione, ben lontano dalla modernità alimentare.
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Pomodoro
Introdotto dall’America all’inizio del XVI secolo, il pomodoro venne da prima impiegato soltanto come pianta ornamentale nei giardini e come dono galante da offrire alla propria dama.
Come curiosità esotica e frutto ornamentale, il pomodoro fa la sua apparizione nelle opere di
naturalisti e di viaggiatori come Mattioli e José Acosta.
Seppur non mancassero i soliti ”ghiotti ed avidi di cose nove” bisogna aspettare molti decenni affinché il pomodoro emerga come ingrediente della cucina europea. Qualche pianta in un
giardino botanico rappresenta una curiosità ed un oggetto di studio, ma non interessa l’alimentazione della popolazione e l’economia del territorio.
Dopo la seconda metà del Settecento, il pomodoro appare come ingrediente in due famosi libri
di cucina: Il Cuoco Galante (1773), di Vincenzo Corrado, nella ricetta “In stufa al pomodoro” e
nella Cucina teorico pratica (1839), di Ippolito Cavalcanti, dove viene proposta una ricetta di
salsa di pomodoro realizzata con pomodori bolliti, passati al setaccio e fatti “restringere” in
padella con olio, sale e pepe. La ricetta, seppur vecchia di secoli, non differisce molto dalla
odierna preparazione della “salsa” o “conserva” realizzata ancor oggi in molte famiglie italiane.
L’utilizzo del pomodoro in elaborate preparazioni gastronomiche fu un’abitudine di corte, mentre il popolo, per tutto il ‘600 non lo consumò se non, probabilmente, crudo in insalata. Per essere trasformato in salsa e divenire il cibo preferito delle popolazioni mediterranee, il pomodoro ha
dovuto aspettare il XIX secolo.
Il connubio tra pasta e pomodoro, e tra pizza e pomodoro, si è realizzato, infatti, a Napoli attorno alla metà dell’Ottocento ed è stato decisivo per la naturalizzazione della pianta americana nel
mezzogiorno italiano. Il pomodoro divenne in breve il condimento più usuale per i maccheroni,
cibo alla base della cucina meridionale, e soprattutto campana, del secolo XIX.
Anche se il pomodoro conosce il suo apice gastronomico in area campana, i pionieri nell’utilizzo di tale ortaggio furono gli spagnoli. Alla “spagnola” vengono definite in molti ricettari italiani, le ricette che prevedevano come ingrediente il pomodoro; molto famosa la salsa “alla spagnola” realizzata con polpa di pomodoro, cipolle, “peparolo” e “serpillo”, accomodata con sale,
olio e aceto. Una modalità d’uso che favorì l’accettazione del frutto americano nella tradizione
europea fu proprio quella della salsa d’accompagnamento per i bolliti ed altre carni, che affonda le sue radici nella tradizione gastronomica del Medioevo.
Il pomodoro, prima di divenire re indiscusso della cucina napoletana, conquistò, oltre alla già
citata Spagna, la cucina provenzale, quella ligure e piemontese per poi approdare, dopo un lungo
viaggio, alla Campania.
L’apporto calorico del pomodoro è pressoché irrilevante e ancor oggi è l’unica coltura al
mondo, di grande utilizzo, che non ha un preciso ruolo dietetico ma funge da condimento di
buona parte dei piatti della cucina mediterranea.
Alla base del successo del pomodoro e del suo diffusissimo utilizzo c’è sicuramente la facilità
di conservazione dei suoi derivati, sia di produzione domestica che industriale. La fortuna del
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pomodoro nell’area mediterranea è anche da ricercarsi nel quantitativo d’acqua contenuto nel frutto
che, se consumato crudo in insalata, costituisce un alimento dissetante e reidratante estremamente
adatto al clima estivo.
Poiché in cucina anche l’occhio vuole la sua parte, possiamo affermare che il successo del pomodoro, nella cucina tradizionale, come in quella internazionale, è in gran parte da ricercarsi nel bel colore rosso dei suoi frutti. Il colore del frutto maturo si deve al Licopene, un enzima che va formandosi
nel periodo della maturazione e al quale sono attribuiti benefici effetti antiossidanti per l’organismo
umano.
Oggi in commercio sono disponibili prodotti di derivazione industriale che riproducono la salsa di
pomodoro e la passata come un tempo veniva preparata nelle famiglie. Si tratta, in genere, di alimenti naturali, privi di conservanti che affidano la freschezza del preparato al principio del “sotto vuoto”.
Per quanto concerne il commercio del frutto, possiamo dividere i pomodori in due grandi famiglie: da
sugo e da insalata.
Mentre i pomodori da sugo sono caratterizzati da una polpa morbida e dalle piccole dimensioni i
pomodori da insalata si presentano più compatti, quasi completamente privi di semi e di dimensioni
superiori.
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Formaggi
Letteratura
In una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e vi si
poteva avere un’oca per un denaro e in aggiunta un papero e c’era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che
far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan giù, e chi più ne
pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si
bevve, senza avervi dentro gocciola d’acqua.
Oh - disse Calandrino - cotesto è un buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon
coloro?
Rispose Maso: ”Mangianseli i Baschi tutti”
Disse allora Calandrino “Fostivi tu mai?”
A cui Maso rispose ….”Si, vi sono stato così, una volta come mille”
Disse allora Calandrino: “ E quante miglia ci ha?”
Maso rispose “Haccene più di millanta, che tutta la notte canta”.
(Boccaccio, 1980)
Un po’ di storia
Le prime tracce di cucina da parte degli uomini si perdono nella notte dei tempi.
La preparazione del formaggio rientra tra quei procedimenti di conservazione praticati dall’uomo fin dalla preistoria, per ottenere dei prodotti a lunga conservazione.
Dal latte degli animali di allevamento, gli antichi egiziani ricavavano formaggio, burro e latte
acido, più volte citati anche nell’Antico Testamento.
In epoca romana, Catone (III secolo a.C.) ci ha lasciato la ricetta della “puls punica” (polenta
punica), costituito da un piatto unico, ricco di sostanze nutrienti: “mettete nell’acqua una libbra
di farina e fatela stemperare bene, versatela in un mastello pulito, aggiungete tre libbre di formaggio fresco, mezza libbra di miele ed un uovo; mescolate bene e fate cuocere in una pentola
nuova”.
Presso gli antichi Greci, il formaggio occupa un posto di primo piano fra gli spartani; i prodotti dell’allevamento erano diffusi fra i greci ed i romani, ma i popoli che li utilizzavano come unica
risorsa alimentare erano considerati barbari, in quanto era ritenuto proprio dei popoli civilizzati
ricavare il sostentamento dall’agricoltura.
Erodoto, storico greco del V secolo a.C., nel descrivere la Scizia, regione dell'Asia occidentale,
distingue i suoi abitanti in tre gruppi: quelli che ignorano l’agricoltura e vivono di latte equino e
dei suoi derivati, gli sciti agricoltori che coltivano i cereali ma per venderli e non se ne nutrono
ed infine quelli che li coltivano per nutrirsene e sono quindi, come i greci, mangiatori di pane.
A proposito dei costumi dei Germani, Giulio Cesare nel “De bello gallico” osserva che “non si
dedicano all’agricoltura e la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne”.
Il formaggio era in uso presso i romani unito ad altri alimenti: Plinio il Vecchio nella “Naturalis
Historia” racconta come nella Roma imperiale del primo secolo si trovassero tredici tipi diversi
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di formaggio. Nelle regioni europee, per tutto il Medio Evo, la sua produzione non conobbe confini.
Prodotto quasi sempre con latte di pecora o capra, costituiva il modo abituale per consumare il latte,
non esistendo l’abitudine di berlo. Nei secoli XII e XIII, il formaggio era considerato un sostituto della
carne, in particolare nei giorni di penitenza previsti dal calendario liturgico ed ha avuto un ruolo importante nell’alimentazione contadina nei secoli successivi.
I consumi tendono ad aumentare in tutta Europa dalla fine del XVIII secolo e dalla fine dell’Ottocento
risulta cambiata l’immagine dei derivati del latte e l’atteggiamento dei consumatori.
Appunti
I formaggi per la loro varietà ed estrema diversificazione dall’uno all’altro, vengono classificati
utiIizzando diversi criteri, come: le caratteristiche merceologiche, l’origine del latte (vaccino, capra,
pecora e bufala), la presenza di grassi, la tecnologia sottesa alla produzione.
In questa attività li troverai divisi in formaggi freschi e formaggi stagionati.
Formaggi Freschi
Tra le pubblicità del formaggio, le più diffuse sono quelle che sottolineano che è ”fresco e magro”.
Sono formaggi a scadenza breve, e rispetto a quelli stagionati costano meno ai produttori perché,
essendo ricchi di acqua, rendono di più e non devono restare molti mesi a maturare.
Formaggini
I formaggi fusi sono un prodotto elaborato, a base di formaggi che sono stati riscaldati fino a fonderli e a cui sono stati miscelati altri ingredienti. Ogni industria utilizza formaggi diversi, anche secondo l’origine geografica di provenienza: per esempio, i produttori svizzeri usano l’emmenthal.
Non sempre troviamo questa informazione sull’etichetta.
Gli altri ingredienti derivano anch’essi dal latte, nelle più diverse forme: panna, siero in polvere,
grassi del latte, proteine, oltre all’acqua.
L’industria usa volentieri questi derivati che risultano più pratici ed economici del prodotto fresco.
Quanto è fresco
Tutti i formaggi industriali che non richiedono maturazione e sono ricchi d’acqua, vengono esposti al
pubblico nel banco del frigorifero. In alcuni casi, però, il formaggio già confezionato viene pastorizzato e così vengono uccisi i fermenti lattici, fondamentali per definire “fresco” un formaggio.
Purtroppo, non è obbligatorio indicare questo trattamento sull’etichetta.
Così due prodotti all’apparenza identici possono avere due scadenze molto diverse e ovviamente
quello che scade prima probabilmente sarà più fresco.
Un’indicazione utile: cerca frasi come “ricco di fermenti lattici vivi”.
Per l’attività in classe
Pastorizzato: sai cosa vuol dire? La parola trae la sua origine dal nome del biologo francese Louis
Pasteur. Alle sue ricerche si devono importanti scoperte nell’ambito della medicina.
Fai una piccola ricerca per capire perché la pastorizzazione è così importante.
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Formaggi Freschi Tradizionali
Mozzarella
Latticino originario dell’Italia Centrale e Meridionale, dove veniva prodotto con latte di bufala, oggi
prodotto anche con latte vaccino.
Viene venduta immersa nel siero, che ne conserva freschezza e fragranza, e può avere forme diverse. Le più diffuse sono tondeggianti o intrecciate, con pezzi, nel primo caso, di dimensioni variabili,
anche molto grandi (più di 500 grammi) e molto piccole, poco più grandi di una ciliegia. Può essere
anche affumicata. In questo caso, assume un colore ambrato e presenta un caratteristico sapore di
fumo.
E’ il formaggio più venduto in Italia; oltre che nella pizza trova anche posto in numerose preparazioni, specialmente estive.
Per il suo contenuto relativamente elevato di grassi, va consumata con parsimonia da chi ha problemi di sovrappeso o disturbi del metabolismo dei lipidi.
Alla mozzarella di bufala campana, prodotta al 100% con tecniche tradizionali, è stata riconosciuto il
marchio DOP, Denominazione di Origine Protetta (vedi scheda sigle alimentari).
Ricotta
Non rientra nella definizione di “formaggio” in quanto è ottenuta non dal latte ma dal siero della produzione dei formaggi.
Il siero viene fatto riscaldare una seconda volta, (ecco spiegato il termine di ri-cotta, “cotta due
volte”) perché coaguli.
La ricotta vaccina ha un bassissimo contenuto di grassi, quella di pecora, (ricotta romana) ne contiene in maggior quantità.
Mentre le proteine dei formaggi sono composte principalmente da caseina, le proteine della ricotta
sono albumine che hanno un maggior valore nutrizionale.
Anche se è venduta a un prezzo basso, questo non ha nessuna relazione con il valore nutrizionale.
Sul mercato si può trovare una ricotta vaccina più grassa, ottenuta con una aggiunta di panna.
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Dolci
Letteratura
A mezzogiorno, videro su un ramo un bell’uccellino bianco come la neve; cantava così bene
che si fermarono ad ascoltarlo. Quand’ebbe finito aprì le ali e volò davanti a loro ed essi lo seguirono finché giunsero ad una piccola casa e l’uccellino si posò sul tetto. Quando furono ben vicini, videro che la casina era fatta di pane e coperta di focaccia; ma le finestre erano di zucchero trasparente. - All’opera! - Disse Hansel, - faremo un ottimo pranzo. Io mangerò un pezzo di
tetto e tu, Gretel, puoi mangiare un pezzettino di finestra: è dolce -. Hansel si rizzò e stese la
mano in alto, e staccò un pezzo di tetto, per sentire che gusto aveva; e Gretel s’accostò ai vetri
e cominciò a spiluzzicarli. Allora una voce sottile gridò dall’interno:
- Rodi, rodi, morsicchia,
la casina chi rosicchia?
E i bambini risposero:
- Il vento, il venticello,
il celeste bambinello,
e continuarono a mangiare, senza lasciarsi confondere. Hansel, a cui il tetto piaceva molto, ne
staccò un grosso pezzo, e Gretel tirò fuori tutto un vetro rotondo, sedette in terra e se lo succhiò beatamente.
(Grimm, le fiabe del focolare, 1951)
Ben presto il suo sguardo cadde su una scatoletta di vetro che era sotto la tavola: ella la aprì
e vi trovò un biscotto piccolo piccolo, sul quale la parola “MANGIAMI” era preziosamente scritta con l’uvetta. “Bene, lo mangerò”, disse Alice, “e se mi farà crescere, potrò arrivare alla chiave; se mi farà rimpicciolire, potrò scivolare sotto la porta: in entrambi i casi entrerò nel giardino e non temo quel che mi potrà capitare!”.
Ne mangiò un pezzetto, e si disse ansiosamente: ”Quale parte? Quale parte?” tenendosi la
mano in testa per vedere da quale parte stava crescendo: fu alquanto sorpresa di trovare che
era rimasta della stessa statura. Certo: questo è generalmente quanto accade quando si mangia
un dolce; ma Alice era così abituata ad aspettarsi cose stupefacenti, che le sembrava noioso e
stupido il comune svolgersi delle cose.
( Carroll, L. Alice nel paese delle meraviglie )
Un po’ di storia
La preparazione dei dolci è attestata già dalla civiltà degli antichi Egizi; gli storici antichi testimoniano l’esistenza di un pane speciale fatto con farina di semi di loto, simili al miglio, impastato con latte e acqua.
La pasta del pane poteva essere arricchita con del grasso, con uova ed addolcita col miele o con
frutta (fichi, giuggiole o la polpa della palma dum, dal sapore di zenzero) che poteva anche essere messa fra due dischi di pasta.
Sulle focacce si poteva spalmare una specie di marmellata di datteri o miele.
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Appunti
Che cosa contraddistingue tutti i dolci? Il gusto caratteristico del dolce appunto, ottenuto spesso dai
cristalli del comune zucchero semolato. Possono essere presenti anche altri zuccheri come il fruttosio
e il glucosio, contenuti nella frutta e nel miele ed il lattosio, ovviamente presente nel latte.
Il consumo di questi alimenti va controllato, dal momento che si tratta di una fonte di energia dal
notevole contributo calorico in cui allo zucchero si aggiungono quasi sempre dei grassi.
Per un consumo attento, si possono individuare alcune regole essenziali che ci orientino con intelligenza. La prima di queste consiglia di preferire i dolci a ridotto contenuto di grassi.
Attenzione anche al consumo di prodotti da spalmare: le marmellate, il miele, ma soprattutto le
creme ( a base di nocciole, cacao, arachidi).
In quest’ultimo caso la componente grassa ed oleosa è molto alta.
Contenuto di grassi, proteine, carboidrati e valore energetico
dei più comuni alimenti dolci (per 100 grammi di prodotto)
Alimento
grassi
carboidrati
proteine
amidi
zuccheri
kcal
Biscotti
7,9
6,6
60,3
18,5
418
Brioches
18,3
7,2
43,1
10,6
413
Merendine farcite
15,1
6,2
19,7
45,2
414
tracce
0,5
0
58,7
222
Crema di nocciole/cacao
32,4
6,9
0
58,1
537
Cioccolato al latte
37,6
8,9
tracce
50,8
565
tracce
tracce
0
91,6
343
Marmellata
Caramelle
(la tabella è tratta da “tu mangia bene” campagna di educazione alimentare promossa da Ministero
delle Politiche Agricole e Alimentari)
Nelle pasticcerie artigianali e in panetteria, leggi sempre il cartello degli ingredienti e non dare per
scontato che si usino solo ingredienti tradizionali.
Se il prodotto è confezionato, controlla l’etichetta tenendo presente che gli ingredienti sono elencati in ordine decrescente di peso: sono da preferire i dolci in cui lo zucchero non figura al primo posto.
Ad un elenco breve corrisponde un numero limitato di ingredienti integri e genuini, un elenco lungo
comprenderà invece additivi.
Attenzione
a l l a q u a l i t à : il burro è meglio della margarina e di altri grassi tropicali come quelli di palma e di cocco;
il latte fresco è meglio di quello in polvere.
a i d o l c i f i c a n t i a r t i f i c i a l i : sono sempre più diffusi; solo con un’attenta lettura dell’etichetta è possibile
individuarli.
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Yogurt
Letteratura
Mio padre s’alzava sempre alle quattro del mattino. La sua prima preoccupazione, al risveglio,
era andare a guardare se il “mezzorado” era venuto bene. Il mezzorado era latte acido, che lui
aveva imparato a fare, in Sardegna, da certi pastori. Era semplicemente lo yoghurt. Lo yoghurt,
in quegli anni, non era ancora di moda: e non si trovava in vendita, come adesso, nelle latterie
e nei bar.
Il mezzorado era in cucina, dentro una zuppiera, coperto da un piatto ravvolto in un vecchio
scialle color salmone, che apparteneva un tempo a mia madre. A volte, non era “venuto” affatto,
e si doveva buttar via: non era che un’acquerugiola verde, con qualche blocco solido di un bianco marmoreo. Il mezzorado era delicatissimo, e bastava niente a far si che non riuscisse: bastava che lo scialle che lo ravviluppava fosse un po’ scostato, e lasciasse filtrare un po’ d’aria.
Quando andavamo in villeggiatura, dovevamo ricordarci di portar via “la madre del mezzorado”
che era una tazzina di mezzorado bene incartata e legata con uno spago. - Dov’è la madre? Avete
preso la madre? - chiedeva mio padre in treno rovistando nel sacco da montagna. - Non c’è! Qui
non c’è! - gridava; e a volte la madre era stata davvero dimenticata, e bisognava crearla dal
nulla, col lievito di birra.
Mio padre faceva, al mattino, una doccia fredda. Lanciava, sotto la sferza dell’acqua, un urlo,
come un lungo ruggito; poi si vestiva, e trangugiava gran tazze di quel mezzorado gelido, in cui
versava molti cucchiai di zucchero.
(Ginzburg N., Lessico familiare, 1963)
Un po’ di storia
Lo yogurt era già conosciuto fin dal periodo biblico: se ne parla nel Vecchio Testamento
(Genesi) quando si dice che Abramo, lieto nell’apprendere che la moglie Sara era finalmente in
attesa di un figlio, “prese una bevanda di latte acido e latte fresco” e la mise davanti agli angeli venuti a dargli la notizia.
Il latte fermentato ha un’antica tradizione in Bulgaria e Turchia da dove si è diffuso, mantenendo il nome.
Gli antichi popoli orientali conservavano il latte in otri ricavati dalla pelle e dagli stomaci degli
stessi animali. Secondo la leggenda, lo yogurt è stato scoperto perché un pastore, dimenticando del latte in uno di questi otri lo ritrovò, più tardi, trasformato: più denso e saporito. La fermentazione ha favorito, in questi popoli nomadi, la necessità di conservare il cibo. Le loro continue migrazione hanno portato alla diffusione dello yogurt nel bacino del Mediterraneo dove era
conosciuto da Fenici, Egizi, Greci e Romani.
Si sa che il latte acido veniva venduto per strada a Costantinopoli già dal XII secolo.
Viaggiatori francesi del XV e XVI secolo in Cappadocia apprezzavano presso i Turcomanni l’offerta di “una grande ciotola di latte cagliato che essi chiamano “Yogurt”.
Il sistema di produzione è rimasto pressoché invariato nel corso dei millenni.
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Fino a qualche decennio fa, la preparazione avveniva in casa o comunque artigianalmente, per il consumo quotidiano; soltanto recentemente lo yogurt è entrato a far parte dei prodotti alimentari di maggior diffusione; oggi occupa un notevole spazio nei negozi e nei supermercati ed è diventato un alimento tipico della “modernità alimentare”.
Inizialmente, veniva commercializzato bianco, intero e senza zucchero. Il sapore acido e l’immagine
di prodotto consigliato dai medici, ne restringevano il mercato; in seguito proprio quest’ultima caratteristica ne ha fatto un prodotto di successo, adeguato alla moda di uno stile di vita “salutistico”.
I consumi sono esplosi negli anni ottanta, con l’introduzione delle versioni zuccherate, scremate, alla
frutta. Pur conservando la propria “aura” purificatrice, lo yogurt si è progressivamente trasformato in
una sorta di “dessert”, per tutte le ore e per tutte le stagioni, capace di conciliare il dolce con l’attenzione alla salute ed alla linea.
Appunti
Lo yogurt è latte fermentato grazie all’azione dei batteri lattici. Perché questo succeda, il latte viene
riscaldato a 40-45°C.
La composizione dello yogurt, rispecchia in buona parte quella del latte di partenza, con qualche piccola ma importante variazione: lo zucchero del latte, il lattosio, è stato in buona parte fermentato, con
la produzione dell’acido lattico.
L’attività vitale dei fermenti porta a un leggero arricchimento in aminoacidi essenziali, la componente più “nobile” delle proteine e di alcune vitamine del gruppo B.
Il calcio, come quantità, non cambia; diventa però più facilmente assimilabile.
Da tempo ai due fermenti “classici” se ne sono affiancati altri nuovi.
Il prodotto ottenuto con fermenti diversi da quelli “originali” viene definito in etichetta “latte fermentato”, non sempre più “leggero”, cioè meno grasso: per questo bisogna controllare le indicazioni
dell’etichetta.
Gli yogurt per i più piccoli sono alla frutta o con altri ingredienti; a volte contengono un’aggiunta di
calcio. Quello che però li distingue dagli altri è il fatto che risultano sempre molto ricchi di zucchero.
Quali additivi:
D o l c i f i c a n t i : artificiali: quelli light, usano al posto dello zucchero dolcificanti artificiali, come l’aspartame, sostanza di cui è in discussione la completa innocuità.
C o n s e r v a n t i : il sorbato di potassio e l’acido sorbico utilizzati negli yogurt alla frutta. Non sono pericolosi nelle normali dosi d’impiego.
A r o m i : quando leggi “aromi naturali” si tratta di sostanze estratte da vegetali. Le scritte “aromi” o
“aromi artificiali” significano che sono state utilizzate sostanze di sintesi chimica.
Attenzione: se nell’elenco degli ingredienti non trovi indicati gli aromi, spesso è presente una maggiore percentuale di frutta.
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Cosa vuol dire “alla frutta”?
Circa il 90% degli yogurt venduti in Italia sono aromatizzati, soprattutto alla frutta. Bisogna tener presente però che per motivi di praticità, nella produzione industriale non si utilizza mai frutta fresca, ma
sempre conservata quindi meno ricca di vitamine, C in particolare. Può essere una purea sterilizzata o
un preparato composto da frutta anche in pezzi, zucchero e altri ingredienti come sostanze antiossidanti e aromi. Il contenuto di frutta nello yogurt è sempre intorno al 10%: in un vasetto ne troviamo
quindi dai 10 ai 15 grammi. Poca cosa se si pensa che una pesca o una mela pesano almeno 10 volte
di più. Inoltre, come abbiamo visto, si tratta di frutta lavorata che, se è utile per rendere lo yogurt più
gradevole al gusto, non può però sostituire la frutta fresca.
Qualche consiglio
Non acquistare vasetti tenuti fuori dal frigo: se lo yogurt è conservato male, i fermenti lattici vivi,
che lo contraddistinguono, si degradano velocemente. La data di scadenza degli yogurt fa riferimento
proprio al ciclo vitale dei fermenti: più è lontana la data di scadenza, meglio è.
Se vuoi acquistare proprio lo yogurt, non confonderlo con prodotti simili, in genere tenuti fuori dal
frigorifero, che non riportano il termine “yogurt” in etichetta: esistono in commercio dessert ottenuti
con yogurt, conservabili più a lungo ma senza fermenti vivi.
Attenzione al volume: ci sono vasetti da 100, 125 e 150 grammi; controlla e confronta il prezzo al
chilo, a volte eccessivo. Al momento dell’acquisto tieni presente, nella scelta della confezione, le tue
effettive esigenze.
Preferisci lo yogurt prodotto con latte fresco: è migliore rispetto a quello fatto con un generico
“latte” che nei prodotti esteri, potrebbe essere anche latte in polvere.
Consuma il prodotto freddo. Non è il caso di impiegarlo come ingrediente nelle torte o il altre preparazioni da forno. La cottura distrugge ogni forma di vita.
Se non è stato ben conservato, lo yogurt può presentare un feltro di muffa anche prima della data di
scadenza; non consumarlo e, se è stato appena acquistato, riportalo al negozio per fartelo cambiare.
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Cacao
Letteratura
Si è convenuto di chiamare cioccolato la miscela che risulta dalla mandorla di cacao tostato
con lo zucchero e la cannella: tale è la definizione classica del cioccolato. Lo zucchero ne fa parte
integrante; perché con del cacao soltanto non si fa che della pasta di cacao e non del cioccolato. Quando allo zucchero, alla cannella e al cacao si aggiunge l’aroma delizioso della vaniglia, si
ottiene il nec plus ultra della perfezione alla quale questa preparazione può essere portata.
(Brillat -Savarin, 1862)
Quando tutto questo era finito, ci veniva offerta, fatta appositamente per noi ma dedicata in
special modo a mio padre a cui piaceva moltissimo, una crema al cioccolato, ispirazione, attenzione personale di Francoise, fuggitiva e leggera come un’opera eseguita per l’occasione, dove
lei aveva impiegato tutto il suo talento. Chi avesse rifiutato di assaggiarne dicendo "basta, non
ho più fame", sarebbe sceso al livello di quei cafoni che quando un artista regala loro una delle
sue opere, guardano al peso e alla materia, quando il valore sta nell'intenzione e nella firma.
Anche lasciare una sola goccia nel piatto avrebbe testimoniato la stessa scortesia che alzarsi
prima della fine di un pezzo musicale sotto il naso del compositore.
(Proust, 1973)
Un po’ di storia
I primi coltivatori di cacao sono stati sicuramente i contadini maya dell’America Centrale e in
particolare del Messico, ma purtroppo poco sappiamo delle loro tecniche e dell’uso che ne
facevano.
Sappiamo invece che gli Aztechi lo avevano in grande considerazione e gli avevano dato l’appellativo di “cibo degli dei”, ripreso poi da Linneo al momento di assegnare un nome scientifico
alla specie (teobroma cacao, 1737).
La semina, la cura delle piantagioni e il raccolto dei frutti di cacao erano altrettante occasioni di cerimonie religiose nel Messico del XIV secolo, e anche quando Hernando Cortés sbarcò
sulla costa del Tabasco, nel 1519, per avviare la conquista del paese, venne presto a contatto
con il cacao.
I frutti del cacao contengono da 25 a 30 semi da cui gli amerindi ricavavano una bevanda
amara (in America non esisteva lo zucchero), aromatizzata con vaniglia, speziata e molto
nutriente, ampiamente diffusa alla corte di Montezuma, ma, soprattutto, i semi di cacao costituivano una moneta di scambio con cui si poteva comperare ciò che si desiderava: oro, schiavi, abiti…
Tutte le province messicane erano tenute a pagare forti tributi a Montezuma sotto forma di
semi di cacao.
Proprio questo utilizzo interessò inizialmente gli spagnoli che trovarono la bevanda al cacao
amara e piccante, secondo qualcuno “più adatta ad essere gettata ai maiali che consumata dagli
uomini”.
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Nel 1589, Acosta (un gesuita, autore della "Historia naturale e morale delle Indie" pubblicata a
Venezia del 1596) scriveva:
“l’uso principale cui è destinato il cacao è un beveraggio detto cioccolato, a cui in questo paese
danno molta importanza, ma per il quale chi non vi è abituato prova disgusto, perché in superficie si
formano una schiuma e dei ribollimenti assai poco allettanti all’occhio, tanto che bisogna avere un
gran coraggio per non farci caso. Ma in fin dei conti è la bevanda più pregiata, quella che gli indiani e
gli spagnoli offrono agli ospiti di riguardo; quanto alle donne spagnole, assuefatte dal paese, il nero
cioccolato, le fa andare in estasi”.
Tutto cambiò dopo che qualcuno ebbe l’idea di associare il cacao allo zucchero estratto dalla canna,
di cui gli spagnoli avevano nel frattempo introdotto la coltivazione a Santo Domingo e poi in Messico.
Si ignora chi sia stato l’artefice di questa scoperta, destinata a rivoluzionare l’avvenire del cioccolato.
Alla fine del XVI secolo, questa bevanda “preziosa e medicinale” divenne una moda che dalla Spagna
si estese ad altri Paesi: nel 1595 era già conosciuta a Firenze e Venezia e nel corso del XVII secolo
ormai in tutta Europa, dove l’importazione di semi crebbe ininterrottamente e parallelamente crebbero le piantagioni nei territori coloniali.
Alcune importanti migliorie nelle tecniche di fabbricazione favorirono modalità di produzione che
resero il lavoro meno faticoso accrescendone il rendimento.
Alla fine del XVIII e nel corso del XIX secolo, nacquero le prime fabbriche del cioccolato fra le quali
alcune, destinate a conoscere un’espansione enorme fino ai giorni nostri. Il cioccolato non era più soltanto una bibita ma anche prodotto in tavolette solide. Attualmente la produzione mondiale supera i
due milioni di tonnellate destinate in gran parte al consumo dei paesi ricchi dell’Europa e dell’America
del Nord.
Il cioccolato in Italia
“Un non so che di più squisita gentilezza”
Seguire l’avanzata del cioccolato, allora solo bevanda, in Europa, ci porta attraverso le dimore patrizie, le ville e i palazzi sontuosi dell’età barocca, ma la storia dell’introduzione del cioccolato in Italia
resta ambigua e incerta.
Alcuni sostengono che la nuova bevanda si sia diffusa attraverso la fitta rete internazionale dei
monasteri, altri ritengono che la via del cioccolato verso l’Italia sia passata attraverso la corte dei
Savoia; la versione più accreditata attribuisce il merito ad un uomo d’affari fiorentino che aveva compiuto l’impresa di circumnavigare il globo alla ricerca di nuovi mercati e di nuovi prodotti: Francesco
Antonio Cardetti.
Lasciata Firenze nel 1591, egli vi fece ritorno nel 1606. Nel resoconto scritto dei suoi viaggi, troviamo descritte le varie fasi della crescita e della lavorazione del cacao che aveva potuto ammirare sulla
costa pacifica di El Salvador, vicino alla frontiera del Guatemala; manca invece qualunque accenno a
cacao o cioccolato portato con sé al ritorno in Italia.
Il manoscritto, pubblicato nel 1701, fu consultato da Francesco Redi, medico e farmacista alla corte
dei Medici, poeta e scienziato, che attribuisce proprio a Cardetti l’aver introdotto in Italia la nuova
bevanda esotica.
Redi era straordinariamente dotato in molti campi: come biologo, come filologo e poeta. La sua produzione poetica comprende un ditirambo che ha per titolo “Bacco in Toscana”. Tutto il poema è una
lode delle vigne e dei vini del Granduca, ma dice qualcosa anche a proposito del cioccolato:
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"La corte di Spagna fu la prima in Europa a ricever tal uso. E veramente in Ispagna vi si manipola il
Cioccolatte di tutta perfezione, ma alla perfezione spagnuola è stato a’ nostri tempi nella corte di
Toscana aggiunto un non so che di più squisita gentilezza, per la novità degl’ingredienti europei,
essendosi trovato il modo d’introdurvi le scorze fresche de’ cedrati, e de’ limoncelli, e l’odore gentilissimo del gelsomino, che mescolato colla cannella, colle vaniglie, coll’ambra, e col muschio, fa un
sentire stupendo a coloro, che del cioccolato si dilettano".
Come si vede, sono mescolati al cacao aromi strani, carichi di profumo; è probabile che proprio Redi
sia l’autore della ricetta del famoso e delicato cioccolato al gelsomino, una specialità in uso alla corte
di Cosimo III dei Medici; la lista degli ingredienti rimase segreta fino al 1697 quando, dopo la morte
del Redi, il naturalista Vallisnieri ne venne in possesso e la pubblicò.
Nel 1852, a Torino, viene creato un nuovo tipo di cioccolato, prodotto con latte, zucchero, cacao e
nocciole piemontesi. Questa raffinata combinazione, a forma di piccola imbarcazione, denominata
gianduiotto, viene lanciata nel 1865 in occasione del carnevale di Torino da Peyrano, maestro cioccolataio dedito alla confezione di prodotti dolciari da accompagnare al caffè. L’accoglienza è entusiasta
e calorosissima, tanto da accordare al nuovo tipo di cioccolato il nome del celebre maschera gianduia.
Da allora il cacao si diffonde sempre di più, in una vastissima gamma di gusti e sapori in cui prevale
l’accostamento tra cioccolato e caffè.
Appunti
Il cioccolato-alimento
La pasta e il burro di cacao apportano sali minerali, proteine, ma soprattutto grassi. Lo zucchero è
in alta percentuale. Di conseguenza si tratta di un alimento ipercalorico.
Una tavoletta da un etto di cioccolato la latte, in media, apporta 550 calorie: per fare un confronto,
circa un terzo delle necessità caloriche giornaliere di un bambino. Attenzione, quindi: il consumo di
cioccolato può portare a tralasciare il consumo di altri cibi, magari meno “adorati” ma ricchi di componenti importantissime, come vitamine e fibre.
Quando mangiarlo, allora? Se fai sport, come merenda, ma sempre con una fetta di pane o biscotti
secchi.
Sicuramente il cioccolato è tra gli alimenti più calorici, con le 550 calorie per etto del cioccolato al
latte e le 540 del cioccolato fondente. Bisogna, quindi, controllare le dosi, soprattutto in caso di tendenza al soprappeso.
Nel cioccolato, sono presenti sostanze ad azione eccitante, come la caffeina e la teobromina. Sono
contenute, però, in bassa percentuale.
I prodotti al “cacao magro” sono meno grassi?
Normalmente no. Anche se nella lavorazione dei semi di cacao si tende a separare, anche per migliorarne la conservabilità, il burro di cacao dal cacao magro, spesso nei prodotti che riportano in etichetta “con cacao magro” vengono aggiunti altri grassi e quindi il dolce potrebbe essere comunque
molto calorico.
L e d i v e r s e t i p o l o g i e d i c i o c c o l a t o esistenti sul mercato sono caratterizzate dall’utilizzo di percentuali differenti di cacao. I prodotti più pregiati sono quelli molto scuri, come il cioccolato fondente, dove
la percentuale di cacao è massima.
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Ogni tipo ha un suo nome e limiti minimi di cacao: e x t r a : corrisponde la miglior cioccolato fondente. Il cacao deve coprire almeno il 45% del peso; all’interno di questa percentuale, il burro di cacao
deve arrivare almeno al 28%.
C i o c c o l a t o a l l a t t e : contiene almeno il 25% di cacao, il 14% di latte il polvere e non più del 55% di
zucchero.
C i o c c o l a t o a l l a t t e e a l l e n o c c i o l e : è un cioccolato la latte dove le componenti secchie del latte devono essere almeno il 10% e dove le nocciole vanno a coprire tra il 15% e il 40% del peso.
C i o c c o l a t o b i a n c o : è ottenuto solo con burro di cacao (20% minimo) e non pasta di cacao (che dà il
colore marrone); contiene poi latte in polvere (14% minimo) e zucchero (55% massimo).
Nel cioccolato è stato da poco ammesso l’uso di grassi vegetali tropicali (come quello di palma), in
alternativa al p r e g i a t o b u r r o d i c a c a o . Occhio quindi all’etichetta, dove è presente, per legge, il tipo di
grasso utilizzato. Il cioccolato preparato solo con grassi del cacao è consigliabile perché è preferibile
dal punto di vista nutrizionale (il burro di cacao fa “meno male” alle arterie rispetto ad alcuni grassi
alternativi, come quello di palma), ma anche per questioni di gusto: il burro di cacao infatti, fonde alla
temperatura del nostro corpo. Questo provoca, di conseguenza, quell’effetto piacevole del cioccolato
che lo porta a “sciogliersi in bocca”.
Oltre al cacao e allo zucchero, nel cioccolato trovi sempre altri due ingredienti: la lecitina di soia,
che ha un’azione emulsionante, e un aroma. Di solito è l’aroma artificiale vanillina, ma sono diffuse
anche tavolette di cioccolato dove si dà la preferenza alla pregiata e costosa vaniglia in bacche.
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Commercio Equo e solidale
Il Commercio Equo e Solidale si inserisce nell’ambito del programma di Cooperazione
Internazionale che i Paesi industrializzati svolgono per promuovere lo sviluppo economico dei
Paesi poveri.
Tale cooperazione si attua a diversi livelli: il primo riguarda l’attività svolta dalle Nazioni Unite
attraverso agenzie e programmi specifici, il secondo dall’Unione Europea attraverso convenzioni e programmi di cooperazione; l’Italia, insieme con l’Europa, è entrata a far parte della
Cooperazione Internazionale aderendo alla risoluzione n. 1710, del 17 dicembre del 1961, dell’assemblea Generale delle Nazioni Unite con la quale si approvava il decennio per lo sviluppo
(1960 - 1969).
Gli squilibri fra Nord e Sud del mondo non si sono però attenuati e un gran numero di ONG
(Organizzazioni Non Governative) negli ultimi decenni si sono inserite nella cooperazione svolgendo un ruolo sempre maggiore, anche in collaborazione con le organizzazioni Internazionali.
Alcune di queste ONG, operanti nel campo della cooperazione allo sviluppo, nell’attesa e nella
speranza di veder equilibrati i rapporti commerciali fra Nord e Sud del mondo, hanno creato
forme alternative di commercio rispetto a quelle tradizionali, ponendo le basi del Commercio
Equo e Solidale.
Il progetto è partito dall’analisi delle cause del sottosviluppo, cioè dello stato di povertà in cui
si trovano le popolazioni del Sud del mondo (che costituiscono la maggioranza della popolazione del nostro pianeta) e dall’idea che l’attuale situazione sia conseguente ad un processo storico ben preciso ed all’attuale organizzazione del sistema economico mondiale.
Con l’idea ambiziosa di dare un contributo utile ad invertire questa tendenza è nato il CEeS che
propone un programma originale di intervento, non in un’ottica caritativa e di assistenza ma con
un’azione condotta all'interno dei meccanismi economici, per sostenere iniziative di auto-sviluppo e auto-gestione: si tratta, in concreto, di creare un mercato alternativo per lo scambio
delle merci provenienti dai paesi poveri.
Obiettivi caratterizzanti del commercio CEeS sono:
1 ) i n s t a u r a r e r a p p o r t i p a r i t a r i e d e q u i c o n p r o d u t t o r i d e l S u d d e l m o n d o : in genere si tratta di
gruppi di produttori organizzati per realizzare il bene comune dei soci, assicurando salari e
condizioni lavorative che siano il meglio rispetto alle condizioni locali;
2 ) d a r e g i u s t i z i a , cioè una giusta retribuzione a chi produce, piuttosto che a coloro che svolgono attività di intermediazione locale;
3 ) c r e a r e s v i l u p p o : questi gruppi destinano gli utili della loro attività a progetti nell’ambito dell’assistenza, dell’educazione, della formazione e dell’informazione, a vantaggio dell’intera
comunità in cui vivono;
4 ) p r o m u o v e r e i l r i s p e t t o d e l l ’ a m b i e n t e , soprattutto nella gestione e nell’utilizzo delle risorse
naturali così che vengano incentivati processi produttivi che privilegino l’uso di risorse rinnovabili, in relazione soprattutto alla produzione agricola.
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Tutela dell’ambiente
Nel Commercio Equo e Solidale viene attribuita la massima importanza alle condizioni in cui le merci
vengono prodotte, sia sotto il profilo sociale che sotto il punto di vista ecologico.
Il punto di riferimento è il concetto di “ s v i l u p p o s o s t e n i b i l e ” , in modo che si possa conciliare equità
sociale, crescita economica, rispetto delle leggi di mercato e tutela dell’ambiente.
Lo sviluppo sostenibile, secondo la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, “risponde
ai bisogni del presente senza compromettere le capacità delle generazioni future di rispondere alle
proprie”.
Secondo il Libro Bianco della Commissione Europea del 1994 “Nei due decenni scorsi, e soprattutto
dal 1973, è diventato sempre più evidente che queste risorse non sono disponibili in quantità illimitata. Poiché i prezzi di mercato non tengono sufficientemente conto della disponibilità limitata delle
risorse naturali e delle “diseconomie” ambientali, legate al loro consumo, tali risorse sono state
sovrautilizzate sistematicamente”.
Un posto consistente nel Commercio Equo e Solidale è costituito dai prodotti alimentari, in particolare i cosiddetti coloniali come cacao, caffè, tè. Altri prodotti abbastanza diffusi sono lo zucchero di
canna, le spezie, il miele, diverse varietà di noci, cioccolata.
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Il marchio Trans Fair
Per capire cosa sia il marchio Trans Fair bisogna tornare all’Olanda di fine anni Ottanta quando, incoraggiati dal successo delle Botteghe del mondo, gli importatori dei prodotti del CEeS
tentarono di uscire dagli angusti limiti di un mercato elitario, per approdare alla grande distribuzione dei supermercati.
Nel 1988 le cooperative di importazione Olandesi si presentarono ai supermercati ed ai negozi tradizionali, proponendo l’acquisto dei propri prodotti. La proposta non venne accolta perché
i supermercati non avevano interesse ad adottare marchi semisconosciuti, a scapito di marchi
noti e pubblicizzati.
Constatato che l’ingresso nei supermercati non poteva avvenire per via diretta, gli importatori del CEeS decisero di tentare una via più tortuosa, quella di offrire i propri prodotti ai grossisti
che abitualmente riforniscono i supermercati.
Il problema che subito si presentò, fu quello di riuscire a conciliare un equo guadagno ai produttori del Sud del mondo e un buon margine di profitto ai grossisti del Nord.
L’esperienza delle Botteghe del Mondo e vari sondaggi avevano dimostrato che una, seppur
ristretta, fascia di mercato era composta da consumatori disposti a pagare prezzi più alti, pur
di consumare prodotti ottenuti in condizione di giustizia. Questa fu dunque la proposta fatta
ai grossisti: commercializzare un prodotto più caro ma che avesse le caratteristiche dell’
equità.
Nel 1989 fu fondata, in Olanda, l’organizzazione di marchio Max Havelaar (personaggio di un
romanzo ottocentesco, descritto come un “funzionario” che si batté contro il trattamento riservato agli indigeni delle colonie olandesi) con lo scopo di promuovere fra consumatori, aziende
di distribuzione, di torrefazione e commercializzazione, prodotti del Sud del mondo che garantissero equità e giustizia e fu messo sul mercato della grande distribuzione un caffè con lo stesso nome.
La nascita del marchio Max Havelaar fu un successo, ma generò la perplessità di altre organizzazioni europee del CEeS che considerarono i criteri Olandesi troppo permissivi e stimolò una
serie di discussioni soprattutto fra i membri dell’EFTA ( European Fair Trade Association ); il risultato è stato la nascita di Trans Fair, marchio di equità dai criteri più rigorosi per i licenziatari del
marchio e che per questo si distingueva da Max Havelaar (ad esempio, prevedeva una soglia del
51% di prodotto Fair Trans in caso di prodotti composti).
Il nuovo marchio è nato in Germania nel 1992 e successivamente è stato adottato in Austria,
Italia, Usa, Canada, Lussemburgo e Giappone Nel 1997, infine, è nato un coordinamento internazionale per il controllo dei marchi CEeS chiamato Fair Trade Labelling Organizzation
International o, più brevemente, FLO.
I marchi CEeS sono gestiti da enti di certificazione che né comprano, né vendono tali prodotti
ma bensì individuano i produttori dai quali acquistare i prodotti stessi inserendoli in appositi
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registri e vigilano affinché gli esportatori comprino dai produttori registrati nel rispetto delle regole di
equità ovvero:
•pagamento di un prezzo equo ai produttori,
•pagamento anticipato, quando ritenuto necessario dal coordinamento
•pagamento di una sovrattassa fissata dal marchio per finanziare progetti di viluppo,
•garanzia di un rapporto commerciale di lunga durata.
Dal 2003 i prodotti del commercio equo e solidale, in Europa, hanno un unico logo di identificazione: una figura stilizzata nell’atto di salutare, accompagnata dall’espressione inglese fair trade (commercio equo).
Il nuovo marchio va gradualmente a sostituire gli attuali 7 diversi marchi di garanzia (tra cui Trans
fair Italia) presenti in Europa. I tempi saranno diversi nei vari Paesi ma, entro tre anni, lo stesso marchio si troverà, ad esempio, su tutte le confezioni di caffè Equo e Solidale in vendita nelle diverse città
europee.
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Il marketing del commercio Equo e Solidale
Le scelte concrete effettuate dagli operatori del CEeS possono essere analizzate attraverso
la teoria del marketing mix che, nella gestione delle politiche commerciali, individua quattro
elementi:
•prodotto
•comunicazione
•distribuzione
•prezzo
Prodotto
Nel Commercio Equo e Solidale, la nozione di prodotto è sostituita da quella di prodotto - progetto: oltre al singolo prodotto, fa parte dello scambio l’intera progettualità che mira allo sviluppo di aree depresse e comprende servizi ai produttori ed alle popolazioni locali, informazioni
e cultura, presenti nelle finalità del CEeS.
Comunicazione
Da alcune ricerche di mercato è emerso che il 15% dei consumatori è sensibile al tema della
solidarietà e sarebbe disposto a pagare un prezzo maggiore per l’acquisto di un prodotto che
abbia un contenuto etico; diviene dunque importante creare un canale di comunicazione adeguato a raggiungere questi consumatori attraverso un messaggio adeguato.
La strategia comunicativa del CEeS evidenzia alcuni elementi:
•l’equità nei rapporti coi produttori del Sud del mondo
•la solidarietà con le popolazioni locali
•la qualità dei prodotti controllata rigorosamente dalle centrali di importazione europee
•il rispetto dell’ambiente
•la trasparenza dell’azione attraverso schede informative sulle caratteristiche dei prodotti
e gli obiettivi del CEeS e dei singoli progetti
Per far conoscere il messaggio si utilizzano prevalentemente due canali di comunicazione:
p e r s o n a l e : attraverso contatti interpersonali con individui o gruppi, informazioni da parte degli
addetti ai punti-vendita
i m p e r s o n a l e : attraverso riviste legate al non profit, libri, mostre, convegni, seminari, trasmissioni televisive.
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Distribuzione
Le strutture del CEeS si sono dotate di una rete distributiva interna costituita dalla rete delle
“Botteghe del Mondo”, piccoli negozi presenti su gran parte del territorio nazionale e gestiti da personale dipendente o volontario. Con l’obiettivo di far crescere i volumi di scambio sono allo studio
soluzioni innovative soprattutto lungo la direzione della Grande Distribuzione che, nonostante alcune
difficoltà, può favorire lo sviluppo del CEeS; si stanno inoltre esplorando altre forme di distribuzione
attraverso contratti di fornitura ad ospedali, enti locali, e persino il bar del Parlamento.
Nel 1996 è stato venduto un milione di sacchetti di caffè a marchio Trans fair, corrispondente a circa
lo 0,25% del mercato totale del caffè.
Il numero delle imprese tradizionali che hanno chiesto di esporre il marchio Trans fair è andato progressivamente crescendo. Oggi sono 11, fra cui le più grandi sono Coop e CTM.
Prezzo
Nel CEeS, la definizione del prezzo si ispira al criterio guida di assicurare ai produttori ricavi in grado
di garantire a chi lavora, condizioni di vita accettabili e un margine da destinare a progetti di assistenza o sviluppo.
Il prezzo finale è in linea con quello dei prodotti equivalenti presenti sul mercato.
Nel caso dei prodotti alimentari si fa riferimento alle quotazioni di mercato delle borse internazionali; a questo si aggiunge un margine di profitto per i produttori, vincolato all’investimento in attività di
sviluppo locali; è previsto poi un ulteriore margine per coloro che adottano metodi di agricoltura biologica.
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Fare la spesa
La nostra attenzione è spesso volta a sognare, acquistare prodotti, attivarci per poter disporre
del denaro necessario, confrontare i prezzi alla ricerca dell’offerta più vantaggiosa; difficilmente
ci poniamo domande sulla provenienza di ciò che acquistiamo, su quale sia il processo di manifattura, sul perché cambiano il design, il packaging, la pubblicità o il prodotto stesso, su che cosa
muove il nostro desiderio, sull’impronta ambientale lasciata dal nostro modo di consumare.
Di fronte ad ogni acquisto, potremmo chiederci: dove vanno a finire i miei soldi? In quale percentuale vengono utilizzati per creare gli spot pubblicitari, o per pagare qualche personaggio
famoso come testimonial? In che modo viene prodotto ciò che compro? Chi lo produce? Da dove
proviene? Quali aziende si celano dietro i marchi? Chi e quanti sono gli acquirenti? Qual’è l’impatto ambientale? Nel valutare quest’ultimo dobbiamo naturalmente tener presente quello connesso alla produzione, alla distribuzione, all’uso, allo smaltimento dei diversi imballaggi che
accompagnano il prodotto ed infine al prodotto stesso, nel momento in cui non ci serve più.
In breve: il nostro modo di fare la spesa può essere più o meno vantaggioso economicamente, attento alla sicurezza e alla protezione della salute. Le scelte di consumo e le abitudini quotidiane hanno, però, anche un’incidenza su problemi che non possono essere affrontati individualmente, come, ad esempio, quello dell’ambiente. Modificare le nostre abitudini quotidiane
non risolve i tanti e tanto gravi problemi ambientali ma, come consumatori, possiamo offrire un
apporto significativo. Ti proponiamo un insieme di comportamenti per stimolare la tua riflessione, per rendere più consapevole quel semplice gesto del fare la spesa.
P r e f e r i s c i i p r o d o t t i f r e s c h i : sono privi di conservanti.
S c e g l i , q u a n d o p u o i , a l i m e n t i n o n t r a t t a t i : aiuterai chi coltiva “pulito” e incoraggerai gli altri ad
abbandonare fertilizzanti e pesticidi.
L ’ a c q u i s t o d i v a r i e t à l o c a l i d i f r u t t a e v e r d u r a servirà a impedire che vengano sostituite da quelle standardizzate dell’agro-industria.
E v i t a l e p r i m i z i e : avere frutta e ortaggi fuori stagione comporta un impiego ancor più massiccio
di pesticidi.
S c e g l i l a f r u t t a n o n c o n f e z i o n a t a : contribuirai in tal modo ad evitare la spreco e a ridurre i rifiuti.
Evita di acquistare la frutta venduta lungo strade e autostrade .
P r e f e r i s c i g l i i m b a l l a g g i n a t u r a l i . Carta e cartone sono più facilmente riciclabili della plastica.
F a v o r i s c i i l r i u s o dando la preferenza ai vuoti a rendere.
F a i a m e n o d e l l e v o l u m i n o s e c o n f e z i o n i d i l u s s o e d a r e g a l o : cioccolatini, liquori e profumi saranno apprezzati anche senza una confezione vistosa.
R i u t i l i z z a i s a c c h e t t i d i p l a s t i c a e d i c a r t a : contribuirai anche così ad evitare lo spreco e limitare
l’enorme quantitativo di rifiuti; meglio sarebbe portare la propria borsa della spesa.
R i n u n c i a , s e p o s s i b i l e , a g l i a l t r i a r t i c o l i d a u s a r e u n a v o l t a s o l a (es. piatti e bicchieri di carta).
A monte di ogni comportamento di consumo, resta fondamentale domandarsi: cosa mi spinge
ad acquistare questo prodotto? Ne ho davvero bisogno?
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Raccolte differenziate
Il problema “rifiuti”, costituisce un fenomeno complesso. A volte se ne parla in termini di
emergenza, per esempio quando, in seguito a scioperi o ad altre manifestazioni, alcune città si
trovano sommerse; ben pochi, però, ne conoscono le reali dimensioni.
La produzione di rifiuti aumenta ogni anno, soprattutto come conseguenza dell’aumento dei
consumi. A Torino, per esempio, nel 1969 si raccoglievano 183 kg di rifiuti pro-capite. Nel 2000,
invece, ogni cittadino ha prodotto 640 kg di rifiuti domestici, per un ammontare complessivo di
circa 500.000 tonnellate.
Nella discarica di Basse di Stura, che accoglie anche i rifiuti solidi di parte dei comuni confinanti con Torino, i rifiuti speciali che possono essere assimilati agli urbani e i fanghi prodotti
dalla depurazione delle acque, ogni giorno, in media, vengono smaltite circa 2.300 tonnellate di
rifiuti, pari ad un palazzo di dieci piani con alloggi da 100 mq.
La complessità del problema rimanda a scelte di fondo più approfondite. Tuttavia è importante il contributo che, già da subito, ognuno di noi può dare.
Ti suggeriamo alcuni comportamenti utili per r i d u r r e i r i f i u t i i n d i f f e r e n z i a t i , quelli, cioè, che non
hanno una raccolta specifica e vengono, perciò, inviati alla discarica.
•Evita gli imballaggi superflui
•preferisci gli imballaggi riutilizzabili o riempibili
•preferisci gli imballaggi in materiali riciclati e/o riciclabili
•preferisci gli imballaggi riciclabili con minor impatto ambientale
•riduci il volume degli imballaggi da smaltire
•procurati dei raccoglitori per la raccolta differenziata domestica: molti materiali, infatti,
si possono r i c i c l a r e i n c a s a e depositare negli appositi contenitori; diventeranno materie
seconde utilizzabili per nuove produzioni.
Ecco alcuni esempi.
Plastiche
Si possono conferire: contenitori per liquidi fino a 10 l, (bottiglie per bevande, flaconi di prodotti per l‘igiene personale e pulizia della casa), vaschette per l’asporto di cibi, confezioni per
alimenti (es.: yogurt), polistirolo espanso degli imballaggi e simili, borse di nylon, cellophane e
plastica in pellicola e, in genere, tutti i contenitori che recano le sigle PE, PET, PVC, PS, PP.
Il materiale raccolto viene trasformato dal consorzio Corepla in nuovi oggetti d‘uso e indumenti
(es.: capi in pile). Quando la separazione delle diverse plastiche risulta troppo complessa o
costosa, la plastica può essere ugualmente riciclata, dando luogo a vari materiali: tubi per staccionate, vasi per fioriere, giochi da giardino per bambini.
Il consorzio si incarica anche di trasformare i rifiuti in energia: con una sola bottiglia di
plastica si può tenere accesa una lampadina di 60 watt per un‘ora.
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Vetro, alluminio, ferro
Si raccolgono: contenitori con vuoto a perdere (es.: bottiglie, barattoli e vasetti), lattine per le
bevande e per l‘olio, scatolette per la conservazione di cibi. Ferro e alluminio vengono raccolti insieme, perché sono facilmente separabili e perché in tal modo si risparmiano ulteriori cassonetti sulle
strade.
In seguito, il vetro viene macinato, fuso e riutilizzato.
Il ferro e l‘alluminio delle lattine vengono quasi completamente recuperati. Per fare una lattina nuova
occorre solo il 5% dell‘energia che servirebbe se si partisse dalla bauxite, il materiale dal quale si
ottiene l‘alluminio
Carta
Giornali, riviste, quaderni, tabulati, carta da pacchi, cartone e cartoncino, sacchetti di carta. In
alcuni comuni vengono anche raccolti i contenitori in tetrapak per bevande (ad es. latte e succhi di
frutta).
Attraverso speciali trattamenti, condotti in impianti appositi, il materiale raccolto viene ritrasformato in carta e cartone, nuovi e riutilizzabili. Per produrre una tonnellata di carta da cellulosa vergine
occorrono 15 alberi, 440.000 litri d‘acqua e 7600 kWh di energia elettrica, mentre per produrne una di
carta riciclata non occorre nessun albero e solo 1800 litri d‘acqua e 2700 kWh di energia elettrica.
Rifiuti organici
Gli avanzi alimentari (gusci d‘uovo, bucce di frutta e noccioli, scarti di verdura, carne e ossi, pesce
e lische, fondi di caffè, bustine di tè e tisane, fiori, foglie, erba, ecc.) vengono trattati in un impianto
specifico e trasformato in compost, un fertilizzante non nocivo e non inquinante.
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Pubblicità: materiali e spunti di lavoro
1
La confezione degli alimenti
2
Imballaggio e pubblicità
3
Cibo di marca
4
Sigle alimentari
Fare emergere il contenuto
5
L’imballaggio come strumento d’uso
6
7
Che cos’è la pubblicità
8
Alle origini della pubblicità
9
Strumenti
Il messaggio pubblicitario
10
Linguaggi della pubblicità
11
12
Brief
Inserzioni: quali e quante?
13
L’Istituto di autodisciplina pubblicitario
14
Decalogo per i consumatori
15
16
17
Glossario pubblicità
Bibliografia
La confezione degli alimenti
Al di là della funzione elementare del nutrire, l’alimentazione costituisce un momento della rappresentazione sociale, dice qualcosa sulla natura dei rapporti sociali di coloro che si cibano.
C’è un elemento su cui vale la pena soffermarsi: l’analisi dell’ii n v o l u c r o d e g l i a l i m e n t i ci può
facilitare nella comprensione dello sviluppo della cultura alimentare.
L’imballaggio è diventato un nuovo oggetto materiale che ha assunto, in particolare nell’ultimo secolo, il ruolo di secondo attore, facendo convergere su di sé una molteplicità di funzioni.
Il suo compito fondamentale, proteggere, lo ha portato a sviluppare nel tempo qualità estreme: resiste alla corruzione, fa barriera agli attacchi di ossigeno, anidride carbonica o vapore
acqueo, è compatibile nei confronti delle tecniche di conservazione, cioè sterilizzazione, pastorizzazione, conservazione asettica o ad atmosfere controllate.
Ma l’imballaggio, come è ovvio, per contenere e proteggere nasconde alla vista, esclude la
nostra conoscenza del contenuto.
L’involucro comunicativo del cibo
Come fare apparire il contenuto senza lasciarlo fuoriuscire? È evidente: bisogna farlo scivolare sulle pareti esterne in forma di figure e/o di scrittura. L’imballaggio, in altri termini, ha sviluppato nel tempo, oltre alle prestazioni di oggetto - utensile e cioè di contenitore, di protettore, ma anche di organizzatore, funzioni di tipo comunicativo, finendo per mettere in secondo
piano le funzioni primarie.
Queste caratteristiche ne fanno un mezzo che ci consente di conoscere, da un’angolazione
diversa, l’evoluzione dei nostri rapporti socio - culturali ed una parte della storia delle abitudini
alimentari.
L ’ i m b a l l a g g i o a r c a i c o aveva una funzione determinante all’interno di una vita associativa nella
quale la sopravvivenza non fosse legata alla casualità materiale, ma si affidasse ad una, seppur
elementare, forma di conservazione dei prodotti e di scambio delle merci. E’ più opportuno parlare, per allora, di recipienti che consentivano di contenere e proteggere, cioè di svolgere funzioni che noi consideriamo primarie.
L ’ i m b a l l a g g i o m o d e r n o nasce con lo sviluppo economico urbano e con il consolidamento del
tessuto industriale e della rete distributiva che comportano il superamento della società di tipo
rurale (caratterizzata da auto - produzione ed auto - consumo), ed il passaggio dall’alimento
sfuso a quello confezionato.
Uno sguardo al passato ancora recente, ci presenta contadine al mercato con ceste di vimini
sulla testa contenenti uova, secchie di lamiera zincata per trasportare il latte, pani di burro
avvolti in foglie di fico o castagno, carta azzurrata per incartare lo zucchero, canapina per altri
prodotti sfusi.
Sono immagini che hanno fatto parte di scenari ancora vicini a noi, dove però si sono intersecate e sovrapposte, in dissolvenza, con quelle degli alimenti confezionati.
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Con l’espressione p a c k a g i n g , oggi, si vogliono designare le funzioni così dette secondarie dell’informare e del comunicare, non meno importanti, nella nostra società, di quelle del contenere e proteggere.
Anche se i prodotti industriali hanno gradualmente soppiantato quelli della civiltà contadina, rimangono tuttavia delle “sacche” in cui abitudini, tradizioni, usi del mondo rurale si stratificano, trasformando i fenomeni del passato in valori di riferimento, per la creazione di elementi simbolici, evocazioni d’immagini su cui costruire l’identità del prodotto in scatola. Ne sono esempio antichi mulini per
pubblicizzare biscotti industriali, vendemmiatori di inizio secolo per il vino in pure pack, calessini,
caseifici e antiche gelaterie artigianali per linee di prodotti di largo consumo.
Gli inizi del processo di confezionamento si devono far risalire ai primi dell’Ottocento; la scatola di
conserva ha rappresentato, nel modo più emblematico, la modernità della concezione alimentare; essa
ha consentito di uscire dal vincolo temporale del ciclo delle stagioni e dal riferimento ad una stretta
collocazione geografica delle risorse e di superare la deperibilità: pensiamo agli approvvigionamenti
militari, alle grandi rotte di navigazione, alle carestie. La mobilità e la trasferibilità delle merci ha consentito, inoltre, di consumare ciò che apparteneva ad altri universi geografici e culturali, avvolgendo
il prodotto di un’aura di esotismo, portatrice di valori d’esclusività e di pregevolezza, pensiamo ad
esempio all’ananas sciroppato o alla carne in scatola.
In seguito non è stato più così: il passaggio alla diffusione massificata ha negato in prima istanza
all’involucro proprio queste qualità allusive.
Un ulteriore effetto comunicativo è connesso alla tecnologia insita nel trattamento del prodotto e della
sua confezione: l’alimento diventa prodotto simbolo di una concezione moderna dell’alimentazione.
Alla base di questo processo, era già presente la necessità di coniugare due mondi: quello alimentare con le sue ritualità e tradizioni artigianali e quello industriale in cui la moltiplicazione numerica si
oppone inevitabilmente al tratto dell’individualità.
Questo dualismo si è manifestato nelle progettazioni delle modalità comunicative degli alimenti, le
quali hanno manifestato l’esigenza di rimanere affiancate all’immagine dei valori preindustriali.
Gli alimenti posti nella loro confezione, devono saper attivare un circuito comunicativo, devono in
altre parole apostrofare il consumatore, colloquiare con lui.
Ci troviamo insomma di fronte ad un apparato sistemico di comunicazione, determinato dalle esigenze che ha il prodotto di segnalare la propria presenza e far conoscere la propria specificità, all’interno di una rete di comunicazioni sempre più complessa.
Il prodotto, “abbigliato”, reso riconoscibile dal suo costume di scena, si fa primo attore, inizia ad
essere protagonista sulle ribalte fin dall’inizio del ventesimo secolo.
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Imballaggio e pubblicità
Con le confezioni del caffè e quelle della pasta, gli involucri comunicanti diventano il motivo
attorno al quale sviluppare i temi della campagna pubblicitaria in cui le confezioni possono svolgere il ruolo di protagonista.
Lo scenario delle forme di rappresentazione del cibo si costruisce attorno all’imballaggio.
Il packaging rappresenta il proprio contenuto, diventa cioè forma di auto presentazione, ma
anche elemento di cerniera tra mondo della produzione e mondo del consumo.
Frequentemente è “l’offerta di sé” e non il cibo in “carne e ossa” ciò che noi consumiamo.
Nessuno si sorprende che il tonno in scatola non assomigli al tonno, che quanto è rappresentato nella confezione non corrisponda al contenuto; nonostante non vi sia alcun rapporto tra la
figura esterna e il contenuto, la prima richiama l’immagine del cibo nella sua condizione ideale.
Si fa strada parallelamente un secondo concetto di cibo, oltre quello rituale: quello del nutrimento come pura necessità.
In molti casi non conta più ciò che si mangia, ma solo la perfetta funzionalità di contenitori e
strumenti come, ad esempio, i cibi che si possono consumare direttamente nella confezione,
senza l’aiuto di stoviglie.
Il packaging, spesso, viene programmato come strumento che autorizza nuove possibilità d’aggregazione di oggetti di per sé autonomi, producendo nuove configurazioni oggettuali.
Si dà il caso di aggregazioni omogenee (la dozzina di uova nella loro custodia protettiva o tutte
le scatole e i vasetti che radunano alcuni pezzi della medesima tipologia) e di aggregazioni eterogenee, cioè oggetti vari, di natura diversa, che diventano prodotto di consumo attraverso il
meccanismo stesso dell’aggregazione: ne sono esempio marcato i kit che uniscono ingredienti
ed elementari strumenti per la preparazione di cibi più complessi (torte, creme, pizze, ecc…).
Si è di fronte alla creazione di prodotti diversi, dove un insieme di elementi, una volta accorpati nella confezione, producono un nuovo oggetto - merce: un prodotto con una nuova identità
che possiede un valore superiore alle singole parti che lo compongono, proprio per il valore
aggiunto. Sono disponibili, sul mercato, una molteplicità di prodotti che, senza l’imballaggio,
non esisterebbero del tutto.
Altra conseguenza innovativa dell’imballaggio è la dose.
Per la prima volta viene imposta da parte del produttore la quantità predeterminata, ottimale
per ciascun alimento.
La definizione dei formati e la standardizzazione della quantità creano nuove connessioni fra
l’alimento e il momento dell’uso o meglio dell’assunzione.
Una confezione di formaggi in piccoli cubetti trasforma il contenuto in assaggi idonei ad essere consumati sulla scena di un cocktail, ad esempio, mentre una confezione a spicchi tende a
proporre una delle portate del pranzo tradizionale.
Si può dire che la configurazione per formati evolve nel tempo, assecondando i cambiamenti e
le necessità del vivere sociale, la trasformazione dei così detti stili di vita.
Le confezioni mono-porzione, ad esempio, sono sempre più presenti nei supermercati, in considerazione dell’aumento numerico dei nuclei monofamiliari.
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In sintesi vediamo che il packaging esercita le seguenti funzioni:
1) Conferisce una identità ben definita.
2 ) Evoca il valore commerciale dell’alimento dando visibilità ed enfasi al contenuto, fa da mediatore
tra produttore e consumatore.
3) Permette di raggiungere una larga massa di cose che in precedenza ricadevano sotto lo statuto di
oggetti sfusi, che solo proprio attraverso la confezione hanno assunto lo statuto di oggetti-prodotto.
4) E’ in grado di fissare il nostro sapere sugli oggetti e la nostra consapevolezza della loro diversità,
prima o in assenza dell’esperienza del consumo.
5) Costituisce uno dei dispositivi più potenti in grado di organizzare l’universo delle cose e autorizza
nuove possibilità all’aggregazione di oggetti.
6) Ha generato la dose.
La realizzazione di una certa tipologia di contenitore può divenire una scelta di carattere comunicativo: un esempio è rappresentato dall’introduzione, negli anni settanta, del sacchetto dei biscotti.
Il sacchetto rappresentò una confezione innovativa: perché dissimile dalla restante offerta basata su
pacchetti squadrati e perché in grado proprio di attirare, per la sua forma, quei rimandi simbolici collegati al passato, soprattutto alla tradizionale vendita del prodotto sfuso, consegnato all’acquirente in
semplici sacchetti di carta.
A questa scelta comunicativa fu necessario adeguare quelle tecnologiche: impiego di supporto cartaceo accoppiato con alluminio che garantisse una protezione, dall’umidità per esempio, sino al consumo finale.
Con questa soluzione il contenuto, da una disposizione tipicamente industriale che portava con sé
l’accezione della serialità, si è passati ad uno stato di aggregazione casuale.
Tutto questo finisce per intervenire anche sulla gestualità del momento d’uso, concedendo la possibilità di “frugare” per prelevare il contenuto, gesto riservato all’ambito familiare.
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Cibo di marca
Le dinamiche del consumo moderno hanno portato l’alimento ad assoggettarsi, per poter
entrare nel mercato, a svelare il produttore, le modalità di preparazione, gli ingredienti o le qualità intrinseche.
Ad iniziare dal m a r c h i o , segno grafico che dichiara l’identità del produttore ma anche la propria origine, così come è avvenuto, per esempio, per i prodotti DOC, DOP, IGP per i quali, la
garanzia di qualità è data dal legame ad una certa zona di produzione.
A garanzia della qualità, il marchio è stato applicato anche a prodotti che non necessitano
della confezione, come il bollino applicato a banane e mele, che possiamo definire il grado zero
del packaging.
L’ee t i c h e t t a è l’elemento cerniera tra alimento e produttore.
Nella sua fase p r o t o - i n d u s t r i a l e il prodotto alimentare è legato alla personalità, alle figure dei
ricercatori, al nome cioè degli sperimentatori prima ancora che dei produttori.
Si pensi a Maggi, nato in Svizzera nel 1830 che preparava e commercializzava farina di piselli, di fagioli e lenticchie idonee ad essere utilizzate nella preparazione di minestre e creme e,
successivamente, mise a punto il dado knorr; al farmacista Nestlè che iniziò preparando manualmente scatole di una particolare farina, la farina lattea Nestlè o, ancora, Justus Liebig che dette
origine all’extractum carnis. Si trattò di un successo enorme, tanto che ridusse la compagnia
Liebig a tutelarsi nei confronti dei concorrenti; in una pubblicità dell’inizio del secolo si sottolineava che il prodotto era genuino “soltanto se l’etichetta di ciascun vaso portava a traverso la
firma Liebig in inchiostro azzurro”.
Successivamente, il passaggio dalla figura dello scopritore - sperimentatore e quella del produttore - distributore, pongono la questione dell’identità del prodotto intesa come necessità primaria di renderlo ricercabile per la presenza di certe caratteristiche di cui il produttore stesso
dichiara, attraverso la confezione, di voler rispondere.
La marca diviene così testimone e garante del percorso storico del prodotto, nonché mezzo
sintetico per esprimere le conoscenze possedute dal produttore.
Le marche si fanno portatrici di valori che sono sinonimo di qualità.
Quello della marca rappresenta un valore sul quale ciascun prodotto costruisce il proprio universo simbolico e con il quale è costretto a confrontarsi, se vuole raggiungere visibilità.
Ci si trova di fronte a prodotti che hanno una storia e che attorno ad essa costruiscono il proprio processo di narrazione e a prodotti nuovi che, non possedendola, scelgono di dichiarare di
rifarsi a una tradizione alimentare che i consumatori ben conoscono, a valori come antichità,
naturalità: sono i prodotti che non legano la loro essenza alla spinta di nuove tecnologie, come
ad esempio la pasta; si parla, infatti, di antiche sorbetterie, vecchie locande, fattorie, mulini,
ecc., agendo sul piano dell’emotività, dell’evocazione dei sentimenti.
Oggi la logica del valore di marca si è, per così dire, ipertrofizzata al punto di ribaltarne i presupposti: non è più necessario partire dal prodotto, ma è invece possibile partire dalla progettazione di un mondo, di un universo simbolico di valori condivisi, dal quale poi far scaturire il
prodotto e le sue strutture comunicative.
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Sigle alimentari
Esistono diversi livelli di “tipicità”, e per questo motivo tutti gli alimenti tradizionali che prima
erano semplicemente DOC, cioè a Denominazione d'origine controllata, da alcuni anni si sono
raggruppati sotto diverse denominazioni: DOC, DOP (Denominazione d'origine protetta) e IGP
(Indicazione geografica protetta).
A questi ne è stata aggiunta una nuova: STG (Specialità tradizionale garantita).
Tali riconoscimenti sono stati effettuati dal 1996 dall'Unione Europea che li ha assegnati prima
ai prodotti che già per la legge italiana erano DOC, e poi agli altri dietro espressa richiesta. Tutti
gli alimenti, comunque, hanno dovuto superare un'istruttoria.
Di seguito si analizzano le sigle nel dettaglio.
DOP = Denominazione di Origine Protetta
Tale denominazione viene assegnata a prodotti strettamente legati alla regione di cui sono
originari.
Devono essere rispettate però due condizioni:
1 ) la produzione delle materie prime e la loro trasformazione fino al prodotto finito devono essere effettuate nella regione di cui il prodotto porta il nome;
2 ) le particolari qualità e caratteristiche del prodotto devono essere dovute, esclusivamente o
essenzialmente, all'ambiente geografico del luogo d'origine; per “ambiente geografico” si
intende anche il clima, qualità del suolo, ma anche le conoscenze tecniche locali.
IGP = Indicazione Geografica Protetta
Le due condizioni necessarie per poter acquisire la denominazione di IGP sono meno rigide
delle precedenti:
a) almeno una delle fasi di produzione deve essere stata effettuata nella zona delimitata.
b) deve comunque esistere un collegamento tra il prodotto e la regione da cui prende il nome.
Per esempio, il prosciutto di Parma è solo DOP, lo Speck dell’Alto Adige è solo IGP.
L’attestazione di specificità
Che cosa si intende per specificità? La legge europea considera “specifico” l'elemento o l'insieme degli elementi che distinguono nettamente un prodotto da altri analoghi”.
Per poter ricevere l'attestato di specificità, un prodotto deve essere “tradizionale” cioè:
1 ) essere stato ottenuto utilizzando materie prime tradizionali;
2) avere una composizione tradizionale;
3) aver subito un metodo di produzione e/o di trasformazione tradizionale.
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DOC = Denominazione d'Origine Controllata
Questa sigla è riservata esclusivamente ai vini.
Il vino DOC, a differenza del “vino da tavola”, deve essere sempre ricavato, secondo regole ben codificate, in quantità regolamentate da uve di una zona geografica ben delimitata.
I vini DOC sono anche detti, secondo la classificazione dell'Unione europea, V Q P R D , cioè “ v i n i d i q u a lità prodotti in regioni determinate” .
Le due diciture DOC e VQPRD sono dunque equivalenti.
Esistono poi i vini D O C G , cioè a " D e n o m i n a z i o n e d ' O r i g i n e C o n t r o l l a t a e G a r a n t i t a ” : sono di qualità
più alta dei DOC e sono pochissimi come il Barbaresco, il Brunello di Montalcino, il Barolo, il Chianti
e il Vin nobile di Montepulciano.
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Fare emergere il contenuto
Una questione centrale per l’imballaggio è quella di comunicare la complessità delle qualità
possedute dal contenuto.
Fra le componenti del packaging c’è quella di portare in superficie, rendere visibile all’esterno
ciò che altrimenti non si potrebbe identificare, attraverso segni e sviluppi narrativi che permettano di immaginare il contenuto, di pregustarlo con “le papille” della mente.
Prima di decidere che cosa si vuol mostrare, è evidente che bisognerà scegliere che tipo di
relazione comunicativa si intende instaurare tra prodotto e destinatario.
Pensiamo ad esempio alle due diverse strategie adottate nel mostrare la pasta attraverso la
sua confezione: ad un polo la visione diretta, al polo opposto quella mediata; nel primo caso la
scelta è quella della presentazione diretta, ottenuta mettendo in mostra la forma della pasta
(penne, rigatoni, spaghetti), nel secondo la scelta è rappresentazione, può venire scelto il
momento della cottura, la ripresa cioè della scena in cui la pasta viene gettata nell’acqua oppure presentata a tavola, ed è quindi inserita nel suo spazio d’uso.
Le azioni della preparazione sono riassunte nell’atto finale e il destinatario diviene partecipe
del momento conclusivo della preparazione o del consumo.
La costruzione della “messa in scena” produce l’effetto di trovarsi davanti al cibo reale, cosa
questa che controbilancia la distanza tra luogo di produzione e luogo di consumo.
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L’imballaggio come strumento d’uso
La funzione ultima dell’imballaggio è quella di diventare strumento d’uso.
È questa la fase in cui viene lasciata alle spalle la figura dell’acquirente - consumatore a favore di quella di utilizzatore - fruitore.
L’accento si sposta dal concetto di acquisto a quello di utilizzo - consumo - assunzione.
Nei confronti dell’imballaggio, il destinatario non è più passivo ma attivo, in quanto gli viene
chiesto di manipolare il prodotto secondo istruzioni più o meno precise.
Il prodotto si fa servizio.
Si parla di functional packaging , intelligent packaging e, di fronte ad esso, il destinatario deve,
in molti casi, essere iniziato all’uso, deve capire che cosa è, a cosa serve, come funziona.
Si pensi alle confezioni dei prodotti liofilizzati, ai precotti, ai surgelati e a come le istruzioni per
l’uso acquistino un’importanza superiore al prodotto stesso. Il consumatore acquista, con il prodotto alimentare, un sapere sotto forma di istruzioni per l’uso.
È il plus di prestazione che è diventato, nel tempo, uno degli aspetti centrali dell’imballaggio.
Nell’ultimo ventennio, è cresciuta l’offerta di prodotti sempre più facili da usare, che dispensino dall’uso di strumenti aggiuntivi e consentano la preparazione di cibi in tempi sempre più
brevi e contratti; come esempio possiamo citare la cioccolata che si scalda dopo aver esercitato una pressione sul fondo della confezione.
Il plus di confezione ha, in ultima analisi, modificato le abitudini correnti e la familiarità con gli
strumenti necessari per la preparazione e il consumo del contenuto.
La mousse mono-porzione, in confezione di alluminio o con apertura a strappo, presentata in
imballaggi che simulano con le loro forme gli stampi da dessert, ha finito per eliminare piattini
e coppette dal nostro buffet delle stoviglie: le bustine da tè col filtro comportano l’eliminazione
del colino ma anche della teiera, del rito di preriscaldamento, ecc.
Il packaging alimentare è entrato far parte di quella serie di imballaggi ormai presenti nelle
nostre case, nelle nostre tavole, inducendo nuove gestualità e nuove forme di galateo, eliminando oggetti tradizionalmente familiari, come brocche e caraffe per l’acqua, ormai soppiantate
dalle bottiglie di vetro o plastica.
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Che cos’è la pubblicità
Ti proponiamo una piccola antologia di affermazioni sulla pubblicità. Dopo averle lette con
attenzione indica le tre che ti sembrano più confacenti e indica anche le tre che ti paiono meno
adeguate a descrivere la pubblicità. Se l’attività viene svolta in classe confronta le soluzioni con
i compagni e create insieme una sorta dI hit-parade delle descrizioni più condivise.
1) La pubblicità è l’anima del commercio (anonimo) .
2) La pubblicità è il motore dell’economia (anonimo) .
3) Attenzione. La pubblicità può causare seri danni al vostro cervello e al vostro portafoglio
(annuncio pubblicitario della ditta Moschino) .
4) Chi smette di fare pubblicità per risparmiare soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare tempo
(Henry Ford, industriale) .
5) Anche il pettirosso che canta a squarciagola in cima ad un albero mettendo in mostra il
petto rosso illuminato dal sole si sta facendo della pubblicità (Konrad Lorenz) .
6) La pubblicità, uno dei più grandi mali del nostro tempo, insulta i nostri sguardi, falsifica tutte le
parole, rovina il paesaggio, corrompe ogni qualità e ogni critica (Paul Valéry, poeta, 1871-1945).
7) La pubblicità può giocare un ruolo importante nel processo che permette ad un sistema economico,
ispirato da norme morali e rispondente al bene comune, di contribuire allo sviluppo umano
(“Etica nella pubblicità”, documento del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali).
8) Che la pubblicità sia quasi sempre falsa lo dovrebbero sapere ormai anche i bambini
(Isabella Bossi Fedrigotti, scrittrice) .
9) In televisione la pubblicità è insulsa, povera e torbida, volgare sempre…
(Oreste del Buono, scrittore, critico pubblicitario) .
1 0 ) La pubblicità non soltanto dà un contributo vitale allo sviluppo della nostra economia, ma
costituisce un aspetto colorito, allegro della vita americana; e molte creazioni dei disegnatori
e dei tecnici pubblicitari sono una prova del gusto e dell’onestà professionale dei loro autori
(Vance Packard)
1 1 ) La pubblicità fa schifo, ne passa una quantità insopportabile in tv, gli spot sono sempre meno
comprensibili, si alza uno e mette un doppio senso da caserma in uno spot e diventa genio
(Gavino Sanna, pubblicitario)
1 2 ) La pubblicità è il fiore della vita contemporanea; è un’affermazione di ottimismo e di gioia;
distrae l’occhio e l’animo. È la più calorosa manifestazione della vitalità degli uomini d’oggi,
della loro forza, della loro puerilità, della loro inventiva e della loro fantasia, è il più bel risultato della loro volontà di modernizzare il mondo in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi campi.
Avete mai pensato alla tristezza che prenderebbero le vie, le piazze, le stazioni, il metrò, i
palazzi, le sale da ballo e le sale cinematografiche, il vagone ristorante, i viaggi, le strade,
la natura, senza gli innumerevoli manifesti, senza le vetrine (quei bei giocattoli tutti nuovi
per famiglie angustiate), senza insegne luminose, senza gli imbonimenti degli altoparlanti, e
immaginate la tristezza e la monotonia dei pasti e dei vini senza i menù colorati e senza le
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etichette attraenti. Sì, veramente, la pubblicità è la più bella espressione della nostra epoca, la più
grande novità del giorno, un’Arte (Blaise Cendrars, poeta, 1887-1961) .
1 3 ) L’effetto di molta parte della pubblicità e, ad un tempo, degli spettacoli ricreativi è di mantenere
ciascuno in uno stato di impotenza prodotto da un prolungato bombardamento della mente
(Marshall McLuhan, filosofo sociale) .
1 4 ) La maggior parte degli annunci pubblicitari prende la forma di parabole religiose, accentrate su un
chiaro messaggio teologico; e come tutte le parabole, anch’essi cominciano con un concetto di
peccato e proseguono con l’indicazione della via della salvezza e con la visione del paradiso; indicano, inoltre, quali siano le radici del male e quali siano gli obblighi della persona pia
(Neil Postman, professore di ecologia dei media) .
1 5 ) La pubblicità può essere di buon gusto e conforme a elevati principi morali; talvolta può persino
essere moralmente edificante; ma può essere anche volgare e moralmente degradante
(“Etica nella pubblicità”, documento del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali).
1 6 ) La pubblicità è l’oppio dei poveri. La pubblicità offende gravemente la dignità dell’uomo, turba la
pace delle coscienze e la concordia tra gli uomini (Rosario Mazzola, Vescovo di Cefalù) .
1 7 ) Che cosa è, infatti, la pubblicità se non una forma di plagio collettivo?
(Luciano De Crescenzo, scrittore)
1 8 ) La pubblicità ci chiede di credere che tutti i problemi risolvibili, e anche all’istante, e che lo sono
con l’intervento della tecnica e della chimica (Neil Postman, professore dell’ecologia dei media) .
1 9 ) Fàa dele publicità = fare delle chiassate (modo di dire cremonese) .
2 0 ) La pubblicità è un male assolutamente necessario (un vecchio art director, citato da Leo Bogart) .
2 1 ) La pubblicità di oggi è una violenza inaudita (Oliviero Toscani, pubblicitario) .
2 2 ) Un parassita (Thorstein Veblen, economista)
2 3 ) Una potentissima aggressione (Marshall McLuhan, filosofo sociale)
2 4 ) Uno strumento di diseducazione morale, oltrechè intellettuale. Nella misura in cui riesce a influenzare la mente della gente, la condiziona a non pensare da sola e a non scegliere autonomamente.
Essa è intenzionalmente ipnotica nel suo effetto. Rende le persone suggestionabili e docili. In realtà le prepara a un regime totalitario (Arnold Toynbee, storico) .
2 5 ) Tocca alla pubblicità prendere il posto degli ormai fiacchi mercanti d’illusioni di Hollywood. Le
nostre marche devono essere le nuove dive. Così l’atto del consumo diventerà un atto culturale
(“Hollywood lava più bianco”, Jacques Séguéla, pubblicitario) .
2 6 ) Questa fu l’immortale cavalcata fantastica del pubblicitario che per primo diede un’anima a un prodotto. Milioni di uomini e donne di tutto il mondo hanno oggi il potere, grazie a lui, di sentirsi John
Wayne per la durata di una boccata di fumo. Ma in fin dei conti, non è proprio questo transfert
quel che il consumatore cerca innanzitutto? Siamo onesti. Chi fra di noi non si compra il suo
biglietto per l’immaginario prima ancora di comprarsi il suo fabbisogno quotidiano? Il consumatore sazia i suoi sogni tanto quanto soddisfa le sue necessità. La pubblicità è tenuta ad essere magica prima ancora che commerciale. Per fortuna. È il messaggio di speranza che ci viene dal cowboy di Marlboro (“Hollywood lava più bianco”, Jacques Séguéla, pubblicitario).
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Alle origini della pubblicità
Nascita della pubblicità e significato del termine
La pubblicità è una delle forme più tipiche di comunicazione persuasiva, in quanto mira ad
influenzare conoscenze, valutazioni, atteggiamenti e comportamenti in determinate aree dell'attività umana. Il suo principale campo è quello commerciale, anche se da tempo si sono sviluppate altre forme di pubblicità specificatamente non commerciali: sociale, pubblica, politica, religiosa, ecc…
La sua natura persuasiva è determinata dal linguaggio e dalle forme che adotta; si avvale
essenzialmente di messaggi brevi, semplici, sintetici, attraenti, suggestivi, enfatici, eufemici ed
euforici, destinati ad una ripetizione sistematica. La pubblicità viene diffusa a pagamento attraverso tutti i canali della comunicazione utilizzabili e il suo scopo è quello di creare certezze,
facendo leva sull'emotività degli individui.
L'etimologia del termine arriva dal francese publicité che a sua volta deriva dal latino publicare e originariamente significava "rendere di proprietà o d'uso pubblico", "svelare, "rendere noto".
Questo significato è insufficiente a rivelarne il significato attuale, in cui l'aspetto persuasivo
prevale su quello referenziale.
Lo stesso vale per i termini delle principali lingue straniere, dal francese réclame all’inglese
advertising (anch'essi risalenti a verbi latini, rispettivamente reclamare e advertere), con l'esclusione del termine tedesco werbung , derivante dal verbo tedesco werben che oltre al significato di "far conoscere", "pubblicizzare", significa anche "attirare", "corteggiare", da cui risulta
il riferimento all'azione esercitata sul comportamento.
La nascita della pubblicità moderna è strettamente legata all'avvento del sistema produttivo
industriale ed alle grandi innovazioni strutturali che hanno modificato l'assetto economico nella
seconda metà del XIX secolo.
I nuovi sistemi di produzione e di vendita obbligano le aziende ad utilizzare la pubblicità per
raggiungere i consumatori, sempre più distanti dai luoghi di produzione, e far conoscere loro i
prodotti. L'intento è quello di creare un mercato adeguato ai volumi produttivi e di orientarlo
attraverso la comunicazione. Gli strumenti ideali del nuovo sistema industriale sono i mass
media, il cui sviluppo prodigioso è connesso agli stessi fattori da cui è scaturito il nuovo volto
dell'economia.
Ma quando e dove nasce questo rapporto con i mass media?
Le prime forme documentabili d'inserzioni pubblicitarie risalgono al 1630, con la creazione, a
Parigi, da parte di Théophraste Renaudot, del "Beaureau d'adresse", la prima agenzia d'annunci,
e con il suo giornale, fondato nel 1631, “La Gazette De France”, dove comparivano gli annunci
stessi.
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La vera rivoluzione si ebbe però nel 1836, sempre in Francia, con Emile Girardin che per primo obbligò gli inserzionisti a pagare le loro pubblicità sul suo giornale "La Presse". Ciò determinò la parziale
copertura dei costi del giornale e la drastica riduzione del prezzo di vendita con una diffusione ed una
concorrenza con gli altri giornali senza precedenti.
La reazione a questa iniziativa da parte dell'altra stampa fu di grande indignazione per l'importanza
concessa agli annunci pubblicitari a scapito dell'informazione e dei contenuti giornalistici. Girardin fu
addirittura sfidato a duello da un giornalista che si definiva "puro" e disinteressato, Armand Carrel. La
sfida ebbe luogo nel Bosco di Vincennes, dove lo sventurato sfidante perse la vita: il mercato aveva
vinto simbolicamente contro le idee.
Con questo atto, che sancisce un rapporto sistematico e sempre più stretto tra editoria e pubblicità, nasce il giornale di massa e la pubblicità stessa si affermerà sempre di più fino a diventare un elemento essenziale nella vita delle stesse aziende editoriali e poi successivamente radiofoniche, televisive ed oggi telematiche ed informatiche.
Solo quattro anni dopo la decisione di Girardin, nel 1840, negli Stati Uniti nasceva ufficialmente la
professione dell’agente pubblicitario e in Italia nel 1871, proprio a Torino apparve, su un tram a cavalli, il primo cartello pubblicitario.
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Strumenti
Pubblicità
La campagna pubblicitaria si riferisce all’insieme di azioni pubblicitarie a favore di un prodotto,
coerenti fra loro, e delimitate nel tempo. Come molte altri termini del gergo pubblicitario, anche
questo deriva metaforicamente dal linguaggio militare e riflette una concezione del marketing
come conquista di posizioni e di segmenti di pubblico e come guerra contro i concorrenti.
La campagna pubblicitaria può voler migliorare l’immagine dell’azienda ( corporate image ),
della marca ( brand image ), o del prodotto ( product image ), può cercare di fidelizzare i clienti
acquisiti o attirare dei nuovi: qualsiasi sia il suo scopo, le sue finalità sono sempre persuasive.
I mezzi più utilizzati sono la televisione, la radio, la stampa (quotidiani e periodici) e l’affissione.
Promozioni
Le promozioni sono iniziative attivate dal marketing di un’azienda per incrementare le vendite
di un determinato prodotto. Si differenziano da altre forme di comunicazione, per il vantaggio
concreto che promettono al cliente, vantaggio che è:
•garantito comunque: sono i buoni sconto, le confezioni speciali, i gadgets , i regali
•condizionato o commisurato al raggiungimento di un obiettivo, come le raccolte punti o le gare
•legato alla sorte, come i concorsi o le estrazioni
Sponsorizzazioni
L’affollamento di messaggi pubblicitari in televisione ha portato le imprese a sviluppare strategie alternative per raggiungere il proprio target. Nelle sponsorizzazioni il produttore di alcolici, ad esempio, finanzia un evento nel settore della cultura, dello spettacolo, dello sport: dà un
sostegno economico all’iniziativa in cambio della presenza del marchio e dei prodotti durante lo
svolgersi del evento.
Lo scopo è ottenere un ritorno positivo in termini di consenso o di immagine e, in particolare,
avvicinare il prodotto ad un determinato pubblico; un esempio che si può riportare è la sponsorizzazione dei cellulari rivolta al mondo giovanile.
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Pubblicità esterna
Sono i messaggi pubblicitari che si trovano all’esterno: sulle piazze, per le vie, sul tetto o sopra le
facciate delle edifici o sulle fiancate di tram e autobus.
Si possono vedere in qualsiasi momento del giorno e della notte, consentono un impiego illimitato
del colore, possono influenzare la decisione d’acquisto nei pressi dei punti vendita.
Caratteristica comune è presentare un testo scritto ridotto al minimo: la marca, un breve slogan ed
un’immagine di forte impatto visivo.
Merchandising: la pubblicità nel punto vendita
Questo tipo di pubblicità ha preso grande impulso con l’affermazione dei supermercati, dei grandi
magazzini e dei negozi self-service.
Si pone l’obiettivo di provocare un impulso immediato all’acquisto. Come? Attirando l’attenzione,
ricordando le argomentazioni pubblicitarie nel momento in cui il consumatore sta per acquistare, e stimolando i meccanismi decisori dell’acquisto. Un esempio consiste nell’invito ad assaggiare un prodotto (caffè, prosciutto, vino) all’interno di un supermercato o un centro commerciale.
Internet
Creatività del messaggio e posizione strategica sono le regole del marketing tradizionale, e valgono
anche su Internet.
Uno dei vantaggi del marketing su Internet è la possibilità di creare della pubblicità personalizzata.
Si può infatti risalire ai gusti di una persona seguendola attraverso le pagine che ha visitato. Si individua il profilo del cliente-navigatore del sito o del prodotto di cui si vuole fare pubblicità e si cerca di
indirizzare il messaggio, i cosiddetti banner , nei siti che più frequenta.
Un’altra regola base del marketing su Internet è che l’informazione deve essere presentata a piccoli
“bocconi”. Nessuno infatti si sofferma a lungo su una pagina.
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Il messaggio pubblicitario
Una volta scelti i mezzi pubblicitari, è il momento dei messaggi: entrano in azione i creativi (gli
art , i copy , i grafici, i registi). Sono loro ad esprimere i concetti di una campagna in immagini,
parole, musica, voci e rumori.
Testo e immagine non hanno mai vita autonoma ma si sorreggono a vicenda, ciascuno influisce sul senso dell’altro, così come insieme contribuiscono a creare il concetto, a dare informazioni e a suscitare emozioni. Il messaggio è polisenso e dall’incrocio di parole e immagini emerge il suo significato.
Il messaggio pubblicitario si appoggia ad un’infinità di codici e sottocodici: il linguaggio verbale (sia nelle sua forma scritta che parlata, i dialetti, i gerghi politici, giovanili, ecc.), il linguaggio iconico (attraverso fotografie, fumetti e disegni, ma anche attraverso la tipografia e il
disegno delle lettere), il linguaggio mimico, gestuale, prossemico, sonoro (la dizione, la musica,
i rumori, il canto), il linguaggio filmico (nelle scenografie, nei movimenti di camera, nel montaggio, così come nei cartoni animati e negli effetti speciali).
Il concetto di codice si articola con quello di “enciclopedia” del consumatore: l’insieme di tutti
i valori, conoscenze, credenze, superstizioni, condizionamenti che costituiscono il patrimonio
culturale del destinatario. Essere in sintonia con questa enciclopedia significa far penetrare più
facilmente il messaggio. Porsi in dissonanza richiede un’attenzione e uno sforzo superiori.
La caratteristica più saliente dei messaggi pubblicitari è la sintesi. I testi sono perciò spesso
costruiti in maniera simile al motto o al proverbio (“Monovolume, multiattraente”, “Se non ci
fosse, bisognerebbe inventarla”).
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Linguaggi della pubblicità
Per f o r m a t si intende lo schema generale per realizzare una pagina o uno spot pubblicitario:
indica il modello narrativo, le tipologie di argomentazione, il tono e lo stile dell’annuncio.
Ecco i tipi più frequenti:
t e s t i m o n i a l : la bontà del prodotto è affidata ad una persona credibile o semplicemente simpatica. Può essere un personaggio noto o preso dalla realtà, un testimone simbolico o un intenditore, o anche una testimonianza ironica (Pavarotti per una celebre banca)
r e a l i s t i c o : ricrea scene di vita quotidiana, di tutti i giorni, ed è caratterizzato da una comunicazione morbida, soft. Il messaggio non è aggressivo ma mira a creare parallelismi, analogie
e associazioni mentali. Si cerca di creare l’identificazione fra l’interprete dell’annuncio pubblicitario e il probabile consumatore
m n e m o n i c d e v i c e : consiste nell’inserire all’interno della storia un’immagine o un gesto particolarmente memorizzabile, che permane nel tempo (le piastrelle pulite e lucide dei detersivi)
s i m b o l i c o : utilizza un simbolo, un oggetto animato, la personificazione (ad esempio un pupazzo)
j i n g l e : consiste nell’affidare il messaggio dello spot a una colonna musicale cantata, facile da
ricordare e da canticchiare
b e f o r e a n d a f t e r : un modo di presentare i pregi del prodotto attraverso un racconto che mette a
confronto un prima l’uso del prodotto con i vari problemi che si vogliono superare (noia, solitudine) e un dopo l’uso (allegria, compagnia). (dentifrici, creme di bellezza)
t e a s e r : letteralmente significa stuzzicante, intrigante. E’ molto adatto al lancio di nuovi prodotti, consiste nel formulare una serie di annunci stimolanti, suddivisi in più puntate, con frequenza ravvicinata. Suscitano curiosità e attenzione verso un prodotto che non viene menzionato nelle prime puntate
u m o r i s t i c o o g i o c o s o : usato soprattutto nei paesi anglosassoni, usa l’ironia o il doppio senso
c l a s s i c o : viene definita così un’impostazione classica, di mestiere: una grande foto al centro, un
titolo sopra o sotto il visual, una marca e un pay-off di chiusura (gioielli).
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Brief
Per raggiungere i suoi obiettivi di vendita l’azienda ha bisogno di comunicare con i suoi clienti attuali e potenziali: intraprende quindi una campagna pubblicitaria.
Il brief è il documento che raccoglie le informazioni sugli obiettivi che l’azienda intende raggiungere attraverso la campagna pubblicitaria, sui probabili clienti, su coloro che possono
influenzare gli acquisti ( opinion leaders o opinion makers ), sull’investimento previsto.
Struttura di un annuncio
l a y o u t : chiamata anche impaginazione, è la disposizione dei vari elementi nella pagina. Tiene
conto che in occidente si legge da sinistra in alto verso destra in basso
t i t o l o o h e a d l i n e e l ’ e v e n t u a l e s o t t o t i t o l o : deve suscitare l’interesse del target selezionato e
riassumere i vantaggi, il benefit , il concetto base dell’annuncio in modo chiaro. Di solito è
strutturato secondo una figura retorica
v i s u a l : l’immagine che accompagna l’annuncio
tipografia: i caratteri, il corpo, l’impaginazione e i colori
t e s t o o b o d y c o p y : si trova sugli annunci stampa, i manifesti da interno, le locandine. La regola
generale è che più grande è un manifesto, meno testo può contenere. Continua il discorso
avviato dal titolo, esplicitandolo e aggiungendo ulteriori informazioni
marchio
p a c k s h o t : l’immagine del prodotto con la sua confezione
b a s e l i n e o f r a s e f i n a l e : per chiarire o dare informazioni
p a y - o f f : mesaggio finale, sintetico ed incisivo.
Connotazione e denotazione
Se esaminiamo una frase pubblicitaria o un’immagine, vedremo che in realtà contiene almeno
due significati. Il primo è nella sequenza di parole o negli elementi visivi presi letteralmente: una
frase, un gruppo di giovani in barca, persone sedute accanto al camino, una coppia di sposi,
ecc. E’ il piano della denotazione.
Il secondo, attraverso l’uso delle figure retoriche, delle pause, dei giochi di parole, degli agganci con l’universo culturale (l’”enciclopedia”) del destinatario, estende il linguaggio verso altri significati, quelli della connotazione. Così i giovani in barca rappresentano l’amicizia e la spensieratezza, le persone intorno al camino, intimità e cordialità, la donna bionda, sensualità e piacere.
Anziché dire semplicemente “acquistate il prodotto X”, si crea lo spettacolo di un mondo in cui
è naturale scegliere e consumare quel prodotto. La finalità commerciale del messaggio si trova
così mascherata in una rappresentazione più vasta che richiama il bisogno umano di sicurezza,
di affermazione di sé, di accettazione sociale e di successo. L’efficacia di uno spot pubblicitario
dipenderà quindi dalla sua capacità di collegare il pubblico a evocazioni della natura, immagini,
sensazioni del corpo, stereotipi e luoghi comuni.
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Inserzioni: quali e quante?
La pubblicità: un problema di qualità ma anche di quantità
I libri di testo in uso nelle scuole spesso propongono la comunicazione pubblicitaria analizzandone il contenuto testuale, le figure retoriche, le pause, i giochi di parole, la relazione tra testo
e immagini, codici e sottocodici, le allusioni che contribuiscono alla messa in scena di un
mondo in cui è naturale scegliere e consumare “quel prodotto”.
Difficilmente si parla degli aspetti commerciali che ci riguardano in quanto acquirenti effettivi
di “quel prodotto” e delle leggi che se ne occupano.
Molte norme mirano a tutelarci come consumatori: si tratta in genere di una difesa qualitativa, riferita al contenuto comunicativo del messaggio mentre la quantità non è presa in considerazione dal punto di vista e nell’interesse del consumatore che è in definitiva il destinatario del
messaggio pubblicitario.
In realtà ci sono almeno due aspetti problematici che dovrebbero mettere in discussione la
pubblicità commerciale anche sotto il profilo della quantità:
1) l’attuale situazione priva di limiti pone un’impresa già forte sul mercato nella possibilità di
impossessarsi di tutti gli spazi da destinare alla pubblicità rendendo impossibile l’ingresso
nel mercato di aziende che siano altrettanto o più capaci ma con minori risorse finanziarie;
2) sotto un altro aspetto più strettamente connesso alla difesa del consumatore, si può osservare che questo, inseguito dalla pubblicità, nei più diversi luoghi e situazioni, si troverà al
momento di valutare una scelta di acquisto con la mente “pre-occupata” da quella certa
marca che ha il vantaggio, rispetto ad altre, di spendere di più in pubblicità, indipendentemente dalla qualità del prodotto.
Nel nostro ordinamento esistono specifiche leggi per limitare la quantità di spot nel settore
della pubblicità radiotelevisiva: in particolare l’art.8 della legge n° 223 del 6-8-1990. Si tratta di
un intervento legislativo importante (anche se facilmente disatteso), ma parziale perché riguarda un settore specifico e soprattutto non ha come obiettivo la tutela degli interessi propri del
consumatore, che dovrebbe decidere le proprie scelte in modo autonomo, sulla base di informazioni corrette.
Queste norme in realtà si propongono l’obiettivo di tutelare da un lato le opere dell’ingegno trasmesse, (nel nostro caso i cartoni animati) risparmiando eccessive interruzioni che possono
danneggiare gli autori, e dall’altro l’interesse dell’utente a godersi indisturbato lo spettacolo.
Nulla impedisce che gli spot possano appartenere ad un numero ristretto di marchi che possono disporre dell’intero spazio disponibile ogni giorno e nei momenti di maggiore ascolto.
Restano esclusi da tutto ciò i due tipi di rischio che interessano il consumatore: la limitazione della concorrenza e il condizionamento della libertà nelle scelte di acquisto attraverso la
pubblicità.
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L’Istituto di autodisciplina pubblicitaria
In Italia esiste l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria, nato nel 1966 con lo scopo di agire
affinché la pubblicità sia onesta, veritiera, corretta e realizzata nell’interesse generale.
Ne fanno parte le principali associazioni di utenti, professionisti e mezzi pubblicitari (stampa,
radiotelevisione, cinema, affissioni…).
L’istituto ha emanato un Codice di Autodisciplina pubblicitaria originariamente, ispirato al
“Codice delle pratiche leali in materia di pubblicità” varato dalla Camera di Commercio
Internazionale nel lontano 1937.
Nel corso del tempo, il Codice italiano è stato costantemente aggiornato e affinato con l’intento di “assicurare che la pubblicità nello svolgimento del suo ruolo venga realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore”.
Le norme autodisciplinari prevedono il divieto di ogni forma di pubblicità ingannevole, cioè
”tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni non palesemente iperboliche, specie per quanto riguarda le caratteristiche e gli effetti del prodotto, il prezzo, la gratuità, le condizioni di vendita, la diffusione, l’identità delle persone rappresentate, i premi o riconoscimenti”.
Il divieto è esteso anche alla pubblicità occulta: l’articolo 7 precisa che “la pubblicità deve
essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi in cui, oltre la pubblicità, vengono comunicati al pubblico informazioni e contenuti di altro genere, la pubblicità inserita deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Il Codice è vincolante per tutti gli associati dell’istituto che si impegnano volontariamente a
osservare e far accettare le decisioni di un apposito ”Giurì” composto da un numero di membri
compreso fra nove e quattordici, scelti fra esperti di diritto, di problemi dei consumatori, di
comunicazione. Costituisce però un limite a questa procedura il fatto che si intervenga a campagna già avviata, quando i danni si sono già, in tutto o in parte, verificati.
“Chiunque ritenga di subire pregiudizio da attività pubblicitarie contrarie al Codice di autodisciplina può richiedere l’intervento del Giurì nei confronti di chi, avendo accettato il Codice stesso, abbia commesso le attività ritenute pregiudizievoli”.
Un aspetto rilevante è che le procedure di segnalazione e reclamo sono basate su interventi
rapidi, non onerosi per i consumatori e dai risulti efficaci. Solitamente i tempi della decisione
sono meno di un mese.
La decisione del Giurì è definitiva, non ha prove di appello e chiunque abbia aderito al Codice
di autodisciplina è tenuto ad osservare le decisioni adottate.
Un’importante funzione dell’Istituto è il compito educativo e dissuasivo che esercita sugli operatori pubblicitari associati, cercando di prevenire la diffusione di messaggi non conformi ai
principi del Codice. Alcuni media non vi aderiscono e quindi non sono vincolati a rispettarlo.
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Decalogo per i consumatori
1 ) O c c h i o a l l a l e t t e r a . Valutare con attenzione il testo del messaggio e controllare anche i più piccoli caratteri di stampa: a volte informazioni rilevanti sono riportate solo in modo marginale.
2 ) I l p r e z z o è g i u s t o ? Verificare sempre che il prezzo indicato sia comprensivo di oneri o spese
accessorie (IVA, tasse d'imbarco, quote di iscrizione, spese di consegna, scatto alla risposta).
3 ) M i s s i o n e i m p o s s i b i l e . Diffidare dai messaggi che promettono risultati miracolosi (ad esempio
prodotti o metodi dimagranti e cosmetici).
4 ) R i f l e t t i e f i r m a . Non sottoscrivere alcun modulo senza aver letto prima tutte le condizioni.
Alcune offerte possono nascondere l’esistenza di un vero e proprio contratto (ad esempio le
offerte di lavoro).
5 ) N o n s o l o s l o g a n . Fare attenzione alla completezza del messaggio ed assumere tutte le informazioni necessarie. Controllare sempre l’effettiva convenienza delle operazioni promozionali (sconti, liquidazioni, numero effettivo dei pezzi disponibili, tariffe).
6 ) D i s t i n g u e r e c u o r e e p o r t a f o g l i o . I servizi prestati da maghi, cartomanti ed operatori esoterici
possono rivelarsi molto onerosi. Inoltre, non esiste alcun metodo per rendere più probabili
le vincite dei giochi a estrazione.
7 ) Q u a n t o m i c o s t a ? Verificare le condizioni delle proposte di finanziamento sia per acquisti che
per prestiti personali e mutui (tassi d’interesse TAN, TAEG, periodo di validità).
8 ) È s o l o f i c t i o n . Fare attenzione alla pubblicità "travestita": a volte, in contesti dall’apparente
natura informativa o di intrattenimento (stampa, programmi TV), possono nascondersi forme
di pubblicità occulta.
9 ) A t t e n z i o n e a i p e r i c o l i . Se il prodotto è pericoloso la pubblicità deve dirlo: occorre leggere sempre con attenzione le avvertenze inserite nella pubblicità e nella confezione del prodotto.
1 0 ) T u t e l a r e i m i n o r i . La pubblicità deve sempre considerare e rispettare la tutela fisica e psichica dei minori: alcune promozioni, non ingannevoli per gli adulti, possono invece indurre
in bambini e adolescenti una pericolosa travisazione della realtà.
(Tratto dal sito internet dell’Autorità Garante del Mercato e della Concorrenza)
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Glossario pubblicità
A c c o u n t : Persona che tiene il collegamento tra l’agenzia ed il cliente coordinando i reparti dell’agenzia in relazione alle necessità del cliente e presentando a questo il lavoro svolto.
A f f i s s i o n e : Pubblicità esterna, che comprende tutti i mezzi ed i veicoli pubblicitari che abbiano
la caratteristica di essere visibili all’esterno in luoghi aperti al pubblico.
A n n u n c i o : Messaggio pubblicitario diffuso a mezzo stampa quotidiana o periodica.
A r t d i r e c t o r : Responsabile della creatività visiva espressa sia in stampa che in televisione.
A u d i e n c e : Numero di individui raggiunti da un mezzo o da un veicolo audiovisivo.
A u d i t e l : Indagine sull’ascolto della Tv rilevato mediante il meter, minuto per minuto, su un campione di 2420 famiglie.
B o d y c o p y : Testo di annuncio, quello cioè che, spiegando i benefici del prodotto, dovrebbe convincere ad acquistarlo.
C l a i m : Affermazione di sintesi dei vantaggi del prodotto.
C o d i c e d i a u t o d i s c i p l i n a p u b b l i c i t a r i a : Complesso di regole volutamente sottoscritto dagli operatori della pubblicità, cui ci si deve attenere nella realizzazione di una campagna, allo scopo
di assicurare il ruolo di servizio per l’informazione del consumatore.
C o n s u m e r b e n e f i t s : Vantaggi che il consumatore trarrà dall’uso del prodotto. Devono stare quindi alla base di una strategia pubblicitaria.
C o p y s t r a t e g y : Documento che analizza e descrive gli elementi necessari alla definizione della
strategia creativa, e che possono essere riassunti in:
•Posizionamento della merce
•Obiettivo della comunicazione
• Target group
•Promessa
• Reason why
•Tono.
C o p y w r i t e r : Colui che scrive i testi di un annuncio come pure la sceneggiatura di un commercial .
C o s t o c o n t a t t o : Costo necessario per raggiungere una persona facente parte del target .
D i s s o l v e n z a : Passaggio da una scena a un’altra intravedendo in trasparenza tra la fine della
prima e l’inizio della seconda. Viene utilizzata per non avere salti di immagine.
H e a d l i n e : Titolo dell’annuncio pubblicitario, di solito evidenziato con caratteri differenti.
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I n d a g i n e d i m e r c a t o : Ricerca effettuata su un campione statisticamente rappresentativo, tesa a rilevare sia i dati (quantitativa) che i comportamenti o atteggiamenti (qualitativa).
I n v e s t i m e n t o : Quantità di denaro stanziata per una campagna pubblicitaria.
L a y o u t : Bozzetto, disegno, che simula la pagina pubblicitaria così come dovrà essere.Comprende l’illustrazione - la headline , la body copy , il pay off - tutti gli elementi cioè che dovranno essere
approvati dal cliente.
M a r k e t i n g m i x : Mix , cioè dosaggio delle attività previste per la realizzazione corretta di un piano vincente; poggia sulle famose “4P”: product, price, place, promotion.
M e e t i n g r e p o r t : Documento predisposto dall’agenzia dopo un incontro col cliente, nel quale vengono
riassunti gli argomenti trattati, le decisioni prese, i tempi di esecuzione delle stesse e le persone
incaricate delle realizzazioni.
P a c k a g i n g : Confezione del prodotto; conferisce, spesso in maniera determinante, una personalità tipica ed esclusiva al prodotto stesso.
P a l i n s e s t o : Si divide in palinsesto programmi e palinsesto pubblicitario. Il primo è una “scaletta” giornaliera dei programmi di un’emittente; il secondo indica nome e collocazione giornaliera e oraria
delle rubriche pubblicitarie.
Pa y off: Firma dell’annuncio o del filmato che di solito compare a chiusura, sotto il marchio, costituendo
normalmente l’elemento - quasi filosofico - di maggior ricordo.
P i a n i f i c a z i o n e : Processo con il quale si analizzano e si scelgono i mezzi necessari a veicolare una
campagna pubblicitaria.
R e a s o n w h y : Ragione per la quale una promessa pubblicitaria è da ritenersi vera.
S p o t : Film pubblicitario.
S t o r y b o a r d : Sceneggiatura illustrata della campagna. E’ una tavola con una dozzina di disegni che sintetizzano i passaggi fondamentali del film con i dialoghi scritti sotto i disegni.
Strategia di comunicazione: Complesso di scelte che un’emittente di comunicazione deve fare per definire:
•cosa dire
•a chi dirlo
•come dirlo
•con quali mezzi.
Target: Obiettivo da raggiungere; gruppi di consumatori, popolazione cui è diretta la campagna pubblicitaria.
T e a s e r : Annuncio civetta creato per “stuzzicare” la curiosità e che introduce la campagna vera e propria
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