Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Venezia Il nuovo doge, Renier Zen, nel 1255 promosse una nuova riforma politica di stampo aristocratico, con la creazione di un consiglio ristretto di governo da affiancare al sovrano Maggior Consiglio: il Consiglio dei Pregadi. Le guerre con Genova In quello stesso anno Venezia si scontrò duramente con Genova per il controllo dei mercati siriani. Il casus belli fu la contesa per il possesso del monastero di San Saba a San Giovanni d'Acri, capitale del Regno di Gerusalemme, sfociata in aperta battaglia, con la distruzione del quartiere veneto e delle navi alla fonda nel porto da parte dei Genovesi. Venezia, dunque, strinse alleanza con Pisa, Marsiglia e le città della Provenza, affidando a Lorenzo Tiepolo il comando di una flotta con cui piombò nel 1256 su Acri, forzarono il porto e distruggendo tutte le navi genovesi presenti, assalendo ed incendiando il quartiere rivale e conquistandone infine il castello, detto del Mongioia. Le due repubbliche raccolsero quindi tutte le forze di cui disponevano in Oriente, giungendo allo scontro nelle acque di Cipro, dove i Genovesi vennero battuti, consentendo al Tiepolo di bloccare ai rivali le rotte per i mercati levantini. Genova, ripresasi nel 1257 dalle lotte interne cui la sconfitta l'aveva portata, riprese con maggior vigore la guerra, ma il 24 giugno 1258, la sua flotta venne disastrosamente battuta nelle acque di Acri: venticinque galee genovesi vennero catturate, i magazzini e il quartiere genovese nuovamente saccheggiati e distrutti. Nonostante i tentativi di intermediazione di papa Alessandro IV il conflitto continuò, spostandosi nel campo del traballante Impero Latino. La perdita di Bisanzio Venezia si sobbarcò quasi per intero la difesa del traballante trono di Baldovino II, nel tentativo di difendere la propria posizione dominante nel mercato di Costantinopoli. Genova, invece, strinse nel 1261 con il reggente dell'Impero di Nicea Michele Paleologo il trattato di Ninfeo, che fornì ai Niceni la necessaria protezione per riuscire nell'impresa di riconquistare Costantinopoli. Caduta la città con un colpo di mano il 25 luglio e acclamato il Paleologo nuovo basileus dei Romei, i Genovesi si trovarono in una posizione di forza nel rinato Impero bizantino, scacciando i Veneziani dalla loro posizione di predominio. Così rafforzati i Genovesi e i Bizantini non risposero alle provocazioni della flotta veneziana inviata contro di loro e si rifiutarono di dar battaglia. La Repubblica sollecitò allora i vassalli Duchi dell'Arcipelago a danneggiare il commercio greco, ma la loro flotta venne annientata da quella greca. Nel 1262 i Veneziani riuscirono finalmente ad intercettare la flotta genovese, battendola al largo della Morea, ma lo scontro finale si ebbe nel 1264 nella battaglia di Settepozzi, al largo della Sicilia, dove l'intera flotta de la Superba venne annientata. Sconfitti i suoi alleati, il 18 giugno 1265 l'Impero bizantino propose a Venezia un trattato di pace perpetua, ma l'accordo non trovò l'approvazione ducale, venendo dunque ridotto ad una semplice tregua quinquennale. In quegli stessi anni i mercanti veneziani Niccolò e Maffeo Polo strinsero i primi contatti con il Gran Khan dell'Impero mongolo Qublai Khan, corteggiato dalle nazioni occidentali alla ricerca di un'alleanza contro i saraceni che minacciavano di scacciarle definitivamente dagli ultimi avamposti in Siria. I mercanti veneti si fecero così intermediari di una possibile alleanza ripartendo nel 1266 dalla Cina con l'incarico di portare un'ambasceria del Khan a papa Clemente IV per una possibile introduzione del Cristianesimo in Cina. 1 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Venezia in bilico tra popolari ed oligarchici Alla morte di Renier Zen (1268), nel tentativo di evitare che l'elezione ducale potesse essere in qualche modo pilotata, si procedette alla definitiva riforma della formula elettorale, affidata ad un complesso sistema di votazioni e sorteggi: venne chiamato dunque quale nuovo doge il figlio di Jacopo Tiepolo, Lorenzo, anch'egli come il padre esponente del partito popolare. Il doge, per compensare la progressiva perdita di potere della classe popolare nei confronti dei Patrizi istituì la carica di onorifica riservata esclusivamente ai Cittadini del Cancellier Grando, supremo capo dell'amministrazione statale. Conflitti con altre città e stati Nel 1270 il doge siglò la pace con Genova e Bisanzio, ma nello stesso anno la città di Bologna sbarrò la navigazione sul Po costruendo una fortezza a presidio del Po di Primaro, scatenando la guerra con Venezia, che vedeva bloccata una delle vie per il commercio con l'entroterra. La guerra si estese con la formazione di una Lega Italica composta da Bologna, Treviso, Verona, Mantova, Ferrara, Cremona, Recanati, Ancona ed altre città minori che nel 1273 riuscirono a costringere Venezia alla pace. A Venezia, invece, nel 1274 il dogado del Tiepolo venne nuovamente funestato dallo scoppio di un'estesa rivolta a Creta, con il massacro da parte dei Greci del duca di Candia e di molti nobili veneziani. Lorenzo Tiepolo morì il 15 agosto 1275. Giacché non si trovava accordo tra le diverse fazioni, nuovo doge venne infine eletto il 6 settembre 1275 l'anziano Jacopo Contarini. Venne eletto doge nel 1280 Giovanni Dandolo, esponente del partito aristocratico. Nel 1281 il doge strinse un trattato con Ancona tutto a proprio favore, per poter essere libero di agire contro i rivoltosi cretesi e istriani, questi ultimi sostenuti dal Principato ecclesiastico di Aquileia e dal Ducato d'Austria. Nel 1282 rifiutò aiuto al papa contro gli Aragonesi che avevano invaso la Sicilia, venendo per questo colpito assieme alla città dalla scomunica. In Oriente, poi, Genova aveva acquisito dai Bizantini l'esclusiva sull'accesso alle acque del mar Nero, dove aveva costituito le nuove colonie di Caffa e Pera. Venezia reagì stringendo alleanza con Pisa, ma questa il 6 agosto 1284 venne disastrosamente sconfitta nella battaglia della Meloria. Nonostante ciò e nonostante i conflitti non accennassero a risolversi, il benessere del commercio veneziano venne testimoniato in quegli stessi anni dal conio del primo Ducato Matapan, moneta destinata a diventare mezzo di scambio di primo piano nel commercio mediterraneo. Gli interessi del doge erano tuttavia più orientati al successo politico del partito aristocratico. La formazione del sistema oligarchico Nonostante la bocciatura delle loro proposte tese a ridurre il peso dei popolari, i membri del partito aristocratico erano ancora forti, così il 25 novembre 1289 riuscirono a far eleggere doge Pietro Pierazzo Gradenigo, il giovane capo della loro fazione. Il conflitto politico latente a Venezia esplose con la proposta, presentata dal doge il 6 marzo del 1296, di escludere le classi medie dall'accesso al Maggior Consiglio. La legge venne a stento rigettata, ma il 28 febbraio 1297 venne infine definitivamente approvata la Serrata del Maggior Consiglio. Altre guerre con Genova Con la caduta nel 1291 di Acri, ultimo lembo dell'Outremer cristiano, e la temporanea chiusura delle rotte per la Siria si riaccese il conflitto con Genova per il controllo dei mercati bizantini. Nel 2 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo 1293 dunque, i Veneziani, fattisi aggressivi sotto il governo del nuovo doge tentarono di bloccare una muda genovese al largo di Corone, provocando la guerra. Dopo una serie di scontri minori, le due flotte si fronteggiarono il 28 maggio 1294 nella battaglia di Laiazzo, dove i Veneziani furono duramente sconfitti. Poco dopo i Genovesi spostarono la guerra contro Candia e le mude veneziane, ricevendo in risposto l'ingresso dei Veneziani nel Mar Nero e l'incendio di Caffa. A Costantinopoli, però, i coloni genovesi assalirono il quartiere veneziano, ricevendo il sostegno dell'imperatore Andronico II, che fece prigionieri i Veneziani superstiti e lo stesso bailo Marco Bembo. Puntualmente, nel 1296, la flotta veneta forzò il Bosforo e mise a ferro e fuoco tutta la costa, distruggendo la colonia genovese di Galata e gettando infine le ancore davanti proprio di fronte alla residenza imperiale del palazzo delle Blacherne. I Bizantini abbandonarono così il conflitto pagando un ingente tributo di guerra. Mentre la guerra con Genova proseguiva con alterne fortune I Veneziani subirono una nuova disastrosa sconfitta nella battaglia di Curzola nel 1298, cui seguì il nuovo massacro dei coloni veneziani ordinato dall'imperatore di Costantinopoli. La successiva pace firmata il 25 maggio 1299 a Milano sotto gli auspici di Matteo Visconti fu assai dura e lasciò infatti strascichi economici sulla classe dei cittadini, già colpita politicamente dalla serrata. Lotte tra fazioni All'indomani dell'umiliante pace, dunque, alcuni membri del partito popolare, riunitisi attorno a Marin Bocconio, uno degli esponenti del partito appartenente alla classe dei Cittadini, ordirono una congiura contro il doge. Scoperti, i congiurati vennero però arrestati e impiccati. Rafforzati dal successo contro la congiura il doge Gradenigo e gli oligarchici rivolsero la loro attenzione a Ferrara, dove nel 1305-1306 il marchese Azzo VIII d'Este ottenne l'invio di rinforzi coi quali avere ragione dei suoi nemici. Aveva però dovuto ammettere in città l'insediamento di un visdomino veneziano. Quando Azzo VIII cadde malato e morì, però, Venezia dovette intervenire in favore dell'erede Folco d'Este contro gli zii Francesco e Aldobrandino, che dal canto loro chiesero aiuto a papa Clemente V, riconoscendo la sua signoria su Ferrara. La situazione di stallo sfociò il 7 ottobre 1308 nella dichiarazione di guerra di Venezia contro lo Stato della Chiesa, seguita dalla scomunica papale sul doge. L'evento aprì una profonda spaccatura tra i due schieramenti politici della città, coi popolari, guidati da Jacopo Querini, che si schierarono su posizioni guelfe. Il 27 marzo 1309 il papa lanciò l'interdetto sulla città di Venezia, ordinandone parimenti l'evacuazione da parte del clero, mentre ovunque all'estero esplosero violente reazioni contro i beni e i mercanti veneziani. Addirittura il cardinale Arnaldo Pelagrua annunciò una prossima crociata contro la città lagunare, mentre da numerose parti giungevano contingenti inviati alla liberazione di Ferrara. Il 28 agosto, infine, Venezia capitolò, abbandonando i possedimenti ferraresi. Il partito oligarchico accusò della sconfitta il popolare Marco Querini, comandante delle forze veneziane, e in città si accesero scontri tra le due fazioni che nel mese di settembre portarono a risse in Maggior Consiglio, con le famiglie Querini, i Tiepolo e i Badoer, da una parte, a fronteggiarsi con i Giustinian, i Dandolo e i Gradenigo, dall'altra. Il provvedimenti presi dal Governo contro i tumulti non fecero altro che provocare nuovi scontri nella zona di Rialto, roccaforte dei popolari. Partito Jacopo Querini, il vecchio e moderato capo dei popolari, nominato bailo a Costantinopoli, gli esponenti del suo partito iniziarono a tramare per rovesciare il doge Gradenigo e la sua fazione. L'opposizione si coalizzò attorno alla figura del giovane Bajamonte Tiepolo e l'azione venne fissata per l'alba di domenica 14 giugno 1310. L'azione era ben congegnata e pericolosa, prevedendo il contemporaneo assalto del Palazzo Ducale da parte di tre colonne armate, con il concorso anche di genti padovane radunate da Badoero Badoer. Il tradimento di un congiurato mise però sull'avviso il doge, che si trovò così preparato al giorno prefissato della congiura. I rivoltosi, sorpresi dalle guardie del doge vennero duramente respinti e costretti ad asserragliarsi a Rialto, dove si accinsero però a resistere. Il 17 3 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo giugno si giunse infine ad un accordo ed il Tiepolo e quanti erano con lui accettarono di lasciare la città per l'esilio. Quanti erano però già caduti nelle mani del doge non trovarono alcuna pietà: il Supremo Tribunale della Quarantia emanò per loro la sentenza di morte. Schiacciata così l'opposizione, rase persino al suolo le proprietà degli avversari, gli oligarchici rimasero padroni del campo. Il 10 luglio venne decretata la nascita di un nuovo organismo statale, il Consiglio dei Dieci, con funzioni di tribunale straordinario per la repressione delle minacce contro lo Stato. Venne poi costituita una milizia cittadina affidata al comando dei Capisestiere pronta ad accorrere in qualunque momento in difesa della Repubblica, oramai divenuta aristocratica sotto il governo di un Patriziato mercantile. Pochi giorni dopo vennero emanate nuove leggi per limitare l'accesso degli homini novi al Maggior Consiglio. Pietro Gradenigo, vittorioso, si spense il 13 agosto 1311. Nuove guerre italiane Il 4 gennaio 1329 divenne doge Francesco Dandolo. In quell'epoca ormai gli Scaligeri si erano resi signori di Vicenza, Padova, Feltre e Belluno, giungendo ai margini della laguna, ponendo a Marghera la dogana. Venezia dal canto suo tentò nuovamente di impadronirsi di Ferrara, approfittando della sua agitazione interna, ma il progetto venne bloccato dall'interdetto di papa Clemente V. Nel 1336 la Repubblica entrò in lega con Firenze, Siena, Bologna, Perugia ed altre città minori contro le mire espansionistiche di Mastino II della Scala. Nel 1337 la coalizione si allargò e Mastino non fu più in grado di tener testa ai suoi nemici: Padova tornò nel dominio dei Carraresi e Venezia il 29 settembre prese il Castello di Mestre, avanzando nell'entroterra. Nel 1338, poi, Venezia conquistò Treviso, primo nucleo dei suoi domini terrestri, ponendo fine alla signoria dei Da Camino riconosciuta con la pace del 24 gennaio 1339, a Venezia. Il Dandolo morì il 31 ottobre di quello stesso anno. Nuovo doge fu Bartolomeo Gradenigo, il quale, già vecchio, morì il 28 dicembre 1342, mentre a Creta nuove rivolte scuotevano il dominio veneziano. La rinascita culturale nei Comuni Sul piano culturale, sullo sfondo della rivalità tra Guelfi e Ghibellini, si era andato sempre più ridestando un sentimento nazionale di avversione alle ingerenze tedesche, animato dal ricordo dell'antica grandezza di Roma, e sostenuto dal fatto che i Comuni, la cui vita civile ruotava attorno all'edificio della Cattedrale, trovavano nell'identità spirituale rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza. Durante il XIII e il XIV secolo, parallelamente a una generale ripresa economica, si ebbe una rinascita culturale notevole che portò alla formazione della lingua italiana volgare. Tra coloro che contribuirono a questa rinascita ricordiamo Iacopone da Todi che scrisse delle famose Laude e soprattutto Francesco Petrarca che affiancò a varie opere scritte in latino alcune importanti composizioni in volgare italiano tra cui il Canzoniere. Petrarca in particolare fu promotore di una riscoperta del classicismo che sarà proseguita dagli intellettuali rinascimentali. In quegli anni si sviluppò a Firenze una nuova corrente culturale: il Dolce Stil Novo, che rappresentava per certi versi la continuazione e l'evoluzione del vecchio Amor cortese dei romanzi cavallereschi. I principali esponenti di tale corrente furono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, e soprattutto Dante Alighieri che rivoluzionò in modo profondo la letteratura italiana e che produsse opere come la Vita Nova e la Divina Commedia, universalmente riconosciuta come uno dei capolavori letterari di ogni tempo e che viene ancora oggi studiata approfonditamente nelle scuole italiane. 4 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Da ricordare è anche il contributo del fiorentino Giovanni Boccaccio che scrisse il Decameron. In questa opera egli racconta di alcuni giovani che per fuggire alla peste si rifugiano nelle campagne vicino Firenze, e delle cento storie, molto spesso a carattere faceto, da raccontare per passare il tempo. Anche il Decameron è da annoverarsi tra le più gradi opere delle letteratura italiana e, al pari delle altre sopra indicate, contribuì alla nascita di un volgare italiano, o più propriamente, di un dialetto fiorentino che sarebbe poi diventato la base dell'attuale lingua italiana. Forte è anche la fioritura dell'arte, con artisti come Giotto, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Arnolfo di Cambio e Jacopo della Quercia. Anche qui Firenze (affiancata comunque dalle altre città toscane) si dimostra un centro culturale attivo oltre che un centro politico importante. Il XIV secolo e la “crisi del trecento” A cura di Francesco Forlin L'autunno del Medioevo: introduzione al Trecento Durante il quattordicesimo secolo è possibile osservare delle dinamiche di lungo corso nelle quali si lascia cogliere la crisi delle principali istituzioni medioevali. Per questo motivo il Trecento, al pari del Seicento e del Novecento, è oramai da tempo studiato e considerato come un “secolo di crisi”. Nel caso specifico, tale crisi rappresenta il superamento del Medioevo e l'inizio di quella transizione verso la piena modernità destinata a proseguire lungo il corso dell'Umanesimo quattrocentesco. Prima di proseguire oltre, è opportuno soffermarsi su due possibili letture di tale fenomeno. La prima è quella proposta nel 1919 dallo storico olandese Johan Huizinga in un fortunato testo storiografico: L'autunno del Medioevo. In esso, l'autore ravvisa una cesura molto profonda fra Medioevo e modernità, e centra questa cesura in una serie di cambiamenti intercorsi nel comune sentire: “L'uomo moderno non ha generalmente alcuna idea della sfrenata stravaganza e infiammabilità dell'animo medioevale […] mancavano nel Medioevo tutti quei sentimenti che hanno reso timido e oscillante il nostro concetto di giustizia: l'idea della semi-responsabilità, l'idea della fallibilità del giudice, la coscienza che la società è corresponsabile dei misfatti del singolo, la questione se non val meglio correggere il colpevole che farlo soffrire.” L'uomo medioevale, e con esso l'uomo trecentesco, sarebbe dunque un uomo ancora dominato da quel senso della giustizia che è possibile trovare espresso con mirabile chiarezza nella Commedia dantesca: l'uomo giusto non solo non prova compassione per il peccatore punito, egli anzi si rallegra e gioisce innanzi allo spettacolo della giustizia divina che trionfa. Al di là di questo, è chiaro come per Huizinga l'uomo medioevale sia un uomo abituato a conoscere le cose senza amore per le sottigliezze e per le distinzioni: l'unico modo di conoscere il particolare consiste, per l'uomo medioevale, nel riportarlo all'universale, nell'inquadrarlo all'interno di un rigido schema gerarchico che trova in Dio il proprio vertice. Mancano le mezze misure, i chiaro-scuro, la passione per la complessità che saranno proprie dell'uomo moderno. Sotto questo punto di vista, la distinzione è netta, ed il quattordicesimo secolo risulta da ascriversi completamente all'Età di Mezzo, se pure in esso quest'ultima si mostra in fase di declino. Circa settant'anni dopo Huizinga, Jacques Le Goff torna sul problema, ma con accenti diversi: “Un mondo nuovo sembra uscire dalla crisi del Trecento. Tuttavia, sotto una pelle nuova, la Cristianità, corpo e anima, stupisce soprattutto per le sue persistenze […] il Medioevo sembra 5 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo inoltre in quest'epoca esasperarsi. L'autunno del Medioevo, tale quale l'ha visto Huizinga, è pieno di furore e di rumore, di sangue e lacrime “. Anche Le Goff sottolinea il legame intercorrente fra Trecento e Medioevo, ma proietta questa riflessione all'interno di una più vasta continuità di movimenti di lungo corso, per i quali, se il Trecento appartiene al Medioevo, è anche vero che esso racchiude in sé dinamiche e sviluppi destinati a dar frutto nel pieno Cinquecento. Per un verso, pertanto, il Medioevo trecentesco appare come “esasperato”, ossia ancora più crudele, appassionato e dominato da passioni e partigianerie più forti che mai, soprattutto in Italia ove alla cronica debolezza del potere imperiale si aggiunge la latitanza dalla Penisola del Papato, sottomesso al potere del Re di Francia nel chiuso della corte avignonese. Per un altro verso, proprio a partire dall'Italia, anche per questo nel Trecento giungono a maturazione fenomeni ampiamente osservabili già nel Duecento: comuni, signorie, principati prosperano più che mai, mentre in Europa le conseguenze sulla lunga distanza della battaglia di Bouvines (1214) si dipanano lungo un corso di eventi che dallo scontro fra Filippo IV il Bello e Bonifacio VIII (1302-1303) deflagra nella Guerra dei Cent'Anni (1337-1453) e descrive l'arco di nascita delle monarchie nazionali. Ma le ragioni per riannodare il Trecento sia all'età medioevale che a quella moderna non si limitano all'ambito politico. Questo, ad esempio, è anche il caso dell'arte figurativa. La rivoluzione pittorica che parte da Giotto è destinata a trovar compimento in Masaccio, in Botticelli, in Leonardo e nel pieno Rinascimento di Michelangelo e Raffaello. Lo stesso discorso vale per l'architettura, giacché in Francia lo stile gotico dapprima evolve in gotico fiammeggiante e poi il anticipa il Barocco italiano del Seicento. Ancora, è possibile osservare qualcosa di analogo perfino nel caso della devozione religiosa. Le eresie trecentesche non si limitano più a prendere di mira i mali della Chiesa (corruzione, simonia, nicolaismo) ma si spingono a mettere in discussione aspetti strutturali (la gerarchia, il rapporto fra sovranità del Pontefice e Conciliarismo) e dogmatici (i sacramenti) dell'istituzione ecclesiastica [ad esempio John Wyclif, n.d.r.]. Tutto questo si traduce in una vivissima esigenza riformatrice, destinata però a rimanere inascoltata fino a Lutero ed al Concilio di Trento, ossia, ancora una volta, fino alla piena modernità. […] Il XIV secolo: il secolo della crisi La crisi del XIV secolo fu un fenomeno di ampia portata nella storia europea, che durò per vari decenni, con una ripresa solo a partire dalla seconda metà. Dopo due secoli di grande sviluppo e prosperità nel continente europeo, il Trecento fu un secolo di rottura, con l'interruzione di fenomeni in crescita come lo sviluppo demografico, l'ampliamento e la creazione di nuove città, lo straordinario aumento dei traffici in quantità e in qualità. Oggi si inizia a considerare che il regresso possa essere stato causato innanzitutto da una variazione del clima, con la fine del cosiddetto periodo caldo medioevale, che aveva permesso lo scioglimento dei ghiacci (si pensi alla navigazione dei Vichinghi e alla colonizzazione della Groenlandia), la coltivazione della vite fin sopra Londra, abbondanti raccolti facilitati dalle piogge scarse e regolari e le tiepide primavere. La carestia del 1315-1317 e il ristagno economico La crisi del Trecento si manifestò innanzitutto con la fame, prima ancora che con la tristemente celebre ondata di peste. Molti storici hanno iniziato a supporre un eccessivo aumento della popolazione rispetto alle risorse producibili: nei secoli precedenti l'aumento delle derrate prodotte si era avuto grazie alla coltivazione di nuovi terreni, che verso la fine del Duecento erano giunti alla 6 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo saturazione. Ne è una prova la presenza di insediamenti anche in zone disagiate (montagne, zone paludose, ecc.) dove si produceva con grosse difficoltà, ma anche quel contributo era necessario (tutti insediamenti che vennero poi abbandonati nel corso del secolo con la diminuzione demografica dando origine al fenomeno dei villaggi abbandonati). Il clima più freddo e più umido peggiorò i raccolti e esponeva la popolazione, soprattutto i bambini, alle malattie da raffreddamento. Si manifestava così, nei ceti subalterni, una fetta di popolazione denutrita, abituata da generazioni a nutrirsi quasi esclusivamente di cereali, che dovette soccombere al primo prolungato rialzo dei prezzi dovuto ai cattivi raccolti degli anni 1315-1317. La "Grande carestia" fu il primo sintomo di una situazione in peggioramento, della quale, naturalmente, i contemporanei non potevano avere consapevolezza. La ricca Europa duecentesca non era stata immune dalle carestie, solo che esse avevano coinvolto alcune zone circoscritte, ai cui bisogni si era potuto provvedere facendo affluire derrate alimentari da altre aree non colpite. Nel 1315-17 la carestia invece si manifestò in maniera disastrosa in quasi tutto il continente e in contemporanea. Si erano infatti susseguite delle condizioni climatiche negative (inverni rigidi e prolungati, estati eccessivamente piovose, alluvioni e grandinate), danneggiando ripetutamente i raccolti. I prezzi dei cereali aumentarono vorticosamente, provocando la morte per denutrizione di molte persone e di parecchio bestiame. È stato calcolato che nella città di Ypres, tra il maggio e il novembre 1316, morirono quasi tremila persone su una popolazione di 20-25.000 unità. Una nuova ondata di carestia si abbatté sull'Europa nel decennio 1340-1350. Nelle città la crisi si manifestò con il ristagno della produzione e dello smercio di alcuni prodotti (soprattutto tessili), e con uno stallo dei rapporti tra moneta aurea e d'argento, che aveva visto una minor richiesta dell'oro, segno della cattiva salute dei traffici internazionali. Un grave collasso finanziario si ebbe a Firenze, il maggiore centro finanziario della penisola, quando nel 1342-1346 fallirono a catena alcune grandi compagnie commerciali (dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli). La peste nera Il vero e proprio tracollo europeo si ebbe con l'arrivo di una durissima ondata di pestilenza, pare proveniente dalla Cina (dove c'era stata una grave pandemia nel 1333), che nel 1347 arrivò in Europa tramite le rotte commerciali, in particolare, pare, tramite le navi genovesi che facevano la spola tra Mar Nero e Mediterraneo per il commercio del grano. La pandemia si diffuse nelle zone portuali, arrivando a Messina e poi nelle città sul Tirreno, per poi spargersi ovunque. L'epidemia era arrivata in Italia e nel Mediterraneo occidentale nell'autunno del 1347 per poi "congelarsi" durante i mesi invernali. Da marzo a maggio il contagio divenne allucinante, con le città che assistevano al progredire verso di esse del contagio terrorizzate di scoprire da un momento all'altro i segni della comparsa del male. Per tre lunghi anni la pandemia falciò il continente, fino all'estate del 1350 compresa. Le cause dirette della pestilenza furono investigate solo nel XIX secolo, individuando almeno tre tipi di infezioni (polmonare, setticemia e ghiandolare o "bubbonica") che forse infierirono contemporaneamente. Quella bubbonica in particolare dava segni evidenti (i "bubboni") e si trasmetteva tramite i parassiti veicolati dai ratti all'uomo. L'epidemia fu particolarmente violenta per la debolezza endemica di larghe fette di popolazione denutrite e con il sistema immunitario depresso, e per le precarie condizioni igieniche di molti centri urbani sovraffollati. La comparsa dei sintomi (bubboni nella zona ascellare e inguinale, macchie nere, fino all'espettorazione di sangue), gettavano la popolazione nel terrore quali segni di sicura morte. 7 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Diffusione della peste nera dal 1347 (marroncino) al 1351 (giallo) Gli studi parlano di una mortalità media del 25% della popolazione, con picchi (in Germania, in Francia e in Italia), del 30-35% e oltre. Alcune aree vennero anche inspiegabilmente risparmiate, come il milanese. La pandemia terminò la fase acuta tra il 1350 e il 1351, permanendo però allo stato endemico e ricomparendo in successive ondate fino alla successiva pandemia del 1630. Tra le conseguenze vi furono lo spopolamento delle aree impervie, con i contadini migrati a riempire gli spazi vuoti nelle aree più fertili in pianura e in collina, e la crisi dei piccoli proprietari terrieri, che vendendo i loro terreni favorirono la concentrazione delle proprietà in un minor numero di mani. I ceti dirigenti, in alcune zone, si allontanarono dal controllo diretto della terra, preferendo affidarla in affitto o secondo altri contratti (come la mezzadria in Toscana) e vivendo di rendita. Le condizioni di vita del ceto rurale peggiorarono comunque notevolmente e si andò formando una specie di "proletariato" rurale. 8 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Conseguenze devozionali La disordinata religiosità che fu animata dalla sensazione di terrore e di disorientamento a fronte dell'inspiegabile susseguirsi di calamità e sciagure (carestie, epidemie, guerre, l'avanzata dei Turchi o dei Tartari), fu permeata da elementi apocalittici e irrazionali, che credevano in un'azione diabolica congiunta e particolarmente efficace. La fine del mondo e la venuta dell'Anticristo sembravano più vicine che mai e si cercarono dei nemici da combattere, che erano, oltre ai cattivi cristiani, gli ebrei e le streghe, contro le quali si scatenò una vera e propria caccia. Della sensibilità religiosa imbevuta di paura si approfittarono i predicatori popolari, che fecero incrementare le donazioni alla Chiesa e l'acquisto di indulgenze. La paura per la morte, visibile nei frequenti dipinti di trionfi della morte, danze macabre e incontro dei tre vivi e dei tre morti, era un sentimento nuovo ed era drammatizzata dal confronto con i prosperi secoli immediatamente precedenti. Proliferavano gruppi e confraternite di penitenti, più o meno eterodosse, mentre in Italia e in Fiandra nacque la devotio moderna, con rappresentanti come Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Enrico Suso e Tommaso da Kempis. Essa promuoveva un'adesione religiosa meno formale e più legata ad aspetti intimi e personali, intesa come un valore essenzialmente umano. L'opera più importante di questa corrente fu l'Imitazione di Cristo, tra i più celebri trattati di meditazione cristiana di tutti i tempi. Le rivolte Alle carestie, le epidemie, la riduzione degli spazi a coltura cerealicola in favore di coltivazioni più redditizie, le vessazioni del ceto fondiario, vanno aggiunte le guerre che erano frequenti in tutta Europa e che si tramutavano talvolta in razzie, saccheggi e assedi a lungo termine con una destabilizzazione della società. L'aggravarsi delle condizioni di vita dei ceti subalterni nelle campagne produsse inizialmente un flusso di persone verso le città, dove erano almeno presenti alcune istituzioni caritatevoli che gli assicuravano un minimo di sostentamento giornaliero. Ciò causò un sovrappiù di manodopera che minacciò i ceti subalterni cittadini. Il malessere verso una situazione divenuta ormai insostenibile fu all'origine di rivolte un po' in tutta Europa, sia nelle campagne che nelle città, a partire dai ceti più umili che talvolta riuscivano a coinvolgere anche frange più agiate, come i piccoli artigiani o i produttori subalterni. In Fiandra si erano registrate rivolte già nel primo trentennio del Trecento, mentre le campagne francesi vennero battute tra 1315 e 1360 dalle folle dei pastoureaux ("pastorelli") e, tra il 1356 e il 1358, dalla jacquerie, dove i contadini inferociti misero al rogo parecchi castelli ed aggravarono la situazione già difficile durante la guerra dei cent'anni. Nel 1356 dilagò a Parigi una rivolta capeggiata dal "prevosto" dei mercanti Étienne Marcel. Tra il 1351 e il 1378 si ebbero le rivolte dei Ciompi a Perugia, a Siena e a Firenze. In Inghilterra si ebbe una dura rivolta cristiano-popolare nel 1381, capeggiata da Wat Tyler e John Ball, che si ribellarono al duro regime fiscale imposto dal re a causa della lunga guerra contro la Francia. Le compagnie di ventura Lo spopolamento ebbe come conseguenza anche l'impossibilità di tenere milizie cittadine e cavallerie feudali permanenti, rendendo necessario ricorrere a guerrieri di mestiere, che fossero ben addestrati e mobili. Nacquero così le compagnie di ventura, istituzioni militari composte da armati che di mestiere si prestavano a chi ne facesse richiesta in cambio di soldi. Erano delle vere e proprie "imprese" commerciali, che si offrivano ai vari governi come mercenari. Il contratto che essi stipulavano si chiamava "condotta", da cui il termine condottiero. 9 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Inizialmente le compagnie di ventura, che tanto peso ebbero nelle vicende italiane, erano straniere (Francesco Petrarca le chiamò "pellegrine spade"), come la Grande Compagnia di Guarnieri d'Urslingen, la Compagnia Bianca di Giovanni Acuto. Presto si formarono anche compagnie italiane, come la Compagnia del Cappelletto creata da Niccolò da Montefeltro, la Compagnia di San Giorgio di Alberico da Barbiano, nella quale si formarono i condottieri Braccio da Montone e Muzio Attendolo Sforza, i quali furono all'origine delle due principali tattiche militari del tempo: quella braccesca, basata sull'assalto impetuoso, e quella sforzesca, che privilegiava la tattica e le manovre. Le compagnie di ventura vendevano un servizio, quello militare, e non avevano nessun interesse a distruggersi a vicenda, né erano particolarmente interessati alla causa per la quale lottavano. Per questo vennero spesso accusate di non combattere sul serio e di essere inclini al tradimento favorendo chi offriva loro più soldi. Ma il più grave difetto di queste compagnie, che si rivelò solo nei secoli successivi, era quello di trarre profitto dalla guerra, quindi di impedire l'instaurarsi di una qualsiasi pace duratura: in tempi tranquilli esse si davano al saccheggio costringendo i governi a pagare loro una sorta di tassa per impedire che si dessero a eccessi. Alcuni condottieri riuscirono a fare una politica personale che nel migliore dei modi fruttò loro una signoria e, magari più tardi, anche un principato. La ripresa La crisi generale del Trecento riuscì ad innescare anche un riassetto economico e produttivo da parte dei ceti dirigenti, che gradualmente risalirono la china verso una nuova prosperità. Per esempio le compagnie commerciali divennero, dopo i fallimenti a catena del 1342-1346, più flessibili, in modo che l'eventuale fallimento di una filiale non si ripercuotesse sull'intera compagnia. Si svilupparono le attività manifatturiere nelle campagne, dove la manodopera era più docile di quella cittadina, come quelle tessili, metallurgiche e cartarie. Si diffuse, oltre alla lana, l'uso di fibre vegetali come la canapa e il lino, grazie anche alla nuova moda di vestire camicie e sottovesti. Aumentò la domanda della seta e del vetro. Nonostante i problemi quindi, sembrò che dopo la metà del Trecento la popolazione europea tornasse a consumare e lo facesse in maniera più diversificata. Aumentò il volume dei commerci soprattutto grazie al movimento delle merci "povere" (vini, alimenti, stoffe), che resero necessarie navi più ampie e capienti, come la cocca. Vennero sviluppati strumenti per il commercio come la partita doppia e la lettera di cambio. Si fece strada un nuovo ceto imprenditoriale e capitalistico, che si imparentò con famiglie di antica nobiltà feudale, rispolverando tradizioni nobiliari in grande pompa. Con questi dati alcuni storici hanno modificato la valutazione complessiva dell'età fra Tre e Quattrocento, sostenendo che il brusco calo demografico riequilibrò il rapporto tra risorse e individui, portando un miglioramento complessivo. A sostegno di questa ipotesi ci sarebbe anche il grande sviluppo artistico dell'Umanesimo e del Rinascimento. Altri, come Roberto Sabatino Lopez, hanno sostenuto invece che l'impossibilità di reinvestire i capitali durante un'epoca di depressione portò a "tesaurizzarli" nelle opere d'arte, finanziando cicli pittorici e opere monumentali. La crisi dell’impero L’emancipazione dei grandi principati tedeschi divenne un dato irreversibile dopo la morte dell’ultimo Hohenstaufen, Corrado IV (1250-54), durante il Grande Interregno (1254-73): un periodo di forte instabilità istituzionale, segnato da una serie di violente lotte di successione. 10 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo L’elezione di Rodolfo d’Asburgo (1273-91) pose fine alla crisi e diede inizio a una fase più propriamente “tedesca” della vicenda imperiale, caratterizzata dalla rinuncia a una sistematica politica italiana e, soprattutto, dal prevalere delle ragioni dei più potenti casati germanici: i Wittelsbach di Baviera, i Wettin di Sassonia, gli Asburgo d’Austria, gli Ascani e gli Hohenzollern di Brandeburgo. I successori di Rodolfo, Adolfo di Nassau (1291-96) e Alberto I d’Austria (12961308), e quindi i membri della dinastia di Lussemburgo, che rimasero al potere dal 1308 fino al 1437, continuarono a concentrare i propri interessi nell’Europa centrale. In conseguenza di ciò, per quasi due secoli, e cioè fino all’elezione di Alberto II d’Asburgo (1438), la dignità regia e quella imperiale furono in ragione diretta dei rapporti di forza esistenti all’interno del mondo tedesco. Questa situazione fu formalizzata alla dieta di Rhens (1338), che associò automaticamente la corona regia e quella imperiale senza il ricorso all’investitura papale; e con la Bolla d’Oro, emanata da Carlo IV nel 1356 e rimasta in vigore fino al 1806, che affidava la prerogativa dell’elezione imperiale a sette grandi Elettori, tre ecclesiastici e quattro laici, col proposito di mantenere la dignità imperiale nell’ambito delle grandi dinastie feudali. Ridotto essenzialmente all’area tedesca, l’Impero era frammentato in più di 400 piccoli Stati: città con regime repubblicano, città imperiali, principati laici oppure ecclesiastici. Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) Enrico venne coinvolto nella politica del Sacro Romano Impero con l'assassinio di re Alberto I del 1º maggio 1308. Quasi immediatamente, il re Filippo il Bello di Francia cominciò a cercare ostinatamente sostegno per suo fratello, Carlo di Valois, nella elezione a futuro re dei Romani. Convinto di avere l'appoggio del papa francese Clemente V, il suo progetto di portare l'impero nell'orbita della casa reale francese sembrava favorevole, e cominciò a diffondere generosamente denaro francese nella speranza di corrompere gli elettori tedeschi. Anche se Carlo di Valois aveva l'appoggio di Enrico II, arcivescovo di Colonia, sostenitore francese, molti non erano desiderosi di vedere una espansione del potere francese, e meno di tutti Clemente V. Il principale rivale di Carlo sembrava essere Rodolfo, conte palatino di Baviera. Considerate le sue origini, sebbene fosse un vassallo di Filippo il Bello, Enrico non era vincolato da legami nazionali, e questo era un aspetto della sua idoneità come candidato di compromesso tra gli elettori. Il fratello di Enrico, Baldovino, arcivescovo di Treviri, conquistò un certo numero di elettori, tra cui Enrico di Colonia, in cambio di alcune concessioni sostanziali. Di conseguenza Enrico fu eletto con sei voti a Francoforte il 27 novembre 1308 e successivamente fu incoronato ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309. Nel luglio 1309, papa Clemente V, dalla sua nuova sede in Avignone, confermò l'elezione di Enrico. Enrico in cambio, giurò protezione al Papa, e accettò di difendere i diritti della Santa sede, di non attaccare i privilegi delle città dello Stato Pontificio e di andare in crociata, una volta incoronato imperatore. Il 15 agosto 1309, Enrico VII annunciò la sua intenzione di recarsi a Roma. Ma Enrico, appena incoronato re, ebbe problemi locali da affrontare prima di poter ottenere la corona imperiale. Per garantire il successo della sua spedizione italiana, Enrico entrò in trattative con Roberto, re di Napoli a metà del 1310, con la intento di sposare sua figlia, Beatrice, al figlio di Roberto, Carlo, Duca di Calabria: si sperava così di ridurre in Italia le tensioni che contrapponevano gli anti-imperiali Guelfi, che guardavano al Re di Napoli per la leadership, e i pro-imperiali ghibellini. I negoziati, però, furono interrotti a causa di eccessive richieste monetarie di Roberto e per l'interferenza del re di Francia, Filippo, che non gradiva una tale alleanza. La discesa in Italia Mentre questi negoziati erano in corso, Enrico iniziò la sua discesa nel nord Italia nel mese di ottobre 1310. Decenni di guerra e di lotte avevano visto in Italia la nascita di decine di città-stato 11 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo indipendenti, ognuna nominalmente guelfa o ghibellina, sostenuta dalla nobiltà urbana a sostegno di un sovrano potente (come Milano), o dalle emergenti classi mercantili incorporate in uno stato repubblicano (come Firenze). All'inizio non dimostrò alcun favoritismo per nessuna delle parti, sperando che la sua magnanimità sarebbe stata ricambiata da entrambe le fazioni; tuttavia, insistette sul fatto che i governanti attuali di tutta le città-stato italiane avevano usurpato i loro poteri, che le città dovevano tornare sotto il controllo immediato dell'Impero, e che gli esuli dovevano essere richiamati. Infine costrinse le città a rispettare le sue richieste. Anche se Enrico ricompensò la loro sottomissione con titoli e feudi, questo atteggiamento causò una forte risentimento che crebbe nel corso del tempo. Questa era la situazione che il re dovette affrontare quando arrivò a Torino nel novembre del 1310, alla testa di 5.000 soldati, di cui 500 cavalieri. Dopo un breve soggiorno ad Asti, dove intervenne negli affari politici della città con grande costernazione dei guelfi italiani, Enrico procedette verso Milano, dove fu incoronato re d'Italia con la Corona Ferrea il 6 gennaio 1311. I Guelfi toscani si rifiutarono di partecipare alla cerimonia e così ebbe inizio la preparazione all'opposizione ai sogni imperiali di Enrico. Come parte del suo programma di riabilitazione politica, Enrico richiamò dall'esilio i Visconti, i governanti estromessi da Milano. Guido della Torre, che aveva cacciato i Visconti da Milano, si oppose e organizzò contro l'imperatore una rivolta che fu spietatamente repressa, mentre i Visconti riacquistavano il potere e Matteo Visconti veniva nominato vicario imperiale di Milano, e suo cognato, Amedeo di Savoia, vicario generale in Lombardia. Queste misure, oltre a un prelievo di massa imposto alle città italiane, portò le città guelfe a rivoltarsi contro Enrico e determinò un'ulteriore resistenza quando il sovrano cercò di far valere i diritti imperiali su quelle che erano diventate terre comunali e provò a sostituire i regolamenti comunali con le leggi imperiali. Tuttavia, Enrico riuscì a ripristinare una parvenza di potere imperiale in alcune parti del nord Italia, in città come Parma, Lodi, Verona e Padova. Allo stesso tempo ogni resistenza dei comuni del nord Italia veniva soppressa senza pietà. La prima città a subire l'ira di Enrico fu Cremona, dove la famiglia Torriani e i loro sostenitori si erano rifugiati: cadde il 26 aprile 1311 e le mura della città furono rase al suolo. Enrico poi impiegò quattro mesi di tempo nell'estate 1311 nell'assedio di Brescia, che gli fece ritardare il suo viaggio a Roma. L'opinione pubblica cominciò a rivoltarsi contro Enrico; la stessa Firenze si alleò con le comunità guelfe di Lucca, Siena e Bologna e si impegnò in una guerra di propaganda contro il re. Papa Clemente V, sotto la pressione crescente da re Filippo di Francia, cominciò a prendere le distanze da Enrico e ad abbracciare la causa dei guelfi italiani che si erano rivolti al papato per ottenere sostegno. Nonostante la peste e le diserzioni, Enrico riuscì a ottenere la resa di Brescia nel settembre 1311, poi passò per Pavia prima di arrivare a Genova, dove di nuovo cercò di mediare tra le fazioni in lotta all'interno della città. Durante il suo soggiorno nella città, sua moglie Margherita di Brabante morì. Re Roberto di Napoli aveva deciso di opporsi al consolidamento del potere imperiale nella penisola italiana e aveva ripreso la sua tradizionale posizione di capo della parte guelfa, che vedeva schierate Firenze, Lucca, Siena e Perugia. Enrico provò ad intimidire Roberto ordinandogli di presenziare alla sua incoronazione imperiale e di giurare fedeltà per i suoi feudi imperiali in Piemonte e Provenza. Mentre gran parte della Lombardia era in aperta ribellione contro Enrico, con rivolte tra il dicembre 1311 e il gennaio 1312, in Romagna il re Roberto rafforzava la sua posizione. Tuttavia, i sostenitori imperiali riuscivano a occupare Vicenza e ricevevano un'ambasciata da Venezia, che offriva l'amicizia della loro città. Dopo aver trascorso due mesi a Genova, il sovrano continuò in nave verso Pisa, dove fu ricevuto con entusiasmo dagli abitanti, ghibellini e nemici tradizionali di Firenze. Qui ancora una volta iniziò a negoziare con Roberto di Napoli, prima di decidere di entrare in 12 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo un'alleanza con Federico III di Sicilia, per rafforzare la sua posizione e mettere pressione sul re angioino. Poi lasciò Pisa per andare a Roma per essere incoronato imperatore, ma Clemente V non aveva intenzione di incoronarlo in quella sede. La guerra contro Firenze e Napoli Enrico si avvicinò alle mura di Roma, mentre la città era in uno stato di confusione: la famiglia Orsini aveva abbracciato la causa di Roberto di Napoli, mentre i Colonna erano schierati con gli imperiali. Il 7 maggio, le truppe tedesche si fecero strada attraverso il Ponte Milvio ed entrarono in Roma, ma fu impossibile scacciare le truppe angioine dalla roccaforte del Vaticano. La famiglia Colonna controllava stabilmente la zona attorno alla basilica di San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore ed il Colosseo; Enrico fu costretto a celebrare la sua incoronazione il 29 giugno 1312 presso il Laterano. La cerimonia fu effettuata da tre cardinali ghibellini. Ma il caos nella città di Roma costrinse Enrico ad allontanarsi e, seguendo il consiglio dei ghibellini toscani, si recò ad Arezzo. Qui, nel settembre 1312, emise una sentenza contro Roberto di Napoli, in quanto vassallo ribelle, mentre da Carpentras, vicino ad Avignone, Clemente V non era disposto a sostenere pienamente l'imperatore. Ma prima che Enrico potesse organizzarsi per attaccare Roberto di Napoli, dovette avere a che fare con i fiorentini. A metà settembre, si avvicinò molto rapidamente alla città toscana: era ovvio che la milizia della città e la cavalleria guelfa non potevano competere con l'esercito imperiale in una battaglia aperta. Siena, Bologna, Lucca e altre città inviarono uomini per aiutare nella difesa delle mura. Così ebbe inizio l'assedio di Firenze: l'imperatore disponeva di circa 15.000 fanti e 2.000 cavalieri, contro 64.000 difensori. Firenze fu in grado di mantenere aperta ogni porta, tranne quella che dalla parte dell'imperatore assediante, e mantenne tutte le sue rotte commerciali funzionanti. Per sei settimane Enrico batté le mura di Firenze e alla fine fu costretto ad abbandonare l'assedio. Nel marzo del 1313, l'imperatore tornò nella sua roccaforte di Pisa, Mentre indugiava a Pisa, in attesa di rinforzi provenienti dalla Germania, attaccò Lucca, un nemico tradizionale di Pisa. Dopo aver ottenuto più denaro che poteva da Pisa (circa 2 milioni di fiorini), Enrico iniziò la sua campagna contro Roberto di Napoli l'8 agosto 1313. Il suo primo obiettivo fu la città guelfa di Siena, che cinse d'assedio, ma nel giro di una settimana fu colpito dalla malaria. Morì venerdì 24 agosto 1313 e le speranze per un effettivo potere imperiale in Italia, morirono con lui. L'eredità Alla morte di Enrico VII, e per i decenni successivi, la figura centrale nella politica italiana sarebbe stata proprio Roberto di Napoli. Nell'Impero, il figlio di Enrico, Giovanni il Cieco, fu eletto re di Boemia nel 1310. Dopo la morte di Enrico VII, due rivali, Ludovico Wittelsbach di Baviera e Federico il Bello della Casa d'Asburgo, rivendicarono la corona. La loro disputa culminò il 28 settembre 1322 nella battaglia di Mühldorf, dove Federico fu sconfitto. L'eredità di Enrico risulta particolarmente evidente nelle carriere di successo di due fra i signori locali che egli fece vicari imperiali in città del nord, Cangrande I della Scala di Verona (il fondatore della dinastia scaligera e che il capo dei ghibellini italiani) e Matteo Visconti di Milano (che prima di consolidare il suo potere era già stato eletto nel 1287 capitano del popolo di Milano). 13 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Ludovico il Bavaro (1282-1347) L'espansione della casa Wittelsbach Ludovico era figlio del duca dell'Alta Baviera Ludovico II (il Severo) e di Matilde d'Asburgo. Nel 1301 divenne Duca reggente di Baviera, assieme al fratello Rodolfo. È un principe tedesco che incute rispetto già nel 1310, quando costringe il fratello a dividere il ducato (si riconcilieranno nel 1313), e sconfigge il proprio cugino Federico il Bello d'Asburgo nella battaglia di Gammelsdorf. Nel 1324 Ludovico sposa a Colonia Margherita d'Olanda, contessa di Hainaut e Olanda, ampliando l'influenza dei Wittelsbach. Nel 1340 eredita anche la bassa Baviera e pone suo figlio Ludovico a capo della marca del Brandeburgo. Nel 1345 eredita, attraverso la moglie Margherita, Olanda, Zelanda e Hainaut. La potenza dei Wittelsbach è ora davvero notevole. Monaco di Baviera diventa una splendida capitale. La marcia su Roma Dopo la morte, improvvisa, di Enrico VII nel 1313, la maggioranza dei principi elettori scelse l'imperatore Ludovico, il primo Wittelsbach ad assurgere a tale dignità. Il 28 settembre 1322. Nella battaglia di Muhldorf sconfisse Federico I d'Asburgo, che era stato eletto da un altro gruppo di principi elettori, rafforzando così la propria posizione nell'impero. Ludovico tentò però, inutilmente, di ottenere il riconoscimento dell'elezione da parte di Papa Giovanni XXII, che non voleva prendere partito nella lotta tra le due fazioni. Ludovico ignorò la pretesa della Curia romana di esaminare il diritto di Ludovico alla corona: Ludovico, non senza ragioni, riteneva che l'esame da parte del papato non fosse super partes. Di fronte all'atteggiamento di Ludovico, papa Giovanni interdisse l'imperatore. Da allora Ludovico venne chiamato, dispregiativamente, il Bavaro. Fu l'inizio di una lotta che accompagnò Ludovico per tutta la vita. D'accordo con diversi esponenti ghibellini, nel 1327 scese in Italia. Molte città ghibelline accolsero fra grandi acclamazioni l'Imperatore, che seguito dalle sue truppe e dai suoi cortigiani, vescovi e cardinali, imponeva tributi ed esigeva omaggio dai principi, conti e vescovi feudatari dell'Impero. Durante una dieta di rappresentanti delle maggiori città italiane, fu dichiarato il Pontefice romano eretico ed indegno, e presa la corona di ferro a Milano assumendo la carica di re d’Italia dalle mani di Guido Tarlati, scomunicato vescovo di Arezzo, avanzò in Toscana e infine giunse a Roma nel 1328. Ludovico ricevette la corona imperiale in San Pietro per mano di Giacomo Sciarra Colonna, capitano del popolo romano. Tre mesi più tardi Ludovico pubblicò un decreto, il "Jacque de Cahors", dichiarando papa Giovanni XXII deposto con l'accusa di eresia. Nominò allora il francescano spirituale, Pietro Rainalducci come antipapa Niccolò V, deposto dopo che Ludovico lasciò Roma gli ultimi mesi del 1328 in direzione di Pisa, dove la morte di Castruccio Castracani poteva portare la caduta della città nelle mani di Firenze. La deposizione di papa Giovanni XXII e l'elevazione al soglio di Pietro di Nicolò rese la situazione ancor più incandescente. In questo modo Ludovico negava il diritto del papa all'approvazione, e contemporaneamente rompeva con la tradizione medievale che voleva fosse il papa ad incoronare gli imperatori. Lo scontro tra Ludovico e il papa diventava inevitabile. Imperatore L'Imperatore riprese il suo viaggio per tornare in Baviera, dopo aver fatto una sosta prima a Viterbo, dove fu raggiunto dall'antipapa Niccolò V, successivamente a Grosseto, tentando invano di espugnare la città, e infine a Pisa per aiutare la città sua alleata di fronte alla minaccia fiorentina. Il 28 aprile 1330, giunto in Baviera, l'Imperatore fondò la Abbazia di Ettal. 14 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo Nel dibattito che seguì si schierarono con Ludovico Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham, che sostennero la preminenza dell'Impero sul Papato dal punto di vista teorico. I principi elettori, da parte loro, confermarono che un re da loro eletto non necessitava di approvazione da parte del papa. Ma a quel punto non era più possibile un accordo. Inoltre il re di Francia Filippo VI sabotava qualsiasi tentativo di avvicinamento tra il papa e Ludovico. Ludovico si era messo in una situazione senza vie d'uscita e, nonostante si alleasse con Edoardo III d'Inghilterra, la situazione creava nell'impero sempre maggiore scontento. Nel 1346, con l'appoggio del papato e della corte di Francia, Carlo IV di Lussemburgo (1316-1378) venne eletto anti-imperatore. La morte di Ludovico, a Puch, evitò la battaglia decisiva tra i due imperatori, nella quale Ludovico forse sarebbe stato in vantaggio. Marsìlio da Padova ( Padova, 1275 /1280 - Monaco di Baviera, 1342). Politico e teologo figlio di Bonmatteo dei Mainardini, notaio dell'università di Padova. Svolse studi di medicina a Padova, in un ambiente dominato dalla figura di Pietro d'Abano, conseguendo il dottorato. Recatosi a Parigi, si iscrisse alla facoltà delle Arti divenendone maestro e in seguito rettore (1313). Qui scrisse l'opera sua maggiore, il Defensor pacis (1324), e strinse rapporti con i maestri averroisti, in particolare con Giovanni di Jandun. Venne altresì in contatto con la dottrina della povertà evangelica sostenuta dagli Spirituali francescani, alcuni dei quali, come Guglielmo di Occam (m. 1247), Michele da Cesena (m.1342), Bonagrazia da Bergamo (m. 1340), trovarono rifugio alla corte dell'imperatore Ludovico, dove, dopo la condanna pontificia del Defensor pacis, anch'egli riparerà. Nella sua opera Marsilio intende svolgere un'analisi razionale della natura del potere politico, considerando non le varie forme di governo (come Aristotele nella Politica), ma le strutture stesse dell'organizzazione politica, il legislatore, la legge, il governo. La "totalità dei cittadini" (universitas civium) è la fonte unica della legge (legislator); il governo è l'espressione della totalità dei cittadini che lo elegge e ne controlla gli atti. Il governo quindi non è fonte di diritto, ma è sottoposto alla collettività. La legge, peraltro, non trae la sua forza da un principio naturale o divino, ma esclusivamente dalla volontà dei cittadini o nella loro totalità, dai sapienti agli artigiani, o nella "parte più valente" (valentior pars), lasciando fuori chi per natura è incapace di deliberare. In questa prospettiva, certamente originale, la legge trae valore dal suo essere tale, legge positiva, espressione di una volontà collettiva, imposta per il "bene vivere" della collettività. Il corpo politico è autonomo nell'imporre la legge, nettamente distinto dalla Chiesa, collettività dei fedeli che non può esercitare alcun potere positivo, (contro la tesi canonistica della "pienezza dei poteri" del pontefice), né può possedere beni terreni (secondo quanto insegnavano i maestri francescani vicini a Marsilio). La Chiesa è la "totalità dei fedeli" (universitas fidelium) e ad essa spettano il controllo sull'autorità ecclesiastica, l'elezione dei sacerdoti e del papa (attraverso il concilio cui anche i laici devono prendere parte). Così radicalmente distinti, Chiesa e Stato sono autonomi nelle loro sfere: alla Chiesa spetta il compito di ammaestrare, ma non di scomunicare; allo Stato o Impero quello di esercitare il potere politico nella persona dell'imperatore; all'imperatore compete anche il supremo controllo sulla conformità degli atti papali alle decisioni conciliari e alla fede. Di queste sue teorie Marsilio tentò anche una pratica realizzazione allorché, sceso in Italia al seguito di Ludovico il Bavaro nel 1327, organizzò la cerimonia dell'11 gennaio 1328 in cui l'imperatore ricevette le insegne del potere dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo romano; e ancora quando ispirò i documenti imperiali che dichiaravano deposto Giovanni XXII e nominavano l'antipapa Niccolò V. Tornato in Germania, Marsilio compose anche il De iurisdictione 15 Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo imperatoris in causis matrimonialibus, poi rifuso nel Defensor minor (1342), e il De traslatione imperii. 16