Ipsoa - Il Corriere Giuridico di Balestra Luigi, Carbone Vincenzo

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PER «RECUPERARE A SISTEMA
IL DIRITTO VIVENTE DEL LAVORO»
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il Corriere giuridico
Sommario
PRIMO PIANO
Contratti pubblici LE PRINCIPALI NOVITÀ IN TEMA DI CONTRATTI E CONCESSIONI PUBBLICHE
di Roberto Proietti
1041
LEGISLAZIONE IN SINTESI
NOVITÀ NORMATIVE
a cura di Alessandro Pagano
1054
DIRITTO CIVILE
Divisione
Cassazione civile, Sez. II, 5 novembre 2015, n. 22663
di beni ereditari IMMOBILI NON DIVISIBILI, ART. 720 C.C.E LIMITI ALLA DISCREZIONALITÀ DEL GIUDICE
di Francesco Venosta
1058
Gioco
e scommessa
1064
Tutela
della privacy
Mediazione
Trust interno
Cassazione civile, Sez. VI-3, ord. 8 luglio 2016, n. 14288
CODICE DEL CONSUMO E GIOCO D’AZZARDO LEGALE:LA CASSAZIONE FISSA I PALETTI PER
ESTENDERE LA DISCIPLINA DEL CONSUMATORE ALLO SCOMMETTITORE
di Vito Amendolagine
Tribunale di Roma, sez. I, 3 dicembre 2015
Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 31 marzo 2016, n. 152
IL DIRITTO E L’OBLIO
di Marco Rizzuti
Tribunale di Vasto 9 marzo 2015
Tribunale di Vasto 23 giugno 2015,ord
MEDIAZIONE: PRESENZA ED ONERI DELLE PARTI, COMPITI DEL MEDIATORE
E POSSIBILI PRESCRIZIONI IMPOSTE DAL GIUDICE A MEDIATORE E PARTI
di Michele Ruvolo
Tribunale di Udine 28 febbraio 2015
NEGATA LA VALIDITÀ DEL C.D. ‘‘TRUST INTERNO’’
di Guido Maria Tancredi
1059
1067
1072
1077
1083
1087
1097
1099
DIRITTO COMMERCIALE
Intermedizione
finanziaria
Cassazione Civile, Sez. I, 27 aprile 2016, n. 8395
Cassazione Civile, Sez. I, 11 aprile 2016, n. 7068
Cassazione Civile, Sez. I, 24 marzo 2016, n. 5919
CONCLUSIONE DEL CONTRATTO E FORMALISMO DI PROTEZIONE NEI SERVIZI DI INVESTIMENTO
di Andrea Tucci
1110
1117
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
Ordinanza
filtro
Cassazione civile, Sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914
IMPUGNABILITÀ DELL’ORDINANZA FILTRO PER VIZI PROPRI. L’APERTURA DELLE SEZIONI UNITE
AL RICORSO STRAORDINARIO
di Roberta Tiscini
Opposizione
Tribunale di Trento 24 marzo 2016
tardiva a decreto IL TERMINE PER LA PROPOSIZIONE DELL’OPPOSIZIONE TARDIVA A DECRETO INGIUNTIVO
ingiuntivo
di Cristina Asprella
1125
1132
1144
1146
ITINERARI DI GIURISPRUDENZA
Procreazione
medicalmente
assistita
LA DIAGNOSI GENETICA PREIMPIANTO NELL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE
a cura di Daniela De Francesco
il Corriere giuridico 8-9/2016
1151
1039
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Sommario
PANORAMA EUROPEO
OSSERVATORIO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
a cura di Antonella Mascia
1159
OSSERVATORI
CORTE DI CASSAZIONE-SEZIONI UNITE
a cura di Vincenzo Carbone
1166
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI SEMPLICI
a cura di Vincenzo Carbone
1171
CORTE DI CASSAZIONE- CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI
a cura di Giacomo Travaglino
INDICE DEGLI AUTORI- INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI- INDICE ANALITICO
1176
1180
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Salvatore Boccagna, Raffaele Caterina, Paoloefisio Corrias, Marco De Cristofaro, Francesco Delfini, Stefano delle Monache, Francesco di Giovanni, Pasquale Femia, Giuseppe Ferri, Giovanni Furgiuele, Marino Marinelli, Fabiana Massa Felsani, Marisaria Maugeri,
Massimo Montanari, Stefano Pagliantini, Massimo Proto, Matteo Rescigno, Alberto A. Romano, Ugo Salanitro, Renato Santagata,
Salvatore Sica, Mario Stella Richter, Alberto Tedoldi, Chiara Tenella Sillani, Francesco Venosta
Per informazioni in merito
a contributi, articoli ed argomenti trattati, scrivere o telefonare a:
Casella Postale 12055 - 20120 Milano
telefono (02) 82476.828
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Primo piano
Appalti
Il nuovo codice dei contratti pubblici
Le principali novità in tema di
contratti e concessioni pubbliche
di Roberto Proietti - Magistrato amministrativo
Con il D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, pubblicato in G.U. 19 aprile 2016, n. 91, S.O., è stata data attuazione alle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di
concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori
dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina
vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Il presente contributo
costituisce una prima ricognizione di alcune delle principali novità contenute nella nuova normativa.
Gli indirizzi della disciplina di rango
primario e gli atti di attuazione
Il nuovo Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, contenuto nel D.Lgs. n. 50
del 2016, reca una disciplina ispirata a criteri di
semplificazione, snellimento, riduzione delle norme, rispetto del divieto di goldplating.
Si tratta di una normativa di rango primario che
non prevede un regolamento di esecuzione e di attuazione, ma l’emanazione di atti di indirizzo, di linee guida di carattere generale e di decreti, da approvare a cura di diversi soggetti tra i quali, in particolare, l’Autorità nazionale anticorruzione
(ANAC) ed il Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti.
Secondo l’intenzione del Governo, le linee guida,
quale strumento di soft law, contribuiranno ad assicurare la trasparenza, l’omogeneità e la speditezza delle procedure e a fornire criteri unitari;
avranno valore di atto di indirizzo generale e consentiranno un aggiornamento costante e coerente
con i mutamenti del sistema. Nei casi in cui sono
previste linee guida e decreti amministrativi attuativi, è stato dettato un regime transitorio che
prevede l’applicazione temporanea di alcune norme del regolamento contenuto nel d.P.R. n.
207/2010.
Con particolare riferimento alle cc.dd. Linee guida,
va rilevato che, di fatto, si tratta di tipologie di atti
diversificati.
Sono previsti, in primo luogo, decreti ministeriali
contenenti linee guida adottate su proposta dell’A-
il Corriere giuridico 8-9/2016
NAC (che hanno natura normativa e, quindi, regolamentare e sono sottoposti al parere delle commissioni parlamentari ed al parere del Consiglio di
Stato, ai sensi dell’art. 17, L. 23 agosto 1988, n.
400).
L’ANAC, invece, è chiamata ad adottare linee
guida vincolanti, sostanzialmente equiparabili agli
atti di regolazione delle autorità indipendenti, la
cui emanazione segue garanzie procedimentali
quali la consultazione pubblica, i metodi di analisi
e di verifica di impatto della regolazione, le metodologie di qualità della regolazione, compresa la
codificazione, adeguata pubblicità e pubblicazione, eventuale parere facoltativo del Consiglio di
Stato.
La medesima Autorità deve adottare linee guida
non vincolanti, con valore e funzione di indirizzo
per le stazioni appaltanti e gli operatori economici.
Infine, sono previsti strumenti di regolazione flessibile quali, in particolare, bandi-tipo, capitolati-tipo
e contratti-tipo predisposti dall’ANAC.
In tema di Governance, va segnalato che il nuovo
codice rafforza l’ANAC nell’attività di garanzia
della legalità, attribuisce specifici compiti al
Consiglio Superiore del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e istituisce una Cabina di
regìa presso la Presidenza del Consiglio dei ministri con funzioni di coordinamento e monitoraggio.
1041
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Primo piano
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Appalti
Le principali novità (1)
Trasparenza, pubblicità e criteri di scelta
del contraente
Il D.Lgs. n. 50/2016 contiene disposizioni tese all’armonizzazione delle norme in materia di trasparenza, pubblicità e tracciabilità delle procedure di
gara e delle fasi ad essa prodromiche e successive,
anche al fine di contrastare la corruzione, di evitare i conflitti d’interesse e di favorire la trasparenza
nel settore degli appalti pubblici e dei contratti di
concessione.
A tal fine, sono individuati i casi nei quali, in via
eccezionale, è possibile ricorrere alla procedura negoziata senza precedente pubblicazione di un bando
di gara.
L’art. 63 del nuovo codice prevede, nei casi e nelle
circostanze indicati, che le amministrazioni aggiudicatrici possono aggiudicare appalti pubblici mediante una procedura negoziata, senza previa pubblicazione di un bando di gara, motivando la propria scelta nel primo atto della procedura.
Le procedure ad evidenza pubblica e le relative fasi
e durata sono regolate unificando le banche dati
esistenti presso l’Autorità nazionale anticorruzione,
definendo misure volte ad evitare la corruzione e i
conflitti d’interesse ed a favorire la trasparenza, e
la promozione della digitalizzazione delle procedure
stesse, in funzione della loro tracciabilità.
L’art. 95 del nuovo codice prevede che, compatibilmente con il diritto dell’Unione europea e con i
principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità, le amministrazioni aggiudicatrici indicano nel bando di gara,
nell’avviso o nell’invito, i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell’offerta in
relazione al maggior rating di legalità dell’offerente, nonché per agevolare la partecipazione alle procedure di affidamento per le microimprese, piccole
e medie imprese, per i giovani professionisti e per
le imprese di nuova costituzione (2).
La medesima norma prevede che, per quanto concerne i criteri di aggiudicazione, nei casi di adozione del miglior rapporto qualità prezzo, si applicano
le seguenti disposizioni: 1) le stazioni appaltanti
possono autorizzare o esigere la presentazione di
varianti da parte degli offerenti, indicando nel
(1) Tenuto conto dell’elevato tasso di innovazione che caratterizza la legge delega 28 gennaio 2016, n. 11 ed il conseguente D.Lgs. n. 50 del 2016, il presente lavoro, anche per la
natura che gli è propria, senza pretesa di esaustività, reca una
sintesi necessariamente generica delle principali e significative
novità che caratterizzano l’intervento legislativo in esame, le
1042
bando di gara ovvero, nell’avviso di preinformazione o nell’invito a confermare interesse, se autorizzano o richiedono le varianti (in mancanza, le varianti non sono autorizzate); 2) le stazioni appaltanti che autorizzano o richiedono le varianti indicano nei documenti di gara i requisiti minimi che
le varianti devono rispettare, nonché le modalità
specifiche per la loro presentazione; in particolare,
se le varianti possono essere presentate solo ove sia
stata presentata anche un’offerta che è diversa da
una variante. Esse garantiscono anche che i criteri
di aggiudicazione scelti possano essere applicati alle
varianti che rispettano tali requisiti minimi e alle
offerte conformi che non sono varianti; 3) solo le
varianti che rispondono ai requisiti minimi prescritti dalle amministrazioni aggiudicatrici sono
prese in considerazione; 4) nelle procedure di aggiudicazione, le amministrazioni aggiudicatrici che
abbiano autorizzato o richiesto varianti non possono escludere una variante per il solo fatto che, se
accolta, configurerebbe, rispettivamente, o un appalto di servizi anziché di forniture o un appalto di
forniture anziché un di servizi.
Semplificazione e procedure di gara
Il nuovo codice dei contratti pubblici ha cercato di
coniugare l’intento di garantire una maggiore flessibilità delle procedure ad evidenza pubblica con le
esigenze di trasparenza che devono caratterizzare il
settore degli appalti pubblici.
Infatti, è stato previsto l’obbligo dell’utilizzo della
procedura di gara con pubblicazione del bando anche per i contratti sotto la soglia di rilevanza europea (art. 35), distinguendo le procedure utilizzabili
tra diverse fasce: a) per affidamenti di importo inferiore a euro 40.000, affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione
diretta; b) per affidamenti di importi tra euro
40.000 e 150.000 per i lavori (o per le soglie di rilevanza europea per le forniture e i servizi), procedura negoziata previa consultazione di almeno cinque operatori economici; c) per i lavori di importi
tra euro 150.000 e 1.000.000, procedura negoziata
con consultazione di almeno dieci operatori economici; d) per i lavori di importo pari o superiore a
euro 1.000.000, ricorso alle procedure ordinarie
(art. 36).
cui ricadute positive nel sistema delle procedura ad evidenza
pubblica sono attese alla prova dei fatti.
(2) Indicano, altresì, il maggior punteggio relativo all’offerta
concernente beni, lavori o servizi che presentano un minore
impatto sulla salute e sull’ambiente.
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Primo piano
Appalti
Le misure di semplificazione riguardano anche l’utilizzo dei mezzi telematici. Tra tali strumenti è
prevista la possibilità per le stazioni appaltanti di
richiedere per le nuove opere, nonché per interventi di recupero, riqualificazione o varianti, prioritariamente per i lavori complessi, l’uso di metodi
e strumenti elettronici specifici quali quelli di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture (c.d. building information modeling - BIM) (art. 23, comma 1,
lett. h, e comma 13).
Al riguardo, è previsto che sei mesi dopo l’entrata
in vigore del nuovo codice, le stazioni appaltanti
potranno chiedere l’uso del Building information modeling (BIM) per le nuove opere e i servizi di progettazione di importo superiore alle soglie comunitarie, pari a euro 5.225.000 per i lavori; euro
135.000 per i servizi e i concorsi di progettazione
aggiudicati dalle amministrazioni governative; euro
209.000 per i servizi e i concorsi di progettazione
aggiudicati dalle altre amministrazioni. Successivamente, il BIM diverrà gradualmente obbligatorio
in base alla tipologia delle opere e dei servizi da affidare e al loro importo.
Per quanto concerne in particolare l’affidamento e
l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alle soglie comunitarie, è previsto l’obbligo di rispettare i principi di cui all’art. 30, comma
1, del nuovo codice (Principi per l’aggiudicazione e
l’esecuzione di appalti e concessioni), nonché il
principio di rotazione in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese.
Le stazioni appaltanti devono verificare il possesso
dei requisiti economici e finanziari e tecnico professionali richiesti nella lettera di invito o nel bando di gara.
Qualora la stazione appaltante abbia fatto ricorso
alle procedure negoziate, la verifica dei requisiti ai
fini della stipula del contratto avviene esclusivamente sull’aggiudicatario. Tuttavia, alla stazione
appaltante è consentito estendere le verifiche agli
altri partecipanti.
Ai fini dello svolgimento delle procedure ad evidenza pubblica, le stazioni appaltanti possono procedere attraverso un mercato elettronico che consenta acquisti telematici basati su un sistema che
attua procedure di scelta del contraente interamente gestite per via elettronica. Il Ministero dell’economia e delle finanze, avvalendosi di CONSIP
S.p.A., mette a disposizione delle stazioni appaltanti il mercato elettronico delle pubbliche amministrazioni.
il Corriere giuridico 8-9/2016
Nel documento ANAC sulle linee guida attuative
del nuovo codice, relativo alle “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di
mercato e formazione e gestione degli elenchi di
operatori economici”, si afferma che nell’espletamento di tali procedure le stazioni appaltanti operano in aderenza: a) al principio di economicità,
l’uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero nell’esecuzione del
contratto; b) al principio di efficacia, la congruità
dei propri atti rispetto al conseguimento dello scopo cui sono preordinati; c) al principio di tempestività, l’esigenza di non dilatare la durata del procedimento di selezione del contraente in assenza di
obiettive ragioni; d) al principio di correttezza, una
condotta leale ed improntata a buona fede, sia nella fase di affidamento sia in quella di esecuzione;
e) al principio di libera concorrenza, l’effettiva
contendibilità degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati; f) al principio di
non discriminazione e di parità di trattamento, una
valutazione equa ed imparziale dei concorrenti e
l’eliminazione di ostacoli o restrizioni nella predisposizione delle offerte e nella loro valutazione; g)
al principio di trasparenza e pubblicità, la conoscibilità delle procedure di gara, nonché l’uso di strumenti che consentano un accesso rapido ed agevole alle informazioni relative alle procedure; h) al
principio di proporzionalità, l’adeguatezza ed idoneità dell’azione rispetto alle finalità e all’importo
dell’affidamento; i) al principio di rotazione, il non
consolidarsi di rapporti solo con alcune imprese.
L’ANAC rileva che il rispetto dei principi indicati
impone una rivisitazione delle prassi abitualmente
seguite dalle stazioni appaltanti nelle procedure
sotto soglia, soprattutto nel senso dell’adozione di
procedure improntate ad una maggiore trasparenza
nella scelta del contraente.
In sostanza, il richiamo ai citati principi induce ad
escludere che i contratti sotto soglia (ivi incluso
l’affidamento diretto) possano essere frutto di scelte arbitrarie.
Quindi, le stazioni appaltanti devono definire a
priori ed esplicitare (in relazione a ciascun caso di
specie) i criteri per la selezione degli operatori economici, con riferimento allo specifico contratto,
oltre ad assicurare adeguate forme di pubblicità agli
esiti delle procedure di affidamento.
L’ANAC invita, inoltre, a tenere conto delle imprese di piccole dimensioni, fissando requisiti di
partecipazione e criteri di valutazione che consentano la partecipazione alle procedura ad evidenza
1043
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Appalti
pubblica anche delle micro, piccole e medie imprese.
Anche a tal fine, l’ANAC invita la stazione appaltante chiedere preventivi preliminari, sui quali effettuare una valutazione comparativa.
Qualificazione degli operatori economici
e rating di impresa
La nuova disciplina degli operatori economici è caratterizzata dai criteri di omogeneità, trasparenza e
verifica formale e sostanziale delle attività effettivamente eseguite, delle capacità realizzative e delle
competenze tecniche e professionali, ivi comprese
le risorse umane.
Inoltre, sono state introdotte misure di premialità,
regolate da un apposito atto dell’ANAC, connesse
a criteri reputazionali basati su parametri oggettivi
e misurabili e su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e dei costi nell’esecuzione dei contratti e la gestione dei contenziosi nonché, assicurando gli opportuni raccordi con la normativa vigente in materia di rating di legalità.
In particolare, l’art. 83, ultimo comma, del nuovo
codice, prevede che “È istituito presso l’ANAC, che
ne cura la gestione, il sistema del rating di impresa e
delle relative penalità e premialità, da applicarsi ai soli
fini della qualificazione delle imprese, per il quale l’Autorità rilascia apposita certificazione. Il suddetto sistema è connesso a requisiti reputazionali valutati sulla
base di indici qualitativi e quantitativi, oggettivi e misurabili, nonché sulla base di accertamenti definitivi che
esprimono la capacità strutturale e di affidabilità dell’impresa. L’ANAC definisce i requisiti reputazionali e
i criteri di valutazione degli stessi, nonché le modalità
di rilascio della relativa certificazione, mediante linee
guida adottate entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente codice.” (3).
I requisiti reputazionali alla base del rating di impresa tengono conto, in particolare: - del rating di
legalità rilevato dall’ANAC in collaborazione con
l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; - dei precedenti comportamentali dell’impresa,
con riferimento al rispetto dei tempi e dei costi
nell’esecuzione dei contratti, all’incidenza del contenzioso sia in sede di partecipazione alle procedure
di gara che in fase di esecuzione del contratto; della regolarità contributiva, ivi compresi i versamenti alle Casse edili, valutata con riferimento ai
tre anni precedenti.
(3) L’ANAC deve determinare misure sanzionatorie amministrative nei casi di omessa o tardiva denuncia obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari
1044
In generale, gli operatori economici che partecipano alla procedura ad evidenza pubblica e intendono aggiudicarsi la gara devono essere in possesso di
requisiti minimi di: a) idoneità professionale; in
proposito potrebbe essere richiesto all’operatore
economico di esibire, ad esempio, il certificato di
iscrizione al Registro della Camera di commercio,
industria, agricoltura e artigianato o ad altro Albo,
ove previsto, capace di attestare lo svolgimento
delle attività nello specifico settore oggetto del
contratto; b) capacità economica e finanziaria; al
riguardo, potrebbe essere richiesta la dimostrazione
di livelli minimi di fatturato globale o altra documentazione considerata idonea; c) capacità tecniche e professionali, stabiliti in ragione dell’oggetto
e dell’importo del contratto; a tal proposito, potrebbe essere richiesta l’attestazione di esperienze
maturate nello specifico settore, o in altro settore
ritenuto assimilabile, nell’anno precedente o in altro intervallo temporale ritenuto significativo ovvero il possesso di specifiche attrezzature e/o equipaggiamento tecnico.
A fronte di operatori economici parimenti qualificati sotto il profilo delle capacità tecnico/professionali, possono essere indicati quali criteri preferenziali di selezione indici oggettivi basati su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e
dei costi nell’esecuzione dei contratti pubblici,
quali i citati criteri reputazionali di cui all’art. 83,
comma 10, del nuovo codice.
I requisiti minimi devono essere proporzionati all’oggetto del contratto e tali da non compromettere la possibilità delle piccole e medie imprese e delle microimprese di risultare affidatarie.
I sistemi di garanzia
L’art. 1, comma 1, lett. qq), L. n. 11 del 2016, ha
delegato il Governo ad operare il riassetto, la revisione e la semplificazione dei sistemi di garanzia
per l’aggiudicazione e l’esecuzione degli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture, allo scopo di
rendere tali istituti proporzionati e adeguati alla
natura delle prestazioni oggetto del contratto e al
grado di rischio ad esso connesso, ed al fine di salvaguardare l’interesse pubblico alla conclusione dei
lavori nel rispetto dei costi, dei tempi e dei modi
programmati, anche in caso di fatti imprevisti ed
imprevedibili non imputabili alla stazione appaltante, assicurando l’entrata in vigore della nuova
di contratti pubblici, comprese le imprese subappaltatrici e le
imprese fornitrici di materiali, opere e servizi.
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disciplina contestualmente a strumenti attuativi
preventivamente concordati con gli istituti bancari
e assicurativi che devono assumersi i rischi d’impresa.
A decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo codice sono da ritenere abrogate le disposizioni
in materia di garanzia globale di cui agli artt. 129,
comma 3, e 176, comma 18, D.Lgs. 12 aprile 2006,
n. 163.
L’art. 93 (Garanzie per la partecipazione alla procedura) del nuovo codice, in particolatre, prevede
che l’offerta deve essere corredata da una garanzia
fideiussoria, denominata “garanzia provvisoria”, pari al 2% del prezzo base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a
scelta dell’offerente.
Per rendere l’importo della garanzia proporzionato
e adeguato alla natura delle prestazioni oggetto del
contratto e al grado di rischio ad esso connesso, la
stazione appaltante può ridurre l’importo della cauzione sino all’1% ovvero incrementarlo sino al 4%.
Qualora si espletino procedure ad evidenza pubblica in forma aggregata da centrali di committenza,
l’importo della garanzia è fissato nel bando o nell’invito nella misura massima del 2% del prezzo base.
In caso di partecipazione alla gara di un raggruppamento temporaneo di imprese, la garanzia fideiussoria deve riguardare tutte le imprese del raggruppamento medesimo.
La garanzia fideiussoria può essere rilasciata da imprese bancarie o assicurative o da intermediari finanziari iscritti nell’albo di cui all’art. 106, D.Lgs.
1° settembre 1993, n. 385, che svolgono in via
esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie, che sono sottoposti a revisione contabile da
parte di una società di revisione iscritta nell’albo
previsto dall’art. 161, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n.
58, e che abbiano i requisiti minimi di solvibilità
richiesti dalla vigente normativa bancaria assicurativa.
La cauzione può essere consistere (a scelta dell’offerente) in contanti o in titoli del debito pubblico
garantiti dallo Stato al corso del giorno del deposito, presso una sezione di tesoreria provinciale o
presso le aziende autorizzate, a titolo di pegno a favore dell’amministrazione aggiudicatrice.
La garanzia deve prevedere la rinuncia espressa al
beneficio della preventiva escussione del debitore
principale, la rinuncia all’eccezione di cui all’art.
1957, comma 2, c.c., e l’operatività entro quindici
(4) Cfr. art. 1, comma 1, lett. hh) e mm).
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giorni, a semplice richiesta scritta della stazione
appaltante. Inoltre, deve avere efficacia per almeno
centottanta giorni dalla data di presentazione dell’offerta, salva diversa indicazione del bando. Essa
copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo
l’aggiudicazione, per fatto dell’affidatario riconducibile ad una condotta caratterizzata da dolo o colpa grave, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo.
La scelta dei soggetti che svolgono compiti
e funzioni nell’ambito della procedura ad
evidenza pubblica
Il nuovo codice contiene significative novità che
riguardano i soggetti chiamati a svolgere compiti e
funzioni nell’ambito della procedura ad evidenza
pubblica, prevedendo albi all’interno dei quali sceglierli, in linea con quanto stabilito dalla legge delega 28 gennaio 2016, n. 11 (4).
L’art. 77 del nuovo codice prevede che i componenti delle commissioni di gara debbano essere
scelti fra gli esperti iscritti all’Albo istituito presso
l’ANAC di cui all’art. 78 e, nel caso di procedure
di aggiudicazione svolte da CONSIP S.p.a, INVITALIA - Agenzia nazionale per l’attrazione degli
investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.a. e dai
soggetti aggregatori regionali di cui all’art. 9, D.L.
24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 giugno 2014, n. 89, tra gli esperti
iscritti nell’apposita sezione speciale dell’Albo, non
appartenenti alla stessa stazione appaltante e, solo
se non disponibili in numero sufficiente, anche tra
gli esperti della sezione speciale che prestano servizio presso la stessa stazione appaltante ovvero, se il
numero risulti ancora insufficiente, ricorrendo anche agli altri esperti iscritti all’Albo al di fuori della sezione speciale.
I componenti della commissione sono individuati
dalle stazioni appaltanti mediante pubblico sorteggio da una lista di candidati costituita da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello
dei componenti da nominare e, comunque, nel rispetto del principio di rotazione.
Al riguardo, è previsto che la stazione appaltante
avanzi una specifica richiesta all’ANAC, la quale
comunica la lista dei soggetti tra i quali scegliere i
commissari entro cinque giorni dalla richiesta.
In caso di affidamento di contratti di importo inferiore alle soglie di cui all’art. 35 del codice o per
quelli che non presentano particolare complessità (5), la stazione appaltante può nominare compo(5) Sono considerate di non particolare complessità le pro-
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nenti interni, nel rispetto del principio di rotazione.
I commissari non devono aver svolto né possono
svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto da stipulare. Coloro che, nel biennio antecedente all’indizione della procedura di aggiudicazione, hanno ricoperto cariche di pubblico amministratore, non
possono essere nominati commissari giudicatori relativamente ai contratti affidati dalle Amministrazioni presso le quali hanno esercitato le proprie
funzioni d’istituto. Sono esclusi da successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità di membri delle commissioni giudicatrici, abbiano concorso, con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con sentenza non sospesa, all’approvazione di atti dichiarati illegittimi (6).
La nomina dei commissari e la costituzione della
commissione devono avvenire dopo la scadenza del
termine fissato per la presentazione delle offerte.
Sotto i profili indicati, il nuovo codice reca, tra le
altre, una specifica novità inerente alle modalità di
composizione della commissione di gara, posto che
la scelta dei componenti della commissione non
spetta alla stazione appaltante ma all’Autorità. In
tal modo, oltre a soddisfare esigenze di trasparenza
e imparzialità, il legislatore ha inteso garantire la
prevenzione alla corruzione nelle gare pubbliche e
la professionalità dei commissari.
Le disposizioni dettate al riguardo, attengono all’ordine pubblico ed alla tutela della concorrenza e,
quindi, non sembrano più rientrare nell’ambito
della competenza legislativa concorrente regionale (7) ma, in quella esclusiva statale.
Al fine di dare concreta attuazione al sistema indicato, l’articolo 78 del nuovo codice prevede l’istituzione presso l’ANAC dell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici nelle procedure di affidamento dei contratti
pubblici.
Per essere iscritti all’albo, gli interessati devono essere in possesso di requisiti di compatibilità e mocedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione ai sensi dell’art. 58 del nuovo codice.
(6) Si applicano ai commissari e ai segretari delle commissioni l’art. 35 bis, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, l’art. 51 c.p.c.,
nonché l’art. 42 del codice degli appalti.
(7) Come precedentemente affermato dalla Corte cost. con
sent. 23 novembre 2007, n. 401, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 84, commi 2, 3, e 8,
D.Lgs. n. 163 del 2006 relativi alla composizione e nomina delle commissioni di gara, “nella parte in cui, per i contratti inerenti a settori di competenza regionale, non prevedono che le
norme in essi contenute abbiano carattere suppletivo e cede-
1046
ralità, nonché di comprovata competenza e professionalità nello specifico settore a cui si riferisce il
contratto, secondo i criteri e le modalità che l’Autorità deve definire in un apposito atto (8), valutando la possibilità di articolare l’elenco per aree
tematiche omogenee (9). L’ANAC è chiamata ad
adottare un’apposita determinazione recante la disciplina generale per la tenuta dell’albo, comprensiva dei criteri per il suo aggiornamento.
L’art. 78 del nuovo codice, attribuendo all’ANAC
il compito di disciplinare i presupposti e i requisiti
per l’iscrizione all’albo, sembra non porsi perfettamente in linea con la legge delega, la quale prevede di affidare all’Autorità il compito di disciplinare
solo gli aspetti attinenti alle modalità di gestione e
tenuta dell’albo.
La medesima legge delega n. 11/2016, all’art. 1,
comma 1, lett. mm), ha delegato il Governo a costituire, presso il Ministero delle infrastrutture e
dei trasporti, un albo nazionale obbligatorio dei
soggetti che possono ricoprire i ruoli di responsabile dei lavori, di direttore dei lavori e di collaudatore negli appalti pubblici di lavori aggiudicati con la
formula del contraente generale, prevedendo specifici requisiti di moralità, di competenza e di professionalità.
La nomina di tali soggetti nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica avviene mediante pubblico sorteggio da una lista di candidati indicati alle stazioni appaltanti in numero almeno triplo per
ciascun ruolo da ricoprire. Le spese di tenuta dell’albo saranno poste a carico dei soggetti interessati.
Il Documento di Gara Unico Europeo
ed il Soccorso istruttorio
Il nuovo codice ha introdotto (art. 85) il documento di gara unico europeo (DGUE), consistente
in un’autodichiarazione dell’operatore economico
che fornisce una prova documentale preliminare in
sostituzione dei certificati rilasciati da autorità pubbliche o terzi.
vole”.
(8) Da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata
in vigore del codice.
(9) Fino all’adozione della disciplina in materia di iscrizione
all’Albo, si applica l’art. 216, comma 12, che prevede che “Fino alla adozione della disciplina in materia di iscrizione all’Albo
di cui all’art.78, la commissione giudicatrice continua ad essere nominata dall’organo della stazione appaltante competente
ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto,
secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente
individuate da ciascuna stazione appaltante.”.
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Appalti
Al momento della presentazione delle domande di
partecipazione o delle offerte, le stazioni appaltanti
accettano il documento di gara unico europeo
(DGUE), redatto in conformità al modello di formulario approvato con regolamento dalla Commissione europea (10). Gli operatori economici possono riutilizzare il DGUE utilizzato in una procedura
d’appalto precedente purché confermino che le informazioni ivi contenute sono ancore valide.
Il DGUE, in formato elettronico, consiste in
un’autodichiarazione aggiornata come prova documentale preliminare in sostituzione dei certificati
rilasciati da autorità pubbliche o terzi in cui si conferma che l’operatore economico soddisfa le seguenti condizioni: a) non si trova in una delle situazioni di cui all’art. 80 (Motivi di esclusione) del
D.Lgs. n. 50 del 2016; b) soddisfa i criteri di selezione definiti a norma dell’art. 83 (Criteri di selezione e soccorso istruttorio) del codice; c) soddisfa
gli eventuali criteri oggettivi fissati a norma dell’art. 91 (Riduzione del numero di candidati altrimenti qualificati da invitare a partecipare) del
D.Lgs. n. 50 del 2016.
Il DGUE fornisce, inoltre, le informazioni rilevanti
richieste dalla stazione appaltante e le informazioni
di cui al comma 1 relative agli eventuali soggetti
di cui l’operatore economico si avvale ai sensi dell’articolo 89, indica l’autorità pubblica o il terzo responsabile del rilascio dei documenti complementari e include una dichiarazione formale secondo
cui l’operatore economico è in grado, su richiesta e
senza indugio, di fornire tali documenti. Tuttavia,
se la stazione appaltante può ottenere i documenti
complementari direttamente accedendo alla banca
dati di cui all’art. 81 del codice, il DGUE riporta
le informazioni richieste a tale scopo, i dati di individuazione e, se del caso, la necessaria dichiarazione di consenso.
Se ciò è necessario per assicurare il corretto svolgimento della procedura, la stazione appaltante può
chiedere agli offerenti e ai candidati di presentare
tutti i documenti complementari o parte di essi.
L’art. 83 del codice prevede che “la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli
elementi e del documento di gara unico europeo
(...), con esclusione di quelle afferenti all’offerta
tecnica ed economica” può essere regolarizzata, su
richiesta della stazione appaltante entro il termine
(non superiore a dieci giorni) da questa stabilito.
L’istituto del cd. Soccorso istruttorio tende a soddisfare l’esigenza di assicurare la massima partecipazione alle gare di appalto, evitando che le procedure ad evidenza pubblica possano registrare la presenza di un numero esiguo di operatori economici
a causa di mere carenze formali aventi ad oggetto
la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di ordine generale o di capacità.
Riguardo all’onerosità dell’istituto, l’art. 83, comma 9, del codice prevede una sanzione pecuniaria
(stabilita dal bando di gara), in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per
cento del valore della gara e, comunque, non superiore a euro 5.000 (da versare solo nel caso di regolarizzazione) che però non si applica nel caso di “irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali”.
In sostanza, la nuova disciplina prevede che le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda
possano essere sanate attraverso la procedura del
soccorso istruttorio, mediante il pagamento della
sanzione pecuniaria indicata in favore della stazione appaltante, a cura del concorrente che ha dato
causa alla mancanza, all’incompletezza e ad ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo, con esclusione di
quelle afferenti all’offerta tecnica ed economica.
Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili
“le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile della stessa”.
La stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano
rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che
le devono rendere, da presentare contestualmente
al documento comprovante l’avvenuto pagamento
della sanzione (a pena di esclusione). In caso di
inutile decorso del termine di regolarizzazione, il
concorrente è escluso dalla gara.
Subappalto e Avvalimento
L’art. 105 del D.Lgs. n. 50/2016 reca una nuova disciplina in tema di subappalto prevedendo l’obbligo per il concorrente di indicare in sede di offerta,
oltre alle parti del contratto che intende subappaltare, una terna di nominativi di subappaltatori per
ogni tipologia di attività prevista nel progetto.
Gli operatori economici che partecipano alla procedura ad evidenza pubblica devono dimostrare
(10) Cfr. il modello stabilito dal regolamento di esecuzione
(UE) n. 2016/7 della Commissione del 5 gennaio 2016.
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l’assenza in capo ai subappaltatori indicati di motivi di esclusione ed hanno l’obbligo di sostituire coloro in relazione ai quali sono stati appurati motivi
di esclusione.
Altra novità riguarda il regime dei pagamenti dei
corrispettivi, posto che si prevede (a differenza che
in passato) l’obbligo per la stazione appaltante di
procedere al pagamento diretto dei subappaltatori
solo in caso di inadempimento da parte dell’appaltatore oppure qualora sia il medesimo subappaltatore a richiederlo, sempre che la natura del contratto lo consenta, per i servizi, le forniture o i lavori forniti.
Nel caso in cui il subappaltatore coincida con una
micro impresa o una piccola impresa (P.M.I.), la
stazione appaltante deve procedere al pagamento
diretto, fatta salva la facoltà per le regioni a statuto
speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, sulla base dei rispettivi statuti e delle relative
norme di attuazione e nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’UE, di disciplinare ulteriori casi di pagamento diretto dei subappaltatori (11).
L’avvalimento è, invece, disciplinato dall’art. 89
del nuovo codice. Si tratta dell’istituto che consente a qualunque operatore economico, singolo o in
raggruppamento, di soddisfare la richiesta relativa
al possesso dei requisiti necessari per partecipare ad
una procedura di gara, facendo affidamento sulle
capacità di altri soggetti, a prescindere dai legami
sussistenti con questi ultimi.
La nuova disciplina stabilisce che l’operatore economico, singolo o in raggruppamento, in relazione
ad uno specifico appalto, possa soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere
economico, finanziario, tecnico e professionale, necessari per partecipare ad una procedura di gara,
con esclusione dei requisiti di cui all’art. 80 (motivi di esclusione), nonché il possesso dei requisiti di
qualificazione, avvalendosi delle capacità di altri
soggetti, anche partecipanti al raggruppamento, a
prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami
con questi ultimi.
Il concorrente da prova alla stazione appaltante di
disporre dei mezzi necessari mediante presentazione
di una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui questa si obbliga verso il concorrente
e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente.
Nel caso di dichiarazioni mendaci (12), la stazione
appaltante esclude il concorrente ed escute la garanzia.
L’operatore economico allega alla domanda di partecipazione, in originale o copia autentica, anche
il contratto in forza del quale l’impresa ausiliaria si
obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto.
È ammesso l’avvalimento di più imprese ausiliarie
ma, l’ausiliario non può avvalersi, a sua volta, di
altro soggetto.
Nella singola gara non è ammesso, a pena di esclusione, che della stessa impresa ausiliaria si avvalga
più di un concorrente, ovvero che partecipino sia
l’impresa ausiliaria che quella che si avvale dei requisiti. Il contratto è, comunque, eseguito dall’impresa che partecipa alla gara, alla quale è rilasciato
il certificato di esecuzione mentre, l’impresa ausiliaria può assumere il ruolo di subappaltatore nei limiti dei requisiti prestati.
La stazione appaltante è chiamata a verificare se i
soggetti di cui il concorrente intende avvalersi soddisfano i criteri di selezione o se sussistono motivi
di esclusione. Nel caso in cui le verifiche diano esito negativo, la stazione appaltante obbliga l’operatore economico a sostituire i soggetti in questione
(purché si tratti di requisiti tecnici).
Negli appalti di lavori, di servizi e nelle operazioni
di posa in opera o installazione nel quadro di un
appalto di fornitura, le stazioni appaltanti possono
prevedere nei documenti di gara che taluni compiti
essenziali siano direttamente svolti dall’offerente o,
nel caso di un’offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici, da un partecipante
al raggruppamento.
La stazione appaltante esegue verifiche anche in
corso di esecuzione in relazione all’effettivo possesso dei requisiti e delle risorse oggetto dell’avvalimento da parte dell’impresa ausiliaria, oltre che ri-
(11) Il pagamento diretto alle P.M.I. è disciplinato dall’art.
13, comma 2, lett. a) dello Statuto delle Imprese (L. n. 180 del
2011).
(12) Ferma restando l’applicazione dell’art. 80, comma 12,
D.Lgs. n. 50/2016, il quale prevede che in caso di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalto, la stazione appaltante ne dà segnalazione all’Autorità che, se ritiene che sia-
no state rese con dolo o colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, dispone l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione dalle
procedure di gara e dagli affidamenti di subappalto fino a due
anni, decorso il quale l’iscrizione è cancellata e perde comunque efficacia, nei confronti dei sottoscrittori.
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Concessioni, partenariato pubblico privato
e sussidiarietà orizzontale
Il nuovo codice, per la prima volta, disciplina compiutamente l’istituto della concessione, dettando
una normativa unitaria per le concessioni di lavori,
servizi e forniture e regolamentando l’istituto del
Partenariato pubblico privato (PPP) “quale disciplina generale autonoma e a sé stante, quale forma di sinergia tra poteri pubblici e privati per il finanziamento,
la realizzazione o la gestione delle infrastrutture o dei
servizi pubblici, affinché l’amministrazione possa disporre di maggiori risorse e acquisire soluzioni innovative (...)” (13).
In linea con la normativa europea, le concessioni
sono considerate contratti di durata, la cui caratteristica principale, ossia il diritto di gestire un lavoro o un servizio, implica sempre il trasferimento al
concessionario di un rischio operativo di natura
economica. In tal modo, è stata precisata la definizione di concessione facendo riferimento al concetto di rischio operativo, anche per attenuare le difficoltà legate all’interpretazione degli istituti del
contratto di concessione e dell’appalto pubblico (14).
Come è noto, la cooperazione tra pubblico e privato è espressione del principio di sussidiarietà orizzontale sancito dalla nostra Costituzione all’art.
118, comma 4, il quale stabilisce che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà” (15).
Il nuovo codice ha inteso razionalizzare ed estendere le forme di partenariato pubblico privato, con
particolare riguardo alla finanza di progetto e alla
locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità, cui si aggiunge la previsione di incentivarne l’impiego anche attraverso il ricorso a strumenti di carattere finanziario innovativi e specifici.
(13) Cfr. comunicato stampa del Consiglio dei ministri n.
107 del 7 marzo 2016.
(14) La direttiva sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, che il Governo è delegato a recepire, nel fornire i dati
definitori chiarisce che “L’aggiudicazione di una concessione
di lavori o di servizi comporta il trasferimento al concessionario
di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda o sul lato
dell’offerta, o entrambi. Si considera che il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita al
concessionario comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile” (art. 5, Dir. n. 2014/23/UE del Parlamento Europeo e
del Consiglio del 26 febbraio 2014). La giurisprudenza europea
ha chiarito che per qualificare come “concessione” un contratto avente ad oggetto servizi è sufficiente che la controparte
contrattuale non sia direttamente remunerata dall’amministrazione aggiudicatrice, ma abbia il diritto di riscuotere un corri-
spettivo presso terzi, dal momento che il rischio di gestione
corso dall’amministrazione stessa, per quanto ridotto in conseguenza della configurazione giuspubblicistica dell’organizzazione del servizio, è assunto dalla controparte contrattuale a
carico completo o pressoché completo (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione III, Sent., 10 settembre 2009, n. C206/08).
(15) Lo sviluppo del PPP è spiegato anche con la volontà di
beneficiare dei metodi di funzionamento del settore privato nel
quadro della vita pubblica, e più in generale con l’evoluzione
del ruolo dello Stato nella sfera economica, che passa da operatore diretto a organizzatore, regolatore e controllore (Commissione europea, Bruxelles, 30 aprile 2004 COM (2004) 327
definitivo). Tuttavia, nel 2009 la Commissione europea osservava che diffusione dei PPP è ancora molto limitata ed essi
rappresentano solo una piccola parte degli investimenti pubblici totali (comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo
e al comitato delle regioni, “Mobilitare gli investimenti pubblici
e privati per la ripresa e i cambiamenti strutturali a lungo termine: sviluppare i partenariati pubblico-privato”, Bruxelles, 19
novembre 2009 COM(2009) 615 definitivo).
guardo all’effettivo impiego delle risorse nell’esecuzione dell’appalto. Il responsabile unico del procedimento accerta in corso d’opera che le prestazioni
oggetto di contratto siano svolte direttamente dalle
risorse umane e strumentali dell’impresa ausiliaria
che il titolare del contratto utilizza in adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di avvalimento.
A fini di vigilanza e pubblicità, la stazione appaltante è tenuta a trasmettere all’ANAC le dichiarazioni di avvalimento, indicando l’aggiudicatario.
Circa i profili di responsabilità, il concorrente e
l’impresa ausiliaria devono ritenersi responsabili in
solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto.
Gli obblighi previsti dalla disciplina antimafia a
carico del concorrente si applicano anche nei confronti del soggetto ausiliario, in relazione dell’importo dell’appalto posto a base di gara.
L’avvalimento non è ammesso se nell’oggetto dell’appalto o della concessione di lavori rientrino, oltre ai lavori prevalenti, opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità tecnica,
quali strutture, impianti e opere speciali. Inoltre,
non è ammesso per soddisfare il requisito dell’iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali di
cui all’art. 212 del D.Lgs. n. 152/2006.
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Appalti
In base a quanto stabilito dall’art. 3, comma 1, lett.
eee) del codice, il contratto di partenariato pubblico privato è il contratto a titolo oneroso stipulato
per iscritto con il quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici
per un periodo determinato in funzione della durata dell’ammortamento dell’investimento o delle
modalità di finanziamento fissate, un complesso di
attività consistenti nella realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione operativa di un’opera in cambio della sua disponibilità, o del suo
sfruttamento economico, o della fornitura di un
servizio connesso all’utilizzo dell’opera stessa, con
assunzione di rischio secondo modalità individuate
nel contratto, da parte dell’operatore (16).
L’art. 180 del codice precisa che il contratto di
partenariato può avere ad oggetto anche la progettazione di fattibilità tecnico ed economica e la progettazione definitiva delle opere o dei servizi connessi. Nei contratti di partenariato pubblico privato, i ricavi di gestione dell’operatore economico
provengono dal canone riconosciuto dall’ente concedente e/o da qualsiasi altra forma di contropartita economica ricevuta dal medesimo operatore
economico, anche sotto forma di introito diretto
della gestione del servizio ad utenza esterna. Il trasferimento del rischio in capo all’operatore economico comporta l’allocazione a quest’ultimo, oltre
che del rischio di costruzione, anche del rischio di
disponibilità o, nei casi di attività redditizia verso
l’esterno, del rischio di domanda dei servizi resi,
per il periodo di gestione dell’opera.
A fronte della disponibilità dell’opera o della domanda di servizi, l’amministrazione aggiudicatrice
può scegliere di versare un canone all’operatore
economico che è proporzionalmente ridotto o annullato nei periodi di ridotta o mancata disponibilità dell’opera, nonché ridotta o mancata prestazione dei servizi (tali variazioni del canone devono,
in ogni caso, essere in grado di incidere significativamente sul valore attuale netto dell’insieme degli
investimenti, dei costi e dei ricavi dell’operatore
economico). L’amministrazione aggiudicatrice sceglie altresì che a fronte della disponibilità dell’opera o della domanda di servizi, venga corrisposta
una diversa utilità economica comunque pattuita
ex ante, ovvero rimette la remunerazione del servizio allo sfruttamento diretto della stessa da parte
dell’operatore economico, che pertanto si assume il
rischio delle fluttuazioni negative di mercato della
domanda del servizio medesimo.
È ovvio che l’equilibrio economico finanziario (17)
rappresenta il presupposto per la corretta allocazione dei rischi. Ai fini del raggiungimento del predetto equilibrio, in sede di gara l’amministrazione
aggiudicatrice può stabilire anche un prezzo consistente in un contributo pubblico ovvero nella cessione di beni immobili che non assolvono più a
funzioni di interesse pubblico.
L’art. 189 del nuovo codice si occupa, in particolare, degli interventi di sussidiarietà orizzontale.
In merito alla gestione di aree e immobili ceduti al
comune ed alle relative agevolazioni tributarie, il
comma 1 del citato art. 189 prevede che le aree riservate al verde pubblico urbano e taluni immobili
già ceduti al comune possono essere affidati ai cittadini dietro incentivi e agevolazioni tributarie.
Le aree riservate al verde pubblico urbano e gli immobili di origine rurale, riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere, con esclusione degli immobili ad uso scolastico e sportivo, ceduti al comune nell’ambito delle convenzioni e
delle norme previste negli strumenti urbanistici attuativi, comunque denominati, possono essere affidati in gestione, per quanto concerne la manutenzione, con diritto di prelazione ai cittadini residenti nei comprensori oggetto delle suddette convenzioni e su cui insistono i suddetti beni o aree, nel
rispetto dei principi di non discriminazione, trasparenza e parità di trattamento.
Per gestire tali beni, i cittadini residenti costituiscono un consorzio del comprensorio che raggiunga
almeno il 66% della proprietà della lottizzazione.
Le regioni e i comuni possono prevedere incentivi
alla gestione diretta delle aree e degli immobili, innanzi visti, da parte dei cittadini costituiti in consorzi anche mediante riduzione dei tributi propri.
Relativamente alle opere di interesse locale proposte da cittadini, i commi 2 e seguenti del richiamato art. 189 del nuovo codice, disciplinano la realizzazione di opere di interesse locale proposte all’ente locale territoriale da parte di cittadini organizzati.
A tal fine, gruppi di cittadini organizzati possono
formulare all’ente locale territoriale competente
proposte operative di pronta realizzabilità, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti o delle
clausole di salvaguardia degli strumenti urbanistici
(16) La medesima norma precisa che, fatti salvi gli obblighi
di comunicazione previsti dall’art. 44, comma 1 bis, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla L. 28
febbraio 2008, n. 31, si applicano i contenuti delle decisioni
Eurostat.
(17) Cfr. art. 3, comma 1, lettera fff), D.Lgs. n. 50/2016.
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adottati, indicando i costi e i mezzi di finanziamento, senza oneri per l’ente medesimo.
La gestione della proposta da parte dell’ente locale
può essere disciplinata mediante regolamento dell’ente locale il quale, comunque, provvede sulla
proposta, con il coinvolgimento di eventuali soggetti, enti ed uffici interessati (se necessario), fornendo prescrizioni ed assistenza.
Decorsi due mesi dalla presentazione della proposta, la proposta stessa si intende respinta. Entro il
medesimo termine l’ente locale può, con motivata
delibera, disporre l’approvazione delle proposte formulate, regolando altresì le fasi essenziali del procedimento di realizzazione e i tempi di esecuzione.
La realizzazione degli interventi che riguardino immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle
disposizioni vigenti (18).
Le spese per la realizzazione delle opere non possono generare oneri fiscali ed amministrativi a carico
del gruppo attuatore, fatta eccezione per l’IVA. Le
spese per la formulazione delle proposte e la realizzazione delle opere sono, fino alla attuazione del
federalismo fiscale, ammesse in detrazione dall’IRPEF dei soggetti che le hanno sostenute, nella misura del 36 per cento, nel rispetto dei limiti di ammontare e delle modalità di cui all’art. 1, L. 27 dicembre 1997, n. 449 e relativi provvedimenti di attuazione, e per il periodo di applicazione delle agevolazioni previste dal medesimo articolo 1. Successivamente, ne sarà prevista la detrazione dai tributi
propri dell’ente competente.
Le opere realizzate sono acquisite a titolo originario
al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico (19).
L’art. 190 del D.Lgs. n. 50/2016, prevede che “Gli
enti territoriali definiscono con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale, sulla base di progetti
presentati da cittadini singoli o associati, purché
individuati in relazione ad un preciso ambito territoriale. I contratti possono riguardare la pulizia, la
manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze
o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante
iniziative culturali di vario genere, interventi di
decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di
interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati. In relazione alla tipologia degli interventi, gli
enti territoriali individuano riduzioni o esenzioni
di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta
dal privato o dalla associazione ovvero comunque
utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei
cittadini alla stessa.” (20).
La nuova disciplina riguarda tutti gli enti territoriali interessati (regioni, province, città metropolitane, comune, comunità montane), i quali definiscono con apposita delibera i criteri e le condizioni
per la realizzazione di contratti di partenariato sociale, sulla base di progetti presentati da cittadini
singoli o associati, purché individuati in relazione
ad un preciso ambito territoriale.
I contratti possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro
urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse
generale, di aree e beni immobili inutilizzati.
Gli enti territoriali individuano riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività
svolta dal privato o dalla associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa.
Una particolare forma di partenariato è quella prevista all’art. 65 del nuovo codice, il quale stabilisce
che le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori possono ricorrere ai partenariati per l’innovazione nelle ipotesi in cui l’esigenza di sviluppare prodotti, servizi o lavori innovativi e di acquistare successivamente le forniture, i servizi o i lavori
che ne risultano non può, in base a una motivata
determinazione, essere soddisfatta ricorrendo a soluzioni già disponibili sul mercato, a condizione che
le forniture, i servizi o i lavori che ne risultano corrispondano ai livelli di prestazioni e ai costi massimi
concordati tra le stazioni appaltanti e i partecipanti.
Nei documenti di gara le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori fissano (in modo sufficientemente preciso da permettere agli operatori
(18) Cfr. D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.
(19) Il comma 6 dell’art. 189 del nuovo codice contiene una
norma di salvaguardia, prevedendo che “Restano ferme le disposizioni recate dall’art. 43, commi 1, 2, e 3, L. 27 dicembre
1997, n. 449, in materia di valorizzazione e incremento del patrimonio delle aree verdi urbane”. In base a queste disposizioni
le pubbliche amministrazioni, al fine di favorire l’innovazione
dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori
economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati,
possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di
collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini
di lucro, costituite con atto notarile.
(20) Tale disciplina è difforme da quella contenuta nel D.L.
n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 2014, n. 164, la quale, però, non risulta formalmente
abrogata.
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economici di individuare la natura e l’ambito della
soluzione richiesta e decidere se partecipare alla
procedura) i requisiti minimi che tutti gli offerenti
devono soddisfare.
Nell’ambito del partenariato per l’innovazione
qualsiasi operatore economico può formulare una
domanda di partecipazione in risposta a un bando
di gara o ad un avviso di indizione di gara, presentando le informazioni richieste dalla stazione appaltante per la selezione qualitativa.
In base a quanto previsto dalla L. n. 11/2016 (21),
il Governo è stato delegato ad operare una revisione e semplificazione della disciplina vigente in tema di progettazione, stabilendo la soglia di importo
al di sotto della quale la validazione dei progetti è
di competenza del responsabile unico del procedimento nonché, il divieto dello svolgimento contemporaneo delle attività di validazione e di progettazione in capo allo stesso soggetto, al fine di
evitare conflitti di interesse.
La nuova disciplina è contenuta negli artt. 23 (Livelli della progettazione per gli appalti, per le concessioni di lavori nonché per i servizi), 24 (Progettazione interna e esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici), 25 (Verifica preventiva dell’interesse archeologico) e 26
(Verifica preventiva della progettazione).
Con tali disposizioni si è inteso incentivare l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione delle opere a regola d’arte,
nei tempi previsti dal progetto e senza ricorrere a
varianti in corso d’opera, prevedendo che dovrà essere destinata una somma non superiore al 2% dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente
alla programmazione della spesa per investimenti,
alla predisposizione e controllo delle procedure di
bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e di collaudo, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione.
L’art. 106 del D.Lgs. n. 50 del 2016 contiene diverse novità in tema di varianti in corso d’opera, al fine di contenere il ricorso a tale istituto ed, in particolare, alle variazioni progettuali nel corso dell’esecuzione del rapporto.
A tale scopo, la nuova disciplina distingue tra variazioni sostanziali e non sostanziali nella fase di
esecuzione dell’appalto (22).
Le varianti vanno motivate facendo riferimento alla ricorrenza di condizioni impreviste e imprevedibili. Tale previsione ha carattere innovativo in
quanto elimina l’ipotesi che, ai sensi dell’art. 132,
comma 1, D.Lgs. n. 163/2006, ammetteva l’uso
delle varianti in relazione all’errore progettuale e
nel limite del 20% dell’importo.
In sostanza, le variante appaiono consentite solo
per sopravvenute circostanze (forza maggiore e varianti non necessarie ma migliorative).
Ciò risulta in linea con la scelta di valorizzare la fase progettuale (sia negli appalti che nei contratti
di concessione di lavori), limitando l’appalto integrato (con affidamento dei lavori in base al progetto preliminare), con l’obiettivo di ridurre gli errori
progettuali e di responsabilizzare il progettista.
La nuova disciplina attribuisce, in sostanza, al responsabile del procedimento il potere di autorizzare
le varianti in corso d’opera. In particolare, qualora
la variante comporti la necessità di una ulteriore
spesa rispetto a quella prevista nel quadro economico del progetto approvato, la competenza ad approvarla è attribuita all’organo decisionale della
stazione appaltante mentre, negli altri casi (in cui
non si registra un aumento di spesa o, nel caso di
varianti migliorative con aumento di spesa inferiore al 5%) la competenza è del responsabile del procedimento.
Comunque, la stazione appaltante ha sempre facoltà di procedere alla risoluzione del contratto quando le variazioni superino determinate soglie rispetto all’importo originario, introducendo, in tal modo, una nuova ipotesi facoltativa di risoluzione del
contratto che, forse, sarebbe meglio ricondurre all’istituto del recesso unilaterale.
La nuova disciplina prevede uno specifico regime
sanzionatorio applicabile alle stazioni appaltanti in
(21) Cfr. art. 1, comma 1, lett. rr).
(22) Cfr. Comunicato ANAC del 24 novembre 2014 volto a
fornire chiarimenti agli obblighi informativi introdotti dal D.L.
n. 90 del 2014 sopra citato: l’Autorità ha affrontato i casi di applicazione distorta dell’istituto delle varianti in corso d’opera,
enucleando la fattispecie delle “variazioni sostanziali”, ossia
quelle che introducono nuove categorie generali e/o speciali di
lavori e numerosi nuovi prezzi rispetto a quanto previsto dal
contratto originario, provocando un effetto discorsivo della
concorrenza, dal momento che, in effetti, si va a realizzare
un’opera sostanzialmente differente da quella sulla quale è
stato svolto il confronto concorrenziale. La variante deve avere
carattere accessorio rispetto all’opera progettata e contrattualmente stabilita, in quanto in caso contrario si è in presenza
non già di una modificazione del progetto, ma di un nuovo
contratto.
Validazione dei progetti e modifiche
contrattuali
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caso di mancata o tardiva comunicazione all’ANAC di tutte le variazioni in corso d’opera per gli
appalti di importo pari o superiore alla soglia comunitaria.
Una particolare disciplina in tema di varianti relative agli appalti nel settore dei beni culturali è
contenuta nell’art. 146 del nuovo codice.
Il secondo documento è adottato dal Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti (24) e contiene
l’elenco degli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento, ed è
da realizzarsi in coerenza con il PGTL.
Valutazioni conclusive
Le infrastrutture e gli insediamenti prioritari
per lo sviluppo del Paese
Una delle novità contenute nel nuovo codine consiste nel superamento del sistema della c.d. “legge
obiettivo”, introdotto con la L. 21 dicembre 2001,
n. 443 (“Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed
altri interventi per il rilancio delle attività produttive”), con il quale era stato creato un particolare
canale di finanziamento, di approvazione dei progetti e di esecuzione delle cd. infrastrutture strategiche nazionali (23).
La nuova disciplina contenuta negli artt. 200 e
201 del D.Lgs. n. 50/2016, dedica a quelle che oggi
sono definite ‘infrastrutture e insediamenti prioritari per lo sviluppo del Paese’ due strumenti di pianificazione e programmazione generale: il piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL) ed il
documento pluriennale di pianificazione (DPP).
Il primo documento reca le linee strategiche delle
politiche della mobilità delle persone e delle merci,
nonché dello sviluppo infrastrutturale del Paese.
Esso è adottato ogni tre anni, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con decreto
del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del CIPE, acquisito il parere della Conferenza
unificata e sentite le Commissioni parlamentari
competenti.
(23) L’art. 217 del D.Lgs. n. 50/2016 prevede l’abrogazione
dell’art. 1, commi da 1 a 5, L. 21 dicembre 2001, n. 443.
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Le novità segnalate mostrano un quadro normativo
articolato e composito, che presenta diverse aporie
e lascia aperti problemi legati al completamento
della disciplina applicabile a ciascun singolo istituto, che si spera di superare mediante l’emanazione
degli atti attuativi dell’ANAC, del Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, e dalle altre Autorità
competenti.
Il D.Lgs. n. 50 del 2016 costituisce un provvedimento di grande rilievo nell’ottica della semplificazione, dello snellimento dei procedimenti e della
lotta alla corruzione.
Si tratta, però, di una disciplina che dovrà essere
sottoposta alla prova dei fatti, anche in relazione al
profilo dell’efficienza delle stazioni appaltanti - le
quali sono chiamate a gestire un apprezzabile ampliamento della loro discrezionalità - ed al ruolo di
regolatore e controllore dell’Autorità nazionale anticorruzione.
Se da una parte, infatti, l’ampliamento della discrezionalità delle stazioni appaltanti potrebbe consentire di superare le rigidità della previgente disciplina, dall’altro, si potrebbe assistere al formarsi di
orientamenti contrastanti e prassi amministrative
opinabili che non sempre sarà possibile correggere
utilizzando linee guida o incrementando le attività
di controllo e vigilanza.
(24) Cfr. D.Lgs. 29 dicembre 2011, n. 228.
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Novità in sintesi
Novità normative
a cura di Alessandro Pagano
Controllo e conservazione delle banconote
Provvedimento della Banca d’Italia 22 giugno 2016
«Disposizioni relative al controllo dell’autenticità e idoneità delle banconote in euro e al loro ricircolo» (G.U. 6 luglio
2016, n. 156)
Il provvedimento premette che la protezione dell’integrità e dello stato di conservazione delle banconote è condizione essenziale per preservare la fiducia del pubblico nelle banconote quali mezzi di pagamento e che ciò richiede la loro sottoposizione a controlli di autenticità per riconoscere prontamente i falsi e alla verifica di idoneità per
accertare che lo stato di conservazione dei biglietti circolanti sia di buon livello qualitativo; altresì che le banconote in euro che si sospettano contraffatte devono essere individuate in modo rapido e consegnate alle autorità nazionali competenti.
Tali disposizioni sono rivolte ai «gestori del contante»: id est i soggetti tenuti a verificare l’integrità e lo stato di
conservazione delle banconote in euro allo scopo di individuare quelle sospette di falsità e quelle che per il loro
logorio non sono più idonee alla circolazione.
Essi sono: le banche; nei limiti della prestazione di servizi di pagamento che coinvolgano l’uso del contante, Poste Italiane S.p.A., gli istituti di moneta elettronica di cui all’art. 1, comma 2, lett. h bis) del TUB (Testo Unico Bancario), gli istituti di pagamento di cui all’art. 1, comma 2, lett. h sexies) del TUB e gli altri prestatori di servizi di pagamento ai sensi dell’art. 114 sexies del TUB; altri operatori economici che partecipano alla gestione e distribuzione delle banconote al pubblico, compresi: a) i soggetti (cc.dd. società di servizi) che svolgono professionalmente
l’attività di contazione, di verifica dell’autenticità e dell’idoneità delle banconote, inclusi quelli autorizzati alle attività di trasporto e di custodia del contante ai sensi dell’art. 14, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 231/2007; b) i soggetti
che esercitano professionalmente l’attività di cambiavalute, consistente nella negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta; c) altri soggetti, quali i commercianti e i casinò, che partecipano a titolo accessorio alla gestione e distribuzione al pubblico di banconote mediante distributori automatici, nei limiti di tale attività; le filiali italiane di soggetti esteri rientranti nelle categorie di operatori indicate nei precedenti alinea.
Rispetto a tali soggetti, le attività di gestione del contante sono volte a preservare l’integrità e lo stato di conservazione delle banconote mediante: a) l’individuazione di quelle sospette di falsità, con l’accertamento delle caratteristiche distintive e di sicurezza (controlli di autenticità); b) la verifica di quelle che, per il loro stato di conservazione, sono idonee a essere rimesse in circolazione sia in operazioni di sportello sia con l’alimentazione di dispositivi automatici di distribuzione del contante. L’accertamento che le banconote presentino gli elementi qualitativi
che le rendono atte a rimanere in circolazione (controllo d’idoneità) deve avere ad oggetto il rispetto dei requisiti
minimi riportati negli allegati (nn. 1 e 2). I controlli di autenticità e di idoneità sono effettuati con l’utilizzo di apparecchiature conformi; le tipologie di tali apparecchiature sono descritte in altro allegato (allegato n. 3). L’elenco
delle apparecchiature conformi è pubblicato sul sito della BCE (Banca Centrale Europea); la cancellazione di
un’apparecchiatura da tale elenco, a seguito di un test con esito negativo, viene pubblicata sul sito internet della
Banca d’Italia e resa nota dalla Banca d’Italia via e-mail a ciascun gestore del contante.
In particolare, i gestori del contante si conformano ai requisiti organizzativi indicati nel provvedimento affinché
l’attività di trattamento del contante sia svolta secondo processi produttivi improntati al rispetto delle norme di riferimento e al presidio dei rischi specifici del ricircolo e, più in generale, dei rischi operativi legati all’attività di trattamento del contante.
La Banca d’Italia ne verifica l’applicazione secondo il principio di proporzionalità, graduato sulla base della dimensione e della complessità dell’operatività svolta dal gestore.
I gestori del contante devono disporre di adeguate risorse tecnologiche e sono tenuti a utilizzare esclusivamente
apparecchiature conformi.
Le apparecchiature conformi - in combinazione con gli altri fattori produttivi - devono essere adeguate al volume
di banconote da processare.
Processo telematico
Decreto legge 30 giugno 2016, n. 117
«Proroga di termini previsti da disposizioni legislative in materia di processo amministrativo telematico» (G.U. 30 giugno 2016, n. 151)
È stata ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga di termini di prossima scadenza
(1° luglio 2016) in materia di avvio a regime del processo amministrativo telematico al fine di garantire il regolare
svolgimento del processo amministrativo.
Al processo amministrativo telematico di cui al D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, è dunque dato avvio alla data
del 1° gennaio 2017.
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Novità in sintesi
Si determina così - last minute - una “straordinaria” occasione di ben rapportare la esigenza di informatizzazione
con il pieno rispetto delle garanzie della giurisdizione.
Pubblica amministrazione
Decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116
«Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1,
lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare» (G.U. 28 giugno 2016, n. 149)
Si novella il testo dell’art. 55 quater del d.Lgs n. 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare: in particolare, rispetto ai fatti di cronaca, il provvedimento colpisce (emblematicamente) i cc.dd. “furbetti del cartellino”: cfr., lett.
a) di cui infra.
Secondo il nuovo testo, ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e
salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi: a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante
una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia; b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per
più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione; c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio; d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione
dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera; e) reiterazione nell’ambiente di lavoro
di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità
personale altrui; f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici
uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro. (c. 1)
Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche
avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale
il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde
anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta. (c. 1/bis)
Il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l’amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni
legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione
di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione
stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti
dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all’art. 54. (c. 2)
Nei casi di cui al comma 1, lett. a), d), e) ed f), il licenziamento è senza preavviso. (c. 3)
Nel caso di cui al comma 1, lett. a), la falsa attestazione della presenza in servizio, accertata in flagranza ovvero
mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, determina l’immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente, fatto salvo il diritto all’assegno alimentare nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti, senza obbligo di preventiva audizione dell’interessato. La
sospensione è disposta dal responsabile della struttura in cui il dipendente lavora o, ove ne venga a conoscenza
per primo, dall’ufficio di cui all’art. 55 bis, comma 4, con provvedimento motivato, in via immediata e comunque
entro quarantotto ore dal momento in cui i suddetti soggetti ne sono venuti a conoscenza. La violazione di tale
termine non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’inefficacia della sospensione cautelare, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile. (3 bis)
Con il medesimo provvedimento di sospensione cautelare di cui al comma 3 bis si procede anche alla contestuale
contestazione per iscritto dell’addebito e alla convocazione del dipendente dinanzi all’Ufficio di cui all’art. 55 bis,
comma 4. Il dipendente è convocato, per il contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno quindici giorni e può farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato. Fino alla data dell’audizione, il dipendente convocato può inviare una memoria
scritta o, in caso di grave, oggettivo e assoluto impedimento, formulare motivata istanza di rinvio del termine per
l’esercizio della sua difesa per un periodo non superiore a cinque giorni. Il differimento del termine a difesa del dipendente può essere disposto solo una volta nel corso del procedimento. L’Ufficio conclude il procedimento entro trenta giorni dalla ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell’addebito. La violazione dei suddetti termini, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare, né l’invalidità della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il termine per la conclusione del procedimento di cui
all’art. 55- bis, comma 4. (3 ter)
Nei casi di cui al comma 3 bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente Procura regionale della Corte dei conti avvengono entro quindici giorni dall’avvio del procedimento disciplinare.
La Procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno d’immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. L’azione di responsabilità è esercitata, con
le modalità e nei termini di cui all’art. 5 del D.L. 15 novembre 1993, n. 453, convertito dalla L. 14 gennaio 1994,
n. 19, entro i centoventi giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga. L’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di
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informazione e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia. (3 quater)
Nei casi di cui al comma 3 bis, per i dirigenti che abbiano acquisito conoscenza del fatto, ovvero, negli enti privi
di qualifica dirigenziale, per i responsabili di servizio competenti, l’omessa attivazione del procedimento disciplinare e l’omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare, senza giustificato motivo, costituiscono illecito disciplinare punibile con il licenziamento e di esse è data notizia, da parte dell’ufficio competente per il procedimento disciplinare, all’Autorità giudiziaria ai fini dell’accertamento della sussistenza di eventuali reati. (3 quinquies)
Decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97
«Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza,
correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7
della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (G.U. 8 giugno
2016, n. 132)
Il legislatore rimodella il D.Lgs. n. 33/2013 così ulteriormente avvalorando l’idea che la trasparenza è una effettiva
ed operante idea-guida della “nuova” P.A.
Il titolo del D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, è innanzitutto sostituito dal seguente: «Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni.».
Basta poi qui evidenziare che, dopo l’art. 2 è inserito l’art. 2 bis afferente l’esteso ambito soggettivo di applicazione.
Secondo tale norma, ai fini del decreto, per “pubbliche amministrazioni” si intendono tutte le amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 ivi comprese le autorità portuali, nonché le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione. (c. 1)
La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica anche, in quanto
compatibile: a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali; b) alle società in controllo pubblico come
definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 18 della L. 7 agosto 2015, n. 124. Sono escluse le
società quotate come definite dallo stesso decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 18 della L. 7 agosto
2015, n. 124; c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di
personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell’ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la
totalità dei titolari o dei componenti dell’organo d’amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni. (c. 2)
La medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 si applica, in quanto compatibile, limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale
o dell’Unione europea, alle società in partecipazione pubblica come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 18 della L. 7 agosto 2015, n. 124, e alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato,
anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore. (c. 3)
Riforma del Terzo settore
Legge 6 giugno 2016, n. 106
«Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale» (G.U 18 giugno 2016, n. 141)
Al fine di sostenere (art. 1, comma 1) l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli artt. 2, 3, 18 e 118, comma 4, Cost., il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi in materia di riforma del Terzo settore.
Per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di
finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con
i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione
volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi. Non fanno parte del Terzo settore
le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie
economiche. Alle fondazioni bancarie, in quanto enti che concorrono al perseguimento delle finalità della legge,
non si applicano le disposizioni contenute in essa e nei relativi decreti attuativi.
Con i decreti legislativi di cui al comma 1, nel rispetto e in coerenza con la normativa dell’Unione europea e in
conformità ai principi e ai criteri direttivi previsti dalla legge, si provvede (c. 2) in particolare: a) alla revisione della
disciplina del titolo II del libro primo del codice civile in materia di associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro, riconosciute come persone giuridiche o non riconosciute; b) al riordino e alla
revisione organica della disciplina speciale e delle altre disposizioni vigenti relative agli enti del Terzo settore di
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Legislazione
Novità in sintesi
cui al comma 1, compresa la disciplina tributaria applicabile a tali enti, mediante la redazione di un apposito codice del Terzo settore, secondo i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 20, commi 3 e 4, L. 15 marzo 1997, n. 59;
c) alla revisione della disciplina in materia di impresa sociale d) alla revisione della disciplina in materia di servizio
civile nazionale.
Gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma 1 sono trasmessi (c. 5) al Senato della Repubblica e alla Camera
dei deputati entro il quarantacinquesimo giorno antecedente il termine per l’esercizio della delega, perché su di
essi siano espressi, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, i pareri delle rispettive commissioni competenti
per materia e per i profili finanziari. Decorso il termine previsto per l’espressione dei pareri, i decreti possono essere comunque adottati.
Sistema informativo del casellario (sic)
Decreto del Ministero della giustizia 17 giugno 2016
«Proroga del regime transitorio di cui all’art. 16, comma 8, del decreto 5 dicembre 2012, recante regole tecniche per
la consultazione diretta del sistema informativo del casellario da parte delle pubbliche amministrazioni e dei gestori
di pubblici servizi» (G.U. 24 giugno 2016, n. 146)
Il termine del 30 giugno 2016 fissato per la validità delle disposizioni transitorie di cui all’art. 16, comma 8, del decreto dirigenziale 5 dicembre 2012, recante le regole procedurali di carattere tecnico operativo per l’attuazione
della consultazione diretta del Sistema informativo del casellario (SIC) da parte delle amministrazioni pubbliche e
dei gestori di pubblici servizi ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, è prorogato al 30 giugno
2017.
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Diritto civile
Divisione beni ereditari
Cassazione Civile, Sez. II 5 novembre 2015, n. 22663 - Pres. Piccialli - Rel. Oricchio - P.M. Capasso (diff.) - C.U.A.L. (avv. Costantini) c. C.G. (avv. Antonicelli)
In tema di divisione ereditaria, nel caso in cui uno o più immobili non risultino comodamente divisibili, il giudice ha il potere discrezionale di derogare al criterio, indicato dall’art. 720 c.c., della preferenziale assegnazione al condividente titolare della quota maggiore, purché assolva all’obbligo di fornire adeguata e logica motivazione della diversa valutazione di opportunità adottata (secondo la Corte si deve tenere conto dell’interesse
di uno dei condividenti a proseguire la gestione di una attività economica nell’immobile assoggettato a divisione).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 13 maggio 2010, n. 11641; 25 settembre 2009, n. 24053; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3646.
Difforme
Cass. 24 febbraio 1999, n. 1566; Cass. 11 luglio 1995, n. 7588; Cass. 25 febbraio 1995, n. 2163.
La Corte (omissis).
Ritenuto in diritto
1.- Con l’unico motivo del ricorso si censura il vizio di
violazione dell’art. 720 c.c., in punto di mancata attribuzione del compendio con adozione di criterio diverso
da quello della maggiore quota di comproprietà sotto i
profili della violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5.
Il motivo è assistito, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., dalla
formulazione di quesiti di diritto.
Con il motivo, nella sostanza, si pone la questione espressamente indicata- del fatto controverso costituito
dal “superiore interesse di continuare l’azienda ristorante-bar e, quindi, dall’opportunità di attribuzione immobile a C.U. e A.M.”.
Tanto anche alla stregua della invocata possibilità (già
ritenuta da Cass. n. 12998/2001) del ricorso al criterio
del “prudente apprezzamento di ragioni di opportunità”
come quella, nella fattispecie, della anzidetta continuità
di esercizio di attività di ristorazione dei ricorrenti.
La soluzione da dare alla fattispecie portata all’esame di
questa Corte col complesso motivo in esame postula necessariamente una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali nella specifica materia dell’attribuzione
dei beni ereditari non divisibili in caso di pluralità di richieste; e, più specificamente, una serie di valutazioni
in ordine al criterio preferenziale per l’attribuzione, alla
possibilità di deroga ed all’obbligo di fornire adeguata e
logica motivazione.
La Corte territoriale, nel procedere all’assegnane dei beni ereditari, ha, nella fattispecie, privilegiato il “criterio,
preferito dall’art. 720 c.c.”, dell’assegnazione al maggior
quotista ovvero al C.G., richiamandosi a quanto già affermato da questa Corte con le sentenze nn. 7716/1990,
7588/1995 e 22906/2006. Deve al riguardo osservarsi e
rammentarsi quanto segue.
La giurisprudenza meno recente (quale quella innanzi
citata e su si basa l’impugnata sentenza) riteneva possibile la deroga al generale criterio dell’assegnazione dei
1058
beni ereditari al maggior quotista solo se vi erano ragioni di opportunità rispondenti ad esigenze comuni ed
adeguatamente motivate.
Giova, al riguardo, citare l’emblematico dictum proprio
di Cass. 25 ottobre 2006, n. 22906, secondo cui, “in caso di scioglimento della divisione ereditaria od ordinaria, fine primario della divisione è la conversione del diritto di ciascun condividente alla quota ideale in diritto
di proprietà esclusiva di beni individuali, sicché quado
in presenza di un immobile indivisibile o non comodamente divisibile vi è una pluralità di richieste di assegnazione benché è possibile l’assegnazione anche ai titolari di quota minore, laddove ciò corrisponda all’interesse comune delle parti”.
La citata pronuncia riprendeva, in sostanza, un datato
orientamento già risalente a Cass. 13 luglio 1983, n.
4775 ed a Cass. 20 agosto 1991, n. 8922, secondo il
quale il principio ispiratore della norma di cui all’art.
720 c.c., ovvero il favor divisionis implicava preferenzialmente l’assegnazione de qua al maggior quotista salvo
esclusivamente “ragioni di opportunità ravvisabili nell’interesse comune dei condividendi”.
Senonché un più recente orientamento di questa stessa
Corte (e di questa stessa Sezione) ha affermato un “potere discrezionale di deroga al criterio della preferenziale
assegnazione” vincolato alla solo obbligo della “adeguata e logica motivazione”. Più specificamente è stato affermato, con la citata decisione, che “in tema di divisione ereditaria, nel caso in cui uno o più immobili non risultino comodamente divisibili, il giudice ha il potere
discrezionale di derogare al criterio, indicato dall’art.
720 c.c., della preferenziale assegnazione al condividente titolare della quota maggiore, purché assolva all’obbligo di fornire adeguata e logica motivazione della diversa valutazione di opportunità adottata (nel caso di
specie la Corte confermava la sentenza del giudice di
secondo grado con riguardo all’attribuzione dell’immobile non divisibile assumendo come criterio discriminante quello dell’interesse personale prevalente dell’assegnatario, privo di un’unità immobiliare da destinare a
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Giurisprudenza
Diritto civile
casa familiare, rispetto al titolare di quota maggiore che
disponeva di altra abitazione)”.
Pur nella consapevolezza della possibilità di deroga al
criterio preferenziale di assegnazione al maggior quotista
(laddove si è riconosciuta la sussistenza di un potere discrezionale al riguardo, ancorché vincolato all’obbligo
di motivazione ed a sostanziali e seri motivi), l’impugnata sentenza non ha, tuttavia, valutato e tenuto in
adeguato conto - nell’ipotesi dedotta in giudizio - la sussistenza di motivi che potevano e possono giustificare
una soluzione derogatoria differente rispetto a quella ordinaria.
E tanto in contraddizione rispetto non solo al su riportato e più recente orientamento di Cass. n. 24053/2008,
ma anche rispetto ai pur considerati criteri delle precedenti citate pronunce (per tutte, Cass. n. 22906/2006).
Inoltre (ed ancor più decisivamente) la Corte territoriale non ha correttamente valutato la possibilità e la sussistenza, in concreto, di “motivi seri” idonei a giustificare la deroga al generale principio di assegnazione. Più
specificamente è errato ritenere che la valutazione di
quei “seri motivi...non può ancorarsi ad una valutazione
dell’interesse economico ed individuale di uno dei richiedenti”, non essendo mai stata del tutto esclusa un
tal tipo di valutazione anche dalle meno recenti pro-
nunce di legittimità in tema (che si limitavano solo a
privilegiare l’interesse comune).
È stata inoltre erroneamente ritenuta con la gravata decisione una “mancata configurazione di tali motivi” da
non poter consentire l’adozione di un criterio diverso
da quello della maggior quota.
Senonché proprio a tenore di quanto esposto e riportato
nell’atto di appello incidentale gli odierni ricorrenti
(quotisti minoritari, ma gestori di attività commerciale
nel bene comune indivisibile) avevano ben fatto presente il valore conseguito dall’azienda e la rilevante circostanza (della quale comunque andava dato conto),
per cui “la perdita dei locali per una qualsiasi ragione
determina altresì la perdita dell’avviamento commerciale” e, potrebbe qui aggiungersi, la stessa possibilità della
sua prosecuzione e continuazione.
In sostanza ed in definitiva è mancata del tutto una
comparazione degli interessi e, più specificamente, una
valutazione dell’interesse alla continuità aziendale quale
possibile “serio motivo” atto a poter giustificare il ricorso ad altro criterio derogatorio di assegnazione dei beni
comuni rispetto a quello ordinario.
Il motivo, in quanto fondato, va dunque accolto.
(omissis).
Immobili non divisibili, art. 720 c.c.
e limiti alla discrezionalità del giudice
di Francesco Venosta
Si prende atto del consolidamento di quell’orientamento giurisprudenziale (contestato, peraltro,
dalla prevalente dottrina) che riconosce al giudice una discrezionalità molto ampia nel derogare al
criterio, indicato come preferibile dall’art. 720 c.c., della assegnazione al maggior quotista dell’immobile indivisibile.Si suggerisce, però, almeno di individuare un qualche criterio oggettivo e fondato sulle direttive dell’ordinamento, che guidi il giudice nell’esercizio di tale potere discrezionale.
Il caso deciso dalla sentenza in esame
La sentenza che qui si commenta riguarda la divisione di un immobile non comodamente divisibile in
comproprietà paritaria fra cinque fratelli. In corso di
causa uno dei condividenti (l’attore) acquista le
quote di altri due, e quale titolare, a tal punto, della
quota maggiore (1), chiede l’assegnazione dell’intero
bene ai sensi dell’art. 720 c.c. La medesima istanza
viene fatta, congiuntamente, anche dagli altri due
condividenti superstiti, sul presupposto che essi gestiscono insieme un ristorante allocato nell’immobile e che l’assegnazione al maggior quotista mettereb(1) È pacifico che le quote rilevanti sono quelle che risultano al momento della divisione, che possono non coincidere
con le quote originarie: Cass. 20 giugno 2007, n. 14321, in Riv.
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be in pericolo la continuità dell’azienda, nel che sarebbe ravvisabile una ragione atta a giustificare la
deroga al criterio legale della maggior quota.
La Corte d’Appello accoglie la richiesta dell’attore,
“non ravvisando la possibilità di ricorso ad altro alternativo criterio di attribuzione”; la Corte di cassazione, invece, annulla tale sentenza con rinvio,
ritenendo che la corte territoriale avesse errato nel
ritenere che l’interesse economico individuale di
alcuno dei condividenti non valesse a giustificare
il discostamento dal criterio legale, e conseguentemente non avesse adeguatamente valutato la connot., 2008, 691; Cass. 11 luglio 1995, n. 7588, in Giur. it.,
1996, I, 1, 615.
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Diritto civile
È noto che, in materia di divisione, i giudici tendono a riservarsi una discrezionalità molto ampia
nella applicazione dei criteri legali, con il solo limite dell’adeguata motivazione, sul presupposto
che le norme che dettano tali criteri hanno sovente carattere dispositivo, il che in definitiva consentirebbe al giudice, in certi casi, di disapplicarle; a
tale proposito, ho già espresso il mio dissenso in
un’altra occasione (2).
Questo orientamento non si manifesta solo quando
viene in considerazione l’art. 720 c.c., ma anche,
ad esempio, quando si tratta di applicare l’art. 729
in tema di assegnazione o attribuzione delle porzioni (3); ovvero l’art. 727 in tema di omogeneità delle porzioni (4).
Quanto poi all’art. 720, la accennata propensione
dei giudici è rafforzata da un argomento testuale: la
norma, infatti, dice che il criterio della maggior
quota deve applicarsi “preferibilmente”. E, come
già altrove si è osservato (5), tutto ruota intorno al
ruolo giocato dall’equivoco avverbio “preferibilmente”. I giudici lo interpretano costantemente
come fonte di un “potere schiettamente discrezionale” di applicare o non applicare il meccanismo
delineato dalla norma, con il solo vincolo dell’obbligo di motivare adeguatamente quando se ne discostano, e con il limite per cui la vendita all’incanto è l’extrema ratio, cui può ricorrersi solo se
nessuno dei coeredi abbia accettato l’assegnazione.
Solo in una giurisprudenza minoritaria è emersa
l’apprezzabile tendenza a limitare la discrezionalità
del giudice, richiedendosi che la motivazione del
discostamento dal criterio preferenziale stabilito
dalla norma si appoggi su “motivi gravi ed attinenti
all’interesse comune dei condividenti” (6).
Al contrario, la prevalente dottrina propone un
orientamento restrittivo che giunge al segno di
escludere ogni discrezionalità del giudice, il quale
dovrebbe seguire rigorosamente i criteri di preferenza indicati dalla legge (fra l’altro, infatti, “preferibile” significa “che deve essere preferito”, e non
“che può essere preferito”; e nulla fa pensare che
(2) Venosta, La divisione, nel Tratt. Sacco, Torino 2014, 20:
la derogabilità delle norme dispositive vale per le parti, ma nella divisione giudiziale “le disposizioni del codice civile vincolano il giudice. Le parti domandano che il giudice compia la divisione, e il giudice deve compiere una divisione; deve, cioè, seguire il procedimento stabilito dalla legge e deve adottare un
provvedimento finale il cui contenuto corrisponde al concetto
legale della divisione. Nessun rilievo ha, a tale proposito, il carattere dispositivo delle norme che vengono in considerazione
...; e neppure la circostanza che le norme si affidano in larga
misura alla discrezionalità del giudice, in quanto il giudice,
esercitando correttamente la propria discrezionalità, applica
nondimeno le norme.”.
(3) Cfr. Venosta, op. cit., 137 ss., e la dottrina e la giurisprudenza ivi richiamate. Ma v. anche, da ultimo, Cass. 12 febbraio
2013, n. 3461 e 27 giugno 2014, n. 14682. Entrambe proclamano il seguente principio di diritto: “Nel giudizio di divisione
il criterio dell’estrazione a sorte, previsto dall’art. 729 c.c., nel
caso di uguaglianza di quote, a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo, non
ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, ed è, pertanto,
derogabile in base a valutazioni prettamente discrezionali, che
possono attenere non soltanto a ragioni oggettive legate alla
condizione funzionale ed economica dei beni, quale risulterebbe dall’applicazione della regola del sorteggio, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità, la cui
valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il
profilo del vizio di motivazione”. Il confronto fra queste due
sentenze è però interessante perché sulla base del medesimo
principio la Corte ha deciso in modo opposto due casi analoghi, in cui uno dei condividenti aveva chiesto l’attribuzione
senza sorteggio dell’immobile in cui abitava. Nella sentenza
del 2013 tale richiesta viene accolta, in quella del 2014, al contrario, si approva la decisione negativa della Corte d’Appello,
argomentata sulla base della considerazione che dalla mancata attribuzione non sarebbe derivato al richiedente quel “pregiudizio economico” che egli medesimo aveva dedotto a fon-
damento della sua richiesta.
(4) Venosta, op. cit., 128 ss.
(5) Venosta, op. cit., 114.
(6) Cass. 11 luglio 1995, n. 7588; Cass. 1° agosto 1990, n.
7716; Cass. 21 febbraio 1985, n. 1528; Cass. 13 luglio 1983, n.
4775, in Foro it., 1983, I, 2421. Quest’ultima sentenza, in particolare, presenta una motivazione molto attenta e perspicua
nella quale la Corte, dopo avere richiamato i principi generali
degli artt. 718 e 727 c.c., soggiunge che “la lettura dell’art.
720 c.c. deve essere fatta in modo che la deroga che esso rappresenta ai principi fissati negli altri articoli ora ricordati sia
contenuta entro i più stretti confini possibili. Altrimenti operando, e specialmente escludendo ogni limite al potere discrezionale del giudice di assegnare l’immobile indivisibile ad uno o a
più dei condividenti che lo richiedono, si viene in realtà ad allargare la breccia a quei principi (...) in misura maggiore di
quanto consentito dal sistema”. Sulla base di tali affermazioni
la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva preferito la
richiesta del singolo condividente titolare della quota di un terzo rispetto alla richiesta congiunta degli altri titolari dei due terzi, dando prevalenza all’interesse del primo alla prosecuzione
dell’esercizio della sua attività commerciale nell’immobile in
questione; la Corte ha ritenuto che tale preferenza non fosse
fondata sull’interesse comune dei condividenti. D’altra parte,
però, ancora Cass. 25-9-2008, n. 24053, cit., ha approvato
l’assegnazione di un immobile al coerede titolare di una quota
minore sulla base dell’interesse individuale prevalente di quest’ultimo, privo altrimenti della casa di abitazione. La questione
è stata oggetto anche di alcune annotazioni significative: cfr.
Pasquili, Comunione ereditaria e operazioni divisionali: i criteri, ex art. 720 cod. civ., di individuazione dei condividenti cui assegnare l’intero bene in presenza di più immobili indivisibili, in
Nuova giur. comm., 2006, I, 33; Musolino, L’orientamento della
giurisprudenza in tema di immobile non divisibile, in Riv. not.,
2001, 662; Pieri, in Giur. it., 1996, I, 1, 615; Alvino, L’art. 720
c.c. ed i criteri di scelta per l’attribuzione del bene non comodamente divisibile, in Giust. civ., 1973, I, 1511.
sistenza dell’interesse a continuare, nell’immobile
assoggettato a divisione, la gestione del ristorante.
La propensione dei giudici a riservarsi un
ampio potere di derogare ai criteri
divisionali indicati dal codice civile,
e le critiche della prevalente dottrina
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La sentenza in commento si innesta nel filone giurisprudenziale che riconosce il potere discrezionale
del giudice nella misura più ampia, riferendolo anche alle ipotesi in cui sussiste un interesse economico individuale di alcuno dei condividenti, e non
solo un interesse “comune”, cioè riferibile all’insieme dei condividenti.
Limitandosi ai precedenti più recenti, in questa medesima linea di pensiero vanno ricordate: Cass. 27
ottobre 2000, n. 14165 (8), che afferma il principio
solo in termini generali, e con riferimento ad un caso in cui le quote erano uguali (9); Cass. 23 ottobre
2001, n. 12998, che richiama la discrezionalità per
giustificare l’assegnazione ai condividenti che avevano fatto richiesta congiunta, piuttosto che al singolo
titolare della quota maggiore; Cass. 22 marzo 2004,
n. 5679 (10), che afferma il principio solo inciden-
talmente, in quanto il thema decidendum si riferiva
alla scelta fra l’assegnazione del bene e la vendita all’asta; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3646, che afferma
il principio con riferimento, tuttavia, ad un caso in
cui l’interesse reputato prevalente era chiaramente
comune a tutti i condividenti (11); Cass. 25 settembre 2008, n. 24053: qui l’affermazione del principio
è esplicita e motivata (12), e conduce a dare prevalenza all’esigenza abitativa di uno dei condividenti,
rispetto all’altro che già disponeva di un’abitazione
in proprietà (13); Cass. 13 maggio 2010, n.
11641 (14), in termini identici alla precedente.
Nell’orientamento più ristretto di inscrivono, invece, oltre alla già ricordata Cass. n. 4775/1983, le
seguenti sentenze: Cass. 1° agosto 1990, n. 7716;
Cass. 20 agosto 1991, n. 8922 (15); Cass. 25 febbraio 1995, n. 2163, che afferma incidentalmente
la prevalenza dell’interesse comune in un caso in
cui, tuttavia, le quote erano uguali; Cass. 11 luglio
1995, n. 7588, con ampia motivazione (16); Cass.
24 febbraio 1999, n. 1566 (17), incidenter tantum.
In questa breve rassegna meritano di essere ricordate, per quanto non agevolmente inquadrabili nell’uno o nell’altro orientamento, anche: Cass. 1°
febbraio 1995, n. 1158, che afferma genericamente
la derogabilità, ma nega che un valido criterio sia
quello della maggior somma offerta da uno dei condividenti; Cass. 19 marzo 2003, n. 4013, che considera adeguatamente motivata la sentenza di merito, resa in un caso in cui le quote erano uguali, la
quale aveva privilegiato l’interesse (qualificato “comune”) ad assegnare il bene al condividente più
abbiente (che avrebbe avuto meno difficoltà nel
(7) Burdese, La divisione ereditaria, nel Tratt. Vassalli, Torino
1980, 158 ss.; Comporti, L’art. 720 cod. civ. e la sua applicabilità alla divisione della comunione volontaria, in Foro it., 1960, I,
2032 ss., 2043 s.; Dogliotti, Comunione e condominio, nel Tratt.
Sacco, Torino 2006, 126 (ma in modo problematico); Forchielli,
in Forchielli - Angeloni, Della divisione, nel Comm. ScialojaBranca, Bologna-Roma, 2000, 153 ss.; Miraglia, La divisione
ereditaria, Padova 2006, 205 ss. La possibilità di una diversa
opzione, in ogni caso, potrebbe riferirsi anche solo all’ipotesi
della richiesta di assegnazione congiunta, che può condurre
ad assegnare il bene a condividenti che individualmente non
sono titolari della quota maggiore.
(8) In Riv. not., 2001, 660 con nota di Musolino.
(9) Se le quote sono uguali, peraltro, il criterio legale non è risolutivo, di modo che è inevitabile che il giudice compia la sua
scelta (una scelta dovuta, visto che giustamente si ritiene che la
vendita del bene costituisca l’extrema ratio) sulla base di altri criteri; resta però sempre da stabilire se debba prevalere il criterio
dell’interesse comune, piuttosto che quello dell’interesse individuale.
(10) In Giur. it., 2005, 708.
(11) “Sussistevano problemi di confinazione, vi era un solo
ingresso sul lato fronte strada, che insiste esclusivamente su
particella di proprietà dei condividenti, cosa che avrebbe ri-
chiesto, in caso di assegnazione al C., la creazione di una servitù; che sussistevano ancora problemi di relativa interclusione, che avrebbero richiesto la costituzione di altra apposita
servitù ...”: appare chiaro il riferimento al comune interesse dei
condividenti alla soluzione meno complicata e costosa.
(12) “L’espressione ‘preferibilmente’ rende esplicita sotto un
profilo lessicale la scelta legislativa per l’attribuzione ... tendenzialmente al titolare della quota maggiore senza quindi escludere la legittimità di un’opzione diversa e senza peraltro indicare i
presupposti che consentano una tale deroga; tale formulazione
della norma quindi accorda al giudice un ampio potere discrezionale che, per non sconfinare nell’arbitrio, deve pur sempre tener conto dei concreti elementi di fatto che caratterizzano le singola fattispecie e della esigenza quindi di esaminare i contrapposti interessi dei condividenti in proposito”.
(13) Cfr. anche Cass. 18 agosto 1981, n. 4938; Cass. 3 luglio 1980, n. 4251.
(14) In Riv. not., 2011, II, 181 con nota di richiami di Musolino, e in Foro it., 2011, I, 173 con nota di R. Lombardi.
(15) In Giur. it., 1992, I, 1, 1099, con ampia motivazione.
(16) In Giur. it., 1996, I, 1, 615 con nota di Pieri.
(17) In Riv. not., 2000, 114 con nota di Zappone, La divisione degli immobili non comodamente divisibili, assegnazione al
“maggior quotista” ex art. 720 c.c.
debba trattarsi di preferibilità condizionata alle valutazioni discrezionali del giudicante) (7). Questa
opinione è fondata, oltre che sull’accennato argomento testuale, sul principio della divisione in natura, rispetto al quale il trattamento degli immobili
indivisibili costituisce eccezione; l’eccezione, in
quanto tale, deve essere di stretta interpretazione e
condurre ad esiti che si discostino dal principio
nella misura minima indispensabile, e non può negarsi che l’assegnazione al titolare della maggior
quota è appunto l’esito che più si avvicina, compatibilmente con la indivisibilità del bene, al principio della divisione in natura.
I principali precedenti in tema di
applicazione dell’art. 720 c.c.
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Nella giurisprudenza degli ultimi anni prevale dunque, e senza grandi ostacoli, la propensione a riconoscere al giudice la più ampia discrezionalità, con il
solo limite di una motivazione formalmente ineccepibile. Non si tratta di un limite particolarmente significativo: in assenza, infatti, della indicazione dei
presupposti sostanziali che permettono al giudice di
discostarsi dal criterio legale, questi praticamente è
vincolato solo dalla necessità di costruire una motivazione non contraddittoria, cioè fondata su di una
logica puramente interna (18); per il resto, è libero
di dare prevalenza all’interesse che ritiene debba prevalere nel caso concreto, sulla sola base del suo prudente (ma talvolta soggettivo) apprezzamento (19).
Un siffatto orientamento non appare agevolmente
scalfibile, ed anzi viene consolidandosi, anche in
considerazione della circostanza che in esso si manifesta, come prima si accennava, una tendenza
più generale ad ampliare la insindacabile discrezionalità del giudice nell’applicazione delle norme sulla divisione.
Vale, però, la pena di segnalare che sarebbe almeno opportuno che non ci si contentasse della intrinseca logicità della motivazione, ma che si giustificasse il discostamento dal criterio legale con
l’aggancio ad un interesse prevalente, e che il criterio di prevalenza, a sua volta, si ricercasse nelle
direttive dell’ordinamento e non solo nel soggettivo apprezzamento del giudice.
Anche le norme dispositive, infatti, sono pur sempre il frutto di un’opzione dell’ordinamento, il qua-
le ha le sue ragioni per preferire una soluzione rispetto alle altre; e se anche si ammette che il giudice può motivatamente discostarsene, sarebbe opportuno esigere che motivi tale decisione con la
tutela di un interesse che è l’ordinamento stesso a
considerare prevalente, ed al quale la rigida applicazione della norma non assicura, nel caso concreto, una sufficiente protezione. Questa indicazione
vale anche quando le quote dei varii richiedenti
sono identiche; in questa ipotesi il criterio legale è
in radice inapplicabile, di modo che il ricorso ad
un criterio alternativo non può essere evitato. Qui
la discrezionalità è più ampia, e tuttavia l’obbligo
di motivazione deve consentire di sindacare la razionalità della scelta e la sua conformità ai principi
dell’ordinamento (20); se poi non sia ravvisabile
alcun criterio oggettivo di preferenza, dovrà procedersi al sorteggio, “anche se ciò è espressamente
previsto dal legislatore nell’art. 729 c.c. solo con riferimento alle intere porzioni che siano fra di loro
uguali” (21).
Può trattarsi di un interesse interno al procedimento divisionale, come avviene quando i giudici derogano al criterio legale in nome di quello che chiamano “interesse comune” dei condividenti, purché
esso sia di tale natura e consistenza da prevalere
sul principio generale della divisione in natura.
Se, invece, si tratta di un interesse estraneo al procedimento divisionale, e quindi individuale, l’onere della motivazione sul suo carattere preminente
dovrebbe considerarsi particolarmente stringente,
e, lo si ripete, necessariamente agganciato a riconoscibili direttive normative. Ad esempio, è difficile contestare la preminenza di interessi, non altrimenti tutelabili, che attengono ad esigenze fondamentali dell’uomo, come quelle abitative, soprattutto quando ci sono di mezzo dei minori (22).
Maggiormente discutibile è, invece, che debbano
(18) In tal modo, peraltro, lo si obbliga a motivare anche la
decisione di attenersi al criterio legale, purché alcuno dei condividenti proponga l’applicazione di un criterio diverso.
(19) Non può non segnalarsi anche qui Cass. n. 4013/2003,
ove si ripete che l’art. 720 c.c. attribuisce al giudice “un potere
prettamente discrezionale ... che trova il suo contemperamento esclusivamente nell’obbligo di indicare i motivi in base ai
quali ha ritenuto di dover dare la preferenza all’uno piuttosto
che all’altro ... tipico apprezzamento di fatto ... oggetto di controllo in questa sede soltanto la logicità intrinseca e la sufficienza del ragionamento operato dal giudice del merito”.
Su tali presupposti, l’immobile è stato assegnato al condividente più abbiente, e non a quello meno abbiente ma bisognoso dell’abitazione, in quanto “solo così [potevasi] garantire il
recupero del dovuto conguaglio” (che il condividente meno
abbiente non avrebbe potuto, presumibilmente, pagare).
Certo appare ragionevole la preoccupazione di assicurare il
conguaglio al condividente non assegnatario, onde evitare una
sorta di larvata espropriazione senza indennizzo; ma è manca-
to, da parte del giudice del merito, il confronto con il diritto all’abitazione, e tuttavia questa circostanza non viene considerata vizio di motivazione dalla Suprema Corte, la quale precisa
che “se la corte del merito, esercitando il suo potere discrezionale, ha scelto il predetto criterio, ha implicitamente considerato subvalenti altri criteri, quale quello del diritto di abitazione
riconosciuto alla ricorrente in sede di separazione”.
(20) Cass. 27 ottobre 2000, n. 14165; Cass. 1° marzo 1995,
n. 2335; Cass. 25 febbraio 1995, n. 2163; Cass. 10 aprile 1990,
n. 2990; Cass. 18 agoasto 1981, n. 4933. In dottrina Burdese,
op. cit., 159; Cicu, Divisione ereditaria, cit., 58; Dogliotti, op.
cit., 127; Forchielli, op. cit., 151. Contra, Comporti, op. cit.,
2044, il quale suggerisce la vendita all’asta.
(21) Così Burdese, op. loc. ultt. citt.; Forchielli, op. cit., 150.
Cfr., tuttavia, la recente Cass. 19 maggio 2015, n. 10261: “se
... non sia ravvisabile alcun criterio oggettivo di preferenza ...
soccorre il rimedio residuale della vendita all’incanto”.
(22) In tale prospettiva, sono apprezzabili le decisioni che
hanno fatto prevalere il diritto alla abitazione (Cass. n.
pagare il conguaglio) rispetto alle esigenze abitative dell’altro.
La necessità di agganciare la discrezionalità
del giudice a criteri oggettivi rinvenibili
nelle direttive dell’ordinamento
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Nell’occasione, è utile precisare che il giudizio di
comparazione fra le quote è limitato alle quote dei
coeredi che effettivamente chiedono l’assegnazione, e non si estende alle quote di coloro che non
la chiedono; di modo che se il maggior quotista
non chiede l’assegnazione, ma la chiedono uno o
più quotisti minori, il giudice deve assegnare il be-
ne al maggiore fra i quotisti richiedenti. Una eventuale diversa soluzione, che volesse appoggiarsi su
una interpretazione strettamente letterale della
norma, trascurerebbe il carattere relativo del concetto di quota “maggiore” o “minore”, e contrasterebbe con la necessità di rendere l’applicazione della norma il più aderente possibile al principio della
divisione in natura, il quale sarebbe totalmente e
ingiustificatamente pretermesso se il bene fosse
venduto all’incanto pur in presenza di una qualche
richiesta di assegnazione. E d’altra parte, anche sul
piano testuale è decisiva l’ultima parte della disposizione, che ammette la vendita all’incanto solo “se
nessuno dei coeredi è a ciò disposto” (23).
Il criterio della massima possibile compatibilità
con la divisione in natura aiuta anche a risolvere
un altro problema, sul quale d’altra parte si riscontra ampia uniformità di vedute: quello del trattamento della situazione che vede, nel medesimo asse ereditario, la presenza di più beni indivisibili,
ma non in numero sufficiente ad assicurare una distribuzione più o meno equilibrata in tutte le quote.
Ad applicare letteralmente l’art. 720 si potrebbe
anche pensare che ogni bene indivisibile vada assegnato al maggior quotista, purché ne faccia richiesta. L’interpretazione sistematica, in armonia con i
principi, consente tuttavia che ciò avvenga solo se
costui è l’unico che abbia fatto richiesta di assegnazione; se i richiedenti sono più, invece, si assegna
prima il bene più importante al quotista maggiore,
e poi gli altri beni ai titolari delle quote via via di
minore entità, al fine di ottenere una distribuzione
che consenta a tutti, nei limiti del possibile e secondo il meccanismo dell’art. 720 adeguato alle
circostanze, di ricevere una parte in natura dell’eredità (24).
24053/2008, cit.) e quello del coniuge affidatario dei figli minori (Trib. Bologna 21 gennaio 1993, in Nuova giur. civ. comm.,
1994, I, 700 con nota di Tafuro). V. anche Cass. 28 ottobre
2009, n. 22857, che conferma la sentenza di merito che aveva
assegnato il bene alla sorella titolare di una quota minore, valorizzando il fatto che essa abitava nell’immobile da svariati
anni e non ne possedeva un altro nel medesimo luogo, mentre
i fratelli vivevano all’estero, ed uno era anche proprietario di
un altro immobile adeguato nel medesimo paese.
(23) Cass. 18 gennaio 1982, n. 320; è peraltro ovvio che se
i giudici ritengono di non essere vincolati al criterio della quota
maggiore in presenza di più richieste di assegnazione, a maggior ragione non rifiuteranno tale assegnazione quando a chiederla sia uno solo, pur non titolare della quota maggiore.
In dottrina Burdese, op. cit., 159; Forchielli, op. cit., 152, dice che “il criterio che soprintende in materia è un criterio di
semplice preferenza relativa, nel senso che fra i diversi aspiranti prevale quello (individuale o collettivo) titolare della quota
relativamente più grande. In questo senso va ... interpretato
l’avverbio ‘preferibilmente’ contenuto nell’articolo in esame”.
Conf. De Belvis, Disposizioni generali, in Amadio - Patti (a cura
di), La divisione ereditaria, Milano, 2013, 65.
(24) Burdese, op. cit., 160; Dogliotti, op. cit., 126; Forchielli,
op. cit., 154. In senso diverso si è espressa la S.C., la quale in
un caso in cui l’asse era composto da due immobili indivisibili
e le quote di spettanza di ciascun coerede su ciascun bene
erano diverse ha affermato doversi tenere conto “della quota
spettante su ogni singolo immobile, nel senso che deve farsi
riferimento, al fine del raffronto quantitativo fra le due diverse
quote in gara, al valore della quota che ogni condividente vanta su ciascuno degli immobili, sicché i due immobili vanno attribuiti a un solo condividente qualora questi risulti essere il
maggior quotista dell’uno e dell’altro bene, altrimenti ciascun
immobile va attribuito a quel condividente che, in relazione ad
esso, risulti avere la quota maggioritaria”: Cass. 9 novembre
2004, n. 21294, in Giust. civ., 2005, I, 1519 con nota di Tedesco. Per le ragioni esposte nel testo, la soluzione non appare
condivisibile.
sempre prevalere interessi individuali puramente
economici, pur ragionevoli e sensati come quello a
continuare senza problemi il precedente utilizzo
dell’immobile ove viene svolta una attività economica (si tratta proprio del caso deciso dalla sentenza in esame). E meno ancora il criterio del preuso
può accettarsi come valido in assoluto: a tacer d’altro, infatti, il legislatore avrebbe potuto agevolmente introdurre un siffattto criterio, se lo avesse
voluto, e forse, almeno in questo caso, ubi lex noluit
tacuit!
Infine, è forse opportuno precisare, in generale,
che ogni valutazione in questo campo è intrinsecamente comparativa, quando vi è da scegliere fra
più interessi in conflitto; e che la comparazione
dovrebbe tenere conto anche del rapporto dimensionale fra le quote di cui sono rispettivamente titolari i diversi richiedenti: può accadere, infatti,
che un interesse in astratto preminente debba cedere, se chi ne è portatore detiene una quota di
gran lunga inferiore a quella del maggior quotista;
e che, per converso, un interesse non particolarmente rilevante debba nondimeno prevalere se le
quote dei contendenti sono quasi identiche.
Il bene può essere assegnato ad un
quotista minore, se il maggiore non chiede
l’assegnazione; l’ipotesi della presenza
nell’asse di più beni indivisibili
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Gioco e scommessa
Cassazione Civile, Sez. VI-3, ord., 8 luglio 2015, n. 14288 - Pres. Finocchiaro - Rel. Scarano P.M. Ceroni (conf.) - R.M. (avv. Ferrini) c. Snai S.p.a.
La tutela del consumatore si applica anche al gioco d’azzardo legalmente autorizzato, come le video lotterie,
atteso che il significativo squilibrio che fonda le esigenze di tutela del consumatore non viene meno per effetto della risibilità del rischio apprezzabile in ragione della scarsa entità della posta giocata dallo scommettitore
a fronte della possibilità di una vincita enormemente superiore.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non si rinvengono precedenti editi nei medesimi termini.
Difforme
Non si rinvengono precedenti editi nei medesimi termini.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
Con unico complesso motivo il ricorrente si duole dell’erroneità dell’impugnato provvedimento per avere il
giudice di merito escluso l’applicabilità del foro del consumatore, e, gradatamente, del foro ex art. 20 c.p.c., di
conclusione del contratto e ove l’obbligazione deve eseguirsi.
Lamenta che “l’attività dei concessionari dei giochi, fra
i quali la SNAI, è tipica attività imprenditoriale, e per
sua natura basata sul rischio d’impresa, sempre però sotto lo stretto controllo dell’Amministrazione Autonoma
dei Monopoli di Stato”, a cui fronte “si trova la figura
del giocatore che riveste la qualifica di consumatore, e
come tale deve beneficiare della tutela a lui garantita
dalla vigente normativa”.
Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito
indicati.
Si afferma nell’impugnato provvedimento che nella specie “la competenza non deve essere determinata secondo il foro del consumatore, atteso che manca nei contratti di gioco l’esigenza di tutela che informa la disciplina di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, trattandosi nella
specie di contratto aleatorio fondato sostanzialmente su
una scommessa, concluso a distanza mediante distributore automatico (o simile sistema) e, come tale, escluso
dalla detta normativa [art. 51, lett. b) D.Lgs. n. 206 del
2005]”.
Si afferma altresì che “in ogni caso, anche a voler ritenere che il contratto di cui si discute non sia sussumibile nella categoria di quelli conclusi a distanza mediante
distributore automatico, va rilevato che il settore dei
giochi d’azzardo che implicano una posta pecuniaria in
giochi di fortuna, comprese le lotterie e le scommesse,
non rientrano nell’ambito oggettivo di applicazione della normativa applicabile alle transazioni on line, ovvero
della direttiva n. 97/7/CE sui contratti a distanza, recepita dal D.Lgs. n. 185 del 1999, poi confluito nel Codice del consumo di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005 (art. 50
e ss.) e della Direttiva n. 2000/31/CE sul commercio
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elettronico, recepita con il D.Lgs. n. 70 del 2003, richiamato dall’art. 61 del Codice del consumo (nel testo
ante d.lgs. 21 febbraio 2014 n. 21): l’art. 1, comma 2,
lett. g), del D.Lgs. n. 70 del 2003, prevede infatti che
“non rientrano nel campo di applicazione del presente
decreto:... g) i giochi d’azzardo, ove ammessi, che implicano una posta pecuniaria, i giochi di fortuna, compresi
il lotto, le lotterie, le scommesse, i concorsi pronostici e
gli altri giochi come definiti dalla normativa vigente,
nonché quelli nei quali l’elemento aleatorio è prevalente”.
Si sostiene ulteriormente che “nel contratto di scommessa/lotteria non possono configurarsi significativi
squilibri dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto a carico del consumatore, in ragione del rischio
connesso alla scarsa entità della posta giocata dallo
scommettitore a fronte di vincite enormemente superiori, di tal che non può applicarsi il foro esclusivo del
consumatore”.
Trattasi di orientamento sostanzialmente condiviso anche dal Procuratore Generale nella sua requisitoria
scritta, ove si esclude l’applicabilità nella specie della
“disciplina prevista per la tutela del consumatore”, sottolineandosi come “la normativa di cui al D.Lgs. n. 205
del 2006, risponda a logiche di protezione solidaristica
del mercato con l’obiettivo di favorirne l’efficiente funzionamento secondo regole genuinamente concorrenziali”, e sostenendosi non esservi dubbio che la qualifica di
“consumatore” non può essere riconosciuta all’odierno
ricorrente, che “puntando una somma di denaro su una
combinazione numerica” non intendeva certo “accedere
al mercato per acquistare un bene o beneficiare di un
servizio ovvero porre in essere un atto di consumo in
uno spazio regolato, ma unicamente concludere un contratto aleatorio”, nonché ulteriormente osservandosi
che “anche la giurisprudenza fonda le ragioni del foro
della prossimità, cioè del foro speciale della residenza o
del domicilio del consumatore, previsto dall’art. 33,
comma 2, lett. u), D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, alla
luce delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore”.
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Orbene, va al riguardo osservato che, se non nella risalente tesi giurisprudenziale e dottrinaria che ravvisava
nel giuoco d’azzardo - in particolare quello colpito da
sanzioni penali - un atto immorale o contrario al buon
costume, e pertanto - si aggiungeva - un contratto illecito (per il quale non vi è conseguentemente ripetizione
del pagato a titolo di collegato mutuo concluso esclusivamente per far proseguire il giuoco di azzardo in locale
aperto al pubblico: v. Cass., 17 giugno 1950, n. 1552),
il suindicato orientamento trova in effetti riscontro e
conforto nella del pari risalente tripartizione classica, di
matrice dottrinale, in a) in giochi pienamente tutelati
(artt. 1934 e 1935 c.c.), b) giochi vietati (penalmente
sanzionati) e c) giochi c.d. tollerati (art. 1933 c.c.).
Gli argomenti spesi dal giudice di merito nell’impugnato provvedimento (mancanza di condizione di debolezza
necessaria; approvazione amministrativa delle condizioni generali di contratto idonea a garantirne l’equilibrio)
ripercorrono in realtà quelli solitamente utilizzati dalla
giurisprudenza con riferimento alla disciplina codicistica
delle clausole vessatorie ex art. 1341 c.c., peraltro oggetto di incisive e fondate critiche in dottrina.
L’orientamento interpretativo accolto nell’impugnato
provvedimento, secondo cui “il gioco delle video lotterie è fuori della tutela del consumatore” in quanto presuppone la ludopatia ed è pertanto “pratica, per sua natura, contraria alla categoria di educato consumo” nonché alla “tutela della salute”, non è tuttavia condivisibile.
Va al riguardo osservato che, come anche in dottrina
non si è recentemente mancato di porre in rilievo, il fenomeno del gioco e della scommessa ha ormai raggiunto una diffusione e una rilevanza sociale che devono indurre a riconsiderarne la richiamata tradizionale considerazione.
Occorre prendere atto che la suindicata tripartizione è
ormai non più attuale.
Il gioco e la scommessa, tradizionalmente ricondotti
nella categoria dei contratti aleatori ed assoggettati a disciplina sostanzialmente identica, sono previsti, promossi e regolati dallo Stato, il quale da essi invero ritrae
consistenti introiti.
A tale stregua, anche il giurista deve indursi a modificare la relativa considerazione, la quale non può essere
che quella riservata ai giochi legalmente autorizzati e
pienamente tutelati (R.D.L. n. 1933 del 1938, conv. in
L. n. 973 del 1939, come modif. dalla L. n. 528 del
1982; art. 110 TULPS).
Vale porre in rilievo come questa Corte abbia già avuto
modo di affermare che in ambito nazionale e comunitario in realtà non esiste un disfavore nei confronti del
gioco d’azzardo in quanto tale, ove esso cioè non sfugga
al controllo degli organismi statali e non si esponga alle
infiltrazioni criminali (v. Cass., 27 settembre 2012, n.
16511).
Si è al riguardo sottolineato che le “esigenze erariali”
hanno fatto invero “premio su sempre più flebili istanze
morali”, e l’area del gioco autorizzato è venuta progressivamente estendendosi.
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Vi è stata l’istituzione di casinò, la creazione di varie
lotterie e concorsi a premi, basati prevalentemente sulla
sorte, fino all’emanazione dell’art. 38, comma 2, D.L. n.
223 del 2006, conv. con modificazioni e integrazioni
nella L. n. 248 del 2006, di modifica dell’art. 110, comma 6, R.D. n. 773 del 1931 (T.U.L.P.S.), che ha consentito la proliferazione dei punti di accettazione delle
scommesse (v. Cass., 27 settembre 2012, n. 16511).
Tale orientamento è in effetti in linea con quello emerso nella giurisprudenza comunitaria.
Con particolare riferimento all’art. 4, L. n. 401 del
1989, (sanzionante l’esercizio abusivo di giochi e scommesse), questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo (v. Cass., 27 settembre 2012, n. 16511) che “laddove le autorità di uno Stato membro inducano ed incoraggino i consumatori a partecipare alle lotterie, ai
giuochi d’azzardo o alle scommesse affinché il pubblico
erario ne benefici sul piano finanziario, le autorità di tale Stato non possono invocare l’ordine pubblico sociale
con riguardo alla necessità di ridurre le occasioni di
giuoco per giustificare provvedimenti come quelli oggetto della causa principale” (così Corte giust., 6 novembre
2003, n. 243).
A parte l’incompatibilità con il diritto comunitario delle sanzioni penali previste per la raccolta di scommesse
da parte di intermediari operanti per conto di società
straniere sancita da Corte giust., 6 marzo 2007, C338/04, C. 359/04, C-360/04, Placanica), nel ribadire il
principio del primato del diritto comunitario (v. in particolare Corte Giust., 8 settembre 2010, C-409/06. In
ordine al primato del diritto Europeo, così come interpretato dalla Corte di Giustizia, v. altresì Cass., Sez.
Un., 5 febbraio 2013, n. 2595), la Corte di giustizia ha
ricondotto la raccolta di scommesse nell’ambito di applicazione dell’art. 49 Trattato CE, ponendo in rilievo
come le attività che consentono agli utilizzatori di partecipare, dietro corrispettivo, a un gioco d’azzardo costituiscono prestazione di servizi ai sensi dell’art. 49 CE
(v. Corte giust., 21 ottobre 1999, C-67/98, Zerratti; Corte giust., 24 marzo 1994, C-275/92, Schindler).
Rilevato che la disciplina dei giochi d’azzardo rientra
nei settori in cui sussistono tra gli Stati membri divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale, si è sia dalla Corte di giustizia che da questa Corte
posto in rilievo come in tali settori spetti a ciascuno
Stato membro stabilire la tutela di quali interessi, tra
quelli coinvolti, privilegiare (v. Cass., 27 settembre
2012, n. 16511).
Si è al riguardo affermato che “gli Stati membri sono liberi di fissare gli obiettivi della loro politica in materia
di giochi d’azzardo e, eventualmente, di definire con
precisione il livello di protezione perseguito”, altresì sottolineandosi come eventuali restrizioni debbano “soddisfare le condizioni che risultano dalla giurisprudenza
della Corte per quanto riguarda la loro proporzionalità”.
E che “la lotta alla criminalità può costituire un motivo
imperativo di interesse generale che può giustificare restrizioni nei confronti degli operatori autorizzati a proporre servizi nel settore del gioco d’azzardo”, atteso che
in considerazione della “rilevanza delle somme che essi
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possono raccogliere e delle vincite che possono offrire
ai giocatori, tali giochi comportano rischi elevati di reati e di frodi”, sicché “i limiti che, nel rispetto del principio di sussidiarietà, gli Stati membri possono al riguardo
stabilire” trovano fondamento “nell’esigenza non già di
contrasto della domanda e dell’offerta di gioco e di
scommessa bensì di tutela dell’ordine pubblico e di esigenze imperative di interesse generale, al fine di esercitare un controllo preventivo e successivo, volto da un
canto a prevenirne la degenerazione criminale, e per altro verso a massimizzare gli introiti fiscali da essi derivanti, attenendo pertanto allo scopo di tutela dei consumatori contro il rischio di dipendenza, di frode e di
criminalità” (v. Corte giust., 8 settembre 2009, n. 42,
richiamata da Cass., 27 settembre 2012, n. 16511).
Sotto altro profilo, con particolare riferimento alla nozione di ordine pubblico, al di là di quanto affermatosi
con riferimento alla delibazione di sentenze straniere
(v. Cass., 27 settembre 2012, n. 16511, e, conformemente, Cass., 17 gennaio 2013, n. 1163. E già Cass., 6
dicembre 2002, n. 17349. Cfr. altresì, da ultimo, Cass.,
Sez. Un., 17 luglio 2014, n. 16379; Cass., Sez. Un., 17
luglio 2014, n. 16380; Cass., 15 aprile 2015, n. 7613),
si è posto in rilievo come anche la considerazione dell’ordine pubblico interno non possa invero prescindere
dalla valutazione delle norme imperative interne alla
luce delle norme costituzionali e dei principi del diritto
Europeo (v. Cass., 26 novembre 2004, n. 22332; Cass.,
11 novembre 2000, n. 14662).
Tale concezione, sì è sottolineato, si fonda sull’attuale
maggiore partecipazione dei singoli Stati alla vita della
comunità delle genti, consentendo di rinvenirne i parametri di conformità in principi corrispondenti ad esigenze comuni ai diversi ordinamenti statali (in tali termini v. Cass., 27 settembre 2012, n. 16511, e, conformemente, Cass., 17 gennaio 2013, n. 1163. E già Cass.,
6 dicembre 2002, n. 17349).
Avuto riguardo al gioco autorizzato, in quanto gestito
direttamente dallo Stato o da suoi concessionari, si è ritenuto che risultano a tale stregua “elise” le suindicate
ragioni di sicurezza sociale, e che debbono per converso
trovare applicazione le ordinarie norme poste a tutela
dell’esercizio dell’impresa nonché “delle ragioni creditorie”, che “sorte in un contesto di ordinaria liceità, non
possono essere disattese, anche quando poste alla base
di una decisione straniera, essendo... sorrette da fondamentali e condivisi principi, quali in particolare la libertà dei mercati e la responsabilità patrimoniale del
debitore” (in tali termini v. Cass., 27 settembre 2012,
n. 16511).
Orbene, atteso che il versamento della posta contemplata nel contratto integra un comportamento deponente per la conclusione del contratto con automatica adesione alle relative condizioni, si è nella giurisprudenza
di legittimità affermato che il regolamento del gioco deve “ritenersi noto ed accettato dai singoli giocatoricontraenti, sia pure implicitamente con l’acquisto del
biglietto” (v., con riferimento alle c.d. lotterie istantanee, Cass., 31 luglio 2006, n. 17458).
1066
Come sottolineato anche in dottrina, il contenuto del
gioco o scommessa rimane peraltro solitamente ignoto
al contraente-giocatore, stante la grave difficoltà (se
non impossibilità) di reperire il testo e di prenderne cognizione.
Il contraente-giocatore allora “subisce” in realtà tale
contenuto, che implicitamente accetta.
Né può al riguardo assegnarsi rilievo alla circostanza
che esso trovi fonte in decreti emanati da Ministero
delle finanze, giacché le regole ivi poste integrano una
regolamentazione contrattuale unilateralmente predisposta (cfr., con riferimento alle lotterie istantanee
“Gratta e vinci” e “La fortuna sotto la neve”, Cass., 31
luglio 2006, n. 17458; Cass., 5 marzo 2007, n. 5062;
Cass., 13 aprile 2007, n. 8859; Cass., 16 febbraio 2010,
n. 3588; Cass., 29 maggio 2013, n. 13434).
Orbene, stante quanto sopra rilevato ed esposto, e considerato che diversamente da quanto affermato nell’impugnato provvedimento l’attività posta in essere dalla
società concessionaria delle video lotterie va propriamente qualificata come prestazione di servizi ex art. 49
Trattato CE senza sottacersi il sintomatico rilievo che
in proposito ulteriormente assume lo specifico riferimento alla tutela dei consumatori e degli utenti dei servizi di gioco d’azzardo on line contenuto nella Raccomandazione della Commissione del 14 luglio 2014 nonché alla finalità di garantire che “ai consumatori sia garantito un ambiente di gioco sicuro e che siano previste
misure per far fronte al rischio di danni finanziari o sociali” (v. Considerando 2), come pure ai “termini” e alle “condizioni” del “rapporto contrattuale tra l’operatore
e il consumatore” (art. 5), deve dunque concludersi che
l’assunto in base al quale la disciplina di tutela dei consumatori non si applica ai contratti aleatori è invero erronea.
Sotto altro profilo, è d’altro canto appena il caso di osservare che, come questa Corte ha già avuto più volte
modo di osservare analogamente a quella - altra e diversa ma concorrente - ex artt. 1341 e 1342 c.c., relativa a
contratti unilateralmente predisposti da un contraente
in base a moduli o formulari in vista dell’utilizzazione
per una serie indefinita di rapporti (v. Cass., 20 marzo
2010, n. 6802), la disciplina di tutela del consumatore
posta dal D.Lgs. n. 206 del 2005 - c.d. Codice del consumo - (e già agli artt. 1469 bis c.c. e ss.), che può invero riguardare anche il singolo rapporto, è funzionalmente volta a tutelare il consumatore a fronte della unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso, sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale, nella sua fondamentale espressione
rappresentata dalla libertà di determinazione del contenuto del contratto. Con conseguente alterazione, su un
piano non già solamente economico, della posizione paritaria delle parti contrattuali idoneo a ridondare, mediante l’imposizione del regolamento negoziale unilateralmente predisposto, sul piano dell’abusivo assoggettamento di una di esse (l’aderente) al potere (anche solo
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di mero fatto) dell’altra (il predisponente) (v. Cass., 26
settembre 2008, n. 24262).
Evidente è pertanto come, sia mediante la unilaterale
predisposizione di moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti sia in occasione della stipulazione di un singolo contratto redatto
per uno specifico affare, mediante l’unilaterale predisposizione ed imposizione del relativo contenuto negoziale
il professionista può invero affermare la propria autorità
(di fatto) contrattuale sul consumatore.
La lesione dell’autonomia privata del consumatore, riguardata sotto il segnalato particolare aspetto della libertà di determinazione del contenuto dell’accordo,
fonda allora sia nell’una che nell’altra ipotesi l’applicazione della disciplina di protezione in argomento (v.
Cass., 20 marzo 2010, n. 6802).
Nel che si coglie la pregnanza e la specificità del relativo portato.
A precludere l’applicabilità della disciplina di tutela del
consumatore in argomento è invero necessario che ricorra il presupposto oggettivo della trattativa ex art. 34,
comma 4 D.Lgs. n. 206 del 2005 (v. Cass., 20 marzo
2010, n. 6802; Cass., 26 settembre 2008, n. 24262).
Trattativa la cui sussistenza è pertanto da considerarsi
un prius logico rispetto alla verifica della sussistenza del
significativo squilibrio in cui riposa l’abusività della
clausola o del contratto (v. Cass., 20 marzo 2010, n.
6802; Cass., 26 settembre 2008, n. 24262. Cfr. altresì
Cass., 28 giugno 2005, n. 13890).
In presenza di accordo frutto (in tutto o in parte) di
trattativa, l’accertamento giudiziale in ordine all’abusività delle clausole contrattuali rimane viceversa (in tutto o in parte) precluso, quand’anche l’assetto di interessi realizzato dalle parti risulti significativamente squilibrato a danno del consumatore.
La preclusione discende infatti in tal caso non già dalla
non vessatorietà della clausola, o del contratto fatti oggetto di specifica trattativa, bensì dalla inconfigurabilità
della loro unilaterale predisposizione ed imposizione,
quali (possibili) fonti di abuso nella vicenda di forma-
zione del contratto (v. Cass., 20 marzo 2010, n. 6802;
Cass., 26 settembre 2008, n. 24262).
Perché l’applicazione della disciplina di tutela del consumatore in questione possa considerarsi preclusa, la
trattativa deve non solo essersi storicamente svolta ma
altresì risultare caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà, effettività (v. Cass., 26 settembre 2008,
n. 24262).
Il requisito della effettività in particolare si sostanzia
non solo nel senso di libertà di concludere il contratto
ma anche nel suo significato di libertà e concreta possibilità - anche - per il consumatore di determinare il
contenuto del contratto (v. Cass., 26 settembre 2008,
n. 24262).
Emerge evidente, a tale stregua, da un canto, come risulti al riguardo erroneo l’assunto (al di là della relativa
intrinseca bontà o meno) del giudice di merito secondo
cui non sussisterebbe il significativo squilibrio tra le
parti che fonda le esigenze di tutela del consumatore allorquando come asseritamente nella specie a carico del
consumatore sussista solamente un modesto “rischio” in
ragione della “scarsa entità della posta giocata” dallo
scommettitore, a fronte di vincite enormemente superiori, di tal che non può applicarsi il foro esclusivo del
consumatore”. Per altro verso, come il c.d. foro del consumatore sia un foro esclusivo e speciale, e pertanto prevalente rispetto ai fori individuati mediante i criteri posti dagli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. (potendo essere derogato
solo a vantaggio e non svantaggio del consumatore: v.
Cass., 8 febbraio 2012, n. 1875, e, da ultimo, Cass., 3
aprile 2013, n. 8167).
Atteso che nella specie trova invero applicazione il
D.Lgs. n. 206 del 2005 (c.d. Codice del consumo), giacché il D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 2 (recante allo stesso
modifiche) ha in ogni caso riguardo ai contratti a distanza conclusi dopo il 13 giugno 2014, in accoglimento
del 1 motivo, assorbito ogni altro e diverso profilo, va
nella specie dichiarata la competenza per territorio del
Tribunale di Fermo, quale foro del consumatore.
(omissis).
Codice del consumo e gioco d’azzardo legale:
la Cassazione fissa i paletti per estendere la disciplina
del consumatore allo scommettitore
di Vito Amendolagine
La Cassazione - con la pronuncia in epigrafe - per la prima volta estende la tutela del consumatore al gioco d’azzardo legalmente autorizzato, gestito direttamente dallo Stato o dai suoi concessionari, trattandosi di una disciplina funzionale alla tutela del giocatore-consumatore a fronte
della unilaterale predisposizione ed imposizione del regolamento di gioco, assimilabile ad un
contratto per adesione, quale possibile fonte di abuso, sulla scorta della preclusione per il medesimo scommettitore-consumatore della possibilità di esplicare la propria libertà nella determinazione del contenuto del suddetto contratto aleatorio.
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Diritto civile
Il caso
tà di determinazione del contenuto dell’accordo, la
cui compressione rende legittima l’applicazione
della disciplina di protezione del consumatore.
In conclusione, nell’ordinanza in commento, per la
Cassazione si rivela palesemente erroneo l’assunto
sposato dal giudice di merito secondo cui non potrebbe applicarsi il foro esclusivo del consumatore (1) allorquando a carico del giocatore sussista solamente un modesto rischio in ragione della scarsa
entità della posta giocata dal medesimo scommettitore, a fronte della possibilità di vincite enormemente superiori.
La fattispecie introdotta ex art. 42 c.p.c. all’esame
della S.C. riguarda la quaestio juris se debba trovare
o meno applicazione il foro del consumatore alla figura del giocatore in relazione alla domanda proposta nei confronti della S.NA.I. S.p.a. di condanna
al pagamento di somme a titolo di vincita del jackpot, ed in particolare, se al medesimo possa riconoscersi la qualifica di consumatore per beneficiare
della tutela garantita dalla vigente normativa di
cui al D.Lgs. n. 206/2005.
Sull’argomento si sono espressi in senso contrario
il giudice di merito avendo escluso l’applicabilità
del foro del consumatore ed il Procuratore Generale della Cassazione che nella propria requisitoria
ha chiesto il rigetto del ricorso per regolamento di
competenza assumendo l’inapplicabilità del foro
del consumatore.
La Cassazione accoglie il ricorso ritenendo non
condivisibile l’orientamento interpretativo accolto
nell’impugnato provvedimento, secondo cui il gioco delle video lotterie è fuori della tutela del consumatore in quanto presuppone la ludopatia, pratica, per sua natura, contraria alla categoria di un
educato consumo nonché alla tutela della salute,
assumendo che il fenomeno del gioco e della scommessa ha ormai raggiunto una diffusione e una rilevanza sociale.
In particolare, l’attività posta in essere dalla società
concessionaria delle video lotterie va propriamente
qualificata come prestazione di servizi ex art. 49
Trattato CE, con la conseguente applicazione della
disciplina di tutela dei consumatori, atteso che la
disciplina posta dal D.Lgs. n. 206/2005, è funzionalmente volta a tutelare il consumatore a fronte
della unilaterale predisposizione ed imposizione del
contenuto contrattuale da parte del professionista,
quale possibile fonte di abuso.
Conseguentemente, nella fattispecie qui considerata, premesso che il regolamento del gioco deve ritenersi noto ed accettato dai singoli giocatori-contraenti, sia pure implicitamente con l’acquisto del
biglietto, appare evidente la lesione dell’autonomia
privata del giocatore sotto l’aspetto della sua liber-
In ambito nazionale e comunitario non esiste una
pregiudiziale nei confronti del gioco d’azzardo in
quanto tale ove non sfugga al controllo degli organismi statali e non si esponga alle infiltrazioni criminali, atteso che per venire incontro ad esigenze
erariali l’area del gioco autorizzato si è progressivamente estesa sin o a ricomprendere ogni forma di
lotteria o scommessa autorizzata.
Ciò comporta con particolare riferimento all’art. 4,
L. n. 401/1989, la quale sanziona l’esercizio abusivo
di giochi e scommesse, che laddove le autorità di
uno Stato membro inducano ed incoraggino i consumatori a partecipare alle lotterie, ai giuochi d’azzardo o alle scommesse affinché il pubblico erario
ne benefici sul piano finanziario, le medesime
autorità di tale Stato non possono invocare l’ordine pubblico sociale con riguardo alla necessità di
ridurre le occasioni di giuoco (2).
Non a caso nella sentenza in commento si dà atto
che la Corte di Giustizia ha ricondotto la raccolta
di scommesse nell’ambito di applicazione dell’art.
49 Trattato CE, ponendo in rilievo come le attività che consentono agli utilizzatori di partecipare,
dietro corrispettivo, a un gioco d’azzardo costituiscono prestazione di servizi ai sensi dell’art. 49
CE (3).
Conseguentemente, premesso che gli Stati membri
sono liberi di fissare gli obiettivi della loro politica
in materia di giochi d’azzardo (4) ed eventualmen-
(1) Sul carattere di esclusività e specialità del c.d. foro del
consumatore come tale, prevalente rispetto ai fori ulteriormente individuati mediante i criteri posti agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c.
potendo essere derogato solo a vantaggio e non svantaggio
del consumatore cfr. Cass. 8 febbraio 2012, n. 1875, in Mass.
Giust. civ., 2012, 143; Cass. 3 aprile 2013, n. 8167, in www.iusexplorer.it.
(2) Cfr. Corte di giustizia 6 novembre 2003, n. 243, in Giust.
civ., 2004, I, 2529.
(3) Corte di giustizia, 21 ottobre 1999, n. C-67/98, Zerratti;
Corte di giust. 24 marzo 1994, n. C-275/92, Schindler.
(4) Posto che la disciplina dei giochi d’azzardo rientra nei
settori in cui sussistono tra gli Stati membri divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale, si è osservato
come in tali settori spetti a ciascuno Stato membro stabilire la
tutela di quali interessi, tra quelli coinvolti, privilegiare, cfr.
Cass. 27 settembre 2012, n. 16511, in Giust. civ., 2012, I,
2263.
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L’orientamento formatosi nella
giurisprudenza comunitaria
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te, di definire il livello di protezione perseguito,
per quanto riguarda la loro proporzionalità, le
eventuali restrizioni devono comunque rispettare i
principi elaborati in materia dalla giurisprudenza
comunitaria (5).
Del resto, anche la considerazione dell’ordine pubblico interno (6) non si può prescindere dal considerare la valutazione delle norme imperative interne alla luce delle norme costituzionali e dei principi propri del diritto europeo (7), in ordine al gioco
gestito direttamente dallo Stato o dai suoi concessionari, laddove difettino particolari motivazioni (8) risultando elise le ragioni di sicurezza sociale,
dovendo trovare applicazione le ordinarie norme
poste a tutela dell’esercizio dell’impresa nonché
delle ragioni creditorie, che sorte in un contesto di
ordinaria liceità, non possono essere disattese, laddove in particolare risultino sorrette da fondamentali e condivisi principi, riferibili alla libertà dei
mercati ed alla responsabilità patrimoniale del debitore (9).
(5) Sul necessario rispetto del primato del diritto comunitario cfr. Cass., SS.UU., 5 febbraio 2013, n. 2595, in www.iusexplorer.it.
(6) Il concetto di ordine pubblico italiano consiste nel complesso dei principi cardine dell’ordinamento giuridico, i quali
caratterizzano la stessa struttura etico-sociale della comunità
nazionale in un determinato momento storico, conferendole
una individuata ed inconfondibile fisionomia, nonché nelle regole inderogabili, provviste del connotato della fondamentalità, che le distingue dal più ampio genere delle norme imperative, immanenti ai più importanti istituti giuridici, ivi compresi i
principi desumibili dalla Carta costituzionale.
(7) Cass. 26 novembre 2004, n. 22332, in www.iusexplorer.it; Cass. 11 novembre 2000, n. 14662, in Giust. civ., 2001, I,
2719.
(8) Come nel caso della lotta alla criminalità che può costituire un motivo imperativo di interesse generale al fine di giustificare restrizioni nei confronti degli operatori autorizzati a
proporre servizi nel settore del gioco d’azzardo, atteso che in
considerazione della rilevanza delle somme che essi possono
raccogliere e delle vincite che possono offrire ai giocatori, tali
giochi comportano rischi elevati di reati e di frodi, sicché i limiti che, nel rispetto del principio di sussidiarietà, gli Stati membri possono al riguardo stabilire trovano fondamento nell’esigenza non già di contrasto della domanda e dell’offerta di gioco e di scommessa bensì di tutela dell’ordine pubblico e di esigenze imperative di interesse generale, al fine di esercitare un
controllo preventivo e successivo, volto da un canto a prevenirne la degenerazione criminale, e per altro verso a massimizzare gli introiti fiscali da essi derivanti, attenendo pertanto allo
scopo di tutela dei consumatori contro il rischio di dipendenza,
di frode e di criminalità. In tale senso cfr. Corte di Giustizia 8
settembre 2009, n. 42, emessa a seguito di domanda di pronuncia pregiudiziale di Tribunale portoghese di prima istanza
di Porto, in cui premesso che l’art. 49 CE impone l’eliminazione di qualsiasi restrizione alla libera prestazione di servizi, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri, quando sia tale da vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi, e che della libertà di prestazione di servizi beneficia tanto il prestatore quanto il destinatario dei servi-
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Quando è esclusa l’applicazione della tutela
del consumatore nel gioco autorizzato
dallo Stato?
La Cassazione per la prima volta (10), disegna il
perimetro al di fuori del quale l’applicazione della
disciplina di tutela del consumatore può considerarsi preclusa, individuandolo allorquando esista
una trattativa ex art. 34, comma 4, D.Lgs. n.
206/2005 (11) che deve non solo essersi storicamente svolta ma altresì risultare caratterizzata dai
requisiti della individualità, serietà ed effettività,
inteso quest’ultimo nel suo significato di libertà e
concreta possibilità anche per il giocatore-consumatore di concorrere alla determinazione del contenuto del contratto.
I giudici di legittimità precisano quindi che soltanto in presenza di un accordo frutto di trattativa,
l’accertamento giudiziale in ordine all’abusività
delle clausole contrattuali rimarrebbe precluso,
quand’anche l’assetto di interessi realizzato dalle
zi, ha affermato che, a fronte di una restrizione alla libera prestazione di servizi garantita dall’art. 49 CE, occorre esaminare
in quale misura la restrizione stessa possa essere ammessa
sulla base delle misure derogatorie espressamente previste
dagli artt. 45 CE e 46 CE, applicabili in materia a norma dell’art. 55 CE, ovvero possa essere giustificata, conformemente
alla giurisprudenza comunitaria, da motivi imperativi di interesse generale.
(9) Cass. 27 settembre 2012, n. 16511, cit.
(10) Nel senso che il debitore/ricevitore della giocata, il quale voglia andare esente da responsabilità, pur in presenza di
una clausola che limita la responsabilità al dolo e alla colpa
grave, ha l’onere di provare che l’inadempimento o l’inesatto
adempimento è dipeso da causa a lui non imputabile e, cioè,
al di fuori del suo potere di controllo, oppure che la sua attività
od inattività, in rapporto causale con la mancanza o l’inesattezza dell’adempimento, concreta una colpa lieve, anziché grave o dolosa, fermo restando che al creditore/scommettitore
che chieda il risarcimento del danno per l’inadempimento del
ricevitore spetta la prova della mancata od inesatta esecuzione
della prestazione oltre che del danno di cui reclama il ristoro,
cfr. Cass. 29 maggio 2013, n. 13434, in Guida dir., 2013, 32,
48; Cass. 16 febbraio 2010, n. 3588, in www.iusexplorer.it;
Cass. 13 aprile 2007, n. 8859, in www.iusexplorer.it; Cass. 5
marzo 2007, n. 5062, in Guida dir., 2007, 18, 75; Cass. 31 luglio 2006, n. 17458, in www.iusexplorer.it. nel senso che è
onere del giocatore/creditore provare la colpa grave o il dolo
del ricevitore/creditore cfr. Cass. 16 novembre 1998, n. 11533,
in Mass. Giust. civ., 1998, 2358; Cass. 28 maggio 1977, n.
2194, in Mass. Foro it., 1977, 433; Cass. 13 luglio 1968, n.
2487 in Mass. Giur. it., 1968, 905; Cass. 18 giugno 1968, n.
1992, ivi, 710.
(11) Cass. 20 marzo 2010, n. 6802, in Foro it., 2010, I,
2442, in cui si precisa altresì che la disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del Consumo prescinde dal tipo
contrattuale dalle parti posto in essere e dalla natura della prestazione oggetto del contratto, trovando applicazione sia in caso di predisposizione di moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti che di contratto singolarmente predisposto per uno specifico affare; Cass. 26 settembre 2008, n. 24262, in Giust. civ., 2009, I, 981.
1069
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parti risulti significativamente squilibrato a danno
del consumatore, in quanto, la preclusione discenderebbe in tal caso non già dalla non vessatorietà
della clausola o del contratto oggetto di trattativa,
bensì dalla inconfigurabilità della loro unilaterale
predisposizione ed imposizione, quali possibili fonti
di abuso nella formazione del contratto.
Il foro del consumatore è sempre
inderogabile?
È stato più volte affermato che ai fini della deroga
del foro del consumatore la specifica approvazione
per iscritto ex art. 1341, comma 2, c.c. è di per sé
non esaustiva (12), stante la diversità degli ambiti
soggettivi ed oggettivi di applicazione di tale disciplina rispetto a quella dettata all’art. 1469 bis c.c.
ss., poi riversata nel c.d. Codice del consumo.
Ad escludere la vessatorietà della clausola di deroga del foro del consumatore non è invero sufficiente la previsione di un foro coincidente con uno dei
fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c. (13).
Ciò premesso, va sottolineato che l’inderogabilità
assoluta del foro del consumatore contrasta in realtà con la disciplina desumibile sulla scorta dell’interpretazione sistematica e funzionale dell’art. 63,
D.Lgs. n. 206/2005 di tutela del consumatore.
Infatti l’art. 63 del D.Lgs. n. 206/2005, applicabile
sia ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali - così come ai contratti negoziati a distanza,
che ai contratti relativi a strumenti finanziari, in
quanto l’art. 46 esclude invero l’applicabilità ai
medesimi delle sole norme di cui alla sezione I e
non anche quelle di cui alla Sezione III cui esso
accede - stabilisce che per le controversie civili la
competenza territoriale inderogabile è del giudice
del luogo di residenza o di domicilio del consumatore, se ubicati nel territorio dello Stato.
A tale stregua, è stato osservato (14) come risulta
ivi posta un’eccezione alla disciplina dettata, nell’ambito dello speciale sistema di tutela del consumatore, nella parte generale di cui al Titolo I artt.
33 - 38 del D.Lgs. n. 206/2005, ed in particolare
all’art. 33, comma 1, lett. u), che si sostanza nell’inderogabilità unilaterale da parte del professionista del foro del consumatore, che ai sensi del citato
(12) Cfr. Cass. 20 marzo 2010, n. 6802, cit.; Cass. 26 settembre 2008, n. 24262, cit.
(13) Cfr. Cass. 26 aprile 2010, n. 9922, in Mass. Giust. civ.,
2010, 609; Cass. 26 settembre 2008, n. 24262, cit.; Cass. 23
febbraio 2007, n. 4208, in Foro it., 2007, I, 2439; Cass. 8 marzo
2005, n. 5007, in Giur. it., 2005, 2040.
(14) Cass. 3 aprile 2013, n. 8167, in www.iusexplorer.it;
1070
art. 33, D.Lgs. n. 206/2005, è viceversa possibile
laddove, assolvendo all’onere della prova a suo carico, il medesimo vinca la presunzione di relativa
vessatorietà, dimostrando che la deroga al foro del
consumatore nello specifico caso concreto non determina un abusivo squilibrio ex art. 33, comma 1,
D.Lgs. n. 206/2005 a danno del consumatore (15).
Come si evince dal tenore dell’art. 38, D.Lgs. n.
206/2005 deve allora ritenersi in tale ipotesi applicabile la nullità delle sole clausole vessatorie od
abusive del contratto che rimane valido per il resto, trattandosi di nullità di protezione operante
solamente a vantaggio del consumatore (16).
Ne consegue che ove il consumatore ravvisi maggiormente rispondente al proprio interesse non avvalersi dello speciale foro del consumatore, deve ritenersi al medesimo senz’altro consentito derogarvi, anche unilateralmente, con l’adire un giudice
territorialmente competente in base ad uno dei criteri posti dagli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., ovvero quello indicato nel contratto, rimanendo da siffatta sua
scelta comunque non scalfita l’esigenza di tutela
contro l’unilaterale predisposizione ed imposizione
del contenuto contrattuale da parte del professionista che la disciplina in argomento è funzionalmente volta a garantire (17), anche relativamente alle
esigenze del mercato, non prospettandosi in tale
ipotesi il giudizio di dannosità sociale sotteso alla
sanzione di nullità prevista dall’art. 36, comma 1,
D.Lgs. n. 206/2005.
Conclusioni
Il Collegio con la pronuncia che si annota, supera
l’orientamento interpretativo accolto nell’impugnato provvedimento, secondo cui il gioco delle
video lotterie sarebbe fuori della tutela del consumatore in quanto presuppone la ludopatia e sarebbe pertanto una pratica, per sua natura, contraria
alla categoria di un educato consumo nonché alla
tutela della salute, ritenendolo non condivisibile
alla luce dei successivi mutamenti intervenuti nella
legislazione in un’ottica di superamento della cd.
tripartizione classica - che suddivideva i giochi in
pienamente tutelati, vietati e tollerati - ormai non
più attuale.
Cass. 8 febbraio 2012, n. 1875, in Mass. Giust. civ., 2012, 143.
(15) Cass. 20 agosto 2010, n. 18785, in Mass. Giust. civ.,
2010, 1201; Cass. 20 marzo 2010, n. 6802, cit.; Cass. 26 settembre 2008, n. 24262, cit.
(16) Cfr. Cass. 26 settembre 2008, n. 24262, cit.
(17) Cass. 26 settembre 2008, n. 24262, cit.
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Con riferimento poi alla categoria dei giochi legalmente autorizzati e pienamente tutelati - la cui
l’attività è posta in essere dalla società concessionaria delle video lotterie, propriamente qualificata
come prestazione di servizi ex art. 49 Trattato CE va altresì evidenziato il rilievo che ulteriormente
assume lo specifico riferimento alla tutela dei consumatori e degli utenti dei servizi di gioco d’azzardo
on line contenuto nella Raccomandazione della
Commissione del 14 luglio 2014 (18), nonché la finalità di garantire che ai consumatori sia garantito
un ambiente di gioco sicuro e che siano previste
misure per fare fronte al rischio di danni finanziari
o sociali, come pure i termini e le condizioni del
rapporto contrattuale tra l’operatore ed il consumatore.
È infatti evidente come trattasi di elementi favorevoli all’applicazione della disciplina di tutela dei
consumatori ai contratti aleatori come quello proprio della fattispecie di cui si discute.
Quindi, tirando le fila del discorso sin qui condotto, la Corte di legittimità conferma l’interpretazione sistematica e funzionale dell’art. 33 ss. del Codice del consumo, ed in particolare degli artt. 34,
commi 4 e 5 incombendo al professionista dare la
prova che la clausola contrattuale contenente la
deroga al foro del consumatore di cui all’art. 33,
comma 2, lett. u), D.Lgs. n. 206/2005, è stata oggetto di specifica trattativa, caratterizzata dagli indefettibili requisiti della individualità, serietà ed effettività; ovvero di dare prova idonea a vincere la
presunzione di vessatorietà (19) della clausola medesima, dimostrando che, valutata singolarmente
ed in connessione con le altre clausole di cui si
compendia il contenuto del contratto, nello specifico caso concreto essa non determina un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti
dal contratto, in cui ai sensi dell’art. 33, D.Lgs. n.
206/2005, comma 1, esclusivamente si sostanzia la
vessatorietà della clausola o del contratto di cui si
discorre (20).
(18) Si tratta del documento di lavoro dei servizi della commissione, sintesi della valutazione d’impatto che accompagna il
documento Raccomandazione della commissione sui principi
per la tutela dei consumatori e degli utenti dei servizi di gioco
d’azzardo on line e per la prevenzione dell’accesso dei minori ai
giochi d’azzardo on line, reperibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/internal_market/gambling/docs/initiatives/140714-executive-summary-of-ia_it.pdf.
(19) Ovviamente va altresì considerato che l’onerosità ex
art. 1341, comma 2, c.c. attiene ai contratti unilateralmente
predisposti da un contraente in base a moduli o formulari in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti, e che
la disciplina dell’art. 1341 e ss. c.c. è altra e diversa rispetto a
quella posta dal Codice del consumo.
(20) In difetto di prova della trattativa, nonché in difetto di
prova idonea a vincere la presunzione di relativa vessatorietà,
la clausola di deroga del foro del consumatore è nulla, anche
laddove il foro indicato come competente risulti coincidente
con uno dei fori legali di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.c.
il Corriere giuridico 8-9/2016
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Diritto civile
Trattamento dei dati personali
Tribunale di Roma, Sez. I, 3 dicembre 2015 - Giud. Colla - S.F. (avv. Galloni) - Google Inc. (avv.ti Berliri, Masnada, Staccioli)
La possibilità di esercitare il diritto all’oblio va esclusa con riguardo alla posizione di un soggetto che, esercitando una professione regolamentata, riveste un ruolo importante nella vita pubblica.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Corte UE 13 maggio 2014, C-131/12
Difforme
Cass. 5 marzo 2012, n. 5525
Il Tribunale (omissis).
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con ricorso depositato il 17 dicembre 2014 il ricorrente, avvocato, ha convenuto in giudizio la società resistente chiedendo, sul presupposto dell’esistenza di un
diritto all’oblio, la deindicizzazione di quattordici links
risultanti da una ricerca a proprio nome, S. F., effettuata tramite il motore di ricerca Google, meglio elencati
nell’atto introduttivo, nei quali era contenuto il riferimento ad una risalente vicenda giudiziaria nella quale
era rimasto coinvolto senza che fosse mai stata pronunciata alcuna condanna, con condanna della controparte
al risarcimento del danno derivante dall’illegittimo trattamento dei suoi dati personali, da quantificarsi nella
misura non inferiore ad euro 1.000,00.
La società resistente si è costituita eccependo la nullità
dell’avverso atto introduttivo ed evidenziando, preliminarmente, la cessazione della materia del contendere relativamente a quattro URL in contestazione (non comparendo gli stessi al momento della costituzione tra i risultati di ricerca e comunque corrispondendo a pagine
web prive di contenuti); ha comunque sostenuto nel
merito l’inesistenza del diritto all’oblio rivendicato da
controparte in relazione alla notizia oggetto di doglianza, con particolare riferimento all’irrilevanza dell’asserita erroneità delle notizie, all’assenza del requisito del
trascorrere del tempo, oltre che al ruolo dell’interessato
nella vita pubblica.
Ha quindi concluso chiedendo il rigetto dell’avversa domanda, anche sotto il profilo del risarcimento del danno, con vittoria di spese.
Alla prima udienza del 9.6.2015 la causa, ritenuta matura per la decisione, è stata rinviata al 10.11.2015 per la
discussione, con lettura del dispositivo all’esito della camera di consiglio.
Deve premettersi l’infondatezza dell’eccepita nullità dell’atto introduttivo per indeterminatezza della domanda,
in considerazione della intelligibilità dei relativi petitum
e causa petendi, tanto da consentire al giudice di pronunciarsi sulla richiesta di deindicizzazione ed alla resistente di difendersi adeguatamente, vista la consistente
1072
memoria di costituzione prodotta, unitamente alla pertinente produzione documentale effettuata.
Occorre inoltre preliminarmente evidenziare che effettivamente dei quattordici url in contestazione solo dieci
allo stato ancora rientrano tra i risultati della ricerca a
nome dell’odierno ricorrente, per come correttamente
indicato nella memoria di costituzione, con la conseguente esclusione dei predetti dall’effettuata richiesta di
deindicizzazione.
Quanto agli altri URL, nel merito, la domanda non è
fondata e deve essere respinta per le ragioni che seguono.
Tutti i links ancora rinvenibili sul motore di ricerca
Google a nome di S. F. contengono il riferimento a notizie di cronaca circa una vicenda giudiziaria in cui il
medesimo sarebbe rimasto coinvolto nel 2012/2013 unitamente ad altri personaggi romani, alcuni esponenti
del clero ed altri ricondotti alla criminalità della cd.
banda della Magliana, relativamente a presunte truffe e
guadagni illeciti realizzati dal sodalizio criminoso.
Ebbene, l’odierna vicenda deve essere correttamente inquadrata nel trattamento dei dati personali e nel cd. diritto all’oblio, configurabile quale peculiare espressione
del diritto alla riservatezza (privacy) e del legittimo interesse di ciascuno a non rimanere indeterminatamente
esposto ad una rappresentazione non più attuale della
propria persona derivante dalla reiterata pubblicazione
di una notizia (ovvero nella specie il permanere della
sua indicizzazione sui motori di ricerca), con pregiudizio
alla propria reputazione e riservatezza (attesa l’attenuazione dell’attualità della notizia e dell’interesse pubblico
all’informazione con il trascorrere del tempo dall’accadimento del fatto).
Quest’ultimo, ove ritenuto sussistente, impedisce il protrarsi del trattamento stesso (e quindi l’indicizzazione,
con la conseguente fondatezza della domanda di deindicizzazione nei confronti del gestore del motore di ricerca), per come risultante anche dalla recente pronuncia
in materia resa dalla Corte di Giustizia Europea (Grande
Sezione del 13 maggio 2014 nella causa C-131/12, sentenza Costeja), oltre che dalle, conformi, successive decisioni del Garante per la protezione dei dati personali.
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Secondo la citata pronuncia, in sintesi, gli utenti - in
caso di ricerca nominativa su Google - non possono ottenere dal gestore del motore di ricerca la cancellazione
dai risultati di una notizia che li riguarda se si tratta di
un fatto recente e di rilevante interesse pubblico: il diritto all’oblio, infatti, deve essere bilanciato, ad avviso
della corte, con il diritto di cronaca e con l’interesse
pubblico alla conoscenza dei fatti acquisibili per il tramite dei links forniti dal motore di ricerca.
Ad avviso della Corte “occorre ricercare, in situazioni
quali quelle oggetto del procedimento principale, un giusto equilibrio segnatamente tra tale interesse e i diritti
fondamentali della persona di cui trattasi derivanti dagli
articoli 7 e 8 della Carta. Se indubbiamente i diritti della
persona interessata tutelati da tali articoli prevalgono, di
norma, anche sul citato interesse degli utenti di Internet,
tale equilibrio può nondimeno dipendere, in casi particolari, dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo
carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta, nonché dall’interesse del pubblico a disporre di tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda
del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica”.
In altri termini, “dato che l’interessato può, sulla scorta
dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli articoli 7 e 8
della Carta, chiedere che l’informazione in questione
non venga più messa a disposizione del grande pubblico
in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico
del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse
di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in
occasione di una ricerca concernente il nome di questa
persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse,
per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale
persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante
del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi”.
Ed ancora “i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono,
in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico a trovare l’informazione suddetta in
occasione di una ricerca concernente il nome di questa
persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse,
per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale
persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante
del pubblico suddetto ad avere accesso, mediante l’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi”.
Solo in alcuni casi pertanto, prosegue la pronuncia, la
persona interessata può “esigere dal gestore di un motore di ricerca che questi sopprima dall’elenco di risultati,
che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire
dal nome di questa persona, dei link verso pagine web
legittimamente pubblicate da terzi e contenenti informazioni veritiere riguardanti quest’ultima, a motivo del
fatto che tali informazioni possono arrecarle pregiudizio
o che essa desidera l’”oblio” di queste informazioni dopo
un certo tempo”.
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È dunque necessario, spiega la Corte, “verificare in particolare se l’interessato abbia diritto a che l’informazione riguardante la sua persona non venga più, allo stato
attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati
che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire
dal suo nome”.
La pronuncia citata ha quindi previsto l’obbligo, per un
motore di ricerca (nel caso di specie, Google), di rimuovere dai propri risultati (cd. “deindicizzazione”) i link a
quei siti che siano ritenuti dagli interessati lesivi del loro
“diritto all’oblio” (o “right to be forgotten”), in relazione
alla pretesa a ottenere la cancellazione dei contenuti delle pagine web che, secondo l’interessato, offrono una rappresentazione non più attuale della propria persona.
Nel caso in cui il motore di ricerca non accolga la richiesta, l’interessato potrà rivolgersi all’autorità nazionale per la protezione dei dati personali o all’autorità
giudiziaria.
Il 26 novembre 2014 l’Article 29 Data Protection Working Party (organo consultivo indipendente istituito in
conformità all’articolo 29 della Direttiva 95/46/CE sulla
protezione dei dati personali) ha pubblicato delle linee
guida per l’implementazione della menzionata pronuncia della Corte di Giustizia (causa C-131/12), le quali
per quel che qui specificamente interessa contengono
una serie di criteri per orientare l’attività delle autorità
nazionali nella gestione dei reclami degli interessati a
seguito del mancato accoglimento, da parte del motore
di ricerca, delle richieste di deindicizzazione, chiarendo
che nessun criterio è di per sé determinante. Tra di essi,
figura in primo luogo quello della natura del richiedente
(in particolare, la circostanza per cui il richiedente rivesta un ruolo di rilievo pubblico, come nel caso di personaggi politici, dovrebbe tendenzialmente orientare verso il diniego della richiesta di deindicizzazione).
I principi esposti dalla riportata pronuncia e contenuti
nelle linee guida emanate dal WP29 nello scorso mese
di novembre sono stati infine integralmente recepiti dal
Garante Privacy nelle decisioni rese successivamente ad
essa (cfr., ad esempio, decisione n. 618 del 18 dicembre
2014 e n. 153 del 12 marzo 2015, quest’ultima prodotta
dalla stessa parte resistente agli atti del giudizio).
Nella decisione n. 618/2014 ad esempio il Garante ha
respinto il ricorso di una persona che contestava la decisione del motore di ricerca di non deindicizzare un articolo che riferiva di un’inchiesta giudiziaria in cui risultava implicata osservando che il trattamento dei dati
personali del ricorrente era avvenuto in origine per finalità giornalistiche secondo quanto previsto dagli artt.
136 ss. del Codice, nonché dalle disposizioni contenute
nel “Codice di deontologia relativo al trattamento dei
dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”
(allegato A del Codice medesimo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 agosto 1998) ed era stato effettuato
lecitamente e nel rispetto del principio di essenzialità
dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico
relativi ad una vicenda giudiziaria recente e di indubbio
interesse pubblico, soprattutto nell’ambito locale in cui
si sono verificati i fatti descritti, non sussistendo quindi
i presupposti riconosciuti dalla Corte di Giustizia euro-
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pea nella sentenza del 13 maggio 2014 per l’esercizio
del diritto all’oblio, anche in considerazione del fatto
che i medesimi risultavano essere assolutamente recenti,
oltre che di pubblico interesse.
Ancora, nella seconda, è stato evidenziato che il diritto
all’oblio, “anche ove sussista il suo principale elemento
costitutivo, ovvero il trascorrere del tempo, incontra un
limite quando le informazioni in questione sono riferite
al ruolo che l’interessato riveste nella vita pubblica con
conseguente prevalenza dell’interesse della collettività ad
accedere alle stesse rispetto al diritto dell’interessato alla
protezione dei dati” e sono state inoltre richiamate le
predette linee guida nella parte in cui è individuato tra i
criteri per la disamina delle richieste di deindicizzazione
da parte dei motori di ricerca quello del ruolo dell’interessato nella vita pubblica e quello della natura pubblica
o privata delle informazioni allo stesso riferite (è stata infatti rigettata, nella richiamata prospettiva, la richiesta
essendo le notizie state pubblicate in un arco temporale
compreso tra il 2010 ed il 2012, risultate ad avviso del
Garante recenti ed ancora di pubblico interesse in quanto riguardanti un’importante indagine giudiziaria non ancora conclusa, nell’ambito della quale i profili attinenti a
momenti passati assumevano rilievo alla luce dell’attività
professionale esercitata dall’istante).
Alla luce dei principi emersi dalle menzionate pronunce,
oltre che dalle riportate linee guida, deve ritenersi che le
notizie individuate tramite il motore di ricerca risultano,
nella specie, piuttosto recenti; invero, il trascorrere del
tempo, ai fini della configurazione del diritto all’oblio, si
configura quale elemento costitutivo, come risultante anche dalla condivisibile sentenza n. 5525/2012 della Suprema Corte, nella quale questo viene configurato quale
diritto “a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino oramai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati”, presupposto nella specie assolutamente insussistente, risalendo i
fatti al non lontano 2013 (o al più al luglio 2012, secondo due dei risultati della ricerca) ed essendo pertanto gli
stessi ancora attuali.
Del resto, la medesima appare di sicuro interesse pubblico, riguardando un’importante indagine giudiziaria che
ha visto coinvolte numerose persone, seppure in ambito
locale-romano, verosimilmente non ancora conclusa,
stante la mancata produzione da parte dell’istante di documentazione in tal senso (archiviazioni, sentenze favorevoli...).
I dati personali riportati risultano quindi trattati nel
pieno rispetto del principio di essenzialità dell’informazione.
Né può in questa sede il ricorrente dolersi della falsità
delle notizie riportate dai siti visualizzabili per effetto
della ricerca a suo nome, non essendo configurabile alcuna responsabilità al riguardo da parte del gestore del
motore di ricerca (nella specie Google), il quale opera
unicamente quale “caching provider” ex art. 15 d.lgs. n.
70/2003: in tale prospettiva pertanto il medesimo
avrebbe dovuto agire a tutela della propria reputazione
e riservatezza direttamente nei confronti dei gestori dei
siti terzi sui quali è avvenuta la pubblicazione del singolo articolo di cronaca, qualora la predetta notizia non
sia stata riportata fedelmente, ovvero non sia stata rettificata, integrata od aggiornata coi successivi risvolti dell’indagine, magari favorevoli all’odierno istante (il quale
peraltro deduce di non aver riportato condanne e produce certificato negativo del casellario giudiziale).
Ancora, risulta che l’odierno ricorrente è avvocato in
Svizzera, libero professionista, circostanza che consente di
ritenere che questo eserciti un “ruolo pubblico” proprio
per effetto della professione svolta e dell’albo professionale cui è iscritto, laddove tale ruolo pubblico non è attribuibile al solo politico (cfr. linee guida del 26 novembre
2014) ma anche agli alti funzionari pubblici ed agli uomini d’affari (oltre che agli iscritti in albi professionali).
In conclusione, nell’ottica del sopra menzionato bilanciamento, l’interesse pubblico a rinvenire sul web attraverso il motore di ricerca gestito dalla resistente notizie
circa il ricorrente deve prevalere sul diritto all’oblio dal
medesimo vantato.
(omissis).
Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 31 marzo 2016, n. 152 - Pres. Soro
- Rel. Iannini
La possibilità di esercitare il diritto all’oblio va esclusa con riguardo alla posizione di un soggetto che, in
quanto appartenente ad una formazione terroristica, si è reso protagonista di vicende di particolare importanza storica.
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Corte UE 13 maggio 2014, C-131/12.
Difforme
Cass. 26 giugno 2013, n. 16111.
Il Garante (omissis).
gli avvocati Rosa Conti e Claudia Ruzziconi, ribadendo
Visto il ricorso pervenuto a questa Autorità il 22 dicembre 2015 con il quale XY, rappresentato e difeso da-
le istanze già avanzate a Google ai sensi dell’art. 7 del
1074
d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 “Codice in materia di pro-
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tezione dei dati personali” (di seguito “Codice”) con gli
interpelli preventivi inviati in data 21 maggio 2014 e in
data 4, 13 e 26 novembre 2015, ha chiesto:
- la rimozione di dodici Url e dei relativi stralci dei contenuti ad essi associati (c.d.”snippet”) che vengono restituiti come risultati digitando nella stringa di ricerca il
suo nominativo e che rimandano a vicende di cronaca
in cui è rimasto coinvolto circa XX orsono;
- la rimozione dei suggerimenti di ricerca “ZZ”, “KK”,
“XX”, QQ”, “YY”, “JJ” che vengono visualizzati dalla
funzione di “Completamento automatico”, digitando il
nominativo del ricorrente nella stringa di ricerca;
- la refusione delle spese del presente procedimento;
Preso atto che il ricorrente ha dichiarato che, tra la fine
degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, ha partecipato attivamente al QH e successivamente al QJ, commettendo
diversi reati aggravati dalla matrice terroristica le cui
pene - tra anni in carcere e misure alternative alla detenzione - avrebbe tuttavia finito di scontare nel QK;
Considerato che il ricorrente ha in particolare sostenuto:
- di non essere un personaggio pubblico ma di essere attualmente un libero cittadino che vive dei proventi del
proprio lavoro di QZ;
- che il lungo lasso di tempo trascorso dall’accadimento
dei fatti, il nuovo percorso di vita intrapreso, e l’assenza
di notorietà farebbero venir meno l’interesse pubblico
attuale alla conoscenza delle informazioni indicizzate;
- che tali contenuti sarebbero per il ricorrente “estremamente fuorvianti ed altamente pregiudizievoli” cagionandogli gravi danni dal punto di vista personale e professionale;
Visti gli ulteriori atti d’ufficio e, in particolare: a) la nota del 30 dicembre 2015 con la quale questa Autorità,
ai sensi dell’art. 149, comma 1, del Codice, ha invitato
il titolare del trattamento a fornire riscontro alle richieste dell’interessato, b) il verbale dell’audizione del 19
gennaio 2016 nonché c) la nota del 19 febbraio 2016
con cui è stata disposta, ai sensi dell’art. 149, comma 7,
del medesimo Codice, la proroga del termine per la decisione sul ricorso;
Viste la nota e la memoria rispettivamente inviate in data 11 e 12 gennaio 2016 da Google, rappresentata e difesa dagli avv. Massimiliano Masnada e Marco Berliri, con
le quali la società resistente, nel comunicare la decisione
di non deindicizzare gli URL in questione in ragione della gravità dei fatti contestati al ricorrente, ha rappresentato che, nel caso di specie, non sarebbero sussistenti i
presupposti indicati nella sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea pronunciata il 13 maggio 2014
nella causa C-131/12, (c.d. sentenza Costeja), indicativi
del diritto all’oblio, considerato in particolare che:
- nonostante il decorso del tempo dall’accadimento dei
fatti, sussiste il preponderante interesse pubblico al reperimento di notizie relative ad una delle pagine più
buie della storia italiana, i c.d. “anni di piombo”, nella
quale il ricorrente è entrato a far parte a pieno titolo
macchiandosi di reati di matrice terroristica eversiva
dell’ordine democratico (portando a sostegno, di tali argomentazioni la sentenza del Tribunale di Milano 18
giugno 2015, n. 7610);
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- come del resto riportato anche nelle Linee Guida adottate il 26 novembre 2014, dal Gruppo di lavoro “Articolo 29” (WP 225), il c.d. diritto all’oblio non sussisterebbe
rispetto a “reati più gravi” quali sono i crimini efferati
(YH) di cui si è reso protagonista il ricorrente, il quale è
stato condannato a HZ per l’uccisione di HK; e ciò, nonostante l’interessato abbia finito di scontare la sua pena
(comunque ridotta a seguito dei benefici di legge);
- la professione di QZ esercitata dal ricorrente, (...), assumerebbe rilievo ai fini dell’interesse pubblico alla conoscibilità delle notizie in questione, stante il ruolo nella vita pubblica dallo stesso svolto, e ciò allo scopo di
tutelare il pubblico da eventuali condotte professionali
improprie (le citate Linee Guida, tra i soggetti che ricoprono tale ruolo ha indicato, a titolo esemplificativo,
“politici, alti funzionari pubblici, uomini di affari e professionisti (eventualmente iscritti in albi)”, (come peraltro sembrerebbe avvalorato dalla sentenza del Tribunale di Roma 3 dicembre 2015, n. 23771);
Preso atto che, nella medesima memoria del 12 gennaio
2016, Google ha altresì sostenuto che:
- sarebbe inammissibile la richiesta di rimozione dei
suggerimenti di ricerca visualizzati nella tendina a comparsa del “Completamento automatico”, posto che le
previsioni visualizzate sono il risultato di un software
che rispecchia in modo algoritmico il numero dei termini maggiormente ricercati, in un arco di tempo determinato, insieme alle prime parole chiave digitate nella
stringa di ricerca e non riflette in alcun modo una scelta discrezionale di Google;
- pertanto non risulterebbero applicabili al servizio di
“Completamento automatico” i principi della c.d. sentenza Costeja riferibili esclusivamente all’attività di organizzazione e aggregazione fornita dal motore di ricerca
“allo scopo di facilitare agli utenti l’accesso a dette informazioni”;
Viste la memoria difensiva del 12 gennaio 2016 e le note di replica del 18 gennaio 2016 con le quali il ricorrente ha sostenuto che:
- la funzione di “Completamento automatico” di Google sarebbe influenzata non solo dal numero delle ricerche effettuate dalla massa degli utenti “ma anche dalla
presenza o meno dei contenuti nel web oltre che delle
proprie cronologie web, dal browser e dall’account Google con cui si accede” cosicché quanto più materiale
web riguardante il coinvolgimento del ricorrente nei
fatti di cronaca in questione viene indicizzato da Google tanto più frequentemente sarà visualizzato il suggerimento di ricerca “KK” che, comunque, da ricerche effettuate dall’interessato, non risulterebbe più presente
tra le previsioni di ricerca;
- non vi sarebbe alcun preponderante interesse pubblico
alla conoscibilità delle informazioni indicizzate dai contestati Url rispetto ai quali ha ribadito la richiesta di rimozione indicando analiticamente i motivi per ciascuno di essi;
- il richiamo della difesa di Google alle due sentenze di
merito del Tribunale di Milano e di Roma sarebbe fuorviante ed inconferente nel caso di specie, in quanto, diversamente dai casi oggetto di tali pronunce, il ricorren-
1075
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te avrebbe volontariamente scelto uno stile di vita “del
tutto avulso e distante dalle iniziative di matrice politico-ideologica che hanno caratterizzato la sua giovinezza”;
- non appartiene ad alcuna delle categorie esemplificative del concetto di “ruolo pubblico” indicate nelle Linee
Guida del Gruppo di lavoro “Articolo 29” richiamate
dalla resistente poiché svolge la propria professione HX
(infatti, in virtù della pena accessoria dell’interdizione
perpetua dai pubblici uffici non può partecipare ad alcun concorso pubblico né può iscriversi ad alcun albo
professionale, essendo richiesto in tal caso un certificato
del casellario giudiziale privo di condanne);
Vista la memoria del 4 febbraio 2016 con la quale Google:
- ha dichiarato che l’associazione fra il nominativo del
ricorrente e il termine “terrorista” sarebbe tuttora visualizzata dalla funzione di “Completamento automatico”
di Google, a riprova di quanto già sostenuto circa il funzionamento di tale software basato su indici statistici;
- ha ribadito che, in ogni caso, il ricorrente, in virtù
della professione di QZ “(...) svolge un ruolo che ha riflessi nella vita pubblica, a prescindere dall’iscrizione o
meno agli albi”;
Preso atto che nella memoria del 29 febbraio 2016 il ricorrente, ribadendo le proprie richieste, ha nuovamente
riaffermato di essere un privato cittadino privo di alcun
ruolo nella vita pubblica;
Rilevato, tutto ciò premesso e passando all’esame delle
singole doglianze, che l’Url http://..., rientrante fra quelli contestati nell’atto di ricorso, non risulta attualmente
più indicizzato da Google in quanto dalla fine di gennaio 2016 l’archivio storico del Corriere della Sera da
sito usufruibile gratuitamente ed indicizzato dai motori
di ricerca generalisti è divenuto una piattaforma a pagamento;
Ritenuto pertanto, alla luce di quanto appena esposto,
di dover dichiarare non luogo a provvedere sul ricorso
ai sensi dell’art. 149, comma 2, del Codice in ordine alla rimozione di detto specifico Url;
Considerato invece che, con riferimento alla richiesta
di rimozione dei restanti URL contestati dal ricorrente,
stante la permanente attualità della stessa, occorre procedere all’esame facendo riferimento ai criteri generali
indicati per l’esercizio del diritto all’oblio contenuti nelle citate Linee Guida del Gruppo di lavoro “Articolo
29”;
Rilevato, quindi, in particolare, che elemento costitutivo del diritto all’oblio è il trascorrere del tempo rispetto
al verificarsi dei fatti oggetto delle notizie rinvenibili attraverso l’interrogazione dei motori di ricerca e che, anche laddove sussista, tale elemento incontra tuttavia un
limite quando le informazioni per le quali viene invocato risultino riferite a reati gravi dovendo le relative richieste di deindicizzazione essere valutate con minor favore dalle Autorità di protezione dei dati pur nel rispetto, comunque, di un’analisi caso per caso (punto 13,
delle Linee Guida);
1076
Rilevato che i fatti narrati negli articoli rinvenibili attraverso tali URL riguardano crimini di particolare gravità (reati di stampo terroristico ed eversivo dell’ordine
democratico) per i quali il ricorrente è stato condannato a HZ;
Considerato che gli Url tuttora indicizzati rimandano,
fra l’altro, a:
- notizie di stampa o fotografie relative ai fatti di cronaca in cui è rimasto coinvolto il ricorrente, pubblicate fino al ZX sulle maggiori testate o agenzie di stampa nazionali;
- la voce dell’enciclopedia on-line Wikipedia che riguarda il ricorrente (il cui ultimo aggiornamento data al
KJ 2016);
- uno studio storico ospitato sul sito di ZQ avente ad
oggetto l’omicidio di JZ nel quale il ricorrente era stato
al tempo accusato da altri neofascisti di aver avuto un
coinvolgimento (pur essendo stato in seguito scagionato), omicidio la cui paternità, a distanza di tanti anni,
nonostante le rivendicazioni da parte degli ambienti di
destra e di sinistra dell’epoca, rimane tuttora ignota (peraltro, nel ZY sarebbero emersi nuovi ed inaspettati elementi riguardanti il delitto WZ);
- una tesi di laurea XW nella quale si dà conto del pensiero, del ruolo e delle azioni commesse dal ricorrente;
- un libro dal titolo YX sul tema degli “anni di piombo”
con un capitolo dedicato interamente alla figura del ricorrente del quale sono anche riportate le dichiarazioni
rilasciate nel corso di un’intervista;
- gli atti processuali di un processo di mafia pubblicati
sul sito della Camera dei deputati contenenti le dichiarazioni rese dal ricorrente all’autorità inquirente nel JX;
- un blog a sfondo politico sul quale il ricorrente ha personalmente postato un suo intervento nel 2010 a chiarimento delle sue attuali posizioni politiche;
Considerato che tali informazioni riguardano una delle
pagine più buie della storia italiana, della quale il ricorrente non è stato un comprimario, ma un vero e proprio
protagonista di spicco ed hanno ormai assunto una valenza storica avendo segnato la memoria collettiva;
Considerato che per tali ragioni, nonostante il lungo
lasso di tempo trascorso dagli eventi, l’attenzione del
pubblico è tuttora molto alta su quel periodo e sui fatti
avvenuti, come peraltro dimostra la relativa attualità
dei riferimenti raggiungibili mediante i citati URL;
Preso atto che, effettivamente, i reati di cui l’interessato
si è macchiato risultano rientrare fra quelli particolarmente gravi indicati dal WP29 nelle citate Linee guida,
tanto che - indipendentemente dall’avvenuta estinzione
della pena inflitta - resta per l’interessato l’interdizione
perpetua dai pubblici uffici;
Ritenuto pertanto che, nel caso di specie, debba ritenersi prevalente l’interesse del pubblico ad accedere alle
notizie in questione e che pertanto debba dichiararsi infondata la richiesta di rimozione degli URL indicati dal
ricorrente e tuttora indicizzati da Google;
(omissis).
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Giurisprudenza
Diritto civile
Il diritto e l’oblio
di Marco Rizzuti (*)
Il contributo analizza l’emersione di un orientamento giurisprudenziale che, sulla scorta di una
fondamentale pronunzia di livello comunitario, sta iniziando a ridimensionare la rilevanza di quel
diritto all’oblio che, nel recente passato, la Suprema Corte aveva invece massimamente valorizzato.
Si sa che, non di rado, dimenticare può essere molto più difficile che ricordare (1), tanto che in passato gli uomini erano arrivati al punto di deificare
l’Oblio (2). Anche le società più primitive si erano,
in effetti, trovate nella necessità di elaborare meccanismi volti ad ottenere la dimenticanza collettiva di ciò che andava superato (3), ma il problema
dovette assumere particolare rilevanza soprattutto
con l’emersione di tecnologie che potevano consentire una duratura, forse addirittura illimitata, sopravvivenza a ricordi che risultassero sgraditi ai detentori del potere, in quanto magari connessi a
precedenti cicli politici o a valori ritenuti grave-
mente perturbanti per la stabilità sociale. Ne derivarono varie norme e procedimenti giuridici che
imponevano la metodica cancellazione dai monumenti in pietra del nome e dell’immagine di chi
non doveva essere ricordato (4), e più tardi, per tenere il passo con l’ulteriore evoluzione delle tecnologie, il rogo dei libri suscettibili di propalare memorie inammissibili (5). Non sempre, d’altronde,
questo genere di provvedimenti fu ispirato soltanto
da volontà persecutorie, in quanto si sono avuti
anche casi di oblii imposti con strumenti giuridici
allo scopo di metter fine allo strascico d’odio di
una guerra civile (6), o per tentare di impedirne la
deflagrazione (7), o per garantire una transizione
pacifica dalla dittatura alla democrazia (8).
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Non è certo questa la sede per indagare i profili psicologici della questione: basti rammentare come al perfido Jago
che continuava a richiamare la sua attenzione sul fazzoletto di
Desdemona, il disperato Moro rispondesse: “volentieri obliato
l’avrei” (Otello, musica di G. Verdi, libretto di A. Boito, dal
dramma di W. Shakespeare, Milano, 5 febbraio 1887, atto III,
scena I).
(2) La dea Lete era una delle temibili figlie di Eris, e quindi
nipoti della nera Notte a sua volta figlia del Caos (Hesiodus,
Theogonia, 225-226), ma molto più noto è il fiume dell’aldilà
che da lei prendeva il nome, e la cui acqua le anime dovevano
bere per dimenticare la vita precedente e poter procedere nel
ciclo delle reincarnazioni (Plato, Politeia, 621; Vergilius, Aeneis,
VI, 713-715), o, nella versione cristianizzata del mito, per
ascendere in Paradiso definitivamente purificate (D. Alighieri,
Purgatorio, XXVIII, 126-130).
(3) Con riferimento alle cerimonie degli indigeni di alcuni
atolli del Pacifico cfr. Battaglia, At Play in the Fields (and Borders) of the Imaginary: Melanesian Transformations of Forgetting, in Cultural Anthropology, 1993, 430-442.
(4) Per una panoramica di tali pratiche in ambito orientale
cfr. May (a cura di), Iconoclasm and Text Destruction in the Ancient Near East and Beyond, Chicago, 2012, in cui si menzionano anche i noti episodi dei tentativi di annientare il ricordo di
Hatshepsut, la donna che aveva osato proclamarsi Faraone, e
di Akhenaton, il sovrano eretico le cui idee monoteiste dovettero però in qualche modo riuscire a sopravvivergli, per arrivare dopo circa due generazioni a quel principe egizio che avrebbe abbandonato la corte per mettersi a capo di un popolo di
schiavi fuggiaschi. Anche il mondo romano conobbe ampiamente vicende di sistematica distruzione di ogni ricordo degli
imperatori ritenuti esecrabili, cui facevano magari seguito, mutata la congiuntura politica, interventi di restauro: cfr. Varner,
Mutilation and Transformation: Damnatio Memoriae and Roman
Imperial Portraiture, Boston, 2004. Per il periodo successivo,
quando analoga sorte sarebbe toccata ad antipapi e sovrani
scomunicati, cfr. Lori Sanfilippo - Rigon (a cura di), Condannare all’oblio: pratiche della Damnatio Memoriae nel Medioevo,
Ascoli Piceno, 2010.
(5) Fra gli innumerevoli episodi si può menzionare la conversione nel 587 del sovrano visigoto di Spagna Recaredo I
dall’arianesimo al cattolicesimo, cui fece seguito l’ordine di
bruciare tutti i libri che avrebbero potuto in qualche modo conservare la memoria del credo abiurato, evidentemente non più
conforme alla sua attuale identità personale: cfr. Gibbon, Decadenza e caduta dell’impero romano, London, 1776-1789,
trad. it., Milano, 2010, II, 1359-1360.
(6) Così nel 403 a.C., dopo gli scontri fra i democratici di
Trasibulo ed i seguaci dei Trenta Tiranni filospartani, si arrivò
ad un accordo di pacificazione, in cui si prevedeva anche la
pena di morte per chi avesse osato ricordare (μνησισκειν) i fatti
del recente passato (cfr. Aristotelis, De republica Atheniensium,
39.6 e 40.2). Analogamente, vari secoli dopo, le guerre di religione in Francia furono chiuse da Enrico IV di Navarra con l’Editto di Nantes del 1598 d.C., il cui art. 2 espressamente proibiva a tutti i sudditi di “renouveler la mèmoire” dei tragici trascorsi.
(7) A conclusione della turbolenta seduta senatoriale del 17
marzo 44 a.C. i cesariani capeggiati da Antonio ed i cesaricidi
difesi da Cicerone convennero sulla formula grecizzante della
αμνηστια, in base alla quale gli atti del dictator sarebbero rimasti validi, ma non si sarebbe mossa alcuna accusa contro i
congiurati (cfr. Mazzarino, L’impero romano, Bari, 1998, I, 4041). Com’è noto, però, il tentativo di evitare la guerra civile fallì
e Ottaviano inseguì per anni gli autori delle ventitre pugnalate
in ogni angolo dell’ecumene, per poi dedicare il tempio del
suo nuovo Foro alla deità più espressiva di un ben diverso approccio alla memoria storica: Marte Ultore.
(8) Uno degli esempi più significativi è quello del Pacto del
Olvido, cui sono rimasti fedeli tutti i partiti politici spagnoli dopo la morte di Franco nel 1975, almeno sino all’approvazione
della Ley de Memoria Històrica del 26 dicembre 2007.
Premesse
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Diritto civile
Nel mondo contemporaneo, benché le forme più
arcaiche di ricerca dell’oblio non siano affatto
scomparse (9), il problema si pone soprattutto nelle
forme proprie di un contesto in cui le tecnologie
che sembrano incrementare in maniera sconcertante le possibilità di permanenza delle informazioni sono quelle dell’informatica (10), mentre a rivendicare un potere di controllo sulla circolazione
delle stesse non sono soltanto i detentori del potere politico ma anche tutti i singoli interessati, ai
quali, secondo la moderna concezione dei diritti
umani fondamentali, compete una frazione di sovranità sulla propria sfera personale (11). Ne è così
derivata la costruzione di un nuovo diritto soggettivo, rientrante fra gli attributi fondamentali della
personalità, che ormai conosciamo appunto come
il diritto all’oblio.
Il proprium del contenuto di tale diritto, e l’elemento innovativo rispetto ad altre più tradizionali
figure, sta, infatti, nel suo essere conformato come
una tutela nei confronti della circolazione di dati
che non sono diffamatori (12), né falsi (13), né riservati (14), ma veri ed in origine legittimamente
pubblicati, e che però il trascorrere del tempo ha
reso non più conformi all’attuale identità personale
dell’interessato. Com’è noto, nel nostro ordinamento l’affermazione di un tale diritto è stata il
frutto di una ormai abbastanza risalente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (15), che si è irrobustita in seguito all’entrata in vigore delle sempre
più articolate discipline sulla protezione dei dati
personali (16), ed ha incontrato negli ultimi anni
il deciso favore della giurisprudenza di legittimità (17).
In questo scenario è, infine, venuta ad inserirsi la
ben nota pronuncia europea che ha, a sua volta,
confermato il riconoscimento del “right to be forgotten”, attirando anzi sullo stesso la crescente attenzione degli studiosi e degli operatori del settore (18), oltre che dei sempre più numerosi utenti
delle tecnologie in discorso. Dal punto di vista del
civilista italiano, però, l’aspetto di maggior interesse non è rappresentato tanto dall’ulteriore suggello
ad una costruzione già significativamente avanzata,
quanto piuttosto dall’esplicita enucleazione di importanti limiti alla portata di un diritto che, nella
forse un po’ troppo entusiastica elaborazione interna, poteva sembrare dotato di una capacità espan-
(9) Basti pensare alla sistematica distruzione delle vestigia
delle civiltà preislamiche cui si dedica il sedicente Califfato allo
scopo di annientare fisicamente le fondamenta sulle quali i regimi laici dell’area mediorientale, rifacendosi anche a noti modelli europei di uso politico dell’archeologia, avevano tentato
di costruire identità nazionali che prescindessero da quella religiosa. Una sorta di grottesca emulazione di tali gesta si è avuta anche in Italia con la copertura dei nudi marmorei delle divinità pagane nei Musei Capitolini, in occasione della visita di un
presidente islamico, episodio che non si sa bene se attribuire
ad un risorgente braghettonismo cattolico, ad un atto di spontanea dhimmitude, o semplicemente all’inconsistenza culturale
dei decisori politici.
(10) Di tali potenzialità si potrebbe, d’altronde, fondatamente dubitare: la leggibilità futura di quanto memorizzato su supporti informatici è, infatti, molto più dubbia di quella dei libri
cartacei, data l’altissima velocità di obsolescenza delle tecnologie in discorso (cfr. Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano,
2001, 433, nt. 8). Invero, a tutti sarà capitato di incontrare
enormi difficoltà pratiche nel tentativo di accedere ai dati memorizzati su CD-ROM anche solo di pochi anni fa, o ai files redatti con versioni di un software non più compatibili con quella
aggiornata.
(11) Si veda, per tutti, Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari,
2012.
(12) La tutela contro la diffamazione è, infatti, antichissima:
cfr. Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano, Milano, 1979; Santalucia, Costantino e i libelli famosi, in Id., Altri
studi di diritto penale romano, Padova, 2009, 423 ss.
(13) Da tempo i giuristi anglosassoni non ignorano che ai fini della responsabilità civile “The false light need not necessarily
be a defamatory one” (cfr. Prosser, Privacy, in California Law
Review, 1960, 383-423, specie 398 ss.), ed anche la nostra giurisprudenza ha fatto proprio tale principio a partire dal caso
Veronesi (Cass. 22 giugno 1985, n. 3769, in Foro it., 1985, I,
2211).
(14) L’atto di nascita del “right to be let alone” viene di solito identificato con il famoso saggio di Warren - Brandeis, The
Right to Privacy, in Harvard Law Review, 1890, 193 ss.
(15) In dottrina cfr. Auletta, Diritto alla riservatezza e “droit a
l’oubli”, in Alpa (a cura di), L’informazione e i diritti della persona, Napoli, 1983, 127 ss.; G.B. Ferri, Diritto all’informazione e
diritto all’oblio, in Riv. dir. civ., 1990, 801 ss.; G. Giacobbe, Diritto all’oblio, in Atti del convegno di Urbino 17 maggio 1997, a
cura di E. Gabrielli, Napoli, 1999, 30 ss.; Morelli, Oblio (diritto
all’), in Enc. dir., Agg., VI, Milano, 2002, 848 ss. In giurisprudenza tra le prime pronunzie in tema si vedano Trib. Roma 15
maggio 1995, in Dir. inf., 1996, 427, con nota di Napolitano, Il
diritto all’oblio esiste (ma non si dice), e Cass. 9 aprile 1998, n.
3679, in Foro it., 1998, I, 1834.
(16) Si allude alla L. 31 dicembre 1996, n. 675, abrogata e
sostituita dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, riferimento fondamentale per la costruzione che ha costituzionalizzato il diritto
all’identità personale, e quindi quello all’oblio come species del
primo, agganciandoli all’art. 2 della Carta: cfr. Corte cost. 22
settembre 2010, n. 287, in www.cortecostituzionale.it, nonché
in dottrina Niger, Il diritto all’oblio, in G. Finocchiaro (a cura di),
Diritto all’anonimato, Padova, 2007, 59 ss.; Mezzanotte, Il diritto all’oblio: contributo alla studio della privacy storica, Napoli,
2009; Pizzetti, Il caso del diritto all’oblio, Torino, 2013; De Verda, Breves reflexiones sobre el llamado derecho al olvido, in Actualidad Jurídica Iberoamericana, 2014, 1, 29-34; Putortì, Internet, diritto all’oblio e tutela dell’identità della persona, in Barsotti
(a cura di), Libertà di informazione, nuovi mezzi di comunicazione e tutela dei diritti, Santarcangelo di Romagna, 2015, 157 ss.
(17) Il riferimento è a Cass. 5 marzo 2012, n. 5525, e Cass.
26 giugno 2013, n. 16111 (segnalata in Osservatorio, in questa
Rivista, 2013, 8-9, 1170), entrambe in www.italgiure.giustizia.it,
sulle quali si tornerà fra breve.
(18) Il riferimento è a Corte UE 13 maggio 2014, C-131/12,
su cui si vedano Scorza, Corte di giustizia e diritto all’oblio: una
sentenza che non convince, in questa Rivista, 2014, 12, 1473;
Resta - Zeno Zencovich, Il diritto all’oblio dopo la sentenza Google Spain, Roma, 2015; nonché Floridi e altri, The Advisory
Council to Google on the Right to be Forgotten, in www.google.com.
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Invero, nel primo dei casi in commento l’esito negativo non era così improbabile, dato che la pretesa di oblio si rivolgeva contro le notizie attinenti a
fatti di appena un anno prima, per cui il fondamentale requisito del trascorrere del tempo ben difficilmente avrebbe potuto considerarsi integrato.
L’aspetto che più attira l’attenzione dell’interprete
è, però, un altro, in quanto la sentenza non si è limitata ad evidenziare il profilo cronologico, ma ha
anche fatto leva sulla pronunzia europea, e sulla
successiva elaborazione degli organismi competenti
a livello comunitario ed interno (20), per corroborare la motivazione del rigetto facendo appunto riferimento a quei limiti intrinseci del diritto all’oblio, che avrebbero probabilmente giustificato
un’analoga decisione di rigetto anche se il lasso di
tempo trascorso dalla pubblicazione iniziale delle
notizie fosse stato più significativo. Lo snodo centrale della motivazione è, infatti, quello in cui si
nega la configurabilità di un diritto all’oblio con riguardo ad informazioni che abbiano una rilevanza
pubblica, e si offre di tale concetto un’interpretazione chiaramente estensiva, sulla linea delle menzionate indicazioni comunitarie. Il punto è che una
siffatta ricostruzione argomentativa ci sembra tale
da poter rimettere in discussione gli esiti attinti da
quelli che sono stati considerati i leading cases italiani in materia di diritto all’oblio.
La sentenza approfondisce soprattutto il profilo che
potremmo chiamare soggettivo della rilevanza pubblica, in quanto si nega che possa aversi un legittimo esercizio del diritto all’oblio con riguardo alle
informazioni riguardanti personalità pubbliche e si
specifica, sulla scorta delle indicazioni di fonte europea (21), chi possa farsi rientrare in tale categoria. In primo luogo, si fa riferimento a chi svolga
attività di carattere politico, ambito in cui riterremmo di poter pianamente comprendere i componenti degli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, degli organi di governo e delle assemblee elettive delle autonomie territoriali, nonché
quanti si impegnino in operazioni di organizzazione
e mobilitazione del consenso allo scopo di farsi
eleggere in tali organismi o comunque di incidere
sull’indirizzo politico degli stessi. Ad essi vengono
poi aggiunti i titolari di alte cariche pubbliche, diverse da quelle di carattere politico, e dunque verrebbe da pensare in primis ai magistrati ed ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Inoltre,
vengono presi in considerazione gli iscritti ad albi
professionali, in quanto anche l’esercizio di una
professione regolamentata viene ricondotto all’interno del concetto di funzione pubblica (22). Tale
estensione, certamente di non poco momento, si
rivela peraltro decisiva nel caso di specie, in quanto l’attore esercita la professione forense e tale circostanza viene quindi considerata preclusiva rispetto all’esercizio del diritto all’oblio. Non si tratta
comunque nemmeno del limite estremo cui si può
arrivare, in quanto la stessa sentenza, e i documenti europei che vi sono richiamati, fanno altresì riferimento a personalità pubbliche intese semplicemente nel senso di personaggi notori del mondo
degli affari, della cultura, dello spettacolo e dello
sport, al di fuori dunque di un qualsiasi, pur dilatato ed elastico, nesso con l’esercizio di funzioni pubbliche, almeno nel senso giuridico del termine.
Si tratta di un esito assai significativo, tanto più in
quanto lo stesso appare saldamente fondato sui
menzionati riferimenti europei, specie se ricordiamo come quello che è tuttora considerato il leading
case italiano precedente all’intervento comunitario
in materia, aveva invece ad oggetto il sostanziale
accoglimento della domanda proposta da un uomo
politico con riguardo alla notizia di indagini penali
(19) La tendenza sembra potersi rilevare in tutti i più recenti
provvedimenti giudiziari italiani in materia: cfr. Marraffino, I
mille paletti all’oblio su internet, in Lex 24, 11 gennaio 2016.
(20) Vengono richiamate le Guidelines adottate il 26 novembre 2014 dalle Autorità per la tutela della Privacy di tutti i Paesi
europei riunite nel cosiddetto Article 29 Data Protection Working Party, ed i successivi interventi del Garante italiano che le
hanno recepite (decisioni del 18 dicembre 2014, n. 618, e del
12 marzo 2015, n. 153). I principi in questione sono stati, peraltro, recepiti anche dall’art. 17 del nuovo Regolamento UE
2016/679 del 27 aprile 2016, che diventerà definitivamente applicabile in via diretta in tutti i Paesi membri dell’Unione a partire dal 25 maggio 2018.
(21) Il riferimento è al criterio n. 2 delle citate Guidelines del
WP29, in cui si tenta di delineare chi siano quei soggetti che,
secondo l’ampia espressione utilizzata dalla Corte del Lussemburgo, “play a role in public life”. Si veda, inoltre, l’art. 11, comma 2, della Dichiarazione dei Diritti in Internet, approvata il 28
luglio 2015 dalla Commissione di studio sui diritti e i doveri relativi ad Internet della Camera dei Deputati, che parrebbe
orientato nella medesima direzione.
(22) Del resto, un esplicito riferimento alla “funzione sociale” dell’avvocatura è stato ormai inserito anche nella formula
dell’impegno solenne, obbligatorio per poter esercitare la professione, ai sensi dell’art. 8 della L. 31 dicembre 2012, n. 247,
di riforma dell’ordinamento forense.
siva invero preoccupante. Non è dunque un caso
che la prima elaborazione giurisprudenziale italiana
successiva a quella dei supremi giudici europei abbia comportato proprio il rigetto di una domanda
fondata sul diritto all’oblio, grazie alla valorizzazione dei limiti che ad esso sono stati imposti in sede
comunitaria (19).
La rilevanza pubblica dei dati: il profilo
soggettivo
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cui era stato sottoposto (23). Una notizia, insomma, che riterremmo di evidente interesse pubblico,
e ciò a prescindere dall’esito favorevole all’indagato, in quanto altro è l’efficacia sostanziale e processuale del giudicato, che ovviamente presuppone
una condanna definitiva, altro è l’interesse dell’opinione pubblica a poter conoscere una vicenda
comunque significativa così da potersi formare
un’opinione riguardo ad essa, senza dover sottostare alla censura informativa dello stesso politico interessato. Si potrebbe, dunque, iniziare a nutrire
qualche ragionevole dubbio sull’esito che una richiesta analoga produrrebbe oggi, alla luce della riconfigurazione europea del diritto all’oblio.
Il diritto alla storia
Il ragionamento sulla rilevanza pubblica dei dati
come limite alla riconoscibilità di un diritto all’oblio si presta, peraltro, anche ad ulteriori considerazioni, in quanto rispetto a determinate informazioni si potrebbe anche parlare di un profilo oggettivo della stessa, che non dipenda cioè dalla particolare qualifica dell’interessato. Si pensi a tutte le
vicende di speciale importanza dal punto di vista
storico, alle quali evidentemente possono aver preso parte anche soggetti non qualificabili come personalità pubbliche, e ciò soprattutto laddove risulti
positivizzato quell’interesse dell’ordinamento a che
su certi accadimenti non scenda l’oblio, che ha
(23) Nel caso vagliato dalla citata Cass. n. 5525 del 2012,
un esponente dell’allora P.S.I., indagato per corruzione ed arrestato, ma poi prosciolto e candidato in pectore in una delle
ultime tornate elettorali, ha ottenuto che fosse imposto al Corriere della Sera di predisporre un meccanismo idoneo a segnalare, nell’archivio informatico che rendeva tuttora accessibile
online la notizia del suo arresto, anche il successivo sviluppo a
lui favorevole della vicenda.
(24) Menzioniamo la L. 20 luglio 2000, n. 211, che ha istituito il Giorno della Memoria della Shoah; la l. 30 marzo 2004,
n. 92, che ha istituito il Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo; la L. 4 maggio 2007, n. 56, che ha istituito una Giornata
della Memoria delle Vittime del Terrorismo; la L. 21 marzo
2016, n. 45, che ha istituito la Giornata Nazionale in Memoria
delle Vittime dell'Immigrazione. È ancora all’esame del Parlamento un’analoga iniziativa volta ad istituire una giornata dedicata al ricordo delle vittime delle mafie.
(25) Si considerino i numerosi riconoscimenti giuridici della
memoria della Shoah nella maggior parte dei Paesi del mondo
(per tutti, si veda la risoluzione dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite del 1° novembre 2005, n. 60/7); quello relativo
allo Holodomor sovietico (risoluzione del Parlamento Europeo
del 23 ottobre 2008); le ricorrenti tensioni con la Turchia che si
hanno con riguardo alla diffusione di analoghi riconoscimenti
del Medz Yeghern armeno (ad esempio, con la loi 29 janvier
2001, n. 70, in Francia, e con la risoluzione del Bundestag del
2 giugno 2016, in Germania) e delle meno note coeve vicende
del Seyfo assiro e della Katastrophè grecoasiatica (su entrambe
la mozione del Riksdag svedese dell’11 marzo 2010); gli ancora
isolati riconoscimenti, da parte di Paesi in aperto conflitto con
1080
trovato espressione in alcune importanti prese di
posizione della recente legislazione (24), secondo
una linea di tendenza non solo italiana (25). Invero, alle leggi specificamente dedicate alla memoria
di alcune tragiche vicende storiche non sembrerebbe azzardato riconoscere non soltanto il rilievo amministrativo che attiene all’organizzazione di eventi e commemorazioni, ma anche una valenza personalistica, che si sostanzi nel riconoscimento in capo agli interessati, i superstiti ed i loro discendenti,
di un diritto alla memoria, tale da rappresentare
una forma di compensazione che, rovesciando i
passati tentativi di imporre l’oblio su queste vicende, surroghi o si affianchi a quelle di carattere risarcitorio, che nella gran parte dei casi sono difficilmente praticabili, o comunque tardive e sempre
inadeguate rispetto alla gravità del torto subito.
Assumendo questo punto di vista, diviene di particolare interesse anche il secondo provvedimento
in esame, che perviene ad un sostanziale rovesciamento delle conclusioni cui era giunto l’altro leading case italiano degli ultimi anni, in cui il diritto
all’oblio era stato riconosciuto all’ex appartenente
ad una formazione terroristica con riguardo ad una
ricostruzione giornalistica dei fatti dell’epoca (26).
Pure in questo caso sembra, infatti, necessaria una
distinzione dei piani: altro è il riconoscere che ogni
sanzione penale o civile è stata già espiata, altro è
il permanere di un interesse fondamentale a che
sulla vicenda non scenda l’oblio. Anzi, in altre rela Russia, del Surgunlik dei tatari crimeani (risoluzione della Rada ucraina del 12 novembre 2015) e della pulizia etnica del popolo circasso (risoluzione del Parlamento georgiano del 21
maggio 2011); la sostituzione in numerosi Stati americani delle
celebrazioni in onore di Colombo con altre dedicate alla memoria del genocidio degli amerindi (ad esempio, con il decreto
10 ottobre 2002, n. 2028, nel Venezuela chavista); le polemiche che in Francia hanno fatto seguito all’approvazione della
legge sulla memoria della Tratta degli schiavi come crimine
contro l’umanità (loi 21 mai 2001, n. 434) e poi di quella dedicata invece al riconoscimento di un ruolo positivo della presenza francese oltremare (loi 23 février 2005, n. 158); i passi
avanti fatti tra il 2015 ed il 2016 per quanto attiene al riconoscimento da parte tedesca delle responsabilità inerenti al massacro degli indigeni namibiani.
(26) Nel caso vagliato dalla citata Cass. n. 16111 del 2013,
un ex appartenente alla formazione terroristica Prima Linea,
che aveva già scontato la relativa pena, ha ottenuto la condanna di un quotidiano locale comasco al risarcimento dei danni
derivatigli dalla ripubblicazione di notizie inerenti a tali trascorsi, in ordine ai quali egli invocava appunto il diritto all’oblio.
Nel caso vagliato ora dal Garante (su cui cfr. Bonavita, Privacy:
niente oblio per un terrorista, in www.Ilquotidiano giuridico.it,
1° luglio 2016) è stata assunta una decisione diametralmente
opposta con riguardo alle notizie circolanti su internet a proposito di un neofascista di spicco: naturalmente tale evoluzione
ci sembra giustificabile soprattutto in considerazione dei nuovi
orientamenti europei, e non certo in ragione di una differente
valutazione dei due opposti estremismi.
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centi esperienze giuridiche, la riconciliazione nazionale è passata proprio da uno scambio fra la rinunzia ad ogni pretesa punitiva e la promozione di
meccanismi istituzionali volti a far piena luce sul
passato ed a mantenerne vivo il ricordo (27). Considerando anche la prospettiva dell’integrazione europea, in cui è centrale la necessità di rielaborare
la memoria degli aspri conflitti del recente passato (28), sembra difficile negare che questo debba
essere il modello da seguire, a preferenza di uno
scenario inquietante che vedrebbe chi si dedica alla ricerca storica, non importa se a livello accademico o solo giornalistico, dover temere da un lato
processi penali per negazionismo (29) e dall’altro
domande giudiziali di imposizione dell’oblio.
L’esito pratico cui queste riflessioni ci conducono
parrebbe, dunque, quello di un ridimensionamento
della portata del diritto all’oblio, e ciò soprattutto
nel confronto con le elaborazioni della giurisprudenza italiana sul punto. Invero, non è da ritenere
che in tal modo l’ampiezza quantitativa del fenomeno si riduca poi molto, poiché esso riguarda tipicamente svariati dati di pressoché nessuna rilevanza che per le più diverse ragioni rimangono nella
rete internet in quanto i titolari degli stessi sono
stati in qualche modo interessati dai suoi meccanismi (30). Non è però un caso se le vicende processuali interne hanno riguardato ben altre problematiche, in quanto l’interesse che spinge ad affrontare
gli oneri di un percorso giudiziario molto spesso ha
una natura di carattere politico o economico molto
più significativa di quella attinente all’eventuale
eliminazione, per stare agli esempi che più spesso
vengono proposti, di un’immagine “postata” in gioventù, quando la stessa poteva sembrare spiritosa e
non ancora ridicola, oppure di qualche menzione
del proprio nome in siti privi di ogni rilevanza
pubblica. Rispetto a tali vicende sembrano, in effetti, molto più congrue le procedure interne ai gestori dei motori di ricerca che sono state implementate all’indomani della pronunzia europea, o al
limite quelle esperibili in sede amministrativa presso le autorità preposte alla protezione dei dati personali. Rispetto alle vicende più “serie”, quantitativamente meno numerose, ma che hanno maggiori
probabilità di arrivare in sede giudiziaria, bisognerà, invece, tenere presente come la pretesa all’oblio
incontri quegli importanti limiti che l’elaborazione
in sede comunitaria, ed ora anche interna, sta mettendo sempre più in luce.
Infatti, le posizioni che ad essa si contrappongono
hanno la stessa natura personalistica e fondamentale che si tende ad attribuire al diritto all’oblio, se
riguardato come manifestazione del diritto all’identità personale, in quanto anche solo dalle brevi
considerazioni che precedono può trarsi che nell’ordinamento hanno cittadinanza situazioni giuridiche soggettive che potremmo specularmente indicare come diritto alla memoria o alla ricerca della verità (31). Non si tratta solo di un profilo della
più generale libertà dell’arte e della scienza, che
gode comunque di una protezione costituzionale
rafforzata rispetto alla pur fondamentale libertà di
manifestazione del pensiero (32), ma di un’ulteriore esplicazione dello stesso diritto all’identità personale, di cui anche la memoria costituisce parte
integrante, come emerge chiaramente da alcune
delle esemplificazioni prima riportate. Peraltro, che
il diritto all’oblio di un soggetto possa porsi in contrapposizione con quello all’identità personale di
un altro è emerso con estrema nettezza anche con
riguardo ad un’altra delicatissima problematica, pure essa antica ma rinnovata dagli sviluppi tecnologici: quella dell’anonimato genitoriale.
(27) L’esperienza più nota è quella della Truth and Reconciliation Commission istituita in Sudafrica da Mandela nel contesto dello smantellamento del regime di apartheid, ma analoghe vicende si sono avute pure in Paesi sudamericani usciti da
dittature militari ed in Paesi africani ed oceanici sconvolti da
guerre civili, oltre che in Canada e negli U.S.A. con riferimento
agli abusi perpetrati nei confronti degli aborigeni e dei neri,
nonché in Marocco con riguardo a quel periodo della storia recente che anche là si suole denominare come les années de
plomb.
(28) Si consideri, ad esempio, che all’interno del programma europeo di ricerca Horizon 2020 vi è una topic dedicata appunto a “Improving mutual understanding among Europeans by
working through troubled pasts”.
(29) Com’è noto, la L. 16 giugno 2016, n. 115, ha introdotto
anche da noi un reato di negazionismo, fattispecie penale che
ha già dato non esaltanti prove di sé in vari altri Paesi.
(30) Invero, secondo i dati resi noti da Google, la stragrande
maggioranza delle richieste di esercizio del diritto all’oblio, pervenute alla società californiana dopo la sentenza europea del
2014, provenivano da cittadini comuni e non da personaggi
pubblici: cfr. Del Ninno, Gli scenari applicativi pratici del c.d.
“diritto all’oblio”, in www.dirittoegiustizia.it. Per una recentissima pronunzia italiana cfr. Cass. 24 giugno 2016, n. 13161, in
in www.italgiure.giustizia.it.
(31) Del resto, questa contrapposizione è antica quanto il
concetto stesso di oblio: basti pensare che la figura allegoricamente contrapposta a Lete era la titanessa Mnemosine, non a
caso madre delle Muse (Hesiodus, Theogonia, 915-917), e soprattutto che la parola greca per Verità era proprio la negazione dell’Oblio: αληθεια. Più di recente Kundera, Il libro del riso e
dell’oblio, trad. it., Milano, 2000, 14, ha fatto dire ad un suo
personaggio che “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta
della memoria contro l’oblio”. Nella letteratura giuridica cfr.
Mezzanotte, Diritto all’oblio vs. diritto alla memoria: il moderno
sviluppo della privacy, in Diritto pubblico comparato ed europeo,
2002, 1604 ss.; S. Amato, Il diritto all’oblio, in Id. - Cristofari Raciti, Biometria. I codici a barre del corpo, Torino, 2013, 103
ss.
(32) Com’è noto, il limite del buon costume, previsto per la
generica manifestazione del pensiero dall’art. 21 Cost., non vale invece per l’arte e per la scienza ai sensi dell’art. 33 Cost.
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Com’è noto, in una fondamentale pronunzia della
Corte costituzionale proprio il riferimento a tali
concetti ha condotto ad una declaratoria di illegittimità della normativa sull’anonimato materno, in
parte qua riconosceva alla partoriente un diritto
non solo alla riservatezza ma addirittura all’oblio,
che, seguendo un’impostazione di matrice europea,
è apparso contrastante con quello all’identità personale, oltre che, in certi casi, alla salute del partorito (33). In questo peculiare ambito, la differenza
fra riservatezza e oblio è, dunque, una questione di
bilanciamento: un dato conoscitivo obliato è condannato a restare perso per sempre, mentre rispetto
ad un dato riservato sono ipotizzabili procedure tese a garantire un sia pur eccezionale accesso, e comunque la reversibilità della scelta effettuata, così
da tutelare i diritti fondamentali di tutti i soggetti
coinvolti (34). Invero, anche qui è la possibilità di
distinguere i diversi piani a consentire un’impostazione equilibrata della questione, in quanto ricono-
scere un diritto a promuovere un procedimento
volto all’accesso a determinate informazioni circa
le proprie origini genetiche può e deve restare un
profilo distinto da quello attinente alla costituzione
di un rapporto giuridico di filiazione, con tutti i
suoi effetti personali e patrimoniali (35). Peraltro,
la necessità di distinguere è esaltata dalle questioni
che l’applicazione di tali principi pone con riferimento a quei nuovi meccanismi biotecnologici della riproduzione, che tendono di per sé a frammentare posizioni genitoriali e paragenitoriali (36) sino
a poco tempo fa apparentemente inseparabili “per
natura”, con ciò consentendo oltretutto di svincolare il tema dall’ipoteca del richiamo all’anonimato
materno come presunto disincentivo all’aborto (37). Non stupisce dunque il constatare come a
livello internazionale, ed in modo più timido anche in Italia, la tendenza che si va affermando sia,
anche in questo ambito, nel senso di un significativo ridimensionamento del campo di esplicazione
del diritto all’oblio (38).
(33) Il riferimento è a Corte cost. 22 novembre 2013, n.
278, in questa Rivista, 2014, 4, 471 con nota di Auletta, che si
è collocata sulla scia di Cedu 25 settembre 2012, Godelli c. Italie, ric. 33783/09, (sulla quale v. Carbone, Corte edu: conflitto
tra diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, in questa Rivista, 2013, 7, 940) e di Cedu 13 febbraio 2003, Odièvre c. France, ric. 42326/1998.
(34) La sentenza costituzionale ha, infatti, imposto al legislatore di istituire un procedimento che consenta al figlio di richiedere che la partoriente sia interpellata, in maniera riservata, in ordine all’eventuale sua volontà di revocare l’anonimato.
Un d.d.l. in tal senso, approvato dalla Camera il 18 giugno
2015, attende ancora il voto del Senato, essendo iniziato l’esame in Commissione solo in data 21 giugno 2016, ma nel frattempo la giurisprudenza di merito ha iniziato ad elaborare in
via pretoria il procedimento in questione (cfr. Trib. Min. Firenze
6 maggio 2014, in www.personaedanno.it; Trib. Min. Trieste 24
settembre 2014, in www.personaedanno.it; App. Catania 5 dicembre 2014, in dirittocivilecontemporaneo.com), ed in tal senso parrebbe essersi ormai orientata anche la Cassazione con
la sent. 21 luglio 2016, n. 15024. D’altra parte, Cass. 7 febbraio 2014, n. 2802, in Giur. it., 2014, 2687 ss., con nota di Navone, Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale? Sulla irrinunciabilità del diritto al riconoscimento del figlio, ed in Fam. e
dir., 2014, 4, 321, con nota di Carbone, Genitorialità responsabile: abbandono, ripensamento e riconoscimento del figlio prima
della chiusura del procedimento di adozione, di fronte al caso
particolarissimo di una suora che aveva partorito in anonimato
nella speranza di non essere esclusa dalla congregazione di
appartenenza, ma poi, vistasi comunque respinta dalla consorelle, aveva deciso di riprendersi il figlio, già affidato ad altri
ma non ancora adottato, aveva già sancito il diritto della stessa partoriente ad attivarsi per revocare la sua scelta.
(35) La distinzione è chiaramente messa in luce da Trib. Milano 14 ottobre 2015, in www.ilcaso.it.
(36) Cfr., per tutti, Furgiuele, La fecondazione artificiale: quali
principi per il civilista?, in Scritti in onore di Angelo Falzea, Milano, 1991, II, I, 325.
(37) Nella motivazione di Cedu, Godelli, cit., si legge, invero,
che dal confronto fra le situazioni di vari Paesi in cui vigono regole diverse, non emergono evidenze statistiche circa un’eventuale correlazione fra la reversibilità dell’anonimato e l’incremento degli aborti.
(38) Infatti, il diritto all’oblio dal donatore di gameti, o di mitocondri, è stato abolito o limitato dalle nette prese di posizione della giurisprudenza tedesca (Bundesgerichtshof, 28 gennaio 2015), del legislatore inglese (HFEA Disclosure of Donor
Information Regulations 2004, e HFEA Mitochondrial Donations
Regulations 2015) e di quello svedese (Lag 351:2006 om genetisk integritet), in linea con un orientamento sempre più diffuso
nella dottrina internazionale (cfr. Diver, A Law of Blood-ties.
The right to access genetic ancestry, Cham, 2014). Anche in Italia, Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162, (in Fam. dir., 2014, 753
e in questa Rivista, 2014, 8-9, 1062 con nota di Ferrando) nel
dichiarare l’illegittimità del divieto della fecondazione eterologa, ha osservato che in tal modo non viene a determinarsi un
vuoto normativo, in quanto i diversi profili del fenomeno possono già trovare la loro disciplina in altre fonti, fra cui appunto
la citata Corte cost. n. 278 del 2013 per quanto attiene al diritto alla conoscenza delle origini. In senso contrario si erano, invece, espressi il Conseil d’Etat, avis contentieux 13 giugno
2013, e la Supreme Court of Canada, 30 maggio 2013, Olivia
Pratten vs. Attorney General of British Columbia. In ulteriori casi, infine, i giudici non si sono limitati al riconoscimento di un
mero diritto del figlio alla conoscenza della propria identità genetica, ma hanno addirittura imposto al donatore obblighi genitoriali, specie con riguardo al mantenimento: cfr. District
Court of Shawnee, State of Kansas vs. W. M., 22 gennaio 2014,
nonché, nella giurisprudenza inglese, Re G (A Minor); Re Z (A
Minor) [2013] EWHC 134 (Fam).
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Procedura di mediazione
Tribunale di Vasto 9 marzo 2015 - Giud. Pasquale
Sia per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, comma 1 bis, D.Lgs. n. 28/2010,
sia per la mediazione demandata dal giudice, ex art. 5, comma 2, è necessario - ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda - che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori, come previsto dal successivo art. 8) all’incontro con il mediatore. Graverà su quest’ultimo, in qualità di soggetto
istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della procedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti, ad esempio disponendo - se necessario - un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione,
ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore),
per il caso di assoluto impedimento a comparire.
La norma dell’art. 5, comma 1 bis, D.Lgs. n. 28/2010, che impone al giudice l’obbligo di assegnare alle parti il
termine per la presentazione della domanda di mediazione e di fissare la successiva udienza dopo la scadenza
del termine di cui all’art. 6, si applica soltanto al caso in cui la mediazione è già iniziata ma non si è ancora
conclusa e al caso in cui essa non è stata affatto esperita, ma non anche alla diversa ipotesi (come quella in
esame) in cui la mediazione è stata tempestivamente introdotta e definita, ma in violazione delle prescrizioni
che regolano il suo corretto espletamento.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Firenze, Sez. III, 18 marzo 2014; Trib. Rimini 16 luglio 2014; Trib. Cassino 8 ottobre 2014; Trib. Bologna, Sez.
III, 16 ottobre 2014; Trib. Monza, Sez. I, 20 ottobre 2014; Trib. Bologna, Sez. III, 11 novembre 2014; Trib. Firenze
26.11.2014; Trib. Siracusa, Sez. II, 17 gennaio 2015; Trib. Caltanissetta 4 febbraio 2015; Trib. Pavia, Sez. III, 9 marzo 2015; Trib. Palermo, Sez. II, 17 marzo 2015; Trib. Milano, Sez. I, 7 maggio 2015; Trib. Pavia, Sez. III, 18 maggio
2015; Trib. Siracusa, Sez. II, 5 luglio 2015; Trib. Monza, Sez. I, 14 luglio 2015; Trib. Verona 21 settembre 2015; Trib.
Roma, Sez. XIII, 26 ottobre 2015 e 29 ottobre 2015; Trib. Pavia, Sez. III, 6 gennaio 2016; Trib. Roma, Sez. XIII, 14
luglio 2016; Trib. Modena, Sez. II, 2 maggio 2016; Trib. Siracusa 11 aprile 2016.
Il Tribunale (omissis).
Ritenuto in diritto che
1. Lo scrutinio nel merito delle rispettive domande delle parti deve essere anticipato dalla trattazione di una
questione pregiudiziale, relativa alla procedibilità della
domanda, che assume carattere dirimente.
Da quanto risulta dal verbale del procedimento di mediazione n. 25/14, instaurato innanzi all’organismo di mediazione istituito presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vasto, in sede di primo incontro svoltosi davanti
al mediatore, le parti non sono comparse personalmente e
la procedura si è chiusa poiché la società convenuta non
ha prestato il proprio consenso al relativo espletamento.
Orbene, a tal proposito, è appena il caso di evidenziare
che le disposizioni di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 28/2010
(come modificato dalla legge n. 98/2013), lette alla luce
del contesto europeo nel quale si collocano (cfr. in particolare, direttiva comunitaria 2008/52/CE) impongono
di ritenere che l’ordine del giudice è da ritenersi osservato soltanto in caso di presenza della parte (o di un di
lei delegato), accompagnata dal difensore e non anche
in caso di comparsa del solo difensore, anche quale delegato della parte. Molteplici sono le argomentazioni
che consentono di giungere a tale conclusione.
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a) Innanzitutto, la natura della mediazione di per sé richiede che all’incontro con il mediatore siano presenti
(anche e soprattutto) le parti di persona. L’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al
fine di renderli in grado di verificare la possibilità di
una soluzione concordata del conflitto; questo implica
necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. Nella mediazione è fondamentale, infatti, la percezione delle emozioni
nei conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è, pertanto, indispensabile un contatto diretto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve
comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti e questi sono profili che le
parti possono e debbono mostrare con immediatezza,
senza il filtro dei difensori (che comunque assistono la
parte). D’altronde, il principale significato della mediazione è proprio il riconoscimento della capacità delle
persone di diventare autrici del percorso di soluzione
dei conflitti che le coinvolgono e la restituzione della
parola alle parti per una nuova centratura della giustizia, rispetto ad una cultura che le considera “poco capaci” e, magari a fini protettivi, le pone ai margini. Non
è, dunque, pensabile applicare analogicamente alla mediazione le norme che, “nel processo”, consentono alla
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parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali. La mediazione
può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma
l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima
e non è delegabile.
b) In secondo luogo, i difensori (definiti mediatori di
diritto dalla stessa legge) sono senza dubbio già a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità
(come, peraltro, si desume dal fatto che essi, prima della
causa, devono fornire al cliente l’informazione prescritta
dall’art. 4, comma 3 del D. Lgs n. 28/2010), di talché
non avrebbe senso imporre l’incontro tra i soli difensori
e il mediatore in vista di una inutile informativa. Ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo
un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento
della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello
del mediatore e quello dei difensori. L’ipotesi che la
condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice:
in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia
già svolto la valutazione di “mediabilità” del conflitto
(come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare “la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il
comportamento delle parti”). Questo presuppone anche
un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte
della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede,
dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è
pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto.
2. Alla luce delle considerazioni che precedono, il giudice ritiene che, sia per la mediazione obbligatoria da
svolgersi prima del giudizio ex art. 5, comma 1 bis, D.
Lgs. n. 28/2010, sia per la mediazione demandata dal
giudice, ex art. 5, comma 2, è necessario - ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori, come previsto dal successivo art. 8) all’incontro con il mediatore. Graverà su quest’ultimo, in
qualità di soggetto istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della
procedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale
delle parti, ad esempio disponendo - se necessario - un
rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la
comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non
ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si
è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal
difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
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La parte che avrà interesse contrario alla declaratoria di
improcedibilità della domanda avrà l’onere di partecipare personalmente a tutti gli incontri di mediazione,
chiedendo al mediatore di attivarsi al fine di procurare
l’incontro personale tra i litiganti; potrà, altresì, pretendere che nel verbale d’incontro il mediatore dia atto
della concreta impossibilità di procedere all’espletamento del tentativo di mediazione, a causa del rifiuto della
controparte di presenziare personalmente agli incontri.
Solo una volta acclarato che la procedura non si è potuta svolgere per indisponibilità della parte che ha ricevuto l’invito a presentarsi in mediazione, la condizione di
procedibilità può considerarsi avverata, essendo in questo caso impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di
improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sé.
Negli altri casi e, segnatamente, quando è la stessa parte
che ha agito (o che intende agire) in giudizio a non
presentarsi personalmente in una procedura di mediazione da lei stessa attivata (anche su ordine del giudice), la domanda si espone al rischio di essere dichiarata
improcedibile, per incompiuta osservanza delle disposizioni normative che impongono il previo corretto esperimento del procedimento di mediazione.
3. Nel caso in esame, nella procedura di mediazione demandata dal giudice non sono comparse personalmente
né la parte attrice, né la parte convenuta, mentre in loro rappresentanza sono intervenuti soltanto i difensori, i
quali non hanno, peraltro, esposto al mediatore alcun
giustificato motivo dell’assenza dei rispettivi assistiti. Il
mediatore ha dichiarato chiuso il procedimento, senza
dare atto a verbale delle ragioni della assenza delle parti
e delle eventuali iniziative adottate al fine di procurare
la comparizione personale delle stesse. La procedura
non si è, pertanto, svolta correttamente, in particolar
modo a causa della ingiustificata assenza della parte che
ha presentato (su disposizione del giudice) la domanda
di mediazione, vale a dire del legale rappresentante della società attrice La Nuova O.C.M. s.n.c., che aveva interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda giudiziale.
Occorre, pertanto, rilevare d’ufficio il mancato avveramento della condizione di procedibilità, ai sensi dell’art.
5, comma 2, D. Lgs. n. 28/10 e assumere le conseguenziali determinazioni decisorie. A tal riguardo, secondo
questo giudicante, non vi è altra possibilità se non quella di dichiarare l’improcedibilità della domanda attorea.
Non è praticabile, per converso, l’alternativa soluzione
di assegnare alle parti un nuovo termine per la reiterazione della procedura di mediazione, essendo questa già
stata definita. La norma dell’art. 5, comma 1-bis, D.
Lgs. n. 28/10, che impone al giudice l’obbligo di assegnare alle parti il termine per la presentazione della domanda di mediazione e di fissare la successiva udienza
dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6, si applica
soltanto al caso in cui la mediazione è già iniziata ma
non si è ancora conclusa e al caso in cui essa non è stata affatto esperita, ma non anche alla diversa ipotesi
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(come quella in esame) in cui la mediazione è stata
tempestivamente introdotta e definita, ma in violazione
delle prescrizioni che regolano il suo corretto espletamento.
4. Quanto al regime delle spese processuali, l’assoluta
novità della questione, l’assenza di un consolidato
orientamento giurisprudenziale di legittimità sul punto
e la natura meramente processuale delle ragioni di reiezione della domanda, costituiscono eccezionali motivi
che giustificano l’integrale compensazione delle spese di
lite fra le parti.
(omissis).
Tribunale di Vasto 23 giugno 2015,ord. - Giud. Pasquale
Nella scelta dell’organismo di mediazione, le parti si devono rivolgere ad enti il cui regolamento non contenga clausole limitative del potere, riconosciuto al mediatore dall’art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, di formulare una proposta di conciliazione quando l’accordo amichevole tra le parti non è raggiunto, in particolare restringendo detta facoltà del mediatore al solo caso in cui tutte le parti gliene facciano concorde richiesta, in
quanto tali previsioni regolamentari frustrano lo spirito della norma - che è quello di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo - e non consentono al giudice di fare applicazione delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto, in materia di spese processuali, così vanificandone la ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati di proposte conciliative ragionevoli.
La formulazione di una proposta di conciliazione da parte del mediatore - tutte le volte in cui le parti non abbiano raggiunto un accordo amichevole ed anche in assenza di una richiesta congiunta delle stesse - costituisce un passaggio fondamentale della procedura di mediazione.
La mancata partecipazione personale delle parti senza giustificato motivo agli incontri di mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto per l’irrogazione - anche nel corso del giudizio - della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8,
comma 4 bis, D.Lgs. n. 28/2010, oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116,
comma 2, c.p.c.
Incombe sul mediatore l’onere di verbalizzare i motivi eventualmente addotti dalle parti assenti per giustificare la propria mancata comparizione personale e, comunque, di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle stesse, ad esempio disponendo - se necessario - un rinvio del
primo incontro o sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso
partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
In caso di effettivo svolgimento della mediazione che non si concluda con il raggiungimento di un accordo
amichevole il mediatore deve provvedere comunque alla formulazione di una proposta di conciliazione, anche
in assenza di una concorde richiesta delle parti.
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Conforme
Trib. Siracusa 17 gennaio 2015 e 5 luglio 2015.
Il Tribunale (omissis).
A scioglimento della riserva assunta nel procedimento
di cui in epigrafe;
Letti gli atti e la documentazione di causa;
Viste le condizioni di estrema congestione in cui versa
il proprio ruolo istruttorio e decisorio;
Rilevata la necessità di una definizione rapida del procedimento secondo le modalità conciliative auspicate
dalla Direttiva Europea approvata dal Parlamento e dal
Consiglio n. 2008/52/CE del 21 maggio 2008, allo scopo di garantire un miglior accesso alla giustizia;
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Letto l’art. 5, secondo comma, del D. L.gs. 4 marzo
2010, n. 28, come introdotto dal D.L. n. 69/13, convertito in legge n. 98 del 9 agosto 2013, il quale attribuisce
al giudice il potere di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale;
Ritenuto che la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti rendono particolarmente adeguato il ricorso a soluzioni amichevoli della
medesima, anche in considerazione del contenuto delle
proposte conciliative formulate nel corso del giudizio;
Ritenuto, peraltro, opportuno che, nella scelta dell’organismo di mediazione, le parti si rivolgano ad enti il
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cui regolamento non contenga clausole limitative del
potere, riconosciuto al mediatore dall’art. 11, secondo
comma, del D. Lgs. n. 28/10, di formulare una proposta
di conciliazione quando l’accordo amichevole tra le parti non è raggiunto, in particolare restringendo detta facoltà del mediatore al solo caso in cui tutte le parti gliene facciano concorde richiesta, in quanto tali previsioni
regolamentari frustrano lo spirito della norma - che è
quello di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo - e non consentono al giudice di fare applicazione
delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto,
in materia di spese processuali, così vanificandone la ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati
di proposte conciliative ragionevoli;
Che la formulazione di una proposta di conciliazione da
parte del mediatore - tutte le volte in cui le parti non
abbiano raggiunto un accordo amichevole ed anche in
assenza di una richiesta congiunta delle stesse - costituisce un passaggio fondamentale della procedura di mediazione, vieppiù valorizzato dalle disposizioni del D.L.
22 giugno 2012 n. 83, il quale - modificando l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del
processo - ha introdotto il comma 2 quinquies, a norma
del quale “non è riconosciuto alcun indennizzo: (...) c)
nel caso di cui all’articolo 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”, con
ciò confermando la tendenza del legislatore ad introdurre nell’ordinamento meccanismi dissuasivi di comportamenti processuali ostinatamente protesi alla coltivazione della soluzione giudiziale della controversia, la cui
individuazione - però - presuppone necessariamente la
previa formulazione (o, comunque, la libera formulabilità) di una proposta conciliativa da parte del mediatore
ed il suo raffronto ex post con il provvedimento giudiziale di definizione della lite;
Precisato che le parti sono libere di scegliere l’organismo di mediazione al quale rivolgersi, ma sono tenute a
partecipare personalmente, assistite dal proprio difensore, all’incontro preliminare, informativo e di programmazione, che si svolgerà davanti al mediatore dell’organismo prescelto e nel quale verificheranno se sussistano
effettivi spazi per procedere utilmente in mediazione;
Ritenuto che la mancata partecipazione personale delle
parti senza giustificato motivo agli incontri di mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso, per tutte le parti
costituite, presupposto per l’irrogazione - anche nel corso del giudizio - della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4 bis, D. Lgs. n. 28/10, oltre che fattore
da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art.
116, secondo comma, c.p.c.;
Ritenuto, altresì, che incombe sul mediatore l’onere di
verbalizzare i motivi eventualmente addotti dalle parti
assenti per giustificare la propria mancata comparizione
personale e, comunque, di adottare ogni opportuno
provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle stesse, ad esempio disponendo - se necessario - un rinvio del primo incontro o sollecitando anche
informalmente il difensore della parte assente a stimo-
1086
larne la comparizione ovvero dando atto a verbale che,
nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata
non ha inteso partecipare personalmente agli incontri,
né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso
dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a
comparire;
Considerato opportuno che, in caso di effettivo svolgimento della mediazione che non si concluda con il raggiungimento di un accordo amichevole, il mediatore
provveda comunque alla formulazione di una proposta
di conciliazione, anche in assenza di una concorde richiesta delle parti;
P.Q.M.
DISPONE che le parti provvedano ad attivare la procedura di mediazione per la soluzione della controversia,
ricorrendo ad un qualsiasi organismo di conciliazione,
pubblico o privato, presente all’interno del circondario
del Tribunale di Vasto, purché regolarmente iscritto
nell’apposito registro istituito con decreto del Ministero
della Giustizia, ai sensi dell’art. 16 del D. L.gs. 4 marzo
2010, n. 28, e a condizione che il regolamento dell’ente
non contenga clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa, subordinandone – in particolare – l’esercizio alla condizione
della previa richiesta congiunta di tutte le parti;
ASSEGNA alle parti termine di giorni quindici per la
presentazione della domanda di mediazione, rendendo
noto che il mancato esperimento della procedura è sanzionato – per la parte attrice – a pena di improcedibilità
della domanda giudiziale;
PRECISA che le parti dovranno essere presenti dinanzi
al mediatore personalmente e con l’assistenza legale di
un avvocato iscritto all’Albo e che la mancata partecipazione personale delle parti senza giustificato motivo
al primo incontro di mediazione può costituire, per la
parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e,
in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto
per l’irrogazione – anche nel corso del giudizio – della
sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4 bis, D.
Lgs. n. 28/10, oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, secondo comma,
c.p.c.;
INVITA, in ogni caso, il mediatore ad adottare ogni
opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la
presenza personale delle parti, ad esempio disponendo –
se necessario – un rinvio del primo incontro o sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione ovvero dando atto a
verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a
ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente
agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire;
INVITA, altresì, il mediatore a verbalizzare i motivi
eventualmente addotti dalle parti assenti per giustificare
la propria mancata comparizione personale, precisando
che ogni documentazione a tal fine rilevante dovrà essere prodotta in giudizio dalla parte costituita entro la
prossima udienza, allo scopo di consentire al giudice
un’adeguata valutazione in vista delle determinazioni da
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assumere in caso di assenza ingiustificata delle parti al
procedimento di mediazione;
PRESCRIVE, altresì, che - in caso di effettivo svolgimento della mediazione che non si concluda con il raggiungimento di un accordo amichevole - il mediatore
provveda comunque alla formulazione di una proposta
di conciliazione, anche in assenza di una concorde richiesta delle parti;
RINVIA la causa, per il prosieguo, all’udienza del 26 ottobre 2015, ore 13.00;
INVITA le parti a produrre copia dei verbali degli incontri di mediazione e a comunicare all’Ufficio l’esito
della procedura di mediazione con nota da depositare in
Cancelleria, almeno 10 giorni prima della prossima
udienza, la quale dovrà contenere informazioni in merito all’eventuale mancata partecipazione delle parti personalmente senza giustificato motivo; agli eventuali impedimenti di natura pregiudiziale o preliminare che abbiano impedito l’effettivo avvio del procedimento di
mediazione; nonché, infine, con riferimento al regolamento delle spese processuali, ai motivi del rifiuto dell’eventuale proposta di conciliazione formulata dal mediatore;
DISPONE che, a cura della parte attivante il procedimento, copia del presente verbale sia trasmesso al mediatore designato;
(omissis).
Mediazione: presenza ed oneri delle parti, compiti del mediatore
e possibili prescrizioni imposte dal giudice a mediatore e parti
di Michele Ruvolo (*)
I provvedimenti in commento affrontano, innanzitutto, il delicato tema della necessità o meno
della presenza effettiva delle parti nel corso del procedimento di mediazione. La soluzione sposata in questi provvedimenti è quella positiva, in linea con quello che è ormai il prevalente orientamento della giurisprudenza di merito.
Si precisano, poi, anche gli oneri gravanti sul mediatore e sulle parti in conseguenza della necessaria presenza personale di queste ultime, i casi in cui la domanda va dichiarata improcedibile e quelli in cui deve disporsi un nuovo espletamento della procedura di mediazione, la possibilità di rivolgersi esclusivamente ad un organismo di mediazione il cui regolamento non contenga
clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa e la necessità che il mediatore provveda comunque, in caso di mancato accordo, alla formulazione di una
proposta di conciliazione, pure in assenza di una concorde richiesta delle parti. Su queste statuizioni l’Autore prende posizione, condividendone solo alcune.
L’orientamento fiorentino e quello
milanese
Come diversi altri organi giudicanti, anche il Tribunale di Vasto chiarisce le condizioni verificatesi
le quali può ritenersi correttamente formata la condizione di procedibilità del previo esperimento del
procedimento di mediazione.
Al riguardo va ricordato che, in relazione alla mediazione disposta ex officio iudicis, Trib. Firenze,
Sez. II civ., 19 marzo 2014 ha ritenuto che può
considerarsi formata la condizione di procedibilità:
1) se vi è stata la presenza personale delle parti; 2)
se le parti hanno effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio.
Ed anche per Trib. Firenze, Sez. spec. impresa, 17
marzo 2014 occorre la comparizione personale del-
le parti. Ecco che, avendo nel caso di specie i difensori delle parti, all’uopo delegati, manifestato al
mediatore la mera volontà dei deleganti di non
procedere all’esperimento della mediazione, il Tribunale di Firenze ha rimesso le parti di nuovo davanti al mediatore. In altri termini, secondo il Tribunale di Firenze nel caso in cui il giudice disponga la mediazione la condizione di procedibilità non
è soddisfatta quando i difensori si recano dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e
modalità della mediazione, dichiarano il rifiuto di
procedere oltre. In caso di mediazione ex officio è
necessario che le parti compaiano personalmente
(assistite dai propri difensori come previsto dall’art.
8, D.Lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento
il giudice fiorentino (ord. 19 marzo 2014) parte
dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del
D.Lgs. n. 28/2010 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal
mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la
mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante
il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti
la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo
incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a
esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura
di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo
svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 2 bis,
si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia
una fase estranea alla mediazione vera e propria.
Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di
Firenze, parlare di “mancato accordo” se il primo
incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo
tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di
iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e
la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a
chi ha pratica della mediazione), data la non felice
formulazione della norma.
Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo
scopo della disciplina, anche alla luce del contesto
europeo in cui si inserisce (Dir. 2008/52/CE).
Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:
1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla
stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza
della natura della mediazione e delle sue finalità.
Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4,
comma 3, D.Lgs. n. 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul
piano deontologico (art. 40 codice deontologico).
Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i
soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;
2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a
1088
riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di
renderli in grado di verificare la possibilità di una
soluzione concordata del conflitto: questo implica
necessariamente che sia possibile una interazione
immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori,
dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti,
che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione
emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5,
comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo
con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la
presenza degli assistiti;
3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si
limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità
di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà
ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il
ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei
difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo
quando una mediazione sia effettivamente svolta e
vi sia stata un’effettiva chance di raggiungimento
dell’accordo tra le parti. Pertanto occorre che sia
svolta una vera e propria sessione di mediazione.
Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;
4) l’informazione sulle finalità della mediazione e
le modalità di svolgimento ben possono in realtà
essere rapidamente assicurate in altro modo: a) dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; b) dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati
(v. direttiva europea) e, per quanto concerne il
Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11
del protocollo del Progetto Nausicaa2) e, da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso
l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio
Unaltromodo dell’Università di Firenze;
5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo
incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella
mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti,
si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di “mediabilità” del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare
“la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il
comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre,
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in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte
della facoltà di chiedere la mediazione. Come si
vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere
il conflitto;
6) l’art. 5 della Direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in
mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del
giudice) per una semplice sessione informativa: un
ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione
disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai
difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività
svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o
più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione data dall’art. 1 del D.Lgs. n.
28/2010) e non di acquisire una mera informazione
e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla
volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.
Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che
ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di
pervenire ad una soluzione non giudiziale della
controversia, ed ha affermato la necessità che le
parti compaiano personalmente (assistite dai propri
difensori come previsto dall’art. 8, D.Lgs. n.
28/2010) e che la mediazione sia effettivamente
avviata.
Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo
stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la
condizione di procedibilità è soddisfatta anche
quando sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo (l’incontro di cui all’art. 8
comma 1, D.Lgs. n. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità
di svolgimento della mediazione. Il mediatore,
sempre nello stesso primo incontro, invita poi le
parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso
positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta,
dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla c.d. valutazione di mediabilità
e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.
Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di
Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare
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effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo
indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa
prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.
L’effettività del tentativo di mediazione
La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò in considerazione della lettera e della ratio delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 28/2010 e visto che l’istituto della mediazione mira ad un’effettiva interazione
tra le parti di fronte al mediatore (che deve poter
comprendere gli effettivi interessi delle parti) e ad
una soluzione extragiudiziale della controversia. È
solo in caso di dimostrata impossibilità di comparire personalmente (si pensi per esempio al legale
rappresentante di una grande banca o di un’importante compagnia di assicurazioni) che si potrà ritenere normalmente esercitabile il diritto di conferire una procura di carattere sostanziale ad un altro
soggetto.
In caso di mancata comparizione personale dell’attore, poi, la sua domanda non potrà considerarsi
munita di procedibilità. Se non comparirà il convenuto senza giustificato motivo dovrà valutarsi
l’applicabilità della disposizione sulla sanzione di
cui al comma 4 bis dell’art. 8 del D.Lgs. n. 28/2010
(applicabile comunque anche in ipotesi di ingiustificata mancata comparizione dell’attore).
Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere.
Il Legislatore ha espressamente regolato il regime
giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e
previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la
condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”. La disposizione, dunque, sembra richiamare
espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8
comma 1, cit.
Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che la mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.
Tuttavia, egli può comunque richiedere che in
questo primo incontro il tentativo di mediazione
sia stato effettivo.
Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti
non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo
quanto previsto dall’art. 8 del nuovo D.Lgs. n.
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28/10, “durante il primo incontro il mediatore
chiarisce alle parti la funzione e le modalità di
svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre
nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i
loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo,
procede con lo svolgimento”.
Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti
e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero
tentativo di conciliazione (magari per non pagare
il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tutto finisce
lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una
sola delle parti) della sua volontà contraria alla
mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può
impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del
procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla
chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti
in una posizione di soggezione. Ed è da credere che
tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se
si considera che, come accennato, è stato aggiunto
il comma 5 ter dell’art. 17 del D.Lgs. n. 28/2010,
secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito
del primo incontro nessun compenso è dovuto per
l’organismo di mediazione.
Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea
con la ratio della direttiva europea - ed è noto che
gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di Giustizia UE, a tentare un’interpretazione
delle disposizioni nazionali conforme alle norme
europee - che mira ad agevolare il più possibile la
soluzione delle controversie in modo alternativo a
quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a
esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura
di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento
della mediazione (il cui procedimento comunque
già inizia con il deposito dell’istanza di mediazio-
1090
ne). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza
di una delibera che autorizza l’amministratore di
condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla L. n. 220/2012) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla
mediazione deve anche essere un minore ovvero la
presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto
da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli
non deve verificare la “volontà” delle parti e dei
procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione. E nel
punto in cui la norma dice che “nel caso positivo,
procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel
senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le
parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di
risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter
dell’art. 17 del D.Lgs. n. 28/2010 contempla (come
il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto
compenso all’organismo).
Questa interpretazione è stata fatta propria nel
2014 dal Tribunale di Palermo (I Sezione civile),
che, sulla base degli argomenti sopra indicati, ha
affermato che la mediazione disposta dal giudice in
corso di causa deve svolgersi in modo effettivo durante il primo incontro tra le parti e il mediatore,
pena l’improcedibilità sopravvenuta del giudizio.
Con questa ordinanza del 16 luglio 2014, resa in
una causa in materia di responsabilità sanitaria nella quale disposta ed effettuata la CTU, il giudice
ha ritenuto di formulare in primo luogo una proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. (con
effetti ex art. 91 c.p.c.
La proposta formulata dal giudice siciliano ha recepito sostanzialmente la CTU ed ha invitato le parti
a riflettere sui rispettivi “vantaggi” di tale possibile
soluzione negoziale, evidenziando sia per l’attore
sia per il convenuto le diverse opportunità derivanti dall’adesione alla proposta conciliativa giudiziale. Il tribunale ha motivato brevemente le ragioni
che erano alla base della proposta e le ragioni che
dovevano indurre le parti a valutare con attenzione
l’opportunità di una loro adesione.
Nell’ordinanza in questione il Tribunale di Palermo, dopo aver formulato la proposta conciliativa,
ha preannunciato alle parti che in caso di mancata
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conciliazione in conseguenza della proposta formulata sarebbe stata disposta dal giudice la mediazione ex officio (ritenendola possibile per i processi già
pendenti all’entrata in vigore della riforma del
2013 e precisando che, anzi, nelle materie già selezionate dal legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege, come la responsabilità medico-sanitaria
di cui al giudizio in questione, poteva ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità,
avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione). Nel pronunciare questo tipo
di provvedimento sono stati pure richiamati espressamente gli orientamenti del Tribunale di Milano
e del Tribunale di Firenze.
Il giudice palermitano ha in buona parte condiviso
la sostanza dell’impostazione fiorentina, ritenendo
che la mediazione debba effettivamente svolgersi
(aggiungendo qualche argomento al riguardo, tratto da una interpretazione della lettera dell’art. 8,
D.Lgs. n. 28/2010, da leggere nel senso dell’impossibilità che il mediatore si accontenti dell’accertamento della volontà delle parti di procedere oltre,
dovendo invece verificare l’effettiva possibilità del
tentativo di conciliazione), ma discostandosi dall’interpretazione del giudice fiorentino sotto il profilo della presenza personale delle parti (“considerato che è invece difficile sostenere che le parti
debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di
carattere sostanziale ad un altro soggetto”).
Nell’ordinanza palermitana si precisa, quindi, che
secondo la normativa vigente il mediatore al primo
incontro non debba verificare la “volontà” delle
parti e dei procuratori, ma debba accertare la “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione.
Aderire all’orientamento milanese che ritiene sufficiente per la condizione di procedibilità un primo
incontro destinato alla informativa ed a una formale valutazione della mediabilità condurrebbe, peraltro, ad un “aborto legale della mediazione”.
In conclusione, il Tribunale di Palermo formula alle parti una proposta conciliativa e fissa per la verifica della posizione delle parti sulla proposta conciliativa un’udienza riservandosi di disporre in tale
udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento
di mediazione ex officio iudicis quale condizione di
procedibilità della domanda giudiziale, condizione
che si riterrà formata soltanto se nel primo incon-
tro il tentativo di mediazione sarà stato compiuto
dalle parti in modo effettivo.
Richiamando in particolar modo quest’ultimo
provvedimento del Tribunale di Palermo e tutti gli
altri argomenti già fatti valere per la mediazione ex
officio, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario l’espletamento effettivo del tentativo di conciliazione (alla presenza personale delle parti) anche
nella mediazione obbligatoria ex lege (ord. del 26
novembre 2014, Est. Breggia). Questo passaggio è
molto importante visto che, statisticamente, quasi
tutti i procedimenti di mediazione vengono attivati
in conseguenza dell’obbligo previsto, con riferimento a determinate materie, dall’art. 5, comma 1
bis, D.Lgs. n. 28/2011 e non in conseguenza dell’obbligo scaturente dagli ancora pochi provvedimenti giudiziali che creano, ex officio iudicis, la condizione di procedibilità dell’esperimento del procedimento di mediazione.
Analogamente, con l’ord. del 16 luglio 2014 il Tribunale di Roma (XIII Sezione civile - Giud. Moriconi) nel corso di un giudizio (in materia di responsabilità medica) nel quale era stata acquisita
una CTU disposta nel procedimento ai fini della
conciliazione della lite (art. 696 bis c.p.c.) ed in sede di trasformazione del rito ex art. 702 ter, comma
3, c.p.c., ha formulato una proposta conciliativa ed
ha disposto immediatamente per il caso della mancata adesione delle parti la mediazione delegata,
con l’avvertenza che è richiesta alle parti l’effettiva
partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza
giustificato motivo al procedimento di mediazione
demandata dal giudice, oltre a poter attingere alla
stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso
comportamento valutabile nel merito della causa.
Principio di effettività della mediazione applicato
dunque alla mediazione demandata dal giudice
(art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010) ma che già
viene ritenuta applicabile anche alla mediazione
obbligatoria preventiva ex lege (art. 5, comma 1 bis,
D.Lgs. n. 28/2010).
(1) V. Trib. Firenze, Sez. III, 18 marzo 2014; Trib. Rimini 16
luglio 2014; Trib. Cassino 8 ottobre 2014; Trib. Bologna, Sez.
III, 16 ottobre 2014; Trib. Monza, Sez. I, 20 ottobre 2014; Trib.
Bologna, Sez. III, 11 novembre 2014; Trib. Firenze 26 novem-
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I provvedimenti del Tribunale di Vasto
Molti altri sono, poi, i provvedimenti che hanno
richiesto la presenza effettiva e personale delle parti ai fini della formazione della condizione di procedibilità (1).
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Tra questi provvedimenti merita di essere segnalata
in particolare la sentenza emessa dal Tribunale di
Vasto in data 9 marzo 2015.
Nel relativo giudizio era stata disposta la mediazione ex officio iudicis, procedura al cui primo incontro
non erano comparse personalmente le parti e che
era poi stata dichiarata chiusa dal mediatore perché la società convenuta non aveva prestato il suo
consenso all’espletamento della mediazione.
Ora, il Tribunale di Vasto ritiene (anche sul solco
di percorsi motivazionali già sperimentati dal Tribunale di Firenze) che la lettura dell’art. 8 del
D.Lgs. n. 2872010 alla luce della Direttiva europea
2008/52/CE porta a ritenere adempiuto l’ordine del
giudice di andare in mediazione soltanto in caso di
presenza della parte (o di un suo delegato) accompagnata dal suo difensore, ma non anche in caso di
comparsa del solo difensore pure quale delegato
della parte.
Ciò anche alla luce del fatto che la mediazione mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di
una soluzione concordata del conflitto, il che implica necessariamente che sia possibile un’interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore
e che il mediatore deve poter comprendere quali
siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti, profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza senza il filtro dei
difensori.
In altri termini, si afferma che nella mediazione è
fondamentale la percezione delle emozioni nei
conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è,
pertanto, indispensabile un contatto diretto tra il
mediatore e le persone parti del conflitto, considerato pure che il principale significato della mediazione è il riconoscimento della capacità delle persone di diventare autrici del percorso di soluzione
dei conflitti che le coinvolgono e la restituzione
della parola alle parti per una nuova centratura
della giustizia.
Per il Tribunale di Vasto l’attività svolta in mediazione e che porta all’accordo conciliativo “ha natura personalissima e non è delegabile”.
Non si possono applicare analogicamente alla mediazione le norme che, in ambito processuale, consentono alla parte di farsi rappresentare dal difen-
sore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali.
Un altro argomento che viene valorizzato nella valutazione circa la presenza personale o meno delle
parti nel procedimento di mediazione è quello per
cui, essendo i difensori (definiti mediatori di diritto
dalla stessa legge) già a conoscenza della natura
della mediazione e delle sue finalità, non avrebbe
senso imporre l’incontro tra i soli difensori ed il
mediatore in vista, quindi, di un’inutile informativa.
Da ciò consegue il principio secondo cui, “sia per
la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del
giudizio ex art. 5, comma 1 bis, D. Lgs. n. 28/2010,
sia per la mediazione demandata dal giudice, ex
art. 5, comma 2, è necessario - ai fini del rispetto
della condizione di procedibilità della domanda che le parti compaiano personalmente (assistite dai
propri difensori, come previsto dal successivo art.
8) all’incontro con il mediatore”.
La presenza personale delle parti comporta, poi, degli oneri gravanti sia sul mediatore che sul soggetto
che ha interesse a munire di procedibilità la domanda giudiziaria.
E così, il mediatore (soggetto istituzionalmente
preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di
regolare espletamento della procedura) ha l’onere
di adottare, sempre secondo il Tribunale di Vasto,
ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti, ad esempio
disponendo un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte
assente a stimolarne la comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative
adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore) per il caso di assoluto impedimento a
comparire.
E la parte che ha interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda ha l’onere di
partecipare personalmente a tutti gli incontri di
mediazione, chiedendo al mediatore di attivarsi al
fine di procurare l’incontro personale tra i litiganti
e potrà pretendere che nel verbale d’incontro il
mediatore dia atto della concreta impossibilità di
procedere all’espletamento del tentativo di media-
bre 2014; Trib. Siracusa, Sez. II, 17 gennaio 2015; Trib. Caltanissetta 4 febbraio 2015; Trib. Pavia, Sez. III, 9 marzo 2015;
Trib. Palermo, Sez. II, 17 marzo 2015; Trib. Milano, Sez. I, 7
maggio 2015; Trib. Pavia, Sez. III, 18 maggio 2015; Trib. Siracusa, Sez. II, 5 luglio 2015; Trib. Monza, sez. I, 14 luglio 2015;
Trib. Verona 21 settembre 2015; Trib. Roma, Sez. XIII, 26 ottobre 2015 e 29 ottobre 2015; Trib. Pavia, Sez. III, 6 gennaio
2016; Trib. Roma, Sez. XIII, 14 luglio 2016; Trib. Modena, Sez.
II, 2 maggio 2016; Trib. Siracusa 11 aprile 2016.
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zione a causa del rifiuto della controparte di presenziare personalmente agli incontri.
Pertanto, il Tribunale di Vasto ha dichiarato il
mancato avveramento della condizione di procedibilità (con la conseguente dichiarazione d’improcedibilità della domanda) in quanto nella procedura
di mediazione demandata dal giudice non erano
comparse personalmente né la parte attrice né la
parte convenuta (mentre in loro rappresentanza
erano intervenuti soltanto i difensori, i quali non
avevano, peraltro, esposto al mediatore alcun giustificato motivo dell’assenza dei rispettivi assistiti)
ed il mediatore aveva dichiarato chiuso il procedimento senza dare atto a verbale delle ragioni dell’assenza delle parti e delle eventuali iniziative
adottate al fine di procurare la comparizione personale delle stesse. In tal caso, si afferma nella pronuncia in questione, il Giudice non può che dichiarare l’improcedibilità della domanda, non essendo praticabile (secondo la scelta adottata dal
Tribunale di Vasto, sotto questo profilo difficilmente condivisibile) l’alternativa soluzione (di cui
all’art. 5, comma 1 bis, D.Lgs. n. 28/2010) di assegnare alle parti un nuovo termine per la reiterazione della procedura di mediazione, essendo questa
già stata definita.
Analoghe sono le posizioni assunte dallo stesso
Tribunale di Vasto nell’ordinanza del 23 giugno
2015.
In quest’ultimo provvedimento si ritiene innanzitutto opportuno che, nella scelta dell’organismo di
mediazione, le parti si rivolgano ad enti il cui regolamento non contenga clausole limitative del potere, riconosciuto al mediatore dall’art. 11, comma 2,
del D.Lgs. n. 28/2010, di formulare una proposta di
conciliazione quando l’accordo amichevole tra le
parti non è raggiunto, in particolare restringendo
detta facoltà del mediatore al solo caso in cui tutte
le parti gliene facciano concorde richiesta. Ciò si
ritiene opportuno in quanto, ad avviso del decidente, tali previsioni regolamentari frustrano lo
spirito della norma - che è quello di stimolare le
parti al raggiungimento di un accordo - e non consentono al giudice di fare applicazione delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto, in
materia di spese processuali, così vanificandone la
ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati di proposte conciliative ragionevoli.
Secondo il Tribunale di Vasto, infatti, la formulazione di una proposta di conciliazione da parte del
mediatore - tutte le volte in cui le parti non abbiano raggiunto un accordo amichevole ed anche in
assenza di una richiesta congiunta delle stesse - co-
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stituisce un passaggio fondamentale della procedura di mediazione, vieppiù valorizzato dalle disposizioni del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, il quale - modificando l’art. 2 della L. 24 marzo 2001, n. 89, in
tema di equa riparazione per violazione del termine
di ragionevole durata del processo - ha introdotto
il comma 2 quinquies, a norma del quale “non è riconosciuto alcun indennizzo: (...) c) nel caso di cui
all’articolo 13, primo comma, primo periodo, del
decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”, con ciò
confermando la tendenza del legislatore ad introdurre nell’ordinamento meccanismi dissuasivi di
comportamenti processuali ostinatamente protesi
alla coltivazione della soluzione giudiziale della
controversia, la cui individuazione - però - presuppone necessariamente la previa formulazione (o,
comunque, la libera formulabilità) di una proposta
conciliativa da parte del mediatore ed il suo raffronto ex post con il provvedimento giudiziale di
definizione della lite.
Alla luce di queste considerazioni il Tribunale di
Vasto invia le parti in mediazione disponendo che
queste si rivolgano ad un organismo di conciliazione, pubblico o privato, presente all’interno del circondario del Tribunale di Vasto, a condizione, come detto, che il regolamento dell’ente non contenga clausole limitative della facoltà del mediatore di
formulare una proposta conciliativa, subordinandone - in particolare - l’esercizio alla condizione della
previa richiesta congiunta di tutte le parti.
Nella consapevolezza dell’importanza di tale proposta si “prescrive” pure che, in caso di effettivo svolgimento della mediazione che non si concluda con
il raggiungimento di un accordo amichevole, il mediatore provveda comunque alla formulazione di
una proposta di conciliazione, anche in assenza di
una concorde richiesta delle parti.
L’ordinanza in commento precisa, poi, che le parti
sono libere di scegliere l’organismo di mediazione
al quale rivolgersi, ma sono tenute (e qui si conferma l’orientamento espresso nella citata sent. del 9
marzo 2015) a partecipare personalmente, assistite
dal proprio difensore, all’incontro preliminare, informativo e di programmazione, che si svolgerà davanti al mediatore dell’organismo prescelto e nel
quale verificheranno se sussistano effettivi spazi per
procedere utilmente in mediazione. Si ritiene,
quindi, effettuando apposito avviso in tal senso alle
parti, che la mancata partecipazione personale delle parti senza giustificato motivo agli incontri di
mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso,
per tutte le parti costituite, presupposto per l’irro-
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Si è già detto che è preferibile la soluzione (sposata
anche dal Tribunale di Vasto) di richiedere la presenza effettiva delle parti al fine di ritenere formata
la condizione di procedibilità del previo esperimento del procedimento di mediazione. Ciò almeno
nel primo incontro nella mediazione obbligatoria
ex lege (per le ragioni sopra esposte) ed invece anche dopo nella mediazione disposta ex officio iudicis, all’interno della quale il giudice ha già effettuato la valutazione in concreto della mediabilità della controversia.
Tale soluzione è maggiormente in linea, per quanto sopra chiarito, con la lettera e la ratio delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 28/2010, il cui
tessuto normativo è finalizzato ad ottenere, in vista
di un’utile soluzione extragiudiziale della controversia, un confronto effettivo tra le parti ed a far
emergere i loro concreti interessi davanti al mediatore. L’art. 5 D.Lgs. n. 28/2010 fa riferimento soltanto alla funzione di assistenza del difensore e
non anche a quella di rappresentanza, dando quindi per presupposta la presenza degli assistiti e per
scontato che la parte ed il difensore siano due soggetti diversi (3). La possibilità di conferire una procura di carattere sostanziale ad altra persona va
quindi limitata ai soli casi di accertata impossibilità
di comparire personalmente. È questo il caso, ad
esempio, del legale rappresentante di una società
di grandi dimensioni o del soggetto affetto da gravi
patologie o residente all’estero.
Al di fuori di queste ipotesi o di fattispecie analoghe, deve ritenersi che in caso di mancata comparizione personale dell’attore la sua domanda giudiziale non sarà sorretta da una buona condizione di
procedibilità e potrà valutarsi l’applicabilità della
disposizione sulla sanzione di cui al comma 4 bis
dell’art. 8 del D.Lgs. n. 28/2010. La medesima sanzione potrà essere applicata se non comparirà il
convenuto senza giustificato motivo.
Correttamente il Tribunale di Vasto ha ritenuto,
sulla scia di quello fiorentino, che questo regime
sia applicabile ad entrambe le forme di mediazione
obbligatoria, ossia a quella prevista ex lege (anche
se qui, come detto, la comparizione personale è esigibile limitatamente al primo incontro, dopo il
quale la condizione di procedibilità si ha per formata ex art. 5, comma 2 bis, D.Lgs. n. 28/2010) ed
a quella disposta ex officio iudicis. In entrambi i casi,
invero, il giudice deve verificare se si sia formata
una buona condizione di procedibilità secondo
quelli che sono i requisiti richiesti, alla luce di
un’interpretazione sistematica e funzionalistica, dal
D.Lgs. n. 28/2010.
Ed altrettanto correttamente i provvedimenti in
commento pongono a carico del mediatore, che
deve attivarsi per garantire il regolare espletamento
del procedimento di mediazione, l’onere di porre
in essere ogni iniziativa idonea ad assicurare la presenza personale delle parti. In questo senso egli
può rinviare ad altra data il primo o gli altri incontri in assenza di una delle parti o può sollecitare
l’avvocato della parte assente a far comparire il suo
assistito al successivo incontro. Ciò che va chiarito, comunque, è che un buon mediatore può indurre e sollecitare la partecipazione personalissima
delle partiý (ove ciò appaia utile ed opportuno),
ma il giudice non può imporgli un tale comporta-
(2) Previsioni analoghe si leggono in due ordinanze del Tribunale di Siracusa del 17 gennaio 2015 e del 5 luglio 2015.
(3) Sulla necessaria dualità di tali soggetti v. anche Trib. Pavia, Sez. III, 18 maggio 2015.
gazione - anche nel corso del giudizio - della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4 bis,
D.Lgs. n. 28/2010, oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, comma
2, c.p.c.
Anche nell’ordinanza del 23 giugno 2015 vengono
poi indicati gli oneri gravanti sugli altri soggetti
del procedimento di mediazione, specificando che
incombe sul mediatore l’onere di verbalizzare i motivi eventualmente addotti dalle parti assenti per
giustificare la propria mancata comparizione personale e, comunque, di adottare ogni opportuno
provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza
personale delle stesse (rinvio del primo incontro o
sollecitazione informale del difensore della parte
assente a stimolare la comparizione di quest’ultima). In quest’ottica si invitano le parti a produrre
copia dei verbali degli incontri di mediazione e di
comunicare all’Ufficio l’esito della procedura di
mediazione con nota da depositare in Cancelleria,
almeno 10 giorni prima della successiva udienza, la
quale deve contenere informazioni in merito all’eventuale mancata partecipazione delle parti personalmente senza giustificato motivo, agli eventuali
impedimenti di natura pregiudiziale o preliminare
che abbiano impedito l’effettivo avvio del procedimento di mediazione, nonché, infine, con riferimento al regolamento delle spese processuali, ai
motivi del rifiuto dell’eventuale proposta di conciliazione formulata dal mediatore (2).
Osservazioni conclusive
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mento (solo al più sollecitabile, come ha fatto il
Tribunale di Vasto). La libertà del mediatore nella
conduzione degli incontri è essenziale.
È giusto poi, in conseguenza della prevista presenza
effettiva delle parti, che il giudice precisi al mediatore (come è stato fatto nei provvedimenti in commento) che egli è tenuto a dare atto a verbale che,
nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente
agli incontri né si è determinata a nominare un
suo delegato (diverso dal difensore) per il caso di
assoluto impedimento a comparire. Nella fase preliminare del procedimento di mediazione (peraltro
non avente esigenze di riservatezza) si valuta tra le
parti la sussistenza delle condizioni per “entrare”
nella mediazione e l’incastro tra mediazione e processo attraverso le condizioni di procedibilità esige
una verbalizzazione puntuale di questa fase, verbalizzazione che ricade nella responsabilità del mediatore, che decide come e cosa si debba o si possa
verbalizzare.
Bene ha fatto, quindi, il Tribunale di Vasto ad invitare le parti a produrre copia dei verbali degli incontri di mediazione ed a comunicare all’Autorità
giudiziaria l’esito della procedura di mediazione
con nota da depositare in Cancelleria contenente
informazioni sull’eventuale mancata partecipazione
delle parti personalmente senza giustificato motivo,
sugli eventuali impedimenti di natura pregiudiziale
o preliminare che abbiano impedito l’effettivo avvio del procedimento di mediazione, nonché sui
motivi del rifiuto dell’eventuale proposta di conciliazione formulata dal mediatore (circostanza rilevante ai fini della regolamentazione delle spese
processuali).
Ciò che non si condivide, però, è la prescrizione,
per il caso di effettivo svolgimento della mediazione senza il finale raggiungimento di un accordo,
che il mediatore formuli comunque una proposta
di conciliazione anche in assenza di una concorde
richiesta delle parti.
Poiché è solo nel caso in cui sussista una tale ultima richiesta che il mediatore è tenuto ad avanzare
una proposta di conciliazione, non è possibile prescrivere che egli lo faccia al di fuori dei casi previsti per legge. Al mediatore, che neppure è un ausiliario del giudice, non possono rivolgersi prescrizioni non previste da disposizioni di legge. Pur essendovi stretti collegamenti tra mediazione e processo,
tuttavia il mediatore conserva la sua autonomia rispetto all’organo giudicante. Non è il giudice che
lo nomina e non vi è un rapporto diretto tra giudice e mediatore. La mediazione - anche quella per
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ordine del giudice - è extragiudiziale e quindi si
svolge in un contesto che è fuori dal diretto controllo del giudice. Al più il mediatore può essere
dal giudice invitato (come ha fatto il Trib. Siracusa 5 luglio 2015) a formulare una proposta conciliativa o ad attivare altre buone prassi.
Analogamente, non è condivisibile l’invio in mediazione operato dal Tribunale di Vasto (con l’ord.
23 giugno 2015) prevedendo che le parti possano
rivolgersi soltanto ad un organismo di mediazione
il cui regolamento non contenga clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una
proposta conciliativa, come la subordinazione dell’esercizio di tale facoltà alla previa richiesta congiunta di tutte le parti.
Una condizione di tale natura, che esclude il possibile ricorso ad organismi in conseguenza della presenza nei loro regolamenti di clausole del tutto legittime secondo le attuali previsioni normative,
non pare imponibile da parte del giudicante.
È vero, poi, che la formale proposta del mediatore
può in alcuni casi agevolare il percorso di potenziale arrivo ad un accordo conciliativo, tuttavia essa
non è affatto indispensabile nella logica della soluzione extragiudiziale della controversia. Né è possibile disapplicare le disposizioni che non impongono al mediatore la formulazione di una tale proposta e, a monte, non escludono che gli organismi di
mediazione prevedano nei loro regolamenti clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa.
Ed un’altra soluzione che non sembra in linea con
le disposizioni del D.Lgs. n. 28/2010 e con le loro
finalità è quella contenuta nell’ord. del 9 marzo
2015 che, constatata la mancata ed ingiustificata
presenza effettiva delle parti, dichiara improcedibile la domanda invece di assegnare alle parti un
nuovo termine per la reiterazione della procedura
di mediazione.
La motivazione di questa scelta è quella per cui
“la norma dell’art. 5, comma 1-bis, D. Lgs. n.
28/10, che impone al giudice l’obbligo di assegnare
alle parti il termine per la presentazione della domanda di mediazione e di fissare la successiva
udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art.
6, si applica soltanto al caso in cui la mediazione è
già iniziata ma non si è ancora conclusa e al caso
in cui essa non è stata affatto esperita, ma non anche alla diversa ipotesi (come quella in esame) in
cui la mediazione è stata tempestivamente introdotta e definita, ma in violazione delle prescrizioni
che regolano il suo corretto espletamento”.
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In realtà, al mancato espletamento della procedura
va equiparata l’ipotesi del mancato regolare espletamento della stessa. In entrambi i casi deve ritenersi non formata una buona condizione di procedibilità, con la conseguenza che il giudice deve assegnare un termine per depositare l’istanza di mediazione, a nulla rilevando che sia stato concluso
un procedimento irregolarmente svoltosi.
La differenza che deve farsi non è tra procedura irregolare e procedura mancante o con termine finale non scaduto, ma tra il verificarsi di questi casi
prima del rilievo officioso e il verificarsi delle medesime ipotesi dopo che il giudice ha inviato le
parti in mediazione.
Invero, se la mediazione è mancata o non si è ultimata o è stata irregolarmente svolta il giudice non
potrà che accertare che non si è ben formata la
condizione di procedibilità e dovrà mandare le parti in mediazione. Diversamente, quando il giudice
ha già disposto che le parti instaurino il procedi-
1096
mento di mediazione indicando pure la necessità
della loro comparizione personale, se le parti non
hanno rispettato il provvedimento giudiziale non
introducendo il procedimento o non esperendolo
regolarmente (ad esempio tramite comparizione
personale), non si potrà inviarli nuovamente in
mediazione poiché diversamente opinando tale
meccanismo potrebbe ripetersi all’infinito.
In particolare, inviate le parti in mediazione, il giudice dovrà dichiarare l’improcedibilità della domanda se non compare personalmente l’istante (o
se questi addirittura non presenta la domanda di
mediazione dopo l’ordine giudiziale), soggetto al
quale andrà pure comminata la sanzione per mancata ingiustificata comparizione. Analogamente, se
non compare personalmente in mediazione il chiamato, la detta sanzione andrà applicata a quest’ultimo, senza alcuna conseguenza relativamente alla
procedibilità della domanda se l’istante è comparso.
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Trust interno
Tribunale di Udine 28 febbraio 2015 - Giud. Zuliani - G I.C. (avv. Campeis) c. D.D.T. e S.D.T.
(avv. Ponti) e F.C. (avv. Simeoni) e Galvani Fiduciaria S.r.l., nella qualità di trustee dei trust X e
Y (avv. ti Panella,Tonelli)
Poiché la Convenzione dell’Aja non impone agli Stati contraenti il riconoscimento dei trust interni, e poiché
alla legge di ratifica della Convenzione non può essere attribuito valore normativo diverso ed ulteriore rispetto a quello desumibile dalla Convenzione, siffatti trust non possono essere riconosciuti dal nostro ordinamento o, meglio, i relativi atti di costituzione devono essere dichiarati nulli per impossibilità giuridica dell’oggetto, in quanto volti a creare una forma di segregazione patrimoniale non prevista e non consentita dal nostro
ordinamento.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Santa Maria Capua Vetere 14 luglio 1999, in Trust, 2000, 251; Trib. Belluno 25 settembre 2002, in Giur. mer.,
2003, 1688; Trib. Napoli 1° ottobre 2003, in Trust, 2004, 74; App. Napoli 27 maggio 2004, in Trust, 2004; Trib. Velletri 8 giugno 2005, in Europa e dir. priv., 2005, 785; Trib. Monza 13 ottobre 2015, in www.ilcaso.it.
Difforme
Trib. Genova 24 marzo 1997, in Giur. comm., 759; Trib. Pisa 22 dicembre 2001, in Giur. mer., 2002, 384; Trib. Bologna 1° ottobre 2003, in Vita not., 2003, 1304; Trib. Bologna 16 giugno 2003, in Trust 2003, 581; Trib. Parma 3 marzo 2005, in Trust, 2005, 410; Trib. Trieste 23 settembre 2005, in Trust, 2006, 83; Trib. Milano 16 giugno 2009, in
Trust, 2009, 533; Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2011, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, 160.
Il Tribunale (omissis).
Motivi della decisione
(omissis).
Detto brevemente che tutti gli ulteriori motivi di decadenza prospettati da parte attrice sono privi di fondamento (non avendo trovato riscontro probatorio l’affermata esistenza di altri crediti e beni non dichiarati in
sede di inventario, non potendosi considerare motivi di
decadenza il pagamento di un debito - peraltro effettuato dalla banca in base a disposizioni precedentemente
ricevute - né le opposizioni a decreti ingiuntivi ed essendo del tutto generiche le allegazioni relative alla
“continuità” data alle iniziative imprenditoriali di
R.D.T., che ovviamente facevano capo a distinte persone giuridiche delle cui partecipazioni sociali egli non
era formalmente titolare al momento dell’apertura della
successione), l’accertata commistione dei patrimoni personali di D. (...) e S. (...) D. (...) T. (...) con il patrimonio loro trasmesso dal de cuius legittima (...) (...) C. (...)
a proporre - nei confronti di quei due convenuti - le domande che sono l’oggetto della causa iscritta al n.
1820/12
R.A.C.C. e che tendono all’accertamento della non riconoscibilità, dell’invalidità, o comunque dell’inefficacia nei suoi confronti, degli atti di disposizione patrimoniale connessi alla costituzione dei trust “C. (...)” e “S.
(...)”. Non è discutibile (e non è in discussione) che si
tratta di due trust c.d. interni, in quanto essi non hanno
alcun elemento di estraneità rispetto all’ordinamento
italiano se non quello della legge applicabile scelta dei
soggetti disponesti (legge del Jersey). È noto che, negli
ultimi lustri, un crescente orientamento dottrinale e
giurisprudenziale ha affermato - non senza contrasti -
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che siffatti trust interni sarebbero ora consentiti nell’ordinamento italiano dalla L. 16 ottobre 1989, n. 264,
che ha ratificato la Convenzione dell’Aja dell’1 luglio
1985 “sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento”. A tale orientamento è stato opposto, da un
lato, che quella legge ratifica un trattato di diritto internazionale privato, il cui scopo è tipicamente quello di
regolare fattispecie concrete con elementi oggettivi di
interferenza tra diversi ordinamenti nazionali; dall’altro
lato, che l’art. 13 della Convenzione, lungi dal porre
una deroga a questo principio, lo ribadisce affermando
che “Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui
elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la
categoria del trust in
questione”. Ciò dovrebbe stare a significare che gli ordinamenti non-trust - che con la firma della Convenzione
si impegnano a riconosce al loro interno gli effetti dei
trust costituiti nei Paesi che prevedono quell’istituto restano liberi di riconoscere o meno i trust interni (ai
quali vengono equiparati quelli in cui gli unici elementi
di estraneità, oltre
alla scelta della legge applicabile, sono la residenza o la
sede del trustee). Secondo il citato orientamento dottrinale e giurisprudenziale ormai maggioritario, tale libero
(in quanto non imposto dalla Convenzione dell’Aja) riconoscimento del trust interno non sarebbe riservato ad
un’iniziativa del legislatore, ma sarebbe direttamente
demandato al giudice, investito del compito di verificare - volta per volta ed esaminando le caratteristiche del
caso concreto (la “causa concreta” del negozio) - la
“meritevolezza” o meno del singolo trust. Tale impostazione merita la massima attenzione, non solo per l’auto-
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revolezza della dottrina e della giurisprudenza di merito
che la sostengono, ma anche perché ha ormai sostanzialmente fatto breccia, sia pure per implicito, nella giurisprudenza di legittimità. Infatti, Cass. 9 maggio 2014,
n. 10105, ha sì negato la riconoscibilità ad un c.d.
trust liquidatorio costituito da un imprenditore ormai
insolvente al solo scopo di evitare l’applicazione della
normativa fallimentare, ma partendo dall’implicito presupposto che il trust interno sia astrattamente riconoscibile (e alla decisione negativa i giudici supremi sono
giunti facendo leva sul limite posto dall’art. 15, par. 1,
lett. e), della Convenzione, ritenendo invece che l’art.
13 “si rivolge allo Stato” e non al giudice; il che peraltro ravviva il dubbio che la legge di ratifica del trattato,
in mancanza di successivo atto normativo di “riconoscimento” del trust da parte dello “Stato”, non sia idonea
da sola a dare copertura normativa al trust interno).
Nonostante la rilevata autorevolezza e la crescente diffusione dell’orientamento prevalente, questo giudice ritiene di aderire alla tesi minoritaria secondo cui lo scopo della Convenzione dell’Aja (e quindi anche della
legge di ratifica) “è solo quello di permettere ai trust costituiti nei Paesi di common law di operare anche nei sistemi di civil law”. Si tratta, infatti, “pur sempre di una
Convenzione in tema di conflitti di leggi” alla quale
non può essere attribuito “il carattere di una Convenzione di diritto sostanziale uniforme” (così Tribunale di
Belluno, 16 gennaio/12 febbraio 2014, in ilCaso.it, alla
cui approfondita e perspicua motivazione si rinvia, ai
sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., anche per
i diffusi riferimenti ai lavori preparatori della Convenzione e della legge di ratifica, nonché per la confutazione delle paventate ragioni di incostituzionalità della soluzione qui preferita). In definitiva, poiché la Convenzione dell’Aja non impone agli Stati contraenti il riconoscimento dei trust interni, e poiché alla legge di ratifica della Convenzione non può essere attribuito valore
normativo diverso ed ulteriore rispetto a quello desumibile dalla Convenzione, non pare possibile individuare
nella L. n. 364 del 1989 la fonte normativa della pretesa legittimità dei trust interni. Eppure, è proprio sulla
Convenzione dell’Aja e sulla sua legge di ratifica (piuttosto che su una riconsiderazione in termini generali
dei limiti posti all’autonomia privata dalla legge italiana) che fa leva l’orientamento favorevole al “riconoscimento” dei trust interni. Ma, a ben vedere, nel caso di
totale assenza di elementi di estraneità del rapporto giuridico diversi dalla mera scelta della legge applicabile,
lo stesso concetto di “riconoscimento” del trust risulta
appannato e svuotato del significato che esso ha nel
contesto normativo in cui è utilizzato dal legislatore, Infatti, il riconoscimento presuppone che determinati
“rapporti giuridici istituiti da una persona” promanino
da un certo ordinamento per produrre effetti in un altro
ordinamento (il quale convenzionalmente si impegna a
riconoscere quegli effetti anche al suo interno). Il che
evidentemente non si verifica laddove tutti i soggetti e
tutti i beni coinvolti nella costituzione del trust siano
collocati esclusivamente all’interno di un unico ordinamento statuale. In questi casi, più che di riconoscere un
1098
trust straniero, si tratta di considerare valida o meno la
volontà dei soggetti privati volta ad istituire rapporti regolati da norme straniere incompatibili con gli istituti
privatistici del diritto interno. Sulla base di tali argomenti, si conclude che i trust “C. (...)” e “S. (...)”, oggetto di causa, non possono essere riconosciuti dal nostro ordinamento o, meglio, che i relativi atti di costituzione devono essere dichiarati nulli per impossibilità
giuridica dell’oggetto, in quanto volti a creare una forma di segregazione patrimoniale non prevista e non
consentita dal nostro ordinamento (v. art. 2740, comma
2, c.c., che non consente “limitazioni della responsabilità ... se non nei casi stabiliti dalla legge”). Ciò rende
nulli - per mancanza di causa o, analogamente, per impossibilità giuridica del risultato voluto dalle parti - anche gli atti di disposizione con cui D. (...) e S. (...) D.
(...)T. (...) conferirono i loro beni immobili nei rispettivi trust (v., in tal senso, la motivazione della citata
Cass. 9 maggio 2014, n. 10105). Il tutto, a prescindere
dall’esame delle contestazioni di parte attrice relativamente alla effettività dello scopo dichiarato dai disponenti negli atti costituiti (assistenza alla madre disabile)
e alla meritevolezza degli interessi da loro effettivamente perseguiti. Non può, invece, essere contestata la validità della costituzione del diritto reale d’uso in favore
della madre sui beni immobili di C., via (...) mentre l’azione revocatoria - assorbita dalla dichiarazione di nullità per quanto riguarda i trust e i relativi conferimenti è infondata per quanto riguarda la costituzione del citato diritto d’uso, per la palese mancanza di pregiudizio in
capo all’attrice, in considerazione sia della modesta entità del credito accertato in suo favore, sia della recuperata garanzia patrimoniale sui beni conferiti in trust.
(omissis).
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Giurisprudenza
Diritto civile
Negata la validità del c.d. “trust interno”
di Guido Maria Tancredi (*)
Il Tribunale di Udine, discostandosi dall’orientamento divenuto negli ultimi anni dominante nella
giurisprudenza di merito, ha ritenuto di aderire alla tesi che, valorizzando il contenuto internazional-privatistico della Convenzione dell’Aja relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento,
nega l’ammissibilità del c.d. “trust interno”.
Nella sentenza che si annota il Tribunale di Udine
si è pronunciato sul controverso problema dell’ammissibilità nel nostro ordinamento del c.d. “trust
interno”, in virtù della ratifica della Convenzione
dell’Aja relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento sottoscritta il 1° luglio 1985 (d’ora in
poi “Convenzione”) (1).
La Convenzione non ha avuto l’effetto di introdurre il trust in Italia o in altri paesi, ma si è limitata a disciplinare il conflitto delle leggi nello spazio e la scelta della legge applicabile (2), permettendo in questo modo ai trusts, indipendentemente dalla legge dalla quale sono disciplinati, di produrre effetti nei cosiddetti ordinamenti “non
trust” (3).
Tuttavia, a seguito della ratifica del trattato da parte del nostro ordinamento, si è assistito all’ampia
diffusione nella prassi negoziale del c.d. “trust inter-
no”. Con siffatta espressione si intende quel trust i
cui elementi costitutivi siano tutti riconducibili all’ordinamento del giudice adito ed il cui esclusivo
profilo di estraneità sia soltanto la legge, straniera,
scelta dal costituente ai sensi dell’art. 6 della Convenzione (4).
L’articolo 6 della Convenzione sembrerebbe assegnare al settlor la più ampia libertà di scelta della
legge regolatrice, ponendo quale unico limite che
la legge scelta preveda “l’istituto del trust o la categoria di trust in questione” (5). Sulla base di questa
premessa, alcune correnti di pensiero che, come ricordato, hanno trovato ampi riscontri nella prassi
negoziale, ritengono che in virtù della Convenzione sia possibile costituire da parte di cittadini italiani residenti in Italia un trust che abbia ad oggetto beni siti in Italia e che sia, tuttavia, disciplinato
da una legge straniera (6).
Anche il formante giurisprudenziale si è mostrato
favorevole all’ammissibilità del trust intero (7). La
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Il testo integrale della sentenza che si annota e pubblicato in Trust, 2015, 375.
(2) In tal senso per tutti A. Zoppini, Destinazione patrimoniale e trust: raffronti e linee per una ricostruzione sistematica, in
Riv. dir. priv., 2007, 724.
(3) Peraltro, come precisa l’art. 1 “La presente Convenzione
determina la legge applicabile ai trust e ne regola il riconoscimento”.
(4) In una prospettiva internazionale rilevano la peculiarità
del fenomeno cui si assiste in Italia D. Waters, The Hague
Trusts Convention Twenty Years On, in M. Graziadei - U. Mattei
- L. Smith (a cura di), Commercial Trusts in European Private
Law, Cambridge, 2005, 92; M. Graziadei, Recognition of common law trusts in civil law jurisdictions under the Hague Trusts
Convention with particular regard to the Italian experience, in L.
Smith (a cura di), Re-immagining the trust. Trusts in civil law,
Cambridge, 2012, 65 ss.
(5) Cfr. per tutti Graziadei, Recognition of common law trusts
in civil law jurisdictions, cit., 54 s.
(6) La letteratura è vasta sull’argomento. Per una rassegna
delle diverse teorie prospettate cfr. A. Braun, Trust interni, in
Riv. dir. civ., 2000, II, 577 ss.; S. Bartoli, Il trust interno e le principali questioni ad esso inerenti, in M. Bianca - A. de Donato (a
cura di), Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale. Il lungo
cammino di un idea, I quaderni Ricerche, Fondazione Italiana
del Notariato, Milano, n. 2/2013, 36 ss.
(7) In senso contrario all’ammissibilità del trust interno v.:
Trib. Santa Maria Capua Vetere 14 luglio 1999, in Trust, 2000,
251; Trib. Belluno 25 settembre 2002, in Giur. mer., 2003,
1688; Trib. Napoli 1° ottobre 2003, in Trust, 2004, 74; App. Napoli 27 maggio 2004, in Trust, 2004; Trib. Velletri 8 giugno
2005, in Europa e dir. priv., 2005, 785 con nota di S. Mazzamuto; Trib. Belluno 16 gennaio 2014; in www.ilcaso.it, con nota di
A. Tonelli; da ultimo Trib. Monza 13 ottobre 2015, in www.ilcaso.it.; in senso favorevole v., tra le tante, Trib. Genova 24 marzo 1997, in Giur. comm., 759, con nota di A. Moja; Trib. Pisa
22 dicembre 2001, in Giur. mer., 2002, 384; Trib. Bologna 1°
ottobre 2003, in Vita not., 2003, 1304; Trib. Bologna 16 giugno
2003, in Trust, 2003, 581; Trib. Parma 3 marzo 2005, in Trust,
2005, 410; Trib. Trieste 23 settembre 2005, in Trust, 2006, 83;
Trib. Milano 16 giugno 2009, in Trust, 2009, 533; Trib. Reggio
Emilia 14 marzo 2011, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, 160,
con nota di P. Spolaore; per ulteriori riferimenti cfr. Bartoli, Il
trust interno e le principali questioni ad esso inerenti, cit., 37, nt.
7; D. Muritano, Negozi di destinazione e trust interno, in G. Vettori, (a cura di), Atti di destinazione e trust, Padova, 2008, 270
s., nt. 8; P. Manes, voce Trust interni, in Dig. disc. priv., sez.
civ., VIII agg., Torino, 2013, 779 s. Sono, invece, ancora rare
pronunce della Corte di legittimità sull’argomento. A tal proposito si segnala Cass. 9 maggio 2014, n. 10105, in Foro it.,
2015, I, 1328 con nota di A. Palmieri, richiamata anche dal Tribunale di Udine nella sentenza in rassegna. La pronuncia prende in esame un’ipotesi di trust c.d. “liquidatorio” e, tuttavia,
sembrerebbe muovere dall’implicito presupposto della riconoscibilità del trust interno. In particolare la Corte di Cassazione
ha affermato che “il ‘programma di segregazione’ corrisponde
La questione al vaglio del Tribunale
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Diritto civile
pronuncia che si annota suscita particolare interesse in quanto si discosta dall’orientamento divenuto, negli ultimi anni, dominante nella giurisprudenza di merito.
Il presente contributo si pone l’obiettivo di fare il
punto sulle tesi in tema di trust interno che possono dirsi ormai consolidate e di compiere alcune
brevi riflessioni sulla tematica, anche alla luce dell’introduzione nell’ordinamento italiano dell’art.
2645 ter c.c.
Nelle cause riunite l’attrice, che era stata compagna del de cuius negli ultimi anni della sua vita, ha
agito quale creditrice dell’eredità e, oltre all’accertamento dei propri crediti, ha chiesto, sia che gli
eredi convenuti fossero dichiarati decaduti dal beneficio di inventario al quale avevano condizionato l’accettazione dell’eredità, sia che fosse accertata
l’invalidità, o comunque, l’inefficacia nei suoi confronti ai sensi degli artt. 2901 ss. c.c., di una serie
di atti negoziali con cui i figli del de cuius avevano
istituito due trusts nei quali avevano conferito i
propri beni immobili costituendo, in seguito, anche
un diritto d’uso vitalizio a favore della madre su un
immobile di considerevole valore.
Il credito vantato dall’attrice nei confronti dell’eredità derivava dall’estinzione da parte sua di un debito oggetto di un mutuo cointestato alla stessa e
al de cuius. Il Tribunale, accertata l’esistenza solo
in parte del suddetto credito di regresso dell’attrice
nei confronti dell’eredità e rilevato che nel caso in
esame i trusts non presentavano elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano - fatta salva,
ovviamente, la legge regolatrice individuata dai disponenti - ha aderito alla tesi che valorizzando il
contenuto internazional-privatistico della Convenzione nega l’ammissibilità del trust interno (8).
Tale corrente di pensiero, sebbene sia stata disattesa dalla giurisprudenza di merito dominante, mantiene senza dubbio la propria autorevolezza fondandosi - come sarà illustrato nei paragrafi che seguono - su valide argomentazioni.
Una volta ritenuto che la Convenzione presuppone per la sua applicazione degli elementi di internazionalità della fattispecie, e che, dunque, essa
con riferimento ai trusts oggetto della decisione
non poteva essere invocata quale deroga alla tassatività delle forme di separazione patrimoniale prevista dall’art. 2740, comma 2, c.c. (9), il Tribunale
di Udine ha dichiarato i relativi atti di costituzione
nulli per impossibilità giuridica dell’oggetto in
quanto volti a creare una forma di segregazione pa-
solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione,
laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, la causa concreta del negozio, secondo la nozione da tempo recepita da
questa Corte (tanto da esimere da citazioni). Quale strumento
negoziale ‘astratto’, il trust può essere piegato invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione: particolarmente rilevante in uno strumento estraneo alla nostra tradizione di diritto civile e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti
all’elusione di norme imperative”. In tale pronuncia la Corte di
cassazione ha, tuttavia, affermato che l’art. 13 della Convenzione sarebbe una norma rivolta agli Stati firmatari e non al
singolo giudice.
(8) Da ultimo si segnala la pronuncia del Trib. Monza 13 ottobre 2015, in www.ilcaso.it. con la quale è stato negato il riconoscimento di un trust interno in base alla considerazione
secondo cui “(...) la valutazione di meritevolezza dell’interesse
perseguito, così come quella di liceità o meno dello scopo, è
estranea al controllo di cui all’art. 13, fondato bensì su presupposti di carattere oggettivo e formale. Il giudizio sulla causa
concreta rileverebbe, semmai, a fini di sussunzione entro uno
degli interessi protetti inderogabilmente dall’art. 15, oppure
entro la cornice delle norme di ordine pubblico dell’art. 18. Va
da ultimo sottolineato che l’art. 13 si riferisce allo Stato e non
al giudice. È da valutare se la norma sia irrilevante, siccome diretta ad altra autorità (anziché giurisdizionale) (...) È però vero
che l’Italia, ratificando la Convenzione, non ha esercitato il potere discrezionale conferitole dall’art. 13. Quindi, non ha inteso
vincolarsi al riconoscimento di trusts a carattere meramente interno. Il che non può non avere una ricaduta sull’attività inter-
pretativa del giudice. Se l’Italia ha optato contro il vincolo di riconoscimento, e se, del resto, dall’art. 13, vien fatto ricavare
che non basta il solo art. 11 id est, il sol fatto che sia si voluta
una legge straniera a regolare l’istituto a concludere per il riconoscimento del trust interno, ecco che deve rimanere discrezionalità di giudizio. E l’esercizio di tale discrezionalità non può
non condurre a esito negativo, tutte le volte in cui nessuno degli elementi significativi del trust denoti estraneità”.
(9) Al riguardo appare utile ricordare la più celebre delle
teorie giuridiche francesi che è la thèorie du patrimoine concepita da Charles Marie Aubry e Charles Fèderèric Rau. Per un’analisi dell’influenza di tale teoria sull’ordinamento italiano cfr.
A. Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv.
dir. civ., 2002, 1, 552 s., il quale nell’illustrare la teoria dei due
A.A. francesi osserva che “Il patrimonio è un diritto che trova
il suo fondamento nella stessa personalità del proprietario: la
persona non ha un diritto sul patrimonio, ma è un patrimonio,
nel senso che per il diritto privato essa s’identifica con la vicenda patrimoniale che le compete”. Da tale impostazione discendono tre corollari: a) il patrimonio non è trasmissibile tra
vivi; b) è indivisibile; c) ogni persona ha un patrimonio e non
può averne che uno solo; cfr. anche A. Gambaro, Segregazione
e unità del patrimonio, in Trust, 2000, 155. Per un’approfondita
indagine sul principio della responsabilità patrimoniale del debitore e sulla sua evoluzione storica cfr. G. Rojas Elgueta,
Autonomia privata e responsabilità patrimoniale del debitore, Milano, 2012, 1 ss.; in argomento cfr. anche L. Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 48 ss.; R. Quadri,
La destinazione patrimoniale, profili normativi, Napoli, 2004,
324 ss.; A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Milano, 2007, 1 ss.; S. Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009, 43 ss.
Il caso e la decisione
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trimoniale non prevista e non consentita dall’ordinamento italiano.
Una simile impostazione è stata già adottata dal
Tribunale di Velletri nel 2005, il quale, nell’attribuire alla Convenzione natura di norma di diritto
internazionale privato, ha stabilito che essa non
può concedere alle parti la possibilità di scegliere
una legge regolatrice diversa di quella a cui tutti
gli elementi della fattispecie fanno riferimento. Secondo il Tribunale di Velletri, una volta escluso
che la Convenzione possa essere considerata fonte
normativa del trust interno con valore di legge dello Stato, consegue “l’impossibilità di applicare alla
fattispecie oggetto di causa la normativa inglese
scelta dal disponente, dovendosi utilizzare la legge
italiana quale lex fori. Questo risultato scaturisce
dalla circostanza che la legge straniera, nel caso in
esame richiamata solo per consentire l’applicazione
della Convenzione, è inidonea a produrre alcun effetto giuridico in un ordinamento al quale non appartiene e, perciò, la clausola che la prevede è da
reputarsi nulla per impossibilità dell’oggetto” (10).
Tuttavia la pronuncia richiamata, dopo aver negato l’ammissibilità del trust interno, ha affermato la
possibilità di configurare un trust interamente regolato dalle norme di diritto italiano (il c.d trust di
diritto interno) (11), facendo salvo in questo modo
il negozio oggetto della decisione (12). Il Tribunale
di Udine, al contrario, nell’aderire all’interpretazione più rigorosa dell’art. 2740, comma 2, c.c. che
ravvisa nella norma un divieto posto dall’ordinamento a tutela del credito, ha escluso la suddetta
possibilità (13). Nella prospettiva tracciata, ai privati non sarebbe consentita la possibilità di dare
luogo a forme di separazione patrimoniale all’infuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge.
A tale impostazione si contrappone invece la tesi condivisa dal Tribunale di Velletri nella pronuncia
ricordata - secondo cui la limitazione della responsabilità di cui tratta l’art. 2740 c.c. sarebbe da collocare su un piano diverso rispetto alla separazione
patrimoniale. In particolare, secondo questa corrente di pensiero, nella regola dell’art. 2740 c.c. è
necessario distinguere la limitazione del patrimonio, che sarebbe sempre consentita, e le limitazioni
della responsabilità, che, al contrario della prima,
sarebbero da intendersi vietate al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge (14). In questo
quadro il discrimine sarebbe collocato tra gli atti
che mirano a ridurre la responsabilità del debitore
sottraendo i beni alla garanzia dei creditori e gli atti volti a conferire ad alcuni beni una specifica destinazione (15).
Sulla base di tale premessa, la tesi in esame giunge
alla conclusione secondo cui un’incompatibilità
dell’effetto segregativo del trust con il disposto di
(10) Trib. Velletri 8 giugno 2005, cit.
(11) Sul c.d. trust di diritto interno cfr. L. Gatt, Dal trust al
trust. Storia di una chimera, II ed., Napoli, 2010, 73 ss.; Id. La
nullità della clausola di rinvio alla legge straniera nei trust interni, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 622 ss.; M. Lupoi, Trusts,
Milano, 2001, 547.
(12) V. Trib. Velletri 8 giugno 2005, cit., il quale, dopo aver
ricostruito la fattispecie istituita dalle parti quale “(...) negozio
a prestazioni corrispettive con effetti in favore del terzo, per
mezzo del quale il trustee è divenuto proprietario di alcuni beni
ed i beneficiari hanno acquistato un diritto di credito nei confronti del trustee sul quale gravano gli obblighi di carattere essenzialmente fiduciario (...)” ne ha affermato l’ammissibilità.
Secondo l’impostazione adottata, si tratterebbe di un negozio
atipico degno di tutela in ragione della meritevolezza degli interessi perseguiti ai sensi dell’art. 1322 c.c.
(13) L’art. 2070, comma 2, c.c. è tradizionalmente interpretato quale specificazione della tutela che il primo comma del
medesimo articolo riconosce ai creditori. In quest’ottica, poiché tale norma si concretizzerebbe in un divieto, le eventuali
violazioni dello stesso sono risolte in termini di invalidità dell’atto. L’effetto di segregazione patrimoniale, nella prospettiva
tracciata, si porrebbe infatti in contrasto con il principio dell’unitarietà della responsabilità patrimoniale consacrato nell’art.
2740 c.c. In tal senso cfr. per tutti L. Barbiera, Responsabilità
patrimoniale - Disposizioni generali, in Il codice civile - Commentario, diretto da P. Schlesinger, art. 2740 - 2744, Milano,
1991, 132; per ulteriori riferimenti Meucci, La destinazione di
beni tra atto e rimedi, cit., 362. Ma sul punto cfr. anche Rojas
Elgueta, Autonomia privata e responsabilità patrimoniale del debitore, cit., spec. 92, il quale ritiene che dalla riserva di legge
posta al secondo comma dell’art. 2470 c.c. non sarebbe dato
desumere un divieto, bensì un principio di “standardizzazione”
degli strumenti utilizzabili dall’autonomia privata per dar luogo
alla separazione patrimoniale. Da tale principio discenderebbe
l’inefficacia e non l’invalidità dell’atto di separazione patrimoniale atipico.
(14) Gambaro, Segregazione e unità del patrimonio, cit.,
156, il quale osserva che “Nelle posizioni dei nostri interpreti
non vi è una minor dose di precomprensione di quanta non ve
ne fosse nella teoria scopertamente giusnaturalistica e dogmatica di Aubry e Rau. In realtà quella teoria aveva almeno il pregio della forza logica”; S. Mazzamuto, Il Trust nell’ordinamento
italiano dopo la convenzione dell’Aja, in Vita not., 1998, I, 754,
ss.; Id, Trust interno e negozio di destinazione, in Europa e dir.
priv., 2005, 809 ss.; A. Falzea, Introduzione e considerazioni
conclusive, in AA.VV., Destinazione di beni allo scopo, strumenti
attuali e tecniche normative, Milano, 2003, 23; G. Palermo,
Contributo allo studio del trust e dei negozi di destinazione disciplinati dal diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2001, I, 414 ss.; Id.,
Ammissibilità e disciplina del negozio di destinazione, in Destinazione dei beni allo scopo, cit., 251; sul punto cfr. anche Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, cit., 369 s.
(15) Cfr., per tutti, Mazzamuto, Trust interno e negozio di destinazione, cit., 813 s., il quale osserva che “La separazione patrimoniale quale conseguenza di un atto di autonomia privata
apre una linea di confronto con l’art. 2740 c.c. che non deve
condurre necessariamente ad un conflitto ovvero alla assoluta
prevalenza del divieto rispetto all’atto negoziale; ma ad un ripensamento a valle dell’atto di autonomia, laddove venga dimostrato un concreto e specifico pregiudizio, e non a monte,
in termini preclusivi a prescindere dalla causa del trasferimento e dalla singola concreta situazione fattuale”.
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dei beni del fund con la tutela dei creditori connessa alla regola di cui all’art. 2740 c.c.
cui all’art. 2740 c.c. non si porrebbe né sotto il
profilo del disponente, né sotto quello del trustee (16).
Con riferimento al disponente, poiché l’atto istitutivo del trust sarebbe da intendersi come un qualsiasi atto traslativo della proprietà, si osserva che il
rimedio offerto dall’ordinamento ai creditori di costui, eventualmente danneggiati da tale atto, è costituito dell’azione revocatoria. Mentre invece nessun pregiudizio si pone per i creditori personali del
trustee, poiché i beni che compongono il trust fund
non sono mai appartenuti a quest’ultimo essendo
stati conferiti dal disponente.
La questione appare più complessa con riferimento
al rapporto intercorrente fra il trustee ed i creditori
del trust. Infatti, secondo il law of trust anglosassone, il trustee risponde personalmente per le obbligazioni contratte con i terzi, salvo il diritto di rivalersi sul trust fund. Tuttavia, in alcuni casi il trust
può dare luogo ad una completa incomunicabilità
dei patrimoni e, pertanto, il trustee risponderà delle
obbligazioni assunte per conseguire le finalità del
trust nei limiti dei beni a tal scopo destinati (17).
In siffatte ipotesi, dunque, dalla separazione patrimoniale discende una limitazione di responsabilità
per il trustee che non sarebbe consentita (in assenza di un’apposita previsione normativa) dall’art.
2740, comma 2, c.c. (18).
Indubbiamente, a prescindere dalla corrente di
pensiero alla quale si ritenga di aderire, uno dei
principali punti di attrito che il trust presenta con
l’ordinamento italiano consiste nel difficile coordinamento dell’effetto della separazione patrimoniale
La Convenzione dell’Aja relativa alla legge sui
trusts ed al loro riconoscimento si distingue dalle
altre convenzioni internazionali sottoscritte all’Aja
per la tecnica tramite la quale è stata redatta, in
quanto non si limita ad indicare i criteri per determinare la legge applicabile. Piuttosto, stabilendo
una nozione di trust, si preoccupa di definire in
maniera analitica l’oggetto della Convenzione (19), indica quali sono i presupposti necessari (e
quelli solo eventuali) per la costituzione di un trust
e dispone quali sono gli effetti giuridici derivanti
da siffatta fattispecie.
La particolare tecnica con cui è stata redatta la
Convenzione ha dato origine ad un contrasto circa
la natura e la portata della stessa. Un primo orientamento pone l’accento sulle peculiarità della Convenzione e sopratutto sul combinato disposto degli
artt. 2 e 11, che prevedono una specifica definizione del trust: la particolarità sarebbe data dalla
estensione e dalla precisione della definizione stessa che fornisce una descrizione del trust nei suoi
contenuti essenziali e nei suoi effetti caratteristici.
Sulla scorta di tali rilievi, si qualifica la Convenzione come norma di diritto sostanziale uniforme,
la quale avrebbe l’effetto di introdurre una disciplina unitaria del trust nei singoli ordinamenti (20):
non essendo norma di diritto internazionale priva-
(16) Cfr., per tutti, Mazzamuto, op. ult. cit., 815 s.; M. Lupoi,
La sfida dei trusts in Italia, in questa Rivista, 1995, 10, 1209 s.
Come già ricordato, tale impostazione è stata condivisa anche
da Trib. Velletri 8 giugno 2005, cit., il quale ha ritenuto che
“(...) un problema di violazione dell’art. 2740 c.c. non può porsi
in relazione alla posizione del disponente. Egli, infatti, si spoglia dei beni trasferendoli al trustee. Eventualmente, i suoi creditori potranno agire in revocatoria (o far valere la nullità del
negozio per frode alla legge o la sua inefficacia per simulazione relativa) qualora ne ricorrano i presupposti). Considerando
invece, i creditori del trustee, bisogna mettere in luce la necessità di garantire il loro legittimo affidamento. Se essi sono stati
edotti della destinazione dei beni in favore dei beneficiari, non
si porrà un problema di violazione dell’art. 2740 c.c. poiché
non avevano fatto affidamento su tali beni come garanzia dei
propri diritti, dovendosi scindere il profilo della destinazione
dei beni da quello attributivo (...)”.
(17) La law of trust anglosassone prevede, infatti, che il trustee possa pattuire con il creditore una limitazione della responsabilità al valore dei beni che compongono il trust fund dichiarando espressamente che agisce “in qualità di trustee e
non altrimenti”. In alcuni Stati americani, invece, la limitazione
della responsabilità del trustee è stata adottata come regola
generale, sempre purché quest’ultimo renda noto al terzo la
sua qualità di trustee.
(18) Alcuni studi condotti nella prospettiva dell’analisi economica del diritto mettono in luce che la completa incomunicabilità fra il patrimonio personale e quello separato (affirmative asset partitioning e defensive asset partitioning) è più efficiente poiché permette ai creditori di monitorare in maniera
più agevole il livello di rischio assunto dal proprio debitore e,
pertanto, riduce i costi informativi. Tuttavia è, altresì, necessario tenere presente che in alcuni casi la limitazione della responsabilità può favorire dei comportamenti di moral hazard.
Per tali aspetti cfr. per tutti H. Hansmann - R. Kraakman, Il ruolo essenziale dell’organizational law, in Riv. Società, 2001, I, 21
ss.; Rojas Elgueta, op. cit., 130 ss.
(19) Sul punto cfr. A. Giardina, Note introduttive, in A. Gambaro - A. Giardina - G. Ponzanelli (a cura di), Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento, in Nuove leggi civ., 1993, II, 1211, secondo il quale: “la particolarità è data
dalla estensione e dalla precisione della definizione stessa, fornita attraverso indicazioni di diritto sostanziale che appaiono
fornire una descrizione di trust nei suoi contenuti essenziali e
nei suoi effetti caratteristici”; Lupoi, Trusts, cit., 501; A. Gallarati, La Pubblicità del diritto del trustee, Torino, 2012, 2, il quale
osserva che “diversamente dalle altre convenzioni dell’Aja, la
convenzione sui trust è auto-referenziale, in quanto descrive
l’oggetto delle proprie regole”.
(20) In tal senso C. Masi, La Convenzione dell’Aja in materia
1102
Le tesi favorevoli all’ammissibilità
del c.d. trust interno
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to, la scelta della legge applicabile sarebbe di per
sé un elemento sufficiente per giustificare l’applicazione di una legge straniera e, quindi, non sarebbe
necessaria la sussistenza di un altro elemento di internazionalità della fattispecie.
Secondo altra parte della dottrina, invece, va ammessa la possibilità di riconoscere la figura del
trust interno sulla base del presupposto secondo cui
l’oggetto della Convezione non sarebbe il trust di
common law, bensì il trust “amorfo” o “shapeless” (21). Sulla scorta di questa premessa, si ritiene
che rientrino nell’ambito di applicazione della
Convenzione dell’Aja diversi rapporti fiduciari,
comprese figure note al nostro ordinamento quali,
ad esempio la gestione patrimoniale affidata alle
SIM e, da ultimo, gli atti di destinazione ex art.
2645 ter c.c. Poiché la Convenzione, in questa prospettiva, trova applicazione con riferimento a qualsiasi negozio che sia inquadrabile nella fattispecie
delineata nell’art. 2, si dovrebbe concludere che
probabilmente non vi siano più Stati che non prevedono l’istituto del trust (22). L’interprete, pertanto, più che porsi la questione dell’ingresso nel proprio ordinamento di un istituto di diritto straniero,
dovrebbe porsi quella dell’applicabilità di una legge
straniera - secondo i criteri generali del diritto internazionale privato -, per cui la Convenzione imporrebbe agli Stati aderenti di applicare la legge
straniera regolatrice dei negozi giuridici inclusi nell’art. 2. Ritenere, pertanto, non ammissibile la possibilità di assoggettare un trust che presenti tutti gli
elementi di collegamento con l’Italia ad una legge
straniera, significherebbe impedire la stessa operatività della Convenzione.
Secondo questa tesi, l’art. 13 non avrebbe l’effetto
di vietare il riconoscimento dei trusts che non presentino elementi di internazionalità, ma si porrebbe quale norma di chiusura del sistema delineato
dalla Convenzione.
Questa interpretazione dell’art. 13 della Convenzione è condivisa anche da un’altra corrente di
pensiero che, movendo da presupposti diversi, al
pari della prima approda alla conclusione per cui la
Convenzione permetterebbe il riconoscimento del
trust interno, ponendo l’accento sul disposto di cui
all’art. 6 della Convenzione, il quale non lascerebbe dubbi sull’applicabilità della Convenzione indipendentemente dalla presenza di elementi di internazionalità della fattispecie (23). Dopo avere osservato che la Convenzione dell’Aja del 1955 in tema
di vendita di cose mobili delinea espressamente il
proprio ambito di applicazione, limitandolo esclusivamente alle vendite a carattere internazionale, si
rileva che al contrario, la Convenzione dell’Aja sui
trust, se per un verso contiene limitazioni specifiche agli artt. 15, 16 e 18 (le cc.dd. clausole di salvaguardia), per altro verso non pone un esplicito
divieto alla possibilità di applicare una legge straniera ad una fattispecie i cui elementi costitutivi
siano tutti collegati all’ordinamento di riferimento (24).
Si osserva, quindi, come la rilevanza dell’autonomia privata nella scelta della legge applicabile anche in assenza di altri elementi di internazionalità
della fattispecie, costituirebbe l’esito di un evolu-
di trusts, in G. Vettori (a cura di), Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, Padova, 1999, 784 ss.; N. Lipari, Fiducia
statica e trusts, in I. Beneventi (a cura di), Il trust in Italia oggi,
Milano, 1996, 73 s. il quale osserva che: “Il trust è ormai, a tutti gli effetti (...) un “istituto giuridico” e non si pone quindi più
rispetto ad esso un problema di tutelabilità, ma semmai una
questione di regolamento di confini con altre fattispecie giuridiche di più risalente sedimentazione nella nostra tradizione
giuridica. Al di là delle apparenze, la convenzione non è infatti
semplicemente collocabile nel territorio del diritto internazionale privato (...).
(21) M. Lupoi, Trusts II) Convenzione dell’Aja e diritto italiano, in Enc. giur., XXXI, 1995, 3; Id., Riflessioni comparatistiche
sui trusts, in Eur. dir. priv., 1998, 437.
(22) Lupoi, Trusts II) Convenzione dell’Aja e diritto italiano,
cit., 6; Id. Riflessioni comparatistiche sui trusts, in Eur. dir. priv.,
cit., 437, secondo il quale “(...) La convenzione trova applicazione rispetto a qualsiasi negozio che sia inquadrabile nella fattispecie delineata dall’art. 2 della Convenzione. (...) In conclusione, la Convenzione impone agli Stati aderenti di applicare la
legge straniera regolatrice dei negozi giuridici inclusi nella fattispecie di cui all’art. 2”.
(23) L. Rovelli, Sulla diretta applicabilità della Convenzione
dell’Aja e l’ammissibilità nell’ordinamento italiano dei “trust interni”, in D. Zanchi (a cura di), Il trustee nella gestione dei patri-
moni, Torino, 2009, 655; secondo il quale “Il ruolo della volontà va preliminarmente chiarito, in relazione alle nostre nuove
regole di diritto internazionale e privato e alla Convenzione di
Roma del 1980 per cui, in sostanza la scelta negoziale di una
legge straniera è sufficiente a creare quella situazione che implica un conflitto di leggi, cui la Convenzione stessa subordina
la propria applicazione. L’art. 3 di questa Convenzione esordisce affermando che il contratto è regolato dalla legge scelta
dalle parti e termina, art. 3, n. 3, disponendo che la scelta della
legge straniera, qualora tutti gli altri dati di fatto si riferiscono
ad un solo Paese, non può recare pregiudizio alle norme imperative di tale paese, intese come le norme alle quali la legge di
tale Paese non consente di derogare con contratto”; S. M. Carbone, La disciplina regolatrice del trust e riconoscimento dei
suoi effetti nella convenzione dell’Aja del 1985, in Trust, 2000,
146 s.; Id. Autonomia privata nel diritto sostanziale e nel diritto
internazionale privato: diverse tecniche ed unica funzione, in
Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 603 ss.; giunge alla medesima conclusione, sebbene con argomentazioni in parte diverse
R. Siclari, Il trust nella Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985:
un nuovo modello negoziale, in Rass. dir. civ., I, 2000, 113 ss.,
secondo il quale i destinatari dell’art. 13 sarebbero gli Stati e
non l’interprete.
(24) Per tutti cfr. Rovelli, Sulla diretta applicabilità della Convenzione dell’Aja, cit., 654.
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zione che ha visto il ricorso alla volontà delle parti
assumere sempre più un ruolo centrale nei vari sistemi (25). La scelta delle parti sarebbe considerata
dalla Convenzione sufficiente a sottrarre una fattispecie alla lex fori dell’ordinamento di riferimento,
in quanto tale scelta sarebbe valutata come espressiva del loro interesse comune. In tal senso una
conferma sarebbe offerta dall’art. 15 della Convenzione quale limite alla produzione degli effetti del
trust, il quale sembrerebbe consistere soltanto nel
rispetto delle norme imperative, mentre non sarebbe rilevante l’inderogabilità della lex fori (26).
Da questa teoria deriva come corollario che l’art.
13 assumerebbe la funzione di norma di chiusura
del sistema delineato dalla Convenzione. Secondo
la dottrina in esame, l’art. 13 serve ad evitare che,
per effetto della scelta di una legge straniera da applicare al trust, si possano conseguire risultati riprorevoli per l’ordinamento. In altri termini, l’art. 13
andrebbe applicato dal giudice, laddove non risul-
tino sufficienti tutte le altre disposizioni poste a
salvaguardia dell’ordinamento interno (27).
Tale tesi è stata accolta dall’orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito (28). Secondo
l’impostazione adottata in numerose pronunce, se
per un verso, l’art. 6 della Convenzione attribuirebbe al soggetto costituente la piena libertà di
scelta della legge regolatrice, per un altro verso, essa non richiederebbe ulteriori elementi di internazionalità ai fini della propria applicazione (29).
Peraltro, è interessante notare come il formante
giurisprudenziale subordini il riconoscimento del
trust interno ad una penetrante verifica sulla meritevolezza degli interessi che l’autonomia privata intende perseguire nel caso concreto (30). Infatti, il
trust proprio per il carattere elastico che gli permette di adattarsi ad una molteplicità di impieghi,
è una figura che ben si presta a nascondere intenti
fraudolenti o comunque abusivi.
(25) Cfr. Rovelli, op. cit., 656, il quale osserva che la convenzione del 1980 estenderebbe al massimo la potency dell’autonomia negoziale, mantenendo solo il limite delle disposizioni imperative, non già della lex fori, ma della legge applicabile in virtù degli altri convergenti elementi di collegamento.
(26) Rovelli, op. cit., 656; a tale impostazione sembra aver
aderito anche Mazzamuto, Il Trust nell’ordinamento italiano dopo la convenzione dell’Aja, cit., 754 ss., il quale osserva che
“La risposta a tale interrogativo deve necessariamente muovere dal rilievo che la Convenzione non detta i requisiti di internazionalità del trust, così come di norma accade nelle convenzioni di diritto internazionale privato, la cui applicazione consegue
al previo accertamento della sussistenza di una fattispecie
concreta connotata da elementi internazionalità. Pertanto, nel
nostro caso, dacché la Convenzione non identifica il proprio
ambito di applicazione in ordine ad uno o più elementi di internazionalità, si deve concludere nel senso che il meccanismo di
innesco della disciplina convenzionale è rappresentato dai criteri sanciti dall’art. 3 della Convenzione medesima (...). La legge straniera ben potrà regolare una fattispecie che non presenta alcun criterio di collegamento con l’ordinamento richiamato, con il solo limite della frode, vale a dire della strumentale sottrazione del rapporto alla disciplina naturale per finalità
abusive. A ben vedere tale conclusione non contrasta con il
fondamentale principio dell’applicazione delle norme inderogabili della lex fori che, anche nella materia in esame, opera senza limitazione alcuna, al fine di evitare forme, per l’appunto, di
abuso del potere pattizio di scelta della legge regolatrice della
fattispecie”.
(27) Cfr. Rovelli, op. cit., 659 ss.; P. Piccoli, Possibilità operative del trust nell’ordinamento italiano. L’ operatività del trustee
dopo la convenzione dell’Aja, in Riv. not., 1995, 68 s.; in tal senso anche Lupoi, Trusts, cit., 544 ss.; Carbone, La disciplina regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella convenzione dell’Aja del 1985, cit., 151 s., i quali assimilano l’art. 13
della Convenzione all’art. 1344 c.c.
(28) Si veda nt. 7.
(29) In questi termini v., ad esempio, Trib. Bologna 1° ottobre 2003, cit., ove si afferma che “La Convenzione non indica,
quale presupposto per la sua applicazione, la presenza di elementi di estraneità ulteriori rispetto alla legge straniera applicabile, purché il diritto applicabile ex art. 6 (...) conosca il trust
o la categoria di trust in questione, secondo che l’unico presupposto applicativo della disciplina convenzionale (...) è la
specificazione di una legge secondo le disposizioni del capitolo
II”.
(30) In tal senso si veda Trib. Bologna 1° ottobre 2003, cit.,
ove si afferma che “In altri termini, non sarà sufficiente rilevare
la presenza di un trust, i cui elementi significativi siano più intensamente collegati con lo Stato italiano, per disapplicare la
legge scelta per la sua disciplina e per la sua costituzione evitando di riconoscere gli effetti, ma sarà, invece, necessario desumere un intento in frode alla legge, volto, cioè a creare situazioni in contrasto con l’ordinamento in cui il negozio deve
operare (...). Poiché il trust ‘interno’ non può essere ritenuto invalido ex se per la carenza di elementi di estraneità (...), né per
suo contrasto con norme inderogabili o di applicazione necessaria o di ordine pubblico (...), l’unica possibile e ragionevole
soluzione ermeneutica (a meno di non voler dare all’art. 13
un’interpretatio abrogans degli art. 6 e 11) è quella, appunto, di
considerare le disposizioni come una ‘norma di chiusura della
Convenzione’ che mira a cogliere le fattispecie che sfuggono
alle norme di natura specifica”; Trib. Trieste 23 settembre
2005, cit.; Trib. Trieste 7 aprile 2006, in Nuova giur. civ. comm.,
524, con nota di M. Cinque; Trib. Reggio Emilia 14 marzo
2011, cit.; da ultimo Trib. Trieste 22 gennaio 2014, in Trust,
2014, 515, secondo il quale “(...) la meritevolezza del trust va
identificata nell’idoneità del programma negoziale al raggiungimento di uno scopo lecito, che non sia altrimenti raggiungibile dalle parti nell’espletamento della loro autonomia negoziale mediante l’utilizzo di strumenti tipici, ancorché composti o
collegati”; v. anche Trib. Milano 27 maggio 2013, in Foro it.,
2013, I, 3342, con nota di L. Caputi, ove è stato affermato,
sebbene incidenter tantum, che deve ritenersi nullo, in quanto
in contrasto con gli artt. 13 e 15, lett. e), della Convenzione, il
trust (sham) la cui unica finalità sia quella di ostacolare la protezione dei creditori del disponente in caso di sua insolvenza;
sul punto anche v. anche i rilievi A. Piciotto, La giurisprudenza
italiana sui trust interni, in Trust, 2007, 15 (Giudice di Trieste,
estensore di numerose pronunce in tema di trust nonché di atti
di destinazione ex art. 2645 ter c.c.); in senso contrario si segnala, tuttavia, le recentissima pronuncia del Trib. Monza 13
ottobre 2015, cit.
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Sul versante opposto si colloca l’opinione che pone
maggiormente l’accento sul carattere internazional-privatistico della Convenzione e ritiene che,
per l’applicazione della stessa, sia necessaria la sussistenza di oggettivi elementi di estraneità della
fattispecie rispetto all’ordinamento di riferimento (31). In altri termini, posto che la legge scelta
dal costituente non sarebbe sufficiente a costituire
elemento di estraneità della fattispecie rispetto all’ordinamento di riferimento, la mera volontà delle
parti non sarebbe a sua volta sufficiente a derogare
le regole del foro.
Secondo la dottrina in esame, mancherebbe,
quindi, il presupposto per l’applicazione delle norme della Convenzione, ossia l’internazionalità
della fattispecie. Ne consegue, pertanto, che nell’ambito del diritto internazionale privato la scelta
del diritto applicabile diverso da quello al quale
tutti gli elementi della fattispecie fanno riferimento rappresenterebbe un abuso della regola normativa che permette la scelta del diritto applicabile (32).
In tal senso è stata rilevata la contraddizione in cui
incorrono le tesi che ammettono la possibilità di
costituire un trust interno sottoposto a legge straniera (33). Si osserva come le soluzioni prospettate
dovrebbero necessariamente presupporre la natura
internazional-privatistica della Convenzione giacché, qualora si ritenesse che la stessa abbia inteso
introdurre una disciplina sul trust comune a tutti
gli ordinamenti firmatari, non avrebbe senso fare
rinvio alla legge straniera. Come è stato affermato
in dottrina, qualora si aderisse alla seconda alternativa, cadrebbe “l’assunto dell’assenza nel nostro ordinamento di una regolamentazione del trust che
sarebbe, invece, rappresentata proprio dalla convenzione medesima” (34). In definitiva, se la Convenzione avesse davvero introdotto una disciplina
comune sul trust in tutti gli Stati firmatari, il rinvio
ad una legge straniera non sarebbe necessario, dovendo l’istituto trovare una disciplina compiuta
nel testo della stessa (35).
In effetti, la presenza di una disciplina sostanziale
sul riconoscimento degli effetti del trust non sembra escludere la portata internazional-privatistica
della Convenzione (36). Ove ci si muova in questa
prospettiva, ne discende che la legge regolatrice
scelta dal disponente non sia elemento idoneo a
conferire profili di internazionalità ad una fattispecie (37). Ciò sembra, peraltro, trovare conferma
(31) Come osserva C. Castronovo, Il Trust e ‘sostiene Lupoi’,
in Eur. dir. priv., 1998, 450: “Parlare di primato della volontà a
proposito della legge applicabile, senza scontare la necessità
del presupposto dell’internazionalità, significa passare sopra
gratuitamente al principio primo di quello che non per nulla gli
anglosassoni dei quali ci si invita a fare studio chiamano conflict of laws. Lì dove non ci può essere conflitto di leggi non c’è
diritto internazionale privato, e perciò manca il passaggio necessario alla questione della scelta della legge applicabile e di
quale criterio in vista di questa possa o debba considerarsi, a
seconda delle norme di diritto internazionale privato o delle
convenzioni, prioritario”; in tal senso cfr. anche A. Gambaro, Il
“Trust” in Italia e Francia, in Scritti in onore di Rodolfo Sacco, I,
Milano, 1994, 1216 s.; G. Broggini, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Europa dir. priv., 1998, 411; Giardina,
Note introduttive, cit., 1212; L. Fumagalli, Commento all’art.
13, in Gambaro - Giardina - Panzanelli, Convenzione relativa alla legge sui trusts, cit., 1284; F. Gazzoni, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista “non vivente” su trust e trascrizione, in Riv. not., 2001, 11 s.
(32) Cfr. per tutti Broggini, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, cit., 412.
(33) Cfr. Gatt, Dal trust al trust, cit., 112 ss.; Id. Il trust italiano, in Bianca - De Donato (a cura di), Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale, cit., 114 ss.; Id. La nullità della clausola
di rinvio alla legge straniera nei trust interni, cit., 624 s.; al riguardo cfr. anche Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, cit., 395 ss.
(34) Il rilievo è della Gatt, Il trust italiano, cit., 114; id., La
nullità della clausola di rinvio alla legge straniera nei trust interni,
cit., 624.
(35) Come osserva Gatt, Il trust italiano, cit., 114, “In altre
parole delle due l’una: o si qualifica la Convenzione de L’Aja
come atto normativo di diritto internazionale privato ovvero si
qualifica la stessa come atto normativo di diritto sostanziale
uniforme idoneo a legittimare tout court il “trust” italiano quale
vera e propria fattispecie tipica, regolata a livello legislativo nazionale a seguito della ratifica della Convenzione de L’Aja, e
non, invece, il c.d. trust interno (atipico?) regolato dal diritto
straniero”; Id. Dal trust al trust, cit., 88.
(36) In tal senso sembra propendere anche A. Gambaro,
Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del
trustee ai sensi della XV Convenzione dell’Aia, in Riv. dir. civ.,
2002, I, 262, il quale osserva che “In particolare non è esatto
che la XV Convenzione dell’Aia per essere applicata necessita
di un conflitto tra norme di diversi ordinamenti e non è quindi
essa stessa fonte di un diritto interno italiano. Se con ciò si
vuol dire che la Convenzione in sé non riguarda i trusts puramente interni, si impinge nell’ovvio (...). Se con ciò si vuol dire,
come il contesto fa temere, che la Convenzione non può derogare alle norme di diritto interno ed al massimo può prevedere
che nel caso di conflitto con altre norme straniere si applichino
queste ultime a preferenza delle prime, allora ciò indica che la
Convenzione non la si è nemmeno letta”; Id, Il trust in Italia e
Francia, cit., 502 s.
(37) La questione è stata affrontata in una prospettiva più
ampia da molti Autori. Sul punto cfr. in particolare R. De Nova,
voce Obbligazioni (dir. int. priv.), in Enc. dir., XXIX, Milano,
1979, 456 ss.; più di recente G. Alpa, Autonomia privata delle
parti e scelta della legge applicabile al contratto “interno”, in
Nuova giur. civ. comm., II, 2013, 575, il quale configura la vicenda del trust quale applicazione per effetto del rinvio ad una
legge straniera di un istituto ignoto al diritto italiano. Secondo
l’A. “L’esempio sintomatico è dato dal trust. In tal caso non sarebbe possibile per le parti (italiane) compiere l’operazione
economica desiderata perché nel nostro ordinamento non vi
sono norme utilizzabili direttamente per costituire un trust, anche se si potrebbero utilizzare istituti disciplinati dall’ordina-
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nell’art. 13 della Convenzione (38), che consente
il riconoscimento degli effetti del trust solo in presenza di elementi di collegamento oggettivi e non
già in base a valutazioni circa le finalità abusive
che le parti intendono perseguire (39).
È stato inoltre osservato che, qualora si aderisse
alla tesi prospettata, l’art. 13 diverrebbe sostanzialmente un doppione di altre norme contenute
della Convenzione. Il pericolo che i contraenti ricorrano all’istituto del trust per propositi fraudolenti sarebbe evitato già dalle cc.dd. clausole di
salvaguardia e, segnatamente, dagli artt. 15, 16 e
18 della Convenzione che si riferiscono rispettivamente alle norme inderogabili, alle norme ad applicazione necessaria e all’ordine pubblico internazionale (40).
In effetti, la relazione esplicativa della Convenzione sembra confermare che l’art. 13 sia stato predisposto per limitare la regola generale secondo cui
la legge regolatrice del trust può essere liberamente
scelta dal settlor.
Emerge, infatti, che i delegati di alcuni paesi, quali
la Francia, la Spagna e la Grecia, nel draft preliminare proposero un testo dell’art. 14 (corrispondente all’art. 13 del testo definitivo) che vietava a tut-
ti gli Stati di riconoscere i trusts che presentassero
dei criteri di collegamento più stretti con gli ordinamenti “non-trust”, in quanto temevano che per
effetto della Convenzione, si introducesse di fatto
il trust in questi ordinamenti (41).
L’opposta posizione era stata supportata dai delegati degli ordinamenti di common law, i quali erano
contrari al divieto assoluto di riconoscere simili
trusts, giacché in alcuni casi a questa possibilità si
poteva già accedere ricorrendo alla legislazione nazionale: a loro avviso pertanto la versione dell’art.
13, così come prospettata dagli altri delegati avrebbe condotto a risultati eccessivamente stringenti (42). Il testo definitivo dell’art. 13 è stato il frutto di un compromesso in quanto la frase “shall not
recognize” è stata sostituita con “shall bound to recognize” (43).
In questa prospettiva la regola dell’art. 13, sebbene
ridimensionata, sembrerebbe diretta principalmente all’interprete degli ordinamenti di civil law per
evitare, appunto, che il mero rinvio ad una legge
straniera consenta di sottrarre la fattispecie alla disciplina nazionale (44).
mento italiano per produrre effetti similari, come il negozio fiduciario, la costituzione di patrimoni separati o destinati ad
uno scopo e così via”; Cfr. anche Gatt., La nullità della clausola
di rinvio alla legge straniera nei trust interni, cit., 642 s.; id. Il
trust c.d. interno: una questione ancora aperta in Riv. not.,
2011, 280 s., la quale distingue il “contratto alieno” “inteso come contratto in lingua straniera (generalmente lingua inglese),
conforme (pressoché totalmente al modello straniero (generalmente quello imposto dalla prassi nordamericana) ma in cui le
parti espressamente scelgono, come legge applicabile, il diritto italiano e, conseguentemente, rinviano la soluzione di eventuali controversie al giudice italiano (o ad arbitri italiani, più raramente internazionali)” dal trust interno il quale si presenterebbe piuttosto “come contratto anomalo, dato che la sua configurazione prevede la scelta di una legge straniera e di un giudice italiano”.
(38) Cfr. sul punto Gatt, Il trust italiano, cit., 115; Id. La nullità della clausola di rinvio alla legge straniera nei trust interni,
cit., 624 s.
(39) In tal senso cfr. Siclari, Il trust nella Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, cit., 120, il quale sulla base del tenore letterale della norma esclude che la stessa possa essere intesa
quale norma di chiusura del sistema. Secondo l’A. tuttavia la
norma non si porrebbe quale divieto alla possibilità di costituire trust interni giacché, a differenza di altre disposizioni quali
ad esempio l’art. 15 e l’art. 16, sarebbe diretta agli Stati e non
all’interprete. Sembra propendere per la soluzione secondo cui
l’art. 13 non sarebbe rivolto all’interprete ma agli Stati e, pertanto, in assenza di un’apposita norma di adattamento da parte dell’Italia, tale norma non potrebbe operare quale limite al
principio generale di cui all’art. 6, anche Graziadei, op. ult. cit.,
61 ss. il quale in tal senso riporta l’esempio del Belgio che ha
introdotto una norma che esclude espressamente la possibilità
che siano riconosciuti trusts che siano privi di un elemento di
collegamento con un ordinamento in cui sia presente l’istituto
del trust. In giurisprudenza v. sul punto Cass. 9 maggio 2014,
n. 10105, cit., la quale ha affermato che l’art. 13 si rivolge allo
Stato.
(40) In tal senso Siclari, op. cit., 120.
(41) Cfr. M. A. E. Von Overbeck, Expanatory Report, in Proceedings of the Fifteenth Session (1984), II, Trusts - Applicable
Law and Recognition (The Hague: HCCCH Publications, 1985),
398, il quale osserva che “it appeared in the end that the authors of the proposal feared that, despite article 14 of the preliminary draft, the Convention might lead to introduction of
trusts as an institution in the civil law countries”. Il testo che
era stato proposto è riportato nella relazione esplicativa della
Convenzione: “The States Parties shall not recognize trusts involving property which, at time of the trust’s creation, is primarly located in States which do not provide for trusts. The same rule applies where, at the time of creation of the trust, the
settlor and the beneficiaries have the nationality of a State
which does not provide for trusts and reside habitually in States which do not have this institution”.
(42) Cfr. Overbeck, Expanatory Report, cit., 398, il quale osserva che “Several delegates from common law countries
sharply opposed this idea. They could not agree for the Convention to obligate common law States to refuse recognition
to trusts created under their own law or under the laws of
other States having trusts, where under their ordinary rules of
law they would have recognized them. However, these delegates declared that they were ready to protect the civil law States against fraudolent trusts in an appropriate fashion, for
exemple through the use of mandatory rules. The proposal of
the five delegations in contrast would, it seemed to them, lead
to the non recognition of numerous trusts which were entirely
proper”.
(43) Cfr. Overbeck, op. cit., 398.
(44) Cfr. Overbeck, op. cit., 397, il quale rileva che “The option offered by article 13 is open to the judges of all the Contraction States, but it is clear that it is in fact an escape clause in favour of States which do not have trusts. The clause will be used
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Il panorama delineato è poi stato ulteriormente arricchito dall’introduzione nell’ordinamento italiano degli atti di destinazione trascrivibili ex art.
2645 ter c.c. (45). La disposizione dal carattere
estremamente indefinito ha determinato una molteplicità di problemi che tutt’ora non sembra abbiano trovato una soluzione soddisfacente.
La nozione di destinazione allo scopo è stata frequentemente invocata dalla dottrina italiana che
ha studiato il trust per descriverne i rapporti che
sorgono nel momento in cui esso è costituito (46).
In tal senso alcuni autori hanno, infatti, osservato
che l’essenza del trust dovrebbe essere individuato
nella destinazione dei beni per la realizzazione di
uno scopo (47). In questo contesto si inserisce,
dunque, una corrente di pensiero che ravvisa nel
vincolo di destinazione la “risposta italiana al
trust” (48). Altra parte della dottrina ritiene che la
norma possa costituisca un significativo apporto al
negozio fiduciario (49).
Nel quadro così delineato occorre, dunque, interrogarsi circa la relazione intercorrente fra tale innovazione normativa e la figura del trust interno.
Sotto un primo profilo, risulta senz’altro condivisibile l’opinione di coloro che ravvisano nell’istituto
soltanto un “frammento” di trust (50) ossia “una
minima parte delle soluzioni ottenibili che il modello angloamericano offre agli attori del mercato” (51). In particolare, l’istituto risulta completamente carente di una disciplina che regoli i doveri
fiduciari del gestore ed i rapporti che intercorrono
fra i soggetti coinvolti dalla vicenda la quale, invece, assume una rilevanza centrale nel trust di common law nonché nei cosiddetti trust-like devices presenti in altri ordinamenti (52). Infatti, ragioni giu-
above all by judges who think that the situation has been improperly removed from under the application of their own laws”; in
tal senso anche Fumagalli, Commento all’art. 13, cit., 1284; in
giurisprudenza v. Trib. Monza 13 ottobre 2015, cit., alla nt. 8.
In senso contrario, tuttavia, autorevole dottrina. Si veda, al riguardo, la nt. 39.
(45) Come è noto, l’art. 39 novies del D.L. 30 dicembre
2005, convertito nella L. 23 febbraio 2006, n. 51, ha inserito
nel Libro VI del codice civile l’art. 2645 ter c.c.
(46) Il rilievo è di M. Graziadei, L’art. 2645-ter del Codice Civile e il trust: prime osservazioni, in E. Quintorassi - F. Tassinari
(a cura di), I trust interni e le loro clausole, Roma, 2007, 218.
Sui vincoli di destinazione in generale cfr. A. Fusaro, voce Destinazione (vincoli di), in Dig. disc. priv., sez. civ., V, Torino,
1989, 322 s., il quale rileva come sia arduo individuare un’accezione specifica ed unitaria del fenomeno attesa la “disomogeneità dei significati che il termine assume così nel linguaggio normativo, come in quello giurisprudenziale e dottrinale”;
M. Comporti, Divieti di disposizione e vincoli di destinazione, in
Studi in onore di P. Rescigno, V, Milano, 1998, 859, il quale descrive il fenomeno come “il complesso degli obblighi imposti
per garantire il raggiungimento di un fine predeterminato fra le
tante possibili utilizzazioni della cosa: le facoltà di utilizzare ed
usare la cosa, che sono le più varie, risultano invece ridotte e
limitate dal particolare statuto prescelto”; v. anche M. Bianca,
Trustee e figure affini nel diritto italiano, in Riv. not., 2009, III,
559 s.; M. Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione
ex art. 2645 ter c.c., Padova, 2010, 45 ss.
(47) In tal senso Falzea, Introduzione e considerazioni conclusive, cit., 23; Palermo, Contributo allo studio del trust e dei
negozi di destinazione disciplinati dal diritto italiano, cit., 25; M.
D’Errico, Trust e destinazione, in Destinazione di beni allo scopo,
cit., 227 ss.; Bianca, Trustee e figure affini nel diritto italiano, cit.,
559 ss.; cfr. anche Salamone, op. cit., 397 s.
(48) Cfr. M. Bianca, voce Destinazione (negozio di), in Il diritto, Enc. giur., di Lex 24, Bergamo, 2007, V, 17; Id Il nuovo art.
2645-ter c.c. notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, I, 187, ove l’A. afferma che “(...) il legislatore, con il nuovo art. 2645-ter, non ha introdotto il trust, ma come risulta testualmente, ha inteso introdurre l’atto generale di destinazione”; D’Errico, Trust e destinazione, cit., 228, secondo il quale “E così, se la destinazione di
beni allo scopo è l’essenza del trust, il negozio di destinazione
di beni allo scopo finisce con il divenire la lettura italiana del
trust, se si eccettuano particolari strutture di trust, quali, ad
esempio, il trust discrezionale o protettivo”; sebbene da una
prospettiva in parte diversa anche Gatt, Dal trust al trust,
cit., 158 ss. secondo la quale lo schema del 2645 ter sarebbe
riconducibile al trust di cui alla convenzione dell’Aja.
(49) Per usare le parole di G. Palermo, I negozi di destinazione nel sistema di diritto positivo, in Rass. dir. civ., 2011, I, 94 s.:
“Ed è su questa base che può cogliersi lo sforzo di ricondurre
le operazioni, tradizionalmente caratterizzate dalla fiducia cum
amico, a una fattispecie, come quella contemplata dall’art.
2645 ter c.c., nella quale l’autoregolamento negoziale, quand’anche aperto all’attività dell’intermediario, risulta comunque
idoneo a fondare l’acquisto del diritto in capo al soggetto destinatario dell’attribuzione, e ciò proprio attraverso l’attività
dall’intermediario posta in essere”; Gatt, op. ult. cit., 159 s., la
quale riconduce la figura del trust del vincolo di destinazione e
del negozio fiduciario ad unità. Secondo l’A. “già prima della
novella legislativa [era] stato affermato chiaramente e - a nostro avviso - opportunamente che i temi del trust (‘interno’ in
particolare) e del negozio atipico di destinazione fossero contigui, se non sovrapponibili, tanto da meritare un’analisi congiunta da estendersi, altresì, al negozio fiduciario”.
(50) Cfr. M. Lupoi, Gli atti di destinazione nel nuovo art.
2645-ter c.c. del codice civile quale frammento di trust, in Riv.
not., 2006, 472; A. Gambaro, Appunti sulla proprietà nell’interesse altrui, in Trust, 2007, 174; Gallarati, La pubblicità del diritto del trustee, cit., 165 ss.
(51) In questi termini Gallarati, op. cit., 166.
(52) Sul punto Graziadei, L’art. 2645-ter del Codice Civile e il
trust, cit., 223 ss., spec. 225, ove l’A. rileva che “Per cogliere
meglio questa fondamentale differenza basterà ricordare qui
l’assorbente disciplina delle obbligazioni fiduciarie che incombono al trustee (con la relativa disciplina del conflitto di interessi) e l’assenza di ogni cenno in proposito nella norma italiana.
Proprio perché il trust consiste nell’attribuzione di poteri ad un
soggetto, tali poteri si presentano in genere scolpiti in modo
nitido, diversamente dai poteri che oggi competono a chi soggiace al vincolo efficace ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.”; Zoppini, Destinazione patrimoniale e trust, cit., 730 ss., il quale osserva che “(...) la centralità e capillare disciplina dei doveri fiduciari di comportamento del trustee (diffusamente documentato
dalle leggi previste dagli ordinamenti che conoscono il trust,
dalla giurisprudenza su di esse formata e dai principi elaborati
nella common law) consente di mettere in evidenza quello che
è - a mio parere - il limite più evidente della trascrizione degli
Considerazioni finali
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seconomiche - sulle quali in questa sede non è possibile soffermarsi - conducono a dubitare che la disciplina di tali aspetti, possa essere interamente demandata all’autonomia privata (53).
Se si muove da tale premessa, appare corretto ritenere che l’Italia rimanga un ordinamento c.d.
“non-trust” ed, infatti, l’art. 2645 ter non può valere quale legge applicabile ai sensi dell’art. 8 della
Convenzione (54). Pertanto, anche in seguito alla
novella legislativa, resterebbero valide le considerazioni su cui si appunta la tesi che esclude la possibilità per i privati di sottoporre alla legge straniera, in virtù della Convenzione, una fattispecie che
sia priva di profili di internazionalità.
Sotto altro profilo, si deve osservare che l’art. 2645
ter c.c., al pari del trust, pone indubbiamente un
problema di confronto con l’art. 2740 c.c. giacché,
come è noto, a seguito della costituzione del vincolo, i beni conferiti ed i loro frutti possono essere
aggrediti esclusivamente per il soddisfacimento dei
debiti contratti per tale scopo (55).
È sulla base di tale presupposto che la giurisprudenza dominante privilegia la lettura restrittiva dell’inciso “interessi meritevoli di tutela” presente nell’art. 2645 ter c.c. e giunge pertanto ad affermare
l’ammissibilità dell’atto di destinazione purché diretto a perseguire finalità di utilità sociale o, comunque, finalità socialmente e moralmente apprezzabili o, ancora, legate a doveri di solidarietà nell’ambito della famiglia (56).
In quest’ottica, la decisione in commento appare,
probabilmente, più in linea con la suddetta impo-
atti di destinazione, atteso che l’art. 2645-ter c.c. non offre
non solo risposte espresse, ma neanche sufficienti indizi per
scegliere in modo univoco i problemi della disciplina che dovrà
applicarsi (...). Gli esempi che propongo non sono casuali, atteso che attengono a profili della disciplina dai quali può apprezzarsi in maniera evidente il contenuto fiduciario della gestione del diritto nell’interesse altrui e sottendono conflitti di interessi che - non a caso - sono compiutamente disciplinati dagli ordinamenti che prevedono il trust”.
(53) Alcuni studi condotti nella prospettiva dell’analisi economica del diritto mettono in luce che le regole di un sistema
giuridico volte a favorire lo scambio dei beni semplificano anche le informazioni che i terzi acquirenti devono ottenere e,
quindi, riducono i costi transattivi che questi ultimi devono
sopportare. In altre parole, tanto più le regole di un ordinamento volte a disciplinare questo aspetto sono precise, tanto più la
circolazione dei beni risulta efficiente, poiché si riducono al minimo i costi transattivi legati agli scambi. Cfr., per tutti, T.W.
Merrill - H.E. Smith, Optimal Standardization in the Law of Property: The Numerus Clausus Principle, in Yale Law Journal, 110,
2000, 1 ss.; H. Hansmann - R. Kraakman, Property, Contract
and Verification: The Numerus Clausus Problem and the Divisibilty of Rights, in L. J. Studies, 31, 2002. 373 ss.; U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in A. Gambaro - U. Morello (diretto da), Trattato dei diritti reali., Milano, 2008, 67 ss.;
F. Mezzanotte, The Interrelation Between Intellectual Property
Licenses and The Doctrine of Numerus Clausus. A Comparative
Legal and Economic Analysis, in CoLR., 3, 2012, 17 ss.; Id. La
conformazione negoziale delle situazioni di appartenenza, Napoli, 2015, 42 ss. In questa prospettiva l’art. 2645 ter c.c. - il quale risulta carente di una disciplina che stabilisca quali sono i
poteri del gestore del patrimonio destinato, le prerogative che
spettano al beneficiario e, più in generale, il regime di circolazione al quale tali beni sono sottoposti - può dare luogo a delle
inefficienze di tipo “informativo”. Un simile approccio è stato
adottato da Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali,
cit., spec., 147 ss., i cui rilievi appaiono illuminanti; con particolare riferimento ai “costi informativi” sopportati dai creditori
dei soggetti coinvolti nell’atto di destinazione cfr. Rojas Elgueta, op. cit., 171, il quale approda ad una lettura restrittiva dell’inciso “interessi meritevoli di tutela” dell’art. 2645 ter c.c. Come rileva l’A.: “In questo modo, a fronte di uno schema particolarmente flessibile dal punto di vista del modello organizzativo, e quindi inefficiente nella gestione dei costi ‘informativi’ ed
‘organizzativi’, l’autonomia privata incontrerebbe il limite della
pubblica utilità, idoneo a compensare, secondo la logica di
Kaldor e Hicks, le esternalità trasferite sulla collettività”; in senso contrario, tuttavia, Gallarati, La pubblicità del diritto del tru-
stee, cit., 183 ss. Sul punto cfr. anche Graziadei - Mattei Smith, Commercial Trusts in European Private Law, cit., 556 s.,
i quali per le ragioni sopra illustrate rilevano l’importanza della
presenza nel trust o negli istituti ad esso assimilabili di regole
“mandatory”. Come osservano gli Autori, “(...) the sense that
our enquiry is located in the domain of mandatory law is quite
strong because of the impact of the trust relationship on third
parties and of the role of legal system in protecting entitlements”.
(54) Come rileva M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e
separazione, in Vettori, (a cura di), Atti di destinazione e trust,
cit., 44, “La nuova disciplina è disciplina dell’atto negoziale di
destinazione e solo una lettura banale può interpretare l’art.
2645-ter c.c. quale legge sul trust. Mancano di tale modello,
non solo le coordinate strutturali che lo caratterizzano, ma altresì l’apparato rimediale. Deve quindi negarsi che l’art. 2645ter possa essere considerato quale legge applicabile ai sensi
dell’art. 8 della Convenzione dell’Aja”; sul punto cfr. anche
Muritano, Negozi di destinazione e trust interno cit., 274 ss.;
Morace Pinelli, op. cit., 287 s.
(55) L’art. 2645 ter c.c., per un verso, prevede la separazione tra i beni del patrimonio generale del disponente (o del gestore) ed i beni del patrimonio destinato, escludendo che i creditori generali possano aggredire questi ultimi beni (c.d. affirmative asset partitioning) ma, per un altro, non mette al riparo
il patrimonio generale dalle azioni esecutive dei creditori titolati
(c.d. defensive asset partitioning), ai quali non è preclusa la
possibilità di estendere le proprie pretese anche su quest’ultimo patrimonio.
(56) V. Trib. Reggio Emilia 12 maggio 2014, in Riv. not.,
2014, 1261, con nota di M. Bellinvia, ove si afferma che “la
portata applicativa della norma, da intendersi come sugli effetti e non sugli atti, deve essere interpretata in senso restrittivo,
e quindi limitata alle sole ipotesi di destinazione traslativa collegata ad altra fattispecie negoziale tipica od atipica dotata di
autonoma causa (...). In ogni caso e comunque, anche a volere
in mera ipotesi diversamente opinare, e ritenere quindi in linea
teorica ammissibile il negozio destinatorio puro, così accedendo ad una tesi minoritaria e più liberale pur sostenuta in giurisprudenza, non sarebbe comunque revocabile in dubbio la necessità di un penetrante scrutinio, previsto peraltro dalla stessa norma con l’inciso ‘meritevoli di tutela’ e con il richiamo all’art. 1322 comma 2 c.c., sulla meritevolezza del negozio: è infatti pacifica opinione che, per affermare la legittimità del vincolo di destinazione, non basta la liceità dello scopo, occorrendo anche un quid pluris integrato dalla comparazione degli interessi in gioco, ed in particolare dalla prevalenza dell’interesse
realizzato rispetto all’interesse sacrificato dei creditori del di-
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stazione. Resta, infatti, da verificare la coerenza
dell’orientamento giurisprudenziale che per un verso, ponendo l’accento sull’art. 2740 c.c. subordina
la possibilità dei privati di costituire l’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c. al perseguimento di un
interesse che risulti prevalente rispetto a quello dei
creditori e, per un altro, afferma l’ammissibilità del
trust interno, in virtù della Convenzione, purché
esso non presenti finalità abusive (57).
In una prospettiva di tipo funzionale deve essere,
tuttavia, rilevato che, allo stato attuale e una volta
escluso che l’art. 2645 ter c.c. possa costituire una
valida alternativa al trust, l’operatività di tale istituto nell’ordinamento italiano, sembrerebbe fondarsi esclusivamente sull’applicazione della Convenzione. Pertanto, de iure condendo il c.d. trust interno si pone quale unica soluzione che permetterebbe all’ordinamento italiano di competere con
altri ordinamenti, i quali hanno provveduto ad inserire per via legislativa il trust o altre forme giuridiche ad esso assimilabili (58).
sponente estranei al vincolo”; v. anche Trib. Verona 13 marzo
2012, in Trust, 2014, 58. Nel caso in esame, prima della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di
concordato preventivo era stato costituito un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. “al fine di evitare che l’aggressione disordinata del patrimonio dell’impresa in crisi potesse
comportare una dispersione di valore che danneggiasse i creditori e impedisse un’equa distribuzione degli effetti dell’insolvenza”. Il Tribunale, tuttavia, ha ritenuto che tale vincolo di destinazione non fosse opponibile ai creditori poiché “ammettere
l’opponibilità significherebbe rimettere al debitore la scelta della concreta soddisfazione dei propri creditori, con evidente violazione del principio della par condicio creditorum”; sebbene la
pronuncia riguardi un trust interno, si veda anche Trib. Trieste
19 settembre 2007, in Nuova giur. civ. comm., 687, con nota di
M. Cinque.
(57) V., ad esempio, Trib. Trieste 19 settembre 2007, cit.
Tuttavia, sul punto cfr. l’approfondito studio di Rojas Elgueta,
op. cit., 170, il quale perviene alla conclusione secondo cui
“(...) l’assenza di una definizione ex ante dello scopo perseguibile non sembra incidere in modo determinante sui costi informativi ed organizzativi che spiegano, invece, il senso dell’intervento del legislatore nella regolazione della struttura di governance consegnata ai privati. In quest’ottica, allora, non si può
omettere di chiedersi se resista ad un test di coerenza sistematica un ordinamento che, da un lato, attraverso il riconoscimento del trust interno, consegna ai privati uno schema a rilevanza reale, puntualmente regolato sul punto della governance
ma sprovvisto di una definizione tipologica degli scopi perse-
guibili e, dall’altro, disciplina all’art. 2645-ter c.c. un ‘frammento’ di trust, lasciando all’autonomia privata il compito di costruire l’intero apparato organizzativo della fattispecie” nonché
Gallarati, op. cit., 147 ss., il quale approda a conclusioni differenti.
(58) Come è noto, il trust è stato inserito per via legislativa
in molti sistemi giuridici cosiddetti misti e anche in alcuni di civil law. Altri paesi, come la Francia, invece, hanno introdotto
nel proprio ordinamento istituti giuridici modellati in parte sull’archetipo del trust (fiducie). Sul punto cfr. Gambaro, Il “Trust”
in Italia e Francia, cit., 510; S. Van Erp - B. Akkermans, Property
law, Oxford and Portland, 2012, 571 s.; T. Honoré, On Fitting
Trusts into Civil Law Jurisdictions, in Oxford Legal Studies Res e a rc h , P a p e r N o . 2 7 / 2 0 0 8 , d i s p o n i b i l e a l l’ i n d i r i z z o :
http://ssrn.com/abstract=1270179, 7 s.; K. G. C. Reid, Conceptualizing the chinese trust: some thoughts from europe, in L.
Chen - C.H. Van Rhee (a cura di), Towards a Chinese Civil Code, Leiden - Boston, 2012, 210 s. Da notare, inoltre, che nel
2009 è stato aggiunto un libro al Common Frame of Reference
intitolato “Trust”. In argomento cfr. A. Braun, Trusts in the Draft
Common Frame of Reference: the “Best Solution” for Europe?,
in Cambridge L. J., 70, 2011, 327; W. Swadling, The DCFR
Trusts: A Common Law Perspective, in S. Van Erp - A. Salomons, B. Akkermans (a cura di), The Future of European Property Law, Munich, 2012, 21 ss.; V. Sagaert, The Trust Book in
the DCFR: A Civil Lawyer’s Perspective, in Van Erp, Salomons,
Akkermans (a cura di), The Future of European Property Law,
cit., 31 ss.
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Intermediazione finanziaria
Cassazione Civile, Sez. I, 27 aprile 2016, n. 8395 - Pres. Nappi - Rel. Acierno - P.M. Del Core
(diff.) - P.G. e G.A.M. (avv. Fiorio) c. Banca di Credito Cooperativo di Casalgrasso e Sant’Albano Stura Soc. Coop. A R.L. (avv.ti Palombi, Cavalli, Bianchi)
Nel contratto di intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall’investitore non soddisfa l’obbligo della forma scritta ad substantiam
imposto, a pena di nullità, dall’art. 23 del D.Lgs. n. 58 del 1998 e, trattandosi di una nullità di protezione, la
stessa può essere eccepita dall’investitore anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto a mezzo dei
quali è stato data esecuzione al contratto viziato.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 22 marzo 2013, n. 7283.
Difforme
Cass. 7 settembre 2015, n. 17440; Cass. 22 marzo 2012, n. 4564.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
Nel primo motivo viene dedotta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 18 D.Lgs. n. 415 del 1996; 23,
D.Lgs. n. 58 del 1998; 1326, 1350 e 1418 c.c. per non
avere la Corte d’Appello dichiarato la nullità del contratto di quadro in quanto non sottoscritto da entrambi
i contraenti. Secondo le parti ricorrenti la disciplina
normativa applicabile ratione temporis è l’art. 18 D.Lgs.
n. 415 del 1996, che contiene la previsione dell’obbligo
della forma scritta. La norma è stata sostanzialmente
nel successivo art. 23.
Alla luce di questo univoco quadro normativo di riferimento deve ritenersi che la dichiarazione scritta unilaterale pur se ricognitiva di una sola delle parti del rapporto non è idonea ad integrare il requisito di validità
richiesto dalla legge. Rispetto a tale preciso obbligo di
forma risulta irrilevante la previsione contrattuale relativa allo scambio dei documenti contrattuali sottoscritti
unilateralmente dall’altra parte e che il rapporto scaturente dal contratto quadro abbia avuto ampia esecuzione. Ciò che manca è, infatti, la conoscenza o conoscibilità per iscritto del contenuto della dichiarazione negoziale sottoscritta e fatta propria dalla banca. Precisano
le parti ricorrenti che la funzione dell’obbligo della forma scritta non si esaurisce nella tutela della trasparenza,
come affermato nella sentenza impugnata, ma risponde
all’esigenza di dotare una disposizione di volontà di particolare rilievo economico della necessaria certezza e
ponderazione che solo la forma scritta può assicurare.
Oltre all’assolvimento degli obblighi informativi cui deve conformarsi la condotta dell’intermediario vi è un
contenuto minimo del contratto quadro desumibile dagli elementi indicati nell’art. 30 del Regolamento Consob che viene garantito con l’obbligo di redazione del
testo per iscritto contenuto anche nelle norme in vigore
anteriormente all’art. 23.
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Infine sottolinea la parte ricorrente che la corte d’Appello ha escluso che si possa far valere la nullità del
contratto quadro solo rispetto ad alcuni ordini e non
dell’intero rapporto. L’uso selettivo della nullità è coerente con il peculiare regime giuridico delle nullità di
protezione. L’investitore che non può interferire nella
formazione del contratto a causa dell’asimmetria negoziale che ne costituisce una delle principali caratteristiche, è libero di decidere di avvalersi dell’eccezione di
nullità e di limitarne gli effetti restitutori senza travolgere per intero gli investimenti eseguiti.
Nel secondo motivo viene dedotto il vizio di omessa
pronuncia ed in subordine di violazione di legge in ordine all’invocata nullità di quattro ordini perché non redatti per iscritto.
Nel terzo motivo di ricorso viene dedotto il vizio di
omessa pronuncia ed in subordine di violazione di legge
per non avere la Corte d’Appello considerato che la
forma scritta per la redazione dei singoli ordini era anche imposta dal contratto quadro (art. 2 proposta del
contratto di negoziazione) in quanto gli investimenti
avevano ad oggetto prodotti negoziati fuori dei mercati
regolamentati.
Nel quarto e quinto motivo viene censurata sia sotto il
profilo del vizio di motivazione che sotto il profilo dell’omessa pronuncia e della violazione di legge l’illegittima esclusione degli ordini relativi agli investimenti eseguiti nel 1997/98, trattandosi di 19 operazioni che per
dimensioni ed entità del rischio dovevano ritenersi inadeguate.
Nel sesto motivo viene censurata sotto il profilo della
violazione degli artt. 1123, 1224 e 1226 c.c. la illegittima decorrenza della rivalutazione monetaria dalla messa
in mora e non dall’inadempimento da identificarsi nel
momento del default.
Nel settimo motivo viene svolta analoga censura con riferimento alla quantificazione del danno da lucro cessante in misura pari all’1% sulla somma via via rivalutata, e non invece in misura pari al tasso medio dei titoli
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di stato o degli interessi legali, dovendosi applicare il
criterio del cumulo d’interessi e rivalutazione.
Nel primo motivo di ricorso incidentale viene dedotto
il vizio d’insufficiente motivazione riscontrato nella sentenza impugnata in ordine al nesso causale tra gli inadempimenti addebitati alla banca e il danno dubito dai
ricorrenti, non essendo stata considerata l’elevata propensione al rischio e gli intenti speculativi degli investitori reiteratamente sottolineati dalla parte controricorrente nel giudizio di merito e riconosciuti dai ricorrenti
medesimi nel profilo di rischio del 2001.
Nel secondo motivo è stata dedotta la violazione degli
artt. 1223, 1224 e 1226 c.c. per non avere la Corte
d’Appello fissato la decorrenza degli interessi riconosciuti a titolo di lucro cessante dalla data di deposito
della sentenza, secondo i principi stabiliti dalle S.U.
nella pronuncia n. 26008 del 2008.
La questione formante oggetto del primo motivo è stata
affrontata in una recentissima pronuncia di questa Corte (Cass. n. 5919 del 2016) con orientamento pienamente condivisibile così illustrato:
“ L’art. 23, D.Lgs. n. 58 del 1998 così come il precedente art. 18 D.Lgs. n. 415 del 1996, stabilisce che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento
debbano essere redatti per iscritto a pena di nullità, ma
già l’art. 6, lett. c), L. 2 gennaio 1991, n. 1, secondo
quanto più volte ribadito da questa Corte, poneva il
medesimo requisito di forma per la stipulazione del
“contratto quadro” (Cass. 7 settembre 2001, n. 11495;
Cass. 9 gennaio 2004, n. 111; Cass. 19 maggio 2005, n
10598). La univocità e la continuità interpretativa delle
norme che si sono succedute in ordine alla qualificazione giuridica dell’obbligo di forma scritta, facilitano l’esame della censura e rendono irrilevante l’individuazione applicabile a tutto il rapporto, al suo momento genetico, al suo sviluppo attuativo.
L’obbligo in questione, dettato, secondo la prevalente
opinione, a fini protettivi dell’investitore (Cass. 22
marzo 2013, n. 7283), non è incompatibile con la formazione del contratto attraverso lo scambio di due documenti, entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto dall’altro contraente. Non v’è difatti ragione di
discostarsi dall’insegnamento più volte ribadito, secondo cui il requisito della forma scritta ad substantiam è
soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono
contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo,
“sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione
dell’accordo” (Cass. 13 febbraio 2007, n. 3088; Cass. 18
luglio 1997, n. 6629; Cass. 4 maggio 1995, n. 4856).
Ne consegue che vertendosi in tema di forma scritta
sotto pena di nullità, in caso di formazione dell’accordo
mediante lo scambio di distinte scritture inscindibilmente collegate, il requisito della forma scritta ad substantiam in tanto è soddisfatto, in quanto entrambe le
scritture, e le corrispondenti dichiarazioni negoziali, l’una quale proposta e l’altra quale accettazione, siano formalizzate. E, insorta sul punto controversia, vale la regola generale secondo cui, con riguardo ai contratti per
i quali la legge prescrive la forma scritta a pena di nulli-
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tà, la loro esistenza richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura (Cass. 14 dicembre 2009, n. 26174).
La stipulazione del contratto non può viceversa essere
desunta, per via indiretta, in mancanza della scrittura,
da una dichiarazione quale quella nella specie sottoscritta dall’investitore: “Prendiamo atto che una copia
del presente contratto ci viene rilasciata debitamente
sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi”.
La verifica del requisito della forma scritta ad substantiam si sposta sul piano della prova, ove trova applicazione la disposizione dettata dal codice civile che consente di supplire alla mancanza dell’atto scritto nel solo
caso previsto dall’art. 2725 c.c., comma 2, che richiama
l’art. 2724 c.c., n. 3: in base al combinato disposto di
tali norme, la prova per testimoni di un contratto per la
cui stipulazione è richiesta la forma scritta ad substantiam, è consentita solamente nell’ipotesi in cui il contraente abbia perso senza sua colpa il documento che gli
forniva la prova del contratto.
E la preclusione della prova per testimoni opera parimenti per la prova per presunzioni ai sensi dell’art.
2729 c.c. nonché per il giuramento ai sensi dell’art.
2739 c.c. Interdetta è altresì la confessione (Cass. 2
gennaio 1997, n. 2; Cass. 7 giugno 1985, n. 3435) quale, in definitiva, sarebbe la presa d’atto, da parte della
M., della consegna dell’omologo documento sottoscritto
dalla banca.
D’altronde, la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude l’equiparazione alla “perdita”, di cui parla
l’art. 2724 c.c., della consegna del documento alla controparte contrattuale. Nell’ipotesi prevista dalla norma,
difatti, il contraente che è in possesso del documento
ne rimane privo per cause a lui non imputabili: il che è
il contrario di quanto avviene nel caso della volontaria
consegna dell’atto, tanto più in un caso come quello in
discorso, in cui non è agevole comprendere cosa abbia
mai potuto impedire alla banca, che ha predisposto la
modulistica impiegata per l’operazione, di redigere il
“contratto quadro” in doppio originale sottoscritto da
entrambi i contraenti.
È stato al riguardo più volte ripetuto che, in tema di
contratti per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, nel caso in cui un contraente non sia in possesso
del documento contrattuale per averlo consegnato all’altro contraente, non si può fornire la prova del contratto avvalendosi della prova testimoniale, poiché non
si verte in un’ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell’art. 2724 c.c., n. 3, bensì di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del
precedente n. 2 di tale articolo (Cass. 26 marzo 1994,
n. 2951; Cass. 19 aprile 1996, n. 3722; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28639, la quale ha precisato che l’esclusione della prova testimoniale opera anche al limitato fine
della preliminare dimostrazione dell’esistenza del documento, necessaria per ottenere un ordine di esibizione
da parte del giudice ai sensi dell’art. 210 c.p.c.; per completezza occorre dire che c’è un precedente di segno diverso, Cass. 29 dicembre 1964, n. 2974, ma si tratta di
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un’affermazione assai remota, isolata e per di più concernente una fattispecie in parte diversa).
Resta allora da chiedersi se la validità del “contratto
quadro” possa essere ricollegata alla produzione in giudizio da parte sua del medesimo documento ovvero a
comportamenti concludenti posti in essere dalla stessa
banca e documentati per iscritto.
I ricorrenti hanno più volte richiamato, in proposito,
nel ricorso per cassazione, l’autorità di Cass. 22 marzo
2012, n. 4564 (massimata ad altro riguardo) nella quale
si trova affermato, con riguardo ad una vicenda simile,
pure involgente la stipulazione di un contratto bancario
da redigersi per iscritto:
i) che la dicitura contenuta nel documento mancante
della sottoscrizione proveniente dalla banca, secondo
cui “un esemplare del presente contratto ci è stato da
voi consegnato”, rendeva ragionevole affermare che l’esemplare consegnato recasse per l’appunto la sottoscrizione della banca;
ii) che la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, muovendo dalla premessa che nei contratti per
cui è richiesta la forma scritta ad substantiam non è necessaria la simultaneità delle sottoscrizioni dei contraenti, ha più volte ribadito il principio secondo cui tanto la
produzione in giudizio della scrittura da parte di chi
non l’ha sottoscritta, quanto qualsiasi manifestazione di
volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto diretto alla controparte, dalla quale
emerga l’intento di avvalersi del contratto, realizzano
un valido equivalente della sottoscrizione mancante;
iii) che, nella specie considerata, anche in mancanza di
una copia del contratto firmata dalla banca, l’intento di
questa di avvalersi del contratto risultava comunque, oltre che dal deposito del documento in giudizio, dalle
manifestazioni di volontà da questa esternate ai ricorrenti nel corso del rapporto, da cui si evidenziava la volontà di avvalersi del contratto (bastando a tal fine le
comunicazioni degli estratti conto) con conseguenze
perfezionamento dello stesso.
Ritiene però la Corte che al precedente non possa darsi
continuità.
È stato più volte ribadito che la mancata sottoscrizione
di una scrittura privata può essere supplita dalla produzione in giudizio del documento stesso da parte del contraente non firmatario che se ne intende avvalere
(Cass. 5 giugno 2014, n. 12711 ove si precisa che, per il
perfezionamento dell’accordo è necessario non solo che
la produzione in giudizio del contratto avvenga su iniziativa del contraente che non l’ha sottoscritto, ma anche che l’atto sia prodotto per invocare l’adempimento
delle obbligazioni da esso scaturenti; Cass. 17 ottobre
2006, n. 22223; Cass. 5 giugno 2003, n. 8983; Cass. 1
luglio 2002, n. 9543; Cass. 11 marzo 2000, n. 2826;
Cass. 19 febbraio 1999, n. 1414; Cass. 15 maggio 1998,
n. 4905; Cass. 7 maggio 1997, n. 3970; Cass. 23 gennaio 1995, n. 738; Cass. 24 aprile 1994, n. 5868, ove si
precisa che il principio non trova applicazione allorché
il giudizio sia instaurato non nei confronti del sottoscrittore, bensì dei suoi eredi; Cass. 28 novembre 1992,
n. 12781; Cass. 7 agosto 1992, n. 9374; Cass. 24 aprile
1112
1990, n. 3440; Cass. 7 luglio 1988, n. 4471; Cass. 11
settembre 1986, n. 5552, che ammette il principio solo
quando il contraente invochi in proprio favore il contratto ed intenda farne propri gli effetti, e non quando
la produzione in giudizio del documento esprima essa
stessa la volontà contraria ad alcuni suoi contenuti, come quando sia effettuata al fine di dimostrare con la
mancata sottoscrizione del documento la non avvenuta
conclusione del contratto contenutovi; Cass. 18 gennaio 1983, n. 469; Cass. 8 novembre 1982, n. 5869;
Cass. 23 aprile 1981, n. 2415, ivi, 1981, 2415; Cass. 8
gennaio 1979, n. 78).
La produzione in giudizio da parte del contraente che
non ha sottoscritto la scrittura realizza un equivalente
della sottoscrizione, con conseguente perfezionamento
del contratto, perfezionamento che non può verificarsi
se non ex nunc, e non ex tunc, tant’è che il congegno
non opera se l’altra parte abbia medio tempore revocato
la proposta, ovvero se colui che aveva sottoscritto l’atto
incompleto non è più in vita nel momento della produzione, perché la morte determina di regola l’estinzione
automatica della proposta (v. art. 1329 c.c.) rendendola
non più impegnativa per gli eredi (in senso diverso sembra rinvenirsi soltanto Cass. 29 aprile 1982, n. 2707, secondo cui la produzione in giudizio del documento sottoscritto da una sola parte non determina la costituzione del rapporto ex nunc, ma supplisce alla mancanza di
sottoscrizione con effetti retroagenti al momento della
stipulazione).
Ne consegue che nel caso di specie la produzione in
giudizio del contratto da parte della banca, la cui sottoscrizione difetta, avrebbe determinato il perfezionamento del contratto solo dal momento della produzione, la
quale, perciò, non può che rimanere senza effetti, per i
fini della validità del successivo ordine di acquisto delle
obbligazioni argentine, tale da richiedere a monte (e
non ex post) un valido contratto quadro.
D’altro canto, far discendere la validità dell’ordine di
acquisto dal perfezionamento soltanto successivo del
“contratto quadro”, non è pensabile, stante il principio
dell’inammissibilità della convalida del contratto nullo
ex art. 1423 c.c.
Il che esime dal soffermarsi sull’ulteriore questione se la
produzione da parte della banca possa determinare il
perfezionamento del contratto, sia pure ex nunc, in presenza di una domanda volta ad ottenere la dichiarazione
di nullità dell’ordine di acquisto in mancanza di un valido “contratto quadro”, avuto riguardo al rilievo che tale domanda è di mero accertamento e, a differenza di
quelle costitutive, quali quelle di annullamento o di risoluzione e non presuppone l’avvenuta conclusione del
contratto.
Per tale ragione, dunque, il “contratto quadro” non può
dirsi utilmente perfezionato (sì da sorreggere il successivo ordine di acquisto) per effetto della sua produzione
in giudizio da parte della banca.
Il problema dell’anteriorità del perfezionamento del
“contratto quadro” non si porrebbe, invece, se potesse
attribuirsi rilievo alla volontà della banca di avvalersi
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del contratto desumibile dalle contabili, attestati di seguito e dall’esecuzione del contratto medesimo.
Ma così non è. In generale, nei contratti soggetti alla
forma scritta ad substantiam, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle
parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto
stesso, non può evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo (Cass. 7 giugno
2011, n. 12297).
E, fin da epoca remota, questa Corte ha affermato che il
documento ha valore, per i fini del soddisfacimento del
requisito formale, “in quanto sia estrinsecazione diretta
della volontà contrattuale” (Cass. 7 giugno 1966, n.
1495). La forma scritta, quando è richiesta ad substantiam, insomma elemento costitutivo del contratto, nel
senso che il documento deve essere l’estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un
determinato contratto avente una data causa, un dato
oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il
documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto (Cass. 1 marzo 1967, n. 453;
Cass. 22 maggio 1974, n. 1532; Cass. 7 maggio 1976, n.
1594; Cass. 9 marzo 1981, n. 1307; 30 marzo 1981, n.
1808; 18 febbraio 1985, n. 1374;Cass. 15 novembre
1986, n. 6738; Cass. 29 ottobre 1994, n. 8937; Cass. 15
dicembre 1997, n. 12673; Cass. 6 aprile 2009, n. 8234;
Cass. 30 marzo 2012, n. 5158; da ultimo Cass. 12 novembre 2013, n. 25424, secondo cui non soddisfa l’esigenza di forma scritta ad substantiam l’attestazione di pagamento sottoscritta dall’accipiens e dal solvens).
Orbene, è di tutta evidenza che documentazione quale
quella in questo caso depositata dalla banca, indipendentemente dalla verifica dello specifico contenuto e
della sottoscrizione di dette scritture, non possiede i caratteri della “estrinsecazione diretta della volontà contrattuale”, tale da comportare il perfezionamento del
contratto, trattandosi piuttosto di documentazione predisposta e consegnata in esecuzione degli obblighi derivanti dal contratto il cui perfezionamento si intende dimostrare e, cioè, da comportamenti attuativi di esso e,
in definitiva, di comportamenti concludenti che, per
definizione, non possono validamente dar luogo alla stipulazione di un contratto formale”.
Rimane da esaminare il rilievo sollevato in controricorso relativo all’abusività e conseguente illegittimità dell’eccezione di nullità “selettiva” del contratto quadro, in
quanto rivolta esclusivamente a produrre effetti nei
confronti di alcuni acquisti di prodotti finanziari. Al ri-
guardo la Corte d’Appello ha ritenuto che la nullità denunciata non può che investire l’intero rapporto. Non
può essere consentito all’investitore, pena l’inammissibile esercizio strumentale ed abusivo del diritto, di limitare ad alcuni investimenti gli effetti della invocata invalidità del contratto quadro.
L’assunto non può essere condiviso dal momento che,
nella specie, il requisito della forma scritta ad substantiam per il contratto quadro non determina una modificazione della qualificazione giuridica della nullità che
consegue all’inosservanza dell’obbligo di forma. Anche
tale nullità è rilevabile esclusivamente dall’investitore
ed configurabile come nullità di protezione. L’applicazione del regime giuridico rigoroso della forma scritta ad
substantiam, derivante dall’esame testuale dell’art. 23
T.U.E. nell’interpretazione conforme di questa Corte
(S.U. n. 26724 del 2007) non ne modifica né la natura
né la funzione né le modalità di rilievo. L’eccezione
può, di conseguenza, essere prospettata dalla parte, coerentemente con l’interesse sostanziale dedotto in giudizio.
Al riguardo deve rilevarsi che l’investitore ex art. 99 e
100 c.p.c. può selezionare il rilievo della nullità e rivolgerlo agli acquisti (o più correttamente i contratti attuativi del contratto quadro) di prodotti finanziari dai
quali si è ritenuto illegittimamente pregiudicato, essendo gli altri estranei al giudizio. La rilevabilità d’ufficio,
peraltro non incondizionata, delle nullità di protezione,
affermata di recente dalle S.U. nella sentenza n. 26242
del 2014, si limita a configurare la possibilità di estendere l’accertamento giudiziale anche a cause di nullità
protettive non dedotte dalle parti senza tuttavia consentirne il rilievo anche ad atti diversi da quelli verso i
quali la censura è rivolta.
L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento dei rimanenti nonché dei due motivi del ricorso
incidentale.
Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata
con rinvio al giudice del merito perché si adegui ai seguente principio di diritto: “nel contratto d’intermediazione finanziaria, la produzione in giudizio del modulo
negoziale relativo al contratto quadro sottoscritto soltanto dall’investitore, non soddisfa l’obbligo della forma
scritta ad substantiam imposto a pena di nullità dall’art.
23 D.Lgs. n. 58 del 1998. Tale nullità può essere eccepita anche limitatamente ad alcuni degli ordini di acquisto eseguiti in virtù del contratto viziato”.
(omissis).
Cassazione Civile, Sez. I, 11 aprile 2016, n. 7068 - Pres. Nappi - Rel. Dogliotti - P.M. Del Core
(diff.) - D.M.L. (avv.ti Capriolo, Pizzoli) c. Banca Passadore & C. S.p.a. (avv.ti Marotta, Cataldo)
È nullo, per difetto di forma ad substantiam, il contratto relativo alla prestazione di servizi di investimento,
sottoscritto dall’investitore, ma non anche dalla banca.
La nullità del contratto incide sulla validità dei successivi ordini di acquisto stante anche l’esclusione di ogni
forma di convalida del contratto nullo ex art. 1423 c.c. Pertanto, la produzione in giudizio del contratto di negoziazione da parte della banca, non rende validi retroattivamente gli ordini di acquisto e le operazioni di
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compravendita de quibus, con la conseguente necessità di restituzione della somma impiegata dal cliente e
dei titoli alla banca.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 22 marzo 2013, n. 7283.
Difforme
Cass. 7 settembre 2015, n. 17440; Cass. 22 marzo 2012, n. 4564.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
Omissis.
Va invece accolta la tesi della ricorrente, che aveva
tempestivamente eccepito la nullità del contratto quadro per vizio di forma, e non solo la nullità degli ordini
di acquisto. Dal contenuto del ricorso ex art. 19 emergeva la richiesta di dichiarazione di nullità del “contratto
di borsa” per assenza di sottoscrizione, richiesta ad substantiam, richiamandosi l’assenza di contratto scritto
(violazione dell’art. 23 T.U.F.) e denunciandosi che
non vi era stato alcun contratto di intermediazione né
alcun ordine scritto. Errata è dunque l’affermazione che
l’odierna ricorrente avrebbe eccepito la nullità del contratto quadro in epoca successiva.
Va dunque esaminato se, nella specie, il contratto di
negoziazione debba ritenersi nullo. Esso è stato prodotto
dalla banca e reca la sottoscrizione della ricorrente, ma
non del rappresentante della banca stessa.
Al momento della stipulazione erano vigenti la L. n. 1
del 1991, e il D.Lgs. n. 58 del 1998. Com’è noto, l’art.
6 L. n. 1 del 1991, confermato dall’art. 23, D.Lgs. n. 58
del 1998, introduceva il requisito di forma scritta ad
substantiam per il contratto quadro (al riguardo, Cass. n.
10598 del 2005; 11 del 2004).
È appena il caso di precisare che tale requisito richiede
necessariamente che siano formalizzate le dichiarazioni
negoziali di proposta ed accettazione, in un unico contesto ovvero anche in tempi e contesti diversi.
Sussistendo controversia, la prova dell’esistenza del contratto richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa, o delle relative scritture (Cass. n.
26174 del 2009). Al contrario, la stipulazione non può
essere desunta, in via indiretta, da dichiarazioni di con-
tenuto differente (ad es. di scienza, di ricognizione,
ecc.). Né potrebbero all’evidenza, sopperire prove testimoniali, per presunzioni, il giuramento o la confessione
(tra le altre, al riguardo Cass. n. 2 del 1997).
Orientamento consolidato di questa Corte (tra le altre:
Cass. n. 22223 del 2006; n. 12711 del 2014) precisa che
alla mancata sottoscrizione di una scrittura privata, può
sopperirsi con la produzione in giudizio del documento
stesso da parte del contraente non firmatario che se ne
intende avvalere.
La giurisprudenza suindicata afferma che la produzione
in giudizio, realizza un equivalente della sottoscrizione,
con conseguente perfezionamento del contratto ex nunc,
salvo, in ogni caso, che l’altra parte abbia revocato la
proposta ovvero sia deceduta, determinando la morte;
l’estinzione automatica della proposta, che non sarebbe
dunque impegnativa per gli eredi.
Giurisprudenza altrettanto consolidata di questa Corte
(tra le altre, Cass. S.U. n. 5395 del 2007) afferma che,
dopo la stipulazione del contratto di negoziazione, gli
ordini di acquisto e le operazioni di compravendita danno luogo ad atti sicuramente negoziali, ma non a veri e
propri contratti, per di più autonomi rispetto all’originale contratto quadro di cui essi costituiscono attuazione
ed adempimento.
La nullità del contratto incide dunque sulla validità dei
successivi ordini di acquisto stante anche l’esclusione di
ogni forma di convalida del contratto nullo ex art. 1423
c.c.
Pertanto, nella specie, la produzione in giudizio del contratto di negoziazione da parte della banca, non rende
validi retroattivamente gli ordini di acquisto e le operazioni di compravendita de quibus, con la conseguente
necessità di restituzione della somma impiegata dal
cliente e dei titoli alla banca.
(omissis).
Cassazione Civile, Sez. I, 24 marzo 2016, n. 5919 - Pres. Nappi - Est. Di Marzio - P.M. Sorrentino (conf.) - Intesa Sanpaolo S.p.a. (avv. Negro) c. M.S. (avv.ti Antonucci, Vassalle)
Il requisito della forma scritta ad substantiam nei contratti è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti
siano contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile tra questi ultimi, così da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo.
Per i negozi giuridici per i quali la legge prescrive la forma scritta ad substantiam, la prova della loro esistenza
e dei diritti che ne formano l’oggetto richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura, che non può essere sostituita da altri mezzi probatori. In particolare, il contraente di un contratto per cui è
prevista la forma scritta ad substantiam, privo del possesso della scrittura per averla consegnata all’altro contraente che si rifiuta di restituirla, non può provare l’esistenza del rapporto avvalendosi della prova testimo-
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niale, poiché non si verte in un’ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell’art. 2724, n. 3, c.c.,
bensì di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del n. 2 del medesimo articolo.
In tema di contratti per i quali la legge richiede la forma scritta ad substantiam, la produzione in giudizio della
scrittura da parte del contraente che non l’ha sottoscritta realizza un equivalente della sottoscrizione, con
conseguente perfezionamento del contratto con effetti ex nunc e non ex tunc, essendo necessaria la formalizzazione delle dichiarazioni di volontà che lo creano; ne consegue che tale meccanismo non opera ai fini della
validità del successivo ordine di acquisto di strumenti finanziari, che richiede a monte (e non ex post) un valido contratto quadro.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 26 marzo 1994, n. 2951; Cass. 19 aprile 1996, n. 3722; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28639; Cass. 22 marzo
2013, n. 7283.
Difforme
Cass. 7 settembre 2015, n. 17440; Cass. 22 marzo 2012, n. 4564; Cass. 1° settembre 1997, n. 8328.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
Omissis
7.1. - I primi cinque motivi del ricorso possono essere
simultaneamente esaminati, in ragione del loro collegamento, dal momento che tutti sono volti a sostenere,
sebbene da diversi angoli visuali, la tesi del perfezionamento del “contratto quadro” pur in mancanza della
produzione in giudizio della copia di esso sottoscritto
dalla banca.
Essi sono tutti infondati.
7.1.1. - L’ordine di acquisto di obbligazioni argentine di
cui si discute ha avuto luogo nel vigore dell’art. 23 Tuf
(D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), sulla base di un “contratto quadro” del quale la M. ha dedotto la nullità per
difetto del requisito formale - stipulato in epoca in cui
era vigente la L. 2 gennaio 1991, n. 1.
In particolare, l’originaria attrice ha agito in giudizio
producendo il documento del 13 giugno 1991 recante il
conferimento alla banca del mandato di negoziazione,
predisposto sotto forma di lettera diretta alla stessa banca, mancante della sottoscrizione di quest’ultima, ma
contenente la dicitura: “Prendiamo atto che una copia
del presente contratto ci viene rilasciata debitamente
sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi”, seguita dalla sottoscrizione della M.
Nel corso del giudizio analogo documento è stato prodotto dalla banca.
7.1.2. - Orbene, il citato art. 23 stabilisce che i contratti
relativi alla prestazione dei servizi di investimento debbano essere redatti per iscritto a pena di nullità, ma già
l’art. 6, lett. c, della L. 2 gennaio 1991, n. 1, secondo
quanto più volte ribadito da questa Corte, poneva il
medesimo requisito di forma per la stipulazione del
“contratto quadro” (Cass. 7 settembre 2001, n. 11495;
Cass. 9 gennaio 2004, n. 111; Cass. 19 maggio 2005, n.
10598).
Tale previsione, dettata, secondo la prevalente opinione, a fini protettivi dell’investitore (Cass. 22 marzo
2013, n. 7283), non è incompatibile con la formazione
del contratto attraverso lo scambio di due documenti,
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entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto
dall’altro contraente. Non v’è difatti ragione di discostarsi dall’insegnamento più volte ribadito, secondo cui
il requisito della forma scritta ad substantiam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono contenute
in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo, “sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo” (Cass. 13 febbraio 2007, n. 3088; Cass. 18 luglio
1997, n. 6629; Cass. 4 maggio 1995, n. 4856).
Ciò detto, vertendosi in tema di forma scritta sotto pena di nullità, in caso di formazione dell’accordo mediante lo scambio di distinte scritture inscindibilmente
collegate, il requisito della forma scritta ad substantiam
in tanto è soddisfatto, in quanto entrambe le scritture, e
le corrispondenti dichiarazioni negoziali, l’una quale
proposta e l’altra quale accettazione, siano formalizzate.
E, insorta sul punto controversia, vale la regola generale
secondo cui, con riguardo ai contratti per i quali la legge prescrive la forma scritta a pena di nullità, la loro
esistenza richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura (Cass. 14 dicembre 2009, n.
26174).
7.1.3. - La stipulazione del contratto non può viceversa
essere desunta, per via indiretta, in mancanza della
scrittura, da una dichiarazione quale quella nella specie
sottoscritta dalla M.: “Prendiamo atto che una copia del
presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi”.
La verifica del requisito della forma scritta ad substantiam si sposta qui sul piano della prova (è la stessa banca
ricorrente, del resto, a riconoscerlo), ove trova applicazione la disposizione dettata dal codice civile che consente di supplire alla mancanza dell’atto scritto nel solo
caso previsto dall’art. 2725 c.c., comma 2, che richiama
l’art. 2724 c.c., n. 3: in base al combinato disposto di
tali norme, la prova per testimoni di un contratto per la
cui stipulazione è richiesta la forma scritta ad substantiam, è dunque consentita solamente nell’ipotesi in cui
il contraente abbia perso senza sua colpa il documento
che gli forniva la prova del contratto.
E la preclusione della prova per testimoni opera parimenti per la prova per presunzioni ai sensi dell’art.
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2729 c.c., nonché per il giuramento ai sensi dell’art.
2739 c.c. Interdetta è altresì la confessione (Cass. 2
gennaio 1997, n. 2; Cass. 7 giugno 1985, n. 3435) quale, in definitiva, sarebbe la presa d’atto, da parte della
M., della consegna dell’omologo documento sottoscritto
dalla banca.
D’altronde, la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude l’equiparazione alla “perdita”, di cui parla
l’art. 2724 c.c., della consegna del documento alla controparte contrattuale. Nell’ipotesi prevista dalla norma,
difatti, il contraente che è in possesso del documento
ne rimane privo per cause a lui non imputabili: il che è
il contrario di quanto avviene nel caso della volontaria
consegna dell’atto, tanto più in una vicenda come quella in discorso, in cui non è agevole comprendere cosa
abbia mai potuto impedire alla banca, che ha predisposto la modulistica impiegata per l’operazione, di redigere
il “contratto quadro” in doppio originale sottoscritto da
entrambi i contraenti.
È stato al riguardo più volte ripetuto che, in tema di
contratti per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, nel caso in cui un contraente non sia in possesso
del documento contrattuale per averlo consegnato all’altro contraente, il quale si rifiuti poi di restituirlo, il
primo non può provare il contratto avvalendosi della
prova testimoniale, poiché non si verte in un’ipotesi di
perdita incolpevole del documento ai sensi dell’art.
2724 c.c., n. 3, bensì di impossibilità di procurarsi la
prova del contratto ai sensi del precedente n. 2 di tale
articolo (Cass. 26 marzo 1994, n. 2951; Cass. 19 aprile
1996, n. 3722; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28639, la
quale ha precisato che l’esclusione della prova testimoniale opera anche al limitato fine della preliminare dimostrazione dell’esistenza del documento, necessaria per
ottenere un ordine di esibizione da parte del giudice ai
sensi dell’art. 210 c.p.c.; per completezza occorre dire
che c’è un precedente di segno diverso, Cass. 29 dicembre 1964, n. 2974, ma si tratta di un’affermazione assai
remota, isolata e per di più concernente una fattispecie
in parte diversa).
7.1.4. - Resta allora da chiedersi se la validità del “contratto quadro” possa essere ricollegata, come vorrebbe la
banca ricorrente, alla produzione in giudizio da parte
sua del medesimo documento ovvero a comportamenti
concludenti posti in essere dalla stessa banca e documentati per iscritto.
La ricorrente ha più volte richiamato, in proposito, nel
ricorso per cassazione, l’autorità di Cass. 22 marzo 2012,
n. 4564 (massimata ad altro riguardo) nella quale si trova affermato, con riguardo ad una vicenda simile, pure
involgente la stipulazione di un contratto bancario da
redigersi per iscritto:
1) che la dicitura contenuta nel documento mancante
della sottoscrizione proveniente dalla banca, secondo
cui “un esemplare del presente contratto ci è stato da
voi consegnato”, rendeva ragionevole affermare che l’esemplare consegnato recasse per l’appunto la sottoscrizione della banca;
2) che la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, muovendo dalla premessa che nei contratti per
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cui è richiesta la forma scritta ad substantiam non è necessaria la simultaneità delle sottoscrizioni dei contraenti, ha più volte ribadito il principio secondo cui tanto la
produzione in giudizio della scrittura da parte di chi
non l’ha sottoscritta, quanto qualsiasi manifestazione di
volontà del contraente che non abbia firmato, risultante da uno scritto diretto alla controparte, dalla quale
emerga l’intento di avvalersi del contratto, realizzano
un valido equivalente della sottoscrizione mancante;
3) che, nella specie considerata, anche in mancanza di
una copia del contratto firmata dalla banca, l’intento di
questa di avvalersi del contratto risultava comunque, oltre che dal deposito del documento in giudizio, dalle
manifestazioni di volontà da questa esternate ai ricorrenti nel corso del rapporto, da cui si evidenziava la volontà di avvalersi del contratto (bastando a tal fine le
comunicazioni degli estratti conto) con conseguenze
perfezionamento dello stesso.
Ritiene però la Corte che al precedente non possa darsi
continuità.
7.1.4. - Questa Corte ha più volte ribadito che la mancata sottoscrizione di una scrittura privata è supplita
dalla produzione in giudizio del documento stesso da
parte del contraente non firmatario che se ne intende
avvalere (Cass. 5 giugno 2014, n. 12711 ove si precisa
che, per il perfezionamento dell’accordo è necessario
non solo che la produzione in giudizio del contratto avvenga su iniziativa del contraente che non l’ha sottoscritto, ma anche che l’atto sia prodotto per invocare
l’adempimento delle obbligazioni da esso scaturenti;
Cass. 17 ottobre 2006, n. 22223; Cass. 5 giugno 2003,
n. 8983; Cass. l luglio 2002, n. 9543; Cass. 11 marzo
2000, n. 2826; Cass. 19 febbraio 1999, n. 1414; Cass.
15 maggio 1998, n. 4905; Cass. 7 maggio 1997, n. 3970;
Cass. 23 gennaio 1995, n. 738; Cass. 24 aprile 1994, n.
5868, ove si precisa che il principio non trova applicazione allorché il giudizio sia instaurato non nei confronti del sottoscrittore, bensì dei suoi eredi; Cass. 28 novembre 1992, n. 12781; Cass. 7 agosto 1992, n. 9374;
Cass. 24 aprile 1990, n. 3440; Cass. 7 luglio 1988, n.
4471; Cass. 11 settembre 1986, n. 5552, che ammette il
principio solo quando il contraente invochi in proprio
favore il contratto ed intenda farne propri gli effetti, e
non quando la produzione in giudizio del documento
esprima essa stessa la volontà contraria ad alcuni suoi
contenuti, come quando sia effettuata al fine di dimostrare con la mancata sottoscrizione del documento la
non avvenuta conclusione del contratto contenutovi;
Cass. 18 gennaio 1983, n. 469; Cass. 8 novembre 1982,
n. 5869; Cass. 23 aprile 1981, n. 2415, ivi, 1981, 2415;
Cass. 8 gennaio 1979, n. 78).
In generale, il ragionamento posto a sostegno di tale indirizzo si riassume in ciò, che la produzione in giudizio
da parte del contraente che non ha sottoscritto la scrittura realizza un equivalente della sottoscrizione, con
conseguente perfezionamento del contratto, perfezionamento che non può verificarsi se non ex nunc, e non ex
tunc (ed infatti il contratto formale intanto si perfeziona
ed acquista giuridica esistenza, in quanto le dichiarazioni di volontà che lo creano siano state per l’appunto
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formalizzate), tant’è che il congegno non opera se l’altra
parte abbia medio tempore revocato la proposta, ovvero
se colui che aveva sottoscritto l’atto incompleto non è
più in vita nel momento della produzione, perché la
morte determina di regola l’estinzione automatica della
proposta (v. art. 1329 c.c.) rendendola non più impegnativa per gli eredi (in senso diverso sembra rinvenirsi
soltanto Cass. 29 aprile 1982, n. 2707, secondo cui la
produzione in giudizio del documento sottoscritto da
una sola parte non determina la costituzione del rapporto ex nunc, ma supplisce alla mancanza di sottoscrizione
con effetti retroagenti al momento della stipulazione).
Va da sé che nel caso in discorso la produzione in giudizio del contratto da parte della banca, la cui sottoscrizione difetta, avrebbe determinato il perfezionamento
del contratto solo dal momento della produzione, la
quale, perciò, non può che rimanere senza effetti, per i
fini della validità del successivo ordine di acquisto delle
obbligazioni argentine, tale da richiedere a monte (e
non ex post) un valido contratto quadro.
D’altro canto, far discendere la validità dell’ordine di
acquisto dal perfezionamento soltanto successivo del
“contratto quadro”, non è pensabile, stante il principio
dell’inammissibilità della convalida del contratto nullo
ex art. 1423 c.c.
Il che esime dal soffermarsi sull’ulteriore questione se la
produzione da parte della banca possa determinare il
perfezionamento del contratto, sia pure ex nunc, in presenza di una condotta quale quella posta in essere dalla
M., la quale ha agito in giudizio per la dichiarazione di
nullità dell’ordine di acquisto in mancanza di un valido
“contratto quadro”, avuto riguardo al rilievo che la domanda rivolta alla declaratoria di nullità è domanda di
mero accertamento e, a differenza di quelle costitutive,
quali quelle di annullamento o di risoluzione, non presuppone l’avvenuta conclusione del contratto.
Per tali ragioni, dunque, il “contratto quadro” non può
dirsi utilmente perfezionato (sì da sorreggere il successivo ordine di acquisto) per effetto della sua produzione
in giudizio da parte della banca.
7.1.5. - Il problema dell’anteriorità del perfezionamento
del “contratto quadro” non si porrebbe, invece, se potesse attribuirsi rilievo alla volontà della banca di avvalersi del contratto desumibile dalle contabili, attestati di
seguito, eccetera, di cui è menzione anche nella sentenza impugnata.
Ma così non è. In generale, nei contratti soggetti alla
forma scritta ad substantiam, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle
parti, anche posteriore alla stipulazione del contratto
stesso, non può evidenziare una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo (Cass. 7 giugno
2011, n. 12297).
E, fin da epoca remota, questa Corte ha affermato che il
documento ha valore, per i fini del soddisfacimento del
requisito formale, “in quanto sia estrinsecazione diretta
della volontà contrattuale” (Cass. 7 giugno 1966, n.
1495). La forma scritta, quando è richiesta ad substantiam, è insomma elemento costitutivo del contratto, nel
senso che il documento deve essere l’estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un
determinato contratto avente una data causa, un dato
oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il
documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto (Cass. 1 marzo 1967, n. 453;
Cass. 22 maggio 1974, n. 1532; Cass. 7 maggio 1976, n.
1594; Cass. 9 marzo 1981, n. 1307; 30 marzo 1981, n.
1808; 18 febbraio 1985, n. 1374; Cass. 15 novembre
1986, n. 6738; Cass. 29 ottobre 1994, n. 8937; Cass. 15
dicembre 1997, n. 12673; Cass. 6 aprile 2009, n. 8234;
Cass. 30 marzo 2012, n. 5158; da ultimo Cass. 12 novembre 2013, n. 25424, secondo cui non soddisfa l’esigenza di forma scritta ad substantiam l’attestazione di pagamento sottoscritta dall’accipiens e dal solvens).
Orbene, è di tutta evidenza che documentazione quale
quella in questo caso depositata dalla banca (contabili,
attestati di seguito, eccetera), indipendentemente dalla
verifica dello specifico contenuto e della sottoscrizione
di dette scritture (aspetti che nel caso di specie non risultano dal ricorso per cassazione), non possiede i caratteri della “estrinsecazione diretta della volontà contrattuale”, tale da comportare il perfezionamento del contratto, trattandosi piuttosto di documentazione predisposta e consegnata in esecuzione degli obblighi derivanti dal contratto il cui perfezionamento si intende dimostrare e, cioè, da comportamenti attuativi di esso e,
in definitiva, di comportamenti concludenti che, per
definizione, non possono validamente dar luogo alla stipulazione di un contratto formale.
(omissis).
Conclusione del contratto e formalismo di protezione
nei servizi di investimento
di Andrea Tucci
La S.C. interviene sul problema della validità del contratto relativo alla prestazione di servizi di
investimento (c.d. contratto quadro) sottoscritto dal solo cliente e dell’ammissibilità di una successiva convalida. La S.C. giudica nullo, ex art. 23 T.U.F., il contratto e i singoli atti di investimento ed esclude che l’eventuale successiva esecuzione, ovvero la produzione in giudizio del
contratto, da parte dell’intermediario, possano avere l’effetto di sanare retroattivamente la nulli-
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tà. Il commento esamina le questioni giuridiche evocate, nel contesto della disciplina dei servizi
di investimento e, in particolare, del c.d. formalismo di protezione.
La questione giuridica sopra sintetizzata trae origine dalla estrema “laconicità” della disciplina contenuta nell’art. 23 T.U.F. e dalla conseguente necessità di procedere a un coordinamento con la disciplina generale del contratto, contenuta nel codice civile (2).
In particolare, il Testo Unico non regola il procedimento di formazione del contratto, limitandosi a
prescrivere la forma scritta per i “contratti relativi
alla prestazione dei servizi di investimento” (diversi
dalla consulenza (3)) e a sanzionare l’inosservanza
del requisito di forma con la nullità “di protezione”,
deducibile dal solo cliente. Il legislatore, infine, attribuisce alla Consob, sentita la Banca d’Italia, il
potere di prevedere, con regolamento, una “altra
forma”, per particolari “tipi di contratto”; e ciò “per
motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti”. L’Autorità di vigilanza ha dato
attuazione al precetto di legge, circoscrivendo ai soli
rapporti con i clienti al dettaglio l’obbligo di prestazione dei servizi di investimento “sulla base di un
apposito contratto scritto”, recante un nucleo minimo di informazioni, nonché “le altre condizioni
contrattuali convenute con l’investitore per la prestazione del servizio” (art. 37, Reg. n. 16190/07).
Nella disciplina di settore, dunque, la forma solenne è uno degli strumenti di tutela del cliente non
professionale, come si evince anche dalla previsione di un meccanismo di reazione “a richiesta” del
soggetto protetto (4) e del potere della Consob di
introdurre una deroga alla regola, in relazione alla
natura professionale dei contraenti. Il documento
contrattuale si rivela, in tal modo, uno strumento
per l’informazione del cliente, nonché per consentire una verifica successiva del rispetto delle regole
convenute (5).
(1) Le statuizioni contenute nelle sentenze in commento sono state ribadite, da ultimo, da Cass. 24 maggio 2016, n.
10711.
(2) Circostanza, questa, del tutto fisiologica, nel contesto di
una disciplina di settore, che interviene (limitandola) sull’autonomia contrattuale dei soggetti interessati, al fine di proteggere l’investitore, quale contraente debole. Sul punto, sia consentito il rinvio ad A. Tucci, Profili del contratto nell’investimento
finanziario, in Riv. dir. comm., 2016, I, 347.
(3) Sulle ragioni di questa esenzione, cfr. Parrella, Il contratto di consulenza finanziaria, in E. Gabrielli - R. Lener (a cura di),
I contratti del mercato finanziario, nel Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno - E. Gabrielli, Torino, 2011, 1052, ove si sottolinea l’opportunità di non ostacolare raccomandazioni personalizzate, rese al di fuori di un rapporto continuativo con l’investitore, anche in considerazione della naturale tendenza a un
“assorbimento” della consulenza nella prestazione di altri servizi - in primis, la negoziazione -, con conseguente applicazione
della disciplina generale, anche in tema di forma del contratto.
Una diversa giustificazione dell’esenzione è addotta da Giudici,
Mercato finanziario. II. Contratti per i servizi di investimento, in
Mercati regolati, nel Trattato dei contratti, diretto da Roppo, Mi-
lano, 2014, 1093, ove si osserva che il servizio di consulenza
può consistere in un “mero comportamento”, al quale consegue l’obbligo legale di valutare l’adeguatezza dell’operazione
raccomandata. Il legislatore comunitario avrebbe escluso la
necessità di “formalizzare” il rapporto, onde prevenire il rischio
che l’intermediario inadempiente possa andare esente da responsabilità, adducendo la nullità del contratto per vizio di forma, in assenza di una regola (di rango comunitario) analoga a
quella contenuta nell’art. 23, comma 3, T.U.F.
(4) Il che non esclude la rilevabilità d’ufficio della nullità di
protezione, secondo il recente orientamento della Corte di cassazione, sulla scia delle statuizioni della Corte di Giustizia dell’UE (cf. Cass., SS.UU., 12 dicembre 2014, n. 26242, in questa
Rivista, 2015, 1, 88, con nota di Carbone e in Foro it., 2015, I,
862). Sul punto, cfr., peraltro, le precisazioni di Cass. n.
8395/2016 (infra, nt. 30).
(5) Cfr. Mazzamuto, Il problema della forma nei contratti di
intermediazione mobiliare, in Contr. e impr., 1994, 44; Fauceglia, La forma dei contratti relativi ad operazioni e servizi bancari
e finanziari, in Riv. dir. comm., 1994, I, 422 e 434-435; R. Lener,
Forma contrattuale e tutela del contraente “non qualificato” nel
mercato finanziario, Milano, 1996, 172; Sica, Atti che devono
Il caso
Le sentenze in commento affrontano un problema
ricorrente, nel contenzioso fra clienti e intermediari abilitati alla prestazione dei servizi di investimento, concernente le modalità di conclusione del
c.d. contratto quadro, a norma dell’art. 23 T.U.F.
Le vicende che hanno condotto alle pronunce del
Supremo Collegio sono pressoché identiche, per
quanto riguarda la questione evocata: il cliente agisce in giudizio, deducendo la nullità delle operazioni di investimento, per assenza di un preesistente
contratto quadro, esibendo un testo contrattuale
da lui sottoscritto, ma non anche dall’intermediario, e recante la dicitura, secondo la quale una copia del contratto è stata consegnata al cliente. La
banca convenuta esibisce copia del medesimo testo, ritenendolo sufficiente a integrare il requisito
di forma previsto dalla legge.
La Corte di cassazione accoglie la soluzione più rigorosa, giudicando nullo, per vizio di forma, il contratto quadro e, di conseguenza, i singoli atti di investimento, in quanto posti in essere in assenza di
un preesistente (valido) contratto quadro (1).
La forma solenne nei contratti di investimento
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“Contratto quadro” e “ordini di investimento”
Sulla scia di suggestioni dottrinali (6), la giurisprudenza di legittimità ha desunto, dalle disposizioni
sopra richiamate, una regola, in virtù della quale
intermediario e cliente (non professionale) dovrebbero concludere, prima dell’inizio dell’operatività,
un “contratto quadro” (o “normativo”) - che il legislatore definisce, appunto, “contratto relativo alla
prestazione dei servizi di investimento” -, sostanzialmente assimilabile al mandato, in virtù del quale l’intermediario si obbliga a porre in essere successive “operazioni di investimento”. Queste ultime, “benché possano, a loro volta, consistere in atti di natura negoziale, costituirebbero pur sempre il
momento attuativo del precedente contratto d’intermediazione” (7).
A seguito di questo importante arresto delle Sezioni Unite, la giurisprudenza - ivi comprese le sentenze in commento - e la dottrina di gran lunga
prevalenti hanno ritenuto che il requisito della forma solenne dovrebbe essere riferito al c.d. contratto quadro, destinato a definire la cornice normativa dei servizi di investimento, che saranno forniti
dall’intermediario al cliente, e, in quel contesto,
alle singole operazioni aventi ad oggetto strumenti
farsi per iscritto. Art. 1350, in Comm. Schlesinger, Milano,
2003, 310. Per analoghe considerazioni, con riferimento al formalismo previsto dalla disciplina dei contratti bancari, cfr. Morera, I profili generali dell’attività negoziale dell’impresa bancaria, in Brescia Morra - Morera, L’impresa bancaria. L’organizzazione e il contratto, in Trattato di diritto civile del Consiglio del
Notariato, diretto da Perlingieri, Napoli, 2006, 339; Urbani, Forme di tutela del cliente, in Capriglione (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, Padova, 2005, I, 312 ss. L’influenza del
modello normativo dei contratti bancari nella disciplina dei
contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento è
sottolineata da Alpa, sub art. 23, in Commentario al Testo Unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, I, 258. Per un efficace
quadro di sintesi, cfr. Buonocore, Le nuove frontiere del diritto
commerciale, Napoli, 2006, 122 ss.
(6) Il riferimento è, soprattutto, alla riflessione di Galgano, I
contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’intermediario, in Contr. e impr., 2005, 889 ss.; Id., Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle sezioni unite della cassazione,
ivi, 2008, 1.
(7) Sono queste le conclusioni cui pervengono le note “sentenze gemelle” di Cass., SS.UU., 19 dicembre 2007, nn. 26724
e 26725 che si leggono, fra l’altro in questa Rivista, 2008, 2,
223 con nota di Mariconda, in Giur. it., 2008, 353, con nota di
Cottino, e in Foro it., 2008, I, 785, con nota di Scoditti. Nella
giurisprudenza più recente, cfr. Cass. 22 dicembre 2011, n.
28432, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, II, 31. In dottrina cfr., in
senso conforme, Maggiolo, Servizi ed attività d’investimento, in
Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu Messineo - Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2012,
465. La S.C., in più occasioni, ha ribadito l’impostazione illustrata nel testo. Cfr., ad es., Cass. 13 gennaio 2012, n, 384, in
Giur. comm., 2012, II, 791 ss., spec. 794, ove l’enunciazione
del principio di diritto secondo cui “la forma scritta è richiesta
per la validità del c.d. contratto quadro col quale l’intermedia-
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finanziari. E in tal senso si sarebbe indirizzata la
Consob con il regolamento di attuazione (8). I
“contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento”, in altri termini, sarebbero quei contratti che disciplinano l’attività degli intermediari,
nei confronti dei clienti, non anche (i contratti
che danno veste giuridica al)le singole operazioni
di investimento o di disinvestimento, poste in essere nello svolgimento dell’attività e in attuazione del
c.d. contratto quadro.
Questa impostazione è particolarmente enfatizzata
nel corpo della motivazione di Cass. n. 7068/2016,
là dove si legge che “dopo la stipulazione del contratto di negoziazione, gli ordini di acquisto e le
operazioni di compravendita danno luogo ad atti
sicuramente negoziali, ma non a veri e propri contratti, per di più autonomi rispetto all’originale
contratto quadro di cui essi costituiscono attuazione ed adempimento” (9).
È, questa, una ricostruzione piuttosto stereotipata,
che non si attaglia appieno alle concrete modalità
di svolgimento dei diversi servizi di investimento,
costituendo una generalizzazione del modello di
operazione economica sotteso al servizio di esecuzione di ordini. Per contro, nel servizio di negoziazione, intermediario e cliente concludono specifici
rio si obbliga a prestare il servizio di negoziazione di strumenti
finanziari in favore del cliente, ma non anche per i singoli ordini che, in base a tale contratto, vengano poi impartiti dal cliente all’intermediario medesimo, la cui validità non è soggetta a
requisiti di forma”. Più di recente, cfr. Cass. 29 febbraio 2016,
n. 3950.
(8) Cfr. art. 7 della deliberazione Consob n. 10943/1997.
Successivamente, si vedano l’art. 30, Reg. n. 11522/98, e, attualmente, l’art. 37, Reg. n. 16190/07. Al riguardo si segnala,
altresì, l’importante Comunicazione n. DIS 5055217 del 3 agosto 2005, nella quale la Consob ha precisato che “la forma
scritta è richiesta per i contratti quadro disciplinanti la prestazione dei servizi d’investimento, mentre per il conferimento dei
singoli ordini di compravendita, rilasciati dagli investitori, non
è prescritto un particolare requisito di forma. Così, ad esempio, risulta la piena conformità alla normativa di riferimento
(come espressamente confermato dagli articoli 27 e 29 del Regolamento 11522/1998) di un ordine impartito telefonicamente”. Sul punto cfr., in termini dubitativi, Rovito - Picardi, sub art.
23, in Testo Unico della Finanza. Commentario, diretto da G.F.
Campobasso, Torino, 2002, I.
(9) Evidente, sul punto, l’eco della tesi di Galgano, I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’intermediario,
cit., 893, ove la precisazione che “l’ordine del cliente alla banca è un atto unilaterale esecutivo del mandato, non già una
proposta contrattuale del cliente alla banca, e non richiede alcuna accettazione della banca diretta a perfezionare una asserita compravendita”. Per un richiamo al mandato, a proposito
del contratto di negoziazione, cfr. Cass. 17 febbraio 2009, n.
3773, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 687, ove la precisazione che le operazioni compiute dall’intermediario per conto del
cliente “benché possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo
del precedente contratto di intermediazione” (il c.d. contratto
quadro).
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Nella prassi, il contratto - nell’accezione, sopra
chiarita, di “contratto quadro” - è sottoscritto dal
cliente, su un modulo predisposto dall’intermediario (11). Il più delle volte, inoltre, il cliente risulta
proponente e l’intermediario si riserva di accettare.
In conformità con l’art. 23, comma 1, T.U.F., il
cliente deve ricevere “un esemplare” del documento contrattuale; l’altro è (o dovrebbe essere) conservato dall’intermediario.
In questo contesto, può accadere che il cliente,
eventualmente anche perché deluso per il risultato
dell’investimento (12), agisca in giudizio, deducendo, fra l’altro, la mancanza di un valido contratto
quadro, nel senso di inesistenza materiale del documento recante il contratto quadro, ovvero - come
nelle vicende esaminate nei provvedimenti in
commento - di esistenza di un documento, recante
sì il testo contrattuale, ma non anche la sottoscrizione di entrambe le parti.
La Suprema Corte, nelle sentenze in esame, accoglie la tesi della nullità del contratto quadro e, “a
cascata”, delle singole operazioni di investimento,
in virtù dell’applicazione congiunta della regola
speciale, in tema di forma ad substantiam, e delle
regole codicistiche, concernenti la conclusione del
contratto e la disciplina dei mezzi di prova degli atti per i quali la legge richiede la forma scritta.
L’iter argomentativo della motivazione prende le
mosse dal rilievo che l’obbligo di osservare la forma
solenne non implica l’inammissibilità dello scambio di corrispondenza, quale tecnica di conclusione
del contratto, e, dunque, non richiede la sottoscrizione di entrambe le parti su un medesimo documento.
L’affermazione merita di essere condivisa. In effetti,
la disciplina di settore non contiene alcuna deroga
alle regole generali in materia di conclusione del
contratto e non impone, in particolare, lo schema
di conclusione fra presenti, mediante sottoscrizione
di un unico documento. Il che deve indurre a ritenere senz’altro ammissibile, in conformità con i
princìpi generali, la tecnica di conclusione del
contratto, che prevede lo “scambio” di due distinti
(purché “convergenti”) documenti, ciascuno sottoscritto da una delle parti (13).
Movendo da queste condivisibili premesse, la Corte
osserva che la prescrizione della forma scritta ad substantiam comporta, tuttavia, che, in caso di controversia, la prova della conclusione del contratto debba essere fornita mediante l’esibizione dei documenti recanti la proposta e l’accettazione, e non possa
essere desunta, indirettamente, da dichiarazioni
confessorie di una delle parti (14). La sentenza n.
(10) Il punto è stato colto dalla coeva sentenza di Cass. 27
aprile 2016, n. 8394, ove la precisazione, secondo cui “le operazioni di investimento sono atti di natura negoziale autonomi
rispetto al contratto-quadro, a cui danno attuazione. Tali atti
esecutivi possono, in quanto contratti, essere oggetto di risoluzione, laddove ne ricorrano i presupposti, indipendentemente dalla risoluzione del contratto quadro, con conseguente diritto alla restituzione dell’importo pagato ed eventuale risarcimento dei danni subiti”. Un ragionamento analogo ha condotto, di recente, la Corte di cassazione a riferire al singolo “ordine” - anziché al contratto quadro - il diritto di recesso, nel caso
di offerta fuori sede (art. 30, comma 6, T.U.F.), alla luce del
nuovo orientamento “estensivo”, inaugurato dalle Sezioni Unite, nella sent. 3 giugno 2013, n. 13905 (in Banca e Borsa,
2014, II, 507). Cfr. Cass. 1° giugno 2016, n. 11401, sulla base
del condivisibile rilievo, secondo cui è con il singolo “ordine”
che il cliente manifesta la volontà negoziale di investire, non
già con la conclusione del contratto quadro, che delinea esclusivamente la “cornice giuridica” dei futuri ed eventuali atti di
investimento (il rilievo si legge già in A. Tucci, L’offerta fuori sede nella stagione del nichilismo giuridico, in Banca, borsa, tit.
cred., 2014, II, 533).
(11) Nel corpo della sentenza di Cass. n. 5919/2016, si fa
menzione di un “modulo predisposto dalla banca” (par. 4).
(12) Su questo aspetto si tornerà infra, nel testo, a proposito del problema del possibile “abuso” della nullità di protezione, affrontato, ex professo, nella sent. n. 8395/16.
(13) In termini generali, cfr. Cass. 13 febbraio 2007, n.
3088, per la precisazione secondo cui “ai fini della sussistenza
del requisito della forma scritta nei contratti non occorre che
la volontà negoziale sia manifestata dai contraenti contestualmente e in un unico documento, dovendosi ritenere il contratto perfezionato anche qualora le sottoscrizioni siano contenute
in documenti diversi, anche cronologicamente distinti, qualora,
sulla base di una valutazione rimessa al giudice di merito, si
accerti che il secondo documento è inscindibilmente collegato
al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione
dell’accordo”. Sul necessario rapporto di “correlazione oggettiva”, fra proposta e accettazione, cfr. Sacco (- De Nova), Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2004,
1, 234, nonché 241, per la segnalazione del problema delle
c.d. dichiarazioni incrociate.
(14) Cfr. Cass. sent. n. 5919/16, par. 7.1.3. Nel caso di specie, il documento recava la seguente dicitura: “Prendiamo atto
che una copia del presente contratto ci viene rilasciata debitamente sottoscritta da soggetti abilitati a rappresentarvi”. Sta-
contratti di compravendita, a valle del contratto
quadro, ove esistente. La Corte di cassazione, d’altronde, sembra obliare che, nei rapporti fra intermediari e clienti professionali, il contratto quadro
potrebbe mancare del tutto; il che non consentirebbe di qualificare le singole operazioni di investimento in termini di meri atti esecutivi di un (inesistente) accordo quadro. La “non autonomia” della singola operazione di investimento (e del contratto che ad essa conferisce veste giuridica), pertanto, è regola che attiene alla disciplina dei rapporti fra intermediari e clienti al dettaglio e, dunque, ai profili soggettivi della contrattazione, non
già agli elementi strutturali della fattispecie contrattuale (10).
La conclusione del contratto quadro
e la sua prova
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Giurisprudenza
Diritto commerciale
5919/2016 precisa, altresì, che questa conclusione
costituisce una piana applicazione della disciplina
contenuta negli artt. 2725 e 2729 c.c. Nei casi in
cui la legge impone la forma solenne, per la prova
ovvero per la validità del contratto, la prova per testimoni è ammessa nel solo caso di perdita incolpevole del documento (art. 2724, n. 3); fattispecie
non assimilabile a quella della volontaria consegna
del documento alla controparte contrattuale (15).
Inammissibile, del pari, il ricorso a presunzioni ovvero a dichiarazioni confessorie, quale sarebbe la
“presa d’atto” dell’avvenuta consegna del documento contrattuale, da parte del cliente (16).
I possibili “surrogati” della forma solenne
Su questo punto si registrano, per vero, precedenti
difformi, della stessa Suprema Corte, la quale, in
più occasioni, ha statuito che, nel caso in cui le
parti abbiano fatto ricorso alla tecnica dello scambio di corrispondenza, l’esibizione, da parte della
banca, di un testo sottoscritto dal solo cliente è
idonea a costituire prova dell’avvenuta conclusione
del contratto, qualora il cliente abbia prodotto
analogo documento, dovendosi presumere che il
cliente sia in possesso del documento sottoscritto
dalla banca. La mancanza del documento contrattuizioni pressoché identiche si leggono nella sentenza di Cass.
n. 7068/2016, 4 (del dattiloscritto).
(15) La Corte aggiunge, ad abundantiam, che “non è agevole comprendere cosa mai abbia potuto impedire alla banca,
che ha predisposto la modulistica impiegata per l’operazione,
di redigere il “contratto quadro” in doppio originale sottoscritto da entrambi i contraenti”. In effetti, come si è avuto modo
di rilevare, la tipologia di contenzioso decisa dalle sentenze in
esame trae origine dalla prassi delle banche di “simulare” mediante la predisposizione di moduli contrattuali - uno scambio di corrispondenza, anche nel caso di conclusione del contratto fra presenti, facendo sì che il cliente appaia proponente.
Il che conferma - come puntualmente rilevato dalla Suprema
Corte - l’imputabilità all’organizzazione d’impresa della banca
dell’eventuale lacuna documentale e, di conseguenza, l’impossibilità di invocare le deroghe al divieto di prova per testi o per
presunzioni, nei contratti a forma solenne. Sul punto cfr. anche
infra, nt. 20 e testo corrispondente.
(16) Non è, peraltro, pacifico che le limitazioni alla prova
per testi o per presunzioni sussistano, altresì, rispetto alla prova dell’avvenuta ricezione della proposta o dell’accettazione,
intesa quale mero fatto storico. In tal caso, infatti, non si tratterebbe di supplire a una carenza formale dell’atto, bensì, più
semplicemente, di fornire la prova di un fatto, onde dimostrare
l’avvenuta conclusione del contratto, da parte di chi sia in grado di esibire l’altrui dichiarazione unilaterale di proposta/accettazione, non anche, come ovvio, la propria (in originale), pure
regolarmente inviata e ricevuta dall’altra parte. In giurisprudenza, cfr. Cass. 1° settembre 1997, n. 8328 (prova per testi dell’avvenuta esibizione, al proponente, del documento recante
l’accettazione), nonché, in termini generali, Cass. 24 maggio
2012, n. 8236, in Foro it., 2013, 1, I, 260 (prova della consegna
di una somma di denaro). Sul punto cfr., D’Angelo, Proposta e
accettazione, in Trattato del contratto, diretto da Roppo, Milano,
2006, I, 142 ss., il quale osserva che i limiti alla prova testimo-
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tuale potrebbe, comunque, essere supplita dalla
condotta del cliente, in costanza di rapporto, e, in
particolare, dalla mancata contestazione degli addebiti in conto corrente, per le singole operazioni
di investimento, poiché la comunicazione periodica degli estratti conto costituirebbe manifestazione
della volontà (della banca) di avvalersi del contratto, idonea a supplire alla mancata sottoscrizione (17).
L’orientamento giurisprudenziale in esame è incentrato sulla considerazione della finalità e degli interessi protetti dal formalismo negoziale e mira a prevenire o a reprimere abusi della nullità di protezione, da parte di clienti insoddisfatti, ancorché adeguatamente informati. Elementi indiziari di siffatte
condotte opportunistiche sarebbero la circostanza
che le informazioni richieste dalla disciplina di settore siano state, ancorché “informalmente”, trasmesse dall’intermediario e l’atteggiamento di inerzia, protratto nel tempo, rispetto a comunicazioni
attestanti la “regolare” attuazione del rapporto, pur
“irritualmente” instaurato.
Rispetto a questo precedente orientamento - che
ha riscontrato un certo successo anche nella giurisprudenza di merito (18) - la Corte di cassazione
assume una posizione di esplicito dissenso, affermando di non volervi più “dar[e] continuità”.
niale e per presunzioni operano con riguardo alla prova della
dichiarazione altrui, non anche della propria, né, tanto meno,
rispetto alla ricezione o alla cognizione di questa, da parte del
destinatario.
(17) Cfr. Cass. 7 settembre 2015, n. 17440; Cass. 22 marzo
2012, n. 4564. Quest’ultima sentenza - richiamata, criticamente, da Cass. n. 5916/2016 - ha cassato la sentenza impugnata,
per non avere valutato se la condotta del cliente potesse essere considerata una ratifica dell’operato della banca, peraltro
movendo dal presupposto, secondo cui “l’art. 23 TUF prevede
che i contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento, tra cui rientrano gli ordini di acquisto di valori mobiliari ai
sensi dell’art. 1 comma 5 lett. e) del TUF, devono essere effettuati in forma scritta”. Quest’ultima affermazione si pone, peraltro, in contrasto con il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il requisito della forma
solenne riguarda il contratto quadro, non anche i c.d. ordini di
acquisto. Più di recente, si veda l’obiter di Cass. 5 giugno
2014, n. 12711. Il “vero” precedente difforme è, dunque, Cass.
n. 17440/15, la quale ha perentoriamente statuito - in termini
generali e indipendentemente dalla tecnica di conclusione del
contratto seguita dalle parti - che “la previsione di forma scritta contenuta nell’art. 23 d.lg. n. 58/1998 (TUF) è soddisfatta
dalla sottoscrizione del contratto da parte del solo investitore,
allorché la copia prodotta in giudizio dal cliente rechi la dicitura ‘un esemplare del presente contratto ci è stato da voi consegnato’”.
(18) Cfr., ad es., Trib. Verona 22 luglio 2010, in Società,
2011, 675; Trib. Como 7 marzo 2012, in Foro pad., 2014, I,
272. Più di recente, cfr. Trib. Napoli 24 febbraio 2015; Trib. Catania 27 gennaio 2015. Entrambi i provvedimenti si leggono assieme a quelli di App. Bologna 14 maggio 2015, e di Trib.
Napoli 22 gennaio 2015, che hanno accolto l’opposta soluzione - in Banca e Borsa, 2016, II, 16, con nota di Catalano.
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In effetti, la tesi contestata appare difficilmente
conciliabile, oltre che con il tenore letterale dell’art. 23 T.U.F., con la ratio sottesa al formalismo
di protezione (19) e soltanto apparentemente risulta suffragata da quel filone giurisprudenziale, che
ammette “surrogati” della sottoscrizione, nei contratti a forma solenne, fra i quali, appunto, la domanda giudiziale, proposta prima della revoca del
consenso dell’altra parte (20). La disciplina speciale dell’intermediazione finanziaria, infatti, non
consente il compimento di operazioni di investimento (da parte di clienti non professionali), in assenza di un preesistente contratto; ponendo, dunque, un divieto di agire, la cui inosservanza comporta la nullità dell’atto, pur se con il “correttivo”,
a tutela del cliente, circa la legittimazione a dedurre il vizio. L’ipotizzato perfezionamento del contratto, mediante esibizione in giudizio, produrrebbe, comunque, effetti ex nunc e non sarebbe, pertanto, idoneo a sanare la violazione del precetto di
legge, che impone la conclusione del contratto
quadro prima del compimento delle singole operazioni di investimento.
Questo aspetto è ben colto nella sent. n.
7068/2016, là dove la Corte precisa che “la nullità
del contratto incide dunque sulla validità dei successivi ordini di acquisto stante anche l’esclusione
di ogni forma di convalida del contratto nullo ex
art. 1423 c.c. (...). La produzione in giudizio del
contratto di negoziazione da parte della banca, non
rende validi retroattivamente gli ordini di acquisto
e le operazioni di compravendita”. Al di là del formale ossequio ai princìpi generali, la regola applicabile, in concreto, è l’inammissibilità di una sanatoria del vizio, in virtù del compimento di operazioni di investimento; non importa quanto volute
e “informate”.
(19) Il paradosso è ben colto da Cottino, La responsabilità
degli intermediari finanziari. Un quadro ben delineato: con qualche novità e corollario, in Giur. it., 2010, 608, ove il rilievo che
“il fine informativo che l’obbligo di redazione per iscritto doveva ab origine soddisfare si realizzerebbe ex post con il deposito
del fascicolo della parte convenuta in causa”. D’altronde, ove
il cliente agisca deducendo la nullità del contratto, l’ipotizzata
(e, si ribadisce, inammissibile) convalida sarebbe, comunque,
“tardiva”, anche perché successiva al ripudio dell’atto di autonomia privata, da parte dell’attore. Cfr., in tal senso, lo spunto
che si legge in Cass. n. 4564/2012, cit., nonché, nella giurisprudenza di merito, fra gli altri, Trib. Torino 29 settembre
2010; Trib. Napoli 14 novembre 2011; Trib. Firenze 31 maggio
2013 (le sentenze citate sono tutte reperibili nel sito “ilcaso.it”).
Per ulteriori riferimenti, sia consentito il rinvio ad A. Tucci, Servizi di investimento e nullità del contratto, in Società, banche e
crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, diretto da M.
Campobasso - V. Cariello - Di Cataldo - F. Guerrera - A. Sciarrone Alibrandi, Torino, 2014, 3, 2447.
(20) Cass. 17 ottobre 2006, n. 22223; Cass. n. 4564/2012,
cit. Cass. 7 giugno 2011, n. 12297, esclude la possibilità che il
comportamento delle parti, successivo alla conclusione del
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Contratto quadro e condizioni generali
di contratto
Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di cassazione non sono condivise da una parte della dottrina,
la quale ritiene che la conclusione del contratto di
investimento sarebbe soggetta alla disciplina prevista dall’art. 1341 c.c., per le condizioni generali di
contratto, anche qualora il cliente risulti proponente, anziché aderente. Proprio la circostanza per
cui il soggetto che, formalmente, risulta “proponente” è, in realtà, “aderente” (rispetto alle condizioni di contratto predisposte dall’intermediario)
renderebbe fuorviante il richiamo allo schema classico di conclusione del contratto, incentrato sulla
(necessaria) presenza di proposta e accettazione
(art. 1326 c.c.), in quanto tecnica di formazione
dell’accordo diversa da quella contemplata dall’art.
1341 c.c. A fronte del disposto dell’art. 23 T.U.F.,
la dottrina in esame osserva che, in realtà, la forma
richiesta è soltanto la tecnica esteriore di manifestazione della volontà. Nel caso di specie, la volontà del predisponente risulta da un documento scritto e l’accettazione non occorre, essendo il documento già imputabile al predisponente (21).
La tesi non persuade appieno, nei termini generali
in cui è formulata.
Certo, nella maggior parte dei casi, il contratto
quadro è il risultato di un’attività di predisposizione unilaterale, ad opera dell’intermediario, volta a
disciplinare in maniera uniforme una serie indefinita di futuri rapporti contrattuali. Il che può rendere pertinente il richiamo al precetto contenuto
nell’art. 1341, comma 1, c.c., la cui collocazione sistematica, nel contesto delle regole attinenti alla
formazione del contratto, ovvero di quelle in tema
contratto, possa “evidenziare una formazione del consenso al
di fuori dell’atto scritto” In precedenza, con specifico riferimento ai contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, cfr. Cass. 25 giugno 2008, n. 17341, in Foro it., 2009, I,
188. Il problema dei rapporti fra forma solenne e atti processuali è, peraltro, risalente. In argomento, cfr., fra gli altri, Colesanti, Sulla forma giudiziale dei contratti solenni, in Riv. dir.
proc., 1964, 637; C.M. Bianca, In tema di forma del negozio solenne, in Riv. dir. civ., 1955, II, 473. Più di recente cfr. Orestano,
Schemi alternativi, in Trattato del contratto, diretto da Roppo, I,
Formazione, a cura di Granelli, Milano, 2006, 315, per la distinzione fra mera produzione del documento e manifestazione di
volontà negli scritti difensivi.
(21) Cfr. Maggiolo, Servizi ed attività d’investimento, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2012, 469, 472, riprendendo uno
spunto di Perrone, Tra regole di comportamento e regole di validità: servizi di investimento e disciplina della forma, in I soldi degli altri, a cura dello stesso Perrone, Milano, 2008, 35. La tesi
dell’A. si colloca nel contesto di una più ampia riflessione, sul
tema delle condizioni generali di contratto, condotta in Maggiolo, Il contratto predisposto, Padova, 1996, 67, 127, 152, 156.
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diari di concludere con i nuovi clienti “un accordo
di base scritto”, nel quale devono essere “fissati i
diritti e gli obblighi essenziali dell’impresa e del
cliente”, anche “facendo riferimento ad altri documenti o testi giuridici” (25).
di integrazione del contratto, non è, peraltro, pacifica, fra gli interpreti (22).
Sennonché, il problema “pratico” affrontato nelle
sentenze in esame concerne, piuttosto, l’accertamento dell’avvenuta conclusione del contratto
quadro, in presenza di un testo, proveniente dall’investitore e recante una mera proposta, al quale
non fa riscontro - almeno sulla base della produzione documentale delle parti (23) - un’accettazione,
prima dell’avvio delle operazioni di investimento.
Il precetto enunciato dall’art. 23 T.U.F., d’altronde, non consente una deroga alle regole contenute
nell’art. 1326 c.c., invocando l’effettiva esecuzione del rapporto contrattuale.
A diversa conclusione non sembra poter condurre
il richiamo alla regola contenuta nell’art. 1341,
comma 1, c.c., che risolve il differente problema
della vincolatività, per l’aderente, di un regolamento contrattuale non espressamente accettato,
ma pur sempre conoscibile, così incidendo sul “grado di partecipazione” dei contraenti all’elaborazione del regolamento medesimo. Quel che la disposizione codicistica esclude, in altri termini, è la necessità di una dichiarazione espressa di accettazione, perché le condizioni generali entrino a far parte del regolamento contrattuale; non anche la necessità di un accordo, fra le parti, quand’anche solo
per “sanzionare la nascita del vincolo” (24). Ed è
proprio questo, a ben vedere, il requisito minimo
prescritto dal Testo Unico, in conformità con la
disciplina comunitaria, che impone agli interme-
Non risulta più convincente l’orientamento giurisprudenziale, che svaluta l’assenza della sottoscrizione dell’intermediario, argomentando dalla considerazione della finalità puramente informativa della
forma contrattuale nei contratti di investimento. La
sottoscrizione del solo cliente, in questa prospettiva,
assicurerebbe, comunque, la realizzazione dello scopo sotteso al precetto di legge, costituendo adeguata
garanzia dell’avvenuta ricezione di un testo, recante
le informazioni essenziali, richieste dalla disciplina
di settore. Sennonché, per tal via, si perviene a uno
svuotamento della portata precettiva e del contenuto dell’obbligo di conclusione di un contratto quadro,
sostanzialmente assimilato a quello della consegna di
un documento informativo.
Movendo da questo ordine di considerazioni, parte
della giurisprudenza di merito giunge a ipotizzare
una carenza di interesse ad agire, in capo al cliente,
allorché, pur sussistendo la violazione della disciplina contenuta nell’art. 23 T.U.F., sotto il profilo
dell’assenza di un contratto quadro, non sia ravvisabile “una violazione dell’interesse protetto” (26).
(22) Cfr., rispettivamente, (Sacco -) De Nova, Il contratto,
363; Majello, Considerazioni in tema di condizioni generali di
contratto, in Rass. dir. civ., 1986, 69. La formale “inversione dei
ruoli”, fra predisponente e aderente, nel procedimento di formazione del contratto, non costituisce una peculiarità del settore ed è da tempo segnalata dalla dottrina. Cfr., e.g., R. Scognamiglio, Contratti in generale, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja - G. Branca, Bologna-Roma, 1970,
259-260; Realmonte, Le condizioni generali riprodotte o richiamate nel contratto, in Jus, 1976, 81, nota 5. Sui limiti di ammissibilità di questa “artificiosa inversione” dei ruoli, nei contratti
di investimento, cfr., peraltro, Roppo, Il contratto, 2011, 203,
con specifico riferimento alla disciplina dello ius poenitendi,
nell’offerta fuori sede (art. 30, T.U.F.).
(23) Cfr., peraltro, quanto osservato supra, nota 16 e testo
corrispondente.
(24) Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, 907.
In argomento, cfr. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto,
1970 (rist.), 65, ove il rilievo che, per contro, la disciplina della
proposta e dell’accettazione non attiene al “grado di partecipazione dei contraenti alla elaborazione del regolamento contrattuale”, bensì alle “condizioni formali perché tale regolamento
divenga vincolante per quei soggetti”. Sul punto, l’A. richiama
la distinzione, proposta da Emilio Betti, fra “contenuto” e “comando” [cfr. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli,
1994 (rist. II ed., 1960), 97, nt. 12]. Sul problema, di portata
generale, dei rapporti tra condizioni generali riprodotte o richiamate nel testo contrattuale e regole sulla formazione dell’accordo, contenute negli artt. 1326 ss., c.c., cfr. Cataudella,
Condizioni generali e procedimento di formazione del contratto,
in Condizioni generali di contratto e tutela del contraente debole,
Milano, 1970, 15; Realmonte, op. cit., 80. Ma, anche su questi
aspetti, cfr. la diversa posizione di Maggiolo, Il contratto predisposto, 101, 117, 134.
(25) Cfr. art. 39 della Dir. 2006/73/CE della Commissione,
del 10 agosto 2006, recante modalità di esecuzione della direttiva 2004/39/CE, rubricato “Accordo con il cliente al dettaglio”.
La disciplina speciale dell’intermediazione finanziaria - e, in
particolare, il c.d. formalismo di protezione - parrebbe di ostacolo anche rispetto all’ipotesi di valorizzare l’inerenza della predisposizione del testo contrattuale a un’attività d’impresa (peraltro del solo intermediario); circostanza talora invocata anche
nel contesto della formazione del contratto, per giustificare interpretazioni restrittive, anche delle disposizioni che impongono requisiti di forma. Cfr. Libertini, Autonomia individuale e
autonomia d’impresa, in I contratti per l’impresa, a cura di Gitti
- Maugeri - Notari, Bologna, 2012, I, 56 (ma si vedano le precisazioni, a 58-59, in merito al neoformalismo negoziale, nei
“contratti asimmetrici”); Angelici, La contrattazione d’impresa,
in L’impresa, a cura di Ferro-Luzzi - Spada - Bonelli - Berruti Cammarano - Cassese - Angelici - Libonati, Milano, 1985, 189
(con specifico riferimento al problema delle condizioni generali
di contratto). Cfr. anche subito infra, nel testo.
(26) Cfr. Trib. Torino 20 gennaio 2011; Trib. Catania 27 gennaio 2015, cit., 19. In dottrina, cfr., anche in una prospettiva
“de lege ferenda”, Perrone, Regole di comportamento e tutele
degli investitori. Less is more, in Banca, borsa, tit. cred., 2010,
I, spec. 540 ss.
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Forma solenne e “anti-formalismo”
degli interpreti
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Una variante di questo approccio giurisprudenziale
- animato dall’intento di far prevalere la “sostanza”
sulla “forma” - giudica inammissibile la domanda
di nullità/restituzione, ove risulti palese lo “sfruttamento abusivo”, nel processo, di un istituto di protezione del contraente debole. Così, nel caso in cui
l’investitore deduca la nullità del contratto quadro
(e delle operazioni di investimento “a valle”) per
ottenere la restituzione dei soli investimenti non
remunerativi, in tal modo ponendo in essere una
“opportunistica disarticolazione di un rapporto unitario” (27).
La Corte di cassazione, nella sentenza n.
8395/2016, disattende questo orientamento, osservando che l’investitore può “selezionare” il rilievo
della nullità e rivolgerlo ai soli contratti (attuativi
del contratto quadro) che ritiene pregiudizievoli.
Le statuizioni della S.C., sul punto, appaiono persuasive.
Per vero, non v’è dubbio che il requisito della forma solenne sia imposto per la realizzazione di particolari interessi (e.g., la ponderazione, l’informazione, il controllo). Questa circostanza non legittima,
peraltro, un’operazione ermeneutica di neutralizzazione di una norma imperativa, incentrata sulla
constatazione della sua (presunta) “inutilità”, nel
caso concreto, in spregio di una chiara scelta di politica del diritto (28). Il che rende, altresì, discutibile il tentativo di “paralizzare” l’azione di nullità
dell’investitore, invocando requisiti ulteriori, dalla
legge non previsti, quali l’effettiva sussistenza di un
investimento disinformato, onde colpire presunti
“abusi” della nullità di protezione, ad opera di
clienti semplicemente delusi dall’esito infausto di
una o più operazioni di investimento, soprattutto
se nel contesto di una più ampia operatività, protratta nel tempo e concretizzatasi nella conclusione
e nell’esecuzione di una pluralità di “singoli contratti”.
In termini generali, per vero, appare del tutto fisiologico, nella dialettica processuale e in conformità
con il principio della domanda, che l’attore agisca
per chiedere la ripetizione della prestazione indebitamente eseguita, dalla quale non abbia tratto
un’utilità patrimoniale, previa caducazione del titolo contrattuale, spettando al convenuto, in via
riconvenzionale, domandare, a sua volta, la restituzione di quanto eseguito, in esecuzione di un contratto nullo. L’impossibilità, per l’intermediario, di
dedurre la nullità del contratto quadro e dei singoli
atti di investimento, d’altronde, è un “inconveniente” voluto dal legislatore, che ha così sanzionato l’inadempimento dell’obbligo previsto dall’art.
23 T.U.F., verisimilmente anche con una finalità
dissuasiva di condotte non conformi al modello
virtuoso, previsto dalla disciplina di settore (29).
In questo contesto, occorre tenere distinte la disponibilità dell’azione di nullità dalla disponibilità
degli effetti della nullità, nel senso che, ove il
cliente abbia introdotto nel processo il vizio consistente nell’assenza di un valido contratto quadro,
ben potrà l’intermediario ottenere la restituzione
delle prestazioni eseguite in esecuzione di (altri)
contratti “a valle”, affetti dal medesimo vizio, essendo questo un effetto della nullità, dedotta (o eccepita) dal cliente, sempre che l’intermediario abbia
cura di formulare una domanda ad hoc (30).
(27) In questi termini: Trib. Torino 7 marzo 2011, in Corr.
mer., 2011, 699, che ha conseguentemente rigettato la domanda di nullità e di restituzione “selettiva”, introducendo una
sorta di estoppel, il cui fondamento normativo è rinvenuto nel
principio del giusto processo, enunciato - con riferimento alla
domanda di adempimento “frazionato” di un credito unitario da Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726, in Giur. it.,
2008, 929.
(28) Significativo, al riguardo, l’obiter dictum, che si legge
nella sentenza di Cass. n. 5919/2016 (par. 7.2), là dove la Corte
richiama l’eccezione - nel caso di specie, peraltro, non formulata nelle fasi di merito e, dunque, giudicata inammissibile - di
abuso della nullità di protezione, domandandosi, tuttavia, se,
in realtà, l’investitore non abbia dedotto la nullità “proprio al fine per cui essa è prevista”.
(29) Per vero, dall’esame delle vicende approdate nelle aule
di giustizia - e di quelle oggetto delle sentenze in commento,
in particolare -, si trae l’impressione che, il più delle volte, la
soccombenza degli intermediari sia dovuta alla diffusa tendenza ad adoperare testi contrattuali, nei quali il cliente risulta proponente ovvero, più in generale, a “simulare” uno scambio di
corrispondenza, anche nei casi in cui, in realtà, il contratto sia
concluso fra presenti. In una sorta di eterogenesi dei fini, “l’inutile precauzione”, adottata dall’intermediario, conduce all’elaborazione di una regola giurisprudenziale, che rafforza la posizione del cliente.
(30) Il punto è ben colto nel passaggio della motivazione di
Cass. n. 8395/2016, nel quale la Corte precisa che “la rilevabilità d’ufficio, peraltro non incondizionata, delle nullità di protezione, affermata di recente dalle S.U. nella sentenza n. 26242
del 2014, si limita a configurare la possibilità di estendere l’accertamento giudiziale anche a cause di nullità protettive non
dedotte dalle parti senza tuttavia consentirne il rilievo anche
ad atti diversi da quelli verso i quali la censura è rivolta”.
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Ordinanza di inammissibilità dell’appello
Cassazione Civile, SS.UU., 2 febbraio 2016, n. 1914 - Pres. Rovelli - Rel. Di Iasi - P.M. Apice
(parz. conf.) - Rizzani De Eccher S.p.a. (avv. Miculan) c. Viterbo Costruzioni S.r.l. (avv.ti Manzi,
Distaso)
Avverso l’ordinanza pronunciata dal giudice d’appello ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. è sempre ammissibile ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. limitatamente ai vizi propri della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del
giudizio sotteso all’ordinanza in questione, dovendo in particolare escludersi tale compatibilità in relazione alla denuncia di omessa pronuncia su di un motivo di appello, attesa la natura complessiva del giudizio prognostico, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza nonché a tutti i motivi
di ciascuna impugnazione, e potendo, in relazione al silenzio serbato in sentenza su di un motivo di censura,
eventualmente porsi (nei termini e nei limiti in cui possa rilevare sul piano impugnatorio) soltanto un problema di motivazione.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 27 marzo 2014, n. 7273.
Difforme
Cass. 17 aprile 2014, n. 8940.
La Corte (omissis).
Ritenuto in diritto
1. Logicamente prioritario è l’esame del ricorso proposto
avverso l’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter
c.p.c.
Col primo motivo Rizzani censura l’ordinanza impugnata perché la Corte territoriale, nel dichiarare l’inammissibilità dell’appello per mancanza di una ragionevole
probabilità di accoglimento, avrebbe del tutto omesso
di esprimersi in ordine al quarto motivo di gravame riguardante il quantum della condanna irrogata in primo
grado (che si assume sempre contestato dalla convenuta
e sfornito di supporto probatorio) e quindi, non motivando compiutamente il giudizio probabilistico negativo
espresso, sarebbe incorsa in violazione dell’obbligo di
motivazione previsto dall’art. 111 Cost., comma 4 nonché dagli artt. 134 e 348 ter c.p.c.
Col secondo motivo, denunciando ulteriore violazione
dell’obbligo di motivazione, la ricorrente censura l’ordinanza impugnata per omessa esposizione dell’iter logico
che, in relazione ad un altro motivo di impugnazione,
ha condotto i giudici d’appello ad affermare la sussistenza tra le parti di un contratto riguardante la disponibilità dei mezzi meccanici oggetto di furto, senza indicare
la natura di tale contratto né spiegare gli elementi sui
quali il relativo convincimento si è fondato.
L’esame dei sopra esposti motivi impone evidentemente, nel silenzio serbato in proposito dagli artt. 348 bis e
ter c.p.c., una preliminare indagine sulla impugnabilità
(con eventuali relativi limiti) dell’ordinanza in questione.
A norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1 possono essere
impugnate con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado (dovendo
pertanto escludersi l’esperibilità del ricorso ordinario
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per cassazione avverso le ordinanze (fatti salvi eventuali
casi di ordinanze aventi natura sostanziale di sentenza,
sui quali si tornerà in prosieguo) nonché (giusta il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 4) le sentenze e i
provvedimenti diversi dalla sentenza avverso i quali sia
ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge.
Avuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione
di legge previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, deve altresì escludersi che l’ordinanza in esame sia impugnabile
con censure riguardanti il “merito” della controversia,
giusta la previsione di ricorribilità per cassazione della
sentenza di primo grado e quindi la non definitività,
sotto questo profilo, dell’ordinanza pronunciata ai sensi
dell’art. 348 ter c.p.c.
La questione resta circoscritta pertanto alla ricorribilità
(o meno) dell’ordinanza suddetta per vizi propri di carattere processuale, cioè alle ipotesi in cui, non essendo
l’errore del giudice d’appello deducibile come motivo di
impugnazione del provvedimento di primo grado, manca la possibilità di rimettere in discussione la tutela che
compete alla situazione giuridica dedotta nel processo
attraverso il ricorso per cassazione avverso la pronuncia
di primo grado, ed è evidentemente rilevante nella specie, posto che con i due motivi d’impugnazione sopra
esposti si denunciano violazioni della legge processuale
commesse dal giudice d’appello. Sul punto, come evidenziato dalla citata ordinanza di rimessione, nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità è recentemente emerso un netto contrasto tra l’orientamento
espresso da Cass. n. 7273 del 2014 - secondo la quale
l’ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348
ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione per difetto di
definitività se emessa nell’ambito suo proprio, cioè per
manifesta infondatezza nel merito, ma deve ritenersi ricorribile ove dichiari l’inammissibilità dell’appello per
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ragioni processuali, avendo in tal caso carattere definitivo e valore di sentenza - ed il diverso orientamento
espresso da Cass. n. 8940 del 2014, secondo la quale il
ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario,
non è mai esperibile avverso l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità dell’appello ex artt. 348 bis e ter c.p.c., a
prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa
nei casi in cui ne è consentita l’adozione ovvero al di
fuori di essi, ostando, quanto all’esperibilità del ricorso
straordinario, la non definitività dell’ordinanza, dovendosi valutare tale carattere con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio non anche a
situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l’appello sia deciso con ordinanza soltanto nei
casi consentiti nonché al rispetto delle regole processuali fissate dagli articoli sopra richiamati.
2. Così definiti i termini del contrasto rimesso a queste
sezioni unite, occorre innanzitutto sgomberare il campo
di indagine da possibili suggestioni indotte dalla costatazione che, come risulta con chiarezza anche dalla Relazione Illustrativa dell’art. 54 D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, le intenzioni del legislatore nell’introdurre gli artt. 348 bis e ter c.p.c. erano volte
alla creazione di un ennesimo strumento di semplificazione ed accelerazione del processo civile e che l’orientamento che esclude sempre l’impugnabilità dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. appare certamente più conforme a tale intento perché, almeno prima facie, sembra
idoneo ad evitare che uno strumento pensato per accelerare e semplificare si trasformi in una possibile fonte
di complicazione del sistema e moltiplicazione delle impugnazioni.
Tale non del tutto ingiustificata suggestione non può
tuttavia essere determinante nella indagine in esame innanzitutto per l’ovvia considerazione che non sempre la
voluntas legislatoris coincide con la voluntas legis come
realizzatasi nel testo legislativo, senza considerare che,
se pure la direttiva interpretativa “secondo l’intenzione
del legislatore” riflette l’antico topos dell’autorità, non
rappresenta di certo criterio ermeneutico unico o prevalente, essendo peraltro appena il caso di sottolineare
che l’intentio auctoris non potrebbe giammai legittimare
una lettura delle norme in ipotesi contraria a costituzione.
Tanto doverosamente premesso, venendo direttamente
all’esame dell’art. 111 Cost., comma 7 - a norma del
quale “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla
libertà pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari
o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per
violazione di legge” - è appena il caso di sottolineare
che questa Corte ha da tempo chiarito (v. già Cass. n.
2953 del 1953), e poi ripetutamente ribadito, che un
provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza
o di decreto, assume carattere decisorio - requisito necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost. - quando
pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni
provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti nonché della definiti-
1126
vità - in quanto non altrimenti modificabile - può essere oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost.
Le sentenze tra le quali si è ravvisato il contrasto in esame non pongono in discussione il concetto di decisorietà sopra riportato né il fatto che tale carattere sia riscontrabile nell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. (non perché essa incide sul diritto processuale all’impugnazione
ma perché è emessa in un giudizio vertente su situazioni
di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista
la piena giustiziabilità). Il contrasto si radica quindi
esclusivamente in relazione al significato da attribuire
al presupposto della “definitività” in quanto, come già
evidenziato, secondo Cass. n. 7273 del 2014 esso sussisterebbe in relazione all’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c.
perché l’eventuale error in procedendo in cui sia incorso
il giudice d’appello nel pronunciare l’ordinanza in esame - ad esempio pronunciandola al di fuori dei casi normativamente previsti - non potrebbe essere fatto valere
nel ricorso avverso la sentenza di primo grado né altrimenti che con il ricorso straordinario, dovendo in mancanza escludersi la possibilità di rimettere in discussione
la tutela che compete alla situazione dedotta nel processo, mentre Cass. n. 8940 del 2014 (pur non dubitando
del carattere decisorio della medesima siccome emessa
in un processo civile iniziato a cognizione piena, che è
la tipica sede della “cognizione decisoria”) nega la ricorribilità dell’ordinanza in questione per mancanza del
presupposto della definitività, tale da ritenersi solo quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, con la conseguenza che finché quest’ultima sia ridiscutibile - nella specie con il ricorso per cassazione
contro la sentenza di primo grado - difetterebbe la definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario. Il
collegio ritiene, ai fini che in questa sede rilevano, che
tale ultima accezione del concetto di definitività non
sia condivisibile. Ciò innanzitutto in quanto essa non
trova riscontro nel dato normativo costituzionale e neppure nella legislazione processuale ordinaria né può ritenersi confermata dalla giurisprudenza di queste sezioni
unite, le quali, con le sentenze n. 3073 e n. 11026 del
2003 (richiamate peraltro dalla medesima Cass. n. 8940
del 2014 benché deducendone conseguenze che il collegio non ritiene allo stato di poter avallare), hanno, sia
pure con differente grado di chiarezza, affermato che se
il provvedimento al quale il processo è preordinato non
ha carattere decisorio perché, non costituendo espressione del potere - dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tenda all’accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell’altra, non ha contenuto sostanziale di sentenza, il carattere non decisorio permane anche quando si
faccia valere la lesione di un diritto processuale, in
quanto la pronuncia sull’osservanza delle norme che regolano il processo ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato, e quindi se tale atto sia privo di decisorietà, essa
non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio, alla stregua della sua natura strumentale, con la
conseguenza che le censure relative ad inosservanze di
norme regolanti la procedura non possono utilizzare
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strumenti processuali diversi da quelli previsti per le doglianze relative al merito del giudizio.
Dalla lettura dei principi esposti nelle suddette sentenze
può desumersi dunque, a contrario, che, giusta la natura
strumentale delle norme processuali, sussiste il presupposto della “decisorietà” con riferimento alle pronunce
sull’osservanza delle norme processuali se queste sono
emesse nell’ambito di processi su diritti soggettivi, ma
da tali principi non possono certamente trarsi argomenti a sostegno di una accezione ristretta del diverso e
concorrente presupposto della “definitività”, senza che
possa indurre a diverse conclusioni l’estrapolazione, dalle sentenze citate, di singole affermazioni in assenza di
considerazione del contesto (peraltro in entrambi i casi
non contenzioso) di riferimento.
Inoltre l’opzione di Cass. n. 8940 del 2014 (secondo la
quale, ripetersi, la definitività rilevante ai fini della proponibilità del ricorso straordinario sarebbe solo quella
sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo), troncando la potenziale corrispondenza tra l’ambito
della decisorietà e quello della definitività attraverso
una operazione ermeneutica non avallata dalla lettura
dei citati precedenti delle sezioni unite, finisce per proporre una interpretazione ingiustificatamente riduttiva
dell’art. 111 Cost., comma 7, che rischia di non sottrarsi alle insidie di avventurosi paralogismi e potrebbe in
ipotesi finire di fatto per ridurre l’ambito della denunciabilità, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, delle
violazioni della legge processuale.
Come già rilevato, la disciplina processuale vigente non
autorizza allo stato una simile lettura della “definitività”
richiesta ai fini del ricorso straordinario per cassazione,
risultando peraltro tale lettura potenzialmente idonea a
confondere o comunque sovrapporre due nozioni di “definitività” (e le ragioni ad esse sottese) che, pur riguardando entrambe il ricorso per cassazione, hanno motivo
di rimanere concettualmente separate: la “definitività”
di cui all’art. 360 c.p.c., comma 3 (questa si ancorata ad
un dato normativo esplicito) e la “definitività” che consente l’impugnazione straordinaria per violazione di legge ai sensi del settimo comma dell’art. 111 Cost., essendo evidente che, nel primo caso, è in discussione solo il
“momento” dell’impugnazione, trattandosi comunque di
sentenze impugnabili con ricorso ordinario per cassazione e la mancanza di “definitività” (nel senso che la decisione non “definisce” neppure parzialmente il giudizio) non elimina la ricorribilità con ricorso ordinario
ma (in alcuni casi) la pospone prevedendola insieme
con l’impugnazione della sentenza che invece “definisce
almeno parzialmente il giudizio”, mentre, nel secondo
caso, si tratta di provvedimenti per i quali non è prevista alcuna forma di impugnazione ordinaria (neppure
successiva), in ciò realizzandosi il presupposto della “definitività” (intesa come non modificabilità) in relazione
al rimedio straordinario previsto dall’art. 111 Cost.
È da aggiungere che la tesi in discussione non trova
conforto neppure nella interpretazione e applicazione,
certamente non riduttive, che la stessa Cassazione ha
dato dell’art. 111 Cost., a partire dalla già citata Cass.
n. 2953 del 1953 fino alla più recente SU n. 8053 del
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2014, che, decidendo sulla questione di massima di particolare importanza della applicabilità al giudizio tributario in cassazione delle modifiche apportate all’art. 360
c.p.c. dall’art. 54 D.L. n. 83 del 2012, ha dato un’ampia
lettura dell’art. 111 Cost. cit., comma 7 proprio in materia di denuncia di violazione di norme processuali.
Alla luce dei citati precedenti, radicati nella cultura
processuale di questo Paese siccome in alcuni casi risalenti di non pochi decenni, risulta dunque arduo concordare col “giro di vite” di fatto realizzato da Cass. n.
8940 del 2014, ed ancor più arduo se si ritiene - anche
in ragione della giurisprudenza costituzionale in proposito- che il ricorso straordinario per cassazione costituisca garanzia rafforzativa dell’effettività della tutela giurisdizionale di cui al primo comma dell’art. 24 Cost. consistente nel diritto al controllo di legalità da parte
della Suprema Corte - e, corrispondentemente, che
l’art. 111 Cost. cit., comma 7 costituisca “norma di
chiusura” del sistema delle impugnazioni.
In proposito non è superfluo ricordare che in sede di
Assemblea costituente si pervenne alla formulazione
della previsione costituzionale in esame dopo un’articolata discussione ed all’esito di una mediazione tra la
proposta che intendeva configurare il ricorso per cassazione esclusivamente come garanzia individuale delle
parti e quella volta ad affermare, attraverso la disposizione in parola, non solo lo ius litigatoris ma anche lo ius
costitutionis.
Il ricorso per Cassazione che ne è risultato costituisce
perciò un modello di impugnazione assolutamente peculiare, in cui (almeno finché la disposizione permanga
nell’attuale testo) deve trovare spazio e ragione sia la
funzione nomofilattica della Corte di cassazione sia la
tutela del singolo cittadino contro le violazioni della
legge commesse dai giudici di merito: rispetto a tale modello di ricorso (ed alle ragioni che ne hanno determinato la genesi) non può non risultare impropriamente
riduttiva una interpretazione che escluda la possibilità
di impugnare sempre, per le violazioni di legge commesse dai giudici di merito, i provvedimenti decisori che
non siano altrimenti modificabili o censurabili.
Peraltro già a partire dagli anni settanta i giudici costituzionali hanno evidenziato la natura garantistica del ricorso per Cassazione e sottolineato che l’art. 111 Cost.,
ammettendo sempre il ricorso straordinario, senza esclusioni, ne attribuisce il potere a tutte le parti del giudizio
di merito “quando siano consumate o non siano consentite altre forme di gravame” (v. Corte cost. n. 1 del
1970 e n. 173 del 1971). E più recentemente gli stessi
giudici costituzionali (v. Corte cost. n. 207 del 2009),
pronunciando sulla illegittimità dell’art. 391-bis c.p.c.,
comma 1 per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. nella
parte in cui non prevede l’esperibilità del rimedio della
revocazione per errore di fatto, ai sensi dell’art. 395
c.p.c., n. 4, per le ordinanze pronunciate dalla Corte di
cassazione a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1,
hanno colto l’occasione per soffermarsi sul giudizio di
cassazione e sul ruolo che esso assume nel nostro sistema processuale nonché per affermare (riprendendo Corte. cost. n. 395 del 2000) che la garanzia del giudizio di
1127
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cassazione si qualifica in funzione dell’art. 111 Cost.,
che prevede “quale nucleo essenziale del giusto processo
regolato dalla legge” il principio secondo il quale contro
tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge.
3. Ferme tutte le imprescindibili considerazioni generali
sopra esposte, è in ogni caso necessario evidenziare che
la prospettazione di una sorta di relazione “asimmetrica”
tra il requisito della decisorietà e quello della definitività richiesti per la ricorribilità ex art. 111 Cost. imporrebbe non solo che si precisi con chiarezza il tipo di relazione che si intende richiamare - individuandone
esplicitamente i referenti normativi - ma soprattutto
che si estenda l’indagine a tutti i possibili profili esegetici idonei a rendere non solo la tenuta speculativa ma
anche la fecondità pratica di tale ipotizzata “asimmetria”.
E proprio sul versante “concreto” dell’indagine in esame
non può trascurarsi che il caso in cui - come nella specie - vi sia una pronuncia a carattere decisorio - siccome emessa in un giudizio che verte su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena
giustiziabilità - che non sia in sé altrimenti modificabile
ma che tuttavia non possa ritenersi “definitiva” con riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio
rappresenta di fatto ipotesi particolarissima, essenzialmente connessa all’assoluta novità che il meccanismo
costituito dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. rappresenta nel
nostro ordinamento.
Pertanto, pur nella doverosa considerazione dei principi
deducibili dalla cospicua giurisprudenza di legittimità e
costituzionale sviluppatasi con riguardo al ricorso straordinario ex art. 111 Cost., alle sue finalità ed ai suoi presupposti, occorre, affinché il discorso, rimanendo su di
un piano astratto e perciò necessariamente generico,
non risulti alla fine aporetico, contemplare anche la
particolare situazione processuale in cui il problema si
pone, in ragione delle sue indiscutibili peculiarità, nonché le conseguenze alle quali si giungerebbe aderendo
all’una o all’altra delle soluzioni prospettate, per valutare se esse siano in concreto compatibili col sistema di
valori ai quali si è ispirato il legislatore costituente nel
disciplinare il ricorso straordinario per cassazione nell’ambito dei principi fondamentali del processo, ed occorre, perciò, verificare l’astratta configurabilità di ipotetici limiti al concetto di definitività quale presupposto
per il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. anche in relazione alle censure in concreto ipotizzabili con riguardo
all’ordinanza in discussione.
Alla stregua della disciplina risultante dagli artt. 348
bis e ter c.p.c. il soccombente che si è visto dichiarare
inammissibile l’appello con l’ordinanza di cui all’art.
348 ter c.p.c., proponendo ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado non può ovviamente che
dedurre motivi attinenti a quella decisione e non può
quindi far valere censure riguardanti eventuali errores in
procedendo commessi dal giudice d’appello, posto che
per poter conseguire una pronuncia su tali eventuali errori l’unica possibilità sarebbe quella di impugnare il
1128
provvedimento che pone termine al procedimento di
appello, ossia l’ordinanza declaratoria dell’inammissibilità dello stesso. Se tale ordinanza non fosse impugnabile
non sarebbe perciò in alcun modo sindacabile la decisione che “nega” alla parte il giudizio d’appello, ossia
l’impugnazione idonea a provocare un riesame della
causa nel merito non limitato al controllo di vizi specifici ma inteso ad introdurre un secondo grado in cui il
giudizio può essere interamente rinnovato non in funzione dell’esame della sentenza di primo grado ma come
nuovo esame della controversia, sia pure nei limiti del
proposto appello.
È vero che non è previsto alcun diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio di secondo grado inteso
come diritto ad un nuovo esame della causa nel merito
onde il legislatore ordinario ben avrebbe la possibilità
di eliminare completamente il giudizio di appello ovvero di escluderlo in relazione a specifiche controversie ed
a cagione delle relative peculiarità o ancora, come nella
specie, di prevederne l’inammissibilità sulla base di un
giudizio prognostico affidato al giudice d’appello nella
ricorrenza di determinate circostanze e nel rispetto di
una specifica procedura. In tale ultimo caso, tuttavia,
l’esclusione di ogni possibile controllo sul rispetto di limiti, termini e forme previsti dal legislatore per la decisione prognostica affidata al giudice d’appello equivarrebbe a lasciare al mero arbitrio di quest’ultimo la possibilità che la parte fruisca di un giudizio di secondo grado, in quanto la mancanza di ogni possibile impugnazione - sia pure straordinaria - finirebbe per determinare di
fatto l’impossibilità di verificare la correttezza della decisione, e, a fortiori, la “giustificatezza”, rispetto a regole
date, della disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto fruire dell’appello e coloro che non hanno
potuto fruirne. Peraltro, lasciare che, senza alcun potenziale controllo, il giudice d’appello resti arbitro di decidere se la parte possa o meno fruire del giudizio di secondo grado potrebbe in prospettiva determinare (anche se allo stato i primi dati sull’applicazione dell’istituto non sembrano avallare questa ipotesi, risultando al
contrario uno scarso utilizzo del medesimo) una sorta di
incontrollabile soppressione “di fatto” del giudizio d’appello, finendo in pratica per privare le parti di tale impugnazione anche oltre le ipotesi e i limiti previsti dal
legislatore e per scaricare sulla Corte di cassazione questioni che (alla stregua della disciplina vigente, non
contemplante una generalizzata ricorribilità per saltum)
potrebbero e dovrebbero essere “filtrate” attraverso il
giudizio d’appello, mentre la previsione della impugnabilità dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. ne faciliterebbe
un utilizzo “fisiologico”, evitando possibili arbitrii ed ingiustificate disparità di trattamento. E ciò senza che in
concreto si arrechi un aggravio particolarmente rilevante per la Corte di cassazione, se si pensa che la mera
possibilità di impugnazione dell’ordinanza, scongiurando
un (ipotetico) uso abnorme e incontrollato dell’istituto,
potrebbe ridurre in prospettiva agguerrite, complesse ed
“improprie” impugnazioni in cassazione della sentenza
di primo grado, riguarderebbe in ogni caso ipotesi limitate e questioni di pronta soluzione - siccome esclusiva-
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mente riferibili ad alcuni vizi processuali propri dell’ordinanza - e potrebbe essere esaminata dalla Corte di
cassazione - come nella specie - insieme alla eventuale
impugnazione della sentenza di primo grado, in alcuni
casi potendo la relativa decisione risultare “assorbente”
rispetto all’esame di quest’ultima.
Peraltro, rendere “incontrollabile” una decisione che,
escludendo la possibilità di esperire un giudizio di secondo grado ha indiscutibilmente la potenzialità di determinare l’esito della lite (o comunque influire in maniera rilevante su di esso) significherebbe sottrarla al fisiologico percorso potenzialmente “correttivo” assicurato attraverso il sistema delle impugnazioni (anche
“straordinarie”) e consegnare quindi le ragioni della
parte che, senza il rispetto delle regole previste, sia stata
privata del mezzo di gravame in parola, esclusivamente
- concorrendone i presupposti - ad una eventuale azione
risarcitoria, tra l’altro con indubbio effetto “moltiplicativo” del contenzioso.
Anche alla luce di tali considerazioni, valutate in riferimento alla particolare realtà processuale delineata dagli
artt. 348 bis e ter c.p.c., deve dunque ritenersi l’impugnabilità ex art. 111 Cost. dell’ordinanza suddetta per
vizi propri consistenti in violazione della normativa
processuale.
4. Tanto premesso, occorre precisare che non tutti gli
errores in procedendo astrattamente ipotizzabili con riferimento ad una decisione giurisdizionale sono tuttavia
compatibili con la peculiare disciplina introdotta dagli
artt. 348 bis e ter citati e che, d’altro canto, non sempre
avverso tali errori il ricorso straordinario si rivela l’unico rimedio esperibile.
Tra gli errores in procedendo denunciabili in relazione all’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. vengono innanzitutto
in rilievo quelli consistenti nel mancato rispetto delle
specifiche previsioni rinvenibili nei medesimi artt. 348
bis e ter.
In particolare, occorre considerare che, a norma dell’art.
348 bis, l’ordinanza in esame, essendo, nelle intenzioni
del legislatore, uno strumento di semplificazione e di accelerazione inteso alla riduzione dei tempi necessari per
la definizione delle cause civili, può essere pronunciata
nella fase iniziale del processo “all’udienza di cui all’art.
350..., prima di procedere alla trattazione, sentite le parti” e che pertanto la pronuncia di tale ordinanza oltre il
suddetto termine ovvero senza aver sentito le parti sicuramente costituisce error in procedendo che non potrebbe
essere fatto valere altrimenti che attraverso il ricorso
straordinario.
L’art. 348 bis al comma 2 esclude poi il “filtro” per le
cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, a norma dell’art. 70 c.p.c., comma 1, e per quelle che in primo grado si sono svolte secondo il rito sommario di cognizione, mentre l’art. 348 ter al comma 2
prevede che, in presenza di un appello principale e di
un appello incidentale, l’ordinanza di inammissibilità è
pronunciata a condizione che per entrambe le impugnazioni ricorrano, appunto, “i presupposti di cui all’art.
348 bis, comma 1”, essendo, in mancanza, il giudice tenuto a procedere “alla trattazione di tutte le impugna-
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zioni comunque proposte contro la sentenza”. E non vi
è dubbio che anche il mancato rispetto delle suddette
regole comporti altrettante violazioni della norma processuale che non potrebbero essere fatte valere se non
attraverso il ricorso straordinario.
Merita inoltre particolare attenzione l’art. 348 ter c.p.c.,
comma 1 laddove si precisa che l’ordinanza in questione
non può essere pronunciata se non “fuori dei casi in cui
deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o
l’improcedibilità dell’appello” e quando l’impugnazione
non ha “una ragionevole probabilità di essere accolta”,
cosi chiaramente limitando l’ambito applicativo dell’ordinanza medesima a quello dell’impugnazione manifestamente infondata nel merito. Infatti, se la suddetta ordinanza è prevista solo nelle ipotesi in cui viene emesso
un giudizio prognostico sfavorevole circa la possibilità
di accoglimento dell’impugnazione nel merito, la decisione che pronunci invece l’inammissibilità dell’appello
per ragioni di carattere processuale - ancorché erroneamente con ordinanza, richiamando l’art. 348 ter c.p.c. e,
in ipotesi, pure nel rispetto della relativa procedura - è
impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, perciò
senza neppure la necessità di valutare la sussistenza dei
presupposti per la proposizione del ricorso straordinario,
trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere
processuale che non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito della impugnazione e perciò differisce dalle ordinanze in cui tale
giudizio prognostico viene espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti (sulla
esperibilità dell’impugnazione ordinaria nei suddetti casi
v. la già citata Cass. n. 7273 del 2014, costituente una
delle decisioni che hanno determinato il contrasto, e
più in generale sulla valenza del contenuto “sostanziale”
della decisione da impugnare v. SU n. 16727 del 2012,
in tema di scioglimento di comunioni, secondo la quale
l’ordinanza che, ai sensi dell’art. 789 c.p.c., comma 3,
dichiara esecutivo il progetto di divisione in presenza di
contestazioni ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile con l’appello).
A quelle finora esaminate devono poi aggiungersi ulteriori ipotesi di violazione delle previsioni dettate per disciplinare l’ordinanza in questione, ancorché implicite
siccome non espressamente previste dai citati artt. 348
bis e 348 ter ma indirettamente ricavabili dal sistema
delineato in proposito dal legislatore: ci si riferisce alle
ipotesi in cui l’appello è fondato su ius superveniens o
fatti sopravvenuti (ad esempio sopravvenienza di norme
interpretative, sentenze della corte costituzionale, o fatti
che avrebbero legittimato, avverso sentenze pronunciate in appello o unico grado, la denuncia di alcuni vizi
revocatori). Ciò in quanto il giudizio prognostico sfavorevole espresso dal giudice d’appello nell’ordinanza ex
art. 348 ter c.p.c. si sostanzia nella conferma di una sentenza “giusta” per essere l’appello prima facie destituito
di fondamento e non potrebbe pertanto intervenire rispetto a norme o fatti che non siano stati considerati
dal giudice di primo grado.
Infine, alla luce delle considerazioni finora espresse circa il fondamento e le ragioni della ricorribilità dell’ordi-
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nanza in esame ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7,
non può escludersi la denunciabilità degli errores in procedendo riferibili ad ogni altro provvedimento giudiziario, ovviamente, come rilevato, nei limiti della compatibilità logica e/o strutturale dei medesimi con il contenuto tipico della decisione espressa nell’ordinanza suddetta, e a tale ultimo proposito viene innanzitutto in
considerazione la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione ai vizi di omessa pronuncia, ultrapetizione ed extrapetizione.
Soffermandosi in particolare (per il rilievo indiretto
che, come si vedrà in prosieguo, la questione assume in
questa sede) sulla omessa pronuncia, occorre considerare che la giurisprudenza di questo giudice di legittimità
si è ripetutamente pronunciata sulla distinzione - facilmente comprensibile sul piano statico e teorico, ma più
complessa se riguardata dal punto di vista funzionale e
dinamico - tra omessa pronuncia e mancanza di motivazione, chiarendo che ad integrare gli estremi del vizio di
omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale
pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, e dovendo
pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità
pure in assenza di una specifica argomentazione (v. tra
le altre Cass. nn. 21612 del 2013; 20311 del 2011;
10696 del 2007 e 10636 del 2007).
È vero che la giurisprudenza di legittimità ha anche precisato che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di
appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado che deve essere fatto valere dal ricorrente
non con la denuncia della violazione di una norma di
diritto sostanziale o del vizio di motivazione - in quanto
siffatte censure presuppongono che il giudice del merito
abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e
l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare la decisione resa al riguardo - ma
attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. tra le altre
Cass. nn. 11801 del 2013; 7268 del 2012; 26598 del
2009 nonché 12952 del 2007), tuttavia non può ignorarsi che tale giurisprudenza si è affermata in relazione
ad appelli articolati in plurimi motivi ed alla necessità
di individuare con nettezza - rispetto alle possibilità di
accoglimento (quindi di rigetto) parziale dei medesimi l’ambito del devolutum e la progressiva formazione del
giudicato.
Nell’ipotesi di ordinanza ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.,
in cui non è invece possibile una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento se non in relazione a
tutti i motivi d’appello (ed a tutti gli appelli proposti
avverso la medesima sentenza), non risulta pertanto
neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a
singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi
(nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente) soltanto un problema di motivazione
della decisione - necessariamente complessiva - assunta.
1130
Per quanto riguarda infine gli eventuali errori processuali configurabili in riferimento alla statuizione sulle
spese contenuta nell’ordinanza in questione, è appena il
caso di evidenziare che tale statuizione non può risultare in alcun modo “coinvolta” dall’esito del ricorso per
cassazione avverso la sentenza di primo grado, non potendo a tale ipotesi riferirsi l’effetto espansivo c.d.
“esterno” previsto dall’art. 336 c.p.c., comma 2, posto
che la cassazione giudica su di una impugnazione che,
pur essendo proposta avverso la medesima sentenza di
primo grado, è oggettiva mente diversa da quella sulla
quale ha giudicato il giudice d’appello e che l’ordinanza
ex art. 348 ter c.p.c. non può assimilarsi ai “provvedimenti e atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata” ai quali, a norma del citato comma secondo dell’art.
336 c.p.c., devono ritenersi estesi gli effetti della riforma o della cassazione della sentenza.
La statuizione sulle spese contenuta nell’ordinanza suddetta può perciò essere rimessa in discussione (ai sensi
del primo comma del citato art. 336 c.p.c.) soltanto se ammessa l’impugnabilità dell’ordinanza medesima l’impugnazione venga accolta oppure se vi sia stata impugnazione con espresso riguardo a detta statuizione (ad
es. da parte del vincitore che lamenti una impropria
compensazione ovvero una liquidazione inferiore al minimo previsto o anche da parte del soccombente che lamenti una liquidazione eccessiva). In tal caso non vi è
ragione alcuna (giuridica, logica e/o “pratica”) per
escludere l’impugnabilità dell’ordinanza in questione, risultando peraltro difficilmente condivisibili (non fosse
altro perché “improprie” e comunque idonee a moltiplicare il numero dei processi e dei giudici chiamati a conoscerne) impugnazioni alternative da proporsi in sede
esecutiva o attraverso apposito giudizio di cognizione
(con tutte le impugnazioni relativamente previste).
5. Sulla base delle considerazioni che precedono è ora
possibile passare all’esame dei due motivi di gravame
proposti avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c.
Come già evidenziato, col primo di tali motivi la ricorrente, sostenendo che il giudice d’appello avrebbe del
tutto omesso di pronunciarsi in ordine al quarto motivo
di gravame, denuncia in proposito (non l’omessa pronuncia bensì) la violazione dell’obbligo di motivazione
previsto dall’art. 111 Cost., comma 4 nonché dagli artt.
134 e 348 ter c.p.c.
In proposito devono qui innanzitutto richiamarsi tutte
le ragioni sopra esposte circa l’incompatibilità della denuncia del vizio di omessa pronuncia con il contenuto e
la struttura della decisione ex art. 348 ter c.p.c., ragioni
evidentemente considerate dalla stessa ricorrente nell’articolare la censura di violazione dell’obbligo di motivazione (e non di omessa pronuncia). Inoltre, con riguardo ad entrambi i motivi di ricorso (pure nel secondo motivo denunciandosi violazione dell’obbligo di motivazione imposto dalla legge), occorre ribadire che, essendo il merito ridiscutibile attraverso il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado e non essendo pertanto in proposito configurabile la definitività richiesta per il ricorso ex art. 111 Cost., comma 7, le problematiche concernenti la motivazione dell’ordinanza
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Giurisprudenza
Diritto processuale civile
impugnata possono essere affrontate in sede di impugnazione dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. (non attraverso la denuncia di un error in iudicando, quindi di un
“vizio di motivazione” - o quel che resta di esso dopo
l’ultima riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 - bensì) solo attraverso la denuncia di violazione della legge processuale che sancisce l’obbligo di motivazione, denuncia che,
in entrambi i motivi, è stata peraltro ammissibilmente
proposta nei suddetti termini dall’odierna ricorrente. In
ordine alla violazione dell’obbligo di motivazione (quindi delle norme processuali, anche costituzionali, che lo
impongono) queste sezioni unite si sono recentemente
pronunciate con la sentenza n. 8053 del 2014 sopra richiamata, la quale, in ordine alle modifiche apportate
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 dal D.L. n. 83 del
2012, ha confermato la piena attualità della risalente
giurisprudenza che (prima della modifica dell’art. 360
c.p.c., u.c. ad opera del d.lgs. n 40 del 2006) risolse il
problema dell’impugnabilità per mancanza di motivazione dei provvedimenti diversi dalle sentenze mediante
l’applicazione diretta dell’art. 111 Cost., in particolare
ritenendo che nella violazione di legge - per la quale, a
norma del citato art. 111, è sempre ammesso il ricorso
per cassazione- deve considerarsi compresa la violazione
anche delle norme processuali e che, ai fini dell’applicazione diretta del precetto costituzionale nei casi in cui
la legge ordinaria fosse lacunosa, il ricorso per cassazione riguardante la motivazione trova la sua disciplina
nella connessione delle due previsioni contenute nel
medesimo art. 111 Cost. (generalizzata ricorribilità per
violazione di legge ed obbligatorietà della motivazione).
In tali termini, pertanto, già alcuni decenni orsono la
giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ricompreso fra le violazioni di legge denunciabili in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. l’inottemperanza all’obbligo di rendere palesi i motivi delle decisioni, ed il recente arresto delle sezioni unite, sempre rifacendosi a risalenti ed ormai consolidati orientamenti espressi dalle
medesime sezioni unite (v. tra le altre su n. 5888 del
1992) ha confermato che la violazione del dovere di
motivazione deve ravvisarsi non solo nei casi di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico ma anche nei casi in cui l’esposizione della motivazione non sia idonea a rivelare la ratio decidendi, anche
sotto l’aspetto del fatto, situazioni che si verificano nelle ipotesi di motivazione apparente, contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili ovvero motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile.
È inoltre da sottolineare che già la richiamata SU n.
5888 del 1992 (come ripresa e condivisa da SU n. 8053
del 2014) aveva precisato che nelle ipotesi suddette occorre avere riguardo al provvedimento in sé, indipendentemente da qualsiasi riferimento a dati estranei alle
argomentazioni addotte dal giudice a sostegno della decisione impugnata, dovendo il vizio logico della motivazione, la lacuna o l’aporia che si assumono inficiarla fino al punto di renderne apparente il supporto argomentativo, essere desumibili dallo stesso tessuto argomentativo attraverso cui essa si sviluppa.
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Sulla base della univoca giurisprudenza di queste sezioni
unite, sia remota che più recente, non può pertanto esservi dubbio che la violazione del dovere di motivazione
è riscontrabile solo nelle ipotesi di totale mancanza della motivazione dal punto di vista materiale e grafico ovvero nelle ipotesi ad esse assimilabili, ossia quando, pur
essendovi una motivazione in senso materiale e grafico,
essa non contiene una effettiva esposizione delle ragioni
poste a base della decisione perché propone contrasti irriducibili fra affermazioni inconciliabili ovvero si presenta perplessa o comunque risulta obiettivamente incomprensibile e quindi non idonea a rivelare la ratio decidendi, essendo peraltro necessario che tale situazione
risulti esclusivamente dal medesimo testo della sentenza
senza che sia necessario il raffronto con uno o più atti
processuali.
Alla stregua di tutto quanto sopra esposto deve affermarsi l’infondatezza dei motivi di ricorso in esame, in
quanto nella specie oggettivamente sussiste, dal punto
di vista materiale e grafico, una motivazione della ordinanza impugnata, e tale motivazione - benché assai sintetica, in rapporto alle caratteristiche di un provvedimento come l’ordinanza ed in relazione alle precipuità
di un giudizio complessivo di tipo prognostico quale
quello disciplinato dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. - non
risulta di per sé (perciò prescindendo dal raffronto con
la sentenza di primo grado e l’atto d’appello) illogica,
contraddittoria o perplessa al punto di renderla incomprensibile. L’infondatezza di entrambi i motivi sopra
esposti comporta il rigetto del ricorso proposto avverso
l’ordinanza pronunciata dai giudici d’appello.
(Omissis)
7. Ottemperando al disposto dell’art. 384 c.p.c., comma
1 (nel testo risultante dalla modifica introdotta dal
D.Lgs. n. 40 del 2006, applicabile ratione temporis) si
enuncia, con riguardo alla questione decisa in relazione
al primo dei ricorsi esaminati, il seguente principio di
diritto: “Avverso l’ordinanza pronunciata dal giudice
d’appello ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. è sempre ammissibile ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7 limitatamente ai vizi propri
della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del giudizio sotteso all’ordinanza in questione, dovendo in particolare escludersi tale compatibilità in relazione alla denuncia di omessa pronuncia su di un motivo di appello, attesa la natura complessiva del giudizio
prognostico, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza nonché a tutti i
motivi di ciascuna impugnazione, e potendo, in relazione al silenzio serbato in sentenza su di un motivo di
censura, eventualmente porsi (nei termini e nei limiti
in cui possa rilevare sul piano impugnatorio) soltanto
un problema di motivazione”.
Il contrasto e le dissonanze riscontrate nella giurisprudenza di legittimità in ordine alle problematiche esaminate nonché la novità delle questioni trattate giustifica
l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali relative ad entrambi i ricorsi.
(omissis).
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Impugnabilità dell’ordinanza filtro per vizi propri.
L’apertura delle Sezioni Unite al ricorso straordinario
di Roberta Tiscini (*)
La sentenza annotata compone il contrasto intorno all’ammissibilità del ricorso straordinario in
cassazione avverso l’ordinanza filtro di inammissibilità dell’appello dell’art. 348 ter c.p.c. che
presenti vizi di carattere processuale. La soluzione prescelta dalle Sezioni Unite - nel senso dell’ammissibilità del rimedio nel caso considerato - ha il sapore di una apertura che si colloca in
controtendenza rispetto agli orientamenti da tempo avallati dalla giurisprudenza di legittimità intorno al precetto costituzionale. L’A. si interroga tuttavia sulla reale portata innovativa dell’arresto giurisprudenziale e sulla sua capacità di presagire una inversione di rotta intorno all’ambito
applicativo del ricorso per cassazione nel suo complesso.
Nella sentenza in epigrafe c’è tutta la storia del ricorso straordinario in cassazione. Una storia che le
Sezioni Unite raccontano “a modo loro” giungendo
a conclusioni - anche esse “a modo loro” - rispetto
a cui sia consentito dubitare che ci sia unanimità
di vedute presso la Corte.
Casus belli è l’impugnabilità dell’ordinanza filtro di
inammissibilità dell’appello (art. 348 ter c.p.c.), intorno a cui il dibattito si è prontamente acceso all’indomani del suo ingresso sulla scena del processo civile - sia in dottrina, sia per l’affacciarsi di
divergenti opinioni presso la giurisprudenza (1) di
legittimità (2).
È bene da subito circoscrivere il campo dei profili
controversi (3) su cui la decisione interviene in
funzione nomofilattica.
Stante il silenzio della legge intorno all’impugnabilità dell’ordinanza - indiscussa la mancanza di uno
specifico mezzo di impugnazione/contestazione,
quali che ne siano i vizi denunciati - il disappunto
avverso la scelta legislativa si è orientato, non tanto sul caso in cui l’inammissibilità verta su ragioni
di “merito” (appello erroneamente ritenuto privo
di ragionevole probabilità di accoglimento (4)),
(*) Il contributo è stato sottoposto in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Infra par. successivo.
(2) Immediato è stato perciò l’auspicio dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Costantino, La riforma dell’appello
tra nomofilachia e “hybris”, in Foro it., 2014, V, 1451; Scarselli,
Brevi osservazioni sul ricorso per cassazione avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., ibidem, 1453, spec. 1456; Carratta, Ordinanza sul “filtro” in appello e ricorso per cassazione, in Giur.
it., 2014, 1111, spec. 1116; Tedoldi, Il maleficio del filtro in appello, in Riv. dir. proc., 2015, 751; Monteleone, L’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis e ter. Orientamenti e disorientamenti della giurisprudenza, in Giusto proc. civ., 2014, 682; Ciccaré, Sull’impugnazione dell’ordinanza ex artt. 348 bis e ter, in
Riv. dir. proc., 2014, 1582 ss., spec. 1584).
(3) Plurime sono le criticità connesse alla ricerca di un mezzo di controllo-riesame dell’ordinanza, da coordinare con il
complesso iter che caratterizza i provvedimenti limitrofi: è centrale - ove l’appello sia dichiarato inammissibile - il ricorso per
cassazione avverso la sentenza di primo grado, immaginato
quale utile alternativa alla diretta impugnazione dell’ordinanza
ed invece nella sostanza foriero di più di un problema di coordinamento con il regime di quest’ultima. Il che, da un lato, lascia ampi spazi vuoti intorno alle doglianze da far valere contro
l’ordinanza, da un altro - paradossalmente - espone al rischio
del concorso tra più impugnazioni avverso il medesimo provvedimento o provvedimenti collegati. Di molti di questi temi la
sentenza in epigrafe non si occupa direttamente, sicché - dovendo incentrare l’attenzione sul percorso seguito dalle Sezioni
Unite - anche qui da essi si prescinderà (ampi approfondimenti
sono altrove reperibili: per tutti, Consolo, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile: le impugnazioni a ri-
schio di svaporamento, in questa Rivista, 2012, 10, 1133 ss.,
spec., 1137; Balena, Le novità relative all’appello nel d.l. n.
83/2012, in Giusto proc. civ. 2013, 335 ss., spec. 358; Poli, Il
nuovo giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2012, 121 ss. spec.
137; Panzarola, Tra “filtro” in appello e “doppia conforme”: alcune considerazioni a margine della l. n. 134 del 2012, in Giusto
proc. civ., 2013, 89 ss., spec. 104).
(4) È pacifico che la mancanza di “ragionevole probabilità
di accoglimento” dell’appello che conduce alla dichiarazione
di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. evochi una decisione attinente al “merito” dell’impugnazione. Senza pretese di completezza, in dottrina Verde, Diritto di difesa e nuova disciplina
delle impugnazioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 507; Consolo, Nuovi ed indesiderabili esercizi normativi sul processo civile, cit., 1135; Monteleone, Il processo civile in mano al governo
dei tecnici, in www.judicium.it, 2; Id, L’inammissibilità dell’appello, cit., 682; Costantino, La riforma dell’appello, in Giusto
proc. civ., 2013, 21; Id, La riforma dell’appello tra nomofilachia
e “hybris”, cit., 1451; Briguglio, Un approccio minimalista alle
nuove disposizioni sull’ammissibilità dell’appello, in Riv. dir.
proc. 2013, 578; Comoglio, Requiem per il processo “giusto”, in
Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 64; Balena, Le novità relative
all’appello nel d.l. n. 83/2012, cit., 335 ss.; Pagni, Gli spazi per
le impugnazioni dopo la riforma estiva, in Foro it., 2012, V, 302;
Scarselli, La riforma dell’appello civile, in Foro it., 2012, V, 292;
Caponi, La riforma dei mezzi di impugnazione, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2012, 1156; Id, Contro il nuovo filtro in appello e per
un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it, 9;
Bove, La pronuncia di inammissibilità dell’appello ai sensi degli
articoli 348 bis e 348 ter, in Riv. dir. proc., 2013, 404; Carratta,
Ordinanza sul “filtro” in appello, cit., 1112; Id, Intervento all’Incontro di studio dell’Associazione italiana fra gli studiosi del
La questione controversa
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Giurisprudenza
Diritto processuale civile
quanto ove essa sia viziata per ragioni processuali:
il problema dell’impugnabilità dell’ordinanza filtro
per “vizi propri”. Se infatti la contestazione del
“merito” dell’ordinanza si può riversare sul ricorso
per cassazione (ordinario) avverso la sentenza di
primo grado (art. 348 ter, comma 3, c.p.c.), non altrettanto può dirsi quando l’ordinanza è resa al di
fuori delle ipotesi contemplate dalla legge, o comunque in presenza di doglianze processuali non
enucleabili nella decisione di prime cure (5).
Il farraginoso meccanismo contemplato dalla disciplina del filtro in appello - che rende impugnabile
in cassazione la sentenza di primo grado ove l’appello sia privo di ragionevole probabilità di accoglimento - pur nelle sue criticità (6), ha finito
quindi per essere accettato quale strumento di contestazione dell’ordinanza filtro nell’un caso, ma
non ha trovato spazio nell’altro (7). Il che ha condotto al consolidarsi del dubbio su cui oggi le Sezioni Unite intervengono a componimento del
contrasto (8): se e quale sia il rimedio impugnatorio invocabile avverso i “vizi propri” (processuali)
dell’ordinanza filtro. In particolare, il problema
ruota intorno all’invocabilità del ricorso straordinario in cassazione dell’art. 111, comma 7, Cost.,
da escludere invece quando l’impugnazione dell’ordinanza verte su ragioni di merito, difettando qui
la definitività (che, come noto, insieme alla decisorietà, vale quale condicio sine qua non per l’apertura
delle porte in Cassazione ai sensi del precetto costituzionale (9)).
Il contrasto giurisprudenziale va quindi circoscritto
al caso dell’ordinanza viziata per ragioni processuali (10), non perché per l’ordinanza sul “merito dell’appello” vi sia un’impugnazione espressamente
prevista (resta ferma la mancanza di uno strumento
ad hoc), bensì perché se le doglianze da muovere
all’ordinanza filtro per ragioni di merito possono
confluire nell’impugnazione della sentenza di primo grado (11) - il che rende il provvedimento non
processo civile su Le novità in materia di impugnazioni (Firenze
12 aprile 2013), in Atti dell’Incontro, Bologna, 2014, 214 ss.;
De Cristofaro, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 82/2012), in www.judicium.it,
par. 2.3; Fabiani, Oggetto e contenuto dell’appello civile, in Foro
it., 2012, V, 282; Impagnatiello, Il “filtro” di ammissibilità dell’appello, in Foro it., 2012, V, 296; Panzarola, Commento agli
artt. 348 bis, 436 bis, 447 bis, in AA.VV., Commentario alle riforme del processo civile, dalla semplificazione dei riti al decreto
sviluppo, a cura di Martino-Panzarola, Torino 2013, 638; Id, Tra
“filtro” in appello e “doppia conforme”: alcune considerazioni a
margine della l. n. 134 del 2012, cit., 92; Id., Le prime applicazioni del c.d. filtro in appello, in Riv. dir. proc., 2013, 717; Poli, Il
nuovo giudizio di appello, cit., 133; F. Santagada, Il giudizio
d’appello riformato e l’introduzione del filtro, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2014, 626; Giordano, Commento agli artt. 348 bis
e ter, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da
Comoglio - Consolo - Sassani - Vaccarella, Torino, 2013, IV,
401 ss., spec. 410; Di Marzio, La riforma dell’appello civile, Milano, 2013; Vanz, Sul nuovo “filtro” in appello e sulla “ragionevole probabilità” di non accoglimento dell’impugnazione: una
condivisibile ordinanza della Corte d’appello romana, in Giur.
it., 2013, 2621; Didone, Note sull’appello inammissibile ex art.
348 bis c.p.c., in Giur. it., 2013, 1632; Di Francesco, Primi
orientamenti sul “filtro” dell’inammissibilità in appello, in questa
Rivista, 2013, 9, 976; Di Lalla, Sui limiti esterni della inammissibilità dell’appello, in Foro it., 2013, V, 277; Ciccaré, Sull’impugnazione, cit., 1584; Rota, Filtro in appello: sull’ordinanza ex art.
348 ter c.p.c. è subito contrasto in Cassazione, in Nuova giur.
civ. comm., 2014, 921 ss., spec. 923; Piazza, Contrastanti decisioni della Suprema Corte in merito al nuovo filtro in appello: il
problema della ricorribilità per cassazione avverso l’ordinanza di
inammissibilità, in questa Rivista, 2015,2, 257. Per la giurisprudenza di merito, ex pluribus, App. Roma 23 gennaio 2013,
App. Milano 8 febbraio 2013, e Trib. Vasto 20 febbraio 2013,
in Giur. it., 2013, 1629, con nota di Didone; Trib. Roma 30 gennaio 2013, e Trib. Roma 11 gennaio 2013, in Riv. dir. proc.,
2013, 710, con nota di Panzarola; App. Bari 18 febbraio 2013,
in Foro it., 2013, I, 969, con nota di Costantino; App. Napoli 30
gennaio 2013, App. Lecce 17 luglio 2013, App. Milano 6 marzo 2013, e App. Milano 14 febbraio 2013, ibid., I, 2629, con
nota di Calvigioni. Nel medesimo senso, cfr. la delibera del
C.S.M. del 19 dicembre 2012, in Foro it., 2012, III, 194.
(5) Nel senso che il ricorso per cassazione dovrebbe operare pure per censurare la violazione del presupposto di merito
relativo alla “ragionevole probabilità di accoglimento” dell’appello, Carratta, Ordinanza, cit., 1116, tenuto conto dell’inadeguatezza del sindacato sulla sentenza di primo grado per rilevare vizi dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello. L’A. prospetta anzi la possibilità che contro il provvedimento (quale
che ne sia il contenuto, di rito o di merito, ivi compreso il capo
sulle spese) sia ammesso il ricorso “ordinario” per cassazione
dell’art. 360 c.p.c., trattandosi di ordinanza che presenta la
“sostanza” di sentenza ed è perciò impugnabile in cassazione
allo stesso modo in cui lo è la sentenza di appello resa in giudizio ordinario. Nel medesimo senso Balena, Le novità, cit., 362,
sull’assunto che, in applicazione del principio di cd. prevalenza
della sostanza sulla forma, l’ordinanza andrebbe qualificata sostanzialmente come sentenza perciò impugnabile con il ricorso
ordinario dell’art. 360 c.p.c., senza necessità di scomodare il
precetto costituzionale. Ritiene anzi Id, Le novità, cit., 363 che
la soluzione migliore sarebbe far confluire i vizi processuali nell’impugnazione in cassazione della sentenza di primo grado,
opzione questa che - seppure con qualche sforzo interpretativo
- eliminerebbe più di una complicazione. Conf., Bove, La pronuncia di inammissibilità, cit., 404; Briguglio, Un approccio, cit.,
587.
(6) Non ultima, quella di provocare un ulteriore aggravio
della Corte di cassazione, profilo su cui si soffermano le Sezioni Unite.
(7) Esclude qualunque mezzo di impugnazione avverso l’ordinanza, con conseguente sospetto di incostituzionalità per
contrasto con l’art. 111 comma 7 Cost. Comoglio, Requiem,
cit., 64.
(8) La questione giunge al massimo consesso della Corte
Suprema, nella sua più ampia composizione, a seguito della rimessione proveniente da Cass. 12 gennaio 2015, n. 223.
(9) Intorno ai presupposti del ricorso straordinario in cassazione, sia consentito rinviare a Tiscini, Il ricorso straordinario in
cassazione, Torino, 2005, passim.
(10) Tra i due contrapposti filoni interpretativi venuti formandosi presso la S.C., vi è unanimità di vedute sulla non impugnabilità ex art. 111, comma 7, Cost. dell’ordinanza filtro
per ragioni di merito.
(11) Peraltro con i limiti alla sindacabilità del vizio di motiva-
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“definitivo” ai fini dell’art. 111, comma 7, Cost. non altrettanto può dirsi quanto ai vizi di natura
processuale, la cui censura non trova spazio nell’impugnazione della sentenza di primo grado (12).
Intorno alla mancata previsione di un apposito rimedio impugnatorio avverso l’ordinanza filtro dell’art. 348 ter c.p.c., quando resa “per vizi propri”,
sono venuti consolidandosi presso la Corte di cassazione due contrapposti orientamenti, rappresentati in sintesi da due pronunce tra loro divergenti (13).
Secondo una prima posizione (Cass. n.
7273/2014 (14)), l’ordinanza di inammissibilità
dell’appello, pronunciata al di fuori dei casi previsti dalla legge processuale (15) è ricorribile per
cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. (16). Mentre, quando resa entro il proprio ambito applicativo, non ha spazio l’autonoma ricorribilità per cassazione, essendo impugnabile per gli stessi vizi la
sentenza di merito di primo grado (17), la via del
ricorso straordinario si apre in tutti gli altri casi,
essendo qui l’ordinanza, tanto decisoria, quanto
definitiva. È decisoria (non già in relazione al di-
ritto processuale all’impugnazione, bensì) in
quanto emessa in un giudizio - d’appello - relativo
a situazioni di diritto soggettivo su cui vi è piena
giustiziabilità (18). È definitiva perché, pur non essendolo quando fisiologicamente resa entro il suo
ambito di applicazione (le relative doglianze possono rivolgersi avverso la sentenza di primo grado), non altrettanto vale se il vizio si pone a monte del merito (inammissibilità dichiarata per ragioni processuali), non potendo esso confluire
nell’impugnazione della sentenza di primo grado (19), in cui non rilevano errores in procedendo commessi dal giudice d’appello. Resta dunque
il solo rimedio dell’art. 111, comma 7, Cost. D’altra parte, l’inammissibilità dichiarata per ragioni
di rito - tenuto conto del fatto che qui la decisione avrebbe dovuto assumere la forma di sentenza
resa all’esito dell’ordinario procedimento di appello - vale quale “sostanza di sentenza” (opera quindi il principio secondo cui mezzo esperibile è quello corrispondente al contenuto sostanziale del
provvedimento e non alla sua forma (20)).
Opposto il secondo indirizzo (Cass. n.
8940/2014 (21)), che esclude sempre l’impugnazione dell’ordinanza filtro con ricorso, tanto ordinario quanto straordinario (22) per cassazio-
zione di cui all’art. 348 ter, comma 4, c.p.c.
(12) Salvo a voler ammettere tale possibilità non senza forzature (retro, nt. 5, nonché infra).
(13) Su di esse si orienta l’incedere delle Sezioni Unite.
(14) Cass. 27 marzo 2014, n. 7273, in questa Rivista, 2015,
243, con nota di Piazza; in Riv. dir. proc., 2014, 1581, con nota
di Ciccaré; in Giur. it., 2014, 1110, con nota di Carratta; in Foro
it., 2014, 1, 1413, con note di Costantino e Scarselli; in Nuova
giur. civ. comm., 2014, 909, con nota di Rota.
(15) “E quindi per il riscontro di una questione pregiudiziale
di rito di carattere impediente attinente alla forma dell’atto di
appello”: questa l’ipotesi contemplata da Cass. 27 marzo
2014, n. 7273, cit., in cui l’inammissibilità era stata dichiarata
per sanzionare difetti formali dell’atto di impugnazione (nella
specie carente dei requisiti imposti dall’art. 342 c.p.c.), questione impediente di carattere processuale che avrebbe dovuto
pronunciarsi con sentenza nell’ordinario procedimento di impugnazione, piuttosto che in quello sommario che conduce all’ordinanza.
(16) In senso adesivo, Costantino, La riforma dell’appello,
cit., 1452; Scarselli, Brevi osservazioni, cit., 1454; Carratta, Ordinanza sul “filtro”, cit., 1112; Panzarola, Commento agli artt.
348 bis, 436 bis, 447 bis, cit., 665; Id, Tra “filtro”, cit., 101; Impagnatiello, Il “filtro” di ammissibilità dell’appello, cit., 298; Poli,
Il nuovo giudizio di appello, cit., 136; Tedoldi, Il maleficio, cit.,
758; Ciccaré, Sull’impugnazione dell’ordinanza ex artt. 348 bis
e ter, cit., 1584; Piazza, Contrastanti decisioni, cit., 264.
(17) Sulla funzionalità di siffatta impugnazione e sui limiti di
essa da correlare al circoscritto ambito di censurabilità dei motivi (in ragione dell’irrilevanza del n. 5, art. 360, c.p.c. per quanto stabilisce l’art. 348 ter, comma 4, c.p.c.), vd. Balena, Le novità, cit., 359.
(18) Così Cass. 27 marzo 2014, n. 7273, cit. Conf. la dottrina (per tutti, Balena, Le novità, cit., 358; Carratta, Ordinanza
sul “filtro”, cit., 1112; Panzarola, Tra “filtro”, cit., 101; Tedoldi, Il
maleficio, cit., 758).
(19) Né in direzione contraria - a dire di Cass. 27 marzo
2014, n. 7273, cit. - può addursi la Relazione illustrativa al D.L.
n. 83/2012, secondo cui l’impugnazione ordinaria in cassazione avverso la sentenza di primo grado sarebbe destinata ad
“assorb[ire] ogni tutela costituzionalmente necessaria”, rimanendo “impregiudicato il potere della Suprema Corte, alla quale sia denunciata la decisione di prime cure, di rilevare, quando
ritenuto inerente alle garanzie assicurate dall’art. 111 Cost.,
nullità inerenti al procedimento d’appello”. Si osserva come
“quel rilievo, infatti, si riferisce alla diversa ipotesi in cui il giudice di secondo grado, per giungere a una celere definizione
di un appello prima facie infondato, abbia accantonato, secondo la logica della ragione più liquida, le questioni della sua
inammissibilità in rito, rientrando soltanto allora nel potere-dovere della Corte di cassazione, investita della decisione di primo grado ai sensi del terzo comma dell’art. 348 ter c.p.c., di
sollevare d’ufficio, previa attivazione del contraddittorio sul
punto, questioni attinenti al conseguimento della definitività
della pronuncia di primo grado per una causa di inammissibilità dell’impugnazione per ragioni processuali”.
(20) Così ancora Cass. 27 marzo 2014, n. 7273, cit. invocando il precedente di Cass. 2 ottobre 2012, n. 16727, in Foro
it., 2013, I, 1, 210, con nota di Lombardi, e così richiamando il
pensiero di Balena, Le novità, cit., 362; Carratta, Ordinanza, cit.,
1116. Sul punto, vd. le osservazioni critiche di Ciccaré, Sull’impugnazione, cit., 1591.
(21) Cass. 17 aprile 2014, n. 8940, in questa Rivista, 2015,
245, con nota di Piazza; in Giur. it., 2014, 1109, con nota di
Carratta; in Foro it., 2014, I, 1413, con note di Costantino e
Scarselli; in Nuova giur. civ. comm., 2014, 909, con nota di Rota. Nel medesimo senso le nn. 8943, 8942, 8941, tutte in Giur.
it., 2014, 1106, con nota di Carratta.
(22) Contro l’impugnabilità dell’ordinanza con ricorso
straordinario, Consolo, Nuovi ed indesiderabili esercizi, cit.,
I precedenti di legittimità
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ne (23). Quanto al ricorso ordinario, più di un dato testuale confligge con la sua invocabilità (così
l’art. 348 ter c.p.c. che non contempla impugnazioni (24), nonché l’art. 360 c.p.c. che limita il rimedio alle sentenze in grado di appello o in unico
grado). Quello straordinario va invece escluso in
quanto il relativo provvedimento - pur indiscussa
la decisorietà (25) - non è definitivo, poiché impugnabile (con) la sentenza di primo grado.
Né a diversa conclusione si giunge quando l’ordinanza presenta vizi propri (26) - incentrata sul solo
diritto processuale al corretto svolgimento dell’azione in giudizio - vizi che (ai fini dell’art. 111,
comma 7, Cost.) non hanno dignità di rilievo, essendo discutibile con il rimedio straordinario, non
già la posizione processuale delle parti (27), bensì
la situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio.
Stesso a dirsi per il capo sulle spese, la cui impugnazione va esclusa in linea con l’orientamento
interpretativo - andato diffondendosi presso la
giurisprudenza di legittimità negli ultimi tempi (28) - secondo cui il capo sulle spese, ove reso
in un procedimento sommario (quello dell’art.
348 ter c.p.c.), è sottratto al rimedio dell’art. 111,
comma 7, Cost. in quanto dotato di forza non dissimile e non maggiore di quella di qualunque titolo esecutivo stragiudiziale e perciò ridiscutibile in
sede di opposizione a precetto o all’esecuzione.
Ad impedire il ricorso straordinario è qui il carattere sommario della decisione sulle spese, che ne
importa la mancanza, sia di decisorietà, sia di definitività (29).
Indiscussa la non impugnabilità dell’ordinanza filtro per ragioni di merito (quando fisiologicamente
pronunciata entro i limiti delle sue regole processuali) (30), Le Sezioni Unite - a componimento
del contrasto - ne riconoscono la ricorribilità per
cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. “per vizi
suoi propri di carattere processuale”. L’apertura del
rimedio straordinario nel caso considerato si muove in controtendenza rispetto agli orientamenti restrittivi da tempo avallati dalla stessa Corte, oltre
che intorno al ricorso straordinario, in relazione all’accesso in cassazione nel suo complesso; orientamenti giustificabili (e comprensibili, sebbene non
sempre condivisibili) in ragione dell’istinto di
autodifesa che la spinge a cercare soluzioni al congestionamento di ruoli gravemente compromessi
da un enorme carico di lavoro.
Primo dato da cui muovere - si legge in motivazione - è una lettura “costituzionalmente orientata”
del filtro in appello. Ancorché ratio della riforma
che lo ha visto nascere fosse creare l’“ennesimo
strumento di semplificazione ed accelerazione del
processo civile” (obiettivo meglio compatibile con
la negazione dell’impugnazione, altrimenti causa di
ulteriori complicazioni del sistema processuale), resta ferma la necessità di varare soluzioni che non
contrastino con il dettato costituzionale: il che riconduce all’art. 111, comma 7, Cost., nella lettura
offerta dal lontano 1953 (31), la quale - coniando
la nozione di “sentenza in senso sostanziale” - aprì
le porte dell’impugnazione a provvedimenti diversi
dalla sentenza, ove decisori e definitivi (32). Dei
1137, salvo per il capo sulle spese; Pagni, Gli spazi, cit., 303;
Caponi, La riforma, cit., 1156; Di Marzio, La riforma, cit., 405.
Come si è visto, vi è poi chi (Bove, La pronuncia, cit., 405; Balena, Le novità, cit., 363) propende per la qualificazione del ricorso per cassazione come “ordinario”, ma si mostra comunque aperto all’estensione del rimedio di legittimità, pure nella
sua diversa qualificazione.
(23) In questo senso Cass. 17 aprile 2014, n. 8940, cit.
(24) A dispetto della relazione accompagnatoria al D.L. n.
82/2013 che allude alla possibilità della Corte di cassazione di
controllare eventuali nullità del procedimento (ancora Cass. 17
aprile 2014, n. 8940, cit.).
(25) In quanto reso in un procedimento a cognizione piena
in sede di “cognizione decisoria” (Cass. 17 aprile 2014, n.
8940, cit.).
(26) In particolare - stando a Cass. 17 aprile 2014, n. 8940,
cit., ravvisabili quando: a) si sia deciso a torto ai sensi dell’art.
348 ter c.p.c. al di fuori delle ipotesi consentite; b) si sia deciso
ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. senza il rispetto delle regole processuali.
(27) Si richiama così la nota e stabile giurisprudenza (Cass.
15 luglio 2003, n. 11026, in questa Rivista, 2004, 9, 1209, con
nota di Tiscini; in Foro it., 2005, I, 1210; in Giur. it., 2004, 1162;
in Fam. dir., 2004, 165, con nota di Donzelli) che nega valore
alla decisorietà in senso processuale ai fini dell’impugnabilità
in cassazione con ricorso straordinario (sul tema, amplius infra).
(28) Per tutte, Cass. 24 maggio 2011, n. 11370, in Riv. esec.
forz., 2011, 473, con nota di Delle Donne e postilla di Sassani.
Critico sull’applicazione di siffatto orientamento nel caso in
esame, Panzarola, Tra “filtro”, cit., 105, nt. 78.
(29) Cass. 17 aprile 2014, n. 8940, cit. (anche su questo
profilo si tornerà infra).
(30) Questo il punto da cui muovono le Sezioni Unite: “avuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge
previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, deve altresì escludersi
che l’ordinanza in esame sia impugnabile con censure riguardanti il “merito” della controversia, giusta la previsione di ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la
non definitività, sotto questo profilo, dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.” (amplius retro).
(31) Cass., SS.UU., 30 luglio 1953, n. 2953, in Giur.
it., 1954, I, 1, 453, con nota di Azzolina; in Foro it., 1953, I,
1248; in Giur. compl. Cass. civ., 1953, VI bim., 205, con note di
Bianchi d’Espinosa e Mongiardo.
(32) Per una evoluzione della vicenda, si vis, Tiscini, Il ricor-
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La scelta delle Sezioni Unite ed il ricorso
straordinario
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due requisiti - così la sentenza - non è tanto la decisorietà a porsi in dubbio (avendo l’appello un oggetto decisorio poiché relativo a liti su diritti),
quanto la sua definitività. A ben vedere, l’argomentare a più riprese confonde i due concetti.
Vi è un primo punto critico, in cui le Sezioni Unite si contrappongono all’opzione offerta da Cass. n.
8940/2014 (33) intorno alla c.d. decisorietà in senso processuale. Quel precedente negò la definitività dell’ordinanza filtro invocando l’orientamento (34) secondo cui non ha dignità di tutela ai fini
del ricorso straordinario la sola situazione processuale a cui non si accompagni l’attitudine del provvedimento impugnato a decidere o incidere su situazioni sostanziali di diritto. Il che - stando sempre a Cass. n. 8940/2014 - escluderebbe nella specie la definitività, l’ordinanza filtro incidendo su
mere situazioni processuali, non già su quelle sostanziali, rispetto a cui, se produce effetto la sentenza di primo grado, non altrettanto vale per l’ordinanza di seconde cure.
È questa una accezione di definitività ritenuta in
sentenza “non condivisibile”, in quanto priva di riscontro nel dato costituzionale: “giusta la natura
strumentale delle norme processuali, sussiste il presupposto della “decisorietà” con riferimento alle
pronunce sull’osservanza delle norme processuali se
queste sono emesse nell’ambito di processi su diritti
soggettivi, ma da tali principi non possono certamente trarsi argomenti a sostegno di una accezione
ristretta del diverso e concorrente presupposto della “definitività”, senza che possa indurre a diverse
conclusioni l’estrapolazione, dalle sentenze citate,
di singole affermazioni in assenza di considerazione
del contesto (peraltro in entrambi i casi non contenzioso) di riferimento”. Finisce perciò per essere
ingiustificatamente riduttiva la lettura di Cass. n.
8940/2014 intorno alla definitività, in quanto “rischia di non sottrarsi alle insidie di avventurosi paralogismi e potrebbe in ipotesi finire di fatto per ri-
durre l’ambito della denunciabilità, ai sensi dell’art.
111, comma 7, Cost delle violazioni della legge
processuale”.
Può in effetti condividersi che il concetto di definitività evocato da Cass. n. 8940/2014 non corrisponda a quello rappresentato dai precedenti da
tempo formulati (35) intorno alla cd. soggettività
in senso processuale (36), ma con qualche chiarimento.
I precedenti delle Sezioni Unite del 2003 avevano
in animo di comporre il contrasto intorno alla possibilità di estendere il ricorso straordinario al cd.
diritto soggettivo processuale (diritto di azione e di
difesa in giudizio: art. 24 Cost.), sì da ritenere ammissibile il rimedio avverso provvedimenti che,
pur non incidendo su posizioni sostanziali di diritto
(relativi a procedimenti formalmente e sostanzialmente camerali) sono resi in violazione di norme
processuali (37). In quell’occasione - mosse dall’esigenza di restringere i confini del ricorso straordinario - le Sezioni Unite negarono valore alla decisorietà processuale ogni qualvolta essa non fosse accompagnata da una decisorietà sostanziale; sicché,
la lesione della regola processuale perpetrata in un
giudizio a contenuto non decisorio non aveva (e
non ha, dal momento che allo stato quella linea
non pare abbandonata (38)) dignità di tutela con
ricorso straordinario (39).
A dispetto di quanto rileva Cass. n. 8940/2014, la
questione ruota intorno alla decisorietà, non alla
definitività, non essendo quest’ultima a mancare,
bensì il suo presupposto, l’attitudine del provvedimento a decidere su diritti (sostanziali). È questa
una accezione di decisorietà non parimenti invocabile intorno all’ordinanza filtro, anche quando impugnata per vizi propri. Pronunciata nel corso di
un appello ordinario, essa è indubbiamente decisoria sotto il profilo sostanziale (secondo il senso tradizionale da accordare alla “decisorietà” dell’art.
111, comma 7, Cost.) perché decisorio è il giudizio
so straordinario in cassazione, cit., passim.
(33) Retro par. precedente.
(34) Cass. 15 luglio 2003, n. 11026, cit. Per una ricostruzione di siffatta vicenda giurisprudenziale, Tiscini, Il ricorso straordinario, cit., 157 ss.; Id, Gli effetti della riforma del giudizio di
cassazione sul ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, cost.,
in Riv. dir. proc., 2008, 1597 ss., spec. 1605; Donzelli, Le Sezioni unite e il “giusto processo” civile, in questa Rivista, 2005, 7,
990.
(35) Osservazione già fatta propria dalla dottrina (Scarselli,
Brevi osservazioni, cit., 1454; Tedoldi, Il maleficio, cit., 755) che
non ha mancato di muovere rilievi critici all’indebita invocazione nella specie dell’orientamento interpretativo venuto consolidandosi intorno alla cd. soggettività in senso processuale.
(36) Cass. 3 marzo 2003, n. 3073, in questa Rivista, 2004,
9, 1209, con nota di Tiscini; in Foro it., 2003, I, 2090; Giur. it.,
2003, 2016 a cui ha fatto immediatamente seguito, Cass. 15
luglio 2003, n. 11026, cit.
(37) Il caso più frequente era quello in cui fosse stato indebitamente negato un rimedio impugnatorio - nella specie dichiarato inammissibile - in violazione della norma processuale
che invece lo contemplava, seppure in seno ad un procedimento di volontaria giurisdizione, non coperto dalla decisorietà
in senso sostanziale.
(38) Forse, essa avrebbe potuto rivedersi all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del giudizio di cassazione del
d.lgs. n. 40/2006, ma così non è stato, né ad oggi vi sono sintomi giurisprudenziali che conducono verso questa direzione.
Su tali profili, sia consentito rinviare a Tiscini, Gli effetti, cit.,
1605 ss.
(39) Questo il senso di Cass. 3 marzo 2003, n. 3073, cit.;
Cass. 15 luglio 2003, n. 11026, cit.
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Non ci sembra da porre in dubbio il discrimen tra le
due accezioni: la definitività evocata (indirettamente) dal comma 3 art. 360 c.p.c. è con evidenza
cosa altra rispetto a quella descritta intorno alla
sentenza in senso sostanziale dell’art. 111, comma
7, Cost. e di ciò è davvero difficile dubitare.
(ordinario a cognizione piena) da cui germina; siamo dunque lontani dalla prospettiva evocata intorno al cd. diritto soggettivo processuale, il cui presupposto - lo si ripete - è che il provvedimento impugnato sia reso in procedimento non contenzioso.
Non è calzante dunque evocare la linea giurisprudenziale consolidatasi intorno alla cd. soggettività
in senso processuale, né in uno, né nell’altro senso,
né alla maniera di Cass. n. 8940/2014, né a quella
dell’arresto in epigrafe. Si torna così al punto di
partenza: indiscussa la decisorietà, è intorno alla
definitività del provvedimento che occorre riflettere, nessuna fertile sollecitazione potendo trarsi dalla decisorietà (processuale o meno che sia).
Il fatto è che, quale che sia l’argomento, la linea di
confine tra decisorietà e definitività è tutt’altro
che netta anche nella giurisprudenza che da sempre alimenta l’incedere del ricorso straordinario.
Sicché - quand’anche commesso dalla sentenza qui
annotata - si rivela vizio innocuo quello di sviluppare profili motivazionali incentrati sul (vano) tentativo di circoscrivere i confini dei due presupposti:
le sfumature tra decisorietà e definitività sono tante e sfuggono a chiarezza e limpidità di pensiero;
né certo ci si può aspettare che le Sezioni Unite illuminino la via in un contesto processuale (e procedimentale) di per sé piuttosto confuso, quale
quello del filtro in appello.
Intorno alla definitività, la sentenza ritiene opportuna una ulteriore delimitazione di confini. Occorre distinguere quella dell’ art. 360, comma 3, c.p.c.
da quella del ricorso straordinario “essendo evidente che, nel primo caso, è in discussione solo il “momento” dell’impugnazione, trattandosi comunque
di sentenze impugnabili con ricorso ordinario per
cassazione e la mancanza di “definitività” (nel senso che la decisione non “definisce” neppure parzialmente il giudizio) non elimina la ricorribilità con
ricorso ordinario ma (in alcuni casi) la pospone
prevedendola insieme con l’impugnazione della
sentenza che invece “definisce almeno parzialmente il giudizio”, mentre, nel secondo caso, si tratta
di provvedimenti per i quali non è prevista alcuna
forma di impugnazione ordinaria (neppure successiva), in ciò realizzandosi il presupposto della “definitività” (intesa come non modificabilità) in relazione al rimedio straordinario previsto dall’art. 111
Cost.”.
Di là da qualunque ricostruzione in punto di stretto
diritto positivo, desta attenzione la logica di fondo
sottesa alla scelta interpretativa; una logica che
parrebbe non collimare con (ed anzi contrapporsi
a) quella da tempo condivisa dalla stessa Corte di
cassazione nel segnare i confini del ricorso straordinario. Sembra prevalere tra le righe della decisione
l’esigenza di un ritorno al passato, che riporta il
pensiero alla scelta che - nel lontano 1953 - indusse ad inaugurare la nozione di “sentenza in senso
sostanziale” (sì da estendere il rimedio straordinario ad ordinanze o decreti decisori e definitivi). Richiamando i lavori dell’Assemblea costituente, la
sentenza - dopo anni di lontananza - torna ad avallare letture estensive dell’ambito di applicazione
del ricorso straordinario, quale garanzia costituzionalmente necessaria nonché rimedio impugnatorio
“assolutamente peculiare” irrinunciabile nella prospettiva, tanto nomofilattica, quanto di tutela del
caso singolo (ius consitutionis e ius litigatoris, entrambi al servizio della conformità a Costituzione).
La prospettiva è nota, ma che sia essa tuttora vitale
nel pensiero diffuso della Corte è quanto meno dubitabile.
Dopo la storica apertura del 1953, gli anni a venire
dimostrano come fu presto la stessa Corte ad operare in controtendenza (40). Rivelatosi l’effetto
boomerang che quella apertura provocò (causa evidente del sovraccarico di contenzioso), fu la Corte
Suprema ad autoimporsi “giri di vite”, limitando
l’accesso ex art. 111, comma 7, Cost. sotto diversi
profili. Così fece, non solo negando valenza alla
c.d. decisorietà in senso processuale (41), ma anche
(soprattutto) limitando l’ambito di censurabilità
del vizio logico della motivazione, con riduzione
drastica (42) del n. 5 art. 360 c.p.c. (43), in sede di
ricorso straordinario.
Se veramente il ritorno al passato di oggi fosse
consapevole, diffuso e condiviso presso la Corte di
(40) Anche sul punto, per una ricostruzione storica della vicenda, sia consentito rinviare a Tiscini, Il ricorso straordinario, cit., 65 ss.
(41) Retro nel testo.
(42) Cass. 16 maggio 1992, n. 5888, in Giust. civ., 1992, I,
1444; in Foro it., 1992, I, 1737, con nota di Barone; in questa
Rivista, 1992, 7, 751, con nota di Mandrioli; in Giur. it., 1992, I,
1, 1671 e ivi, 1994, i, 1, con nota di De Cristofaro; in Corr.
trib., 1992, 2069, con nota di Guarnieri.
(43) Si tratta peraltro di un restringimento interpretativo og-
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Un ritorno al passato?
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cassazione, l’innovatività della pronuncia sarebbe
eclatante. Dopo anni di “austerità”, si assisterebbe
- per lo meno sulla carta - ad una riapertura dei
confini del rimedio straordinario in un momento
in cui non solo tutto (compresa la stessa giurisprudenza di legittimità) milita in direzione contraria,
ma anche il sovraccarico di contenzioso non lascia
spazi per ritenere la Corte pronta ad accogliere un
prospetticamente ulteriore ampliamento di lavoro.
Il fatto è che si può dubitare che sia questo il reale
obiettivo perseguito in sentenza.
A sostegno dell’opzione estensiva non basta addurre l’atteggiarsi della giurisprudenza di costituzionalità (44). Da sempre l’art. 111, comma 7, Cost. è
stato riconosciuto disposizione immediatamente
precettiva, di cui si è impadronita la Corte di cassazione e si è disinteressata la Consulta (45). Sembra dunque quanto meno superfluo invocare orientamenti interpretativi di costituzionalità che, se
non hanno guidato la storia del ricorso straordinario in passato, tantomeno valgono oggi (orientamenti peraltro relativi al ricorso per cassazione nel
suo complesso, più che alle peculiarità di quello
straordinario).
È bene allora ricercare altrove nella motivazione la
vera ratio della scelta. Ritengono le Sezioni Unite
di dover evitare soluzioni interpretative che creino
una eccessiva “asimmetria” tra il presupposto della
decisorietà e quello della definitività. Con la conseguenza che la presenza di una pronuncia a carattere decisorio (“siccome emessa in un giudizio che
verte su situazioni di diritto soggettivo o delle quali
è comunque prevista la piena giustiziabilità”), “che
non sia in sé altrimenti modificabile ma che tuttavia non possa ritenersi “definitiva” con riferimento
alla situazione sostanziale dedotta in giudizio rappresenta di fatto ipotesi particolarissima, essenzialmente connessa all’assoluta novità che il meccanismo costituito dagli artt. 348 bis e ter c.p.c. rappresenta nel nostro ordinamento”; sicché, in queste situazioni il ricorso per cassazione deve essere strada
percorribile.
Qui sta il punto. La scelta condivisa intorno all’ordinanza filtro è frutto delle particolarità della situazione processuale contemplata dal nuovo meccanismo e non è perciò esportabile altrove, al punto da
trarne una lex generalis ovunque applicabile. Il che,
dopo tante enunciazioni di principio, circoscrive
non poco l’innovatività del dictum. Il rimedio è sì
utilizzabile, ma solo quando sono denunciati vizi
non altrimenti censurabili, legati al mancato rispetto delle regole processuali che avrebbero dovuto accompagnare la pronuncia dell’ordinanza (di
qui la definitività del provvedimento) e che non
trovano sede nelle contestazioni (di merito) sul
contenuto della sentenza di prime cure. Non un
passo in più può condursi a favore di ulteriori ampliamenti applicativi del ricorso straordinario.
Si tratta, in altri termini, di null’altro che il tentativo di porre rimedio ad una lacuna legislativa (46)
(evidente e) legata alla particolarità della situazione processuale. Per il resto, la posizione della Corte
intorno a ruolo e confini del ricorso straordinario
in cassazione non è stravolta ed i limiti all’accesso
sono da confermare.
gi esteso a qualunque “modello” di ricorso per cassazione (anche quello ordinario), secondo l’orientamento prevalso intorno
alla nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. e condiviso
dalle stesse Sezioni Unite (Cass. 7 aprile 2014, n. 8053, in Foro
it., 2015, 1, I, 209, con nota di Quero).
(44) Pure evocata dalle Sezioni Unite ma con qualche perplessità di fondo (Corte cost. 15 gennaio 1970, n. 1; Corte
cost. 14 luglio 1971, n. 173; Corte cost. 9 luglio 2009, n. 207).
(45) Mai sollecitata ad indagare la costituzionalità di disposizioni di legge ordinaria per contrasto con l’art. 111, comma
7, Cost. Sul profilo, Tiscini, Il ricorso, cit., 42 ss.
(46) Piazza, Contrastanti decisioni, cit., 257.
(47) Così già Balena, Le novità, cit., 363.
1138
La vera ratio della scelta
La riconosciuta esigenza di assicurare all’ordinanza
filtro un riesame impugnatorio nel caso considerato, lungi dal correlarsi alla garanzia del doppio grado di giudizio (di cui non si nega l’irrilevanza costituzionale), ha - nel pensiero delle Sezioni Unite l’ambizione di evitare “arbitri” del giudice d’appello (47). L’errore processuale commesso nel rendere
l’ordinanza di inammissibilità ben potrebbe “di fatto” sopprimere il giudizio d’appello e così privare le
parti dell’impugnazione oltre le ipotesi legislativamente previste.
Si annida qui l’ulteriore ragione giustificatrice della
scelta interpretativa, la quale così chiude il cerchio
intorno ai confini del ricorso straordinario secondo
direttive in linea con quelle da tempo invocate
quali strumenti di autodifesa dalla stessa Corte; direttive che, guidando verso soluzioni restrittive del
rimedio straordinario, ulteriormente evidenziano
come la decisione in epigrafe, lungi dal contraddirla, confermi le tendenze giurisprudenziali degli ultimi lustri (in disaccordo con quelle avallate negli
anni ’50).
La garanzia dell’appello (la necessità che l’ordinanza filtro operi fisiologicamente evitando arbitri del
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giudice di seconde cure) non va vista in sé, ma
quale strumento per “filtrare” l’accesso in cassazione. Le questioni deducibili in appello - ma in concreto negate, ove l’impugnazione fosse indebitamente dichiarata inammissibile per ragioni processuali - finirebbero per scaricarsi sulla Corte di cassazione, una volta escluso l’appello e negata l’impugnazione avverso l’ordinanza di inammissibilità,
attraverso il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado.
A ben vedere, l’accesso in cassazione ex art. 111,
comma 7, Cost. avverso l’ordinanza filtro viziata
per ragioni proprie è da leggersi quale “male minore” rispetto ad una alternativa che potrebbe rilevarsi deteriore nella prospettiva del sovraccarico di
contenzioso. Inibita una apposita censura contro
l’ordinanza filtro, il rischio è che l’impugnazione in
cassazione della sentenza di primo grado (art. 348
ter, comma 3, c.p.c.) - disegnata per contestare (sole) ragioni di merito - si riveli di fatto contenitore
utile per accogliere censure di qualunque tipo, anche processuale (o meramente procedimentale) attinenti all’iter di formazione dell’ordinanza stessa.
Affiora cioè lo spettro di un uso strumentale del ricorso per cassazione (ordinario) avverso la sentenza
di prime cure a minacciare i ruoli della Corte, molto più che l’avallo nella specie del ricorso straordinario.
In altri termini, non è negando l’accesso in cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. contro l’ordinanza filtro resa per vizi propri che si evita davvero il
rischio di provocare aggravamenti del contenzioso
di legittimità; ben più pericoloso è quello di un
abuso del modello impugnatorio disegnato dall’art.
348 ter, comma 3, c.p.c. che vede direttamente
censurabile in sede di legittimità la sentenza di primo grado (48). Un rimedio, che - ancorché teoricamente disegnato sulle sole contestazioni di merito - nulla esclude possa contemplarsi in relazione a
vizi processuali non altrimenti deducibili in assenza
del ricorso straordinario (49).
I vizi propri dell’ordinanza
di inammissibilità
(48) Nel medesimo senso, Balena, Le novità, cit., 357.
(49) “E ciò senza che in concreto si arrechi un aggravio particolarmente rilevante per la Corte di cassazione, se si pensa
che la mera possibilità di impugnazione dell’ordinanza, scongiurando un (ipotetico) uso abnorme e incontrollato dell’istituto, potrebbe ridurre in prospettiva agguerrite, complesse ed
“improprie” impugnazioni in cassazione della sentenza di primo grado, riguarderebbe in ogni caso ipotesi limitate e questioni di pronta soluzione - siccome esclusivamente riferibili ad
alcuni vizi processuali propri dell’ordinanza - e potrebbe essere
esaminata dalla Corte di cassazione - come nella specie - insieme alla eventuale impugnazione della sentenza di primo
grado, in alcuni casi potendo la relativa decisione risultare “assorbente” rispetto all’esame di quest’ultima”. Così la pronuncia in epigrafe.
(50) Molti di essi sono già stati prospettati in dottrina (Balena, Le novità, cit., 360; Panzarola, Tra “filtro”, cit., 101), non
senza rilevarne il carattere esemplificativo.
(51) Questa l’opinione diffusa (Consolo, Nuovi, cit., 1136;
Bove, La pronuncia, cit., 390; De Cristofaro, Appello, cit., par.
5; Briguglio, Un approccio, cit., 582; Panzarola, Commento agli
artt. 348 bis, cit., 653; Verde, Diritto, cit., 507).
(52) Per tutte, si pensi all’ipotesi in cui la prima udienza vada rinviata per sanare un vizio che provocherebbe l’improcedi-
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La sentenza si avventura nell’individuare i “vizi
propri” dell’ordinanza deducibili con il segnalato
rimedio; ne offre un elenco di cui sarebbe sbagliato
evocare la tassatività (50). Quale che fosse il pensiero delle Sezioni Unite, è bene assegnare ad esso
valenza esemplificativa, sì da non escludere vizi ulteriori e diversi (pur sempre processuali) che - in
assenza di alternative - trovino sede nel ricorso
straordinario. Il fatto è che anche tra quelli individuati ve ne sono taluni non del tutto calzanti in
relazione alle enunciazioni astratte sulla funzionalità del rimedio straordinario.
Deducibili ex art. 111, comma 7, Cost. sono innanzi tutto i vizi relativi al mancato rispetto delle dinamiche degli artt. 348 bis e ter c.p.c. sull’iter che
conduce all’ordinanza filtro. Dovendo - sulla carta
- rendersi il provvedimento all’udienza dell’art. 350
c.p.c., prima di procedere alla trattazione, sentite
le parti, l’eventuale sua pronuncia oltre il suddetto
termine ovvero senza il previo contraddittorio, “sicuramente costituisce error in procedendo che non
potrebbe essere fatto valere altrimenti che attraverso il ricorso straordinario”.
Ora, se in effetti l’audizione delle parti è elemento
necessario del procedimento - nel rispetto della garanzia costituzionale del contraddittorio, più che di
qualunque altra disposizione ad essa servente qualche dubbio desta il vincolo forte costruito intorno a modalità e tempistica imposti dall’art. 348
ter c.p.c. Sin dal suo primo operare, il filtro in appello (astrattamente disegnato secondo dinamiche
piuttosto gravose che appesantiscono l’incedere
della prima udienza (51)) è stato esposto al consolidarsi delle più varie prassi applicative, con riguardo
ai tempi della discussione sull’ammissibilità-fondatezza dell’appello, non meno che alle relative tecniche, in relazione alle molteplici altre attività che
la prima udienza è destinata ad accogliere. Non si
è mancato perciò di collocarne la discussione al di
fuori dell’udienza dell’art. 350 c.p.c. (52). Che ciò
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sia fonte di vizi processuali rispetto a cui si imponga un apposito rimedio impugnatorio (non altrettanto utilizzabile quando il giudice d’appello abbia
erroneamente negato nel merito la ragionevole
probabilità di accoglimento dell’impugnazione) pare forse conclusione eccessiva (53). Ben venga
l’impugnazione dell’ordinanza filtro per vizi propri,
ma non al punto da irregimentare oltremodo un
meccanismo di per sé farraginoso, imponendo regole di cui si potrebbe fare a meno.
Più plausibile è l’uso del mezzo di impugnazione
avverso ordinanze rese nei casi in cui la legge
espressamente esclude il filtro, e cioè a) nei giudizi
in cui è obbligatorio l’intervento del P.M. ovvero
b) nel procedimento sommario di cognizione (art.
348 bis, nn. 1 e 2, c.p.c.). Ove l’ordinanza sia erroneamente pronunciata in siffatte ipotesi, è evidente il “vizio proprio” e con esso condivisibile la relativa impugnabilità in cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.
A questi casi andrebbero aggiunti quelli in cui l’appello va dichiarato inammissibile o improcedibile,
anch’essi banditi dal filtro ex art. 348 bis, comma 1,
c.p.c. (54) (causa perciò di un vizio processuale, per
un’ordinanza resa oltre i propri confini applicativi).
Qui, tuttavia, la sentenza segue un percorso diverso
(tutt’altro che nuovo (55)): dal momento che la dichiarazione di inammissibilità/improcedibilità (nelle
ipotesi “classiche”) avrebbe dovuto rendersi con
sentenza, in applicazione del principio cd. di prevalenza della sostanza sulla forma, l’ordinanza va qualificata sostanzialmente sentenza ed è perciò impugnabile con ricorso ordinario per cassazione. A sostegno della peculiarità della situazione, le Sezioni
Unite adducono il fatto che, mentre in tutti gli altri
casi l’ordinanza filtro (viziata in rito) pronuncia erroneamente - sulla ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello, qui essa “non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza
nel merito della impugnazione e perciò differisce
dalle ordinanze in cui tale giudizio prognostico vie-
ne espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi
normativamente previsti”. Questa dunque differenza
ravvisata dalle Sezioni Unite tra il caso in esame e
gli altri: mentre negli altri l’ordinanza è viziata sotto
il profilo processuale, ma contiene la prognosi sfavorevole sull’appello (una decisione sul merito), qui
essa ha un contenuto di solo rito.
Alcuni rilievi critici. La regola della prevalenza della sostanza sulla forma - volta ad individuare il mezzo esperibile avverso un provvedimento che presenta una certa forma, ma di contenuto ad essa non
corrispondente - avrebbe potuto invocarsi non solo
in questa, ma anche in tutte le altre ipotesi in cui il
giudice d’appello abbia erroneamente reso l’ordinanza al di fuori del suo ambito di applicazione (nel
procedimento sommario di cognizione o quando è
obbligatorio l’intervento del P.M.), non rilevando,
quanto alla ratio del principio invocato, il fatto che
in questi ultimi casi l’ordinanza ha un contenuto di
merito mentre nel primo è solo processuale (dichiarazione di inammissibilità-improcedibilità).
D’altra parte - stando alle Sezioni Unite - la qualificazione del ricorso come ordinario ha il pregio di
sottrarre all’impugnante l’onere di valutare la sussistenza dei presupposti del rimedio straordinario. A
voler fare un discorso di più agile accesso all’impugnazione - a tutela del ricorrente - dovrebbe allora
condursi il percorso opposto: il ricorso dovrebbe essere “ordinario” (sottraendo la parte all’onere di
provare decisorietà e definitività del provvedimento
impugnato) in tutti gli altri casi - in cui l’ordinanza
ha erroneamente emesso il giudizio prognostico sul
merito dell’appello nelle forme sommarie - e non in
questo in cui il vizio riguarda la forma della decisione (o l’iter che la precede), ma è correttamente resa
in termini di improcedibilità-inammissibilità (56).
Occorre poi interrogarsi sul discrimen tra i due modelli di ricorso per cassazione, ordinario o straordinario (57). Si tratta in effetti di due facce della
stessa medaglia rispetto a cui il più incisivo elemento differenziale era quello che fino alla riforma
bilità dell’appello (cfr. Cass. 17 aprile 2014, n. 8940, cit.); alla
tendenza - piuttosto diffusa presso talune corti di appello - di
destinare un momento ad hoc alla discussione intorno alla ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello fissando all’uopo una specifica “pre-camera di consiglio”; al difficile coordinamento tra la discussione intorno all’inibitoria e quella relativa al filtro.
(53) Contra Balena, Le novità, cit., 360.
(54) Le tradizionali ipotesi di inammissibilità o improcedibilità che - a ragione - la legge colloca quale ragione primaria di
chiusura in rito dell’appello, con preclusione nell’uso del filtro.
(55) Consapevolmente, a sostegno di questa lettura le Sezioni Unite richiamano il precedente di Cass. n. 7273/2014,
“costituente una delle decisioni che hanno determinato il con-
trasto, e più in generale sulla valenza del contenuto ‘sostanziale’ della decisione da impugnare v. SU n. 16727 del 2012, in
tema di scioglimento di comunioni, secondo la quale l’ordinanza che, ai sensi dell’articolo 789 codice procedura civile, comma 3, dichiara esecutivo il progetto di divisione in presenza di
contestazioni ha natura di sentenza ed è quindi impugnabile
con l’appello”.
(56) Si torna allora all’idea - già sostenuta - di generalizzare
il ricorso ordinario avverso l’ordinanza, quale che ne sia il vizio,
senza alcuna necessità di “scomodare” il rimedio straordinario
(Balena, Le novità, cit., 362; Carratta, Ordinanza, cit., 1116,
nonché retro, nt. 5).
(57) Un quesito che ha costituito il filo rosso di precedenti
ricerche (Tiscini, Il ricorso, cit., passim).
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del 2006 creava un discrimen in punto di motivi
censurabili in cassazione, operando solo nel rimedio straordinario la linea giurisprudenziale che precludeva il sindacato sull’illogicità motivazionale (58); differenza, questa, venuta meno con il nuovo ultimo comma art. 360 c.p.c. secondo cui i motivi di ricorso “si applicano alle sentenze ed ai
provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali
è ammesso il ricorso per cassazione per violazione
di legge” (art. 360, ultimo comma, c.p.c.) (59).
Ci si interroga dunque sull’effettiva utilità di una
differenziazione formale, ove si acceda alla tesi che paiono condividere le Sezioni Unite - secondo
cui in ogni caso, quale che ne sia la qualificazione,
avverso l’ordinanza che erroneamente abbia dichiarato l’inammissibilità o improcedibilità del gravame sia proponibile direttamente il ricorso per cassazione. Altro è dire - come pure si è detto (60) che i vizi di rito dell’ordinanza (ivi compreso quello in esame) sono denunciabili nel ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado. Il salto
è notevole - pindarico il volo da compiere per far
confluire sulla sentenza di primo grado vizi processuali germinati dall’ordinanza - ma è l’unico che
davvero milita in una prospettiva semplificante.
Ulteriori sofismi discretivi tra ricorso ordinario o
straordinario paiono forieri di inutili complicazioni.
Ulteriori vizi deducibili con ricorso
straordinario
Vi sono alcune ipotesi non espressamente riconducibili al procedimento, ma rispetto a cui la sentenza in epigrafe ravvisa i presupposti dell’impugnabilità.
Così quando l’appello è fondato su ius superveniens
o fatti sopravvenuti (61). Qui la decisione di inammissibilità resa dal giudice d’appello “si sostanzia
nella conferma di una sentenza “giusta” per essere
l’appello prima facie destituito di fondamento e
non potrebbe pertanto intervenire rispetto a norme
o fatti che non siano stati considerati dal giudice
di primo grado”. Il caso evocato non pare calzante
rispetto ai confini di un controllo in cassazione li(58) Ancora Tiscini, Il ricorso, nonché retro.
(59) Sulla portata innovativa dell’ultimo comma art. 360
c.p.c., vd. Tiscini, Gli effetti della riforma, cit., 1597 ss.
(60) Ancora una volta si rinvia a Balena, Le novità, cit., 362;
Carratta, Ordinanza, cit., 1116.
(61) “Ad esempio sopravvenienza di norme interpretative,
sentenze della corte costituzionale, o fatti che avrebbero legittimato, avverso sentenze pronunciate in appello o unico grado,
la denuncia di alcuni vizi revocatori” (così la sentenza in epi-
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mitato alla denuncia di vizi processuali. Non è viziata in punto di rito l’ingiusta decisione resa pur
in presenza di sopravvenienze, trattandosi di questione attinente al “merito”, altrimenti censurabile
unitamente all’impugnazione della sentenza di primo grado.
Si sofferma poi la Corte sulla violazione dell’art.
112 c.p.c. (62) (error in procedendo e perciò astrattamente rientrante nell’ambito del ricorso straordinario). Sostengono le Sezioni Unite che intorno
all’ordinanza dell’art. 348 ter c.p.c. non si possa
contemplare il vizio di omessa pronuncia, concretamente delineabile solo in presenza di impugnazioni articolate su più motivi di cui il giudice abbia
esaminato solo alcuni. Dal momento che l’ordinanza di inammissibilità opera solo quando la mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento
sussiste in relazione a tutti i motivi di appello,
“non risulta pertanto neppure configurabile una
omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi (nei limiti e
nei termini in cui sia consentito dalla legislazione
vigente) soltanto un problema di motivazione della
decisione - necessariamente complessiva - assunta”.
La lettura così offerta del vizio motivazionale non
sposta di molto i termini della questione, quanto
all’impugnabilità in cassazione. Quale che ne sia la
qualificazione (omessa pronuncia o difetto di motivazione), si tratta pur sempre di error in procedendo,
“vizio proprio” dell’ordinanza denunciabile direttamente con il ricorso straordinario nei termini visti.
Quanto ai limiti della censurabilità del vizio di motivazione, la sentenza condivide la lettura restrittiva e “costituzionalmente orientata” dell’art. 360, n.
5, c.p.c. (nella sua più recente formulazione) intorno a cui le stesse Sezioni Unite hanno avuto modo
di pronunciarsi (63) ed a cui si presta qui piana
adesione (nessun contrasto stimola così il dibattito,
di per sé piuttosto acceso, che non abbisogna certo
dell’occasione per ulteriormente incrementarsi).
La condanna alle spese
Da ultimo, il capo sulle spese (64). Intorno ad esso, Cass. n. 8940/2014 invocò quella certa giurigrafe).
(62) Ipotesi di cui le Sezioni Unite si occupano in quanto
emersa in relazione al caso di specie denunciato con il ricorso
pendente.
(63) Cass. 7 aprile 2014, n. 8053, cit.
(64) Prevale in dottrina la tesi dell’immediata impugnabilità
in cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. del capo sulle spese: per tutti, Consolo, Nuovi ed indesiderabili, cit., 1137; Balena, Le novità, cit., 364, soprattutto in relazione ai vizi propri
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sprudenza che di recente - in controtendenza rispetto all’orientamento prima condiviso - nega
l’impugnazione in cassazione ex art. 111, comma
7, Cost. essendo il provvedimento - ancorché decisorio - non definitivo, la relativa contestazione
trovando spazio nell’opposizione all’esecuzione
eventualmente intrapresa (in essa può bensì denunciarsi la condanna resa in procedimento sommario che, in quanto tale, è assimilabile ad un titolo esecutivo stragiudiziale). Ancorché avallata
dalla giurisprudenza di legittimità, l’opzione interpretativa desta più di una perplessità (65).
Cominciamo col dire che - al bando ogni altra
considerazione - essa, da un lato, nega il rimedio
straordinario in un contesto fino a ieri pacificamente rientrante nel suo ambito di applicazione (il
capo sulle spese, indubbiamente a contenuto decisorio e nel quale anzi l’istituto ha da sempre tratto
linfa vitale), da un altro, colloca la contestazione
sulle spese di lite in un ambiente - quello esecutivo
- a tutt’altro scopo destinato. Non può condividersi
la scelta di censurare an o quantum delle spese nella sede esecutiva, pur se nelle sue fasi cognitive: capo a contenuto decisorio, la relativa statuizione deve potersi sindacare nel giudizio di cognizione che
lo ha visto emergere; dirottarlo sull’esecuzione significa imporne una collocazione anomala in un
ambito che può senz’altro seguire quello cognitivo,
ma che resta eventuale (l’esecuzione forzata) (66) e
che così facendo, invece, dovrebbe essere forzosamente attivato anche solo per dolersi del quantum
della debenza.
D’altra parte, la linea interpretativa qui criticata per varare l’idea che la contestazione del capo sulle spese trovi sede nell’opposizione di merito all’esecuzione, a dispetto dei limiti ad essa imposti dall’art. 161 c.p.c. - muove dall’assunto che, se reso
in procedimento sommario, tale capo (non accertato in contesto pienamente cognitivo) ha la valenza del titolo esecutivo stragiudiziale (sicché, è
censurabile con l’opposizione dell’art. 615 c.p.c.
alla stregua e con l’ampiezza dei titoli stragiudiziali). Si crea così una graduazione tra giudizio a cognizione piena e giudizio sommario (tale che solo
il primo è idoneo a condurre ad un titolo esecutivo giudiziale) che non solo non trova riscontro
nel dato positivo, ma anche è a più riprese contraddetto dalla realtà processuale dei nostri tempi (67). Pure questa è asserzione su cui non si può
concordare. Si consideri quanto meno che, da un
lato, casi come quelli del decreto ingiuntivo o dell’ordinanza per convalida di sfratto - pur sempre
emessi in ambienti cognitivi di tipo sommario sono indubitabilmente titoli giudiziali (68), da un
altro, che da tempo la Consulta nega copertura
costituzionale al giudizio ordinario a cognizione
piena, equiparandovi quello sommario, alla condizione che si assicurino le garanzie del giusto processo (69). Una graduazione, dunque, che, se non
poteva valere prima, è terreno sabbioso vieppiù
qui, qualora su di essa si vogliano costruire le fondamenta di un impianto interpretativo di tanta
innovativa portata.
Non a torto dunque la sentenza in commento abbandona la linea interpretativa, con apertura del
ricorso per cassazione avverso il capo dell’ordinanza filtro sulle spese “risultando peraltro difficilmente condivisibili (non fosse altro perché “improprie”
e comunque idonee a moltiplicare il numero dei
processi e dei giudici chiamati a conoscerne) impugnazioni alternative da proporsi in sede esecutiva o
attraverso apposito giudizio di cognizione (con tutte le impugnazioni relativamente previste)”. Poche
parole scarsamente argomentate per abbattere
un’opzione criticabile e criticata sono quanto basta
per tornare all’orientamento che per anni ha avuto
la meglio.
Ci si può chiedere se il dictum delle Sezioni Unite
in parte qua sarà in grado di dominare l’alternativa
degli ultimi tempi, sì da tornare a valere quale regola generale. La scarsità degli argomenti posti a
sostegno della tesi condivisa in sentenza indurreb-
della pronuncia sulle spese: se infatti tale statuizione potrebbe
rimanere automaticamente travolta ex art. 336, comma 2,
c.p.c. dall’eventuale successivo accoglimento del ricorso proposto nei confronti della sentenza di primo grado, la stessa soluzione non può operare rispetto ai vizi propri della pronuncia
sulle spese (ad esempio quando l’importo della condanna alle
spese sia esorbitante oppure quando vi sia stata compensazione senza indicarne le “gravi ed eccezionali ragioni” ex art. 92,
comma 2, c.p.c., caso in cui il ricorso straordinario è l’unica
strada percorribile). Conf., Panzarola, Tra “filtro”, cit., 105; Poli,
Il nuovo, cit., 136; Scarselli, Osservazioni, cit., 1455; Tedoldi, Il
maleficio, cit., 765; Piazza, Contrastanti decisioni, cit., 264.
(65) Criticamente Delle Donne, La contestazione delle spese
del reclamo è rimessa, in tema di cautele “anticipatorie”, al giu-
dizio di merito o di opposizione all’esecuzione e non al ricorso ex
art. 111, 7° co., Cost.: un’inaccettabile conclusione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. esec. forz., 2011, 284; Sassani,
Sulle spese del procedimento cautelare. Si dice nomofilachia ma
non si sa dove il νομος sia, ibid., 496.
(66) Con vari problemi in punto di individuazione del giudice competente, su cui Sassani, Sulle spese del procedimento
cautelare, cit., 497.
(67) Conf. Delle Donne, La contestazione delle spese, cit.,
493.
(68) Perciò assoggettati alla nota regola dell’art. 161 c.p.c.
(69) È stabile in proposito la giurisprudenza di costituzionalità (per tutte, Corte cost. 23 gennaio 2013, n. 10, in Giur.
cost., 2013, 239).
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be a pensare (a temere) che essa non abbia la dovuta “forza nomofilattica”. Una prospettiva ottimistica consente invece di ben sperare, tenuto conto
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del fatto che si segnerebbe così il ritorno all’orientamento che per anni ha dominato la scena. È bene tuttavia attendere i riscontri concreti.
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Opposizione tardiva a decreto ingiuntivo
Tribunale di Trento 24 marzo 2016 - Giud. un. Beghini - Campo Carlo Magno S.p.a. (avv.ti Toniolatti, Morolli, Marinelli) c. T.S. (avv. Mantovani)
L’art. 650 c.p.c. pone due termini, quello di cui al primo comma, desumibile dalla necessità della prova della
tempestiva conoscenza, che è il termine ordinario per l’opposizione decorrente dalla conoscenza del decreto
e quello del terzo comma della norma, che è un termine di chiusura che non esclude l’operatività del primo.
Allorché la notifica del precetto sia avvenuta validamente, essa è di per sé idonea a porre la parte che assuma
di non avere avuto conoscenza dell’ingiunzione per difetto di notifica, di venire a conoscenza della stessa e il
computo del termine “ordinario” per l’opposizione tardiva va effettuato a ritroso fino a questo momento.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., SS.UU., 22 giugno 2007, n. 14572; nella giur. merito, in relazione all’allora vigente termine di 20 gg., v. Trib.
Napoli 31 ottobre 1966, in Dir. e giur., 1967, 142; App. L’Aquila 2 marzo 1960, in Foro it., 1960, I, 1165.
Difforme
Cass., SS.UU., 12 maggio 2005, n. 9938.
Il Tribunale (omissis).
Motivazione
omissis
Ciò premesso, passando ora alla questione della tempestività dell’opposizione tardiva proposta da Campo
Carlo Magno spa, è noto che l’art. 650 c.p.c. trova il
proprio antecedente storico nel regio decreto 24 luglio
1922, n. 1036, che, istituendo il procedimento per ingiunzione, ammetteva un’opposizione tardiva, anche
dopo la scadenza del termine, contro il decreto ingiuntivo non notificato in persona propria all’ingiunto, finché non fosse interamente “compiuto il procedimento
esecutivo” (v. artt. 11 e 15), termine finale - questo ritenuto dalla dottrina eccessivamente ampio. La stessa
dottrina evidenziava inoltre anche la ingiustificata differenza esistente rispetto alla disciplina dell’opposizione contumaciale, ammessa invece “sino al primo atto
di esecuzione della sentenza” (v. art. 477 c.p.c. del
1865). Tuttavia, dal confronto tra tali due discipline,
la dottrina non traeva spunto per auspicare una reductio ad unum dei due rimedi oppure l’istituzione di un
rinvio della legge processuale speciale a quella comune, bensì che, abolita l’opposizione contumaciale, fosse
ammessa contro l’ingiunzione, dopo il decorso del termine per l’opposizione, soltanto la cd. restituzione in
intero. Fu così che l’art. 20 del regio decreto 7 agosto
1936, n. 1531, subordinò l’opposizione fuori termine
alla prova, che l’intimato doveva dare, di non aver
avuto tempestiva conoscenza del decreto notificatogli
a causa dell’inosservanza delle formalità stabilite dalla
legge, oppure per altrui dolo, ovvero per circostanze
estranee al fatto e volontà proprie, nonché al fatto dei
suoi familiari, domiciliatari, dipendenti o commessi, ed
in genere di qualunque persona del cui operato dovesse
rispondere. E soprattutto ci si preoccupò nel contempo
di fissare un termine più breve per l’esperimento dell’opposizione tardiva, individuandolo nel decorso di 15
1144
giorni dal pignoramento presso il debitore, dalla notificazione dell’atto di pignoramento presso il terzo, oppure dalla citazione per autorizzazione a vendita, oppure,
quando si trattava di ingiunzione per la consegna di
cose mobili determinate, dall’esecuzione indicata dall’art. 742 c.p.c. del 1865.
Venendo ora all’attuale art. 650 c.p.c., come noto esso
dispone che “l’intimato può fare opposizione anche dopo scaduto il termine fissato nel decreto, se prova di
non averne avuta tempestiva conoscenza per irregolarità
della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore.
In questo caso l’esecutorietà può essere sospesa a norma
dell’articolo precedente. L’opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione”.
La Corte costituzionale, con sentenza del 20 maggio
1976, n. 120, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
della norma, nella parte in cui non consente l’opposizione tardiva dell’intimato che, pur avendo avuto conoscenza del decreto ingiuntivo, non abbia potuto, per caso fortuito o forza maggiore, fare opposizione entro il
termine fissato nel decreto.
Come precisato da Cass., sez. un., 22 giugno 2007, n.
14572 (e confermato successivamente anche da Cass.,
sez. L, 29 agosto 2011, n. 17759), il cit. art. 650 c.p.c.
prevede due termini: a) quello di cui al primo comma
(desumibile dalla necessità della prova della tempestiva conoscenza), che è il termine ordinario di cui all’art. 641, comma I, c.p.c., con la sola particolarità che
esso decorre non dalla notifica del decreto, effettuata a
soggetto diverso dal notificando, bensì dalla conoscenza del decreto, irregolarmente notificato; b) quello del
comma 3 dello stesso art. 650 c.p.c., che è un termine
di chiusura, il quale non esclude l’operatività del termine previsto dal primo comma. La tempestività della
conoscenza va correlata non al dies a quo della decorrenza di detto termine, ma al dies ad quem del termine
della opposizione. Esso cioè va calcolato a ritroso dal
giorno della opposizione tardiva, per verificare se questa è tempestiva rispetto alla data della conoscenza, da
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cui decorre l’onere della opposizione nei termini di cui
all’art. 641, primo comma, c.p.c.
Cass., sez. I, 21 giugno 2012, n. 10386, ha inoltre precisato che ai fini della legittimità dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo (di cui al cit. art. 650 c.p.c.),
non è sufficiente l’accertamento della irregolarità della
notificazione del provvedimento monitorio, ma occorre, altresì, la prova - il cui onere incombe sull’opponente - che a causa di detta irregolarità egli, nella qualità di ingiunto, non abbia avuto tempestiva conoscenza del suddetto decreto e non sia stato in grado di proporre una tempestiva opposizione. Tale prova deve
considerarsi raggiunta ogni qualvolta, alla stregua delle
modalità di esecuzione della notificazione del richiamato provvedimento, sia da ritenere che l’atto non sia
pervenuto tempestivamente nella sfera di conoscibilità
del destinatario. Ove la parte opposta intenda contestare la tempestività dell’opposizione tardiva in relazione alla irregolarità della notificazione così come ricostruita dall’opponente, sulla stessa ricade l’onere di
provare il fatto relativo all’eventuale conoscenza anteriore del decreto da parte dell’ingiunto che sia in grado
di rendere l’opposizione tardiva intempestiva e, quindi,
inammissibile. Occorre cioè distinguere tra mancata
conoscenza del decreto, e successiva conoscenza dello
stesso; la mancata conoscenza si può ritenere implicita
nella notifica a soggetto diverso dal notificando, ma
ciò non è sufficiente per la tempestività della opposizione tardiva, perché occorre anche conoscere la data
effettiva della conoscenza, al fine di verificare la tempestività della opposizione.
Ciò puntualizzato, nella fattispecie concreta va considerato che con sentenza n. 618/2013 pronunziata - ex art.
281 sexies c.p.c. - all’udienza del 5 luglio 2013 (pacificamente passata in giudicato), questo stesso Tribunale, in
persona di altro magistrato, ha accolto l’opposizione al
precetto (notificato l’11 giugno 2012), proposta da
Campo Carlo Magno spa nei confronti T. S. proprio a
causa della mancata preventiva notifica del decreto ingiuntivo oggetto del presente giudizio di opposizione
tardiva. Con la cit. sentenza n. 618/2013, questo Tribunale ha accertato la nullità della notifica del decreto ingiuntivo avvenuta in data 16 marzo 2012, in quanto essa era stata effettuata -per mezzo del servizio postale,
senza peraltro che il plico fosse mai ritirato - a Pinzolo
(Tn) in piazza Mercato 10, mentre la sede di Campo
Carlo Magno spa era stata da lì trasferita a Milano in
corso Vittorio Emanuele II n. 9, sin dal 20 dicembre
2011-4 gennaio 2012. Considerando che la T. aveva
poi notificato il precetto senza notificare unitamente il
decreto ingiuntivo ma solo menzionandolo; e considerando altresì che la T. medesima non aveva dimostrato
che a Pinzolo la Campo Carlo Magno spa avesse comunque la propria sede effettiva; questo Tribunale ha
accolto l’opposizione e dichiarato inesistente il diritto
della T. a procedere esecutivamente in forza del cit.
precetto.
Essendo tale sentenza passata in giudicato (circostanza
che impedisce di interrogarsi circa la compatibilità di
tale pronunzia con l’orientamento di recente conferma-
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to anche da Cass., sez. VI-3, ord. 4 dicembre 2014, n.
25713), anche nel presente giudizio deve ormai incontrovertibilmente ritenersi, per effetto dell’art. 2909 c.c.,
che la cit. notifica 16 marzo 2012 del decreto ingiuntivo, sia nulla. Dal fatto poi che la stessa notifica sia stata
effettuata in un luogo in cui Campo Carlo Magno spa
non aveva più la propria sede, può ritenersi raggiunta la
prova che lo stesso decreto ingiuntivo non sia pervenuto tempestivamente nella sfera di conoscibilità della destinataria.
Nel contestare la tempestività della presente opposizione tardiva, T. S. replica peraltro che il primo termine
previsto dal cit. art. 650 c.p.c., decorrerebbe dalla notifica del precetto (pacificamente valida, ma avvenuta secondo la T. il 5 giugno 2012, mentre secondo Campo
Carlo Magno spa l’11 giugno 2012: ma come si vedrà il
risultato non cambia), poiché il precetto stesso menziona comunque gli estremi del decreto ingiuntivo a cui si
riferisce (menzione pacifica), con la conseguenza che
l’opposizione sarebbe tardiva, poiché l’atto di citazione,
introduttivo del presente giudizio, è stato portato alla
notifica solo il 9 ottobre 2012, e quindi, andando a ritroso di 40 giorni, pur considerando la sospensione feriale dei termini all’epoca vigente, si arriva a domenica
15 luglio 2012.
Campo Carlo Magno spa contesta - ovviamente - la
tardività della propria opposizione, sostenendo l’irrilevanza della data della mera notifica del precetto (a suo
avviso avvenuta l’11 giugno 2012), e l’essenzialità invece di quella del 16 luglio 2012, data in cui T. S., ottemperando all’ordine impartito - all’udienza del 12
precedente - dal giudice che ha emesso la cit. sentenza
n. 618/2013, ha prodotto in giudizio l’originale del decreto ingiuntivo (posto che, per quanto è dato capire
dal verbale della cit. udienza 12 luglio 2013, la memoria di resistenza depositata dalla T. quello stesso giorno, menzionava sì la produzione del decreto ingiuntivo, ma quest’ultimo non doveva essere stato effettivamente presente agli atti, posto che quel giudice, all’esito dell’udienza, si riservava di provvedere sulla sospensiva, ma solo dopo aver “rilevato altresì che manca in
atti il decreto ingiuntivo”). Secondo Campo Carlo
Magno spa, pertanto, solo con la produzione in giudizio dell’originale del decreto ingiuntivo, avvenuta pacificamente il cit. 16 luglio 2012, essa avrebbe avuto
conoscenza del decreto ingiuntivo, con la conseguenza
che l’opposizione sarebbe tempestiva, poiché, come
detto, andando a ritroso di 40 giorni dalla data del 9
ottobre 2012, considerando la sospensione dei termini
feriali vigente all’epoca, si arriva a domenica 15 luglio
2012.
Delineata in tal modo la questione di diritto sottoposta all’esame di questo Tribunale, va puntualizzata l’irrilevanza di Cass., sez. III, 20 novembre 1976, n.
4378, nonché di Cass., sez. III, 13 aprile 1979, n.
2193, e di Cass., sez. II, 24 novembre 1995, n. 12155
(le quali riguardano tutte il diverso problema del termine di chiusura di 10 giorni dal primo atto di esecuzione). Di scarsa utilità anche Cass., sez. III, 20 novembre 1976, n. 4378 (dalla cui motivazione emerge
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che in quel caso l’ingiunto non aveva potuto nemmeno ritirare l’atto, in quanto il piego chiuso, dopo il
prescritto periodo di giacenza presso l’ufficio postale,
era stato rispedito al mittente). Non giova la motivazione espressa da Cass., sez. I, 11 luglio 1963, n. 1871;
né quella di Cass., sez. III, 26 febbraio 1960, n. 349:
nessuna delle due si sofferma sulla nozione di “conoscenza del decreto ingiuntivo”, in quanto la prima si
occupa del dolo del familiare dell’ingiunto, mentre la
seconda, aderendo all’orientamento dell’epoca, sostiene la irrilevanza della nozione stessa, ritenendo che il
termine per l’opposizione tardiva inizi a decorrere solo
dal pignoramento.
Questo Tribunale ritiene che la questione debba essere
risolta nel senso che la nozione di “conoscenza del decreto ingiuntivo” di cui alla giurisprudenza citata, non
può ritenersi equivalente a quella di notifica dell’intero decreto ingiuntivo, né a quella - sostanzialmente
analoga - di produzione in giudizio del medesimo intero decreto ingiuntivo (nozione alla quale fa invece riferimento la Campo Carlo Magno spa). A tale conclusione deve pervenirsi sulla base della costante giurisprudenza che ammette la conversione dell’opposizione
a precetto in opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. (v.
ad esempio Cass., sez. I, 21 giugno 2012, n. 10386;
Cass., sez. III, 1 dicembre 2010, n. 24398; e Cass., sez.
III, 9 luglio 2008, n. 18847), nonché e soprattutto per
effetto dell’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata - ex art. 3 Cost. - dell’intero art. 650
c.p.c., il cui ultimo comma, come accennato, prevede
che “l’opposizione non è più ammessa decorsi dieci
giorni dal primo atto di esecuzione”. Come significativamente precisato da Cass., sez. II, 9 febbraio 2006, n.
2864, la ratio di tale comma, secondo cui il termine
decorre dal primo atto di esecuzione, va ravvisata nel
fatto che la relativa notifica è di per sé idonea a porre
la parte che assuma di non avere avuto conoscenza
dell’ingiunzione per difetto di notifica, di venire a conoscenza della stessa, e ciò indipendentemente dalla
eventuale nullità di cui sia affetto il pignoramento sempreché la stessa non dipenda a sua volta da un vizio di notifica che impedisca alla parte di giungere alla
cognizione dell’ingiunzione - giacché la parte non può
più ignorare l’esistenza del decreto ingiuntivo emesso
nei suoi confronti.
Lo stesso principio - ex cit. art. 3 Cost. - deve allora valere anche per la notifica del precetto, nel senso che,
qualora avvenga validamente (come nella fattispecie),
essa è di per sé idonea a porre la parte che assuma di
non avere avuto conoscenza dell’ingiunzione per difetto
di notifica, di venire a conoscenza della stessa (considerando anche che, come detto, il precetto menziona gli
estremi del decreto ingiuntivo). In tal senso, può ricordarsi la pur remota sentenza della Corte d’appello de
L’Aquila 2 marzo 1960 (in Foro italiano, 1960, I, 1164),
la quale, dopo aver qualificato l’opposizione tardiva come rimessione in termini del convenuto contumace (ex
art. 294 c.p.c.), a condizione dell’esistenza dei requisiti
analogicamente previsti dall’art. 327, capoverso, c.p.c.,
ha osservato che il debitore ingiunto aveva avuto sicuramente conoscenza del decreto ingiuntivo per mezzo
della notificazione del precetto, data dalla quale decorreva quindi il termine per proporre l’opposizione tardiva.
Nel nostro caso, andando allora a ritroso di 40 giorni
dalla cit. data del 9 ottobre 2012 (in cui l’atto di citazione per opposizione tardiva è stato portato alla notifica), si giunge - come detto - a domenica 15 luglio 2012
(tenendo conto della sospensione feriale), con la conseguenza che, sia la notifica del precetto avvenuta il 5 oppure l’11 giugno 2012, il risultato non cambia, perché
l’opposizione è in ogni caso tardiva.
Di qui la relativa declaratoria.
L’incertezza della lite e la novità delle questioni trattate, impongono la compensazione integrale delle spese
giudiziali.
(omissis).
Il termine per la proposizione dell’opposizione tardiva
a decreto ingiuntivo
di Cristina Asprella
Con la sentenza annotata il Tribunale di Trento ha aderito a quella opinione, talora sposata dal
Supremo Collegio, secondo cui l’art. 650 c.p.c. porrebbe due termini, uno ordinario, equivalente
a quello previsto dall’art. 641 c.p.c., e decorrente dalla conoscenza del decreto invece che dalla
notifica dello stesso, e quello finale posto dal terzo comma della norma che non esclude l’operatività del primo. A tal fine ha anche affermato che la nozione di “conoscenza” del decreto ingiuntivo non si può ritenere equivalente a quella di notifica dell’intero decreto ingiuntivo, ovvero
di produzione in giudizio dello stesso decreto. A ciò, secondo la pronuncia in commento, deve
pervenirsi sia sulla base della giurisprudenza pacifica che consente la conversione dell’opposizione a precetto in opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., sia per effetto dell’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata dell’art. 650 c.p.c., alla luce dell’art. 3 Cost., nella parte in
cui prevede che l’opposizione non sia più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto esecutivo.
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Lo stesso principio deve pertanto valere anche per la notifica del precetto sicché, quando essa
sia validamente avvenuta, è idonea a porre la parte che assume di non aver avuto conoscenza
del decreto ingiuntivo per difetto di notifica, di venire comunque a conoscenza dello stesso.
Il caso
be dalla notifica del precetto, perché il precetto
menziona gli estremi del decreto ingiuntivo cui si
riferisce, con la conseguenza che l’opposizione sarebbe stata effettuata tardivamente; la società, nel
contestare la tardività della propria opposizione, afferma invece che sarebbe irrilevante la data della
mera notifica del precetto, mentre sarebbe essenziale la data in cui T.S., ottemperando all’ordine
del giudice dell’opposizione a precetto, ha prodotto
in giudizio l’originale del decreto ingiuntivo. Soltanto con la produzione in giudizio dell’originale
del decreto ingiuntivo, la società avrebbe, infatti,
avuto conoscenza del decreto stesso, con la conseguenza che l’opposizione sarebbe tempestiva e non
tardiva.
La questione di diritto si appunta, pertanto, sulla
nozione di “conoscenza”; se sia cioè sufficiente la
menzione degli estremi del decreto ingiuntivo nel
precetto notificato, oppure se sia necessaria la conoscenza integrale del decreto stesso, che si è verificata, nella specie, unicamente con la produzione
in giudizio dell’originale dello stesso.
Una società propone opposizione tardiva contro il
decreto con cui il giudice della soppressa ed ormai
accorpata sezione distaccata di Tione di Trento le
aveva ingiunto di pagare a T.S. una somma oltre
ad interessi a titolo di compenso professionale per
provvigioni. In sede monitoria, infatti, T.S. aveva
sostenuto di aver svolto attività di intermediazione
mobiliare in relazione alla vendita di un complesso
alberghiero e di aver ricevuto, dall’allora Presidente della società, l’incarico di svolgere la mediazione
immobiliare.
Con una sentenza precedente, pronunziata ex art.
281 sexies c.p.c., e passata in giudicato, lo stesso
Tribunale, in persona di altro magistrato, aveva accolto l’opposizione a precetto proposta dalla società
nei confronti di T.S. proprio a cagione della mancata preventiva notifica del decreto ingiuntivo oggetto dello stesso giudizio di opposizione tardiva.
Con detta sentenza il Tribunale accertava la nullità della notifica del decreto ingiuntivo perché essa
era stata effettuata, per il tramite del servizio postale, senza che il plico fosse mai ritirato, nella precedente sede della società, sede da cui essa si era già
trasferita da qualche anno. Poiché T.S. aveva notificato poi il precetto senza notificare unitamente il
decreto ingiuntivo ma menzionandolo e basta; e
poiché la stessa non aveva potuto fornire la prova
che nel luogo della notifica la società avesse comunque la propria sede effettiva, il Tribunale aveva accolto l’opposizione a precetto e dichiarato
inesistente il diritto di T.S. a procedere in via esecutiva in forza del precetto.
Poiché tale sentenza era passata in giudicato, anche nel giudizio di opposizione tardiva a decreto
ingiuntivo doveva incontrovertibilmente ritenersi
che la notifica del decreto ingiuntivo, come accertato nel precedente giudizio, fosse nulla, considerando, altresì, che essa era avvenuta in un luogo in
cui la società non aveva più la propria sede.
Nel contestare la tempestività dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo T.S. affermava che il primo termine previsto dall’art. 650 c.p.c. decorrereb-
Ai sensi dell’art. 650 c.p.c. all’intimato è consentito fare opposizione “tardiva” qualora provi di non
avere avuto tempestiva conoscenza del decreto per
irregolarità della notificazione o per caso fortuito o
forza maggiore; l’opposizione non è più consentita,
invece, decorsi dieci giorni dal primo atto esecutivo. È noto, altresì, che la Corte costituzionale ha
ampliato le previsioni della disposizione estendendo la possibilità di opposizione tardiva all’intimato
che, pur avendo avuto conoscenza del decreto,
non abbia potuto, sempre per causa a lui non imputabile, proporre opposizione tempestivamente (1).
L’art. 650 c.p.c. pone - secondo una pronuncia delle Sezioni Unite richiamata adesivamente dalla
pronuncia in commento - due termini all’intimato
che non abbia potuto proporre opposizione tempestiva (2):
(1) Corte cost. 20 maggio 1976, n. 120, in Foro it., 1976, I,
1414.
(2) Cass., SS.UU., 22 giugno 2007, n. 14572 (richiamata in
motivazione): la Corte, in questa pronuncia, richiama come
precedente conforme Cass. 12 maggio 2005, n. 9938, ma, come ha correttamente evidenziato R. Conte, Il procedimento
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Il termine per l’opposizione tardiva
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- un primo termine, individuato dal primo comma
della disposizione, coincidente con il termine ordinario previsto dall’art. 641, comma 1, c.p.c., con la
peculiarità che la sua decorrenza parte non già dalla notifica del decreto che è stata “irregolare”, ma
dalla conoscenza del decreto stesso;
- un secondo termine, previsto dal comma 3 della
disposizione, che rispetto al primo termine si pone
in una condizione di concorrenza e non di esclusione, e che si atteggia a termine finale. L’opposizione
tardiva non è più consentita decorsi dieci giorni
dal primo atto di esecuzione (3).
Poiché il termine di cui al primo comma si collega
alla effettiva conoscenza del decreto ingiuntivo e
non alla data della sua notifica, allora esso va calcolato all’indietro partendo dal giorno dell’opposizione tardiva in modo da verificare se, a ritroso, esso decorre correttamente dalla data della conoscenza del decreto ingiuntivo (4).
È quindi la data della “conoscenza” del decreto a
consentire, calcolando a ritroso, la verifica della
“tempestività” dell’opposizione tardiva ovvero la
sua inammissibilità.
Che, tuttavia, la norma contenga un implicito rinvio allo stesso termine previsto dall’art. 641 c.p.c.
per l’opposizione tempestiva e che, quindi, dalla
stessa sia possibile ricavare un doppio termine con
un diverso dies a quo (quello di 40 giorni desumibile dal primo comma e quello di 10 gg. dal primo
atto esecutivo offerto dal terzo comma) è affermazione non provata dal dato testuale e già più volte
criticata dalla dottrina.
La norma, infatti, contiene sì un termine ma è soltanto quello di dieci giorni dal primo atto esecutivo di cui al terzo comma, mentre la dizione del primo comma è del tutto generica e assegna all’ingiunto unicamente la facoltà di fare opposizione
anche dopo la scadenza del termine fissato nel decreto, qualora si provi l’intempestiva conoscenza di
esso per le ragioni già ricordate. Si è, quindi, correttamente evidenziato che l’avvenuta conoscenza
del decreto ovvero il venir meno dell’impedimento
alla proposizione dell’opposizione non possono essere considerati quali dies a quibus per proporre
l’opposizione (5), considerazione che avrebbe l’effetto, in sostanza, di parificare il regime dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo a quello delle
impugnazioni straordinarie, quali ad esempio la revocazione straordinaria ove, tuttavia, questa previsione è contenuta nel dettato normativo (6).
Peraltro, l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di merito (7) nello stesso senso - ossia nel
senso dell’inammissibilità dell’opposizione tardiva
proposta oltre il termine previsto per l’opposizione
tempestiva e con decorrenza dalla conoscenza del
decreto ingiuntivo tardivamente opposto - e in relazione all’allora vigente termine di 20 giorni per
la proposizione dell’opposizione ordinaria, era stato
smentito non solo dalla dottrina più autorevole ma
anche dalla stessa Corte di cassazione sia pur in un
risalente arresto (8).
Pertanto l’opposizione tardiva va proposta in un
termine sì perentorio ma che è costituito dal rinvio
al dies ad quem dei dieci giorni dal primo atto esecutivo, trascorsi i quali soltanto se ne può predicare l’inammissibilità (9); ai fini del caso in esame,
pertanto, appare infondata la verifica della inammissibilità del decreto sull’ipotetico decorso del
termine di 40 giorni dalla conoscenza di esso e ciò
a prescindere dalla nozione di “conoscenza” e,
quindi, senza considerare se tale conoscenza potesse essere ancorata alla menzione all’interno del
precetto ovvero alla produzione integrale in giudizio dell’originale del decreto stesso.
d’ingiunzione, in Il nuovo commentario del codice di procedura
civile, diretto da S. Chiarloni, Bologna, 2012, 413-414, nt. 10,
quest’ultima pronuncia non ha mai affermato quanto detto
dalle Sezioni Unite del 2007. Anzi, la richiamata Cass. n.
9938/2005 ha voluto dire, in senso inverso, che pur volendo
“sostenere l’applicabilità dell’art. 645 c.p.c. nell’ipotesi di nullità della notifica del decreto, non potrebbe comunque porsi a
carico dell’opposto l’onere di provare il giorno in cui l’intimato
ha avuto conoscenza effettiva del decreto stesso...”. Rileva,
inoltre, R. Conte, ivi, che le affermazioni contenute in Cass. n.
14572/2007 “non possono essere assolutamente condivise e
la cui gravità non risulta sia stata evidenziata”.
(3) Precisa Cass. 29 agosto 2011, n. 17759, anch’essa citata in motivazione della sentenza in commento, che l’art. 650
c.p.c. prevede al comma 1 il termine ordinario di cui all’art.
641, comma 1, c.p.c. e, quindi, di quaranta giorni decorrenti
dalla data della conoscenza del decreto irregolarmente notificato, mentre il termine di dieci giorni previsto dal terzo comma
della norma è un termine di chiusura e non esclude l’operativi-
tà del primo termine.
(4) Così si era espressa già Cass., SS.UU., 22 giugno 2007,
n. 14572, cit. e così precisa la sentenza in commento, in motivazione, a 6.
(5) Per tutti G. Tarzia, Decorrenza del termine per l’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961,
1020 ss.; E. Garbagnati, Il procedimento di ingiunzione, a cura
di Romano, Milano, 2012, 209 ss.
(6) A. Tedoldi, sub art. 650 c.p.c., cit., 864 con ulteriori rilievi
e riferimenti.
(7) In questo senso Trib. Napoli 31 ottobre 1966, in Dir. e
giur., 1967, 142; App. L’Aquila 2 marzo 1960, in Foro it., 1960,
I, 1165.
(8) Oltre a G. Tarzia, Decorrenza del termine, cit., 1019 si
confronti Cass. 26 febbraio 1960, n. 349, in Foro it., 1960, I,
1164.
(9) Oltre agli AA. già citati nelle note precedenti si confronti
anche E. Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, a cura di
A. Romano, prefazione di C. Consolo, Milano, 2012, 207.
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Anche la ricostruzione storica effettuata nella sentenza in commento dell’origine della previsione di
cui all’art. 650 c.p.c. e del raffronto con la disciplina della c.d. opposizione contumaciale prevista
dall’art. 477 c.p.c. del 1865 sembra, piuttosto che
avvalorare la tesi del doppio termine, confermare
l’esistenza di un termine unico, quello finale, di
chiusura, previsto dall’ultimo comma dell’art. 650
c.p.c. Ricorda, infatti, il giudice che la dottrina
aveva, nel vigore del c.p.c. del 1865, evidenziato
l’ingiustificata disparità di trattamento tra il regime
dell’opposizione tardiva, consentito finché non fosse compiuto il procedimento esecutivo per intero e
la disciplina dell’opposizione contumaciale, dettata
dall’art. 477 c.p.c. 1865 che, invece, la consentiva
fino al primo atto di esecuzione della sentenza. L’uniformazione delle due discipline, intervenuta, ricorda il Giudice, con l’art. 20 de l R .D. n.
1531/1936 fissò un termine più breve per l’opposizione tardiva ancorandolo a 15 gg. dal pignoramento (10). Che l’art. 477 c.p.c. 1865 si riferisse
univocamente alla esecuzione forzata - e che quindi, nel trasferire la previsione nell’ambito dell’opposizione tardiva il legislatore abbia inteso conservare questo termine di chiusura senza peraltro inserire alcun altro termine - è confermato dalle parole
di Mortara: “il linguaggio dell’art. 477 delinea in
modo univoco l’ipotesi di esecuzione che si intraprende sui beni del contumace...” (11). Nulla comunque induce a ritenere che nella uniformazione
delle due discipline si sia inteso far coincidere la
conoscenza del decreto con il dies a quo per la proposizione di un’opposizione tardiva nei termini della tempestiva.
Quanto al “secondo termine”, per utilizzare la terminologia delle Sezioni Unite e della sentenza in
commento, basti ricordare che esso si fonda sulla
presunzione che, effettuato il primo atto esecutivo,
l’intimato non possa più invocare a sua discolpa la
mancata conoscenza del decreto ingiuntivo e ciò
tanto nel caso di espropriazione forzata tanto nell’ipotesi di esecuzione per consegna o rilascio (12).
Che poi, in concreto, possano verificarsi ipotesi in
cui neanche il primo atto esecutivo è in grado di
porre correttamente il destinatario a conoscenza
del decreto ingiuntivo è fattispecie richiamata dalla dottrina sul tema (13); ma nella giurisprudenza
prevale la tesi secondo cui non è nemmeno necessario che il primo atto esecutivo sia effettivamente
valido ed efficace, con la conseguenza che anche il
pignoramento nullo può comportare la conoscenza
del decreto ingiuntivo e pertanto l’impedimento
all’opposizione tardiva dopo il decorso del dies a
q u o d e i d i e c i g i o r n i p r e v i s t o d a l l’ a r t . 6 5 0
c.p.c. (14). Questa funzione non può, invece, essere
assegnata secondo la giurisprudenza all’atto di precetto perché esso lungi dal costituire il primo atto
di esecuzione, è soltanto un necessario atto preliminare dell’esecuzione stessa (15). Semmai, come
la giurisprudenza di legittimità ha precisato, l’opposizione a precetto può essere convertita in opposizione tardiva quando solo attraverso il precetto
l’intimato abbia avuto conoscenza del decreto ingiuntivo (16).
(10) E, ricorda la pronuncia in commento, subordinò l’opposizione tardiva alla prova, di cui era onerato l’intimato, di
non aver avuto conoscenza tempestiva del decreto ingiuntivo
per inosservanza delle forme legali, ovvero per dolo o comunque per cause non imputabili: ma ciò non conferma in alcun
modo l’esistenza di un doppio termine ma semmai è una conferma della necessità della c.d. doppia prova, ossia della prova, a volte eccessiva, che incombe sull’intimato il quale deve
non soltanto provare l’irregolarità della notifica del decreto ovvero la causa non imputabile di mancata conoscenza, ma anche il nesso di causalità tra queste ultime e la mancata o comunque non tempestiva conoscenza del decreto, o con la
mancata tempestiva opposizione: In termini da ultimo, ex multis, Cass., SS.UU., 22 giugno 2007, n. 14572, in Foro it., 2008,
I, 581; Cass. 24 ottobre 2008, n. 25737; con ulteriori riferimenti
giurisprudenziali v. A. Tedoldi, sub art. 650 c.p.c., in Commentario, cit., 867, nt. 20.
(11) Così L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi
di procedura civile, IV, Milano, 319; lo stesso A. a pag. 318
confermava che il primo atto di esecuzione cui l’art. 477 c.p.c.
si riferiva, doveva ritenersi, pur nella sua vaghezza, coincidente
con “...l’idea concreta del pignoramento di mobili presso il debitore, o più eccezionalmente di una esecuzione per consegna
di mobili o rilascio di immobili...”.
(12) Perché il pignoramento contiene anche l’ingiunzione al
debitore ad astenersi da atti pregiudizievoli alla garanzia patrimoniale in favore del creditore e perché anche nell’esecuzione
per consegna o rilascio si verifica, si è precisato, una intrusione nella sfera dell’intimato tale che egli non possa più addurre
la mancata conoscenza del decreto non opposto: amplius A.
Tedoldi, sub art. 650 c.p.c., in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Comoglio - Consolo - Sassani - Vaccarella, II, I, 861 ss., in particolare 862. All’A. si rinvia per l’esegesi e il commento della disposizione che esula dal presente lavoro.
(13) In argomento per tutti si veda A. Ronco, Struttura e disciplina del rito monitorio, Torino, 2000, 370 ss.; R. Caponi, La
rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, 450 ss.;
R. Conte, Il procedimento d’ingiunzione, cit., 415 ss.
(14) Cass. 9 febbraio 2006, n. 2864, in Giust. civ., 2007, I,
477; in senso contrario Cass. 20 febbraio 1984, n. 1206, ivi,
1984.
(15) Cass. 13 aprile 1979, nr. 2193; Trib. Milano 27 maggio
2002, Giur. milanese, 2002, 427 ss.
(16) Cass., Sez. I, 21 giugno 2012, n. 10386; Cass., Sez. III,
1° dicembre 2010, nr. 24398; Cass., Sez. III, 9 luglio 2008, n.
18847, tutte riportate in motivazione della sentenza in commento.
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Il primo atto di esecuzione come dies ad
quem per la proponibilità dell’opposizione
tardiva
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Giurisprudenza
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Diritto processuale civile
Conclusioni
La sentenza in commento, fondandosi sul principio, secondo noi criticabile, dell’esistenza di un
doppio termine per l’opposizione tardiva e, in particolare, di un dies a quo mobile con decorrenza
dalla conoscenza del decreto ingiuntivo e di un dies
ad quem fisso, ossia i dieci giorni dal primo atto
d’esecuzione, sanziona con l’inammissibilità l’opposizione tardiva proposta dalla società intimata perché effettuata oltre il termine di quaranta giorni
calcolati “a ritroso” fino al momento della notifica
del precetto.
Si scontra, tuttavia, con questa interpretazione
quanto affermato, anche da autorevole dottrina,
sull’impossibilità di evincere un termine mobile dal
disposto dell’art. 650 c.p.c. potendosi, invece, far
riferimento al solo termine previsto dall’ultimo
comma dell’articolo stesso.
Che la costruzione sia artificiosa si desume anche
dalla evidente necessità di interpretare la nozione
di conoscenza del decreto ingiuntivo ritenendola,
come indicato nella motivazione della sentenza in
commento, né equivalente a quella di notifica dell’intero decreto, né a quella di produzione in giudizio dello stesso decreto; con la conseguenza che l’unica soluzione predicabile sarebbe, secondo il giudicante, quella di estendere il principio espresso in
sede di legittimità sull’idoneità anche di un atto di
pignoramento invalido a costituire un primo atto
di esecuzione, anche alla notifica del precetto. In
pratica la notifica del precetto viene ad assurgere a
momento di conoscenza del decreto ingiuntivo rispetto alla quale può computarsi a ritroso il termine dei 40 gg. asseritamente applicabile alla fattispecie. Il precetto, fatto uscire dalla porta, rientra
in sostanza dalla finestra; esso è atto preliminare
(17) Senza pretese di completezza basti ricordare che la
giurisprudenza dominante considera il precetto quale atto stragiudiziale preliminare all’esecuzione: in termini Cass. 18 luglio
1991, n. 8043; Cass. 27 giugno 1990, n. 6544; Cass. 11 gennaio 1990, n. 46; nella dottrina cfr. N. Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013, 528 secondo cui il precetto è un atto preliminare all’esecuzione forzata e consiste in una diffida
da parte del creditore al debitore affinché adempia all’obbligazione indicata nel titolo esecutivo in un termine non inferiore a
1150
dell’esecuzione e quindi atto non valido secondo la
giurisprudenza dominante ad integrare il “primo atto dell’esecuzione” idoneo a far decorrere l’unico
effettivo termine previsto dall’art. 650 c.p.c. e, tuttavia, nella ricostruzione della sentenza in commento diviene atto valido a far decorrere il diverso, ipotetico, non legislativamente previsto, termine di 40 giorni computabili a ritroso fino al dies a
quo mobile della “conoscenza” del decreto (17).
L’opinione non è sorretta dal dato normativo e
sconta il rischio, già evidenziato, di forzare il dato
testuale; nel rinviare, infatti, al remoto precedente
del 1960 la sentenza in commento infatti ricorda
che questa pronuncia aveva potuto computare a ritroso l’ipotetico termine “ordinario” (allora di venti giorni) fino alla notifica del precetto solo a patto
di verificare “analogicamente” l’esistenza degli stessi requisiti previsti dall’art. 327, capoverso, c.p.c.
Che di estensione analogica possa parlarsi in relazione ad una norma speciale è dubbio; ma ancor
più dubbio è che possa ancorarsi la “conoscenza”
del decreto alla notifica del precetto e non del primo atto dell’esecuzione; la norma dell’art. 650
c.p.c. è infatti chiara nel menzionare il primo atto
esecutivo ed è solo in relazione ad esso che può
predicarsi il principio secondo cui anche un pignoramento nullo o inefficace può comportare la conoscenza del decreto in base al principio generale
posto dall’art. 156 c.p.c. (18). Correlarla, viceversa,
alla notifica del precetto invocando il principio di
uguaglianza sostanziale significa, oltre alla arbitraria deduzione di un termine diverso da quello dei
dieci giorni testualmente indicati, estendere l’applicazione della previsione normativa ad ipotesi
non in essa annoverabili, nemmeno a costo di forzature del dato testuale.
dieci gg., con l’avviso che, diversamente, si procederà ad esecuzione forzata.
(18) Sulla soluzione adoperabile qualora anche dopo l’inizio
dell’esecuzione forzata continui ad esservi l’ignoranza del decreto ingiuntivo o, comunque, l’impossibilità di proporre l’opposizione tardiva, ad esempio a causa di una nullità della notifica del pignoramento, si vedano le pagine di A. Tedoldi, sub
art. 650 c.p.c., cit., 862-863 con ulteriori richiami.
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Itinerari della giurisprudenza
La diagnosi genetica
preimpianto nell’evoluzione
giurisprudenziale
a cura di Daniela De Francesco
Il contributo prende in esame l’elaborazione giurisprudenziale intervenuta in materia di diagnosi preimpianto a partire dall’entrata in vigore della L. 19 febbraio 2004, n. 40, mettendo in luce il cambiamento interpretativo che ha portato alla sua affermazione come diritto e non più come delitto.
Il quadro normativo di
riferimento
La diagnosi genetica preimpianto (d’ora in poi, per brevità, anche DGP) consiste in un
accertamento, realizzato prima dell’impianto, su embrioni creati in vitro, al fine di conoscerne le condizioni di salute - in termini di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche - con una certa attendibilità (pari al 90-93%).
Prima del 2004, la DGP non era oggetto di critiche - e, anzi, veniva abitualmente praticata - in quanto, mancando una regolamentazione specifica della procreazione medicalmente assistita, le valutazioni rispetto alla correttezza del comportamento da seguire erano rimesse all’éndoxon della scienza ed all’autonomia privata della paziente. Solo con
l’entrata in vigore della L. 19 febbraio 2004, n. 40, la diagnosi in discorso non è stata più
eseguita dalle strutture sanitarie, nonostante - è bene notarlo - non sia riscontrabile alcuna disposizione, nella stessa legge, che la vieti esplicitamente. Eppure si è immediatamente diffusa l’opinione che la suddetta tecnica fosse oggetto di divieto e suscettibile,
per questo, di sanzione penale. Responsabile di tale convinzione è stata, in effetti, la
scarsa chiarezza del dato normativo e la sua intrinseca contraddittorietà. A ben vedere, il
testo della legge si articola sotto questo aspetto in disposizioni che implicitamente parrebbero vietare la praticabilità della DGP (art. 1, art. 13, comma 2 e comma 3, lett. b),
art. 14, comma 1 e comma 2) e disposizioni che, al contrario ed egualmente in modo implicito, ne consentirebbero la realizzazione (art. 14, comma 5).
L’intentio legis
Nello specifico, l’art. 1 della legge in discorso chiarisce l’intentio legis, la quale si concreta nel consentire il ricorso alla procreazione medicalmente assistita al solo fine di favorire
la soluzione di problemi riproduttivi derivanti da sterilità o da infertilità umana, nel rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. L’interpretazione che può
trarsene e che porta ad inserire questa norma nell’alveo di quelle che si pongono ad
ostacolo della DGP è nel senso di ritenere che la legge sulla procreazione medicalmente
assistita si limiti a porre rimedio alle malattie, note o ignote, che in qualsiasi modo producano la sterilità di una coppia, consentendo a quest’ultima di avere figli, ma ed è qui
l’elemento avversativo di averli in condizioni analoghe a come, per natura, potrebbe
averli una coppia fertile. Senza alcuna possibilità, cioè, di selezionarli prima che entrino a
contatto con l’utero materno. Può dirsi, allora, che la ratio sottesa nell’art. 1 sia l’imitatio
naturae, la quale si concreta nel rispetto della casualità, che è tipica della natura stessa e
che ne garantisce l’assoluta imparzialità. Una ratio che si impone e si oppone persino al
volere della donna: ogni donna ogni coppia dovrebbe accettare l’impianto di ogni singolo
embrione prodotto senza discriminazioni, senza selezione, senza remore alcune. Ed è
per questo che non potrebbe consentirsi la DGP: metterebbe la futura madre in condizione di effettuare delle scelte, deviando da ciò che la natura ha previsto per lei (i sostenitori
di questa tesi non vedono come ostacolo nemmeno il fatto che si pretenda di assecondare la natura in una pratica che, per sua stessa essenza, è l’esatto contrario, in quanto
artificiale). In quest’ottica, il “dovere del caso” ricadente sulla donna, così come sull’uomo e sul personale sanitario comporterebbe un corrispettivo “diritto al caso”, attribuibile
all’embrione, il quale conseguentemente potrebbe pretendere di non essere discriminato
e, dunque, soggetto a selezione, ricerca, manipolazione o soppressione sulla base del
proprio patrimonio genetico e cromosomico.
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Itinerari della giurisprudenza
Le singole condotte
lesive
Esaminando le singole condotte lesive del succitato diritto, per quel che concerne la prima il divieto si rinviene nell’art. 13, comma 3, lett. b), il quale proibisce esplicitamente
ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti. Ciò che può
trarsene è che la DGP possa dirsi vietata nella misura in cui essa semplicemente consenta di realizzare la selezione degli embrioni. Così interpretando si attribuiscono, però, alla
tecnica in esame più responsabilità di quelle che, in verità, le sono proprie. La diagnosi
preimpianto è, infatti, uno strumento neutro, che consente sì di giungere alla selezione,
ma non la implica necessariamente. Non bisogna poi dimenticare un elemento importante del dato normativo in esame: il riferimento al carattere eugenetico della selezione,
indispensabile affinché questa possa rientrare nel divieto.
L’eugenetica è, in effetti, la prima delle preoccupazioni da cui muove il dibattito dottrinale con riferimento alla diagnosi preimpianto. Ciò che si teme è che tale tecnica diagnostica venga, in realtà, adoperata per realizzare manipolazione genetica, con fini selettivi.
C’è chi sostiene che sia proprio questo riferimento l’elemento atto a restringere l’ambito
dell’illecito, determinando l’esclusione della DGP laddove non rivolta agli scopi vietati. Altri, contrariamente, sostengono che debba considerarsi eugenetico qualsiasi mezzo di
selezione (rectius qualsiasi mezzo da cui scaturisca la possibilità di una selezione) e che,
in ogni caso, la diagnosi preimpianto sarebbe vietata alla stregua delle ulteriori disposizione presenti nel comma in discorso. La norma, infatti, vieta altresì ogni intervento che,
attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimento artificiale sia diretto ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete, ovvero
a predeterminarne caratteristiche genetiche, ponendo come esclusiva eccezione gli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche.
In quest’ultimo senso si pone l’art. 13, comma 2 che, regolamentando la ricerca clinica e
sperimentale sugli embrioni, ne stabilisce la praticabilità a condizione che si perseguano
finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte, cioè, alla tutela della salute e
dello sviluppo dell’embrione stesso prevedendola in ogni caso come via residuale, consentita unicamente qualora non siano disponibili metodologie alternative. La diagnosi
preimpianto si ritiene nell’ottica di chi nega la sua legittimità non rientrante in questi limiti, in quanto non indirizzata alla cura dell’embrione, come vorrebbe il suddetto comma.
Di poi, l’art. 14, comma 1, prevedendo che sia da considerarsi vietata la crioconservazione e la soppressione di embrioni, rappresenta una specificazione del divieto di selezione
di cui si è detto. Di nuovo, siccome la DGP potrebbe essere funzionale alla selezione degli embrioni e, più specificatamente, alla loro crioconservazione o eliminazione, allora dovrebbe ritenersi implicitamente vietata.
Infine, l’art. 14, comma 2, ponendo limiti al numero di embrioni che è possibile creare ai
fini dell’impianto, sottende la medesima ratio dell’art. 13, comma 3, lett. b): è vietato selezionare gli embrioni, dunque, è vietata la DGP.
Il diritto di informazione
sullo stato di salute
dell’embrione
D’altro canto non può dimenticarsi che, come si segnalava poc’anzi, esiste un altro lato
della medaglia, racchiuso sempre nella medesima legge, frutto, dunque, dello stesso legislatore e meritevole, pertanto, di pari valore e considerazione: l’art. 14, comma 5. Esso
determina un diritto di informazione in capo alla coppia che si avvale della procreazione
medicalmente assistita, in merito al numero e, su loro richiesta, allo stato di salute degli
embrioni prodotti e da trasferire nell’utero. A tale diritto corrisponde un obbligo del personale sanitario di fornire alla coppia i dati informativi più completi ed attendibili, allo stato della tecnica. È importante sottolineare come la diagnosi genetica preimpianto risulti,
ad oggi, l’unica strumento idoneo a tale fine. È lecito domandarsi, allora, che senso abbia prevedere una norma la quale consente di poter conoscere lo stato di salute dell’embrione, se inserita in un cotesto legislativo che si pone come impeditivo della sua concreta attuazione. Cioè a dire: che senso avrebbe garantire un diritto, se poi non ci fosse modo di esercitarlo lecitamente?
Le Linee Guida
Pur vero che nella L. n. 40/2004 non vi è alcun riferimento esplicito alla DGP, non può
non darsi nota del fatto che vi è un testo normativo - seppur fonte di rango secondario nel quale essa trova espressa menzione: le cc.dd. Linee Guida (D.M. 21 Luglio 2004, Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita, in G.U., 16 agosto 2004, n.
191; D.M. 11 aprile 2008. Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita, in
G.U., 30 aprile 2008, n. 101; D.M. 1° luglio 2015, Linee guida in materia di procreazione
medicalmente assistita, in G.U., 14 luglio 2015, n. 16) le quali, come si vedrà, sono state
per questo oggetto di ampia elaborazione giudiziaria. Esse, in effetti, nella loro prima formulazione, prevedevano il divieto di ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, prescrivendo che gli accertamenti rispetto alla salute dell’embrione di cui al comma 5 dell’art. 14 della L. n. 40/2004 dovessero ottemperarsi unicamente a mezzo di indagini di tipo osservazionale. Stante il ribadito riferimento all’eugenetica, non può non rimarcarsi,
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in ogni caso, che la DGP di per sé, concede solo delle possibilità, consistenti nel permettere ai futuri genitori di porre in atto delle scelte. Scelte sì consequenziali poiché poste
ad esito dei risultati da essa ottenuti ma non obbligate. Lo strumento in discorso consente, infatti, di conoscere e per vero di valutare e di scegliere, ma non impone nulla: non c’è
nessuna decisione che possa dirsi necessaria ed inevitabile conseguenza della DGP.
Non solo. Non è da trascurarsi nemmeno la posizione della donna che - in quanto essere
umano attuale - deve essere maggiormente tutelata rispetto all’essere umano potenziale
(Corte cost. 18 febbraio 1975, n. 27, in Giur. cost., 1975, 117; Dir. fam. e pers., 1975,
375; in Dir. fam. e pers., 1975, 385, in Dir. fam. e pers., 1975, 595). Ciò assume rilievo
con riferimento anche alla L. 22 maggio 1978, n. 194, la quale disciplina l’interruzione
volontaria della gravidanza, nell’ottica di salvaguardia e preminenza della salute e della
vita della donna. Difatti, la diagnosi genetica preimpianto è considerata dal mondo scientifico un perfezionamento delle tecniche di diagnosi prenatale, poiché ne amplia e ne anticipa le possibilità operative, consentendo di intervenire prima del trasferimento dell’embrione nell’utero, piuttosto che successivamente all’instaurarsi della gravidanza. Ne deriva che se non si ritiene che l’aborto terapeutico il quale potrebbe conseguire ad una diagnosi prenatale sia una forma di eugenetica, altrettanto non dovrebbe ritenersi tale la richiesta di non impiantare un embrione prodotto in vitro se, ad esito di una DGP, questo
risultasse essere malato. Diversamente si incorrerebbe nel paradosso di tutelare maggiormente l’embrione rispetto al feto, lo stato iniziale rispetto a quello più avanzato.
Il quadro normativo così delineato ha generato incertezze, rendendo arduo il compito applicativo dei giudici.
La DGP come delitto
Il primo giudice posto dinanzi alle difficoltà applicative della legge sulla procreazione medicalmente assistita è stato il Trib. Catania 3 maggio 2004, n. 40, ord. (in Foro it., I,
2004, 3498; in Giust. civ., 2004, 2447, in Dir. fam. e pers., 2005, 75; in Giur. cost., 2008,
3669, in Dir. fam. e pers., 2005, 549). La questione è sorta - come molte a seguire - con
riferimento ad una coppia affetta da malattie genetiche trasmissibili al feto, la quale chiesta la diagnosi preimpianto - aveva ottenuto in risposta un netto rifiuto.
Ad opinione del giudice adito, era da ritenersi lecita la posizione assunta dalla struttura,
in quanto rispondente alla scelta compiuta dal legislatore nello stabilire - come unica finalità della legge - quella di favorire la risoluzione di problemi riproduttivi derivanti dalla
sterilità o infertilità umana, consentendo così alle coppie che ne fossero affette di avere
figli, a condizioni analoghe a quelle della procreazione naturale. Senza la facoltà, cioè, di
selezionare i nascituri sani e malati, eliminando questi ultimi.
Al contrario, i ricorrenti sostenevano che, in tal modo, non si sarebbe data corretta applicazione al concetto di eguaglianza, limitandosi solo alla sua dimensione formale e non
tenendo impropriamente in debita considerazione anche quella di carattere sostanziale,
la quale impone di trattare in modo diverso situazioni che risultano essere diverse, per riservare nel complesso il medesimo trattamento a tutti i cittadini.
Secondariamente, il giudice ha valutato il richiamo che nella L. n. 40/2004 è fatto alla L.
22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione
volontaria della gravidanza), ritenendo che la suddetta non consentisse alla donna di praticare l’aborto in maniera arbitraria, condizionandolo invece alla presenza di specifici presupposti. Ha reputato, quindi, doveroso ritenere giuridicamente infondata l’affermazione
dell’esistenza di un diritto della donna di abortire i figli malati in quanto tali, e ancor più
l’affermazione di un tale diritto come preesistente alla gravidanza. In questo modo, però
- è innegabile - si è giunti al paradosso di fornire all’embrione una tutela persino maggiore di quella del feto, contrariamente a quanto dovrebbe ragionevolmente essere.
Ad esito di tali riflessioni, il Tribunale di Catania ha rigettato in toto le domande della parte attrice ritenendo che non facesse parte dei diritti della persona né della sua integrità
psicofisica la possibilità di selezionare eugeneticamente i figli.
L’anno successivo, dinanzi al T.A.R. Lazio 9 maggio 2005, n. 3452 (in Foro it., 2005,
518; in Giur. cost., 2008, 3696) sono state messe in discussione le Linee Guida ministeriali, elaborate in ottemperanza dell’art. 7 della legge in discorso. Ricorrente, questa volta, è stata un’associazione - la WARM (World Association Reproductive Medicine) - in
quanto rappresentante degli interessi collettivi di medici o strutture sanitarie operanti in
materia di PMA. La contestazione che si è mossa avverso la disciplina secondaria, è
quella dell’eccesso di potere, ravvisato in termini di ingiustizia manifesta, irrazionalità e
violazione dei principi comuni in materia di tutela della salute. Si è ritenuto, in sostanza,
che le Linee Guida stabilendo il divieto di ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica
e prevedendo che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni dovesse essere esclusivamente di tipo osservazionale aggravassero lo stesso testo della legge (art.
13), andando oltre così allo scopo di specificazione loro caratteristico. Anzitutto in quanto, parlando di “ogni diagnosi preimpianto”, sembrava volessero attribuire a questo stru-
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mento di accertamento una finalità in tutti i casi eugenetica, qualificando con la stessa
qualsiasi DGP; successivamente, perché restringendo l’indagine al solo aspetto osservazionale, non permettevano questo tipo di interventi, nemmeno quando posti nell’interesse del concepito.
Ciò è risultato essere oltremodo in contrasto con la Costituzione e, nello specifico, con il
diritto alla salute (art. 32 Cost.), la libertà della ricerca scientifica e dell’arte medica (art.
33 Cost.), ma anche si è fatto notare con la Convenzione di Oviedo, ratificata dall’Italia
con L. 28 marzo 2001, n. 145, poiché in essa la modalità di accertamento genetico in
esame non è considerata come prassi eugenetica, se indirizzata alla tutela della salute e
a quegli scopi diagnostici e terapeutici per cui la stessa norma di legge interna consente
l’intervento sugli embrioni, qualora non siano possibili metodologie alternative.
Il giudice ha ritenuto, però, che questo contrasto, ravvisabile prima facie, in realtà dovesse considerarsi solo apparente e ciò per via della mancata esistenza di terapie geniche in
grado di curare un embrione malato. Essendo quello lo stato dell’arte, il divieto di diagnosi preimpianto risultava coerente con la L. n. 40, ed in particolare con quanto prescritto dall’art. 13, poiché diversamente tale tecnica, invece di essere effettuabile nell’interesse ed a tutela del concepito, sarebbe risultata unicamente uno strumento nell’interesse ed a tutela della donna (o della coppia). E, con riferimento a questo rimanendo nel
contesto delle coppie portatrici di malattie genetiche palese sarebbe stata l’incostituzionalità della legge che avesse trattato in modo diverso tale categoria di soggetti, a seconda che fossero o meno stati sterili, in quanto solo nel primo caso vi sarebbe stata la possibilità di scegliere il figlio sano.
Le sorti delle Linee Guida 2004 sono state definite, però, da una successiva pronuncia
del T.A.R. Lazio 21 gennaio 2008, n. 398 (in Giur. it., 2008, 1901; Foro amm. TAR, 2008,
1042, in Giur. cost., 2008, 2735; in Giur. mer., 2008, 1144), posta in prosecuzione della vicenda WARM: in tale occasione il Tribunale ha concluso che le previsioni contestate fossero da ritenersi illegittime per vizio di eccesso di potere e, conseguentemente, ne ha decretato l’annullamento. A seguito di ciò, con D.M. del 30 aprile 2008, sono state elaborate le nuove Linee Guida, con D.M. 11 aprile 2008 nelle quali è scomparsa la previsione
oggetto di contestazione, permanendo unicamente il divieto di diagnosi avente finalità
eugenetica. Inoltre, il T.A.R. ha ritenuto di rimettere alla Corte costituzionale la valutazione di legittimità rispetto all’art. 14 commi 2 e 3, L. n. 40/2004, per contrasto con gli artt.
3 e 32 Cost.
Per vero, la Consulta era già stata interpellata con riferimento alla legge sulla PMA (Trib.
Cagliari 16 luglio 2005, ord., in D&G, 2005, 24; in Dir. fam. e pers., 2005, 183; in D&G,
2005, 14; in Resp. civ. prev., 2005, 1412) in merito alla legittimità costituzionale dell’art.
13, rispetto agli artt. 2, 3 e 32, comma 1, Cost. nella parte in cui non prevedeva la possibilità di diagnosi preimpianto, nemmeno laddove si rendesse necessaria per tutelare il diritto alla salute della donna. La Corte cost. 9 novembre 2006, n. 369, ord. (in Foro it.,
2007, 698, in Riv. it. medicina legale, 2007, 1149, in Giur. cost., 2006, 3831), si era, così,
pronunciata pur senza intervenire sul piano sostanziale concludendo nei termini della
manifesta inammissibilità della questione sollevata. Ciò non per motivi di merito, bensì
perché il giudice rimettente aveva omesso di impugnare altri articoli di legge da cui si sarebbe desunto il divieto oggetto di valutazione.
La DGP come diritto
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Dopo questo iniziale atteggiamento di chiusura verso la DGP, nel 2007 è stato adito il
Trib. Cagliari 24 settembre 2007 (in Dir. di fam. e pers., 2008, 260, in Giust. civ., 2008,
1553, in Dir. di fam. e pers., 2010, 752-755), il quale è intervenuto con una decisione a
cui può attribuirsi il merito di aver aperto una via nuova, giungendo là dove non si era
spinta pochi mesi prima la Consulta. Per la prima volta, difatti, un giudice ha riconosciuto la praticabilità della diagnosi genetica preimpianto, seppur quando rispondente alle
seguenti caratteristiche:
- sia stata richiesta dai soggetti che si sottopongono a PMA, ex art. 14, comma 5, L. n.
40/2004;
- abbia ad oggetto gli embrioni destinati all’impianto nel grembo materno;
- sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie dell’embrione e finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare.
A giustificazione di questo revirement si è posta anzitutto la mancanza di un esplicito divieto, la quale si è considerata non attribuibile ad una svista del legislatore: i rischi temuti
l’eugenetica e le possibili strumentalizzazioni sono stati compiutamente presi in considerazione dal dettato normativo il quale, difatti, si caratterizza per uno stile di chiara e decisa presa di posizione in ordine alla prevalenza di determinati interessi - evidentemente ritenuti maggiormente meritevoli rispetto ad altri - per la cui tutela è stata approntata una
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fitta rete di specifici divieti e di dettagliati obblighi, la cui violazione è spesso sanzionata
anche penalmente (così l’art. 13, comma 3, lett. b), che sancisce l’illiceità della selezione
di embrioni a scopo eugenetico e punisce le violazioni con una pesante sanzione penale,
ma anche i commi 1 e 2 del suddetto, che vietano la sperimentazione e la ricerca se non
a fini terapeutici e diagnostici; l’art. 4, che esclude la possibilità di ricorrere alla PMA per
le coppie non sterili ma portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili). Dunque non
può dirsi ad avviso del giudice che il legislatore abbia detto meno di quanto avrebbe voluto, dal momento che laddove ha ritenuto opportuno porre divieti è prontamente intervenuto a farlo. Per cui la mancanza degli stessi è risultata essere una scelta, non una svista.
Non solo, il giudice adito ha osservato che la tesi della non praticabilità della DGP anche
nei casi in cui sia finalizzata alla soddisfazione del diritto di cui all’art. 14, comma 5, è da
ritenersi censurabile anche con riferimento al principio di tassatività che caratterizza la
materia penale, in base al quale deve essere bandita ogni interpretazione che comporti
un’estensione, oltre l’ambito previsto dalla legge, dei comportamenti punibili con sanzione penale.
Ed anzi, ha ritenuto che le fattispecie penalmente rilevanti delineate non comprendono
la diagnosi preimpianto quando l’accertamento diagnostico - che diversamente sarebbe
precluso al sanitario - trovi giustificazione nell’esigenza di assicurare la soddisfazione del
diritto, specificamente riconosciuto dall’art. 14, comma 5, ai futuri genitori. In questi casi, negare l’ammissibilità della diagnosi preimpianto significherebbe rendere impossibile
un’adeguata informazione sul trattamento sanitario da eseguirsi, indispensabile invece
sia nella prospettiva di una gravidanza pienamente consapevole, sia in funzione della salute gestazionale della donna, la quale è portatrice a sua volta di individuali interessi costituzionalmente rilevanti. In questa ipotesi non è da ritenersi giustificata una tutela pressoché assoluta dell’embrione, bensì è da considerarsi preminente l’esigenza di un bilanciamento che veda semmai prevalere, in certi casi, i diritti costituzionalmente garantiti
dei soggetti che alle tecniche di procreazione medicalmente assistita abbiano avuto legittimo accesso, ed in particolare della donna, in quanto destinata ad accogliere nel suo
grembo l’embrione così prodotto. Si è giunti, allora, alla conclusione che l’interpretazione
restrittiva la quale negava la praticabilità della diagnosi preimpianto dovesse essere respinta in quanto accettarla avrebbe significato dare una lettura incostituzionale alla disciplina in esame, con riferimento agli artt. 2, 3, 32 Cost.
Su questa scia si è posta anche la pronuncia del Trib. Firenze 17 dicembre 2007 (in
Giur. mer., 2008, 1002; Fam. pers. succ., 2008, 419), il quale non si è sottratto dall’assumere una posizione netta rispetto alla questione, sostenendo che pensare che si debba
procedere all’impianto per poi - a seguito della valutazione clinica del feto - avviare un’interruzione volontaria della gravidanza è da ritenersi “non solo irrazionale ma addirittura
fuori dal senso morale”. Posto che questa sarebbe l’immediata conseguenza del riconoscere l’esistenza di un divieto di diagnosi preimpianto, il giudice ha, quindi, valutato che
fosse doveroso ritenere la stessa assolutamente legittima.
Il Tribunale di Firenze ha emesso, nel medesimo anno, due nuove ordinanze (n. 323 e n.
382) che, insieme alla citata sentenza del T.A.R. Lazio, hanno costituito i presupposti giudiziali per la decisione - la n. 151/2009 - della Corte cost. (Corte. cost. 8 maggio 2009,
n. 151, in Giur. cost., 2009, 1656, in Dir. fam. e pers., 2009, 1033; in Giust. civ., 2009,
1184).
In questa sede, diversamente dalla prima pronuncia, la Consulta è intervenuta con nettezza, confermando che la tutela apprestata all’embrione non è da ritenersi assoluta,
bensì è limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle
esigenze di procreazione. Ed è solo il medico ad essere in grado di soddisfare al contempo le aspettative della coppia e quelle degli embrioni, in accordo con il principio sancito
all’art. 1 della L. 40/2004 di garanzia per i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il
concepito (ma assolutamente non esclusi gli altri). Dunque, la Corte non ha fatto altro
che rendere la legge coerente con i suoi stessi obiettivi.
Le pronunce a seguire consolideranno sempre più questa positio. Così il Trib. Bologna
29 giugno 2009 (in Giur. mer., 2009, 3000; in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 446), il quale
ha considerato la diagnosi preimpianto come un esame compiuto allo scopo di proteggere la futura gestante, scongiurando il pericolo per la sua salute, proveniente dalla presenza di malattie o di malformazioni del feto. Per questo motivo, il giudice adito ha ritenuto che il divieto di accesso alla tecnica in discorso avrebbe costretto la donna a prendere una decisione non informata ed inconsapevole in ordine al trasferimento in utero
degli embrioni creati in vitro, con il rischio di metterne in pericolo la salute. Assumendo,
inoltre, che la legittimità della diagnosi preimpianto trovi saldo fondamento nella decisione della Corte costituzionale la quale ha posto chiaramente in primo piano la tutela della
salute fisica e psicologica della madre ha reputato ammissibile la diagnosi preimpianto,
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nonché il diritto di abbandonare l’embrione risultato malato e di ottenere il solo trasferimento di quello sano.
Di poi, la giurisprudenza non si è limitata a ribadire il principio della piena legittimità della
diagnosi preimpianto, ma si è spinta ad affermare che di tale tecnica si possa avvantaggiare anche la coppia fertile, se affetta da una patologia geneticamente trasmissibile.
Così il Trib. Salerno 9 gennaio 2010 (in Dir. fam. e pers., 2010, 745, in Dir. fam. e pers.,
2010, 1737; in Giur. mer., 2010, 1289), il quale ha dovuto affrontare la questione con riferimento ad una coppia non sterile, né infertile, benché in ogni caso portatrice di una malattia geneticamente trasmissibile. La diagnosi preimpianto è stata considerata, in tale
sede, una normale forma di monitoraggio con finalità conoscitiva della salute dell’embrione, la cui mancanza è idonea - anzi - a dare luogo a responsabilità medica. Ciò in
quanto essa è da ritenersi uno strumento per l’esercizio del “diritto al figlio”, per di più
sano, facente capo alla donna. Diritto soggettivo, da ascriversi tra quelli inviolabili ai sensi dell’art. 2 Cost. Conseguentemente, anche le scelte consapevoli relative alla procreazione devono essere inserite tra i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati. Se così
non fosse, i suddetti diritti verrebbero irrimediabilmente lesi, per cui solo la procreazione
medicalmente assistita, attraverso la diagnosi preimpianto - e quindi l’impianto solo degli
embrioni sani, legittimabile attraverso una lettura “costituzionalmente” orientata dell’art.
13 - può consentire di scongiurare un simile rischio. Lungi dal considerarla delitto, la
DGP viene inquadrata piuttosto come funzionale alla soddisfazione dell’interesse dei futuri genitori ad avere adeguata informazione sullo stato di salute dell’embrione prodotto
in vitro.
La problematica ha assunto, poi, portata tale da divenire oggetto di valutazione non solo
a livello interno, ma anche in ambito sovranazionale. La Cedu 28 agosto 2012 (Costa e
Pavan c. Italia, in Dir. fam. pers., 2013, 19, in Riv. dir. int., 119 e segnalata in Osservatorio,
in questa Rivista, 2012, 11, 1380) si è espressa nel 2012, dando vita al caso conosciuto
come Costa-Pavan c. Italia. All’origine della decisione vi era una fattispecie analoga a
quella affrontata dal Tribunale di Salerno (di cui si è detto supra) prospettata, in questo
caso, come violazione degli artt. 8 e 14 della CEDU. La Corte ha ravvisato un’incoerenza
nel sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto, dal momento che costringe i soggetti coinvolti, per tutelare il loro diritto a mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia di cui sono portatori sani, a procedere ad interruzioni mediche della
gravidanza qualora l’esame prenatale (DPN) dovesse rivelare che il feto è affetto da malattia. Pertanto, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che si configurasse la violazione
lamentata, quantomeno con riferimento all’art. 8 della CEDU, in quanto ne sarebbe derivata un’ingerenza sproporzionata sul diritto alla vita privata e familiare.
A seguito delle suddette vicende giurisprudenziali, il Trib. Cagliari 12 novembre 2012
(in Giur. mer., 2013, 1037) nuovamente chiamato ad esprimersi sulla questione, è giunto
a statuire che non vi fosse dubbio che la diagnosi genetica preimpianto dovesse considerarsi pienamente ammissibile, a salvaguardia della compatibilità della L. n. 40 del
2004 con i principi del nostro ordinamento giuridico. All’origine di tale convinzione ha
posto l’idea che la PMA debba ritenersi un trattamento medico e, pertanto, occorre che
si fondi sul consenso informato quale vero e proprio diritto della persona, sintesi di due
diritti fondamentali: il diritto all’autodeterminazione ed il diritto alla salute. Nell’ottica di
una procreazione consapevole, la DGP assume, allora, la funzione di consentire alla donna una decisione informata in ordine al trasferimento degli embrioni creati ovvero al rifiuto dello stesso. È stata così confermata, ancora una volta, la prevalenza della salute della
futura gestante - nonché della piena informazione e conseguente autodeterminazione sull’interesse all’integrità dell’embrione. Pertanto l’ammissibilità del trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani della patologia non è stata ritenuta funzionale
ad un ipotetico “diritto al figlio sano”, né a pratiche eugenetiche le quali a giudizio del tribunale sono state considerate, anzi, decisamente differenti rispetto alla questione oggetto di trattazione.
Di poi anche il Trib. Roma il quale, con due ordinanze di identico contenuto (15 gennaio
2014, n. 96, ord., in Foro it., 2014, 574; 28 febbraio 2014, n. 86, ord., in G.U. n. 24 del 4
giugno2014, 1a Serie Speciale - Corte costituzionale), ha escluso la sussistenza di un divieto sia della DGP sia della selezione preimpianto, finalizzata ad impedire il trasferimento, nell’utero della donna, dei soli embrioni non affetti da gravi patologie. Ha statuito
questo, non solo a seguito delle valutazioni fatte nelle precedenti pronunce, bensì anche
per rispetto del più generale principio del consenso informato, ritenendo che la facoltà di
prestare il consenso che contempla in sé la possibilità del rifiuto attribuisca alla coppia
non solo il diritto alla diagnosi degli embrioni, ma altresì il diritto di rifiutare l’impianto degli embrioni malati. Si è confermata, in tal modo, la valutazione - già espressa nel corso
di questa trattazione - per la quale la selezione può dirsi solo conseguenza eventuale della DGP, in quanto sua primaria funzione è quella di rendere consapevoli e preparati i
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membri della coppia. Ribadendo che nella legge non è riscontrabile alcun divieto verso
la DGP e che, anzi, prevederlo risulterebbe irragionevole ed incongruente in prospettiva
della liceità della diagnosi prenatale e dell’aborto terapeutico, il giudice adito ha concluso rimarcandone - piuttosto - l’importanza, in quanto è attraverso la suddetta diagnosi
che viene ad essere tutelato sia il diritto all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti, sia
il diritto alla salute della futura gestante.
Le ordinanze citate hanno rimesso, nuovamente la questione alla Corte cost. 5 giugno
2015, n. 96 (in questa Rivista, 2015, 2, 186; in Foro it., 2015, 2250, e in Nuova giur. civ.
comm., 2015, 930). In tale sede la Consulta conclude nel seguente modo: “dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 1° e 2° comma, e 4, 1° comma, l. 19 febbraio 2004
n. 40 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non
consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, 1° comma, lett. b), l. 22 maggio 1978 n. 194 (norme per la tutela sociale della
maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture
pubbliche”, la quale ha ribadito la palese antinomia normativa già rilevata dalla Corte di
Strasburgo, in quanto il sistema normativo non consente - pur essendo scientificamente
possibile - di far acquisire alla donna, prima dell’impianto, un’informazione che le permetterebbe di evitare di assumere, in seguito allo stesso, una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute. Senza, peraltro, che la lesione così arrecata a tale diritto possa
trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, nell’esigenza di tutela del
nascituro, il quale sarebbe comunque esposto al rischio di un’interruzione volontaria della gravidanza.
Medesime considerazioni hanno portato, da ultimo, il Trib. Napoli 3 aprile 2014, n. 149,
ord. (G.U. 17 aprile 2014, n. 39, 1a Serie Speciale - Corte costituzionale) a sollevare questione di costituzionalità, con riferimento all’art. 13, comma 3, lett. b) e comma 4, L. n.
40/2004, in relazione agli artt. 3 e 32, Cost. e 117, comma 1, Cost. ed all’art. 8 CEDU,
nella parte in cui prevede quale fattispecie di reato il divieto assoluto - senza alcuna eccezione - di selezione eugenetica degli embrioni, non facendo salva l’ipotesi in cui tale
condotta sia finalizzata all’impianto nell’utero della donna dei soli embrioni non affetti da
malattie genetiche o portatori sani di malattie genetiche; nonché all’art. 14, commi 1 e 6,
L. n. 40/2004, con riferimento agli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8
CEDU, nella parte in cui prevede quale fattispecie di reato il divieto assoluto - senza alcuna eccezione - di soppressione degli embrioni, non facendo salva l’ipotesi in cui tale condotta sia finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna degli embrioni affetti da
malattie genetiche.
La Corte cost. 11 novembre 2015, n. 229 (in Foro it., 2015, 12, 3749; www.ilquotidianogiuridico.it, 12 novembre 2015; in Dir. pen. proc., 2016, 64) ha ritenuto fondata la prima
questione, se non altro in considerazione del fatto che la suddetta era già stata oggetto
del vaglio di costituzionalità e, conseguentemente, quanto era divenuto così lecito non
poteva - per il principio di non contraddizione - essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante. A riconferma, dunque, della legittimità della diagnosi genetica preimpianto.
Per quel che concerne la seconda questione, invece, ne ha escluso la fondatezza, non ritenendo censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente
la condotta di “soppressione di embrioni”, ove pur riferita agli embrioni che in esito a
diagnosi preimpianto risultino affetti da grave malattia genetica. Ha addotto a motivazione di questo il fatto che la presenza di malformazioni non possa considerarsi di per sé
giustificativa di un trattamento deteriore rispetto a quello riservabile agli embrioni sani,
ritenendo, anzi, che debba riconoscersi in ogni caso parità di dignità e di tutela. A tali fini, l’unica risposta possibile si rivela essere - ad oggi - la procedura di crioconservazione,
la quale, senza incidere sul diritto all’autodeterminazione della donna, permette di salvaguardare la vita dell’embrione.
L’embrione, infatti, quale che sia il grado di soggettività riconosciutogli, non è certamente riducibile a mero materiale biologico.
Conclusioni
Alla luce di quanto osservato, sembra possibile concludere che sia mutata l’originaria valutazione negativa attribuita alla DGP. Si è, difatti, superato il timore che la tecnica diagnostica in discorso potesse consentire pratiche di natura eugenetica, non solo perché
non può considerarsi tale il semplice procedere ad una valutazione sullo stato di salute
degli embrioni; ma anche perché non è corretto equiparare sic et simpliciter le due forme
di eugenetica, positiva e negativa. Esse, invero, hanno obiettivi molto diversi essendo,
quella negativa, caratterizzata da fini terapeutici; quella positiva, volta al miglioramento
della specie umana. L’attività di selezionare, difatti, non implica di per sé una finalità eugenetica positiva. Oltretutto come ricordato la diagnosi preimpianto non è sinonimo di
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selezione e, pertanto, vietare ogni DGP perché si teme la finalità eugenetica comporterebbe una (ingiustificata) condanna per la coppia ad assumere una decisione non adeguatamente informata, non realmente consapevole, nonché non in grado di offrire tutela
alcuna alla madre e nemmeno all’embrione stesso, rimanendo quest’ultimo suscettibile
di essere oggetto di una successiva interruzione volontaria di gravidanza.
Di tutto questo danno debito conto le pronunce citate, le quali hanno avuto il merito di
oltrepassare i pregiudizi iniziali rispetto a tale tecnica, non mancando di fornire adeguata
tutela a tutti gli interessi coinvolti.
Va precisato che sono molteplici i fattori a cui può ascriversi il mutato atteggiamento
con riferimento al problema dell’eugenetica e, più in generale, il diverso approccio alla
DGP; a partire dal più evidente - l’assenza, nella legge, di un espresso divieto - continuando con quelli che gli interpreti hanno sapientemente individuato, nel tempo, come
determinanti ai fini della sua attuale considerazione, quali: la previsione del consenso informato nei confronti delle coppie; la tutela della loro autonomia privata e del diritto al rispetto della vita familiare; la distinzione tra la ricerca scientifica oggetto di divieto ex lege
e l’accertamento a fini terapeutici e diagnostici in cui si concreta la DGP; il rispetto del
principio di gradualità nella tutela e del richiamo alla coerenza con riferimento alla L. n.
194/1978 ed infine - ma non di minor rilievo - il preminente rispetto della donna, persona
ed essere umano attuale.
Sulla scorta del quadro giurisprudenziale appena delineato, la diagnosi genetica preimpianto deve ritenersi, dunque, una pratica non solo pienamente lecita, ma anche in grado di consentire un corretto bilanciamento tra tutti i diritti di primaria importanza che divengono protagonisti della vicenda procreativa.
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Giurisprudenza
Sintesi
Osservatorio della Corte
europea dei diritti dell’uomo
a cura di Antonella Mascia
ABUSIVISMO EDILIZIO
pROCEDIMENTO ESECUTIVO AVVERSO UN ORDINE DI
ABBATTIMENTO DI UNA COSTRUZIONE ABUSIVA E DIRITTO
AL RISPETTO DEL PROPRIO DOMICILIO
Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. V, 21 aprile
2016 - Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria (Violazione dell’articolo 8 della Convenzione e non violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione) (1)
Procedura davanti alla Corte
Con la sentenza del 21 aprile 2016 nel caso Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria (ricorso n. 46577/15), la Corte europea dei
diritti dell’uomo (d’ora in poi “Corte”) ha accertato, con sei
voti favorevoli ed uno contrario, la violazione dell’art. 8 della Convenzione, per violazione del diritto al rispetto del domicilio dei due ricorrenti, a causa dell’ordine di abbattimento della loro abitazione, costruita abusivamente.
La Corte ha ritenuto che lo Stato convenuto, nel decidere
per l’abbattimento della costruzione abusiva, non abbia tenuto conto degli interessi in gioco, da una parte l’interesse
pubblico al rispetto della norme edilizie, e dall’altra, il diritto
dei ricorrente ad avere un’abitazione, essendo quella abusiva l’unica in loro possesso. La Corte ha evidenziato che il
sistema interno, sia per le disposizioni legislative esistenti
che per le procedure esecutive esperibili, non permette alcuna valutazione discrezionale ed alcun bilanciamento degli interessi, ed è per questo motivo che è stata accertata
la violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Per contro, la Corte ha ritenuto che, sotto il profilo della tutela del diritto di proprietà, il margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato convenuto fosse molto più ampio, essendo in gioco, da una parte, l’interesse generale della comunità al rispetto delle norme edilizie e, dall’altra, il diritto
di proprietà dei ricorrenti, i quali erano coscienti di aver edificato abusivamente. Per tale ragione, la Corte ha dichiarato che non vi è stata violazione dell’art. 1 del Protocollo n.
1 alla Convenzione.
La Corte ha infine deciso di non esaminare il caso sotto il
profilo dell’art. 13 della Convenzione (diritto ad un ricorso
effettivo), avendo esaminato tale aspetto alla luce dell’art.
8 della Convenzione.
Ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, la Corte non ha riconosciuto alcunché a titolo di danni morali, ritenendo che
l’accertamento della violazione dell’art. 8 della Convenzione potesse essere un rimedio sufficiente. Invece per le spese e competenze legali, la Corte ha riconosciuto la somma
di 2.013,73 euro.
È stata allegata alla sentenza l’opinione parzialmente dissenziente del giudice Vehabovic.
IN FATTO
LE CIRCOSTANZE DEL CASO
omissis
5. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1959 e nel 1947
e vivono nella cittadina di Sinemorets, sulla costa meridionale del Mar Nero.
6. Essi vivono come una famiglia dal 1989. In quell’anno
essi risiedevano nella città di Burgas, dove la prima ricorrente possedeva un appartamento che, nel 2013, donò a
sua figlia, la quale vi ha vissuto con la sua famiglia per diversi anni.
7. Il padre e la madre della prima ricorrente possedevano
un appezzamento di terreno di 625 metri quadri in Sinemorets. Dopo il decesso del padre della prima ricorrente nel
1986 e in seguito ai procedimenti per la divisione delle proprietà tra la moglie e i sette figli superstiti, alla madre della
prima ricorrente furono assegnate 250 delle 625 quote del
lotto di terreno. Nel 1999 ella trasferì tali quote, insieme ai
nove sedicesimi dell’appezzamento che possedeva indipendentemente dalla qualità di erede del suo defunto marito alla prima ricorrente. Sommando le quote che aveva ottenuto in ragione di questo trasferimento e il sedicesimo
dell’appezzamento che aveva ereditato da suo padre, la prima ricorrente divenne la proprietaria di 484,43 quote, pari
al 77,5% del lotto. Sul terreno esisteva una fatiscente baracca.
8. Nel 2004 il secondo ricorrente, che svolgeva l’attività di
autista, ebbe un infarto del miocardio e non fu più in grado
di lavorare. Nel 2005 fu riconosciuto invalido e da quel momento iniziò a percepire una pensione d’invalidità. In quel
periodo, i due ricorrenti si trasferirono da Burgas a Sinemorets, presumibilmente perché non erano più in grado di
permettersi di vivere a Burgas. Sostenevano di aver usato
tutti i loro risparmi per la ristrutturazione della baracca trasformandola in una solida casa di mattoni a un piano. Non
avevano chiesto il permesso per costruire. La ristrutturazione ebbe luogo tra il 2004 e il 2005. Da quel momento i due
ricorrenti avevano abitato in quella casa. Nel 2006 due degli altri comproprietari del terreno notificarono formalmente alla prima ricorrente di non essere d’accordo con la ristrutturazione. Secondo il Governo, vi sono prove che la
costruzione non sia stata ultimata prima del 2009.
9. Nel 2006 gli altri dieci eredi del padre e della madre della
prima ricorrente promossero una causa nei confronti della
prima ricorrente volta a far accertare che essi erano i proprietari per 140,57 delle 625 quote del terreno e della casa
(1) La traduzione della sentenza in italiano è dalla versione
inglese
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Sintesi
ivi costruita. La Corte distrettuale di Tsarevo respinse la domanda. In appello, proposto dai richiedenti, il 7 giugno
2009, la Corte regionale di Burgas riformò tale sentenza accogliendo la domanda dei richiedenti e riconoscendo che
essi erano proprietari per 140,57 rispetto al totale di 625
quote del terreno e della casa costruita al posto della vecchia baracca. Affermò inoltre che il primo ricorrente era il
proprietario della parte rimanente del lotto comune e della
casa per la quota rimanente di 484,43. La prima ricorrente
impugnò per questioni di diritto, ma con decisione del 22
giugno 2009 (...) la Suprema Corte di Cassazione ritenne il
ricorso inammissibile. In particolare, rilevò, tra l’altro, che
nella sentenza impugnata, la Corte di grado inferiore, riguardo alla casa, non aveva errato poiché vi era giurisprudenza consolidata secondo cui anche le costruzioni abusive potevano essere oggetto del diritto di proprietà.
10. Per la maggior parte dell’anno, la prima ricorrente è disoccupata. La sua unica fonte di reddito deriva dall’affitto
della casa di Sinemorets durante la tarda primavera e l’estate. Il secondo ricorrente ereditò alcune quote di diversi
terreni in un’altra cittadina che ha venduto per la cifra totale di 1.200 lev bulgari (pari a 614 euro) tra il 2012 e il 2014.
I ricorrenti hanno utilizzato il denaro per acquistare una
macchina usata.
11. Nel settembre 2011, su richiesta di alcuni comproprietari del terreno, i funzionari municipali ispezionarono la casa e rilevarono che era stata costruita illegalmente. Essi notificarono le loro rilevazioni alla prima ricorrente nell’ottobre
del 2011. Nel luglio 2012 il Comune portò la questione all’attenzione dell’ufficio regionale della Direzione nazionale
per il controllo sulle costruzioni. Nel novembre 2012 i funzionari della Direzione ispezionarono la casa e rilevarono
ugualmente che era stata costruita illegalmente in assenza
di un permesso di costruire.
12. Il 30 settembre 2013 il capo dell’ufficio regionale della
Direzione rilevò che la casa era stata costruita tra il 2004 e
il 2005 senza permesso di costruire in violazione della sezione 148(1) della legge riguardante il piano regolatore territoriale (“the Territorial Organisation Act”) del 2001 e che
perciò doveva essere demolita ai sensi della sezione
225(2)(2) di tale normativa (si vedano i paragrafi 25 e 26 di
seguito). La prima ricorrente non aveva proposto argomenti o elementi di prova per dimostrare il contrario. La casa
era, quindi, da demolire. Una volta che la decisione divenne definitiva, la prima ricorrente fu invitata a conformarvisi
volontariamente. Se non avesse adempiuto entro i termini
indicati, le autorità l’avrebbero proceduto forzatamente a
sue spese.
13. La prima ricorrente richiese il riesame di tale decisione.
14. Il 10 dicembre 2014 il Tribunale amministrativo di Burgas rigettò l’impugnazione. Affermò che la decisione era
legittima. Le prove mostravano chiaramente che i ricorrenti
avevano costruito la casa tra il 2004 e il 2005 senza aver
ottenuto un permesso di costruire, cosa che a norma della
sezione 225(2)(2) della legge del 2001 (si veda il paragrafo
26 di seguito) costituiva motivo per la sua demolizione. La
casa non poteva essere esentata dalla demolizione come
previsto dal paragrafo 16 delle disposizioni transitorie della
legge del 2001 o dal paragrafo 127 delle disposizioni transitorie e finali della legge del 2012 che modificava la legge
del 2001 (si vedano i paragrafi 28 e 29 di seguito).
15. La prima ricorrente propose appello, sostenendo, tra
l’altro, che la casa era la sua unica abitazione e che la sua
1160
demolizione le avrebbe causato considerevoli difficoltà poiché non era in grado di trovare un altro posto in cui vivere.
16. Con decisione definitiva del 17 marzo 2015 (...) il Supremo Tribunale amministrativo confermò la decisione del
Tribunale di grado inferiore, concordano sulla circostanza
che la casa fosse illegale e che fosse stata costruita senza
permesso di costruire. Perciò, doveva essere demolita in
quanto era stata costruita tra il 2004 e il 2005 e non poteva
essere sottoposta a sanatoria secondo quanto previsto dai
provvedimenti di amnistia contenuti nelle leggi del 2001 o
del 2012.
17. Il 15 aprile 2015 l’ufficio regionale della Direzione nazionale per il controllo sulle costruzioni invitò la prima ricorrente ad adeguarsi all’ordine di demolizione entro quattordici giorni dalla ricezione dell’ordine avvisandola che in caso contrario sarebbe stata obbligata a eseguire l’ordine a
sue spese.
18. Poiché la prima ricorrente non fu adempiente, il 6 agosto 2015 tale ufficio emanò un bando di gara per società
disposte ad effettuare la demolizione; il termine per proporre le offerte fu fissato per il 15 settembre 2015.
19. Il 18 agosto 2015 il mediatore presso la Corte municipale di Burgas chiese al Ministero dello sviluppo regionale
di fermare la demolizione poiché, per quanto formalmente
illegale, avrebbe avuto un impatto sproporzionato sui ricorrenti. In risposta, il 25 settembre 2015, l’ufficio regionale
della Direzione ribadì la sua intenzione di procedere alla demolizione.
20. Dopo la comunicazione del presente ricorso al Governo
(si veda il paragrafo 4 sopra), il 15 ottobre 2015 l’ufficio regionale della Direzione chiese alle autorità municipali di valutare, se del caso, se alla prima ricorrente si dovesse fornire una sistemazione alternativa. Fino al 27 ottobre 2015,
data delle ultime comunicazioni delle parti sul punto, le
autorità municipali non avevano replicato a tale richiesta e
l’ufficio regionale della Direzione per tale motivo non aveva
proceduto alla demolizione.
21. A una data non precisata, nella seconda metà di ottobre 2015, sempre in seguito alla comunicazione del presente ricorso al Governo, un assistente sociale ebbe un colloquio con la prima ricorrente e in quella circostanza le fece presente che avrebbe potuto richiedere un aiuto ai servizi sociali. La prima ricorrente affermò di non essere interessata perché preferiva restare nella casa.
22. Secondo quanto contenuto nel registro disponibile sul
sito della Direzione nazionale per il controllo sulle costruzioni, al 10 marzo 2016, la demolizione non era stata ancora eseguita.
(Omissis)
IN DIRITTO
omissis
I. SULL’ASSERTITA VIOLAZIONE
DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE
45. I ricorrenti lamentano che la demolizione della casa in
cui vivono violerebbe il loro diritto al rispetto del proprio
domicilio. Essi invocano l’articolo 8 della Convenzione, che
prevede, per quanto qui rileva:
“1. Ogni persona ha diritto al rispetto ... del proprio domicilio ...
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia pre-
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vista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla
pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla
difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e
delle libertà altrui”.
omissis
B. La valutazione della Corte
1. Sulla ricevibilità
48. La doglianza non è manifestamente infondata ai sensi
dell’articolo 35 par. 3 (a) della Convenzione o irricevibile
per altri motivi. Deve, quindi, essere dichiarata ricevibile.
2. Nel merito
49. Sebbene solo la prima ricorrente abbia un diritto legittimo sulla casa, entrambi i ricorrenti hanno effettivamente
vissuto lì per un considerevole numero di anni (si vedano i
paragrafi 8 e 11 qui sopra). Essa è dunque “casa” per entrambi (si vedano, tra le altre, Buckley c. Regno Unito, 25
settembre 1996, par. 54, Reports of Judgments and Decisions 1996-IV; Prokopovich c. Russia, n. 58255/00, parr. 3639, ECHR 2004-XI (estratti); McCann c. Regno Unito, n.
19009/04, par. 46, ECHR 2008; Yordanova e altri c. Bulgaria, n. 25446/06, parr. 102-03, 24 aprile 2012; e Winterstein
e altri c. Francia, n. 27013/07, par. 141, 17 ottobre 2013), e
l’ordine di demolizione comporta un’ingerenza nel loro diritto al rispetto del loro domicilio (si veda, mutatis mutandis,
Cìosicì c. Croazia, n. 28261/06, par. 18, 15 gennaio 2009;
Yordanova e altri, citata sopra, par. 104; e Winterstein e altri, sopra citata, par. 143).
50. L’ingerenza era prevista dalla legge. L’ordine di demolizione ha una chiara previsione normativa come risulta dalla
sezione 225(2)(2) della legge sull’organizzazione territoriale
(si vedano i paragrafi 12 e 26 sopra). Ciò è stato confermato, in seguito a procedimenti ove era garantito il contraddittorio, in due diversi gradi di giudizio (si vedano i paragrafi
14 e 16 sopra), e non c’è niente che suggerisca che non
fosse “prevista dalla legge” ai sensi dell’articolo 8 par. 2
della Convenzione.
51. La Corte ritiene che la demolizione perseguiva uno scopo legittimo. Anche se il suo unico scopo è quello di assicurare l’effettiva applicazione delle disposizioni normative
che prevedono che gli edifici non possono essere costruiti
senza permesso, può essere considerata come diretta a ristabilire il principio di legalità (si veda, mutatis mutandis,
Saliba c. Malta, n. 4251/02, par. 44, 8 novembre 2005),
che, nel caso in esame, può essere considerato come rientrate nell’ambito della “prevenzione del disordine” e teso a
raggiungimento del “benessere economico del Paese”. Ciò
è particolarmente rilevante per la Bulgaria, dove il problema dell’abuso edilizio sembra essere all’ordine del giorno
(si vedano i paragrafi 41 43 sopra).
52. Pertanto, il punto centrale è se la demolizione doveva
considerarsi come “necessaria in una società democratica”. Sul punto, il caso presenta delle significative somiglianze con i casi riguardanti lo sfratto degli inquilini dagli
alloggi pubblici (si veda McCann, sopra citata; Cìosicì, sopra citata; Paulicì c. Croatia, n. 3572/06, 22 ottobre 2009;
Kay e altri c. Regno Unito, n. 37341/06, 21 settembre 2010;
Kryvitska e Kryvitskyy c. Ucraina, n. 30856/03, 2 dicembre
2010; Igor Vasilchenko c. Russia, n. 6571/04, 3 febbraio
2011; e Bjedov c. Croazia, n. 42150/09, 29 maggio 2012), e
i casi riguardanti lo sgombero degli occupanti da terreni di
proprietà pubblica (si vedano Chapman c. Regno Unito
[GC], n. 27238/95, ECHR 2001-I; Connors c. Regno Unito,
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n. 66746/01, 27 maggio 2004; Yordanova e altri, sopra citata; Buckland c. Regno Unito, n. 40060/08, 18 settembre
2012; e Winterstein e altri c. Francia, n. 27013/07, 17 ottobre 2013). Un’analogia può, inoltre, ravvisarsi con i casi riguardanti gli sgomberi da immobili già di proprietà dei ricorrenti, ma persi da essi in conseguenza di un procedimento civile intentato da un soggetto privato, cause civili
promosse da un ente pubblico, o procedimenti di esecuzione fiscale (si vedano, rispettivamente Zehentner c. Austria,
n. 20082/02, 16 luglio 2009 (procedimento promosso da
un creditore); Brežec c. Croatia, n. 7177/10, 18 luglio 2013
(procedimento avviato dal proprietario dei locali); Gladysheva c. Russia, n. 7097/10, 6 dicembre 2011 (procedimento
promosso da un ente comunale); e Rousk c. Svezia, n.
27183/04, 25 luglio 2013 (procedimento di esecuzione fiscale).
53. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, come emerge da tali sentenze, la valutazione della necessità
dell’ingerenza nei casi riguardanti la perdita della propria
abitazione per la garanzia di un interesse pubblico coinvolge non solo gli aspetti sostanziali, ma anche un aspetto
procedurale, ovvero se la procedura era tale da permettere
il rispetto degli interessi tutelati ai sensi dell’articolo 8 della
Convenzione (si vedano Connors, par. 83; McCann, par. 49;
Kay e altri, par. 67; Kryvitska and Kryvitskyy, par. 44; e Yordanova e altri, par. 118 (iii), tutte sopra citate). Dal momento che la perdita della propria abitazione rappresenta una
delle più gravi ingerenze nel diritto al rispetto del domicilio,
ogni persona che rischia ciò - appartenente o meno a un
gruppo di persone vulnerabili - deve, in linea di principio,
ottenere una valutazione di proporzionalità della misura da
parte di un tribunale imparziale, alla luce dei principi rilevanti sanciti da tale articolo (si vedano, tra le altre,
McCann, par. 50; Cìosicì, par. 22; Zehentner, par. 59; Kay e
altri, par. 68; Buckland, par. 65; e Rousk, par. 137, tutte sopra citate). I fattori che rilevano in questo senso, in tema di
abusivismo edilizio, sono: se l’abitazione è stata costruita
in violazione della legge, se gli interessati lo hanno fatto
consapevolmente, qual è la natura e il grado di illegittimità
in questione, qual è l’esatta natura degli interessi che si intendono proteggere con la demolizione e se è disponibile
una sistemazione alternativa per chi subisce la demolizione
(si veda Chapman, sopra citata, parr. 102-04). Un altro fattore consiste nel valutare se ci sono modi meno gravi per
risolvere la questione e l’elenco non è esaustivo. Peraltro,
se l’ interessato contesta la proporzionalità dell’ingerenza
in base a tali argomentazioni, le corti devono esaminarle
attentamente e fornire adeguate ragioni in risposta ad esse
(si veda Yordanova e altri, par. 118 (iv) infine, Winterstein e
altri, par. 148 (δ) in fine, entrambe sopra citate); l’ingerenza
non può normalmente essere giustificata semplicemente in
quanto il caso rientra nell’ambito di applicazione di una regola formulata in termini generali e astratti. La mera possibilità di ottenere un riesame giudiziario della decisione amministrativa che ha causato la perdita della casa non è sufficiente; la persona interessata deve essere in grado di contestare tale decisione, eccependo la sua sproporzionalità in
considerazione alla sua situazione personale (si veda
McCann, parr. 51-55; Cìosicì, parr. 21-23; e Kay e altri, par.
69-74, tutte sopra citate). Naturalmente, se in tali procedimenti le autorità nazionali tengono conto di tutti i fattori rilevanti e valutano tutti gli interessi in gioco nel rispetto dei
principi menzionati - in altre parole dove non c’è ragione di
dubitare della procedura seguita in un determinato caso - il
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margine di apprezzamento di cui dispongono tali corti sarà
ampio, in quanto esse sono in una posizione migliore rispetto a una Corte internazionale a valutare le esigenze e
le condizioni locali e la Corte sarà riluttante contestare la
loro valutazione (si veda Pinnock e Walker c. Regno Unito
(dec.), n. 31673/11, parr. 28-34, 24 settembre 2013).
54. La Corte non è d’accordo con la posizione, espressa da
alcuni tribunali amministrativi bulgari, che il bilanciamento
tra il diritto di coloro che stanno per perdere la propria casa
e l’interesse pubblico di assicurare l’effettiva esecuzione
delle disposizioni in tema di edilizia costituisca una regola
applicabile in modo assoluto e inderogabile (si vedano i paragrafi 26 e 37 sopra). Siffatto approccio può essere seguito con riferimento all’articolo 1 del Protocollo n. 1, che dà
alle autorità nazionali un ampio margine discrezionale nel
trattare l’abusivismo edilizio (si vedano i paragrafi 73-76 di
seguito) o in altri contesti (si veda Animal Defenders International c. Regno Unito [GC], n. 48876/08, parr. 106-09,
ECHR 2013 (estratti), con i riferimenti ivi contenuti). Ma dato che il diritto al rispetto del proprio domicilio ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione investe questioni di fondamentale importanza per l’integrità fisica e morale della persona, il mantenimento delle relazioni con gli altri e un luogo stabile e sicuro nella comunità, il bilanciamento nell’ambito di tale previsione nei casi in cui l’ingerenza consiste in
una perdita della propria unica casa si pone su un piano
differente, con particolare riferimento alla portata dell’ingerenza nella sfera personale degli interessati (si veda Connors, citata sopra, par. 82). Ciò può generalmente essere
esaminato solo caso per caso. Inoltre, non ci sono prove
che il legislatore bulgaro abbia considerato effettivamente
questo bilanciamento, o che, optando per una soluzione
generale piuttosto che per una soluzione più a misura, abbia tenuto in considerazione gli interessi protetti dall’articolo 8 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Vallianatos e altri c. Grecia [GC], nn. 29381/09 e 32684/09, par. 89,
ECHR 2013 (estratti), e a contrario, mutatis mutandis, Animal Defenders International, citata sopra, parr. 114-16). Al
contrario, il mediatore della Repubblica ha più volte espresso preoccupazione a tale riguardo (si vedano i paragrafi
41-43 sopra).
55. La Corte non può nemmeno accettare l’affermazione
secondo cui la contestazione della demolizione delle case
da parte degli interessati, con riferimento all’articolo 8 della
Convenzione, pregiudicherebbe seriamente il sistema di
controllo dell’edilizia in Bulgaria (si veda il paragrafo 37 sopra). È vero che la deroga di una norma assoluta può ingenerare un rischio di abuso, incertezza e discrezionalità nell’applicazione della legge, con aggravio di spese e ritardi.
Ma ci si può sicuramente aspettare che le autorità amministrative competenti e i giudici amministrativi, che si occupano abitualmente di varie richieste riguardanti la demolizione di costruzioni abusive (si vedano i paragrafi 26, 27,
34 e 37-39 sopra), e che hanno recentemente dimostrato
che possono esaminare tali domande alla luce dell’articolo
8 della Convenzione (si veda il paragrafo 30 sopra) saranno
in grado di affrontare tali rischi, specialmente nel caso in
cui in tale compito avranno a disposizione appropriati parametri e linee guida. Inoltre, solo in casi eccezionali gli interessati potranno riuscire a fondare la loro domanda sulla
circostanza la demolizione sarebbe sproporzionata nella loro particolare situazione (si veda, mutatis mutandis,
McCann, par. 54; Paulicì, par. 43; e Bjedov, par. 67, tutte sopra citate).
1162
56. I procedimenti instaurati nel caso di specie non rispettano i criteri procedurali sopra menzionati, come previsti al
paragrafo 53. L’oggetto di tali procedimenti, in cui la prima
ricorrente chiedeva il riesame dell’ordine di demolizione - il
secondo ricorrente, non avendo alcun diritto di proprietà
sulla casa e non essendo destinatario dell’ordine non aveva
alcun titolo per essere parte (si veda il paragrafo 26 in fine
sopra) - riguardava l’edificazione della casa senza permesso e se potesse comunque evitare la demolizione in quanto
potevano essere applicate le disposizioni transitorie di condono riguardo alla normativa pertinente (si vedano i paragrafi 14 e 16 sopra). Nella sua richiesta, la prima ricorrente
ha eccepito, anche se brevemente, le circostanze sollevate
ora davanti alla Corte, ovvero che l’abitazione era il loro
unico domicilio e che essa sarebbe stata severamente colpita con la demolizione dell’abitazione (si veda il paragrafo
15 sopra). La Suprema Corte amministrativa non ha fatto
alcuna menzione, astenendosi dall’esprimersi sul punto (si
veda, mutatis mutandis, Brežec, citata sopra, par. 49). Ciò
non sorprende in quanto, per il diritto bulgaro, non è rilevante per la liceità dell’ordine di demolizione. Sulla base
delle rilevanti previsioni statutarie, così come ricostruite
dalla Suprema Corte amministrativa, ogni costruzione edificata senza un permesso deve essere demolita, a meno che
non rientri nell’ambito di applicazione delle previsioni transitorie di condono contenute nella legge del 2001 e non
rientra tra le facoltà delle autorità amministrative impedire
la demolizione in ragione del fatto che ciò causerebbe un
danno sproporzionato a coloro che subiranno tale misura
(si vedano i paragrafi 25-27 sopra).
57. La possibilità, suggerita dal Governo (si veda il paragrafo 46 sopra e 78 di seguito) di cercare di rimandare l’esecuzione della demolizione sulla base dell’articolo 278 del codice di proceduta amministrava del 2006 (si veda il paragrafo 31 sopra) non può costituire un rimedio (si veda, mutatis mutandis, Paulicì, par. 44, e Bjedov, par. 71, entrambe
sopra citate). I ricorrenti avrebbero potuto ottenere attraverso le procedure previste in tale disposizione - che si
svolgono esclusivamente davanti alle autorità amministrative di esecuzione e non davanti a un tribunale imparziale,
senza la possibilità di impugnare le decisioni adottate in
quella sede - ma sarebbe una tregua temporanea dagli effetti dell’ordine di demolizione, piuttosto che un esame globale della sua proporzionalità (si veda il paragrafo 32 sopra).
58. Non sembra neppure, come suggerito dalla Suprema
Corte amministrativa nella sua sentenza del 1° giugno
2015 in un caso analogo (si veda il paragrafo 30 sopra) che
sarebbe possibile, stando così le cose, ottenere un esame
adeguato della proporzionalità della demolizione cercando
di ottenere un controllo giurisdizionale dell’esecuzione dell’ordine di demolizione ai sensi dell’articolo 294 e ss. del
codice del 2006 (si veda il paragrafo 35 sopra). Un tale esame potrebbe in linea di principio essere effettuato nell’ambito di procedimenti di controllo giurisdizionale dell’esecuzione (si veda J.L. c. Regno Unito (dec.), n. 66387/10, parr.
44-46, 30 settembre 2014) ma la giurisprudenza in merito
a tali disposizioni mostra come le Corti amministrative bulgare, in generale, non esaminino le argomentazioni riguardanti le situazioni individuali delle persone interessate dalla
demolizione. Esse effettuano il giusto bilanciamento tra i
diritti garantiti dall’articolo 8 della Convenzione e il contrapposto interesse pubblico a contrastare l’abusivismo edilizio
risolvendolo con disposizione legislativa e stabilendo che la
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demolizione può essere l’unica risposta all’illegalità, ovvero
che tali questioni possono essere esaminate in procedimenti esecutivi avente ad oggetto l’ordine di demolizione
(si vedano i paragrafi 37-39 sopra). L’unica Corte che sembra aver mostrato una certa sensibilità a tali temi nel corso
del procedimento ai sensi dell’articolo 294 e ss. del codice
è la Corte amministrativa di Pazardzhik che, tuttavia, ha potuto emettere provvedimenti cautelari in quel procedimento e non ha potuto esaminare nel merito il caso di specie
(si veda il paragrafo 40 sopra). Non è inoltre chiaro se le
persone nella posizione del secondo ricorrente, che non è il
destinatario dell’ordine di demolizione e non ha diritti di
proprietà sulla casa, sarebbero legittimati ad iniziare una
tale azione (si veda il paragrafo 36 sopra).
59. I ricorrenti non potrebbero ottenere un esame adeguato della proporzionalità della demolizione nemmeno instaurando un’azione per ottenere una sentenza di accertamento ai sensi dell’articolo 292 del codice del 2006 (si veda il
paragrafo 33 sopra). La giurisprudenza su tale disposizione, che mira esclusivamente a prevenire l’esecuzione delle
decisioni amministrative qualora emergano fatti nuovi e
contrari, mostra che in tali procedimenti le Corti amministrative bulgare valutano solo se i fatti sopravvenuti all’ordine di demolizione o al suo accoglimento da parte dei giudici - come la decorrenza del termine per l’esecuzione o l’intervenuta sanatoria della costruzione - possano impedire
l’esecuzione (si veda il paragrafo 34 sopra). Sembra che
non vi siano casi in cui le Corti abbiano accolto tali ricorsi e
quindi sospeso l’esecuzione di un ordine di abbattimento,
accogliendo le argomentazioni riguardanti le circostanze
personali degli interessati. Inoltre, nel caso dei ricorrenti, i
procedimenti di esecuzione sono iniziati meno di un mese
dopo l’emanazione dell’ordine di demolizione (si veda i paragrafi 16 e 17 sopra).
60. Il coinvolgimento dei servizi sociali, intervenuto solo
dopo la comunicazione del ricorso al Governo (si veda il
paragrafo 21 sopra), non rende migliore il fatto che ci sia
stata una mancanza di valutazione appropriata. Essa non
ha avuto luogo nell’ambito di una procedura suscettibile di
condurre ad un riesame globale della proporzionalità della
demolizione (si veda, mutatis mutandis, Yordanova e altri,
sopra citata, parr. 136-37). In ogni caso, anche se la prima
ricorrente ha affermato di non essere interessata ai servizi
sociali, il Governo ha sottolineato che le autorità non hanno
l’obbligo di fornire ai ricorrenti una soluzione abitativa alternativa e non ha spiegato chiaramente in che modo i servizi
avrebbero potuto fornire ai ricorrenti una soluzione soddisfacente.
61. In conclusione, i ricorrenti non hanno avuto a loro disposizione un procedimento suscettibile di consentire una
rivalutazione della proporzionalità della demolizione della
casa in cui vivono alla luce delle loro personali circostanze.
62. La Corte ritiene, quindi, che vi sia violazione dell’articolo 8 della Convenzione qualora l’ordine di demolizione della
casa in cui vivono i ricorrenti sia eseguito senza tale rivalutazione.
II. SULL’ASSERTITA VIOLAZIONE
DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO 1
63. La prima ricorrente lamenta inoltre che la demolizione
della casa, che le appartiene parzialmente, costituirebbe
un’ingerenza sproporzionata nel godimento pacifico dei
suoi beni.
Invoca l’articolo 1 del Protocollo n. 1, che prevede:
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“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei
suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà
se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto
degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
(...)
B. La valutazione della Corte
1. Ambito di applicazione ratione personae
66. Va rilevato, anzitutto, che questa doglianza è stata sollevata solo dalla prima ricorrente. Non è quindi necessario
pronunciarsi sull’eccezione del Governo in relazione al secondo ricorrente.
2. Ricevibilità
67. Le parti hanno punti di vista divergenti quanto all’eventuale “possesso” in capo alla prima ricorrente, sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 e se tale disposizione
possa essere applicabile. Nel caso di specie è opportuno
esaminare la questione nel merito (si veda, mutatis mutandis, Depalle c. France (dec.), n. 34044/02, 29 l 2008, e Yordanova e altri c. Bulgaria (dec.), n. 25446/06, 14 settembre
2010). La doglianza non è manifestamente infondata ai
sensi dell’articolo 35 par. 3 (a) della Convenzione o irricevibile per altre ragioni. Deve quindi essere dichiarata ricevibile.
3. Nel merito
68. Dato che in Bulgaria vi è una giurisprudenza costante
che stabilisce che le costruzioni abusive possono essere
oggetto del diritto di proprietà e dato che la Corte regionale
di Burgas ha affermato che la prima ricorrente è proprietaria di 484,43 delle 625 quote del terreno e della casa ivi costruita (si veda il paragrafo 9 sopra), è indubbio che essa
ne abbia il “possesso” è che l’articolo 1 del Protocollo n. 1
sia applicabile.
69. La prevista demolizione della casa produrrà un’ingerenza nel possesso in capo alla prima ricorrente (si veda Allard
c. Svezia, n. 35179/97, par. 50, ECHR 2003-VII, e Hamer c.
Belgio, n. 21861/03, par. 77, ECHR 2007-V (estratti)). Questa interferenza ha lo scopo di garantire il rispetto delle norme generali riguardanti il divieto di costruire e pertanto costituisce un “controllo nell’uso della proprietà” (si veda Hamer, citata sopra, par. 77, e Saliba, citata sopra, par. 35).
Tutto ciò dovrà quindi essere esaminato con riferimento al
secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
70. L’ordine di demolizione è chiaramente previsto dalla
legge, ai sensi della sezione 225(2)(2) della legge sull’organizzazione territoriale del 2001 (si vedano i paragrafi 12 e
26 sopra). Ciò è stato confermato in due diversi gradi di
giudizio, svoltisi in contraddittorio (si vedano i paragrafi 14
e 16 sopra). L’ingerenza è, dunque, prevista dalla legge ai
sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
71. Si deve anche convenire che l’ingerenza, che mira a
garantire le norme edilizie, sia “in accordo con l’interesse
generale” (si veda Saliba, citata sopra, par. 44). Allo stesso
tempo, deve notarsi che l’ordine di demolizione, benché
sia il risultato della denuncia presentata dagli altri comproprietari della prima ricorrente (di veda il paragrafo 11 sopra), non si basava sull’incapacità per la prima ricorrente
ad ottenere l’autorizzazione a edificare. Non può essere inteso come volto a proteggere i loro interessi (a contrario Al-
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lard, citata sopra, par. 52) e ne deriva che nel caso di specie il peso di tali interessi non è stato considerato in modo
pertinente (a contrario Allard, citata sopra, par. 60).
72. La questione cruciale è verificare se l’ingerenza abbia
trovato un giusto equilibrio tra l’interesse della prima ricorrente a mantenere integro il suo possesso e l’interesse generale di assicurare l’effettivo rispetto del divieto di abusivismo edilizio.
73. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, il
secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 deve
essere letto alla luce del principio espresso nella prima frase del primo paragrafo: un’ingerenza ha bisogno di trovare
un giusto equilibrio tra l’interesse generale della comunità
e i diritti della persona. Ciò significa che una misura deve
essere, da una parte, appropriata per raggiungere il primo
obiettivo e, dall’altra parte, non sproporzionata per raggiungere il secondo (si veda, tra le altre, James e altri c. Regno Unito, 21 febbraio 1986, par. 50, Serie A n. 98). In ogni
caso le Alte Parti contraenti godono di un margine di apprezzamento in questo ambito, in particolare sia nella scelta dei mezzi di esecuzione sia nello stabilire se le conseguenze dell’esecuzione possono essere giustificate. Il margine di apprezzamento è ampio quando si tratta dell’attuazione delle politiche di pianificazione e di sviluppo immobiliare (si veda Saliba, sopra citata, par. 45, con i riferimenti
ivi indicati).
74. Per questa ragione, diversamente dall’articolo 8 della
Convenzione, l’articolo 1 del Protocollo n. 1 non richiede in
questi casi che sia disponibile una procedura che permetta
una valutazione individuale della necessità di ciascuna misura di attuazione delle pertinenti norme di pianificazione.
Non è in contrasto prevedere una legislazione che definisca ampie e generali categorie ovvero prevedere una procedura ove la proporzionalità delle misure di esecuzione sia
esaminata individualmente caso per caso (si veda James e
altri, sopra citata, par. 68, e Allen e altri c. Regno Unito
(dec.), n. 5591/07, par. 66, 6 ottobre 2009). Non vi è contraddittorietà in ciò, poiché l’intensità degli interessi protetti
da questi due articoli e il relativo margine di apprezzamento attribuito alle autorità nazionali, con riferimento a ciascuno, non hanno necessariamente la stessa portata (si veda
Connors, sopra citata, par. 82). Perciò, sebbene la Corte
abbia in alcuni casi valutato la proporzionalità di un provvedimento nell’ambito di applicazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, alla luce dei medesimi parametri di cui all’articolo 8 della Convenzione (si veda Zehentner, parr. 52-65 e
70-79; Gladysheva, parr. 64-83 e 90-97; e Rousk, parr. 10827 e 134-42, tutte citate sopra, così come Demades c. Turchia, n. 16219/90, parr. 36-37 e 44-46, 31 luglio 2003), tale
valutazione non è necessariamente identica per tutte le circostanze.
75. Nel caso della prima ricorrente, la casa è stata consapevolmente costruita senza un permesso (a contrario N.A.
e altri c. Turchia, n. 37451/97, par. 39 in fine, ECHR 2005-X,
e Depalle, sopra citata, par. 85) e, quindi, in flagrante violazione delle leggi nazionali in tema di edilizia. In questo caso, indipendentemente dalle spiegazioni fornite dalla prima
ricorrente circa tale mancanza, questo è un fattore cruciale
nella valutazione ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
L’ordine di demolizione della casa, che è stato emanato entro un tempo ragionevole dopo la sua costruzione (a contrario Hamer, sopra citata, par. 83) mira semplicemente a
riportare la situazione nella condizione in cui si sarebbe trovata se la prima ricorrente non avesse disatteso quanto
1164
stabilito dalla legge. L’ordine e la sua esecuzione mirano,
inoltre, a scoraggiare altri potenziali trasgressori (si veda
Saliba, sopra citata, par. 46) che non devono avere sconti
anche in ragione dell’evidente problema dell’abusivismo
edilizio che pervade la Bulgaria (si vedano i paragrafi 41-43
sopra). Per l’ampio margine di apprezzamento di cui godono le autorità bulgare ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo
n. 1 nello scegliere i mezzi di esecuzione e nello stabilire
quali conseguenze dell’ingerenza possono essere giustificate, nessuna delle summenzionate considerazioni può essere superata dall’interesse patrimoniale della prima ricorrente sulla casa.
76. L’esecuzione dell’ordine di demolizione non costituisce,
dunque, violazione del diritto di proprietà della prima ricorrente ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
III. SULL’ASSERTITA VIOLAZIONE
DELL’ARTICOLO 13 DELLA CONVENZIONE
77. I ricorrenti lamentano di non disporre di alcun rimedio
interno effettivo con riferimento alle loro doglianze sollevate sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione. Essi invocano l’articolo 13 della Convenzione che prevede:
“Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella
presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
(...)
B. La valutazione della Corte
80. La doglianza non è manifestamente infondata ai sensi
dell’articolo 35 par. 3 (a) della Convenzione o irricevibile
per altre ragioni. Deve pertanto essere dichiarata ricevibile.
81. In ogni caso, poiché la dichiarazione della violazione
dell’articolo 8 della Convenzione si basava sull’assenza di
una procedura attraverso la quale i ricorrenti avrebbero potuto contestare la demolizione facendo riferimento ad un
giudizio di proporzionalità (si vedano i paragrafi 56-61 sopra), non è necessario esaminare separatamente la questione sotto il profilo dell’articolo 13 della Convenzione (si
veda, mutatis mutandis, Stanková c. Slovacchia, n. 7205/02,
par. 67, 9 ottobre 2007, e Yordanova e altri, sopra citata,
par. 152).
(...)”
Nota
Il caso Ivanova e Cherkezov tratta del diritto al rispetto al
domicilio in presenza di una consapevolezza, da parte dei
ricorrenti, di occupare un’abitazione abusiva.
Le particolari condizioni economiche dei ricorrenti, che si
trovavano ad alloggiare nella loro unica abitazione, sottoposta ad un ordine di demolizione, hanno fatto da contraltare agli interessi della comunità in generale al rispetto della normativa edilizia, e hanno portato i Giudici di Strasburgo ad esaminare se il sistema interno avesse valutato il caso specifico operando un bilanciamento effettivo degli interessi in gioco.
Sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione, la Corte ha
quindi accertato che il sistema interno bulgaro non aveva
permesso un vaglio di proporzionalità adeguato per il caso
specifico e, conseguentemente, è stata dichiarata la violazione di tale disposizione convenzionale.
Il caso è interessante perché la questione è stata trattata
anche sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, permettendo di evidenziare che il diritto di proprietà dei ricor-
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renti, nel bilanciamento degli interessi in gioco, poteva godere di un grado di tutela molto inferiore rispetto al loro diritto al rispetto del domicilio, dato che il diritto al rispetto
dei beni doveva essere messo in relazione con gli interessi
generali della comunità all’attuazione di corrette politiche
di pianificazione edilizia.
Secondo la Corte quindi, essendo in gioco il diritto di proprietà, non era necessario aver predisposto a livello nazionale una procedura che potesse permettere una valutazio-
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ne del singolo provvedimento adottato rispetto al caso particolare dell’interessato, essendo invece sufficiente avere
un sistema idoneo a permettere il rispetto delle norme edilizie e a rendere possibile il ripristino della situazione antecedente all’abuso edilizio perpetrato, anche in considerazione del grave problema dell’abusivismo che pervade la
Bulgaria e della consapevolezza, da parte degli interessati,
dell’abuso perpetrato.
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Osservatorio - Cassazione
Sezioni Unite
a cura di Vincenzo Carbone
SANZIONI AMMINISTRATIVE
INTERESSI SUL MANCATO PAGAMENTO DELLE SANZIONI
AMMINISTRATIVE
Cassazione Civile, SS.UU., 15 giugno 2016, n. 12324 Pres. Canzio - Rel. D’Ascola - P.M. Del Core (diff.) - Zurich Insurance Public Limited Company c. Ministero
dell’Economia e Agcom
L’obbligazione per interessi discende dal ritardo nel pagamento o dall’accertamento della violazione con l’importo della sanzione?
► Nel primo senso la risposta della Cassazione.
Il caso
A seguito di illecita intesa restrittiva della concorrenza tra
compagnie assicuratrici, l’Autorità Garante per la Concorrenza adottò un provvedimento sanzionatorio nel luglio
2000 e la ricorrente Zurich corrispose interessi per circa euro 150 mila sulla sanzione inflittale, che ammontava a circa
18 miliardi di lire.
Si trattava di importi relativi agli interessi maturati, secondo
l’AGCM, nel periodo tra la scadenza dell’obbligo di pagare
la sanzione e la data di effettivo pagamento, avvenuto prima che maturasse, al termine del primo semestre la maggiorazione di cui all’art. 27, L. n. 689 del 1981.
Zurich, considerando non dovuta questa somma per interessi, ne ha chiesto la restituzione al Ministero dell’Economia e delle Finanze, restituzione accordata dal tribunale di
Roma nel 2005. La Corte d’Appello con sent. 21 giugno
2010 ha ritenuto, invece, che gli interessi siano dovuti e ha
quindi accolto il gravame interposto dall’Autorità e dal Ministero.
Zurich ha proposto ricorso per cassazione.
La decisione
Sotto la rubrica “Esecuzione forzata”, l’art. 27, comma 1,
legge di depenalizzazione (L. 24 novembre 1981, n. 689)
prevede che: “Salvo quanto disposto nell’art. 22, u.c. decorso inutilmente il termine fissato per il pagamento, l’autorità che ha emesso l’ordinanza-ingiunzione procede alla
riscossione delle somme dovute in base alle norme previste per la esazione delle imposte dirette, trasmettendo il
ruolo all’intendenza di finanza che lo dà in carico all’esattore per la riscossione in unica soluzione, senza l’obbligo del
non riscosso come riscosso”.
Il comma 6, dopo aver fatte salve le ipotesi di pagamento
rateale, stabilisce che: “in caso di ritardo nel pagamento la
somma dovuta è maggiorata di un decimo per ogni semestre a decorrere da quello in cui la sanzione è divenuta esigibile e fino a quello in cui il ruolo è trasmesso all’esattore.
La maggiorazione assorbe gli interessi eventualmente previsti dalle disposizioni vigenti”.
1166
Secondo la Corte d’Appello di Roma, tale norma non esclude l’applicazione degli interessi di mora per i primi sei mesi, cioè per il periodo non contemplato nella disposizione.
La maggiorazione non sarebbe “alternativa agli interessi in
considerazione della diversa funzione di questi rispetto alla
speciale previsione normativa”, ma sarebbe diretta a imporre una sanzione aggiuntiva, con funzione di inasprimento della sanzione originaria, che assorbe gli interessi dovuti
per il periodo successivo al primo semestre. Nel primo semestre la disciplina applicabile resterebbe quella degli interessi di mora, secondo “i principi generali stabiliti dagli artt.
1224/1282 c.c.”.
Per le Sezioni Unite la disposizione di cui al comma 6 si riferisce agli interessi perché prevedeva - ma solo a partire
dal primo semestre dopo la scadenza dell’obbligazione una ingente maggiorazione (oltre il 20% annuo). La natura
sanzionatoria (del ritardo protratto oltre il limite semestrale) ha in questo caso un effetto dissuasivo; il legislatore
ha inteso però esplicitamente prevedere l’assorbimento
degli interessi per impedire un effetto di aggravamento ulteriore, che sarebbe stato inevitabile se la norma fosse
stata silente sul punto. Né il riferimento all’eventuale previsione di interessi può far credere che questi sono dovuti
(o assorbiti) solo quando esplicitamente previsti da norme
speciali.
Va infatti considerato che la L. n. 689 del 1981, quale nuova legge generale sull’illecito amministrativo, ha opportunamente voluto dettare una disciplina generale, prevedendo anche il meccanismo sanzionatorio di cui si tratta. Inevitabilmente ha dovuto far intendere con chiarezza che la
nuova disposizione prevaleva su disposizioni relative a interessi per ritardato pagamento delle sanzioni previste da altre norme già in vigore.
È stato in tal modo disciplinato però solo il regime relativo
ad eventuali interessi previsti relativamente ad un periodo
successivo alla decorrenza della maggiorazione.
La logica intrinseca di questa normativa è meglio spiegata se si ritiene che sono state previste tre fasi: a) la prima
con la quale l’amministrazione fissa al trasgressore il termine per il pagamento dell’importo fissato; b) la seconda, che perdura per il primo semestre successivo, nella
quale la sanzione è incrementata soltanto degli interessi
legali, dovuti per il ritardo, secondo i principi generali; c)
la terza nella quale il patologico ritardo ultrasemestrale fa
imporre una maggiorazione, che ha natura sanzionatoria
e coercitiva, la quale per la sua portata (10% semestrale)
assorbe gli interessi, ancorché previsti in misura diversa
da disposizioni anteriori, che possono essere presenti
nelle molte normative speciali contenenti sanzioni amministrative.
Tutte queste previsioni particolari sono state opportunamente superate con la disposizione di cui si discute.
Le Sezioni unite ritengono priva di pregio anche la tesi secondo cui l’obbligo di corrispondere gli interessi per il ritar-
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do infrasemestrale è escluso dalla mancanza di esplicita
enunciazione nel provvedimento sanzionatorio.
Il ricorso postula che anche questi interessi facciano parte,
consustanzialmente, della obbligazione pubblica statuita
dall’Autorità Garante nell’esercizio di un “potere di supremazia speciale”.
L’obbligazione per interessi discende dal ritardo nel pagamento e non dall’accertamento della violazione o dall’importo della sanzione. La mancata esplicitazione della obbligazione accessoria, che è solo eventuale, in quanto legata
all’anomalia del mancato pagamento, non esclude che
sussista l’obbligo di sostenerla, discendente dalla norma
generale sulla fecondità delle obbligazioni pecuniarie e dal
comportamento inadempiente.
L’obbligazione relativa agli interessi può essere pretesa anche sulla base di provvedimento successivo all’irrogazione
della sanzione, pur se corrisponde a un più fluido e trasparente esercizio del potere amministrativo esplicitare tempestivamente tale eventuale obbligazione.
I precedenti
Cons. Stato, Sez. VI, 21 febbraio 2008, n. 636, in Giur.
amm., 2008, I, 166, in Dir. prat. amm., 2008, 4, 84, con nota di Fienga.
La dottrina
Sigismondi, La responsabilità amministrativa dell’impresa:
dalla disciplina generale della l. n. 689/1981 alla normativa
speciale successiva - Esiste ancora un modello unitario?, in
Jus, 2011, 269; Orlandi, L’art. 27 l. 24 novembre 1981, n.
689, recante modifica al sistema penale, trasforma le pene
pecuniarie dovute per infrazione alle norme in essa contenute in tributi riscuotibili con ruolo, in Ammin. it., 1983, 767.
GIURISDIZIONE
RISARCIMENTO PER DANNO ERARIALE
Cassazione Civile, SS.UU., 13 giugno 2016, n. 12086 Pres. Canzio - Rel. Bernabai - P.M. Del Core (conf.) - B.
G. e P.V. c. Procura generale presso la Corte dei conti
L’esecuzione dei servizi di bonifica, affidati dalla regione a privati con finanziamenti comunitari, può comportare, in caso di cattiva esecuzione, una responsabilità
del privato innanzi alla Corte dei conti per danno erariale?
► Risposta affermativa.
Il caso
Con atto di citazione notificato il 18 aprile 2007 la Procura regionale presso la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Liguria conveniva la Società Immobiliare Val
Lerone S.p.a. nonché vari suoi dirigenti e funzionari regionali, per ottenerne la condanna al risarcimento del
danno erariale, preteso nella somma di euro
3.687.502,26, arrecato alla regione Liguria per l’inesecuzione totale, o in subordine parziale, di un programma di
bonifica della zona costiera alla foce di un torrente finanziato con fondi comunitari.
Esponeva che la società era rimasta del tutto inadempiente
alle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata in
data 30 marzo 1995: ed in particolare, in ordine alla bonifi-
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ca del tratto di arenile nel comune di Cogoleto, interessato,
in passato, dal deposito di terre esauste, inquinate da cromo, provenienti dalla produzione della società.
I dirigenti resistevano alla domanda, eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione ed in subordine il giudicato penale di assoluzione dalle imputazioni di truffa aggravata e falso ideologico, nonché l’insussistenza dei profili di
responsabilità allegati.
Con sent. 18 aprile 2011 la Corte dei conti condannava la
società e i suoi dirigenti a titolo di dolo, al pagamento della
somma di euro 865.977,37, nella misura di un terzo ciascuno ed in solido per l’intero, oltre rivalutazione e interessi.
La Corte dei conti centrale d’appello, con sent. 21 novembre 2013, rigettava i successivi gravami.
Per la Corte dei conti la propria giurisdizione sussisteva in
tutti i casi in cui il soggetto privato si avvalesse, come nella
specie, di finanziamenti pubblici per concorrere alla realizzazione di finalità proprie dell’amministrazione, nonostante
l’insussistenza di un rapporto di concessione di opere pubbliche: non essendo sufficiente lo schermo di un contratto
di appalto ad interrompere il rapporto di servizio in tal modo instauratosi. Nel caso in esame era di fatto in discussione la concreta utilizzazione del denaro pubblico, rivelatasi
mal gestita e dispersiva.
Sostengono invece i ricorrenti che si verte, nella specie, in
tema di contratto di appalto per la bonifica di un’area demaniale. Contestano altresì il criterio di collegamento del finanziamento pubblico comunitario, concesso, in realtà, alla
regione Liguria, e non alla società.
La decisione
Per le Sezioni Unite la sentenza della Corte dei conti valorizza, essenzialmente, la natura pubblica del finanziamento, utilizzato per realizzare finalità proprie dell’Amministrazione: e tale criterio appare esatto, dal momento
che è jus receptum che sussiste il rapporto di servizio, allorché un ente privato esterno all’Amministrazione venga
incaricato di svolgere, nell’interesse di quest’ultima e
con risorse pubbliche, un’attività o un servizio pubblico
in sua vece.
In questo quadro di riferimento, non assume rilievo, ai fini della giurisdizione, che il finanziamento comunitario
sia stato formalmente erogato, nel caso in esame, in favore della regione Liguria, stante il rilievo decisivo che
esso è stato poi utilizzato per l’attività di bonifica dell’area demaniale concessa alla società. Né appare esimente
il filtro formale del contratto di appalto, inserito in un progetto di riqualificazione complessiva di una zona (inquinata da cromo per effetto di attività produttiva della società), rientrante nella funzione pubblica dell’ente territoriale.
Concorre con tale qualificazione oggettiva del rapporto l’utilizzazione di denaro pubblico, risultata non corretta e dispersiva in quanto non tradottasi nella realizzazione a regola d’arte della bonifica.
Dall’affermazione della giurisdizione nei confronti della società discende quella verso i suoi dirigenti che hanno preso
parte attiva secondo l’accertamento del giudice contabile
alla condotta causativa del danno erariale.
In conclusione, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in relazione al procedimento avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno erariale arrecato all’Amministrazione regionale dalla società destinataria di un programma di bonifica finanziato con fondi comunitari, per
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mancata esecuzione totale o parziale del medesimo. Né, in
senso contrario, può attribuirsi rilievo alla dedotta assenza
di rapporto di servizio tra società ed amministrazione, vertendosi in tema di contratto di appalto, poiché il rapporto
di servizio sussiste allorché un ente privato esterno all’Amministrazione venga incaricato di svolgere, nell’interesse di
quest’ultima e con risorse pubbliche, un’attività o un servizio pubblico in sua vece; ovvero alla circostanza che il finanziamento sia stato formalmente erogato in favore dell’Amministrazione, giacché lo stesso è stato utilizzato per
l’attività di bonifica concessa al privato.
I precedenti
Cass., SS.UU., 21 maggio 2014, n. 11229, in Foro it., 2015,
I, 2481, con nota di D’Auria. Conf. Cass., SS.UU., 27 aprile
2010, n. 9963, in Foro it., 2010, I, 3078.
La dottrina
Ferretti, Violazione del principio di esclusività del rapporto di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e
danno erariale: orientamenti giurisprudenziali difformi e risposta del legislatore, in Lavoro nelle p. a., 2012, 864; Zuliani - Aurisicchio - De Benedetto - Canzonetti - Guagnano Liverani - Menichino - Rispoli - Salvi, La responsabilità per
danno erariale alla prova del contenzioso, in Riv. trim. dir.
pubbl., 2013, 489.
DANNI DA ESPOSIZIONE A RADIAZIONI IONIZZANTI
Cassazione Civile, SS.UU., 9 giugno 2016, n. 11851 Pres. Canzio - Rel. Curzio - P.M. Ciccolo (conf.) - B.G. c.
Assessorato sanità della regione Siciliana e ARNAS
Se il lavoratore deduce un inadempimento unitario della P.A. è soggetto alla giurisdizione del g.a. fino al 30
giugno 1998 e dopo il 1° luglio 1998 a quella del g.o ex
art. 69, comma 7, D.Lgs. n. 165/2001, ovvero per tutto il
tempo a quella del g.o.?
► La giurisdizione è unitaria come l’inadempimento ed
è quella del g.o.
Il caso
Tizio convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo
l’Arnas (Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale ed Alta
Specializzazione), l’Assessorato alla salute della Regione
siciliana e la Gestione stralcio della USL, dichiarando di
essere stato assunto nel 1976 alle dipendenze dell’ente
ospedaliero specializzato per la cura dei tumori, per poi
passare alla USL e quindi all’Arnas; di essere stato esposto a radiazioni ionizzanti e di non aver fruito delle misure
previste dalla normativa dettata per la tutela dei lavoratori esposti a rischi derivanti da tale tipo di radiazioni
(d.P.R. n. 185 del 1964 e D.Lgs. n. 230 del 1995); di aver
contratto una patologia neoplastica vescicale, seguita da
altre patologie in rapporto di causalità con l’esposizione
alle radiazioni.
Chiese la condanna dei tre convenuti, al risarcimento, in
solido tra loro, dei danni subiti.
Il Tribunale condannò l’Arnas al pagamento della somma
di euro 344.969,96, oltre rivalutazione ed interessi. Rigettò
le domande nei confronti degli altri convenuti. L’Arnas propose appello. Tizio propose appello incidentale. L’Assessorato propose appello incidentale in ordine al mancato rilievo del difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
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La Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarò il difetto di giurisdizione dell’a.g.o. in relazione alle pretese risarcitorie relative alle patologie manifestatesi sino al 30 giugno 1998 e condannò l’Arnas al pagamento di 163.900,00 a titolo di risarcimento dei danni
conseguenti alle patologie manifestatesi dal 1° luglio 1998
in poi.
Tizio ha proposto ricorso per cassazione.
La decisione
La Corte d’Appello ha diviso tra giudice amministrativo e
giudice ordinario, a seconda che le patologie causate dalla
esposizione a radiazioni si siano manifestate prima o dopo
il 30 giugno 1998. Tizio sostiene che la giurisdizione è del
giudice ordinario anche con riferimento alle patologie manifestatisi prima del 30 giugno 1998, l’Arnas sostiene invece che la giurisdizione è del giudice amministrativo anche
per le patologie manifestatesi dopo tale data.
Per le Sezioni Unite la giurisdizione è integralmente del giudice ordinario.
La Corte d’Appello ha accertato che, a causa della esposizione alle radiazioni, Tizio ha contratto una neoplasia vescicale accertata, come risulta dalle certificazioni mediche.
L’anno successivo si è poi manifestata una sindrome ansioso depressiva, di cui dà atto la commissione medica per
l’accertamento della invalidità civile. Sono poi intervenute
una “Alopecia multicentrica” alle gambe ed alle mani ed
una “Cataratta sotto capsulare bilaterale”, entrambe insorte a causa della esposizione alle radiazioni, come emerge
dalla consulenza tecnica d’ufficio .
Quindi, al di là delle relazioni tra le varie patologie, la Corte
ha accertato che dipendono tutte da una medesima causa,
costituita dalla esposizione a radiazioni ionizzanti senza l’adozione delle necessarie misure a tutela del lavoratore.
Questa comune eziologia comporta che le malattie sono
espressione di un fenomeno unitario e, di conseguenza,
unitario deve essere il giudizio sul relativo danno.
Vale, in questo caso, quanto le Sezioni Unite affermano costantemente da alcuni anni: “In tema di pubblico impiego
contrattualizzato, la sopravvivenza della giurisdizione del
giudice amministrativo, regolata dall’art. 69, comma 7,
D.Lgs. n. 165 del 2001, costituisce, nelle intenzioni del legislatore, ipotesi assolutamente eccezionale, sicché, per evitare il frazionamento della tutela giurisdizionale, quando il
lavoratore deduce un inadempimento unitario dell’amministrazione, la protrazione della fattispecie oltre il discrimine
temporale del 30 giugno 1998 radica la giurisdizione presso il giudice ordinario anche per il periodo anteriore a tale
data, non essendo ammissibile che sul medesimo rapporto
abbiano a pronunciarsi due giudici diversi, con possibilità
di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia. Nella
specie, la S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di risarcimento del danno
per prestazioni lavorative rese oltre il settimo giorno, anche
se relative a prestazioni espletate prima del 30 giugno
1998, trattandosi di diritto che non ha ad oggetto la corresponsione di una voce retributiva bensì di risarcimento del
danno da inadempimento contrattuale”. (Cass., SS.UU., 7
gennaio 2013, n. 142).
Di conseguenza, la giurisdizione nel caso in esame è integralmente del giudice ordinario.
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I precedenti
Cass., SS.UU., 7 gennaio 2013, n. 142, in Rep. Foro it.,
2013, Impiegato dello Stato e pubblico, n. 204.
La dottrina
Lamorgese, Giudice ordinario e amministrativo: in favore
della giurisdizione unica, in Questione giustizia, 2003, 1214;
Villata, Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv.
dir. proc., 2014, 285.
PROCESSO CIVILE
SENTENZA DEL GIUDICE DI PACE IN SEDE DI RINVIO
E IMPUGNAZIONE
Cassazione Civile, SS.UU., 9 giugno 2016, n. 11844 Pres. Rovelli - Rel. Ambrosio - P.M. Pratis (conf.) - P. V.
c. Atac S.p.a.
La sentenza emessa in sede di rinvio dal giudice di pace
è soggetta ad impugnazione in via ordinaria unicamente con il ricorso per cassazione?
► Risposta affermativa.
Il caso
Il Giudice di pace di Roma, decidendo, a seguito di ordinanza di cassazione con rinvio, sull’opposizione proposta
dalla Met.ro. S.p.a. (oggi Atac S.p.a.) avverso il precetto intimatole dall’avv. Tizio per il pagamento della differenza residua per spese giudiziali, accoglieva parzialmente l’opposizione e, ritenuta la Met.ro. S.p.a. tenuta al pagamento
della somma dovuta a titolo di IVA e CAP su tali spese, la
condannava al pagamento della somma, oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo.
Avverso detta decisione ha proposto ricorso per cassazione l’avvocato. Ha resistito I’Atac S.p.a., eccependo l’inammissibilità del ricorso e, comunque, la sua infondatezza.
La causa è stata rimessa alle Sezioni unite, ritenendo che
l’esame dello stesso implichi la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, concernente l’individuazione del mezzo di impugnazione di una sentenza
resa in sede di rinvio, nel caso in cui sia mutata la disciplina dell’impugnabilità rispetto al tempo in cui è iniziato il
giudizio previsto dall’art. 392 c.p.c. ss.
La decisione
Il nodo centrale della questione va individuato nella successione delle norme processuali conseguente alla duplice
novella dell’art. 616 c.p.c., sul presupposto (implicito) che
la sentenza emessa in sede di rinvio della controversia oppositiva in primo e (all’epoca) unico grado debba rinvenire
la regola della sua impugnazione nel medesimo art. 616
c.p.c. Sullo sfondo si prospetta il dubbio che la norma transitoria di cui all’art. 58, comma 2, L. n. 69/2009 possa
estendersi ai giudizi che non fossero, per la prima volta, in
primo grado al momento dell’entrata in vigore della legge.
Ritengono le Sezioni Unite che la soluzione del problema
debba trovare soluzione al di fuori della cornice di successione delle leggi nel tempo.
Nel caso in esame, si verte in un’ipotesi di rinvio “vero e
proprio”, posto che la cassazione dell’originaria sentenza
venne pronunciata in considerazione del carattere meramente apparente della motivazione del giudice di pace e,
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quindi, in ragione di un vizio, che si concreta, secondo
principio assurto a diritto vivente, in violazione di legge costituzionalmente rilevante, attenendo all’esistenza della
motivazione in sé.
Ritengono le Sezioni che, in ragione del carattere “prosecutorio” del giudizio di rinvio, non sia affatto utile il richiamo
al regime di impugnazione applicabile ratione temporis alla
sentenza di primo grado, dovendo ritenersi, piuttosto, che
il mezzo di impugnazione esperibile avverso la pronuncia
resa in sede di rinvio dalla cassazione non possa essere altro che il ricorso per cassazione.
Occorre ricordare le peculiari caratteristiche del giudizio
di rinvio (“vero e proprio”), tradizionalmente racchiuse
nelle formule del carattere rescissorio del rinvio, nell’autonomia, nonché nella natura “chiusa” dello stesso giudizio. Invero: “cassare con rinvio” significa chiudere il giudizio rescindente, affidando il giudizio rescissorio “ad altro giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la
sentenza cassata” (art. 383, comma 1, c.p.c.) o, anche,
“al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello
al quale le parti hanno rinunciato” (art. 383, comma 2,
c.p.c.); il giudizio di rinvio conseguente a cassazione,
dunque, pur dotato di autonomia, non dà vita ad un nuovo ed ulteriore procedimento, ma rappresenta una fase
ulteriore di quello originario da ritenersi unico ed unitario.
In tale prospettiva, parlare di “autonomia” del giudizio
del rinvio significa valorizzare che non si tratta di una
prosecuzione della pregressa fase del giudizio di merito,
bensì di un’autonoma fase del giudizio, funzionale a colmare il vuoto aperto nella controversia di merito dalla
pronuncia d’annullamento.
La stessa previsione della riassunzione della causa davanti
al giudice di rinvio prefigura non già un atto di impugnazione, bensì un’attività di impulso processuale volta a riattivare la prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza
cassata; mentre la circostanza che l’atto di riassunzione
debba essere notificato alla parte personalmente appare
più un retaggio storico, che un significativo indice dell’autonomia del giudizio di rinvio; del resto è proprio a causa
della natura “prosecutoria” del rinvio e, nel contempo, della autonomia della fase, che la durata ragionevole del giudizio di rinvio è stata individuata ai sensi della L. n. 89 del
2001 nella misura di un anno.
Se, dunque, la sentenza emessa in sede di rinvio non può
considerarsi “sostitutiva” di quella cassata, non vale interrogarsi se essa sia “sensibile” o meno alla norma processuale sopravvenuta che ha mutato il regime di impugnabilità della seconda e neppure se vi sia una “protrazione” del
regime processuale vigente al momento della sentenza
cassata, quale riflesso della consolidazione dell’originaria
posizione delle parti.
In definitiva va affermato il seguente principio: salvo il
caso di rinvio improprio (c.d. restitutorio), la sentenza
emessa in sede di rinvio è soggetta ad impugnazione in
via ordinaria unicamente con il ricorso per cassazione; e
ciò in quanto il giudizio di rinvio conseguente a cassazione, pur dotato di autonomia, non dà luogo ad un nuovo
procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario da ritenersi unico e unitario, che ha il suo “riferimento immediato” nel giudizio (rescindente) di cassazione. Di conseguenza tale regola di impugnazione si applica anche quando - avuto riguardo alla natura della
controversia e al regime di impugnabilità vigente al momento della cassazione con rinvio - le parti siano state ri-
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messe innanzi al giudice di primo e unico grado e, nelle
more, sia mutato il regime di impugnabilità della sentenza cassata.
I precedenti
Cass. 19 gennaio 2016, n. 779, ord.; Cass., Sez. VI, 2 ottobre 2015, n. 19769, in Rep. Foro it., 2015, Diritti politici e civili, n. 171.
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La dottrina
Sull’impugnabilità della sentenza emessa dal giudice di rinvio, De Cristoforo in Consolo, Codice di procedura civile, V
ed., Milano, 2013, II, sub. art. 394, 1263 ss.; Mandrioli Carratta, Il ricorso per cassazione e il giudizio di rinvio, in Diritto processuale civile - II, Il processo ordinario di cognizione, Capitolo VIII, Sezione III, Torino, 2015, 549.
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Osservatorio - Cassazione
Sezioni Semplici
a cura di Vincenzo Carbone
FAMIGLIA
ADOZIONE IN CASI PARTICOLARI
Cassazione Civile, Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962 Pres. Di Palma - Rel. Acierno - P.M. Ceroni (diff.) - Proc.
Gen. presso la Corte d’Appello di Roma c. C. M.R.
Può essere disposta, a favore di ciascuna delle parti di
un’ unione civile, l’adozione del figlio del rispettivo
partner in base all’art. 44, comma 1, lett. d), L. n.
184/1983, nel preminente interesse del minore?
► Risposta affermativa.
Il caso
Caia, legata da una relazione sentimentale e di convivenza
con la più giovane Tizia, ha chiesto al Trib. Min. di Roma la
possibilità di adottare ai sensi dell’art. 44, lett. d), L. n. 184
del 1983 la figlia procreata da Tizia in base a procedura di
procreazione medicalmente assistita, con il seme di un donatore anonimo, concordata da entrambe. La minore, come attestato da relazioni e perizie, vive serena in un contesto familiare, sociale e scolastico, con la presenza di nonni
e parenti come le altre bambine della sua età.
Il Tribunale accoglie la domanda di adozione in casi particolari, non ricorrendo per l’adozione non legittimante alcun
divieto per le persone singole, in quanto il legislatore ha inteso favorire il consolidamento di rapporti tra minore e parenti o persone che già se ne prendono cura, prevedendo
un modello adottivo con effetti più limitati rispetto a quello
di cui all’art. 6, L. n. 184 del 1983. La ratio va individuata
nella realizzazione dell’interesse del minore, da intendersi
come chiave interpretativa dell’istituto e le indagini richieste dall’art. 57, L. n. 184 del 1983 hanno nella specie rilevato la piena rispondenza dell’adozione al preminente interesse della minore. La condizione dell’impossibilità dell’affidamento preadottivo va interpretata non già restrittivamente,
come impossibilità “di fatto”, bensì come impossibilità “di
diritto”, così da comprendere anche minori non in stato di
abbandono, in ragione della presenza della madre, in grado
di occuparsene, ma relativamente ai quali nasca l’interesse
al riconoscimento dei rapporti di genitorialità con la convivente della madre.
Su gravame del P.M. la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello, osservando che nessuna delle quattro fattispecie di adozione in casi particolari, previste dall’art. 44, comma 1, richiede il preventivo accertamento di una situazione
di abbandono, in quanto la ratio ad esse sottesa è volta alla
salvaguardia di legami affettivi e relazionali preesistenti ed
alla risoluzione di situazioni personali nelle quali l’interesse
del minore ad un’idonea collocazione familiare è preminente e si realizza mediante l’instaurazione di “vincoli giuridici
significativi” con chi si occupa stabilmente di lui. L’impossibilità dell’affidamento preadottivo è incontestabile, esi-
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stendo un genitore consapevole del suo ruolo ed una figlia
minore che ha maturato un rapporto interpersonale, affettivo ed educativo anche con la partner convivente della madre.
La decisione
La Cassazione, richiamandosi al diritto vivente dell’art. 44,
L. n. 184/1983, alle modifiche apportate dalla L. n. 149 del
2001, e agli interventi giurisprudenziali, ribadisce di non
condividere l’interpretazione restrittiva del P.G. che si fonda sulla qualificazione della “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” come “impossibilità di fatto” che richiede la preesistenza della situazione di abbandono del
minore.
Sottolinea che l’art. 44, comma 1, stabilisce che l’accertamento di una situazione di abbandono (art. 8, comma 1)
non costituisce, differentemente dall’adozione legittimante,
una condizione necessaria per l’adozione in casi particolari,
e che tale prescrizione di carattere generale si applica a tutte le ipotesi previste dalle lett. a), b), c) e d) dello stesso art.
44. Infatti, tale norma dispone che “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui
al co. 1 dell’art. 7” e il richiamato art. 7, al comma 1, stabilisce come condizione necessaria per l’adozione legittimante la dichiarazione di adottabilità, la quale presuppone a
sua volta l’accertamento della situazione di abbandono così come prescritto nel successivo art. 8, comma 1. Risulta
pertanto, che l’adozione in casi particolari può essere dichiarata a prescindere dalla sussistenza di una situazione
di abbandono del minore adottando. Inoltre l’art. 11, comma 1 subordina l’adottabilità del minore privo di genitori e
di parenti entro il quarto grado alle richieste di adozione
previste dall’art. 44.
Ne consegue che, per integrare la condizione della constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo, non debba
sussistere la situazione di abbandono. In particolare, va aggiunto che nell’ipotesi della lettera d) nessun requisito viene indicato per definire i profili dell’adottante e dell’adottando, essendo soltanto prevista la condicio legis della
constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo.
Con la sent. n. 383 del 1999 la Corte cost. afferma che
l’art. 44 della L. n. 184 del 1983 si sostanzia in una sorta di
clausola residuale per i casi speciali non inquadrabili nella
disciplina dell’adozione “legittimante”, consentendo l’adozione dei minori anche quando non ricorrono le condizioni
di cui al comma 1.
In conclusione, l’interpretazione della espressione “constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo” da prescegliere è quella adottata dalla Corte d’Appello di Roma, coerentemente con il sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva attualmente vigente,
ritenendo sufficiente l’impossibilità “di diritto” di procedere
all’affidamento preadottivo e non solo quella “di fatto”, derivante da una condizione di abbandono in senso tecnicogiuridico o di semi abbandono (art. 8, comma 1).
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Infine la L. n. 173 del 19 ottobre 2015, volta a facilitare l’accesso all’adozione legittimante da parte delle famiglie affidatarie che abbiano condiviso con il minore un lungo periodo di affidamento, è stata introdotta proprio perché, pur in
difetto dello stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti, che se ne prendano cura.
I precedenti
Corte cost. 7 ottobre 1999, n. 383, in Giust. civ., 1999, I,
3215; Cass., Sez. I, 27 settembre 2013, n. 22292; Cass. 2
febbraio 2015, n. 1792. Cfr., tra gli altri, Cedu 27 aprile
2010, Moretti e Benedetti contro Italia - ricorso n. 16318 del
2007 nella quale viene adottata soluzione che privilegia la
relazione istaurata con gli affidatari provvisori; il medesimo
principio è stato affermato nella sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia del 27 gennaio 2015 - ricorso n. 25358 del
2012.
La dottrina
Ferrando, Diritto di famiglia, Bologna, 2013, 319 ss.; Long,
L’adozione in casi particolari del figlio del partner dello stesso
sesso, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 117; Sesta, Manuale del diritto di famiglia, VI ed., Milano, 2015, 427; Tommaseo, Sul riconoscimento dell’adozione piena avvenuta all’estero, del figlio del partner di una coppia omosessuale, in
Fam. e dir., 2016, 275. Ciraolo, Dell’adozioni in casi particolari, in Comm. del codice civile diretto da Gabrielli, IV, leggi
collegate, Torino, 2010, 249 ss.; Orsingher, L’adozione in
casi particolari, in Tratt. Cendon, Il diritto di famiglia nei nuovi orientamenti giurisprudenziali, IV, Milano, 2006, 489 ss.;
Rossi Carleo, L’adozione in casi particolari, in Tratt. Rescigno, II ed., Torino, 1997, 4, 462 ss.
SOCIETÀ
SCRITTURE CONTABILI INFORMALI E RESPONSABILITÀ
DEGLI AMMINISTRATORI DI UNA S.R.L.
Cassazione Civile, Sez. I, 16 giugno 2016, n. 12454 Pres. Forte - Rel. Scaldaferri - P.M. Salvato (conf.) M.D. c. Curatela fallimentare della M. Costruzioni S.r.l.
In tema di responsabilità degli amministratori di società
a r.l. per i danni ad essa cagionati da operazioni illegittime, il giudice, al fine di ricostruire l’andamento degli affari sociali e di valutare gli effetti concreti dell’operato
degli amministratori medesimi, può tener conto anche
delle risultanze di scritture contabili informali, non conformi alle prescrizioni di legge?
► Risposta affermativa.
Il caso
Nel giugno 1994 il Curatore del fallimento della M. Costruzioni S.r.l., dichiarato nel settembre 1993, convenne in giudizio gli amministratori della società fallita Tizio e Caio per
sentir accertare la loro responsabilità per i danni arrecati alla società ed ai suoi creditori, in conseguenza delle molteplici violazioni dei doveri inerenti alla funzione svolta, quali
tra l’altro il prelevamento ingiustificato nei tre mesi antecedenti il fallimento di complessive lire 63.923.500 ed il mancato rinvenimento della cassa risultante in contabilità pari
a lire 466.236.973. I convenuti, costituitisi in giudizio, contestarono gli addebiti.
1172
In esito ad istruttoria incentrata su produzioni documentali
ed espletamento di consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Venezia, preso atto della transazione nel frattempo intervenuta tra la Curatela e Caio, dichiarava la responsabilità
di Tizio e lo condannava al risarcimento del danno in misura corrispondente agli importi da lui prelevati ingiustificatamente ed alla metà della cassa non rinvenuta.
Proposto appello da Tizio, la Corte d’Appello di Venezia rigettava il gravame, rilevando: a) che i prelievi compiuti dall’appellante nell’ultimo periodo dell’attività sociale risultavano annotati puntualmente in un brogliaccio redatto da
una addetta alla contabilità, la quale aveva dichiarato al
Curatore, e confermato sia al P.M. sia in sede dibattimentale nel procedimento penale per bancarotta, la natura extracontabile di tali prelievi, a nulla rilevando la mera illazione dell’appellante secondo cui quelle somme sarebbero
state utilizzate per pagare creditori o dipendenti; b) che,
quanto alla cassa, l’appellante non negava che le risultanze
contabili ufficiali corrispondessero all’addebito mossogli,
sicché - esclusa la utilità di disporre una rinnovazione della
consulenza d’ufficio espletata - era suo onere giustificare e
debitamente provare l’utilizzo di quelle somme per fini sociali, ma tale onere non aveva assolto giacché i capitoli di
prova per testi da lui articolati in prime cure avevano ad oggetto circostanze del tutto generiche o giudizi inibiti ai testi,
e la documentazione da lui prodotta era inutilizzabile allo
scopo, mancando ogni elemento che potesse mettere in
relazione le uscite che essa attesterebbe e l’ammontare
della cassa, maturatosi peraltro in più esercizi; c) che, in ordine al quantum, infondata era anche la pretesa dell’appellante di sottrarre i prelievi di cui al brogliaccio dall’importo
della cassa, che costituiva il risultato delle operazioni contabili ufficiali già di per sé idonee a determinare l’ammontare dell’ammanco.
La decisione
La Corte di legittimità ha già avuto modo di rilevare persuasivamente come, in tema di responsabilità degli amministratori di società a r.l. per i danni ad essa cagionati da
operazioni illegittime, il giudice ben possa tenere conto, al
fine di ricostruire nei limiti del possibile l’andamento degli
affari sociali, e di valutare gli effetti concreti dell’operato
degli amministratori medesimi, delle risultanze di scritture
contabili informali, cioè per l’appunto non conformi alle
prescrizioni di legge. Tale non conformità - essa stessa peraltro configurabile come causa di responsabilità a carico
dell’amministratore - non può certo precludere l’apprezzamento nel giudizio in esame delle risultanze di tale contabilità per così dire occulta: non in particolare per il disposto
degli artt. 2709 c.c. ss. che riguardano il regime della prova
nei rapporti di credito e debito dell’imprenditore nei confronti di terzi, mentre qui si controverte della responsabilità
dell’amministratore verso la società da lui stesso amministrata, e si tratta quindi di accertare quali condotte gestorie
egli abbia compiuto attraverso il prudente apprezzamento
di tutti gli elementi di prova disponibili. Quanto poi alla utilizzabilità nel processo civile di prove (nella specie, le dichiarazioni della addetta alla contabilità di conferma dei
prelievi da lei annotati nel brogliaccio a nome del ricorrente) raccolte in altri processi, è principio consolidato nella
giurisprudenza della Cassazione che il giudice civile può, in
mancanza di qualsiasi divieto di legge ed in virtù del principio dell’unità della giurisdizione, legittimamente utilizzare
anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse o
anche fra altre parti (anche ove, trattandosi di giudizio penale definito con sentenza ai sensi dell’art. 444 c.p.p., sia
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Giurisprudenza
Sintesi
mancato il vaglio critico del dibattimento), acquisite dinanzi
a sé nel regolare contraddittorio tra le parti, e da esse desumere elementi che - al di fuori dei casi di opponibilità
dell’accertamento derivante dal giudicato - devono peraltro
costituire oggetto di autonoma valutazione nel critico raffronto, riservato al giudice di merito e non censurabile in
sede di legittimità se congruamente motivato, con le altre
risultanze del processo.
Nel caso in esame, è fuori discussione che le suddette dichiarazioni rilasciate in varie sedi dalla addetta alla contabilità siano state acquisite e valutate nel regolare contraddittorio tra le parti.
Quanto inoltre all’onere della prova della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, la corte di merito ha ritenuto correttamente che, una volta provato il compimento
da parte del ricorrente di prelievi extracontabili di somme
della società da lui amministrata, incombesse sul medesimo fornire debita giustificazione di tali atti in conformità ai
doveri anzidetti.
I precedenti
Cass., Sez. lav., 30 gennaio 2013, n. 2168.
La dottrina
Di Palma, Omessa o incompleta tenuta della contabilità sociale: responsabilità dell’amministratore, in Danno e resp.,
2012, 48; Peja - Vanetti, Controllo contabile e principi contabili nella piccola srl, in Società, 2008, 932; Stesuri, Accertamento induttivo, contabilità occulta e attività mediatoria, in
Riv. giur. trib., 1998, 332.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
CONDANNA DELLA P.A. AD UN FACERE
Cassazione Civile, Sez. III, 14 giugno 2016, n. 12142 Pres. Chiarini - Rel. Scrima - P.M. Fuzio (diff.) - G.M.
GA. MAT., GA. MAR., Azienda Agricola Valena c. Comune di S. Pietro in Cariano
La P.A. può essere condannata ad un facere dal giudice
ordinario cui venga chiesto di eliminare un pregiudizio
arrecato da un comportamento della P.A. ad un diritto
fondamentale del privato?
► Risposta affermativa.
Il caso
Nel 1997 l’Azienda Agricola Valena, proprietaria del fondo
denominato Valena, G.M. e GA.MAT. E MAR., comproprietari del fondo rustico denominato Monte Cariano, attiguo
al fondo Valena, e l’Azienda Agricola Monte Cariano, conduttrice di entrambi i detti fondi, convenivano in giudizio,
innanzi al Tribunale di Verona, il Comune di S. Pietro in Cariano.
Deducevano gli attori che nel 1992 il convenuto, nel realizzare una nuova rete fognaria a servizio di una parte dell’abitato cittadino, aveva collocato, a loro avviso abusivamente, una tubazione che andava a sfociare all’interno di un
vecchio fossato di scolo delle acque meteoriche denominato “valena”, che si estendeva lungo il margine dei terreni
agricoli costituenti i predetti fondi; rappresentavano che
dalla tubazione già ricordata fuoriuscivano dei liquami che
si riversavano nel fossato “valena” e che tracimavano anche nei predetti terreni posti a suo margine, con danni sia
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per i terreni che per le relative colture e chiedevano, pertanto, la condanna del Comune a rimuovere “le tubazioni
fognarie e i terminali” posti nel fossato “valena” e ad eseguire tutte le opere ritenute necessarie allo scopo nonché
al risarcimento dei danni subiti.
Il convenuto si costituiva contestando la domanda e chiedendone il rigetto.
Il Tribunale di Verona, accogliendo le domande attoree,
condannava il comune ad eseguire le opere indicate nella
relazione del c.t.u. per l’eliminazione dello “scarico” contestato nonché al pagamento in favore degli attori, di una
somma a titolo di risarcimento danni.
Avverso tale decisione il Comune proponeva appello. La
Corte d’Appello di Venezia accoglieva in parte l’appello
proposto e, in parziale riforma della sentenza impugnata,
che confermava nel resto, rigettava le domande risarcitorie
proposte dagli attori nei confronti del Comune.
La decisione
I ricorrenti sostengono che erroneamente la Corte di merito
avrebbe affermato che non sarebbe possibile emettere una
sentenza di condanna ad un facere a carico del Comune,
che avrebbe posto in essere e manterrebbe un’attività illecita, condanna già emanata dalla sentenza di primo grado,
la quale, contrariamente a quanto indicato dalla Corte di
merito, conterrebbe una condanna nei confronti della P.A.
In linea di principio la P.A. può essere condannata ad un
facere tutte le volte che al G.O. sia chiesto di eliminare un
pregiudizio arrecato da un comportamento della P.A. ad un
diritto fondamentale del privato, non venendo in tali ipotesi
in discussione l’esercizio del potere, normalmente discrezionale della P.A. ma la necessità del ripristino delle condizioni di legalità, per il che non può configurarsi la possibilità di una scelta diversa da quella costituita dal ripristino, in
quanto, in tali casi, la relativa domanda non investe scelte
ed atti autoritativi dell’Amministrazione medesima, ma mera attività materiale di essa, soggetta al rispetto del principio del neminem laedere.
Va tuttavia detto che, nella specie, la Corte di merito, in sostanza, ha confermato nei confronti del Comune, “l’ordine
di inibizione delle denunciate immissioni nel fosso di scolo
interessante anche i terreni di parte appellata e suscettibili
di arrecare a questa danni risarcibili”, precisando che la
pronuncia di primo grado non contiene “un ordine ad eseguire opere pubbliche” - e di tanto si era doluto in appello
espressamente il Comune che non aveva “contestato che
potesse essere condannato ad eliminare i reflui” - “limitandosi la decisione del Tribunale a recepire, a titolo esemplificativo, le possibili soluzioni del problema inquinamento/invasione dell’altrui proprietà, sul piano tecnico, rimettendo
alla ovvia discrezionalità del Comune la scelta dei criteri da
adottare, previa la necessaria indagine ambientale”.
Correttamente, quindi la Corte di merito ha ritenuto necessaria la prova dei danni e, in base ad accertamenti di fatto,
congruamente motivando al riguardo, ha escluso la sussistenza dei danni, in difetto di prova sul punto, evidenziando
che “carente è, altresì, la prova dell’erroneamente riconosciuto danno per diminuzione del valore del bene, che, a
detta del Tribunale, ricorrerebbe anche a prescindere dalla
possibile messa in vendita”, sostenendo che “era onere...
dei danneggiati dedurre una qualche situazione corrispondente a perdita di occasioni di collocare il terreno sul mercato, a motivo dell’inquinamento in corso” ed evidenziando
che, “in ogni caso, essendosi accertato in positivo, che la
produzione aziendale vitivinicola non ha subito flessione
nelle annate pur interessate dagli illeciti sversamenti, non è
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certamente ravvisabile il riconosciuto danno pel supposto
minor valore del terreno, che ha continuato a dare i suoi
frutti nel tempo, garantendo alla proprietà il suo pieno godimento, sotto il profilo del reddito economico e quindi pure del suo inalterato valore”.
I precedenti
Cass., SS.UU., 20 febbraio 1992, n. 2092, in Foro it., 1992,
I, 2123, in questa Rivista, 1992, 515, con nota di Virga, in
Giur. amm. sic., 1992, 448, in Riv. pen. economia, 1992,
225, con nota di Carbone.
La dottrina
Salvago, Inammissibilità di sentenze di condanna della p.a.
ad un facere specifico: un lungo cammino per il superamento del privilegio, in Giust. civ., 1993, I, 750.
RISARCIMENTO DA FATTO ILLECITO
DIFFERENZA TRA INTERESSI COMPENSATIVI E MORATORI
Cassazione Civile, Sez. III, 14 giugno 2016, n. 12140 Pres. Armano - Rel. Cirillo - P.M. Russo (diff.) - P.G. c.
D.S.O.
Se gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e
natura diversi da quelli moratori, regolati dall’art. 1224
c.c., in quanto rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono una necessaria componente, nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito deve ritenersi
implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento
degli interessi compensativi che il giudice di merito può
attribuire senza incorrere nel vizio di ultrapetizione?
► Risposta affermativa.
Il caso
Tizio e caio convennero in giudizio Sempronio davanti al
Tribunale di Rieti e - sulla premessa di essere nudo proprietario ed usufruttuario di un terreno con annesso fabbricato,
una porzione del quale era di proprietà del convenuto, e
che quest’ultimo aveva demolito una parte del fabbricato,
aveva occupato aree di loro proprietà ed aveva reso inaccessibile l’accesso comune - chiesero che sempronio fosse
condannato alla rimozione della recinzione installata, alla ricostruzione dei locali demoliti ed al riconoscimento dei loro
diritti di nuda proprietà ed usufrutto.
Si costituì in giudizio Sempronio, chiedendo il rigetto della
domanda ed avanzando domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni da lui patiti ad opera degli attori, ivi
compresi quelli per il mancato reddito ottenibile dai locali
del primo piano del complesso immobiliare, per il periodo
dal 1972 al 1986.
Il Tribunale dichiarò cessata la materia del contendere in
ordine alla domanda di rimozione della recinzione, rigettò
le altre domande di Tizio e Caio ed anche le riconvenzionali
del convenuto, ad eccezione di quella relativa alla mancata
fruizione dei redditi di cui sopra, determinati in lire dieci milioni. La pronuncia fu appellata da entrambe le parti e la
Corte d’Appello di Roma rigettò l’appello proposto da Sempronio e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale
di Tizio e Caio, riformò la sentenza del Tribunale rigettando
1174
anche la domanda riconvenzionale di Sempronio che aveva
trovato accoglimento in primo grado. La pronuncia della
Corte d’Appello fu cassata con la sent. 8 settembre 1998,
n. 8876, con rinvio alla medesima Corte d’Appello.
Riassunto il giudizio, la Corte d’Appello di Roma accolse
l’appello di sempronio e condannò Tizio e Caio al risarcimento dei danni, provvedendo alla liquidazione del danno,
assumendo come base il valore locativo dell’immobile e riconoscendo una percentuale di concorso di colpa anche a
Sempronio in relazione alla manutenzione del tetto del fabbricato. Avverso entrambe le sentenze proposero ricorso
principale Sempronio e ricorso incidentale Tizio e Caio e la
Cassazione, con sent. 6 giugno 2007, n. 13242, accolse in
parte il ricorso principale ed in parte anche quello incidentale; riconobbe che nessuna concorrente responsabilità per
i lamentati danni poteva essere riconosciuta a carico di
Sempronio ai sensi degli artt. 1225 e 1227 c.c. ed aggiunse
che i danni dovevano essere calcolati con riferimento all’andamento del mercato immobiliare e limitatamente al
solo periodo richiesto, ossia dal 1972 al 1986.
Cassate entrambe le sentenze impugnate, il giudizio fu
nuovamente rinviato alla Corte d’Appello di Roma e, con
sentenza dell’8 febbraio 2012, ha condannato Tizio e Caio
al pagamento di una somma in favore di Sempronio.
La Corte d’Appello ha determinato il valore locativo dell’immobile anno per anno; dopo di che, trattandosi di responsabilità extracontrattuale e, perciò, di obbligazione di valore, ha rivalutato le somme già calcolate al momento della
liquidazione, pervenendo ad un totale di euro 136.538,66 a
titolo di sorte capitale. Sulle somme dovute e rivalutate anno per anno la Corte ha poi ritenuto dovuti anche gli interessi compensativi al tasso legale di volta in volta vigente,
con un totale di euro 133.608,87 per quel titolo. La somma
totale, quindi, è stata determinata in euro 270.147,53, che
la Corte romana ha ritenuto di poter riconoscere “in quanto
rientrante in quella richiesta al netto di rivalutazione ed interessi”.
La decisione
La giurisprudenza della Cassazione ha più volte affermato
che gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento da atto illecito, costituendo una componente del risarcimento, possono essere attribuiti anche in
assenza di un’espressa domanda della parte creditrice.
Corretta è, quindi, la decisione della Corte d’Appello che,
avendo ricondotto la responsabilità di Tizio e Caio nell’ambito extracontrattuale, ha provveduto a rivalutare all’attualità l’importo del credito e ad attribuire gli interessi compensativi, anche in assenza di espressa domanda.
Gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento
del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono una necessaria
componente. Ne consegue, quindi, che nella domanda di
risarcimento del danno per fatto illecito deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi e che il giudice di merito deve attribuirli
senza per ciò solo incorrere in ultrapetizione.
È pacifico il principio per cui il denaro è dotato di una sua
normale redditività, nel senso che poterlo avere a disposizione implica, di regola, la produzione di altro denaro. Si è
detto a questo proposito, infatti, che il ritardato adempimento dell’obbligo di risarcimento causa al creditore un
danno ulteriore, rappresentato dalla perduta possibilità di
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investire la somma dovutagli e ricavarne un lucro finanziario. Tale danno va liquidato dal giudice in via equitativa, anche facendo ricorso ad un saggio di interessi (cosiddetti interessi compensativi), i quali non costituiscono un frutto civile dell’obbligazione principale, ma una mera componente
dell’unico danno da fatto illecito. Ciò che conta, naturalmente, è che tali interessi compensativi dovuti per il danno
da ritardo non vengano calcolati dalla data dell’illecito sulla
somma liquidata per capitale e rivalutata sino al momento
della decisione, ma siano invece computati o con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, per
effetto dei prescelti indici medi di rivalutazione monetaria,
ovvero anche in base ad un indice medio, e tanto allo scopo di evitare un’ingiusta locupletazione a favore del danneggiato.
I precedenti
Cass., Sez. I, 17 settembre 2015, n. 18243. Cfr. Cass. 18 dicembre 2012, n. 23362, Cass. 9 ottobre 2012, n. 17155;
Cass. 3 marzo 2011, n. 5148.
La dottrina
Del Grosso, La funzione degli interessi compensativi: il risarcimento del lucro cessante nei debiti di valore, in Nuova giur.
civ. comm., 2008, I, 1020; Gambino, Dalla legge Efim nuove
luci su interessi corrispettivi, moratori compensativi, maggior
danno e suo meccanismo rivalutativo, in Economia e dir. del
terziario, 1994, 455.
RISARCIMENTO DEL DANNO
GODIMENTO DEL SERVIZIO TELEVISIVO SATELLITARE
Cassazione Civile, Sez. III, 10 giugno 2016, n. 11912 Pres. Ambrosio - Rel. Armano - P.M. Pratis (diff.) - S.T.A
Strutture Trasporto Alto Adige S.p.a. c. L.C.
Va risarcito il danno subito dal proprietario di una unità
immobiliare, sita in uno stabile sul quale transita più
frequentemente una funivia, in conseguenza del relativo ammodernamento, che determina continue interferenze del segnale satellitare, con interruzioni periodiche
e costanti?
► Risposta affermativa: il diritto del cittadino a vedere
senza interruzione programmi televisivi è un diritto
soggettivo meritevole di tutela di fronte all’aggravamento della servitù per l’intensificazione del passaggio
delle cabine della funivia.
Il caso
Tizio ha citato in giudizio la società STA per ottenere il risarcimento del danno derivato dagli ammodernamenti della funivia e dal conseguente passaggio più frequente delle
cabine della stessa, a causa del quale si erano verificate
continue interferenze del segnale satellitare di SKY, con interruzione periodiche e costanti dei programmi televisivi
nella misura 12 secondi ogni quattro minuti di programmazione.
A seguito dell’eccezione proposta dalla società S.T.A, che
ha dedotto l’esistenza di una antica servitù che le consentiva di passare nella area soprastante il condominio di Tizio
e di realizzare ogni opera inerente alla funivia stessa, il Giudice di pace di Bolzano ha rigettato la domanda, ritenendo
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che era provata l’esistenza del diritto di sorpasso sul condominio, e che tale diritto prevedeva la possibilità di adeguare la frequenza del passaggio nell’interesse della collettività.
Di conseguenza la maggiore intensità del passaggio era
una legittima facoltà tesa soddisfare la pubblica richiesta di
trasporto e non un aggravio di servitù.
Il Tribunale di Bolzano, a modifica della decisione di primo
grado, ha accolto la domanda proposta da Tizio nei confronti della S.T.A Strutture Trasporto Alto Adige S.p.a, volta
ad ottenere il risarcimento del danno subito a seguito dell’ammodernamento e della ristrutturazione della Funivia
che ha provocato la moltiplicazione dei disturbi alla ricezione del segnale satellitare Sky.
La decisione
La società ricorrente sostiene che la Corte d’Appello si è allontanata dal modello legale di responsabilità, ritenendo
che il diritto del cittadino a vedere senza interruzione programmi televisivi sia un diritto soggettivo meritevole di tutela.
Il giudice d’appello non è incorso nella violazione di legge
denunziata nel riconoscere il risarcimento del danno in favore di Tizio in conseguenza della violazione del suo diritto
all’indisturbato godimento del servizio televisivo satellitare.
Correttamente il giudice di merito ha riconosciuto che l’attività della società che, con l’intensificazione del passaggio
delle cabine della funivia, aveva determinato un danno che
esulava dal contenuto della servitù e che doveva essere risarcito comunque a chi l’aveva subito, anche nell’ipotesi si
trattasse come nella specie di proprietario del fondo servente.
La Cassazione ricorda che la Corte ha già affermato, in relazione al diritto all’installazione di antenne per apparecchi
radiofonici appartenenti agli abitanti degli stabili e degli appartamenti medesimi - che tale diritto attribuisce ai detti
abitanti un diritto di natura personale all’installazione ed alla manutenzione degli impianti.
Il diritto riconosciuto dall’art. 232, comma 2, d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, ad ogni occupante, proprietario od inquilino, di unità immobiliari di appoggiare antenne televisive
sui muri e sulle coperture dei fabbricati, si configura come
un diritto soggettivo perfetto ed assoluto di natura personale, avente la sua fonte nella primaria libertà, costituzionalmente garantita, all’informazione.
Correttamente il giudice di merito ha escluso che si fosse
in presenza di ipotesi di esercizio della servitù o di aggravamento della servitù, in quanto quelle invocato da Tizio e riconosciuto come sussistente è la tutela del diritto soggettivo di natura personale che trova la sua fonte del diritto costituzionalmente garantito all’informazione.
I precedenti
Cass., Sez. II, 29 gennaio 1993, n. 1139, in Rep. Foro it.
1993, Radiotelevisione, n. 75; Cass., SS.UU., 7 aprile 2014,
n. 8053, in Foro it., 2015, I, 209, con nota di Quero; già
Cass., Sez. II, 11 marzo 1975, n. 906, in Mass. Giust.
civ., 1975, 411 riconosce la tutela del diritto soggettivo di
natura personale all’informazione.
La dottrina
Faini, Diritto all’informazione, diritto d’autore, diritto alla privacy: né vincitori né vinti, in Ciberspazio e dir., 2014, 147;
Cicoria, Dal diritto d’informazione al diritto all’informatizzazione, in Giust. civ., 2012, II, 475.
1175
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Sintesi
Osservatorio - Cassazione
Contrasti giurisprudenziali
a cura di Giacomo Travaglino
CONTRASTI TRA SEZIONI SEMPLICI
RESPONSABILITÀ MEDICA E PROVA DEL NESSO CAUSALE
Nei giudizi di colpa medica, su quale parte grava l’onere
di provare il nesso causale tra l’operato dai sanitari e
l’evento di danno lamentato dal paziente?
Gli orientamenti sul punto
La delicata e controversa questione della prova del nesso
causale nei giudizi di responsabilità medica, nonostante l’inequivoco dictum delle Sezioni Unite della Corte di legittimità del 2008 in tema di danni da trasfusione di sangue infetto (Cass., SS.UU., nn. 576 e 577/2008) è stata oggetto,
di recente, in seno alla III Sezione civile della Corte, di soluzioni non omogenee, volta che:
- secondo un primo orientamento, nei giudizi in parola l’attore avrebbe l’onere di allegare, ma non provare il nesso di
causa, gravando sul medico l’onere di dimostrare che il
danno lamentato dal paziente non è stato causato dalla
propria condotta.
- un secondo orientamento, del tutto speculare rispetto al
primo, postula che, nei giudizi di responsabilità medica, sia
l’attore a dover allegare e provare il nesso di causa tra la
condotta del medico ed il danno subìto.
- un terzo orientamento, che può definirsi “intermedio” tra i
primi due, è predicativo del principio secondo il quale, pur
dovendo l’attore provare il nesso di causa tra la condotta
del medico ed il danno subìto, tale prova ben potrebbe essere fornita in via presuntiva, anche solo dimostrando - in
ipotesi - che l’intervento del medico non ha guarito il paziente (cd. “stato di inalterazione”), ovvero ne ha peggiorato le condizioni pregresse.
Del primo orientamento si trova applicazione, tra le altre,
nella pronuncia di cui a Cass. 30 settembre 2014, n.
20547, ove si legge (in conformità con l’insegnamento
delle Sezioni Unite) che, nel giudizio di risarcimento del
danno conseguente ad attività medico chirurgica, l’attore
danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto
(o il contatto sociale) e l’insorgenza (o l’aggravamento)
della patologia, e di allegare l’inadempimento qualificato
del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno
lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della
struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato
causa del danno. Ne consegue che qualora, all’esito del
giudizio, permanga incertezza sull’esistenza del nesso
causale fra condotta del medico e danno, questa ricade
sul medico/debitore. (Nella specie, la S.C. ha cassato la
sentenza di merito che, escludendo il nesso di causalità,
aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata dai familiari di una paziente deceduta, in quanto la consulenza
tecnica d’ufficio aveva assegnato un identico grado di
possibilità alle due cause di morte tecnicamente ipotizzabili, una sola delle quali ascrivibile alla condotta del sani-
1176
tario, con conseguente insuperabile incertezza in tema di
accertamento del nesso causale).
Un secondo e contrapposto orientamento (Cass. 20 ottobre 2015, n. 21177; 9 ottobre 2012, n. 17143) afferma, invece, che spetta all’attore provare l’esistenza del rapporto
di cura, del danno e del nesso causale, dopo aver allegato
la colpa del medico, sul quale incombe l’onere di dimostrare che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a
quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a sé non imputabile.
Nello stesso ordine di idee, si è affermato che la responsabilità del medico per i danni lamentati dal paziente (nella
specie, danni cerebrali da ipossia patiti da un neonato, ed
asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto),
esige la prova - che dev’essere fornita dal danneggiato della sussistenza di un valido nesso causale tra l’omissione
dei sanitari ed il danno. Tale prova sussiste quando, da un
lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal
neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall’altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o
diverso intervento o da parte del medico avrebbe evitato il
danno al neonato. Una volta fornita tale prova con riguardo
al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell’art.
1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta.
(così, Cass. 9 giugno 2011, n. 12686); ed ancora si è sostenuto che grava sul danneggiato l’onere della prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione
patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie), nonché
del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione
dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che
la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (Cass. 11 novembre 2005, n.
22894).
Un terzo orientamento, infine, afferma il principio secondo il quale la distribuzione dell’onere probatorio riguardo
al nesso causale deve tenere conto della circostanza che
la responsabilità è invocata in forza di un rapporto obbligatorio corrente fra le parti ed è dunque finalizzata a far
valere un inadempimento oggettivo. Ne consegue che,
per il paziente/danneggiato, l’onere probatorio in ordine
alla ricorrenza del nesso di causalità materiale - quando
l’impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema che egli presentava - si sostanzia nella prova che l’esecuzione della prestazione si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, rappresentato o
dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta
la prestazione, o dal suo aggravamento, fino ad esiti finali
costituiti dall’insorgenza di una nuova patologia o dal decesso del paziente. (Cass. 12 settembre 2013, n. 20904).
Ed ancora si è affermato (Cass. 16 gennaio 2009, n. 975)
che, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della
struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve for-
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Giurisprudenza
Sintesi
nire la prova del contratto (o del “contatto”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di
nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo
nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari,
restando a carico dell’obbligato - sia esso il sanitario o la
struttura - la prova che la prestazione professionale sia
stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano
stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile;
tuttavia, l’insuccesso o il parziale successo di un intervento di routine, o, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implica di per sé la prova dell’anzidetto nesso di
causalità, giacché tale nesso, in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile
che non”.
IMPOSTA DI REGISTRO E OMESSA PRESENTAZIONE
O INEFFICACIA DELL’ISTANZA DI CONDONO
Deve ritenersi, o meno, applicabile l’art. 11 della L. n.
289 del 2002, che prevede la proroga di due anni dei termini per l’accertamento relativo a imposte di registro,
ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni e sull’incremento di valore degli immobili, in caso di omessa
presentazione o inefficacia dell’istanza di condono ai
casi di violazione commessa in epoca successiva alla
scadenza del termine per proporre la relativa domanda?
Gli orientamenti sul punto
Con ord. 25 novembre 2015, n. 24118, la V Sezione della
S.C. (Pres. Cicala - Rel. Cosentino) offre risposta positiva al
quesito, ritenendo che la proroga di due anni dei termini
per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta di
registro ex art. 11, comma 1, L. n. 289 del 2002, in caso di
omessa presentazione o inefficacia dell’istanza di condono,
sia applicabile anche alla definizione delle violazioni riguardanti le connesse agevolazioni tributarie, a condizione che,
al momento in cui si è verificato l’evento determinante la
revoca del beneficio fiscale, non fosse già spirato il termine
per proporre domanda di condono, atteso che, se entro tale data non c’è alcuna violazione, difettano i presupposti
giuridici del condono e della conseguente proroga di cui al
citato art. 11. (il principio è stato enunciato in una fattispecie relativa alla perdita dei benefici fiscali ex art. 33, comma 3, L. n. 388 del 2000, conseguente alla vendita dell’area compresa in un piano particolareggiato, senza previo
adempimento dell’obbligo di edificare: la Corte ha rigettato
il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva annullato l’avviso di
accertamento con cui l’Ufficio a sua volta aveva revocato
le agevolazioni fiscali ex art. 33, L. n. 388 del 2000 concesse sulla registrazione dell’atto di acquisto di un’area compresa in un piano urbanistico particolareggiato - conseguentemente riliquidando le imposte di registro ipotecarie,
e catastali -, per avere il contribuente rivenduto l’area senza
avervi edificato).
La pronuncia segnalata si pone in consapevole contrasto
con l’opposto principio, che si legge nell’ord. 19 novembre 2014, n. 24683 della stessa sezione tributaria, a mente
del quale, in tema di perdita dell’agevolazione fiscale sul
pagamento dell’imposta di registro per l’acquisto della prima casa, conseguente all’omesso trasferimento della residenza nel comune in cui è sito l’immobile, il termine per la
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rettifica, la liquidazione della maggiore imposta e l’irrogazione delle relative sanzioni è soggetto alla sospensione
prevista dall’art. 11, comma 1, L. 27 dicembre 2002, n. 289
ed è, conseguentemente, prorogato di due anni, dovendosi
ritenere irrilevante che il termine per la presentazione dell’istanza di definizione in via breve scada in data anteriore a
quello fissato per il trasferimento della residenza, in quanto, ai fini dell’astratta definibilità del rapporto d’imposta, è
essenziale unicamente l’intervenuta o omessa registrazione
entro il 30 settembre 2003, mentre è del tutto ininfluente la
non ancora maturata perdita del beneficio fiscale.
Alla luce di tale, contrapposto orientamento, ai fini del riconoscimento della proroga dei termini per l’azione di accertamento dell’amministrazione finanziaria, rileverebbe la sola circostanza della intervenuta registrazione entro il termine per la richiesta di condono, senza che spieghino influenza gli ulteriori sviluppi cronologici della fattispecie e, in particolare, senza che rilevi che il fatto generatore della perdita
del beneficio intervenga in epoca successiva alla data fissata per la presentazione dell’istanza di condono, e ciò perché (si legge in motivazione), per l’ipotesi della violazione
della disciplina agevolatrice la norma impone la condizione
della presentazione, entro il 16 ottobre 2003, di un’istanza
con contestuale dichiarazione di non volere beneficiare dell’agevolazione precedentemente richiesta: essendo detta rinuncia del tutto indipendente dall’intervenuta scadenza del
termine entro il quale assolvere all’onere di legge, deve ritenersi che non possa attribuirsi alcuna efficacia alla non
ancora maturata perdita del beneficio, circostanza del tutto
ininfluente ai fini della astratta definibilità del rapporto di
imposta.
Nella consapevolezza del contrasto generato con la pronuncia che si segnala, il collegio della V Sezione afferma di
non poter condividere l’orientamento espresso dalla pronuncia del 2014, perché il comma 1 bis dell’art. 11, L. n.
289 del 2002 si riferisce testualmente alla definizione delle
“violazioni” relative all’applicazione delle imposte con agevolazioni e, pertanto, se entro la data fissata per poter fruire del condono la violazione non si è verificata, verrebbero
a mancare i presupposti giuridici per l’applicabilità della
proroga del termine di esercizio della potestà accertativa.
Va, in argomento, ancora evidenziato che, con l’ord. 18
settembre 2015, n. 18382, la stessa sezione tributaria ha rimesso alle Sezioni Unite della S.C. la questione concernente l’applicabilità, nel caso di violazioni concernenti la fruizione dell’aliquota agevolata dell’IVA al cospetto dell’acquisto della prima casa, della proroga biennale del termine di
accertamento prevista dalla combinazione dei commi 1 e 1
bis dell’art. 11 della L. n. 289 del 2002.
Nel provvedimento di rimessione, tra gli argomenti a favore
della tesi che nega la possibilità di estendere la proroga del
termine anche all’IVA agevolata per la prima casa, il collegio aggiunge quello relativo alla sentenza della Corte Europea C-132/06 che, nell’affermare l’illegittimità “comunitaria” del provvedimento di condono nella parte riguardante
l’IVA, ha determinato l’esclusione dalla possibilità di usufruire del condono stesso per tutte le ipotesi di IVA: esclusa, pertanto, la possibilità di usufruire del condono, non
potrebbe trovare applicazione la proroga dei termini che
aveva come presupposto la non adesione al condono stesso - e, quindi, l’astratta possibilità di aderirvi.
1177
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CONTRASTI RIMESSI ALLE SEZIONI UNITE
CONCORDATO PREVENTIVO E TRANSAZIONE FISCALE
La previsione dell’infalcidiabilità del credito IVA di cui
all’art. 182 ter l.fall. trova applicazione nella sola ipotesi
di proposta di concordato accompagnata da una transazione fiscale, fattispecie alla quale la norma fa espresso
riferimento, ovvero anche nell’ipotesi di concordato
preventivo proposto indipendentemente dall’istituto disciplinato dall’art. 182 ter l.fall.?
Il caso e l’ordinanza di rimessione
A seguito dell’omologazione pronunciata dal Tribunale di
La Spezia e del successivo reclamo proposto ex art. 183
l.fall. dall’Agenzia delle Entrate, la Corte d’Appello di Genova, nell’accoglierlo integralmente, rilevò che, trovando il
principio di infalcidiabilità dell’Iva applicazione anche riguardo all’ipotesi di un concordato preventivo senza transazione fiscale, e non essendo nel caso di specie la proposta accompagnata da alcuna transazione (pur avendo contemplato tale falcidia), il concordato non potesse essere
omologato.
Con il reclamo in parola, in particolare, l’Agenzia delle Entrate lamentò la violazione dell’art. 182 ter l.fall. atteso che
la proposta concordataria, riconoscendo una percentuale
di soddisfacimento dei creditori privilegiati pari al 2,9%,
prevedeva una falcidia dei crediti fiscali anche in relazione
al credito IVA ed alle ritenute Irpef, in contrasto con la normativa vigente, ostativa ad una falcidia di crediti Iva e delle
ritenute, a prescindere dall’avvenuta proposizione di una
contestuale istanza di transazione fiscale.
La Corte ligure, nel conformarsi ad un orientamento già
espresso dalla giurisprudenza di legittimità, ritenne che l’intangibilità dell’Iva sussistesse anche nell’ipotesi in cui il debitore avesse deciso, per qualsiasi motivo, di proporre un
concordato senza transazione fiscale.
G.L., nella qualità di legale rappresentante e socia della società istante, ha proposto ricorso per Cassazione, contestando la legittimità dell’estensione del divieto di cui all’art.
182 ter l.fall. al concordato senza transazione fiscale, e nel
contempo facendo istanza al Primo Presidente della S.C. di
rimettere alle Sezioni Unite la decisione del ricorso, ex art.
374, comma 2, c.p.c.
Il Primo Presidente disponeva in conformità, e a tale procedimento veniva riunito altro ricorso, avente ad oggetto la
medesima questione - alla cui soluzione appare preliminare
la risposta al quesito circa l’estensione della regola della
non defalcabilità dell’Iva al concordato senza transazione è
quella della facoltatività o obbligatorietà dell’utilizzo del
meccanismo della transazione fiscale nel quadro del concordato preventivo allorché il debitore si trovi a dover trattare debiti di natura tributaria.
Va rammentato, in proposito, tanto l’intervento della Corte
cost. 25 luglio 2014, n. 225 - dichiarativa della non fondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt.
160 e 182 ter l.fall., in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. per
effetto della ritenuta compatibilità costituzionale della previsione dell’infalcidiabilità, venendo in rilievo una disciplina
di carattere eccezionale, attributiva di un trattamento peculiare ed inderogabile in favore di un credito che non può essere oggetto di un accordo per un pagamento parziale a
causa dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
nella gestione interna di tale tributo -quanto l’ord. del 20
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ottobre 2014 del Tribunale di Udine, che ha sottoposto alla
Corte di Giustizia la questione pregiudiziale se i principi comunitari in subiecta materia debbano essere interpretati nel
senso di rendere incompatibile una norma interna che renda ammissibile una proposta di concordato preventivo senza transazione che contempli il pagamento solo parziale
del credito dello Stato relativo all’IVA. La questione è stata
ora risolta da Corte Ue 7 aprile 2016, n. C-546/14.
La dottrina
S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Cottino (diretto da), in Trattato
di diritto commerciale, XI Padova, 2008, 57; G. Andreani,
L’obbligo di pagamento dell’Iva e delle ritenute nel concordato preventivo con e senza transazione fiscale, in Riv. dir.
trib., 10, 2013, 1001; Id., Legittimità costituzionale della infalcidiabilità del credito Iva nel concordato preventivo, in Fisco, 2014, 34, 3383; G. Bozza, Il trattamento dei crediti privilegiati nel concordato preventivo, in Fall., 2012, 4, 380; S.
Capolupo, La transazione fiscale - Aspetti sostanziali, in Il Fisco, 2006, 1, 7598; L. Del Federico, La transazione fiscale
nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione
dei debiti, in A. Didone (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Milano, 2009, 2059 ss.; M. Fabiani, La falcidiabilità di tutti i crediti tributari e l’equivoco della lettura della Cassazione, in Fall., 2014, 262 ss.; M. Ferro - P. Bastia - G.M.
Nonno, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, Milano, 2013, 773; C. Gioè, I limiti della transazione
fiscale i materia di tributi locali, in Rass. trib., 2011, 94; G. La
Croce, Il credito erariale Iva tra orientamenti U.E. e arresti
della Cassazione, in Fall., 2012, 2, 152; G. Marini, La transazione fiscale, in Rass. trib., 2010, 1194; M. Martis, La transazione fiscale e la falcidia dell’Iva, in Dir. prat. trib., 2013, 6,
1043; F. Nicoletti, La natura “opzionale” della transazione fiscale e il necessario soddisfacimento dell’Iva nel concordato
preventivo, in Il Fisco, 2012, 9, 1289; A.M. Perrino, nota a
Corte Cost. n. 225/14, in Foro it., 2014, 11, 3012; E. Stasi,
Obbligatorietà o facoltatività della transazione fiscale, in Fall.,
2011, 1, 85 ss.; Id., L’infalcidiabilità dell’Iva nel concordato
preventivo alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale, in Fall., 2015, 41; M. Zanni - G. Rebecca, La disciplina
della transazione fiscale: un “cantiere” sempre aperto, in Il
Fisco, 2010, 6299 ss.
NULLITÀ E INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE
Alla luce del mutato quadro costituzionale e comunitario, conserva efficacia la distinzione tra nullità ed inesistenza della notificazione?
In caso affermativo, può ritenersi corretta la tradizionale individuazione della differenza tra le due categorie
nell’esistenza, o meno, di un qualsivoglia “collegamento” tra luogo della notifica e persona del destinatario?
Il caso
Nel luglio del 1995, il Presidente del Tribunale di Reggio
Calabria venne arrestato con l’imputazione di concorso
esterno in associazione mafiosa, e la notizia venne riportata
dal quotidiano “La Stampa”.
All’esito dell’assoluzione da tutte le imputazioni, egli convenne innanzi al Tribunale di Roma l’editore del quotidiano,
il suo direttore ed i giornalisti autori degli articoli, chiedendone la condanna al risarcimento del danno da diffamazione.
Il giudice di primo grado respinse la domanda.
La decisione venne impugnata dall’attore in prime cure.
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Sintesi
Nel costituirsi, gli appellati revocarono la procura ad uno
dei difensori, nominandone un altro presso il quale elessero domicilio.
La Corte d’Appello di Roma respinse l’impugnazione.
L’appellante ha proposto ricorso per cassazione, notificandolo alle parti costituite in appello nel domicilio da queste
eletto per il primo grado di giudizio.
Gli intimati hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso per
nullità insanabile della notificazione.
L’ordinanza di rimessione
Con ordinanza interlocutoria del 30 marzo 2015, n. 6427,
la III sezione civile della S.C., dopo aver sostanzialmente ripercorso lo svolgimento del processo nei termini predetti,
ha ritenuto che il ricorso ponesse la preliminare questione
di stabilire se la notificazione del ricorso per cassazione nel
domicilio eletto per il primo grado di giudizio, quando sia
stato eletto in appello un nuovo domicilio e presso un diverso difensore, sia semplicemente nulla, con possibilità di
rinnovazione, ovvero sia inesistente, con conseguente impossibilità di sanatorie di sorta, evidenziando, in proposito,
l’esistenza di due contrastanti orientamenti, nella giurisprudenza di legittimità, quanto alle soluzioni adottate in fattispecie simili.
Nel provvedimento interlocutorio, si da altresì atto che la
questione risultava già sottoposta alle Sezioni Unite della
Corte con l’ord. della V Sezione dell’11 luglio 2014, n.
15946, e si riteneva necessaria la rimessione del procedi-
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mento al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, per la risoluzione del contrasto in
esito ai quesiti:
- se, alla luce del mutato quadro costituzionale e comunitario, conservasse validità scientifica ed utilità pratica la distinzione tra nullità ed inesistenza della notificazione;
- in caso affermativo, se fosse corretta dogmaticamente la
tradizionale individuazione del discrimine tra le due categorie nell’esistenza, o meno, “d’un qualche collegamento” tra
luogo della notifica e persona del destinatario;
- in ogni caso, se fosse affetta da un vizio sanabile od insanabile la notificazione del ricorso per cassazione effettuata
nel domicilio eletto per il primo grado di giudizio, nell’ipotesi in cui il destinatario dell’atto abbia, in grado di appello,
nominato un diverso procuratore ed eletto un diverso domicilio.
La dottrina
F. Auletta, Nullità ed inesistenza degli atti processuali civili,
Padova, 1999; R. Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti
processuali, Torino, 2012; G. Monteleone, Manuale di diritto
processuale civile. Disposizioni generali. I procedimenti di cognizione di primo grado. Le impugnazioni, VII ed., Padova
2012; C. Mandrioli - A. Carratta, Diritto processuale civile I,
XXIII ed., Torino, 2014; M. Bina, Tutela dell’affidamento e
nullità della notificazione dell’atto di impugnazione, in Giur.
it., 2008, 1463 ss.
1179
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Indici
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
il Corriere giuridico
INDICE DEGLI AUTORI
11 aprile 2016, n. 7068, sez. I ...........................
27 aprile 2016, n. 8395, sez. I ...........................
Amendolagine Vito
9 giugno 2016, n. 11844, sez. un. ......................
Codice del consumo e gioco d’azzardo legale:la Cassazione fissa i paletti per estendere la disciplina del
consumatore allo scommettitore .......................
9 giugno 2016, n. 11851, sez. un. ......................
1067
10 giugno 2016, n. 11912, sez. III ......................
13 giugno 2016, n. 12086, sez. un. ....................
Asprella Cristina
14 giugno 2016, n. 12140, sez. III ......................
Il termine per la proposizione dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo ....................................
14 giugno 2016, n. 12142, sez. III ......................
15 giugno 2016, n. 12324, sez. un. ....................
1146
16 giugno 2016, n. 12454, sez. I ........................
De Francesco Daniela
La diagnosi genetica preimpianto nell’evoluzione
giurisprudenziale ...........................................
22 giugno 2016, n. 12962, sez. I ........................
1151
Le principali novità in tema di contratti e concessioni
pubbliche ....................................................
Tribunale
28 febbraio 2015, Udine ..................................
Proietti Roberto
9 marzo 2015, Vasto ......................................
1041
23 giugno 2015, Vasto, ord. .............................
3 dicembre 2015, Roma .................................
24 marzo 2016, Trento ...................................
Rizzuti Marco
Il diritto e l’oblio ............................................
1077
Mediazione: presenza ed oneri delle parti, compiti
del mediatore e possibili prescrizioni imposte dal
giudice a mediatore e parti ...............................
1087
Tancredi Guido Maria
Negata la validità del c.d. ‘‘trust interno’’ ..............
Codice dei contratti pubblici
Le principali novità in tema di contratti e concessioni
pubbliche di R. Proietti ...................................
Corte europea dei diritti dell’uomo
1117
1059
Contrasti tra Sezioni Semplici (Cassazione civile 25
novembre 2015, n. 24118, ord.; Cassazione civile 19
novembre 2014, n. 24683, ord.) Osservatorio ........
Corte europea dei diritti dell’uomo
2 febbraio 2016, n. 1914, sez. un. ......................
24 marzo 2016, n. 5919, sez. I ..........................
1180
1177
Famiglia
1159
Adozione
Corte di cassazione
5 novembre 2015, n. 22663, sez. II ....................
1159
Imposta di registro
Giurisprudenza
8 luglio 2015, n. 14288, ord., sez. VI-3 .................
Abusivismo edilizio
Procedimento esecutivo avverso un ordine di abbattimento di una costruzione abusiva e diritto al rispetto del proprio domicilio (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. V, 21 aprile 2016 - Ivanova e Cherkezov
c. Bulgaria) Osservatorio .................................
Diritto tributario
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
21 aprile 2016 - Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria ....
1041
1132
Venosta Francesco
Immobili non divisibili, art. 720 c.c.e limiti alla discrezionalità del giudice ........................................
INDICE ANALITICO
Appalti
Tucci Andrea
Conclusione del contratto e formalismo di protezione nei servizi di investimento ............................
1074
1099
Tiscini Roberta
Impugnabilità dell’ordinanza filtro per vizi propri. l’apertura delle Sezioni Unite al ricorso straordinario ...
1097
1083
1085
1072
1144
Garante per la protezione dei dati personali
31 marzo 2016, n. 152 ....................................
Ruvolo Michele
1113
1110
1169
1168
1175
1167
1174
1173
1166
1172
1171
1064
1058
1125
1114
Può essere disposta, a favore di ciascuna delle parti
di un’unione civile, l’adozione del figlio del rispettivo
partner in base all’art. 44, comma 1, lett. d), L. n.
184/1983, nel preminente interesse del minore?
(Cassazione civile 22 giugno 2016, n. 12962) Osservatorio .......................................................
1171
il Corriere giuridico 8-9/2016
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Indici
il Corriere giuridico
Procrezione medicalmente assistita
La diagnosi genetica preimpianto nell’evoluzione
giurisprudenziale di D. De Francesco ..................
le 30 marzo 2015, n. 6427, ord. interloc.) Osservatorio ............................................................
1151
Danno erariale
L’esecuzione dei servizi di bonifica, affidati dalla regione a privati con finanziamenti comunitari, può
comportare, in caso di cattiva esecuzione, una responsabilità del privato innanzi alla Corte dei conti
per danno erariale? (Cassazione civile 13 giugno
2016, n. 12086) Osservatorio ............................
1144
Ordinanza di inammissibilità dell’appello
1167
Radiazioni ionizzanti
Se il lavoratore deduce un inadempimento unitario
della P.A. è soggetto alla giurisdizione del g.a. fino al
30 giugno 1998 e dopo il 18 luglio 1998 a quella del
g.o ex art. 69, comma 7, D.Lgs. n. 165/2001, ovvero
per tutto il tempo a quella del g.o.? (Cassazione civile 9 giugno 2016, n. 11851) Osservatorio .............
Opposizione tardiva a decreto ingiuntivo
Il termine per la proposizione dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo (Tribunale di Trento 24 marzo
2016) di C. Asprella .......................................
Giurisdizione
1178
Impugnabilità dell’ordinanza filtro per vizi propri. l’apertura delle Sezioni Unite al ricorso straordinario
(Cassazione civile 2 febbraio 2016, n. 1914) di R. Tiscini ..........................................................
1125
Pubblica amministrazione
Condanna ad un facere
1168
La P.A. può essere condannata ad un facere dal giudice ordinario cui venga chiesto di eliminare un pregiudizio arrecato da un comportamento della P.A. ad
un diritto fondamentale del privato? (Cassazione civile 14 giugno 2016, n. 12142 ) Osservatorio ...........
1173
Obbligazioni e contratti
Responsabilità civile
Servizi di investimento
Conclusione del contratto e formalismo di protezione nei servizi di investimento (Cassazione civile 27
aprile 2016, n. 8395; Cassazione civile 11 aprile
2016, n. 7068; Cassazione civile 24 marzo 2016, n.
5919) di A. Tucci ...........................................
Responsabilità del medico
1110
Trust
Negata la validità del c.d. ‘‘trust interno’’ (Tribunale
di Udine 28 febbraio 2015) di G. M. Tancredi .........
1097
Dati sensibili
1072
Processo civile
Giudice di pace
La sentenza emessa in sede di rinvio dal giudice di
pace è soggetta ad impugnazione in via ordinaria
unicamente con il ricorso per cassazione? (Cassazione civile 9 giugno 2016, n. 11844) Osservatorio .....
1169
Mediazione
Mediazione: presenza ed oneri delle parti, compiti
del mediatore e possibili prescrizioni imposte dal
giudice a mediatore e parti (Tribunale di Vasto 9
marzo 2015; Tribunale di Vasto 23 giugno 2015, ord)
di M. Ruvolo ................................................
Notificazione
Contrasti rimessi alle Sezioni Unite (Cassazione civi-
il Corriere giuridico 8-9/2016
1176
Risarcimento del danno
Privacy
Il diritto e l’oblio (Tribunale di Roma 3 dicembre 215;
Garante per la protezione dei dati personali 31 marzo 2016, n. 1529 ) di M. Rizzuti .........................
Contrasti tra Sezioni Semplici (Cassazione civile 30
settembre 2014, n. 20547; Cassazione civile 20 ottobre 2015, n. 21177; Cassazione civile 12 settembre 2013, n. 20904) Osservatorio .......................
Se gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall’art.
1224 c.c., in quanto rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di
cui costituiscono una necessaria componente, nella
domanda di risarcimento del danno per fatto illecito
deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di
riconoscimento degli interessi compensativi che il
giudice di merito può attribuire senza incorrere nel
vizio di ultrapetizione? (Cassazione civile 14 giugno
2016, n. 12140) Osservatorio ...........................
1174
Va risarcito il danno subito dal proprietario di una
unità immobiliare, sita in uno stabile sul quale transita più frequentemente una funivia, in conseguenza
del relativo ammodernamento, che determina continue interferenze del segnale satellitare, con interruzioni periodiche e costanti? (Cassazione civile 10
giugno 2016, n. 11912) Osservatorio ..................
1175
Sanzioni amministrative
1083
Mancato pagamento delle sanzioni
L’obbligazione per interessi discende dal ritardo nel
pagamento o dall’accertamento della violazione con
l’importo della sanzione? (Cassazione civile 15 giugno 2016, n. 12324) Osservatorio ......................
1166
1181
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Società e impresa
Tutela del consumatore
Amministratori
Gioco d’azzardo
In tema di responsabilità degli amministratori di società a r.l. per i danni ad essa cagionati da operazioni
illegittime, il giudice, al fine di ricostruire l’andamento degli affari sociali e di valutare gli effetti concreti
dell’operato degli amministratori medesimi, può tener conto anche delle risultanze di scritture contabili
informali, non conformi alle prescrizioni di legge?
(Cassazione civile 16 giugno 2016, n. 12454) osservatorio .......................................................
Codice del consumo e gioco d’azzardo legale: la
Cassazione fissa i paletti per estendere la discipli-na
del consumatore allo scommettitore (Cassazione civile 8 luglio 2015, n. 14288) di V. Amendolagine ....
1064
1172
Successioni e donazioni
Divisione ereditaria
Immobili non divisibili, art. 720 c.c.e limiti alla discrezionalità del giudice (Cassazione civile 5 novembre 2015, n. 22663) di F. Venosta ......................
1182
1058
il Corriere giuridico 8-9/2016
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