La prima metà del XIV secolo

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Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a
cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo
Venezia
Il nuovo doge, Renier Zen, nel 1255 promosse una nuova riforma politica di stampo aristocratico,
con la creazione di un consiglio ristretto di governo da affiancare al sovrano Maggior Consiglio: il
Consiglio dei Pregadi.
Le guerre con Genova
In quello stesso anno Venezia si scontrò duramente con Genova per il controllo dei mercati siriani.
Il casus belli fu la contesa per il possesso del monastero di San Saba a San Giovanni d'Acri, capitale
del Regno di Gerusalemme, sfociata in aperta battaglia, con la distruzione del quartiere veneto e
delle navi alla fonda nel porto da parte dei Genovesi. Venezia, dunque, strinse alleanza con Pisa,
Marsiglia e le città della Provenza, affidando a Lorenzo Tiepolo il comando di una flotta con cui
piombò nel 1256 su Acri, forzarono il porto e distruggendo tutte le navi genovesi presenti,
assalendo ed incendiando il quartiere rivale e conquistandone infine il castello, detto del Mongioia.
Le due repubbliche raccolsero quindi tutte le forze di cui disponevano in Oriente, giungendo allo
scontro nelle acque di Cipro, dove i Genovesi vennero battuti, consentendo al Tiepolo di bloccare ai
rivali le rotte per i mercati levantini. Genova, ripresasi nel 1257 dalle lotte interne cui la sconfitta
l'aveva portata, riprese con maggior vigore la guerra, ma il 24 giugno 1258, la sua flotta venne
disastrosamente battuta nelle acque di Acri: venticinque galee genovesi vennero catturate, i
magazzini e il quartiere genovese nuovamente saccheggiati e distrutti. Nonostante i tentativi di
intermediazione di papa Alessandro IV il conflitto continuò, spostandosi nel campo del traballante
Impero Latino.
La perdita di Bisanzio
Venezia si sobbarcò quasi per intero la difesa del traballante trono di Baldovino II, nel tentativo di
difendere la propria posizione dominante nel mercato di Costantinopoli. Genova, invece, strinse nel
1261 con il reggente dell'Impero di Nicea Michele Paleologo il trattato di Ninfeo, che fornì ai
Niceni la necessaria protezione per riuscire nell'impresa di riconquistare Costantinopoli. Caduta la
città con un colpo di mano il 25 luglio e acclamato il Paleologo nuovo basileus dei Romei, i
Genovesi si trovarono in una posizione di forza nel rinato Impero bizantino, scacciando i Veneziani
dalla loro posizione di predominio. Così rafforzati i Genovesi e i Bizantini non risposero alle
provocazioni della flotta veneziana inviata contro di loro e si rifiutarono di dar battaglia. La
Repubblica sollecitò allora i vassalli Duchi dell'Arcipelago a danneggiare il commercio greco, ma la
loro flotta venne annientata da quella greca. Nel 1262 i Veneziani riuscirono finalmente ad
intercettare la flotta genovese, battendola al largo della Morea, ma lo scontro finale si ebbe nel 1264
nella battaglia di Settepozzi, al largo della Sicilia, dove l'intera flotta de la Superba venne
annientata. Sconfitti i suoi alleati, il 18 giugno 1265 l'Impero bizantino propose a Venezia un
trattato di pace perpetua, ma l'accordo non trovò l'approvazione ducale, venendo dunque ridotto ad
una semplice tregua quinquennale.
In quegli stessi anni i mercanti veneziani Niccolò e Maffeo Polo strinsero i primi contatti con il
Gran Khan dell'Impero mongolo Qublai Khan, corteggiato dalle nazioni occidentali alla ricerca di
un'alleanza contro i saraceni che minacciavano di scacciarle definitivamente dagli ultimi avamposti
in Siria. I mercanti veneti si fecero così intermediari di una possibile alleanza ripartendo nel 1266
dalla Cina con l'incarico di portare un'ambasceria del Khan a papa Clemente IV per una possibile
introduzione del Cristianesimo in Cina.
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Venezia in bilico tra popolari ed oligarchici
Alla morte di Renier Zen (1268), nel tentativo di evitare che l'elezione ducale potesse essere in
qualche modo pilotata, si procedette alla definitiva riforma della formula elettorale, affidata ad un
complesso sistema di votazioni e sorteggi: venne chiamato dunque quale nuovo doge il figlio di
Jacopo Tiepolo, Lorenzo, anch'egli come il padre esponente del partito popolare. Il doge, per
compensare la progressiva perdita di potere della classe popolare nei confronti dei Patrizi istituì la
carica di onorifica riservata esclusivamente ai Cittadini del Cancellier Grando, supremo capo
dell'amministrazione statale.
Conflitti con altre città e stati
Nel 1270 il doge siglò la pace con Genova e Bisanzio, ma nello stesso anno la città di Bologna
sbarrò la navigazione sul Po costruendo una fortezza a presidio del Po di Primaro, scatenando la
guerra con Venezia, che vedeva bloccata una delle vie per il commercio con l'entroterra. La guerra
si estese con la formazione di una Lega Italica composta da Bologna, Treviso, Verona, Mantova,
Ferrara, Cremona, Recanati, Ancona ed altre città minori che nel 1273 riuscirono a costringere
Venezia alla pace. A Venezia, invece, nel 1274 il dogado del Tiepolo venne nuovamente funestato
dallo scoppio di un'estesa rivolta a Creta, con il massacro da parte dei Greci del duca di Candia e di
molti nobili veneziani. Lorenzo Tiepolo morì il 15 agosto 1275.
Giacché non si trovava accordo tra le diverse fazioni, nuovo doge venne infine eletto il 6 settembre
1275 l'anziano Jacopo Contarini.
Venne eletto doge nel 1280 Giovanni Dandolo, esponente del partito aristocratico. Nel 1281 il doge
strinse un trattato con Ancona tutto a proprio favore, per poter essere libero di agire contro i
rivoltosi cretesi e istriani, questi ultimi sostenuti dal Principato ecclesiastico di Aquileia e dal
Ducato d'Austria. Nel 1282 rifiutò aiuto al papa contro gli Aragonesi che avevano invaso la Sicilia,
venendo per questo colpito assieme alla città dalla scomunica. In Oriente, poi, Genova aveva
acquisito dai Bizantini l'esclusiva sull'accesso alle acque del mar Nero, dove aveva costituito le
nuove colonie di Caffa e Pera. Venezia reagì stringendo alleanza con Pisa, ma questa il 6 agosto
1284 venne disastrosamente sconfitta nella battaglia della Meloria.
Nonostante ciò e nonostante i conflitti non accennassero a risolversi, il benessere del commercio
veneziano venne testimoniato in quegli stessi anni dal conio del primo Ducato Matapan, moneta
destinata a diventare mezzo di scambio di primo piano nel commercio mediterraneo. Gli interessi
del doge erano tuttavia più orientati al successo politico del partito aristocratico.
La formazione del sistema oligarchico
Nonostante la bocciatura delle loro proposte tese a ridurre il peso dei popolari, i membri del partito
aristocratico erano ancora forti, così il 25 novembre 1289 riuscirono a far eleggere doge Pietro
Pierazzo Gradenigo, il giovane capo della loro fazione. Il conflitto politico latente a Venezia
esplose con la proposta, presentata dal doge il 6 marzo del 1296, di escludere le classi medie
dall'accesso al Maggior Consiglio. La legge venne a stento rigettata, ma il 28 febbraio 1297 venne
infine definitivamente approvata la Serrata del Maggior Consiglio.
Altre guerre con Genova
Con la caduta nel 1291 di Acri, ultimo lembo dell'Outremer cristiano, e la temporanea chiusura
delle rotte per la Siria si riaccese il conflitto con Genova per il controllo dei mercati bizantini. Nel
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1293 dunque, i Veneziani, fattisi aggressivi sotto il governo del nuovo doge tentarono di bloccare
una muda genovese al largo di Corone, provocando la guerra. Dopo una serie di scontri minori, le
due flotte si fronteggiarono il 28 maggio 1294 nella battaglia di Laiazzo, dove i Veneziani furono
duramente sconfitti. Poco dopo i Genovesi spostarono la guerra contro Candia e le mude veneziane,
ricevendo in risposto l'ingresso dei Veneziani nel Mar Nero e l'incendio di Caffa. A Costantinopoli,
però, i coloni genovesi assalirono il quartiere veneziano, ricevendo il sostegno dell'imperatore
Andronico II, che fece prigionieri i Veneziani superstiti e lo stesso bailo Marco Bembo.
Puntualmente, nel 1296, la flotta veneta forzò il Bosforo e mise a ferro e fuoco tutta la costa,
distruggendo la colonia genovese di Galata e gettando infine le ancore davanti proprio di fronte alla
residenza imperiale del palazzo delle Blacherne. I Bizantini abbandonarono così il conflitto
pagando un ingente tributo di guerra. Mentre la guerra con Genova proseguiva con alterne fortune I
Veneziani subirono una nuova disastrosa sconfitta nella battaglia di Curzola nel 1298, cui seguì il
nuovo massacro dei coloni veneziani ordinato dall'imperatore di Costantinopoli. La successiva pace
firmata il 25 maggio 1299 a Milano sotto gli auspici di Matteo Visconti fu assai dura e lasciò infatti
strascichi economici sulla classe dei cittadini, già colpita politicamente dalla serrata.
Lotte tra fazioni
All'indomani dell'umiliante pace, dunque, alcuni membri del partito popolare, riunitisi attorno a
Marin Bocconio, uno degli esponenti del partito appartenente alla classe dei Cittadini, ordirono una
congiura contro il doge. Scoperti, i congiurati vennero però arrestati e impiccati. Rafforzati dal
successo contro la congiura il doge Gradenigo e gli oligarchici rivolsero la loro attenzione a Ferrara,
dove nel 1305-1306 il marchese Azzo VIII d'Este ottenne l'invio di rinforzi coi quali avere ragione
dei suoi nemici. Aveva però dovuto ammettere in città l'insediamento di un visdomino veneziano.
Quando Azzo VIII cadde malato e morì, però, Venezia dovette intervenire in favore dell'erede
Folco d'Este contro gli zii Francesco e Aldobrandino, che dal canto loro chiesero aiuto a papa
Clemente V, riconoscendo la sua signoria su Ferrara. La situazione di stallo sfociò il 7 ottobre 1308
nella dichiarazione di guerra di Venezia contro lo Stato della Chiesa, seguita dalla scomunica
papale sul doge. L'evento aprì una profonda spaccatura tra i due schieramenti politici della città, coi
popolari, guidati da Jacopo Querini, che si schierarono su posizioni guelfe. Il 27 marzo 1309 il papa
lanciò l'interdetto sulla città di Venezia, ordinandone parimenti l'evacuazione da parte del clero,
mentre ovunque all'estero esplosero violente reazioni contro i beni e i mercanti veneziani.
Addirittura il cardinale Arnaldo Pelagrua annunciò una prossima crociata contro la città lagunare,
mentre da numerose parti giungevano contingenti inviati alla liberazione di Ferrara. Il 28 agosto,
infine, Venezia capitolò, abbandonando i possedimenti ferraresi. Il partito oligarchico accusò della
sconfitta il popolare Marco Querini, comandante delle forze veneziane, e in città si accesero scontri
tra le due fazioni che nel mese di settembre portarono a risse in Maggior Consiglio, con le famiglie
Querini, i Tiepolo e i Badoer, da una parte, a fronteggiarsi con i Giustinian, i Dandolo e i
Gradenigo, dall'altra. Il provvedimenti presi dal Governo contro i tumulti non fecero altro che
provocare nuovi scontri nella zona di Rialto, roccaforte dei popolari. Partito Jacopo Querini, il
vecchio e moderato capo dei popolari, nominato bailo a Costantinopoli, gli esponenti del suo partito
iniziarono a tramare per rovesciare il doge Gradenigo e la sua fazione. L'opposizione si coalizzò
attorno alla figura del giovane Bajamonte Tiepolo e l'azione venne fissata per l'alba di domenica 14
giugno 1310. L'azione era ben congegnata e pericolosa, prevedendo il contemporaneo assalto del
Palazzo Ducale da parte di tre colonne armate, con il concorso anche di genti padovane radunate da
Badoero Badoer. Il tradimento di un congiurato mise però sull'avviso il doge, che si trovò così
preparato al giorno prefissato della congiura. I rivoltosi, sorpresi dalle guardie del doge vennero
duramente respinti e costretti ad asserragliarsi a Rialto, dove si accinsero però a resistere. Il 17
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giugno si giunse infine ad un accordo ed il Tiepolo e quanti erano con lui accettarono di lasciare la
città per l'esilio. Quanti erano però già caduti nelle mani del doge non trovarono alcuna pietà: il
Supremo Tribunale della Quarantia emanò per loro la sentenza di morte. Schiacciata così
l'opposizione, rase persino al suolo le proprietà degli avversari, gli oligarchici rimasero padroni del
campo. Il 10 luglio venne decretata la nascita di un nuovo organismo statale, il Consiglio dei Dieci,
con funzioni di tribunale straordinario per la repressione delle minacce contro lo Stato. Venne poi
costituita una milizia cittadina affidata al comando dei Capisestiere pronta ad accorrere in
qualunque momento in difesa della Repubblica, oramai divenuta aristocratica sotto il governo di un
Patriziato mercantile. Pochi giorni dopo vennero emanate nuove leggi per limitare l'accesso degli
homini novi al Maggior Consiglio. Pietro Gradenigo, vittorioso, si spense il 13 agosto 1311.
Nuove guerre italiane
Il 4 gennaio 1329 divenne doge Francesco Dandolo. In quell'epoca ormai gli Scaligeri si erano resi
signori di Vicenza, Padova, Feltre e Belluno, giungendo ai margini della laguna, ponendo a
Marghera la dogana. Venezia dal canto suo tentò nuovamente di impadronirsi di Ferrara,
approfittando della sua agitazione interna, ma il progetto venne bloccato dall'interdetto di papa
Clemente V. Nel 1336 la Repubblica entrò in lega con Firenze, Siena, Bologna, Perugia ed altre
città minori contro le mire espansionistiche di Mastino II della Scala. Nel 1337 la coalizione si
allargò e Mastino non fu più in grado di tener testa ai suoi nemici: Padova tornò nel dominio dei
Carraresi e Venezia il 29 settembre prese il Castello di Mestre, avanzando nell'entroterra. Nel 1338,
poi, Venezia conquistò Treviso, primo nucleo dei suoi domini terrestri, ponendo fine alla
signoria dei Da Camino riconosciuta con la pace del 24 gennaio 1339, a Venezia. Il Dandolo
morì il 31 ottobre di quello stesso anno. Nuovo doge fu Bartolomeo Gradenigo, il quale, già
vecchio, morì il 28 dicembre 1342, mentre a Creta nuove rivolte scuotevano il dominio veneziano.
La rinascita culturale nei Comuni
Sul piano culturale, sullo sfondo della rivalità tra Guelfi e Ghibellini, si era andato sempre più
ridestando un sentimento nazionale di avversione alle ingerenze tedesche, animato dal ricordo
dell'antica grandezza di Roma, e sostenuto dal fatto che i Comuni, la cui vita civile ruotava attorno
all'edificio della Cattedrale, trovavano nell'identità spirituale rappresentata dalla Chiesa, idealmente
erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza.
Durante il XIII e il XIV secolo, parallelamente a una generale ripresa economica, si ebbe una
rinascita culturale notevole che portò alla formazione della lingua italiana volgare. Tra coloro che
contribuirono a questa rinascita ricordiamo Iacopone da Todi che scrisse delle famose Laude e
soprattutto Francesco Petrarca che affiancò a varie opere scritte in latino alcune importanti
composizioni in volgare italiano tra cui il Canzoniere. Petrarca in particolare fu promotore di una
riscoperta del classicismo che sarà proseguita dagli intellettuali rinascimentali.
In quegli anni si sviluppò a Firenze una nuova corrente culturale: il Dolce Stil Novo, che
rappresentava per certi versi la continuazione e l'evoluzione del vecchio Amor cortese dei romanzi
cavallereschi. I principali esponenti di tale corrente furono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, e
soprattutto Dante Alighieri che rivoluzionò in modo profondo la letteratura italiana e che produsse
opere come la Vita Nova e la Divina Commedia, universalmente riconosciuta come uno dei
capolavori letterari di ogni tempo e che viene ancora oggi studiata approfonditamente nelle scuole
italiane.
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Da ricordare è anche il contributo del fiorentino Giovanni Boccaccio che scrisse il Decameron. In
questa opera egli racconta di alcuni giovani che per fuggire alla peste si rifugiano nelle campagne
vicino Firenze, e delle cento storie, molto spesso a carattere faceto, da raccontare per passare il
tempo. Anche il Decameron è da annoverarsi tra le più gradi opere delle letteratura italiana e, al pari
delle altre sopra indicate, contribuì alla nascita di un volgare italiano, o più propriamente, di un
dialetto fiorentino che sarebbe poi diventato la base dell'attuale lingua italiana.
Forte è anche la fioritura dell'arte, con artisti come Giotto, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini,
Arnolfo di Cambio e Jacopo della Quercia. Anche qui Firenze (affiancata comunque dalle altre città
toscane) si dimostra un centro culturale attivo oltre che un centro politico importante.
Il XIV secolo e la “crisi del trecento”
A cura di Francesco Forlin
L'autunno del Medioevo: introduzione al Trecento
Durante il quattordicesimo secolo è possibile osservare delle dinamiche di lungo corso nelle quali si
lascia cogliere la crisi delle principali istituzioni medioevali. Per questo motivo il Trecento, al pari
del Seicento e del Novecento, è oramai da tempo studiato e considerato come un “secolo di crisi”.
Nel caso specifico, tale crisi rappresenta il superamento del Medioevo e l'inizio di quella transizione
verso la piena modernità destinata a proseguire lungo il corso dell'Umanesimo quattrocentesco.
Prima di proseguire oltre, è opportuno soffermarsi su due possibili letture di tale fenomeno.
La prima è quella proposta nel 1919 dallo storico olandese Johan Huizinga in un fortunato testo
storiografico: L'autunno del Medioevo. In esso, l'autore ravvisa una cesura molto profonda fra
Medioevo e modernità, e centra questa cesura in una serie di cambiamenti intercorsi nel comune
sentire:
“L'uomo moderno non ha generalmente alcuna idea della sfrenata stravaganza e infiammabilità
dell'animo medioevale […] mancavano nel Medioevo tutti quei sentimenti che hanno reso timido e
oscillante il nostro concetto di giustizia: l'idea della semi-responsabilità, l'idea della fallibilità del
giudice, la coscienza che la società è corresponsabile dei misfatti del singolo, la questione se non
val meglio correggere il colpevole che farlo soffrire.”
L'uomo medioevale, e con esso l'uomo trecentesco, sarebbe dunque un uomo ancora dominato da
quel senso della giustizia che è possibile trovare espresso con mirabile chiarezza nella Commedia
dantesca: l'uomo giusto non solo non prova compassione per il peccatore punito, egli anzi si rallegra
e gioisce innanzi allo spettacolo della giustizia divina che trionfa. Al di là di questo, è chiaro come
per Huizinga l'uomo medioevale sia un uomo abituato a conoscere le cose senza amore per le
sottigliezze e per le distinzioni: l'unico modo di conoscere il particolare consiste, per l'uomo
medioevale, nel riportarlo all'universale, nell'inquadrarlo all'interno di un rigido schema gerarchico
che trova in Dio il proprio vertice. Mancano le mezze misure, i chiaro-scuro, la passione per la
complessità che saranno proprie dell'uomo moderno. Sotto questo punto di vista, la distinzione è
netta, ed il quattordicesimo secolo risulta da ascriversi completamente all'Età di Mezzo, se pure in
esso quest'ultima si mostra in fase di declino.
Circa settant'anni dopo Huizinga, Jacques Le Goff torna sul problema, ma con accenti diversi:
“Un mondo nuovo sembra uscire dalla crisi del Trecento. Tuttavia, sotto una pelle nuova, la
Cristianità, corpo e anima, stupisce soprattutto per le sue persistenze […] il Medioevo sembra
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inoltre in quest'epoca esasperarsi. L'autunno del Medioevo, tale quale l'ha visto Huizinga, è pieno
di furore e di rumore, di sangue e lacrime “.
Anche Le Goff sottolinea il legame intercorrente fra Trecento e Medioevo, ma proietta questa
riflessione all'interno di una più vasta continuità di movimenti di lungo corso, per i quali, se il
Trecento appartiene al Medioevo, è anche vero che esso racchiude in sé dinamiche e sviluppi
destinati a dar frutto nel pieno Cinquecento. Per un verso, pertanto, il Medioevo trecentesco appare
come “esasperato”, ossia ancora più crudele, appassionato e dominato da passioni e partigianerie
più forti che mai, soprattutto in Italia ove alla cronica debolezza del potere imperiale si aggiunge la
latitanza dalla Penisola del Papato, sottomesso al potere del Re di Francia nel chiuso della corte
avignonese. Per un altro verso, proprio a partire dall'Italia, anche per questo nel Trecento giungono
a maturazione fenomeni ampiamente osservabili già nel Duecento: comuni, signorie, principati
prosperano più che mai, mentre in Europa le conseguenze sulla lunga distanza della battaglia di
Bouvines (1214) si dipanano lungo un corso di eventi che dallo scontro fra Filippo IV il Bello e
Bonifacio VIII (1302-1303) deflagra nella Guerra dei Cent'Anni (1337-1453) e descrive l'arco di
nascita delle monarchie nazionali.
Ma le ragioni per riannodare il Trecento sia all'età medioevale che a quella moderna non si limitano
all'ambito politico. Questo, ad esempio, è anche il caso dell'arte figurativa. La rivoluzione pittorica
che parte da Giotto è destinata a trovar compimento in Masaccio, in Botticelli, in Leonardo e nel
pieno Rinascimento di Michelangelo e Raffaello. Lo stesso discorso vale per l'architettura, giacché
in Francia lo stile gotico dapprima evolve in gotico fiammeggiante e poi il anticipa il Barocco
italiano del Seicento.
Ancora, è possibile osservare qualcosa di analogo perfino nel caso della devozione religiosa. Le
eresie trecentesche non si limitano più a prendere di mira i mali della Chiesa (corruzione, simonia,
nicolaismo) ma si spingono a mettere in discussione aspetti strutturali (la gerarchia, il rapporto fra
sovranità del Pontefice e Conciliarismo) e dogmatici (i sacramenti) dell'istituzione ecclesiastica [ad
esempio John Wyclif, n.d.r.]. Tutto questo si traduce in una vivissima esigenza riformatrice,
destinata però a rimanere inascoltata fino a Lutero ed al Concilio di Trento, ossia, ancora una volta,
fino alla piena modernità. […]
Il XIV secolo: il secolo della crisi
La crisi del XIV secolo fu un fenomeno di ampia portata nella storia europea, che durò per vari
decenni, con una ripresa solo a partire dalla seconda metà.
Dopo due secoli di grande sviluppo e prosperità nel continente europeo, il Trecento fu un secolo di
rottura, con l'interruzione di fenomeni in crescita come lo sviluppo demografico, l'ampliamento e la
creazione di nuove città, lo straordinario aumento dei traffici in quantità e in qualità.
Oggi si inizia a considerare che il regresso possa essere stato causato innanzitutto da una variazione
del clima, con la fine del cosiddetto periodo caldo medioevale, che aveva permesso lo scioglimento
dei ghiacci (si pensi alla navigazione dei Vichinghi e alla colonizzazione della Groenlandia), la
coltivazione della vite fin sopra Londra, abbondanti raccolti facilitati dalle piogge scarse e regolari e
le tiepide primavere.
La carestia del 1315-1317 e il ristagno economico
La crisi del Trecento si manifestò innanzitutto con la fame, prima ancora che con la tristemente
celebre ondata di peste. Molti storici hanno iniziato a supporre un eccessivo aumento della
popolazione rispetto alle risorse producibili: nei secoli precedenti l'aumento delle derrate prodotte si
era avuto grazie alla coltivazione di nuovi terreni, che verso la fine del Duecento erano giunti alla
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saturazione. Ne è una prova la presenza di insediamenti anche in zone disagiate (montagne, zone
paludose, ecc.) dove si produceva con grosse difficoltà, ma anche quel contributo era necessario
(tutti insediamenti che vennero poi abbandonati nel corso del secolo con la diminuzione
demografica dando origine al fenomeno dei villaggi abbandonati). Il clima più freddo e più umido
peggiorò i raccolti e esponeva la popolazione, soprattutto i bambini, alle malattie da
raffreddamento.
Si manifestava così, nei ceti subalterni, una fetta di popolazione denutrita, abituata da generazioni a
nutrirsi quasi esclusivamente di cereali, che dovette soccombere al primo prolungato rialzo dei
prezzi dovuto ai cattivi raccolti degli anni 1315-1317. La "Grande carestia" fu il primo sintomo di
una situazione in peggioramento, della quale, naturalmente, i contemporanei non potevano avere
consapevolezza.
La ricca Europa duecentesca non era stata immune dalle carestie, solo che esse avevano coinvolto
alcune zone circoscritte, ai cui bisogni si era potuto provvedere facendo affluire derrate alimentari
da altre aree non colpite. Nel 1315-17 la carestia invece si manifestò in maniera disastrosa in
quasi tutto il continente e in contemporanea. Si erano infatti susseguite delle condizioni
climatiche negative (inverni rigidi e prolungati, estati eccessivamente piovose, alluvioni e
grandinate), danneggiando ripetutamente i raccolti. I prezzi dei cereali aumentarono
vorticosamente, provocando la morte per denutrizione di molte persone e di parecchio bestiame. È
stato calcolato che nella città di Ypres, tra il maggio e il novembre 1316, morirono quasi tremila
persone su una popolazione di 20-25.000 unità.
Una nuova ondata di carestia si abbatté sull'Europa nel decennio 1340-1350.
Nelle città la crisi si manifestò con il ristagno della produzione e dello smercio di alcuni prodotti
(soprattutto tessili), e con uno stallo dei rapporti tra moneta aurea e d'argento, che aveva visto una
minor richiesta dell'oro, segno della cattiva salute dei traffici internazionali.
Un grave collasso finanziario si ebbe a Firenze, il maggiore centro finanziario della penisola,
quando nel 1342-1346 fallirono a catena alcune grandi compagnie commerciali (dei Bardi, dei
Peruzzi, degli Acciaiuoli).
La peste nera
Il vero e proprio tracollo europeo si ebbe con l'arrivo di una durissima ondata di pestilenza, pare
proveniente dalla Cina (dove c'era stata una grave pandemia nel 1333), che nel 1347 arrivò in
Europa tramite le rotte commerciali, in particolare, pare, tramite le navi genovesi che facevano la
spola tra Mar Nero e Mediterraneo per il commercio del grano. La pandemia si diffuse nelle zone
portuali, arrivando a Messina e poi nelle città sul Tirreno, per poi spargersi ovunque.
L'epidemia era arrivata in Italia e nel Mediterraneo occidentale nell'autunno del 1347 per poi
"congelarsi" durante i mesi invernali. Da marzo a maggio il contagio divenne allucinante, con le
città che assistevano al progredire verso di esse del contagio terrorizzate di scoprire da un momento
all'altro i segni della comparsa del male. Per tre lunghi anni la pandemia falciò il continente, fino
all'estate del 1350 compresa.
Le cause dirette della pestilenza furono investigate solo nel XIX secolo, individuando almeno tre
tipi di infezioni (polmonare, setticemia e ghiandolare o "bubbonica") che forse infierirono
contemporaneamente. Quella bubbonica in particolare dava segni evidenti (i "bubboni") e si
trasmetteva tramite i parassiti veicolati dai ratti all'uomo. L'epidemia fu particolarmente violenta
per la debolezza endemica di larghe fette di popolazione denutrite e con il sistema
immunitario depresso, e per le precarie condizioni igieniche di molti centri urbani sovraffollati. La
comparsa dei sintomi (bubboni nella zona ascellare e inguinale, macchie nere, fino
all'espettorazione di sangue), gettavano la popolazione nel terrore quali segni di sicura morte.
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cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo
Diffusione della peste nera dal 1347 (marroncino) al 1351 (giallo)
Gli studi parlano di una mortalità media del 25% della popolazione, con picchi (in Germania, in
Francia e in Italia), del 30-35% e oltre. Alcune aree vennero anche inspiegabilmente risparmiate,
come il milanese.
La pandemia terminò la fase acuta tra il 1350 e il 1351, permanendo però allo stato endemico e
ricomparendo in successive ondate fino alla successiva pandemia del 1630. Tra le conseguenze vi
furono lo spopolamento delle aree impervie, con i contadini migrati a riempire gli spazi vuoti nelle
aree più fertili in pianura e in collina, e la crisi dei piccoli proprietari terrieri, che vendendo i loro
terreni favorirono la concentrazione delle proprietà in un minor numero di mani. I ceti dirigenti, in
alcune zone, si allontanarono dal controllo diretto della terra, preferendo affidarla in affitto o
secondo altri contratti (come la mezzadria in Toscana) e vivendo di rendita. Le condizioni di vita
del ceto rurale peggiorarono comunque notevolmente e si andò formando una specie di
"proletariato" rurale.
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Conseguenze devozionali
La disordinata religiosità che fu animata dalla sensazione di terrore e di disorientamento a fronte
dell'inspiegabile susseguirsi di calamità e sciagure (carestie, epidemie, guerre, l'avanzata dei Turchi
o dei Tartari), fu permeata da elementi apocalittici e irrazionali, che credevano in un'azione
diabolica congiunta e particolarmente efficace. La fine del mondo e la venuta dell'Anticristo
sembravano più vicine che mai e si cercarono dei nemici da combattere, che erano, oltre ai cattivi
cristiani, gli ebrei e le streghe, contro le quali si scatenò una vera e propria caccia.
Della sensibilità religiosa imbevuta di paura si approfittarono i predicatori popolari, che fecero
incrementare le donazioni alla Chiesa e l'acquisto di indulgenze. La paura per la morte, visibile nei
frequenti dipinti di trionfi della morte, danze macabre e incontro dei tre vivi e dei tre morti, era un
sentimento nuovo ed era drammatizzata dal confronto con i prosperi secoli immediatamente
precedenti. Proliferavano gruppi e confraternite di penitenti, più o meno eterodosse, mentre in Italia
e in Fiandra nacque la devotio moderna, con rappresentanti come Brigida di Svezia, Caterina da
Siena, Enrico Suso e Tommaso da Kempis. Essa promuoveva un'adesione religiosa meno formale e
più legata ad aspetti intimi e personali, intesa come un valore essenzialmente umano. L'opera più
importante di questa corrente fu l'Imitazione di Cristo, tra i più celebri trattati di meditazione
cristiana di tutti i tempi.
Le rivolte
Alle carestie, le epidemie, la riduzione degli spazi a coltura cerealicola in favore di coltivazioni più
redditizie, le vessazioni del ceto fondiario, vanno aggiunte le guerre che erano frequenti in tutta
Europa e che si tramutavano talvolta in razzie, saccheggi e assedi a lungo termine con una
destabilizzazione della società.
L'aggravarsi delle condizioni di vita dei ceti subalterni nelle campagne produsse inizialmente un
flusso di persone verso le città, dove erano almeno presenti alcune istituzioni caritatevoli che gli
assicuravano un minimo di sostentamento giornaliero. Ciò causò un sovrappiù di manodopera che
minacciò i ceti subalterni cittadini. Il malessere verso una situazione divenuta ormai insostenibile fu
all'origine di rivolte un po' in tutta Europa, sia nelle campagne che nelle città, a partire dai ceti più
umili che talvolta riuscivano a coinvolgere anche frange più agiate, come i piccoli artigiani o i
produttori subalterni.
In Fiandra si erano registrate rivolte già nel primo trentennio del Trecento, mentre le campagne
francesi vennero battute tra 1315 e 1360 dalle folle dei pastoureaux ("pastorelli") e, tra il 1356 e il
1358, dalla jacquerie, dove i contadini inferociti misero al rogo parecchi castelli ed aggravarono la
situazione già difficile durante la guerra dei cent'anni. Nel 1356 dilagò a Parigi una rivolta
capeggiata dal "prevosto" dei mercanti Étienne Marcel.
Tra il 1351 e il 1378 si ebbero le rivolte dei Ciompi a Perugia, a Siena e a Firenze. In Inghilterra si
ebbe una dura rivolta cristiano-popolare nel 1381, capeggiata da Wat Tyler e John Ball, che si
ribellarono al duro regime fiscale imposto dal re a causa della lunga guerra contro la Francia.
Le compagnie di ventura
Lo spopolamento ebbe come conseguenza anche l'impossibilità di tenere milizie cittadine e
cavallerie feudali permanenti, rendendo necessario ricorrere a guerrieri di mestiere, che fossero ben
addestrati e mobili. Nacquero così le compagnie di ventura, istituzioni militari composte da armati
che di mestiere si prestavano a chi ne facesse richiesta in cambio di soldi. Erano delle vere e proprie
"imprese" commerciali, che si offrivano ai vari governi come mercenari. Il contratto che essi
stipulavano si chiamava "condotta", da cui il termine condottiero.
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Inizialmente le compagnie di ventura, che tanto peso ebbero nelle vicende italiane, erano straniere
(Francesco Petrarca le chiamò "pellegrine spade"), come la Grande Compagnia di Guarnieri
d'Urslingen, la Compagnia Bianca di Giovanni Acuto. Presto si formarono anche compagnie
italiane, come la Compagnia del Cappelletto creata da Niccolò da Montefeltro, la Compagnia di San
Giorgio di Alberico da Barbiano, nella quale si formarono i condottieri Braccio da Montone e
Muzio Attendolo Sforza, i quali furono all'origine delle due principali tattiche militari del tempo:
quella braccesca, basata sull'assalto impetuoso, e quella sforzesca, che privilegiava la tattica e le
manovre.
Le compagnie di ventura vendevano un servizio, quello militare, e non avevano nessun interesse a
distruggersi a vicenda, né erano particolarmente interessati alla causa per la quale lottavano. Per
questo vennero spesso accusate di non combattere sul serio e di essere inclini al tradimento
favorendo chi offriva loro più soldi.
Ma il più grave difetto di queste compagnie, che si rivelò solo nei secoli successivi, era quello di
trarre profitto dalla guerra, quindi di impedire l'instaurarsi di una qualsiasi pace duratura: in tempi
tranquilli esse si davano al saccheggio costringendo i governi a pagare loro una sorta di tassa per
impedire che si dessero a eccessi.
Alcuni condottieri riuscirono a fare una politica personale che nel migliore dei modi fruttò loro una
signoria e, magari più tardi, anche un principato.
La ripresa
La crisi generale del Trecento riuscì ad innescare anche un riassetto economico e produttivo da
parte dei ceti dirigenti, che gradualmente risalirono la china verso una nuova prosperità.
Per esempio le compagnie commerciali divennero, dopo i fallimenti a catena del 1342-1346, più
flessibili, in modo che l'eventuale fallimento di una filiale non si ripercuotesse sull'intera
compagnia. Si svilupparono le attività manifatturiere nelle campagne, dove la manodopera era più
docile di quella cittadina, come quelle tessili, metallurgiche e cartarie. Si diffuse, oltre alla lana,
l'uso di fibre vegetali come la canapa e il lino, grazie anche alla nuova moda di vestire camicie e
sottovesti. Aumentò la domanda della seta e del vetro.
Nonostante i problemi quindi, sembrò che dopo la metà del Trecento la popolazione europea
tornasse a consumare e lo facesse in maniera più diversificata. Aumentò il volume dei commerci
soprattutto grazie al movimento delle merci "povere" (vini, alimenti, stoffe), che resero necessarie
navi più ampie e capienti, come la cocca. Vennero sviluppati strumenti per il commercio come la
partita doppia e la lettera di cambio.
Si fece strada un nuovo ceto imprenditoriale e capitalistico, che si imparentò con famiglie di antica
nobiltà feudale, rispolverando tradizioni nobiliari in grande pompa.
Con questi dati alcuni storici hanno modificato la valutazione complessiva dell'età fra Tre e
Quattrocento, sostenendo che il brusco calo demografico riequilibrò il rapporto tra risorse e
individui, portando un miglioramento complessivo. A sostegno di questa ipotesi ci sarebbe anche il
grande sviluppo artistico dell'Umanesimo e del Rinascimento. Altri, come Roberto Sabatino Lopez,
hanno sostenuto invece che l'impossibilità di reinvestire i capitali durante un'epoca di depressione
portò a "tesaurizzarli" nelle opere d'arte, finanziando cicli pittorici e opere monumentali.
La crisi dell’impero
L’emancipazione dei grandi principati tedeschi divenne un dato irreversibile dopo la morte
dell’ultimo Hohenstaufen, Corrado IV (1250-54), durante il Grande Interregno (1254-73): un
periodo di forte instabilità istituzionale, segnato da una serie di violente lotte di successione.
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L’elezione di Rodolfo d’Asburgo (1273-91) pose fine alla crisi e diede inizio a una fase più
propriamente “tedesca” della vicenda imperiale, caratterizzata dalla rinuncia a una sistematica
politica italiana e, soprattutto, dal prevalere delle ragioni dei più potenti casati germanici: i
Wittelsbach di Baviera, i Wettin di Sassonia, gli Asburgo d’Austria, gli Ascani e gli Hohenzollern
di Brandeburgo. I successori di Rodolfo, Adolfo di Nassau (1291-96) e Alberto I d’Austria (12961308), e quindi i membri della dinastia di Lussemburgo, che rimasero al potere dal 1308 fino al
1437, continuarono a concentrare i propri interessi nell’Europa centrale. In conseguenza di ciò, per
quasi due secoli, e cioè fino all’elezione di Alberto II d’Asburgo (1438), la dignità regia e quella
imperiale furono in ragione diretta dei rapporti di forza esistenti all’interno del mondo tedesco.
Questa situazione fu formalizzata alla dieta di Rhens (1338), che associò automaticamente la corona
regia e quella imperiale senza il ricorso all’investitura papale; e con la Bolla d’Oro, emanata da
Carlo IV nel 1356 e rimasta in vigore fino al 1806, che affidava la prerogativa dell’elezione
imperiale a sette grandi Elettori, tre ecclesiastici e quattro laici, col proposito di mantenere la
dignità imperiale nell’ambito delle grandi dinastie feudali.
Ridotto essenzialmente all’area tedesca, l’Impero era frammentato in più di 400 piccoli Stati: città
con regime repubblicano, città imperiali, principati laici oppure ecclesiastici.
Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313)
Enrico venne coinvolto nella politica del Sacro Romano Impero con l'assassinio di re Alberto I del
1º maggio 1308. Quasi immediatamente, il re Filippo il Bello di Francia cominciò a cercare
ostinatamente sostegno per suo fratello, Carlo di Valois, nella elezione a futuro re dei Romani.
Convinto di avere l'appoggio del papa francese Clemente V, il suo progetto di portare l'impero
nell'orbita della casa reale francese sembrava favorevole, e cominciò a diffondere generosamente
denaro francese nella speranza di corrompere gli elettori tedeschi. Anche se Carlo di Valois aveva
l'appoggio di Enrico II, arcivescovo di Colonia, sostenitore francese, molti non erano desiderosi di
vedere una espansione del potere francese, e meno di tutti Clemente V. Il principale rivale di Carlo
sembrava essere Rodolfo, conte palatino di Baviera. Considerate le sue origini, sebbene fosse un
vassallo di Filippo il Bello, Enrico non era vincolato da legami nazionali, e questo era un aspetto
della sua idoneità come candidato di compromesso tra gli elettori. Il fratello di Enrico, Baldovino,
arcivescovo di Treviri, conquistò un certo numero di elettori, tra cui Enrico di Colonia, in cambio di
alcune concessioni sostanziali. Di conseguenza Enrico fu eletto con sei voti a Francoforte il 27
novembre 1308 e successivamente fu incoronato ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309.
Nel luglio 1309, papa Clemente V, dalla sua nuova sede in Avignone, confermò l'elezione di
Enrico. Enrico in cambio, giurò protezione al Papa, e accettò di difendere i diritti della Santa sede,
di non attaccare i privilegi delle città dello Stato Pontificio e di andare in crociata, una volta
incoronato imperatore. Il 15 agosto 1309, Enrico VII annunciò la sua intenzione di recarsi a Roma.
Ma Enrico, appena incoronato re, ebbe problemi locali da affrontare prima di poter ottenere la
corona imperiale. Per garantire il successo della sua spedizione italiana, Enrico entrò in trattative
con Roberto, re di Napoli a metà del 1310, con la intento di sposare sua figlia, Beatrice, al figlio di
Roberto, Carlo, Duca di Calabria: si sperava così di ridurre in Italia le tensioni che contrapponevano
gli anti-imperiali Guelfi, che guardavano al Re di Napoli per la leadership, e i pro-imperiali
ghibellini. I negoziati, però, furono interrotti a causa di eccessive richieste monetarie di Roberto e
per l'interferenza del re di Francia, Filippo, che non gradiva una tale alleanza.
La discesa in Italia
Mentre questi negoziati erano in corso, Enrico iniziò la sua discesa nel nord Italia nel mese di
ottobre 1310. Decenni di guerra e di lotte avevano visto in Italia la nascita di decine di città-stato
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indipendenti, ognuna nominalmente guelfa o ghibellina, sostenuta dalla nobiltà urbana a sostegno di
un sovrano potente (come Milano), o dalle emergenti classi mercantili incorporate in uno stato
repubblicano (come Firenze). All'inizio non dimostrò alcun favoritismo per nessuna delle parti,
sperando che la sua magnanimità sarebbe stata ricambiata da entrambe le fazioni; tuttavia, insistette
sul fatto che i governanti attuali di tutta le città-stato italiane avevano usurpato i loro poteri, che le
città dovevano tornare sotto il controllo immediato dell'Impero, e che gli esuli dovevano essere
richiamati. Infine costrinse le città a rispettare le sue richieste. Anche se Enrico ricompensò la loro
sottomissione con titoli e feudi, questo atteggiamento causò una forte risentimento che crebbe nel
corso del tempo. Questa era la situazione che il re dovette affrontare quando arrivò a Torino nel
novembre del 1310, alla testa di 5.000 soldati, di cui 500 cavalieri.
Dopo un breve soggiorno ad Asti, dove intervenne negli affari politici della città con grande
costernazione dei guelfi italiani, Enrico procedette verso Milano, dove fu incoronato re d'Italia con
la Corona Ferrea il 6 gennaio 1311.
I Guelfi toscani si rifiutarono di partecipare alla cerimonia e così ebbe inizio la preparazione
all'opposizione ai sogni imperiali di Enrico. Come parte del suo programma di riabilitazione
politica, Enrico richiamò dall'esilio i Visconti, i governanti estromessi da Milano. Guido della
Torre, che aveva cacciato i Visconti da Milano, si oppose e organizzò contro l'imperatore una
rivolta che fu spietatamente repressa, mentre i Visconti riacquistavano il potere e Matteo
Visconti veniva nominato vicario imperiale di Milano, e suo cognato, Amedeo di Savoia,
vicario generale in Lombardia. Queste misure, oltre a un prelievo di massa imposto alle città
italiane, portò le città guelfe a rivoltarsi contro Enrico e determinò un'ulteriore resistenza quando il
sovrano cercò di far valere i diritti imperiali su quelle che erano diventate terre comunali e provò a
sostituire i regolamenti comunali con le leggi imperiali. Tuttavia, Enrico riuscì a ripristinare una
parvenza di potere imperiale in alcune parti del nord Italia, in città come Parma, Lodi, Verona e
Padova.
Allo stesso tempo ogni resistenza dei comuni del nord Italia veniva soppressa senza pietà. La prima
città a subire l'ira di Enrico fu Cremona, dove la famiglia Torriani e i loro sostenitori si erano
rifugiati: cadde il 26 aprile 1311 e le mura della città furono rase al suolo.
Enrico poi impiegò quattro mesi di tempo nell'estate 1311 nell'assedio di Brescia, che gli fece
ritardare il suo viaggio a Roma. L'opinione pubblica cominciò a rivoltarsi contro Enrico; la stessa
Firenze si alleò con le comunità guelfe di Lucca, Siena e Bologna e si impegnò in una guerra di
propaganda contro il re. Papa Clemente V, sotto la pressione crescente da re Filippo di Francia,
cominciò a prendere le distanze da Enrico e ad abbracciare la causa dei guelfi italiani che si erano
rivolti al papato per ottenere sostegno.
Nonostante la peste e le diserzioni, Enrico riuscì a ottenere la resa di Brescia nel settembre 1311,
poi passò per Pavia prima di arrivare a Genova, dove di nuovo cercò di mediare tra le fazioni in
lotta all'interno della città. Durante il suo soggiorno nella città, sua moglie Margherita di Brabante
morì.
Re Roberto di Napoli aveva deciso di opporsi al consolidamento del potere imperiale nella penisola
italiana e aveva ripreso la sua tradizionale posizione di capo della parte guelfa, che vedeva schierate
Firenze, Lucca, Siena e Perugia. Enrico provò ad intimidire Roberto ordinandogli di presenziare alla
sua incoronazione imperiale e di giurare fedeltà per i suoi feudi imperiali in Piemonte e Provenza.
Mentre gran parte della Lombardia era in aperta ribellione contro Enrico, con rivolte tra il dicembre
1311 e il gennaio 1312, in Romagna il re Roberto rafforzava la sua posizione. Tuttavia, i sostenitori
imperiali riuscivano a occupare Vicenza e ricevevano un'ambasciata da Venezia, che offriva
l'amicizia della loro città. Dopo aver trascorso due mesi a Genova, il sovrano continuò in nave verso
Pisa, dove fu ricevuto con entusiasmo dagli abitanti, ghibellini e nemici tradizionali di Firenze. Qui
ancora una volta iniziò a negoziare con Roberto di Napoli, prima di decidere di entrare in
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un'alleanza con Federico III di Sicilia, per rafforzare la sua posizione e mettere pressione sul re
angioino. Poi lasciò Pisa per andare a Roma per essere incoronato imperatore, ma Clemente V non
aveva intenzione di incoronarlo in quella sede.
La guerra contro Firenze e Napoli
Enrico si avvicinò alle mura di Roma, mentre la città era in uno stato di confusione: la famiglia
Orsini aveva abbracciato la causa di Roberto di Napoli, mentre i Colonna erano schierati con gli
imperiali.
Il 7 maggio, le truppe tedesche si fecero strada attraverso il Ponte Milvio ed entrarono in Roma, ma
fu impossibile scacciare le truppe angioine dalla roccaforte del Vaticano. La famiglia Colonna
controllava stabilmente la zona attorno alla basilica di San Giovanni in Laterano, Santa Maria
Maggiore ed il Colosseo; Enrico fu costretto a celebrare la sua incoronazione il 29 giugno 1312
presso il Laterano. La cerimonia fu effettuata da tre cardinali ghibellini. Ma il caos nella città di
Roma costrinse Enrico ad allontanarsi e, seguendo il consiglio dei ghibellini toscani, si recò ad
Arezzo. Qui, nel settembre 1312, emise una sentenza contro Roberto di Napoli, in quanto vassallo
ribelle, mentre da Carpentras, vicino ad Avignone, Clemente V non era disposto a sostenere
pienamente l'imperatore. Ma prima che Enrico potesse organizzarsi per attaccare Roberto di Napoli,
dovette avere a che fare con i fiorentini. A metà settembre, si avvicinò molto rapidamente alla città
toscana: era ovvio che la milizia della città e la cavalleria guelfa non potevano competere con
l'esercito imperiale in una battaglia aperta. Siena, Bologna, Lucca e altre città inviarono uomini per
aiutare nella difesa delle mura. Così ebbe inizio l'assedio di Firenze: l'imperatore disponeva di circa
15.000 fanti e 2.000 cavalieri, contro 64.000 difensori. Firenze fu in grado di mantenere aperta ogni
porta, tranne quella che dalla parte dell'imperatore assediante, e mantenne tutte le sue rotte
commerciali funzionanti. Per sei settimane Enrico batté le mura di Firenze e alla fine fu costretto ad
abbandonare l'assedio.
Nel marzo del 1313, l'imperatore tornò nella sua roccaforte di Pisa, Mentre indugiava a Pisa, in
attesa di rinforzi provenienti dalla Germania, attaccò Lucca, un nemico tradizionale di Pisa. Dopo
aver ottenuto più denaro che poteva da Pisa (circa 2 milioni di fiorini), Enrico iniziò la sua
campagna contro Roberto di Napoli l'8 agosto 1313.
Il suo primo obiettivo fu la città guelfa di Siena, che cinse d'assedio, ma nel giro di una settimana fu
colpito dalla malaria. Morì venerdì 24 agosto 1313 e le speranze per un effettivo potere imperiale in
Italia, morirono con lui.
L'eredità
Alla morte di Enrico VII, e per i decenni successivi, la figura centrale nella politica italiana sarebbe
stata proprio Roberto di Napoli. Nell'Impero, il figlio di Enrico, Giovanni il Cieco, fu eletto re di
Boemia nel 1310. Dopo la morte di Enrico VII, due rivali, Ludovico Wittelsbach di Baviera e
Federico il Bello della Casa d'Asburgo, rivendicarono la corona. La loro disputa culminò il 28
settembre 1322 nella battaglia di Mühldorf, dove Federico fu sconfitto. L'eredità di Enrico risulta
particolarmente evidente nelle carriere di successo di due fra i signori locali che egli fece vicari
imperiali in città del nord, Cangrande I della Scala di Verona (il fondatore della dinastia scaligera
e che il capo dei ghibellini italiani) e Matteo Visconti di Milano (che prima di consolidare il suo
potere era già stato eletto nel 1287 capitano del popolo di Milano).
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Ludovico il Bavaro (1282-1347)
L'espansione della casa Wittelsbach
Ludovico era figlio del duca dell'Alta Baviera Ludovico II (il Severo) e di Matilde d'Asburgo. Nel
1301 divenne Duca reggente di Baviera, assieme al fratello Rodolfo. È un principe tedesco che
incute rispetto già nel 1310, quando costringe il fratello a dividere il ducato (si riconcilieranno nel
1313), e sconfigge il proprio cugino Federico il Bello d'Asburgo nella battaglia di Gammelsdorf.
Nel 1324 Ludovico sposa a Colonia Margherita d'Olanda, contessa di Hainaut e Olanda, ampliando
l'influenza dei Wittelsbach. Nel 1340 eredita anche la bassa Baviera e pone suo figlio Ludovico a
capo della marca del Brandeburgo. Nel 1345 eredita, attraverso la moglie Margherita, Olanda,
Zelanda e Hainaut. La potenza dei Wittelsbach è ora davvero notevole. Monaco di Baviera diventa
una splendida capitale.
La marcia su Roma
Dopo la morte, improvvisa, di Enrico VII nel 1313, la maggioranza dei principi elettori scelse
l'imperatore Ludovico, il primo Wittelsbach ad assurgere a tale dignità. Il 28 settembre 1322. Nella
battaglia di Muhldorf sconfisse Federico I d'Asburgo, che era stato eletto da un altro gruppo di
principi elettori, rafforzando così la propria posizione nell'impero.
Ludovico tentò però, inutilmente, di ottenere il riconoscimento dell'elezione da parte di Papa
Giovanni XXII, che non voleva prendere partito nella lotta tra le due fazioni. Ludovico ignorò la
pretesa della Curia romana di esaminare il diritto di Ludovico alla corona: Ludovico, non senza
ragioni, riteneva che l'esame da parte del papato non fosse super partes. Di fronte all'atteggiamento
di Ludovico, papa Giovanni interdisse l'imperatore. Da allora Ludovico venne chiamato,
dispregiativamente, il Bavaro. Fu l'inizio di una lotta che accompagnò Ludovico per tutta la vita.
D'accordo con diversi esponenti ghibellini, nel 1327 scese in Italia. Molte città ghibelline accolsero
fra grandi acclamazioni l'Imperatore, che seguito dalle sue truppe e dai suoi cortigiani, vescovi e
cardinali, imponeva tributi ed esigeva omaggio dai principi, conti e vescovi feudatari dell'Impero.
Durante una dieta di rappresentanti delle maggiori città italiane, fu dichiarato il Pontefice romano
eretico ed indegno, e presa la corona di ferro a Milano assumendo la carica di re d’Italia dalle mani
di Guido Tarlati, scomunicato vescovo di Arezzo, avanzò in Toscana e infine giunse a Roma nel
1328.
Ludovico ricevette la corona imperiale in San Pietro per mano di Giacomo Sciarra Colonna,
capitano del popolo romano. Tre mesi più tardi Ludovico pubblicò un decreto, il "Jacque de
Cahors", dichiarando papa Giovanni XXII deposto con l'accusa di eresia. Nominò allora il
francescano spirituale, Pietro Rainalducci come antipapa Niccolò V, deposto dopo che Ludovico
lasciò Roma gli ultimi mesi del 1328 in direzione di Pisa, dove la morte di Castruccio Castracani
poteva portare la caduta della città nelle mani di Firenze. La deposizione di papa Giovanni XXII e
l'elevazione al soglio di Pietro di Nicolò rese la situazione ancor più incandescente. In questo modo
Ludovico negava il diritto del papa all'approvazione, e contemporaneamente rompeva con la
tradizione medievale che voleva fosse il papa ad incoronare gli imperatori. Lo scontro tra Ludovico
e il papa diventava inevitabile.
Imperatore
L'Imperatore riprese il suo viaggio per tornare in Baviera, dopo aver fatto una sosta prima a
Viterbo, dove fu raggiunto dall'antipapa Niccolò V, successivamente a Grosseto, tentando invano di
espugnare la città, e infine a Pisa per aiutare la città sua alleata di fronte alla minaccia fiorentina.
Il 28 aprile 1330, giunto in Baviera, l'Imperatore fondò la Abbazia di Ettal.
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Nel dibattito che seguì si schierarono con Ludovico Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham,
che sostennero la preminenza dell'Impero sul Papato dal punto di vista teorico. I principi elettori, da
parte loro, confermarono che un re da loro eletto non necessitava di approvazione da parte del papa.
Ma a quel punto non era più possibile un accordo. Inoltre il re di Francia Filippo VI sabotava
qualsiasi tentativo di avvicinamento tra il papa e Ludovico. Ludovico si era messo in una situazione
senza vie d'uscita e, nonostante si alleasse con Edoardo III d'Inghilterra, la situazione creava
nell'impero sempre maggiore scontento.
Nel 1346, con l'appoggio del papato e della corte di Francia, Carlo IV di Lussemburgo (1316-1378)
venne eletto anti-imperatore. La morte di Ludovico, a Puch, evitò la battaglia decisiva tra i due
imperatori, nella quale Ludovico forse sarebbe stato in vantaggio.
Marsìlio da Padova ( Padova, 1275 /1280 - Monaco di Baviera, 1342).
Politico e teologo figlio di Bonmatteo dei Mainardini, notaio dell'università di Padova. Svolse studi
di medicina a Padova, in un ambiente dominato dalla figura di Pietro d'Abano, conseguendo il
dottorato. Recatosi a Parigi, si iscrisse alla facoltà delle Arti divenendone maestro e in seguito
rettore (1313). Qui scrisse l'opera sua maggiore, il Defensor pacis (1324), e strinse rapporti con i
maestri averroisti, in particolare con Giovanni di Jandun. Venne altresì in contatto con la dottrina
della povertà evangelica sostenuta dagli Spirituali francescani, alcuni dei quali, come Guglielmo di
Occam (m. 1247), Michele da Cesena (m.1342), Bonagrazia da Bergamo (m. 1340), trovarono
rifugio alla corte dell'imperatore Ludovico, dove, dopo la condanna pontificia del Defensor pacis,
anch'egli riparerà. Nella sua opera Marsilio intende svolgere un'analisi razionale della natura del
potere politico, considerando non le varie forme di governo (come Aristotele nella Politica), ma le
strutture stesse dell'organizzazione politica, il legislatore, la legge, il governo. La "totalità dei
cittadini" (universitas civium) è la fonte unica della legge (legislator); il governo è l'espressione
della totalità dei cittadini che lo elegge e ne controlla gli atti. Il governo quindi non è fonte di
diritto, ma è sottoposto alla collettività. La legge, peraltro, non trae la sua forza da un principio
naturale o divino, ma esclusivamente dalla volontà dei cittadini o nella loro totalità, dai sapienti agli
artigiani, o nella "parte più valente" (valentior pars), lasciando fuori chi per natura è incapace di
deliberare. In questa prospettiva, certamente originale, la legge trae valore dal suo essere tale, legge
positiva, espressione di una volontà collettiva, imposta per il "bene vivere" della collettività. Il
corpo politico è autonomo nell'imporre la legge, nettamente distinto dalla Chiesa, collettività dei
fedeli che non può esercitare alcun potere positivo, (contro la tesi canonistica della "pienezza dei
poteri" del pontefice), né può possedere beni terreni (secondo quanto insegnavano i maestri
francescani vicini a Marsilio). La Chiesa è la "totalità dei fedeli" (universitas fidelium) e ad essa
spettano il controllo sull'autorità ecclesiastica, l'elezione dei sacerdoti e del papa (attraverso il
concilio cui anche i laici devono prendere parte). Così radicalmente distinti, Chiesa e Stato sono
autonomi nelle loro sfere: alla Chiesa spetta il compito di ammaestrare, ma non di scomunicare; allo
Stato o Impero quello di esercitare il potere politico nella persona dell'imperatore; all'imperatore
compete anche il supremo controllo sulla conformità degli atti papali alle decisioni conciliari e alla
fede. Di queste sue teorie Marsilio tentò anche una pratica realizzazione allorché, sceso in Italia al
seguito di Ludovico il Bavaro nel 1327, organizzò la cerimonia dell'11 gennaio 1328 in cui
l'imperatore ricevette le insegne del potere dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo
romano; e ancora quando ispirò i documenti imperiali che dichiaravano deposto Giovanni XXII e
nominavano l'antipapa Niccolò V. Tornato in Germania, Marsilio compose anche il De iurisdictione
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Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it, da www.oilprojectorg, da www.dizionaripiu.zanichelli.it e da altre fonti - sono a
cura del Prof. Sergio Bergami. XV Lezione: la prima metà del XIV secolo
imperatoris in causis matrimonialibus, poi rifuso nel Defensor minor (1342), e il De traslatione
imperii.
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